Addio a Lou Reed, poeta maudit del rock
di ANTONELLA BELLIFEMINE
Se n’è andato a 71 anni, per complicazioni in seguito a un trapianto di fegato al quale Lou Reed
si era sottoposto nel maggio scorso.
Se n’è andato lasciandoci tutti nell’incredulità, nello smarrimento di chi è convinto che certe
leggende del rock non possano mai morire.
È come mettere la parola “fine” ad una parte di storia contemporanea, una storia che inizia con
un’adolescenza difficile negli anni ‘50, segnata da una terapia di elettroshock. Aveva confidato
al padre, un contabile ebreo, di essere bisessuale. Un’esperienza che lo segnerà
profondamente e che racconterà apertamente solo negli anni ’90.
La salvezza però arriva con la musica, il rock and roll e il rhythm and blues, i primi lavori in radio
e come compositore, la scuola di giornalismo e scrittura creativa, fino a quel mitico ’66, l’anno
del primo disco della band cult del rock, i Velvet Underground, band nata dall’incontro con il
polistrumentista John Cale, a cui si unì Nico, cantante e modella tedesca molto vicina a Andy
Warhol.
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Addio a Lou Reed, poeta maudit del rock
Sono gli anni incredibili della Factory, di quella New York in pieno fermento culturale eppure
così spietata, la città dei ricchissimi e dei poverissimi, quella New York che mischiava cultura di
massa e controcultura, dando nuova linfa alla scena underground che si stava formando.
Lou Reed racconta la sua New York, piccole storie di vite distorte, sempre ai margini, in un giro
infernale tra prostituzione, vagabondaggio, alcol ed eroina. Difficile sopravvivere a quella New
York bigotta e perbenista con un sostrato giovanile pronto ad esplodere.
La musica “nera” di Lou Reed, autore di quasi tutte le canzoni dei Velvet, è come una macchina
fotografica che mette a fuoco i particolari, diventa ossessiva e ripetitiva, come i quadri con le
ripetizioni seriali di Warhol, la voce di Lou è indolente, racconta quello che la società non vuole
sentire. È una musica considerata immorale e scabrosa che si nutre della letteratura
underground dell’epoca. Quella copertina con l’immagine di una banana gialla poi, disegnata
dallo stesso Warhol, doveva sembrare un vero insulto.
Il disco vendette pochissimo, “solo 30 mila copie”, dichiarò una volta Brian Eno, “ma tutti quelli
che ne hanno comprato una copia hanno poi formato una band”.
Sarà l’amico David Bowie a salvarlo dall’oblio, producendogli il suo primo album da solista nel
‘72, “Transformer”,un altro pezzo di storia. Il disco della consacrazione con brani
intramontabili,“Walk On The Wild Side”, “Perfect Day”, “Satellite Of Love”.
Il successivo “Berlin”, tormentato e oscuro, è un concept album che parla di droga, depressione,
suicidio. Ma la follia arriva con “Metal Machine Music” nel ’75. Un album fatto solo di feedback
di chitarra e rumori, l’inizio del noise contro la sua etichetta discografica, la Rca, che pretendeva
un album commerciale.
Dopo anni opachi e produzioni poco interessanti negli anni ’80, arriva “New York”, l’album della
rinascita, ironico e crudele e nel ’92 “Magic and Loss” incentrato sul tempo che passa e sulla
morte.
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Addio a Lou Reed, poeta maudit del rock
“Ecstasy” il disco più importante degli anni 2000 fino alla collaborazione di due anni fa con i
Metallica.
Oggi Lou Reed si congeda dalla sua New York e NY ha perso un pezzo importante della sua
storia, un pezzo che ha contribuito a creare e a plasmare il suo immaginario e il suo mito. Resta
il ricordo di quel carattere ruvido e scorbutico, di quell’uomo che ha vissuto mille vite tra salite
vertiginose e discese profonde, del suo stare sempre dalla “parte selvaggia” della vita, cantando
la morte con una tragica consapevolezza, rivestendola di quell’alone di culto che ha influenzato
tutto il rock a seguire.
“I miei dischi si possono leggere come il Grande Racconto Americano, ogni album un capitolo,
in ordine cronologico”, raccontava Lou Reed qualche anno fa. Ma adesso siamo ai titoli di coda.
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