CAMERA PENALE VENEZIANA
“ANTONIO POGNICI”
Seminario di Studio
“LA LEGGE EX CIRIELLI”
Venerdì 3 febbraio 2006
ore 15.00
Centro Servizi della Provincia di Venezia
Via Forte Marghera, 191 – Venezia – Mestre
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AVV. ANTONIO FRANCHINI
Buonasera a tutti. Sono particolarmente lieto di vedere tantissimi colleghi, la
cosa ci fa particolarmente piacere. Il seminario che la Camera Penale ha
organizzato per oggi riguarda una legge estremamente complessa, estremamente
discussa e forse non esattamente valutata nel periodo della sua approvazione in
relazione alla parte di essa che riguarda la recidiva e le ricadute della recidiva
sulla Legge Gozzini, nel senso che dico - purtroppo - l’attenzione
massmediatica, ma anche quella credo degli addetti ai lavori, parlo naturalmente
degli Avvocati, non dei docenti universitari, che forse si erano accorti subito del
tragico passo indietro che questa legge ci faceva compiere in relazione
all’istituto della recidivanza, abbiamo posto l’attenzione più sulla parte relativa
alla prescrizione dei reati e assai meno si sono sentite voci critiche, se non
nell’imminenza dell’approvazione, in relazione alla parte della legge che
riguarda la recidiva e che di fatto ricostituisce nel nostro ordinamento un doppio
binario in relazione al tipo d’autore. Allora questa legge, oltre ad una serie di
problematiche tecniche assai rilevanti, pone anche una serie di problemi di
natura interpretativa per cui la Camera Penale ha ritenuto di organizzare questo
incontro chiamando a trattarlo il prof. Melchionda dell’Università di Trento, che
tratterà gli aspetti di natura sostanziale, il prof. Pavarini dell’Università di
Bologna, in relazione ai profili dell’esecuzione e del diritto penitenziario, e,
posso dirlo, il nostro amico prof. Giuseppe Frigo, che tratterà la parte di natura
processuale penale. Io debbo porgere un particolare ringraziamento ai
componenti della Commissione Studio della Camera Penale Veneziana, perché
in tempi ristrettissimi sono riusciti a organizzare l’incontro di oggi con
sacrificio personale e molto impegno e hanno prodotto anche una relazione
scritta della Commissione di studio della Camera Penale Veneziana che è stata
distribuita all’ingresso. Peraltro sarà necessaria una seconda edizione, come si
usa per i libri di grande successo, perché le centoventi copie non sono bastate,
sono andate bruciate, e quindi provvederemo in modo che possa essere
distribuita a chiunque ne abbia interesse.
Un ringraziamento, dicevo, all’Avvocato Elio Zaffalon, che è il Presidente della
Commissione Studio della Camera Penale Veneziana, all’Avvocato Paola
Bosio, all’Avvocato Marino De Franceschi e all’Avvocato Alessandro
Rampinelli, un grazie di cuore.
La Camera Penale Veneziana, attraverso la sua Commissione Studio, ha già in
progetto prossimamente un incontro simile a questo sulla legge che regolamenta
in maniera assolutamente rivoluzionaria per il nostro ordinamento l’istituto
dell’appello e sulla legge recentissimamente approvata dal Parlamento sulla
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legittima difesa. Vi terremo naturalmente informati delle date di questi
successivi incontri.
Il mio saluto rituale è a questo punto terminato. Passo la parola all’Avvocato
Elio Zaffalon, Presidente della Commissione Studio, per la sua introduzione al
tema.
AVV. ELIO ZAFFALON
Alcune comunicazioni di servizio: la prima è che chiedo scusa per
l’intollerabilità della voce che mi affligge in questi giorni, vi tocca sopportarla.
Un’altra comunicazione: abbiamo dovuto eliminare il coffee break, che
avremmo avuto piacere di offrire, ma la novella è talmente sovraccarica di
profili, sostanziale, penitenziaria e processuale, che la mezz’ora del coffee break
ci avrebbe creato dei gravi problemi per la chiusura della sala in tempo ed
inoltre anche in considerazione che avremmo piacere che ci fosse un adeguato
dibattito dopo le relazioni.
Vengo rapidamente a quella che vuole essere solo una introduzione
schematicissima su uno o due punti principali della novella, perché si tratta di
un’introduzione e voglio contenerla in dieci minuti.
Il profilo giuridico penalistico fondante della novella mi pare sia quello della
figura del recidivo reiterato. È un profilo che, leggendo la legge, si fonda,
sottende un po’ a tutte le normative, sia quelle sulla prescrizione, che sulla
misura della pena, che quello dei benefici penitenziari.
Questa legge è partita da una reazione, magari comprensibile, contro una certa
prassi di permissivismo che è una degenerazione della clemenza, perché tutti
sappiamo che le attenuanti generiche nella prassi costituivano o costituiscono
una specie di diritto, e questo ovviamente, in una valutazione equilibrata della
lievità o della gravità dei reati, non può essere apprezzato positivamente. Ma, a
fronte di questa situazione, il legislatore ha reagito con quella che mi sembra
una grossolanità imperdonabile, adottando una parificazione irragionevole fra la
reiterazione di piccoli reati e la reiterazione, invece, di fatti illeciti di grave
allarme sociale. Io volevo farvi degli esempi, ma in questi giorni c’è arrivato un
profluvio di provvedimenti a favore o contro la legge di cui ci occupiamo,
quindi mi viene comodo sottoporvi questa recente ordinanza del Tribunale di
Ravenna 12 gennaio 2006 emessa in tema di bilanciamento delle circostanze. Vi
racconto rapidamente di cosa si tratta, perché è con la casistica che si tocca con
mano dove si va a finire, bisogna portare i discorsi allo stremo per capire dove
sta il vizio di questa normativa. In questo caso un tale aveva aiutato l’autore di
una estorsione, veniva minacciata una donna di far vedere una videocassetta
compromettente al marito, e questo concorrente interviene con due telefonate,
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dice l’ordinanza, consigliando “di versare il danaro richiesto” e poi compare “e
per l’interessamento della vicenda percepisce duecento euro”. Dice il Giudice
del Tribunale di Ravenna: questo è concorso in estorsione, ma si tratta di un
concorso molto modesto, io vorrei dargli l’attenuante della minima
partecipazione, Art. 114. E questa attenuante vorrei dichiararla prevalente sulla
aggravante, perché – dice – non mi sento di dare 5 anni a un soggetto che ha
tenuto questo comportamento. 5 anni perché? Se non c’è la prevalenza delle
attenuanti voi sapete che il minimo della pena per l’estorsione sono 5 anni, in
questo caso si trattava di un recidivo. Quindi il Giudice ritiene la norma che
impedisce il riconoscimento di una prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti,
ma obbliga a concedere al massimo l’equivalenza, individua una violazione
dell’Art. 3 e dell’Art. 27 della Costituzione sotto il profilo rispettivamente della
irragionevolezza e della violazione del principio della funzione rieducativa della
pena. Nel provvedimento fa anche un esempio, la fattispecie è quella che vi
dicevo prima: il Giudice per sottolineare i profili di illegittimità che vi dicevo fa
anche un esempio, cioè cita l’ipotesi di un imputato già recidivo in quanto abbia
subito prima una condanna per ingiurie e poi una condanna per minacce, quindi
il terzo reato, siamo nella recidiva reiterata, poi fa l’ipotesi che questa persona
ceda una dose di eroina, quindi siamo nel reato di stupefacenti con il fatto lieve.
Siccome l’attenuante del fatto lieve, a fronte di un recidivo reiterato, non può
mai pervenire alla prevalenza, ma soltanto all’equivalenza con le aggravanti,
siamo nella necessità di infliggere a questa persona una pena di 8 anni di
reclusione e venticinquemila euro di multa e, dice il Giudice di Ravenna, è una
pena assolutamente inaccettabile che confligge con i principi che abbiamo
citato. Ho voluto farvi questa citazione per capire dove si va a finire e per capire
perché mai un altro amico della Camera Penale, il prof. Tullio Padovani, nel suo
scritto recentemente uscito a commento della legge arriva a dire - aggiungerei
da maledetto toscano - che “siamo in un diritto penale d’autore a sfondo
sintomatico presuntivo e vorrà dire che per meglio orientarci”, dice Padovani,
“rispolvereremo gli scritti di Frank e di Gurtner, volonterosi giuristi al servizio
del fuhrer”. Ma perché si parla di diritto penale d’autore? L’aveva accennato
prima già il Presidente Avvocato Franchini: a me sembra sia chiaro che quando
si vuole sottolineare eccessivamente, cioè dare eccessivo rilievo, esagerato
rilievo, al profilo soggettivo della reiterazione del recidivo reiterato, sminuendo
al massimo invece il rilievo del fatto penalistico, quindi quando si confonde la
figura della persona con il fatto da questa commesso in quanto, secondo questa
novella, non si fa differenza fra il recidivo reiterato, come si diceva prima, per
gravi fatti di allarme sociale, e, invece, il recidivo reiterato per piccoli episodi di
illeciti penali come potevano essere nella citazione fatta prima l’ingiuria o la
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minaccia; vuol dire che praticamente il fatto sparisce e il rilievo prevalente o
quasi prevalente è quello dato alla persona. Quindi si continua su un binario
della riemersione di questo diritto penale d’autore di cui, ahimè, abbiamo già
parecchi esempi e probabilmente questi esempi continueranno.
Che cosa sono gli Artt. 51, 3 bis, 407 comma 2 lettera a) della procedura penale,
che tutti noi conosciamo anche troppo bene, cioè quegli articoli che introducono
un doppio binario nel processo penale? Noi avevamo imparato che il diritto
penale sostanziale è il diritto dei delinquenti e che il diritto processuale penale è
il diritto degli innocenti, perché fino a che non c’è la condanna questi sono
persone innocenti. Come mai si è potuto introdurre un processo diverso solo per
il fatto che ci sono determinate recidive o determinate tipologie di reati? Questo
è un diritto penale processuale d’autore e adesso, tanto per fare l’ultimo
esempio, la recentissima legge sugli stupefacenti rinnova questa tendenza,
perché mi dovete spiegare a che titolo la legge Cirielli appena approvata viene
riformata e modificata e la recidiva reiterata del tossicodipendente deve venire
valutata diversamente rispetto alla recidiva reiterata di altro autore di reato.
Questa è una legislazione di un doppio binario che se continua su questa strada
penso che alla fine porterà a delle distorsioni ancora più gravi, perché entra
nella cultura giuridica e questo a me non sembra accettabile.
Il secondo profilo - e ho finito - è un profilo modesto, di politica giudiziaria ed è
quello a cui accennava l’Avvocato Franchini. Nell’ansia di denunciare quella
che è stata ritenuta una legge ad personam, magari ansia giustificata, posso dire
personalmente, ma è un altro discorso, ci si è dimenticati di quali erano poi gli
effetti di questa legge su tutto l’impatto pratico giudiziario, ci si è dimenticati
che nelle celle i detenuti sono in nove su una stanza di nove metri quadrati e che
c’è una crisi straordinaria delle carceri, mentre contemporaneamente si
stringono i cordoni delle pene alternative e dei benefici penitenziari. Il Ministro
risponde: “Mettiamo subito in cantiere nuove carceri”, che però non è una gran
risposta, ma comunque richiedono dei tempi queste cose, non è che le carceri
sorgono come funghi. Soprattutto mi sento di denunciare la consueta
schizofrenia di alcune forze politiche, cioè alcune forze politiche che hanno
approvato la legge ex Cirielli nell’ottica di dire che bisogna reprimere la
criminalità, dare sicurezza ai cittadini, punire in maniera particolarmente
gravosa il recidivo reiterato, alcune di quelle stesse forze il giorno dopo
propongono l’amnistia, cioè preferiscono la scelta di una generale scarcerazione
indiscriminata di persone, in ipotesi anche pericolose, rispetto ad una oculata
scelta del Tribunale di Sorveglianza di chi abbia diritto o non abbia diritto ad
uscire dal carcere in quanto ci siano i requisiti previsti dalla legge di buona
condotta, resipiscenza e via dicendo.
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Io credo che gli Avvocati possano fare qualche cosa su questo: intanto possono
vedere dove si possono proporre delle questioni di illegittimità costituzionale;
non è accettabile appunto, come si diceva prima, che chi ha commesso nel giro
di sessant’anni tre piccoli furti uno ogni vent’anni e come tale sia recidivo
reiterato possa avere lo stesso trattamento di chi invece questa reiterazione l’ha
commessa per reati di grave allarme sociale; e poi ci sono delle possibilità di
interpretazione adeguatrice. La Camera Penale con la relazione dei tre colleghi
citati prima dall’Avvocato Franchini, Rampinelli, Bosio e De Franceschi, ha
tentato di introdurre su qualche profilo, almeno quello più irrazionale, delle
interpretazioni adeguatici nel senso di tentare di adeguare la norma ad una
interpretazione piuttosto che ad un’altra, quella che sia più conforme ai principi
costituzionali. Questo nostro compito spero che gli Avvocati si sforzino di
affrontarlo. Vi ringrazio.
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Prima di dare la parola al prof. Melchionda per la prima relazione, desidero
ringraziare il signor Procuratore Generale, che prima non ho visto, ma che
adesso ho visto, per essere qui con noi, dottor Ennio Fortuna. Poi volevo anche
comunicare alle persone presenti che il 31 di gennaio in Vicenza è stata
ricostituita l’Unione Veneta delle Camere Penali, è stato firmato lo statuto ed è
stato eletto il primo Presidente, che durerà in carica un anno, e che è l’Avvocato
Lino Roetta della Camera Penale di Vicenza, Presidente della Camera Penale di
Vicenza, che è qui con noi, che saluto e che salutiamo con un bell’applauso.
Il primo atto dell’Unione Veneta delle Camere Penali è stato quello di fondare
la prima scuola distrettuale per Avvocati penalisti, cosiddetta di secondo livello,
che inizierà a marzo in Venezia ed è la prima scuola distrettuale in Italia.
Segretario dell’Unione è stato nominato l’Avvocato Ugo Simonetti, socio della
Camera Penale Veneziana, al quale va un ringraziamento e un applauso.
Do ora la parola al prof. Alessandro Melchionda, professore straordinario di
Diritto Penale nell’Università di Trento, che ci parlerà dei profili di diritto
penale sostanziale della legge cosiddetta Cirielli.
PROF. ALESSANDRO MELCHIONDA
Grazie, innanzitutto. Grazie per questo invito veramente molto gentile da parte
della Camera Penale Veneziana. Il mio accento forse tradisce il fatto che
essendo io docente a Trento però sono Avvocato in Bologna e allora non posso
non salutare a mia volta il Procuratore Fortuna, la mia città lo ricorda come uno
splendido, importantissimo ed autorevole Procuratore della Repubblica e non
possiamo non salutarlo ancora.
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Ce n’è tanta di carne al fuoco, non è un compito facile. Chiunque di voi,
chiunque di noi, abbia – e l’abbiamo già fatto - letto questa legge, poche norme,
non quei duecento commi, poche norme e pochi commi, a prima volta tutto
chiaro, tutto semplice, già c’è uno scenario abbastanza chiaro. Ma leggendo
attentamente, ascoltando le diverse campane, le interpretazioni, il quadro si
complica molto. Confesso che ogni volta che rileggo, ogni volta che leggo altri
commenti, scopro cose nuove, scopro cose che si erano nascoste, scopro cose
molto preoccupanti. Quindi questo andremo a trattare.
È già stato giustamente ricordato: tramite i mass-media questa legge, questo
all’epoca disegno di legge, è stato venduto, contestato, valutato soprattutto in
ragione del profilo della prescrizione. Vero fino ad un certo punto. Il centro, il
perno sistematico di questa nuova legge è sicuramente nell’istituto della
recidiva, è nell’istituto della recidiva che noi troviamo tutte le interrelazioni che
modificano il sistema, è alla recidiva, alla riforma della recidiva che mirava
quell’originario disegno di legge presentato dall’onorevole Cirielli, che solo in
seguito ha visto aggiungersi qualche norma in materia di prescrizione. È
certamente dalla recidiva, come in parte già emerso, ma anche se non solo la
recidiva, che emergono i principali problemi, non dell’immediato, ma dei
prossimi mesi. Attraverso questa disciplina globale, nuova della recidiva, il
legislatore certamente ha dato un segnale politico criminale, ha creato un nuovo
disegno politico criminale ed è un disegno che - ma sarà chiaro meglio alla fine
di questo incontro, ma sarà chiaro già anche a chi ha iniziato la lettura attenta di
queste norme - dal mio punto di vista non può che qualificarsi come miope,
irrazionale e schizofrenico. È miope perché l’obiettivo dichiarato di quel
disegno di legge era dare certezza alla pena, e non si può dare certezza alla pena
senza tener conto poi di quelle che sono le reali, attuali capacità del nostro
sistema di rendere efficace, certa, quella pena. È irrazionale, e questo sarà un
problema anche di legittimità costituzionale che dovremo trattare, perché
introduce dei meccanismi di aggravamento della pena, e non solo della pena,
che sono, a ben vedere, privi di reale fondamento, non fosse altro perché sono
presunti (iuris e de iure). È schizofrenica perché chiunque abbia conoscenza di
quello che è stato il trend normativo - e qui l’autorevole presenza del prof.
Pavarini sicuramente ce ne potrà dare atto - della più recente disciplina
penitenziaria della esecuzione della pena, qui veramente la schizofrenia è totale,
qui siamo verso una direzione completamente opposta di quella verso la quale
stava andando da tempo il legislatore.
Cerco comunque, e lo prometto, di evitare considerazioni generali. Cercherò di
fare una relazione, un intervento molto tecnico, perché credo che sia soprattutto
questo che oggi preme approfondire da parte anche di chi è presente e di chi
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quotidianamente deve valutare, giudicare se applicare o no quella norma.
Cercherò di essere il più tecnico possibile scusandomi se in questo potrò essere
complesso, ma credo sia questo il taglio che deve essere adottato. Non perché,
ripeto, non la voglia trattare, sgombro subito il campo dalla prescrizione, perché
qualche cosa devo dire anche della prescrizione, perché certamente la
prescrizione è parte importante di questa legge, dopo di che passerò
esclusivamente all’analisi della recidiva.
Prescrizione, nuova disciplina generale della prescrizione. Riscritta in che
misura? Ovviamente cercherò di trattare solo alcuni aspetti di tipo sostanziale,
perché molti sicuramente saranno ripresi più approfonditamente ed
autorevolmente di me dal prof. Frigo. È stata disegnata la nuova disciplina, che
troviamo tutta nell’Art. 6 della legge 251/2005, che riscrive l’Art. 157 del
Codice Penale, dicevo, è stata introdotta una nuova disciplina con due obiettivi:
dare certezza ai termini di prescrizione, stabilire tempi di prescrizione più
contenuti, più ristretti, uso un aggettivo non a caso: più ragionevoli. Sono
obiettivi che in parte sono stati sicuramente raggiunti, ma non credo totalmente
raggiunti, perché, se è vero che stabilire termini più ristretti porta a ridurre
ovviamente la durata del processo, non è però vero che questa ristrettezza dei
termini sia stata applicata in modo uniforme, ci sono casi in cui la prescrizione
diventa un qualche cosa di inesistente, e poi perché la durata ragionevole del
processo non si ottiene solo riducendo i termini e senza tener conto di
caratteristiche dei singoli reati. Comunque il perno della riforma sta
sostanzialmente in un dato noto: non ci sono più classi di pena, diversificazioni
di termini di prescrizione in ragione della pena edittale massima, ma si
stabilisce un principio molto semplice: la durata del termine di prescrizione
coincide con il massimo edittale, fermo restando quella soglia minima dei 6
anni, sotto la quale comunque non si può andare.
Si voleva eliminare la discrezionalità, l’incertezza e chiunque ha un minimo di
esperienza sa che l’incertezza della prescrizione era soprattutto legata a che
cosa? Al possibile effetto di circostanze che nel gioco del bilanciamento
trasportavano, tipico caso quello dei reati con pena fino ai 5 anni, da 15 anni a 7
anni e mezzo. Esempi troppo banali per essere ricordati, ma che ricordano
chiaramente qual era il problema. Basta con le circostanze, nuova regola, nuova
disciplina, delle circostanze non si tiene più conto, se non solo di quelle
aggravanti ad effetto speciale. Vado a volo pindarico sugli aspetti essenziali,
che credo saranno già noti comunque.
Modificato il regime in materia di reato continuato. Oggi il termine per il reato
continuato, il termine di decorrenza della prescrizione non decorre più dalla
cessazione della continuazione, ma dal tempus commissi delicti, nuovo Art.
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158. Attenzione, questo è un passaggio importante, non sarà significativo, ma di
fatto oggi viene meno quasi, forse, l’unico aspetto sfavorevole della
continuazione. Se fino a ieri ci preoccupavamo se nel capo d’imputazione non
vedevamo contestata la continuazione, oggi questa potrebbe essere
preoccupazione che viene meno, perché l’unico effetto sfavorevole che aveva
prima la continuazione era proprio quello del dilatare il calcolo della
prescrizione, oggi viene meno questo effetto.
Nuova disciplina della sospensione dei termini di prescrizione. Vado molto
veloce perché è impossibile trattare tutto, sarà poi il dibattito che potrà
eventualmente richiamare all’attenzione punti che avrò trascurato o che non
potranno essere trattati in seguito.
Cosa c’è di nuovo nella disciplina della sospensione della prescrizione?
Sostanzialmente un dato: il legislatore - non vi annoio ovviamente col richiamo
delle norme, richiamo gli istituti, le norme sono a voi note - ha di fatto recepito
e avallato quello che era un orientamento già pacifico in giurisprudenza: se
viene chiesto un rinvio per esigenze della Difesa svincolate da esigenze legate
ad acquisizioni probatorie o quant’altro, quel rinvio apre una parentesi che
comporta la sospensione della prescrizione. Oggi quella regola
giurisprudenziale viene fatta propria dal legislatore con una piccola differenza:
che la sospensione non potrà essere superiore ai due mesi, quindi qualunque
rinvio superiore ai sessanta giorni comporterà un riavvio del termine, che il
termine dal quale si dovrà calcolare il riavvio per il termine di prescrizione,
decorre dal momento in cui verrà a cessare l’impedimento. Già immagino
qualche problema, perché se l’impedimento del Difensore è legato ad una
contestuale udienza presso altra sede giudiziaria è facile capire quando cesserà
l’impedimento; ma se l’impedimento del Difensore è determinato da un
certificato medico che attesta una certa patologia, quid iuris, non so come verrà
risolto questo aspetto.
Nuova disciplina anche dell’interruzione, nuovo Art. 160 e 161. Qui già
cominciamo a cogliere gli echi di quegli effetti della recidiva. Regime drastico,
aumento fino ad un quarto come aumento massimo in caso di interruzione, ma
con termini diversificati nei confronti di recidivi aggravati, recidivi reiterati,
delinquenti abituali presunti – centodue presunti, lo sottolineo perché poi lo
riprenderemo – delinquenti professionali presunti. Per i primi la metà, poi due
terzi, il doppio per gli abituali. Deroga per tutti i reati di cui al 51 bis, per i quali
la prescrizione diventa un qualche cosa che non ha più nessuna valenza
sostanziale né processuale.
Quali gli effetti di questo nuovo regime? Chi diligentemente ha provato ad
applicare queste nuove regole ha elaborato ovviamente, come è dato intuire, tre
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possibili situazioni e io stesso non posso non fare riferimento ai miei schemini,
perché se c’è una cosa che è insostenibile è imparare a memoria queste cose.
Prima categoria di reati, quelli nei quali rimane tutto come prima: è la tipica
situazione dei reati puniti con sanzioni inferiori ai 5 anni, qualche cosa cambia
in realtà, perché cambia se si verifica o no un effetto interruttivo. Nell’insieme
diciamo che da 5 anni con aumento massimo della metà a 7 anni e mezzo, da 6
anni con aumento massimo ad un quarto si va sempre a 7 anni e mezzo.
Seconda categoria: categoria dei reati per i quali l’effetto della prescrizione
diventa più lungo, più sfavorevole, e non sono pochi, e non sono pochi e
bisogna fare attenzione a questi, perché sul piano transitorio - lo vedremo - ci
sono problemi per questi reati. Tutte le contravvenzioni, tutti i reati puniti con
pena edittale massima tra i 15 e i 24 anni, tutti i reati del 51 bis, tutti i reati dei
recidivi, senza poi trascurare quelle famose ipotesi del 449, delitti colposi, e
589, l’omicidio aggravato, rispetto ai quali sapremo forse un giorno dalla Corte
Costituzionale se è legittima questa disparità di termini prescrizionali tra alcuni
casi di omicidio colposo aggravato, non tutti i casi di omicidio colposo aggravo,
e i casi assurdi per cui – è una battuta ovviamente – si prescrive prima
l’incendio doloso dell’incendio colposo, come a dire: se in un procedimento per
incendio colposo si raggiunge il termine massimo della prescrizione meglio
confessare: l’ho fatto volontariamente, il reato è già prescritto. Sono le assurdità
che nessuno potrà mai applicare, ma che servono per fare capire come questa
legge, nel calcolare e nel differenziare i termini di pena, forse il quadro globale
di coerenza non l’ha conservato.
Molti reati, sì, ce ne sono sicuramente anche con termine prescrizionale più
breve, pena tra i cinque, i sei anni e i dieci: la categoria degli otto anni come
pena edittale massima è sicuramente la categoria dei reati per i quali il termine
prescrizionale più evidentemente si accorcia: corruzione, violenza, minaccia,
calunnia, truffa aggravata, bancarotta, inutile fare un elenco. Certo, il quadro
quindi si modifica.
C’è un altro problema: i reati del Giudice di Pace.
Il nuovo 157 prevede un comma nel quale si stabilisce che quando per il reato la
legge stabilisce pene diverse da quella detentiva o da quella pecuniaria il
termine di prescrizione è di tre anni.
Esistono reati che prevedono sanzioni penali diverse da quella detentiva o da
quella pecuniaria? Formalmente non credo esistano, salvo non pensare a quei
reati che sono oggi di competenza del Giudice di Pace, per i quali c’è però già
una regola di conversione, che consente pacificamente di trovare le coordinate
tra sanzioni principali e sanzioni applicabili dal Giudice di Pace.
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I lavori preparatori dico subito che non aiutano, non consentono di capire che
cosa si era pensato con questo comma, perché se questo comma lo consideriamo
davvero riferibile a tutti i reati del Giudice di Pace arriviamo a delle
sperequazioni di trattamento assolutamente inaccettabili. L’altra alternativa è
quella di considerarlo un comma inutile. Questo parrebbe, dai primi commenti,
l’orientamento preferibile, certo fa stupore che una nuova legge introduca un
nuovo comma che non serve assolutamente a nulla, salvo in una futura riforma
del Codice Penale, quando si potranno prevedere nuove sanzioni penali. Questo
il quadro generale della prescrizione.
Problemi del transitorio. Due aspetti molto delicati: Art. 10, norma transitoria,
secondo comma: se si prevedono termini più lunghi, quindi effetti sfavorevoli
della nuova disciplina, questi effetti sfavorevoli non si applicano, ma solo a quei
reati per i quali già sia in corso il processo. Questo vuol dire che se il fatto è
stato commesso prima dell’8 dicembre, ma per quel fatto non si è ancora iscritta
a registro generale la notitia criminis, quel fatto si vedrà applicare i termini più
lunghi previsti dalla nuova disciplina. È una sostanziale retroattività degli effetti
più sfavorevoli della nuova prescrizione. È legittimo costituzionalmente?
Difficile dare una risposta certa. Se ragioniamo nella logica della prescrizione
come istituto di natura sostanziale non potremmo che giungere alla conclusione
di dire: il 25 secondo comma della Costituzione preclude questo effetto
retroattivo. Ma non posso negare che ci sono voci autorevoli, in dottrina
soprattutto, che riconoscono, anzi, prima ancora che arrivasse sull’orizzonte la
Legge Cirielli si era auspicato un aumento dei termini di prescrizione, cito
Marinucci per primo, per evitare il destino di tanti processi destinati a questo
risultato, riconoscendo che in fondo la prescrizione può essere modificata in
corso d’opera se non è già maturata, cioè a dire se un reato si è già prescritto
non si può riaprire il termine e prolungarlo, ma se un reato non è ancora
prescritto si può allungare il termine. È compatibile col 25 secondo comma?
Qualche perplessità mi sento di spenderla.
Terzo comma. E se è più favorevole il termine? Pochi, tanti, non mi interessa,
casi, se è più favorevole, è noto, il problema è legato a quel terzo comma che
non ha salvato chi forse doveva essere salvato, al di là della polemica politica, il
limite dichiarazione di apertura del dibattimento. I nuovi termini più favorevoli
non si applicano in tutti i procedimenti per i quali si sia già addivenuti alla
dichiarazione di apertura del dibattimento. Noti i problemi, quid iuris per
l’abbreviato, ma non solo. È legittima questa linea di demarcazione? Le prime
questioni di legittimità costituzionale, quelle che sono state già sollevate, vado a
memoria, Tribunale di Perugia sezione di Gubbio, Tribunale di Paola sezione di
Scalea, hanno messo in discussione la legittimità costituzionale di questa norma
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sotto il profilo dell’Art. 25 secondo comma, invocando un principio
costituzionale di retroattività della norma più favorevole. Come dire: se il
legislatore introduce una norma più favorevole non può vietarne l’applicazione
retroattiva. La Corte Costituzionale non l’ha mai riconosciuto questo principio,
non l’ha riconosciuto neppure quando ha salvato in difficoltà quel vecchio Art.
20 della legge n. 4 del ‘29 che in materia di reati finanziari stabiliva il principio
della fissità sostanzialmente, si applica il principio del tempus regit actum. Sì, il
discorso lo lasciamo al dibattito, se ragioniamo anche con le recenti prese di
posizioni della Corte di Giustizia in materia di falso in bilancio qualche cosa si
potrebbe dire anche da questo punto di vista, ma non credo sia questo lo
spiraglio che possa dare uno spazio alla valutazione della consulta. Più delicato
è il problema della ragionevolezza, più delicato è il problema del principio di
eguaglianza, più delicato è il problema stabilire se è vero che non c’è l’obbligo
di far retroagire la norma più favorevole, è però ragionevole assumere quel
termine dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimen tra chi può
usufruire del termine più breve e chi invece no? Già su questo sono state
sollevate alcune eccezioni, una, devo dire, molto ben motivata da un GUP di
Bologna. Ci sono precedenti non favorevoli ad immaginare una pronuncia di
illegittimità costituzionale. Recentemente condono fiscale: il condono fiscale
con effetti estintivi del reato non si poteva applicare nei confronti di chi già
avesse avuto notizia dell’esercizio dell’azione penale; eccepita di illegittimità
costituzionale questa disciplina ha superato il vaglio della Consulta. Ma ne
ricordo ancora un altro più significativo: un’altra volta il legislatore ha assunto
la dichiarazione di apertura del dibattimento come linea di demarcazione
quando, entrato in vigore il nuovo Codice di Procedura Penale, introdotto
l’istituto del regime del rito abbreviato, si doveva decidere: a chi si applica
questo nuovo rito abbreviato? Chi può usufruire di quella diminuzione secca di
un terzo della pena? Discrimen, dichiarazione di apertura del dibattimento.
Anche in quell’occasione la Corte salvò la norma, però va anche detto che in
quell’occasione - forse sarà più approfondito questo aspetto dal prof. Frigo - la
Corte ebbe validi argomenti per dimostrare che rispetto al rito abbreviato ha un
senso logico individuare le dichiarazioni di apertura del dibattimento come
limite della scelta, ma rispetto alla prescrizione? Perché dichiarazione di
apertura del dibattimento? Che cosa si concretizza nella scelta dello stato di
portare avanti la propria istanza punitiva con la dichiarazione di apertura del
dibattimento? Perché non allora la richiesta di rinvio a giudizio? Perché non
allora la iscrizione della notizia criminis? Perché non allora la sentenza di primo
grado? Questo è il punto.
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Recentemente, altra ordinanza, Tribunale di Salerno, ha eccepito anche questo
aspetto di illegittimità costituzionale. Già sappiamo, però, che la Corte di
Cassazione, con quella famosa ordinanza del 10 gennaio di quest’anno.. e io ho
qualche perplessità su questa possibilità di fronte a questioni che già pendono
davanti alla Corte Costituzionale è giusto dichiarare la manifesta infondatezza
di quella questione? Il Giudice di merito dichiara manifestamente infondata la
questione già sapendo che altri Giudici non l’hanno ritenuta manifestamente
infondata, certamente la Corte si dovrà pronunciare, non è forse meglio segnare
il passo? Si sospende la prescrizione quando si mandano gli atti alla Corte
Costituzionale, non succede nulla, aspettiamo di vedere come vanno le cose.
Recidiva. Totale ritorno al passato, totale ritorno a quel regime del 1930?
Questo era il disegno dell’onorevole Cirielli. Nel disegno di legge originario si
riscriveva l’Art. 99 esattamente com’era prima delle modifiche del 1974. Il
dibattito parlamentare ha portato alla luce una norma significativamente diversa
ma con delle complessità interpretative intrinseche veramente di difficile
soluzione. Novità del nuovo Art. 99, quello che è stato introdotto dall’Art. 4
della Cirielli. Prima modifica: in favor rei - questa è favorevole -, la recidiva
oggi opera solo nei confronti di delitti non colposi. Questa però è una
modificazione non priva di riflessi e non sono certo, dai lavori preparatori non
emerge, che chi ha scritto quella norma fosse davvero consapevole di quei
riflessi. Certamente non sono certo di poter affermare che quei riflessi erano la
voluntas legislatoris. Sparisce la recidiva nelle contravvenzioni, è ovvio, e
quindi spariscono anche tutte quelle preclusioni che possono essere legate alla
precedente recidiva. L’oblazione, tipico istituto valido solo per le
contravvenzioni, 162 bis, oblazione discrezionale, non è possibile concederla al
recidivo. Ma oggi cambia la situazione, oggi il recidivo che si vede precludere
l’oblazione non può più essere quello che in passato aveva sentenze di
condanna per contravvenzioni magari analoghe a quelle. Oggi l’unica recidiva
che può costituire una preclusione di questi istituti, oblazione, patteggiamento
ed altro, è solo la recidiva legata a precedenti delitti non colposi. È ragionevole
questa selezione? I primi commenti, Padovani ed altri l’hanno seriamente posto
in discussione, però questo diventa un problema di ragionevolezza della scelta
politico criminale che la Corte Costituzionale non potrebbe mai cambiare,
sarebbe una modificazione in peius. Prendiamo atto di questa scelta legislativa.
Veniamo agli altri aspetti, quelli sì molto più pesanti. In due aspetti il legislatore
ha modificato la recidiva, poteva farlo in tanti altri, poteva abbandonare il
carattere di perpetuità della recidiva, poteva eliminare il fatto che un reato di
venti, trent’anni fa continui a pesare. Non l’ha fatto. Poteva delimitare la
recidiva non alla cosiddetta recidiva generica, qualunque reato pesa per
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qualunque altro, poteva limitarlo a quelli che conosciamo, medesimedezza
d’indole, infraquinquennalità, non l’ha fatto. Ha mantenuto - e questo va
sottolineato - la recidiva come perpetua e come generica. Ma ha fatto di più: ha
tendenzialmente aumentato tutti gli effetti aggravanti, li ha innalzati in termini
quantitativi, ma - ed è questo l’aspetto più importante - in alcuni casi ha
reintrodotto quella recidiva obbligatoria che vigeva nel 1930 fino al 1974. Quali
casi di recidiva obbligatoria? È qui che si apre un orizzonte interpretativo che,
confesso, a prima lettura non mi sembrava così drammatico e che invece già
leggere da quello che leggo nei primi commenti, già leggere da quello che
leggo, ho visto nascere da alcuni orientamenti interpretativi di alcuni primi
giudizi di merito, offre un quadro davvero preoccupante.
Dico subito: tutto ciò che sto dicendo in tema di recidiva è il frutto poi di alcune
riflessioni che ho riportato in un commento alla nuova disciplina della recidiva
che uscirà nel prossimo numero della rivista Diritto Penale e Processo, quindi lì
ho in modo più approfondito sviluppato alcune considerazioni. Dico subito che
ritengo che il nuovo Art. 99 individui oggi un solo caso di recidiva obbligatoria:
il quinto comma. E dico questo per due ragioni: primo, anche se è un argomento
che pesa poco, è questo che emerge, pur in modo non chiarissimo, dall’analisi
dei lavori preparatori; durante il dibattito alla Camera, di fronte alle critiche a
quella tendenziale, globale reintroduzione della recidiva obbligatoria, fu
presentato un emendamento che mirava proprio a contenere i casi di
obbligatorietà solo a questa ipotesi di reati considerati più gravi, quelli del 407.
C’è un altro argomento invece che secondo me pesa molto di più, che è
l’argomento, dal mio punto di vista, ma so già che non è condiviso dai più, che
è l’argomento vincente, cioè l’analisi tecnico giuridico sistematica della norma.
Chi opini in modo differente.. lo stesso prof. Padovani, con il quale ad un
incontro a Firenze il giorno dell’astensione dalle udienze in convocazione
dell’Unione delle Camere Penali abbiamo avuto una contrapposizione di
opinioni, lui sostiene che sono obbligatori tutti i casi, anche se lui lo ammette
per il quarto comma e non per il terzo comma, mentre altri autori considerano
anche il terzo comma, sostanzialmente ci sono opinioni che ritengono che sia
obbligatoria la recidiva tutte le volte in cui l’Art. 99 usa l’indicativo: la pena è
aumentata. Seguendo questo criterio sarebbe obbligatorio la recidiva, il terzo
comma, quindi la recidiva pluriaggravata, sarebbe obbligatorio il quarto
comma, la recidiva reiterata, e sarebbe ovviamente obbligatorio, ma questo è
pacifico, il quinto comma. Perché non ritengo, al di là della voluntas
legislatoris, perché se la voluntas legislatoris non si traduce nel dato normativo
vale poco, se il legislatore non è in grado di far parlare le norme con quello che
vuole scriverci non vale niente quella voluntas, se si analizza tecnicamente –
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scusate questo aspetto di grande tecnicità ma secondo me è importante per
chiarire questo passaggio -, se si analizza l’Art. 99 ci si rende conto che oggi,
come in passato, è al primo comma che il legislatore stabilisce che cosa è la
recidiva. Si ha recidiva nel caso in cui un soggetto, dopo essere stato
condannato per un delitto non colposo, primo requisito, ne commette un altro,
secondo requisito, perché in questi casi può essere integrata la circostanza
aggravante della recidiva. Questa norma pone due problemi: la recidiva, come si
diceva in passato, è facoltativa e rimane facoltativa? Sì, rimane facoltativa, ma
rimane facoltativa nel senso che è discrezionale. La sentenza di condanna e il
nuovo delitto non generano la recidiva. La recidiva è legata ad una valutazione
discrezionale che il Giudice deve sviluppare e dire: bene, dati questi
presupposti, ci sono i presupposti per poter dire nella sostanza che c’è quella
maggior, non mi interessa colpevolezza, pericolosità, maggior gravità, che
giustifica il riconoscimento della recidiva? Questo è il problema di questa
riforma. Dal ‘74 ad oggi noi non abbiamo più discusso di recidiva, perché dal
’74 ad oggi la recidiva tanto la si bilanciava, se anche non è contestata ma chi
aveva problemi di recidiva? Tanto la si bilanciava. Oggi invece questa nuova
riforma ci obbliga a ritornare a ragionare su questi problemi e se in
giurisprudenza è piuttosto diffuso l’orientamento che vede la recidiva come un
qualche cosa di meramente dichiarativo: vedo il risultato del casellario
giudiziale, riconosco le due sentenze al nuovo reato, è una mera facoltatività,
libertà, mera indulgenza quella di dare o non dare l’aumento; così interpretata,
però, questa norma si presenta come fortemente viziata di illegittimità
costituzionale, perché sarebbe un caso di mero e proprio arbitrio, di mera
indulgenza svincolata da qualunque criterio. Mi si potrà dire: e quali criteri ci
sono? Qualche criterio nel sistema lo troviamo. La recidiva è un effetto penale
della condanna, una precedente condanna pesa sulla testa di chiunque, perché se
commetti un nuovo reato potresti essere dichiarato recidivo. Come si elimina
quell’effetto penale di condanna? Il nostro ordinamento prevede un istituto che
consente di cancellare quel peso, è la riabilitazione. E quando si può dichiarare
la riabilitazione? Lo dice il Codice: quando da quel giorno in poi il soggetto ha
tenuto una condotta che possa portare a ritenere che non c’è stato un
mantenimento di quell’atteggiamento tendenzialmente. Cioè una verifica
sostanziale. Quindi primo comma, recidiva discrezionale, ed è assolutamente
pacifico in qualunque commentario possiate andare a rinvenire; ma la recidiva è
facoltativa, e questa è la regola generale, scendono a catena gli altri commi.
Elemento specializzante: se il nuovo delitto è delitto della stessa indole, allora il
secondo comma dà le regole, modifica l’aumento di pena, ma lascia ferma la
facoltatività della recidiva. Se il nuovo delitto è commesso entro i 5 anni, nuovo
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elemento specializzante, la regola generale rimane quella base, l’aumento è
facoltativo, ma cambia la misura. Stessa cosa per il terzo comma, stessa cosa
per la reiterata: l’elemento di reiterazione è un elemento specializzante della
regola generale, la regola rimane ferma quella del primo comma, la recidiva
rimane discrezionale, se non proprio facoltativa, ciò che cambia è solo l’entità
dell’aumento. L’unico caso, e lo volevano dire, la voluntas legis qui coincide, è
il quinto comma: in questo caso l’aumento non solo è di tanto, ma è anche
obbligatorio. Attenzione, credo fortissimamente in questa interpretazione –
spiegherò anche alla fine perché - e dico subito che però mi giunge notizia di
qualche orientamento applicativo che addirittura differenzia e cioè lega questa
norma col giudizio di bilanciamento e distingue tra effetti della recidiva nel
caso in cui sia contestata e nei casi in cui sia non contestata.
Vediamo le altre norme perché forse il discorso può essere più chiaro trattando
le generiche e il bilanciamento. Quali altre modifiche in materia di recidiva?
Vado a cascata, perché sennò il tempo ormai stringe. Nuova disciplina Art. 62
bis: modificate le generiche, il progetto originario prevedeva molto più
semplicemente, più schiettamente no alle generiche per il recidivo aggravato; la
riforma introdotta dice: no ma solo se motivate in ragione di intensità del dolo o
capacità a delinquere. Vediamo gli aspetti favorevoli. Finalmente l’eventuale
motivazione sulla concessione delle generiche dovrà essere chiara ed esplicita e
potrà formare oggetto di ricorso in sede di legittimità, perché a questo punto
l’uso del potere discrezionale sotto il profilo della mancata concessione o della
concessione delle generiche diventa profilo sindacabile in sede di legittimità per
erronea applicazione della legge penale. Credo però che molto più
semplicemente non si concederanno le generiche ai recidivi reiterati per quei
reati del 407 con pena fino a cinque anni. Cambiato il giudizio di bilanciamento.
Nel progetto Cirielli molto più francamente e molto più schiettamente si diceva:
non si applica il bilanciamento alla recidiva. Si ritornava al vecchio regime del
74. Cioè: fate pure tutti i bilanciamenti che volete, ma la recidiva comunque la
si applica. Prima bilanciate tutte le altre circostanze, sono prevalenti le
aggravanti, sono prevalenti le attenuanti? Finito questo calcolo la recidiva si
applica sempre. Il vecchio codice Zanardelli lo prevedeva: la recidiva si applica
per ultima. Invece hanno modificato in modo ancora più complesso, si dice che
ferme le circostanze a persona colpevole, oggi ormai solo l’imputabilità, nei
casi di recidiva aggravata non è che il bilanciamento non si può più fare, non si
potrà mai raggiungere la prevalenza delle attenuanti, rimane fisso il giudizio di
equivalenza. Letta così al recidivo che non può usufruire delle generiche la
situazione si rende piuttosto oscura, perché se togliamo le generiche quali altre
circostanze consentono di bilanciare? Risarcimento del danno, è difficile trovare
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circostanze comuni che possano consentire il bilanciamento. Ma soprattutto
questa norma, che va interpretata così secondo me, è stata interpretata anche in
modo diverso, c’è chi dice: no, questo divieto di bilanciamento vale solo per le
circostanze ad effetto comune, attenuanti ad effetto comune, non vale ad
esempio per le circostanze attenuanti ad effetto speciale. Perché pongo questo
problema? Perché quella ordinanza richiamata prima del Tribunale di Ravenna
poneva questo dubbio: stupefacenti, diminuente del quinto comma ad effetto
speciale, se è un recidivo non la posso mai applicare. Risultato: arrivo a degli
effetti sanzionatori troppo poco proporzionati alla gravità del fatto, illegittima
costituzionalmente. So già che la Procura di Trento e parte della Magistratura di
Trento - lo dico perché due giorni fa stavo discutendo lì di questo - opini in
modo diverso, dice: no, il divieto di bilanciamento della recidiva si applica solo
alle circostanze ad effetto comune, perché la seconda parte della norma è
svincolata e quindi le circostanze attenuanti ad effetto speciale possono
applicarsi a prescindere dal bilanciamento. Io me n’ero accorto a prima lettura
di questa possibilità, è una lettura molto in favor rei, ma non mi sembra
coincidere con quella che era l’intenzione del legislatore e con quella che
potrebbe essere l’attenta lettura delle norme. Solo che - e qui è l’aspetto
drammatico - questi orientamenti interpretativi vedo che sostengono anche
questo e cioè che questo limite al bilanciamento non scatta solo quando il
Magistrato alla fine, in sede di commisurazione.. attenzione, tolta la
prescrizione, il bilanciamento quando più lo facciamo ormai in limine litis?
Ormai l’istituto del bilanciamento, l’Art. 69, si applica solo in sede di
commisurazione della pena; prima lo applicavamo per le eventuali richieste
anticipate di proscioglimento ai fini della prescrizione, oggi no, oggi va solo la
commisurazione della pena. Quindi se il Giudice alla fine del giudizio, pur in
presenza della precedente condanna, non ravvisa la sussistenza della recidiva e
quindi non ne applica l’aumento, recidiva facoltativa, anche se reiterata, la
recidiva continua ad impedire il bilanciamento? Ho sentito orientamenti di
autorevoli Magistrati che dicono: sì, se contestata, se non contestata la si può
applicare comunque rispetto alle generiche, etc. etc.
Allora credo che debba rimanere chiaro che la recidiva se non contestata, che
sia facoltativa che sia obbligatoria, non potrà mai essere applicata. Sezioni
Unite del ‘59, non so più neanche io, storia del diritto, cioè non è immaginabile
un effetto sfavorevole di qualunque genere collegato alla recidiva che non sia
preceduto da una contestazione anche nel capo d’imputazione.
AVV. FRANCHINI
Anche sostanziale o formale?
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PROF. ALESSANDRO MELCHIONDA
Questo è un altro paio di maniche, cioè basta dire recidiva o è necessario –
come forse dovrebbe essere necessario nei casi di discrezionalità - indicare in
che cosa si ravvisa il fondamento della recidiva? Attenzione, l’obiezione giusta
di molti Magistrati con i quali mi sono incontrato l’altro giorno è: come posso
io, per sapere se è stata applicata precedentemente la recidiva, è stata
riconosciuta, dovrei farmi portare la sentenza, vedere se è stata riconosciuta la
sentenza. Sì, però, attenzione, questi sono gli effetti di appesantimento del
nuova legge, se questa legge crea effetti di maggior difficoltà non è solo per
queste ragioni che possiamo prescindere. L’aggiornamento del casellario oggi
sarà essenziale, ma con questo po’ po’ di conseguenza rispetto alla recidiva
possiamo ancora immaginare dei casellari che non siano tempestivi, immediati,
per cui ad un certo soggetto quel po’ po’ di conseguenze solo perché ha il
certificato aggiornato e all’altro no?
Mi avvio alla conclusione. Nuova disciplina del reato continuato, qui lo evoco
solamente. Si prevede obbligatoriamente l’aumento di un terzo nel caso di
alcuni recidivi, credo si possa applicare sia a recidive applicate già riconosciute
in precedenti sentenze di condanna, sia allo stesso reato per il quale si giudica.
Diversità di effetti in materia di prescrizione già li ho ricordati, con l’effetto
evidente che a questo punto due concorrenti nello stesso reato avranno regimi
prescrizionali diversi. Il delinquente primario avrà un regime di prescrizione per
lo stesso fatto, per lo stesso reato, più breve del suo compare recidivo. Tanti gli
effetti negativi legati alla esecuzione della pena, non li accenno, li tratterà forse
con più competenza di me il prof. Pavarini.
Due notazioni finali: transitorio e legittimità costituzionale di tutto quello che
abbiamo visto. Credo si possa essere tutti concordi nell’affermare che tutti gli
effetti aggravanti sulla pena, legati alla nuova disciplina della recidiva possono
trovare applicazione solo nei confronti di reati commessi dopo l’8 dicembre. Se
applichiamo i nuovi aumenti di pena o l’obbligatorietà dei nuovi aumenti di
pena anche ai reati commessi prima dell’8 dicembre, ci troviamo di fronte ad
una chiara situazione di retroattività della norma penale più sfavorevole. E sul
piano esecutivo? Se vengono oggi in esecuzione sentenze di condanna
precedenti all’8 dicembre, rispetto alle quali però l’effetto recidiva potrebbe
portare a quei limiti di sospensione, etc., giurisprudenza piuttosto diffusa
riconosce a queste norme sull’esecuzione una natura prettamente processuale,
tempus regit actum, se cambia il regime esecutivo si applica nel momento.
Credo - e in questo concordo con quanto già sostenuto anche da Padovani - che
non sia così. L’afflittività della pena, cioè il concetto di pena che sta nel 25
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secondo comma è legato alla sua afflittività e la pena non è afflittiva nello
stesso modo se la posso scontare in carcere o se la posso scontare a casa, se
posso avere un permesso o se non ho quel permesso, se è più grave o meno
grave. Cioè credo che il concetto di pena in relazione al quale viene stabilito il
divieto di retroattività della norma sfavorevole non possa non essere svincolato
anche degli effetti più sfavorevoli legati all’esecuzione della pena. Quindi, così
opinando, mi sembra di poter affermare che anche sul piano esecutivo - e so già
di vari Tribunali di Sorveglianza orientati in questo senso - questi nuovi effetti
più sfavorevoli possono trovare applicazione solo per sentenze di condanna,
quelle che fondano la recidiva, pronunciate dopo l’8 dicembre.
È legittimo costituzionalmente tutta questa disciplina? Non credo sicuramente
sia legittima laddove si ipotizzano effetti aggravanti, obbligatori e fissi nei
confronti del recidivo. Cioè, in questi casi siamo davvero di fronte ad un vero e
proprio ritorno al diritto penale d’autore: sei recidivo e quindi, a prescindere dal
fatto che verifico se quella recidivanza ha un significato, che io verifichi cosa
hai fatto in questi anni, che quel reato precedente commesso è di trent’anni
prima, a prescindere da tutto quello che vuoi - perché un reato di trent’anni fa
seguito da un reato del 407 obbligatoria.. - allora di fronte a questo ritorno a
presunzioni soggettive d’autore, così come di fronte a un ritorno a quegli
automatismi in materia di prescrizione, ma perché nei confronti del recidivo
dev’essere più ragionevole un processo che dura più a lungo? La ragionevolezza
della durata del processo è in funzione della complessità del reato, non di
condizioni soggettive. Quindi di fronte a questi aspetti credo che i margini di
una illegittimità costituzionale ci siano sicuramente. Credo però anche che
bisogna essere cauti, cioè non partiamo con la certezza di pronunce di
illegittimità costituzionale; la Corte sarà sicuramente, doverosamente cauta,
soprattutto in materia di prescrizione, dal giungere a pronunce di illegittimità
costituzionale. È per questa ragione che ritengo ancor più doveroso quel
tentativo di operare una lettura il più in favor rei possibile, ma non in favor rei
perché io mi sia innamorato del recidivo. Sia chiaro, il problema della
criminalità è sotto gli occhi di tutti, ma non credo che quella criminalità si possa
combattere o prevenire solo mettendo degli aumenti obbligatori, fissi e
automatici legati a presunzioni di maggior pericolosità o colpevolezza. Credo
che la scelta di optare per interpretazioni più in favor, cioè più volte a contenere
gli effetti aggravanti e penalizzanti di questa legge siano un obbligo di coerenza
nel rispetto dei principi costituzionali. Vi ringrazio per l’attenzione.
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AVV. ANTONIO FRANCHINI
Ringrazio il prof. Melchionda per la bellissima e interessantissima relazione. Io
mi auguro che la Corte Costituzionale stronchi al più presto questo binario
diretto verso il tipo d’autore, perché sennò temo che presto cominceremo di
nuovo a guardare le fattezze dell’imputato, tornando alle teorie lombrosiane di
infausta memori. Ma vediamo adesso quali sono gli effetti di questa legge sotto
il profilo dell’esecuzione penale.
Do la parola al prof. Massimo Pavarini, professore ordinario di Diritto
Penitenziario all’Università di Bologna per la sua relazione.
PROF. MASSIMO PAVARINI
Grazie per l’invito. Per non perdere tempo entriamo subito all’analisi del testo.
Di solito a chi coltiva saperi intorno all’esecuzione - quindi, per quanto mi
concerne, forse ancor più che penitenzialista mi definirei un penologo - alla fine
gli si chiede una cosa sola, cioè, l’ex Cirielli produce un terremoto, d’accordo,
ma qual è l’entità di questo terremoto? Quali gli effetti, le ricadute pratiche su
una situazione, quella penitenziaria, che è già drammatica? Infatti quasi tutti si
sono un po’ prestati a questo macabro lotto dando i numeri: aumenti di
diecimila detenuti come effetto immediato, di quindicimila; financo alcuni
hanno parlato di ventimila detenuti annui in più, dove quel più vuol dire
sommato ad una crescita, che è ormai costante negli ultimi quattro anni, di
seimila detenuti in più ogni anno.
Credo sia un esercizio, questo, di carattere divinatorio in un Paese come l’Italia
dove praticamente non esiste una buona statistica. Quindi non credo che
neppure il Ministero o il Ministro in persona, tanto meno al DAP, al
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, oggi sappiano quanti sono i
recidivi e quanti sono, ad esempio, i recidivi reiterati. Non si sa, si può
presumere. Quindi è difficile evidentemente avventurarsi in proiezioni, nel
tempo, degli effetti delle ricadute.
La mia relazione consta fondamentalmente in due parti: una, che cercherò un
po’ di contenere, anche perché non presenta dal punto di vista tecnico gli stessi
problemi sollevati nella parte sostanzialistica affrontata dal collega Melchionda,
che riguarda una lettura descrittiva delle norme più specificatamente legate alla
fase esecutiva. Dopo di che farò alcune riflessioni di natura più teorica e critica
sui profili, sul volto di una esecuzione penale penitenziaria dopo l’ex Cirielli, un
volto diverso, fortemente capace di stravolgere il volto cui eravamo abituati
leggendola prima della presente legge. Nonostante questo vedrete che io stesso
non mi sottrarrò, per quanto ob torto collo, al gioco temerario di dare i numeri,
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cercando sulle diverse disposizioni di fare anche proiezioni su quelli che
possono essere gli effetti.
Partiamo dall’Art. 9 della legge in commento, che temo sia quella che più mi fa
temere sul piano di un’eventuale ricaduta nei processi di ricarcerizzazione.
Sapete che l’Art. 9 esclude dalla sospensione dell’esecuzione ex Art. 656
Codice di Procedura Penale - ovviamente mi riferisco al 656 novellato dalla
Saracini Simeoni, perché non avrebbe senso - oltre i condannati per i delitti di
cui all’Art. 4 bis, e questo era evidente, anche i condannati a pene o residuo di
pene inferiori ai tre anni - a questo punto rimaniamo solo sui tre anni, perché
per i quattro che riguardavano i tossico o alcoldipendenti vale la correzione del
Decreto Legge 272/05 che ha chiuso la partita - ai quali appunto sia stata
applicata la recidiva ex Art. 99 quarto comma. Ovviamente, questo è pacifico,
questa disciplina dovrà poi essere accordata coi principi da tempo avanzati, poi
accolti dalla giurisprudenza, in tema di scioglimento del cumulo delle pene.
A questo punto qualche problema presenta la questione se il divieto di
sospensione dell’esecuzione debba riguardare la sola condanna aggravata della
recidiva ovvero si applica al condannato, alla persona del condannato,
ovviamente recidivo, anche nel caso di altra o diversa condanna. La questione è
delicata nel suo riflesso pratico, e di tutta evidenza. Io personalmente sono in
parte confortato in ciò dall’interpretazione offerta da molti altri colleghi in
questi giorni, che il divieto debba valere solo nei confronti dell’esecuzione della
condanna aggravata dalla recidiva. Convincono le ragioni addotte, che in buona
parte riguardano la formulazione letterale del disposto e anche la sua
collocazione sistematica. Però, va detto, se questo è vero, meno, certo, la ratio
del legislatore, di questo legislatore, che mi sembra si sia invece orientato
politicamente nel senso della tolleranza zero e che quindi abbia sposato fino in
fondo, come punti di riferimento, le tipologie d’autore e di questo cercherò di
spiegarmi più avanti, perché è il punto più delicato della questione. Però, su
questo primo livello interpretativo mi sentirei di accogliere la posizione che
restringe gli effetti della disposizione stessa.
Perché temo tanto questa modifica del 656? Lo pavento, paradossalmente,
perché questa disposizione finisce per sanare una situazione patologica, che
come spesso molto malattie, produce anche effetti virtuosi, e questa
disposizione la sana. Voi sapete meglio di me che la sospensione del decreto di
esecuzione - per quel mese necessario al fine poi di presentarlo al Tribunale di
sorveglianza competente dallo stato di libertà, affinché venga poi formulata una
istanza di misure alternative, che è prevalentemente l’affidamento, sia ordinario
che speciale - ha determinato, nei fatti, per l’impossibilità della giurisdizione di
sorveglianza di far fronte a un carico smisurato di istanze, quella situazione
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anomala di un limbo, vera – come metafora - sala d’aspetto di fronte alle porte
della legge di kafkiana memoria, in attesa di una esecuzione permanentemente
sospesa, non per quattro persone, per un universo sociale oggi di settantamila
condannati definitivi. Noi abbiamo oggi in Italia settantamila condannati
definitivi - a cui non si possono evidentemente applicare i due gradi della
sospensione condizionale e tanto meno gli si possono applicare la detenzione
domiciliare come terzo grado della sospensione infrabiennale, definitivi -, che
hanno fatto nei tempi dovuti istanza al Tribunale di sorveglianza al 99% per un
affidamento che potrebbe poi essere convertito con criteri di supplenza con una
semilibertà suppletiva, che attendono che il Tribunale decida. Con ogni
probabilità statisticamente sappiamo che le istanze dello stato di libertà rivolte
al Tribunale vengono accolte mediamente al cinquanta per cento mentre
vengono accolte al trenta per cento quelle rivolte allo stato detentivo. Quindi se
domani per miracolo – ma un miracolo che fortunatamente per loro non si
determina - il Tribunale funzionasse, questi cinquanta per cento finirebbero in
carcere e quindi avremmo un trentacinquemila persone chiamate a varcare le
soglie della prigione. Si è creato quell’effetto patologico per cui si è creato un
tappo, i Tribunali di sorveglianza non riescono a sciogliere l’arretrato, solo
alcuni si sono mossi nella logica di scioglierlo, comunque a tutt’oggi i dati
ministeriali danno settantamila persone a esecuzioni di pena sospesa. Effetto
certamente patologico, che però aveva determinato una situazione virtuosa, per
lo meno aveva risparmiato a settantamila persone di varcare le porte della
galera.
Cosa succede ora con questa modifica della disposizione? Chi sono questi
settantamila? Cerchiamo di rappresentarli. Questi settantamila definitivi a
condanna a una pena detentiva ovviamente inferiore ad anni tre, perché sennò
non potrebbero fare istanza, o ad anni quattro, ma oggi non ci interessa più, in
quanto tossico o alcoldipendenti, rappresentano quello che sociologicamente si
chiama “detenzione sociale”, se appunto in carcere fossero finiti. Se questo è
vero, e chi ha esperienza di galera può assicurare che questo è vero, cioè sono
costoro, allora posso fare un’argomentazione, che ha un carattere ovviamente
astratto come tutte le argomentazioni, però che a me un po’ convince. Se ed in
quanto condannati a pene detentive tendenzialmente brevi, ma non coperte dalla
sospensione condizionale, posso immaginare che la maggioranza abbia di
quest’ultimo già beneficiato uno o due volte; ergo, a quanti di questa sarà stata
contestata la recidiva? Questo è il punto. Lo ignoro, lo ignoriamo, non ci sono
dati. Ma probabilmente ad una percentuale ragguardevole di questa utenza.
Bene, noi abbiamo un dato soltanto, scientifico, un po’ vecchiotto, che andrebbe
rivisitato, perché risale ad una ricerca empirica fatta alcuni anni addietro,
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comunque un dato sicuro: aveva stimato la percentuale di reingressi in carcere
sull’ordine del trenta per cento dell’intera popolazione in esecuzione di pena.
Reingresso in carcere è cosa ben diversa, ovviamente, dalla recidiva, sono
molto meno i reingressi in carcere delle recidive contestate, appunto perché c’è
l’effetto inevitabile delle sospensioni condizionali. È quindi da supporre che tra
i definitivi che potevano beneficiare della sospensione dell’esecuzione prima
del 251 la percentuale dei recidivi sia sensibilmente superiore. Da qui
un’associazione come Antigone lo stima sull’ordine del 45%. Quindi sarebbero
il 45% i recidivi reiterati ad esecuzione penale sospesa. Se così fosse, e con tutta
la prudenza del condizionale, solo per effetto della disposizione che fa divieto
per i recidivi reiterati della sospensione, dovremmo stimare nei prossimi tre o
quattro anni un ingresso in carcere dallo stato di libertà di circa diecimila
condannati in più all’anno, solo per effetto di questa disposizione. Certo, questi
diecimila in più che finiranno in carcere potranno sempre fare dal carcere
istanza di misure alternative, e chi glielo vieta? Sì, chi glielo vieta, salvo che,
necessita precisare, spesso e volentieri i tempi della cosiddetta osservazione
finiscono per mangiarsi completamente la pena, e poi l’indice di probabilità di
vedere accolta un’istanza di misura alternativa dallo stato detentivo è molto più
bassa che dallo stato di libertà, statisticamente. Forse alcuni di questi
ritroveranno presto la libertà, molti, varcata quella soglia, se avranno residui di
pena brevi se la faranno completamente tutta in galera. Questa è la disposizione,
quella che tocca il meccanismo della sospensione dell’esecuzione, che più ha
effetti pratici sull’aumento presumibile della popolazione privata legalmente
della libertà.
Tacciamo dell’Art. 8, che fortunatamente è stato abrogato dall’Art. 4 del
Decreto Legge 272, e quindi la riforma penitenziaria è tutta condensata nell’Art.
7, un lungo, noiosissimo articolo, che però riscrive completamente la legge
penitenziaria, che invece così breve non è perché conta più di novanta articoli.
Lo riscrive in un’ottica particolare, nell’ottica ovviamente del regime dei
benefici. Quindi per tutti quanti i benefici, quelli strettamente penitenziari
assimilabili alle misure alternative, ma anche quelli strettamente legati alle
pratiche trattamentali. Quindi si va dai permessi a tutte le misure alternative in
senso proprio.
Taccio per ora perché in qualche modo ripeto una situazione che si è già
determinata nella prima relazione. C’è qui, accanto ad una caratterizzazione
sicuramente draconiana e severa delle disposizioni, un’unica disposizione in
favor condamnati, che è una nuova figura della detenzione domiciliare
dell’ultrasettantenne, l’unica figura che primeggia; ce n’erano già tre, questa
sarebbe la quarta presente nel nostro ordinamento, per la quale credo non valga
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neanche più di tanto insistere; d’accordo, non c’è limite di pena riportata se non
per alcuni tipi di reato, per cui anche una pena di vent’anni uno se la può fare
tutta, ammesso che campi fino a novanta, in uno stato di detenzione domiciliare.
Per tutto il resto invece tutto si costruisce su quella definizione del condannato
al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’Art. 99 quarto comma c.p.,
questa è la norma cardine, la stessa che abbiamo già visto prima, che valeva per
la sospensione delle esecuzioni.
Cominciamo a scogliere alcuni problemi, perché si complicheranno subito. Do
già per risolti in senso affermativo, senza grosso sforzo, l’interrogativo se la
disciplina restrittiva di cui fra poco vi dirò sia applicabile al soggetto recidivo
reiterato solo sulla pena inflitta nella condanna, in cui tale sua condizione è stata
accertata. La risposta per me è sì. È una soluzione che accolgo, forse per ragioni
tanto tecniche quanto di buon senso, ma a mio modesto avviso l’intento di
questo legislatore è stato in un senso ben diverso, cioè in quello di introdurre
una sorta di presunzione legale di pericolosità. Rendetevene conto, dopo l’86,
dopo che la Gozzini aveva abrogato tutte le presunzioni legali di pericolosità
affermando il principio cardine di una pericolosità soltanto accertata nel caso
concreto giudizialmente, non tanto ha reintrodotto un concetto di presunzione
legale di pericolosità, ma un concetto di pericolosità fondato sullo stile di vita
della persona o addirittura la sua appartenenza a gruppi sociali, e non è un
concetto di pericolosità legata o desumibile dalla condotta o dal fatto di reato.
Questo va chiarito fino in fondo e cercherò di dimostrarvelo perché una cosa
che non è stata molto sottolineata è che questa legge è stata copiata e vedremo
dove, quindi là dove è stata copiata si è già prodotta molta riflessione teorica ed
è chiaro che l’intento è proprio questo, non è altro. Quindi esco dalla logica a
cui siamo a volte chiamati come giuristi, di salvare le norme o comunque di
salvarle nell’interpretazione più congruente, se devo accettarla come fatto
storico e quindi interpretarla nel senso di cosa significa la legge nel contesto
complessivo di questa legislazione di emergenza ritengo che è il tentativo chiaro
e inequivoco di reintroduzione di principi di riferimento a un diritto penale
d’autore legato a tipologie d’autore non criminologiche, ma d’autore, il cui
riferimento sono gli stili di vita e appartenenza ai gruppi sociali e non a una
pericolosità desumibile dalla condotta o dal fatto di reato.
Adesso vediamo quali conseguenze nascono dal condannato al quale – ripeto:
condannato, ricordate - al quale sia stata applicata la recidiva ex Art. 99 quarto
comma. Gli effetti evidentemente sono a cascata su tutti quanti i benefici e
dov’è che si gioca? In senso restrittivo sui termini temporali di ammissibilità, è
ovvio. Qui evidentemente sono estremamente veloce perché sarei noiosissimo e
poi la legge basta averla sotto mano e la vedete. Per permessi premio: se al
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condannato è stato già applicata la recidiva di cui all’Art. 99 quarto comma, per
le pene inferiori ai tre anni e per la pena dell’arresto deve aver espiato almeno
un terzo della pena per essere ammesso a questo regime del permesso premio.
Per il condannato, sempre a cui è stata contestata la recidiva specifica, però
condannato a una reclusione superiore ai tre anni, addirittura dopo metà della
pena effettivamente espiata; può essere condannato anche per qualcuno di quei
reati di cui la prima parte è soltanto dell’Art. 4 bis – per intenderci, i reati
presuntivi di affiliazione al crimine organizzato -, dopo l’espiazione dei due
terzi della pena e comunque non oltre ai quindici anni. Infine il nostro
condannato reiterato, se è stato condannato all’ergastolo può andare ai permessi
premio solo dopo quindici anni di pena effettivamente espiata, a cui l’unico
elemento che può in qualche modo accorciare i termini è la riduzione di pena, di
cui benefici può anticipare questo tipo di beneficio.
Sulla semilibertà si è operato altrettanto, e forse in misera ancora più severa, in
quanto sempre al condannato, a cui è stata applicata la recidiva di cui all’Art. 99
quarto comma, si richiede l’espiazione di ben due terzi della pena, che si dilata
addirittura in tre quarti, per chi risponde anche di reati sempre presuntivi di
affiliazione alla criminalità organizzata. È una disposizione particolarmente
severa, per questo recidiva reiterata, non tanto nei confronti della semilibertà
concedibile dopo l’espiazione di metà della pena, quella classica, quanto per la
semilibertà applicazione immediatamente per pene inferiori ad anni tre; quindi
questo circuito verrebbe certamente paralizzato completamente, quindi il
soggetto entrerebbe nello stato detentivo, in uno stato di semidetenzione, come
invece gli era concesso precedentemente. Elemento di singolarità, ma questo è
un errore - io sugli errori.. è giusto sottolinearli, però non mi farei eccessive
illusioni che questi riescono a sgretolare l’impianto -, un errore tecnico, è stato
sottolineato subito: la legge fa riferimento ai soli condannati detenuti, invece è
possibile che un recidivo reiterato si trovi a fare istanza di semilibertà dallo
stato di libertà, ad esempio perché in differimento di pena ex Art. 147 c.p.; in
questo caso, in maniera irragionevole nei suoi confronti, perché non detenuto,
non sarebbe applicabile quella disciplina restrittiva. Questo è un errore,
un’incongruenza che potrebbe essere sul piano interpretativo corretta, ma ci
troviamo di fronte un errore.
Esiste poi una disciplina completamente nuova della detenzione domiciliare,
quella cosiddetta generica e preclusa al recidivo reiterato, che viene pertanto
equiparato agli autori dei reati di cui all’Art. 4 bis parte prima, gli è
assolutamente preclusa. Poi ne viene introdotta una nuova, dell’ultrasettantenne,
però è preclusa se il soggetto sia stato dichiarato abituale professionale o per
tendenza o sia stato condannato con l’aggravante della recidiva. Per quelle
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concedibili di motivi di studio, famiglia e salute, l’originaria, ma che adesso è
diventata residuale, di cui al primo comma del 47 bis, il condannato recidivo
reiterato ne potrà godere solo per pene o residui di pene fino a tre anni, questa è
la disposizione.
Fin qui non piace, però si tratta di avere allungato, com’era prevedibile, i
termini per godere di determinati benefici. La disposizione invece più severa è
quella contenuta al comma 7 dell’Art. 7, che introduce un comma 7 bis all’Art.
58 ter dell’ordinamento penitenziario. La formulazione è laconica anche se si
presenterà a un ginepraio interpretativo: “L’affidamento in prova, la detenzione
domiciliare, la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al
condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’Art. 99 quarto
comma c.p.”. Qui si pone una questione interpretativa di nodale importanza;
infatti sul piano strettamente astratto potremmo prevedere addirittura quattro
interpretazioni diverse di questo disposto; primo: il recidivo reiterato può
godere di una qualsiasi misura alternativa una volta solo nella sua vita; ovvero,
soluzione b: può godere di un solo affidamento, di una sola libertà, di una sola
detenzione domiciliare in tutta la sua vita, soluzione intermedia; ovvero: per
ogni successiva condanna può godere per una sola volta di uno o di tutti i
benefici; ultima: può godere soltanto di uno. Sul piano strettamente letterale non
si ha una soluzione diretta di queste quattro posizioni, perché appunto la legge
dice al comma 7: “L’affidamento in prova, la detenzione, la semilibertà non
possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata
applicata la recidiva”. Quindi si apre l’ipotesi di quattro soluzioni che, vi
rendete conto, sono completamente distinte sul piano degli effetti.
Per quanto mi sforzi di metterci la buona volontà non mi riesco a liberare
dell’idea che la disposizione in oggetto sia stata pensata per la vita, cioè la
soluzione a), la prima data, quello è il modo che il legislatore ha voluto. Pensate
che uno può godere di una sola misura alternativa in tutto il suo arco della vita.
Certo, questa è un’interpretazione odiosa, assurda, in cui anche senza avere
militato tutta una vita con anima e spirito garantista contro, però è difficile
pensare che non sia questo il modo. Credo che a questa interpretazione si è
coartati un po’ per la disposizione letterale, si parla sempre di condannato,
quindi si fa riferimento a una tipologia soggettiva, e poi anche dalla lettura
sistematica della legge, ma soprattutto secondo me dall’inequivoca volontà del
legislatore di aderire a questo modello. Poi, certo, se questo dovesse essere il
modo di intendere la norma, lo avete capito, vuol dire dichiarare la morte
dell’ordinamento penitenziario, è finito, cioè vuol dire: è un testo inutile, io mi
dedicherò alla storia del diritto penitenziario, che funziona sempre: c’era una
volta.. Ma a prescindere da questo, che non vorrebbe dire molto, se così verrà
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intesa o è da intendersi storicamente la norma, certo, anche a me pare in
violazione del principio costituzionale della rieducazione, però anche qui,
diciamocelo, attenti, non contiamoci molto che la Corte la possa aderire. Cioè le
secche o vecchie sabbie mobili della teoria della polifunzionalità della pena
sono dietro l’angolo, quindi sarà facilissimo per la Corte dire: in questo caso il
legislatore ha aderito ad un’altra funzione della pena, in questo caso la pena è
deterrente, incapacitante, di neutralizzazione e salva la norma. Non mi consta
che mai la Corte abbia abrogato qualsiasi disposizione sia dell’ordinamento che
sostanziale e pregiudiziale, solo sul principio della funzione rieducativa. A volte
questa ha concorso insieme ad altri disposti normativi.
Si può sostenere che la disposizione in esame, almeno letta in questa logica,
esprime un rigore talmente cieco, ottuso, che è contrario a un criterio di
proporzionalità. Sappiamo che sulla proporzionalità si aprirebbe il gioco,
almeno sul piano dello stimolo intellettuale, di percorrere la strada della
ragionevolezza dell’Art. 3, però sappiamo anche che non è questo il modo in cui
la Corte recepisce il discorso dell’Art. 3 della ragionevolezza delle norme.
È pur vero che interpretando nel senso del rigore si aprono poi vistose aporie,
tali da denunciare profili quasi di irrazionalità della legge, come l’ipotesi che è
stata sottolineata da tutti, di una nuova misura alternativa che venisse negata
anche quando la nuova pena si debba riferire a un reato precedente alla prima
misura, soluzione paradossale, però che si potrebbe determinare. Ma credo che
al di là di ogni pur lodevole volontà di resistenza, perché questa è resistenza, la
nostra, che impegna l’animo civile del giurista e soprattutto dell’Avvocato, da
un punto di vista di una lettura della legge in oggetto come fatto sociale essa
non può essere intesa che per quello che dice e politicamente soprattutto per
quello che vuol dire, e questo pesa come un macigno. Certo, se si dovesse dare
esecuzione a queste disposizioni nelle interpretazioni restrittive che qui
richiamavo potremmo fin d’ora e senza rischio di smentita, decretare a
brevissimo la morte definitiva dello spirito, se non della riforma del ‘75, certo
della riforma dell’86. Quasi tutti condannati, la maggior parte dei quali recidivi
reiterati con ben poche accessioni, finiranno per giocarsi la sola e unica chance
di un’alternativa a loro riservata, dopo di che la pena tornerà come nel passato
ad essere, per il restante della loro vita e della loro presumibile carriera
criminale, inflessibile. Questo è il punto. Ritorniamo a un concetto di
inflessibilità della pena, al dominio della intangibilità del giudicato, in qualche
modo a un principio cardine del pensiero retributivo, che almeno dal ‘75 in poi
era stato progressivamente scalfito fino a introdurre nel nostro ordinamento un
criterio di elevata flessibilità del castigo. Questo è il punto.
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Credo che questo è quello che si voleva, lo credo, ne sono certissimo che è
questo che si voleva. Non è detto che questo si otterrà, ma come segno politico
è quello che si vuol dare. Questa norma si ispira a un’idea di reintrodurre quella
che viene normalmente, nel teatrino della politica - e a noi fa sorridere, ma ad
altra gente no – detto, evocato come ritorno alla certezza delle pene, che è poi
un oggetto concreto del dibattito politico attuale. Questa disposizione riconduce
a una certezza delle pene, dove si intende la flessibilità delle pene in chiave
speciale preventiva o in chiave premiale come è stata introdotta, come il cancro
che ha attentato al criterio della certezza dei castighi, questo è il punto. Quindi
certezza dei castighi vuole dire che te la perdono una volta e poi mai più, dopo
di che la pena meritata e giudizialmente comminata dal Giudice del fatto sarà a
tutti gli effetti la pena che sconterai, riaffermando il principio dell’intangibilità
del giudicato. Questa è la volontà politica. Non è detto che passi nei fatti, perché
molte cose lo impediranno, però come messaggio che si è voluto dare è
sicuramente quello, e come tale va recepito.
Veniamo a un passaggio un po’ complicato della lettura di queste disposizioni,
che è quello di un tentativo di una lettura critica. Almeno per parte di questa
legge la categoria pivot è quella della recidiva reiterata, che costituisce quindi le
fondamenta di un nuovo processo di differenziazione della pena in fase
esecutiva. Ma attenti, con caratteri, questa differenziazione, assolutamente
originali e nuovi rispetto ai vecchi circuiti di differenziazione che erano già
presenti nel nostro ordinamento dalla legge, non tanto del ’75, ma già dal ’77
con l’Art. 90, i decreti attuativi, e poi nell’86 e poi dopo coi decreti negli anni
‘90 contro la criminalità organizzata.
Sappiamo che il criterio di differenziazione in fase esecutiva si è venuto
consolidando nel tempo partendo dai decreti attuativi dell’Art. 90 attraverso
l’affermazione di un regime di esecuzione distinto per maggior severità in
ragione di valutazioni di pericolosità. Questo è un dato di fatto del nostro
ordinamento. Le valutazioni di pericolosità rilevanti al fine di produrre un
diritto penitenziario disuguale o un diritto penale disuguale sono stati nel nostro
ordinamento due: una pericolosità cosiddetta penitenziaria, presente in tutti i
Paesi del mondo, traduco dall’inglese: coloro che rompono le scatole in galera, i
trouble maker, e invece una pericolosità criminale vera e propria, come
valutazione prognostica di recidività. Quest’ultima, che più ci interessa, di
pericolosità criminale, nel nostro ordinamento si è costruita su due figure
rispondenti poi a due distinte emergenze criminali degli ultimi trent’anni di
storia italiana: il terrorista e l’affiliato alla criminalità organizzata di tipo
mafioso. Il primo girone della differenziazione, i famosi rompiscatole carcerari,
è costruito sull’Art. 14 bis e seguente della legge penitenziaria, ma nei fatti non
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è mai decollato, a domanda ha risposto: “Nessuno è sotto il regime del 14 bis”.
Questo perché si è preferito differenziare o neutralizzare o risolvere i problemi
di fatto in via amministrativa piuttosto che ricorrere a una disciplina che
comportava il rischio di un controllo di legittimità. Il secondo girone invece,
quello della pericolosità criminale vera e propria, era decisivo e trasversale a
tutta l’esecuzione penale talché era stato creato su una norma di sbarramento
all’inizio della legge, 4 bis, proprio quando cominciano le disposizioni sul
trattamento, e poi aveva trovato i suoi riferimenti in un combinato disposto con
l’Art. 41 bis seconda parte, la fase esecutiva di massima sicurezza, e 58 ter, la
collaborazione di giustizia. Questo era il cuore della differenziazione nel nostro
ordinamento.
Bene, leggiamola criticamente questa differenziazione, rispetto alla quale io non
ho mai delirato come una grande costruzione dogmatica e forse ho avuto anche
degli atteggiamenti critici, però che oggi quasi quasi in maniera nostalgica
rimpiango. Questa differenziazione, per ragioni di pericolosità si costruiva su
alcuni elementi qualificanti. Primo: una valutazione solo in parte presunta di
pericolosità, non c’era un meccanismo automatico di presunzione, desumibile
comunque dalla gravità di alcuni fatti di reato; la possibilità ammessa,
fortemente favorita in chiave di premialità, che la condotta post delictum o post
condanna del differenziato possa addirittura aprire lo spazio per una valutazione
favorevole a un processo di differenziazione trattamentale di segno opposto; è
l’ipotesi dei collaboratori di giustizia inseriti in un programma di protezione,
per cui gli si applicano le misure alternative tutte subito, senza nessuna
decorrenza dei termini. Questo è il modo in cui veniva costruito nel nostro
ordinamento il processo di differenziazione per pericolosità criminale. Questa
disciplina negli anni caldi della lotta alla mafia, cioè dal ‘92 al ’98, ha
riguardato mediamente all’anno duemila persone, oggi non più di seicento, che
sono sotto questo regime; quella originaria, nel periodo di contrasto al
terrorismo politico, ha toccavo livelli di più elevata differenziazione in carceri
di massima sicurezza sotto il regime dell’Art. 90, ancor prima della Gozzini che
disciplina l’istituto, e comunque non ha riguardato mai più di tremila detenuti
all’anno. Questi sono i dati del processo nostro di differenziazione. Poi
esistevano altri circuiti di differenziazione, ma in favor condamnati, che è la
differenziazione per ragioni terapeutiche nei confronti dell’infetto da HIV e
quelle che riguardavano il tossicodipendente, non esistevano altri circuiti.
Il nuovo circuito, perché di nuovo circuito si tratta, di differenziazione si
costruisce su presupposti diversi. Uno: una presunzione legale assoluta di
pericolosità, connessa alla sola ricaduta del delitto giurisdizionalmente
accertata, anche per illeciti bagatellari, anche per illeciti tra di loro disomogenei,
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quindi sfugge ogni criterio a una riferibilità, a una pericolosità legata a una
tipologia criminologica, quindi puramente d’autore, purché dolosi: l’irrilevanza
ai fini di una riconsiderazione della pericolosità della condotta del condannato
in fase esecutiva e post penitenziaria. In questo caso siamo arretrati, addirittura,
rispetto alla soglia, che già da tempo vive nella cultura giuridica del nostro
Paese, che aveva in qualche modo dettato il principio della revoca anticipata
delle misure di sicurezza detentive per cessata pericolosità. Qui non c’è
possibilità: il soggetto sottoposto a questo regime potrebbe anche esternare
elementi volti alla sua beatificazione, ma inutilmente, che sarebbe l’ipotesi
estrema prevedibile. E' il problema del marchio di Caino, in altre parole: il
marchio è a fuoco, viene impresso per il solo fatto di essere riconosciuto
recidivo reiterato, e una volta impresso non può essere più cancellato, con tutto
quel che ne consegue; si è e si rimane per sempre, almeno per la legge,
socialmente pericolosi.
Ora, è impossibile, ripeto ancora, dire con assoluta precisione quanti potranno
mai essere gli effetti di una simile sciagurata disposizione sui tassi di
carcerizzazione nel nostro Paese, ma certamente possiamo dire che in una prima
fase di applicazione di una nuova normativa essa riguarderà certamente migliaia
di condannati, mi ci giocherei una mano. Ma nel giro di pochi anni finirà per
riguardare quasi tutta l’area che noi chiamiamo sociologicamente della
criminalità cosiddetta sociale, che sappiamo essere la maggioranza
dell’universo sociale penalizzato e cancerizzato oggi in Italia. Quindi
pronosticare un’impennata nei tassi di carcerizzazione è una profezia facile.
In fin dei conti - non voglio qui giocare di ironia, non si presta l’argomento,
perché gioca sulle sofferenze altrui – l’Italia in questo momento ha un tasso di
carcerizzazione di un detenuto su ogni mille abitanti. Siamo nella media della
vecchia, civile, tollerante Europa, che più o meno oscilla dalla posizione
encomiabile dei Paesi Nordici che ne hanno quaranta/cinquanta su centomila, a
Paesi come l’Inghilterra che ne hanno centoventicinque, sempre su centomila.
L’Italia sta lì mezzo. Però, e qui aggiungo nel prosieguo della mia relazione
note sempre più pessimistiche, rendetevi conto che la legge di cui parleremo fra
poco, che ha ispirato questa sciagurata normativa è made in United States, e gli
Stati Uniti, in merito a questa legge sono passati, nel giro di 25 anni, a quella
situazione che voi conoscete, di avere sette detenuti ogni mille abitanti,
esattamente sette volte la percentuale statistica di quelli che sono in Italia.
Questo fatto è stato da pochi sottolineato, invece andrebbe sottolineato.
Questa normativa, almeno per quanto riguarda gli effetti della recidiva, sul
momento commisurativo e sul momento esecutivo non è soltanto ispirata, ma è
proprio copiata; certo, con l’apporto di quei ritocchi tecnici per adattarlo alla
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nostra realtà normativa dall’esperienza di un Paese fratello, che è il Nord
America, e da una esperienza normativa che porta il titolo elegante di una
regola del gioco del baseball, three strikes and you’re out, tre colpi e tu sei
fuori, che vuol dire: la commissione di tre reati anche bagatellari e tu sei fuori
dal sistema normale del sentencing, dicono loro, così come nel gioco del
baseball sei eliminato dopo tre colpi.
Cosa vuol dire essere fuori dal sistema del sentencing americano? Vuol dire
essere fuori dal sistema di una pena molto flessibile in cui, non tanto il Giudice,
quanto il probation board ha un ampio potere discrezionale di flessibilizzare la
pena in fase esecutiva. Coloro che rispondono dei “tre colpi e tu sei fuori”,
ripeto, anche tre reati assolutamente bagatellari, tre spacci bastano, vengono
condannati – parrebbe una cosa assurda – a una life sentence o a una no fixed
sentence; letteralmente sarebbe una pena a vita, l’ergastolo, una pena non fissa.
In effetti non succede che il soggetto rimanga dentro per la vita e tanto meno
per un tempo indeterminato, è che condannato uno a una life sentence o a una
no fixed sentence, automaticamente la legge impone dei minimi molto elevati di
permanenza in carcere.
Questa esperienza, che partì in maniera pionieristica in alcuni Stati del sud degli
Stati Uniti poi si è diffusa in tutti gli Stati, e mi preoccupa molto che il nostro
legislatore si sia ispirato a questa legge. Mi terrorizza, e dovrebbe terrorizzarci
tutti, la circostanza che il sistema di giustizia penale statunitense, prima dei “tre
colpi e tu sei fuori”, vent’anni fa, aveva una popolazione detenuta esattamente
uguale a quella che abbiamo adesso noi: un detenuto ogni mille americani; oggi,
dopo vent’anni di applicazione di questa strategia di incapacitazione selettiva, i
detenuti giornalmente sono due milioni quattrocentomila e i condannati a
misure alternative ogni giorno sono quattro milioni cinquecentomila. Vale a
dire: sette detenuti su mille americani, tredici condannati su mille, costituiscono
insieme il venti per cento, quindi il due per cento dell’intera popolazione
nazionale, che sono sotto controllo penale. Ora riflettete, un tasso del due per
cento della popolazione nazionale sotto controllo penale penitenziario è una
cifra impressionante. Sarebbe come dire che in questo ambiente in cui siete
circa duecento persone ci sarebbero cinque detenuti. Ma è ancora più
allucinante tenere conto di una percentuale del due per cento della popolazione
penalmente controllato se si tiene conto di altre variabili: la popolazione
penalizzata e carcerizzata è al novantasei per cento in tutto il mondo di sesso
solo maschile, tacciamo le ragioni; sovente si dice che le donne siano buone,
comunque il carcere e la pena non è per il genere femminile, e probabilmente
neanche per il genere maschile. E all’ottanta per cento la popolazione di
detenuti in tutto il mondo è ricompresa tra i diciotto e i trentacinque anni. Si può
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calcolare così che ogni cento giovani maschi americani, circa otto, sono sotto
controllo penale. Se poi aggiungiamo la variabile razziale, in ragione del fatto
che la maggior parte dei detenuti e penalizzati negli Usa sono neri o ispano
parlanti, allora si aggiunge il dato vergognoso che ha permesso di sostenere a un
Giudice della Suprema Corte americana recentemente: “Se sei maschio, nero di
pelle o parli come prima lingua il casigliano, hai cinquanta probabilità su cento
di finire in carcere o sotto probation prima che tu compi quarant’anni. Questo è
il dato del processo di differenziazione in America. È vero, ci sono più giovani
neri ispano parlanti sotto controllo penale negli USA, che iscritti alle scuole
medie superiori. Questa è la legge che ispirò e che ha determinato quella
situazione estrema di carcerizzazione in America.
Cerchiamo ora di intenderne, però, la filosofia e vediamo se, facciamo uno
sforzo comune, anche il legislatore abbia voluto ispirarsi a questa filosofia. Qual
è questa filosofia che ispira i tre colpi e l’ex Cirielli? Perché c’è una sola
filosofia: quella di dire che il carcere, il sistema penale, dopo essere stati tanto
presi in giro, che non servono nulla contro la criminalità, no, no, servono, sono
utili nel governo della criminalità e della recidiva, però se sono messi in grado
di operare con finalità di neutralizzazione selettiva. Il fine della neutralizzazione
selettiva origina all’interno di una cultura tecnocratica di tipo amministrativo
della criminalità. Essa interpreta la giustizia penale come sistema che persegue
obiettivi di efficienza, quali ad esempio differenziare la risposta per livelli di
pericolosità e implementare strategie di controllo su gruppi sociali. La retorica
che emerge quindi è quella del calcolo probabilistico e della distribuzione
statistica applicati nei confronti delle popolazioni che creano problemi.
Non molto diversamente dalle tecniche amministrative c’è la matematica
attuariale che aiuta: il linguaggio dell’utilità sociale del governo dei rischi
prende progressivamente il posto della responsabilità individuale, della
prevenzione speciale nelle politiche penali. Il linguaggio di questa penologia
tecnocratica si caratterizza quindi per un’enfasi sulla razionalità sistemica e
formale. Il governo amministrativo del controllo penale tende quindi a costruirsi
intorno ad obiettivi sistemici, che radicalmente divergono dall’uso simbolico a
cui noi siamo abituati, della penalità. La gestione amministrativa della penalità
risponde solo ad una sua logica interna svincolata da finalità extrasistemiche.
Un’amministrazione delle pene che ribalta i paradigmi stessi dell’uso
ideologico, tra virgolette, della sofferenza legale. Mentre la risorsa simbolica
del sistema della giustizia penale utilizza un vocabolario, che è il nostro, i cui
termini più utilizzati sono: imputazione, responsabilità personale, meritevolezza
del castigo, esemplarità, anche, della pena, insomma, sono tante espressioni che
definisco la riduzione individuale della dimensione sociale dei problemi. La
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gestione amministrativa della pena parla un’altra lingua, non più quella di
punire gli individui, ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale.
Non più quella correzionalistica e rieducativa, ma quella burocratica di come
ottimizzare le scarse risorse, in cui l’efficacia dell’azione punitiva non è più in
ragione di scopi esterni al sistema, educare, intimidire, ma in ragione di
esigenze interne al sistema, ridurre i rischi.
Per lungo periodo, il periodo dell’egemonia e delle culture, prassi
correzionalistiche che sono tipiche della legge del ’75, la ricaduta del delitto, la
recidiva, era una cartina di tornasole dell’insuccesso dell’investimento
educativo: abbiamo cercato di educarlo in carcere, e quello ha delinquito
ancora. La recidiva per noi ha significato sempre un fallimento del sistema.
Nella stagione delle misure alternative la stessa cosa valeva come la revoca: la
revoca della misura alternativa è il fallimento della misura alternativa. Oggi no.
Al di fuori di ogni filosofia speciale preventiva i parametri che segnava una
volta l’insuccesso vengono oggi interpretati come utili indicatori dell’efficienza
del sistema nel suo complesso. Gli indici di recidività mostrano sia che il
sistema penale ha fin dall’inizio selezionato efficacemente la propria clientela,
sia che, sulla base dell’esposizione alla ricaduta del diritto, interpretate per
gruppi sociali, è possibile definire predettivamente le categorie a rischio e di
conseguenza diversificare la risposta punitiva. Quindi una discrezionalità che
non si illude più di fondarsi su un’osservazione scientifica della personalità,
baggianate neopositivistiche della legge penitenziaria, ma che ancora sempre
più la propria decisione ad un calcolo di rischi per popolazioni criminali, per
gruppi sociali, piuttosto che affidarsi alla sorte di scommettere sull’uomo. Lo
stesso processo di differenziazione trattamentale nel carcere non risponde
quindi più a un bisogno di individuazione dell’esecuzione per finalità
rieducative, ma si piega sempre più alla necessità di usare anche il carcere come
variabile dipendente in ragione di una diversa distribuzione del rischio, così lo
strumento della pena detentiva inflessibile non si orienta ad una logica di
neutralizzazione individuale, per cui esso è l’estrema risposta per i colpevoli di
reati gravissimi, ma diventa il contenitore per tutti coloro che risultano, ad una
logica di incapacitazione selettiva, come appartenenti a gruppi sociali a elevato
rischio. Io sono personalmente convinto che la 251 si richiama a questa filosofia
dell’incapacitazione selettiva e che pertanto il legislatore si sia ispirato,
addirittura abbia tradotto l’esperienza nordamericana che sopra richiamavo.
Nella logica oggi fortemente presente anche in Italia delle politiche sicuritarie
che si fondano sui sentimenti di insicurezza espressi dalla collettività i nuovi
nemici opportunisti non sono i mafiosi, non sono i terroristi. Ciò di cui io come
cittadino, come singolo, più pavento sono i furti in appartamento, gli scippi, i
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borseggi, i piccoli grandi attentati alla mia proprietà. Temo, e non dico sempre
irrazionalmente, gli spacciatori magrebini, gli sfruttatori albanesi, i giovani ladri
rom, gli immigrati irregolari, eccetera, eccetera. Non sopporto più i livelli
crescenti di inciviltà urbana, anche se spesso sono penalmente irrilevanti.
Insomma, alla fine i miei nemici, quelli da cui io voglio difendermi, tutelarmi,
sono i variegati personaggi affiliati al grande esercito dell’economia illegale di
massa; sono tanti e sempre più crescenti proletari di un’economia stracciona e
illegale; quelli che sempre entrano ed escono dalle patrie galere. Se questo è il
target sociale che suscita, non mi interessa se a torto o ragione, dolosamente o
colpevolmente, le mie paure, questa legge ha una sua indubitabile coerenza.
Certo, alla fine solo una coerenza ideologica, perché la realtà americana di
questi ultimi vent’anni ci sta a insegnare che per quanto tu elevi a dismisura i
criteri di neutralizzazione selettiva del sistema legale - loro li hanno elevati di
ben sette volte - alla fine l’efficacia nel contrasto alla criminalità di massa è
trascurabile. Dovrei poter incapacitare tutta quanta l’emarginazione sociale,
controllare penalmente tutti i poveri, per poter ridurre significativamente la
criminalità; il che, anche per l’intransigente, protestante, calvinista, rigorosa
America è alla fine impossibile, figuriamoci per l’Italia. Questa è l’unica cosa
che mi consola!
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Grazie al prof. Pavarini per la sua bellissima e appassionata relazione. Certo che
il quadro generale che ci ha fornito è sconsolante e quasi orwelliano, se mi
permettete il paragone.
Prima di dare la parola al prof Frigo per l’ultima relazione della giornata e
poiché l’unico istituto favorevole previsto da questa legge riguarda gli
ultrasettantenni, devo comunicarvi che oggi è il compleanno del nostro decano,
dell’Avvocato Emanuele Battain e quindi un grande applauso!
Do la parola al prof. Giuseppe Frigo, professore di Procedura Penale Comparata
all’Università di Brescia, che ci parlerà dei profili di natura processuale.
PROF. GIUSEPPE FRIGO
Grazie.
Chiarisco subito, per evitare equivoci, che sono un ultrasettantenne, quindi
sarebbe controproducente per me stesso che parlassi male in assoluto di questa
legge. Pur non essendone entusiasta ho l’impressione che sia arrivato il tempo
non di parlarne bene, ma di costruire qualche cosa, magari partendo dal male
evidente.
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Come si fa a costruirla dal mio punto di vista, che è il punto di vista, per usare
un linguaggio evangelico, del cireneo o del pubblicano? Quale si addice al
processualista di fronte a problemi che sono di diritto penale sostanziale, di
diritto dell’esecuzione penale, di diritto penitenziario, e dopo due relazioni che
non sono solo state monumentali, ma sono state, lo dico senza enfasi,
magnifiche e tali da darci da riflettere per molto tempo. Tra il diritto penale, che
è il quadro di riferimento di base, l’esecuzione e il penitenziario c’è il processo.
Nulla poena sine lege, ma nulla poena sine iudicio. E tuttavia se questa legge
attinge nel modo in cui abbiamo sentito due istituti fondamentali del diritto
penale, come sono la recidiva e la prescrizione, e comunque gli aspetti della
dimensione attinente alla pena, quindi strettamente sanzionatori, e dall’altro,
attinge questi aspetti con questi profili particolarmente negativi che sono stati
descritti poco fa in sede esecutiva e in sede penitenziaria, cosa resta davvero da
dire al momento del processo e sul momento del processo? Io cerco di riandare,
anche movendo proprio dal titolo che è stato assegnato alla mia relazione, ai
grandi classici, ai grandi maestri, prima di tutto al mio grandissimo
indimenticato maestro Pietro Nuvolone, che pur essendo stato un grande
sostanzialista, secondo l’antica tradizione in tutti i suoi scritti e in tutte le sue
grandi monografie terminava con un capitolo: “Profili processuali”. C’era
sempre un’attenzione a questi aspetti, c’è sempre stata un’attenzione, perché
ormai le discipline di diritto penale da una parte e di diritto processuale penale
dall’altra sono distinte, sono autonome, ma spesso dentro queste autonomie si
sconta la scarsa attenzione ai nessi inscindibili che ci sono, specialmente fra il
diritto e la procedura penale. Allora, sia pure come ultimo capitolo - un
capitoletto qualche volta, quando Nuvolone scrisse il diritto valutario anche lì,
che era necessariamente un diritto di transizione, cioè un diritto penale che oggi
c’è e domani non c’è, il diritto penale artificiale come qualcuno l’ha assai bene
chiamato - ecco, dico, sia pure in questo angolino, qualcosa forse da dire c’è,
perché nella cornice sia della fisiologia che delle facili trasmigrazioni nella
patologia dei rapporti usuali fra diritto penale e funzioni processuali, ecco,
diciamolo, potrebbe essere questa davvero la fisiologia, cosa cambia nelle
funzioni processuali? Cosa c’era prima nelle tre funzioni processuali, quella del
Giudice, quella del Pubblico Ministero e quella del Difensore? Cosa cambia e
cosa può cambiare da parte di questo, per effetto di questa legge?
Emblematica è la materia sanzionatoria, dove il processo si manifesta come il
mezzo per la cosiddetta “concretizzazione del diritto penale sostanziale”, e la
pena, appunto, che viene in astratto comminata dalla legge si fa concreta nel
giudizio attraverso la funzione giurisdizionale. Qui le scelte legislative, tra
sanzioni rigidamente predeterminate, fissazioni di limiti edittali limiti e
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massimi, ampiezza della relativa forbice, previsioni di alternative tra specie
diverse più o meno gravi, maggiore o minore possibilità di sforare i limiti con
aumenti e diminuzioni per effetto del riconoscimento di circostanze aggravanti
o attenuanti, comparazioni e bilanciamenti tra esse, definizione più o meno
ampia o specifica del quadro dei parametri di riferimento per le opzioni
concrete, da tutto questo dipende la qualità stessa e certamente poi la misura
della funzione giurisdizionale nel delicatissimo momento della irrogazione della
pena.
Basta fare una riflessione molto modesta che tutti noi operatori possiamo fare e
che credo di poter fare anch’io, proprio dopo oltre quarantasei anni di esercizio
di attività professionale: ogni rigido automatismo collegato esclusivamente alla
qualificazione giuridica del fatto toglie al Giudice ogni potere nella scelta della
sanzione con rischio di trattare uniformemente situazioni concretamente
differenti; a rovescio la discrezionalità può amplificarlo fino al massimo del
limite costituito dalla riserva di legge in materia penale, con ovvi rischi di
sperequazioni anche gravi e direi molto più gravi, da un certo punto di vista,
perché si può sconfinare nell’arbitrio.
Ricordava prima nella sua bellissima relazione il sostanzialista bravissimo che
mi sta alla sinistra, come potrebbe aprirsi addirittura un varco, stiamo
discutendo dei limiti del ricorso in Cassazione, per dedurre finalmente
attraverso questa legge, sotto il profilo della violazione di legge, qualcosa che
attiene nientemeno che alle attenuanti generiche. Una delle conseguenze
probabilmente non volute, che però ci sono. È risaputo però che nel nostro
sistema e nelle nostre prassi il controllo di legalità delle scelte dei Giudici di
merito sulla determinazione della pena in concreto è ridotto in pratica alla
verifica della congruità logica della motivazione da parte della Corte di
Cassazione e sono rarissimi, vorrei dire quasi sconosciuti, gli annullamenti di
sentenze in punto di misure della pena o di diniego o riconoscimento di
attenuanti generiche. Ma perché? Perché sono questioni che stanno dentro il
giudizio di merito, dentro il processo di merito. Risultano allora di riflesso
condizionato e in concreto le funzioni delle parti, Accusa e Difesa, anche solo
con riguardo ai loro poteri, diritti, facoltà di richiesta, di istanza, di
impugnazione. Oggi il processo, come luogo e mezzo di soluzione
giurisdizionale del conflitto tra pretesa punitiva e difesa da essa attraverso
l’accertamento in contraddittorio dei fatti e delle responsabilità, e la punizione
di chi risulti colpevole postula ormai o postulerebbe uno sviluppo ampio delle
tre funzioni corrispondenti alla triade processuale.
Ora, questo sviluppo non è affatto pregiudicato, anzi è addirittura favorito da un
diritto penale rigido. Mormorava poco fa il Presidente il diritto penale del fatto,
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ma il diritto penale del fatto vuol dire: fuori finalmente - da quanto tempo lo
stiamo dicendo nelle Camere Penali! - dalla costruzione delle fattispecie
criminose tutti gli elementi normativi, torniamo al diritto penale del fatto. Il
nostro grande maestro e mio compagno di università, Franco Bricola, quante
volte ce lo ha detto e ricordato! È favorito certamente lo sviluppo della
dialettica processuale da questo ritorno al diritto penale del fatto. È invece
incompatibile con una rigidezza della disciplina sanzionatoria.
Ove si accetti, e credo che dovrebbe essere accettata, che il principio
costituzionale della personalità e della responsabilità penale imponga anche
quella che si chiamava una volta e che forse si chiama tuttora
l’individualizzazione della pena, è evidente che l’individualizzazione della pena
rifugge da automatismi e va piuttosto consegnata ad un quantum non effimero
di discrezionalità giudiziale, pur dentro parametri che escludono l’arbitrio,
quindi alla dialettica delle parti.
Su questo scenario, con le sue implicazioni, opera il legislatore, volta a volta
ampliando o restringendo gli spazi, accordando o negando strumenti per la
scelta della pena in concreto. E' una vecchia partitura che si ripropone
ciclicamente con alcune varianti innescando le opposte reazioni di censura o
eccessi di possibile indulgenza o, al contrario, di più o meno contrastabile
rigore. Nell’arco di poco più di cento anni il nostro Paese ha offerto
significative rappresentazioni in proposito, dal codice del mio concittadino
Zanardelli del 1889 al codice Rocco del 1930, fino alla riforma del ’74 e
all’ordinamento penitenziario dell’75 è prossimo, quasi contiguo alla riforma
del sistema penale del 1974. E ora questa nuova legge! Ricordiamo solo gli
interventi più importanti: c’è un pendolarismo che è figlio delle mutevoli
sensibilità, delle diverse ideologie, talora persino dell’esigenza di rispondere a
ritenute contingenti domande di giustizia o semplicemente, come accennava
poco fa il prof. Pavarini, esigenze di sicurezza o di una certa sicurezza, con
risposte più o meno nobili o coerenti con il sistema o con se stesse e i propri
dichiarati scopi, sempre e comunque direi con un margine notevolissimo di
opinabilità.
Guardando un poco alla storia, direi guardando persino alla mia cronaca
personale, di un Avvocato che ha cominciato a calcare i palcoscenici delle aule
di giustizia oltre quarantasei anni fa, quante volte ci siamo imbattuti nelle nostre
aule nel problema del bilanciamento delle circostanze attenuanti aggravanti,
nelle circostanze attenuanti generiche e soprattutto con la recidiva? Dicevo poco
fa mormorando con l’amico Melchionda: ma quanti sono quelli che si ricordano
che cos’era la recidiva e che si sono ricordati che c’era la recidiva con questa
legge? Facciamola questa riflessione. La recidiva era di fatto scomparsa,
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oltretutto con una prospettiva, perché questa è la cosa incredibile, perché nel ’74
quando si è fatta quella scelta si doveva pensare paradossalmente che tutto
veniva consegnato al giudizio, al processo, che la recidiva era uno strumento
reso duttile nelle mani delle parti e del Giudice soprattutto, proprio uno
strumento ai fini della individualizzazione della pena e della differenziazione a
seconda delle esigenze, appunto, di questa individualizzazione, uno strumento
massimamente duttile, e invece è stato buttato via, non se n’è fatto più niente di
tutto questo. Allora, il primo problema è questo: valeva la pena di recuperarlo o
si doveva consegnare alla storia? Facciamola questa riflessione, non so se
qualcuno l’ha fatta, ma certamente era la prima riflessione secondo me da fare.
Invece non si è fatto niente.
Ora, per decenni intere generazioni di Giudici, di pubblici Ministeri e di
Avvocati, si sono esercitate sullo strumento delle attenuanti generiche per
modulare la pena in concreto. Anzi!
Io sono zanardelliano ratione loci, il codice dell’89 unanimemente fu
considerato un monumento del diritto penale europeo, ma anche mondiale della
fine dell’800; c’erano stati trent’anni di lavoro prima, ci avevano lavorato prima
con riluttanza e poi sempre più con interesse uomini come Carrara, come
Mancini; Carrara forse una delle ultime lettere che ha scritto, se non l’ultima,
l’ha scritta a Zanardelli: in un primo momento era molto diffidente perché
vedeva che si voleva scopiazzare quella brutta cosa che era, dal punto di vista
del diritto penale, il codice sardo/piemontese; dopo, quando ha cominciato a
vedere che invece l’attenzione si spostava sul codice toscano le cose sono
cambiate, e a ragione, perché c’era la tradizione leopoldina in Toscana; è
magnifica la lettera che ha scritto Carrara in punto di morte a Zanardelli,
quando ha detto: “Questo sarà un monumento di cui l’Italia, la dottrina italiana
e la scienza italiana, l’Avvocatura, la Magistratura, l’Accademia, potranno
andare orgogliosi in tutta Europa e nel mondo”, sostanzialmente questo scrisse
Carrara in quella lettera. Allora nel codice Zanardelli furono introdotte per la
prima volta le attenuanti generiche proprio come strumento per modulare la
pena; non c’erano previsioni di circostanze attenuanti specifiche, c’era solo
questa specie di valvola di sicurezza, abolita poi dal codice Rocco, che però
introdusse le attenuanti comuni, recuperata nel 1944, la disciplina delle
attenuanti generiche, in aggiunta alle attenuanti comuni. Questo ampliamento
palesemente diede opportunità maggiori per le parti al loro agire nel processo e
al potere discrezionale del Giudice. Ora la legge, sappiamo, non è che le butta
via, ma riduce drasticamente, almeno per quella nicchia particolare, quella del
nuovo secondo comma dell’Art. 62 bis, questa opportunità. Però poi alla fine si
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vede, come diceva bene prima il prof. Melchionda, che il fulcro di tutto questo
sta nella prescrizione, evidentemente.
L’istituto della comparazione tra circostanze, l’Art. 69, anche questo è stato
rivisto, ma anche questo è stato una palestra per le parti e per il Giudice nel
processo, e con il Codice di Procedura Penale addirittura si è data la possibilità
al Giudice dell’appello di intervenire d’ufficio sulla comparazione delle
circostanze e per riconoscere d’ufficio, senza bisogno di attendere lo stimolo
delle parti, il concorso di certe circostanze attenuanti. Allora ecco come si
dilatano le funzioni o come si restringono per effetto di queste modifiche che
attengono specialmente al trattamento sanzionatorio.
Io penso - scusi se guardo lei, Procuratore Generale, ci conosciamo da tanti anni
-, i vecchi Magistrati, i vecchi Avvocati, quorum ego evidentemente, ricordano
bene come combinando le norme anteriori che avevamo una volta sul furto
aggravato con quelle sulla recidiva di allora e sulla comparazione tra
circostanze che era limitata, allora, prima del ‘64, un furto d’auto – lo dico per
chi non c’era – commesso da chi fosse in condizioni di recidiva specifica
reiterata infraquinquennale comportava una pena minima di quattro anni e sei
mesi di reclusione, secca, al minimo, per quanto scassata fosse l’automobile
rubata. È venuta fuori da lì quella specie di motto che correva tra le aule: “le
generiche non si negano a nessuno”, perché come si fa a dare quattro anni e
mezzo per un furto d’auto? Allora c’erano dei recidivi terribili, perché vivevano
di furti d’auto, ai quali come si fa a dare quattro anni e mezzo? Allora gli diamo
le generiche, così succedeva. Dalla rigidità di quel modello sanzionatorio si
ricercavano strane via di fuga, una era questa delle attenuanti generiche date a
sproposito, evidentemente, in quella situazione, ma che erano l’unico
strumento; perché sì, certo, i Difensori si impegnavano, per il furto d’auto
c’erano due aggravanti, la violenza e l’esposizione alla pubblica fede, e allora:
ma come, esposizione alla pubblica fede? Si facevano arringhe anche
prolungate per dire che non c’era, e invece poi il riconoscimento c’era sempre,
venivano riconosciute tutte e due ineluttabilmente le aggravanti.
Ora tutto questo appartiene alla archeologia delle prassi giudiziarie, che tuttavia
potrebbe rivivere quantomeno nelle nicchie di maggiore rigidità riproposte dalla
legge. La quale rianima e fa rivivere in maniera molto discutibile e per certi
aspetti censurabile l’istituto della recidiva, con questo aspetto singolare: di
portarla per forza nel processo, si deve portare nel processo. E qui allora sì che
dobbiamo cominciare a fare il ragionamento importantissimo che ha fatto prima
Melchionda e che io condivido al cento per cento: non facciamoci prendere dal
panico né dall’idea di fare del terrorismo su questo nuovo Art. 99. La lettura
dell’Art. 99 individua una sola ipotesi di obbligatorietà della recidiva ed è
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quella del quinto comma; e qui tutti dobbiamo essere impegnati a sostenere
questo nel processo, perché è l’unica interpretazione coerente dal punto di vista
sistematico e dal punto di vista letterale. La parola “obbligatoria” io la trovo
soltanto nel quinto comma, non c’è da nessun’altra parte. E il fatto che si usi “è”
al posto di “può” nel terzo comma non vuol dire niente, anzi, scusate, non
voglio invadere il campo dei sostanzialisti, però se correttamente si dice: la
recidiva viene definita al primo comma, dove poi si dice “aumento di un terzo”
e c’è un aumento fisso, fisso il massimo nel secondo comma fino alla metà,
allora ecco perché si usa il “può”; il “può” per quanto riguarda il ritenerla e per
quanto riguarda il quantum. Poi, al terzo comma, non vuol dire che l’uso del “è”
rende obbligatoria, ma se ritengo sussistente l’obbligatorietà, allora l’aumento
dev’essere così, è rigido. La stessa cosa è anche per il quarto comma, perché
sennò che ragione ci sarebbe? Come si fa a dare coerenza alla previsione che
chiaramente si esprime al quinto comma: l’aumento della pena per la recidiva è
obbligatorio? È solo lì che è obbligatorio l’aumento della pena, con le rigidità
degli articoli precedenti. Allora questo è un campo nel quale dovremo batterci,
ma ci sono documenti di certe Procure della Repubblica dove si dice addirittura
che non sarebbe così e che la recidiva diventa quasi tutta obbligatoria con
questo Art. 99, ma non è così, qua dobbiamo contrastare. Ecco che salta fuori la
dialettica. Abbiamo riesumato la recidiva? Combatteremo sulla recidiva! A
questo punto sperando che la giurisdizione faccia la sua parte. Io sono
impressionato quando sento dire che non sarebbe neanche necessaria la
contestazione. Se si comincia a dire di nuovo che non sarebbe necessaria la
contestazione, allora veramente facciamo piazza pulita di cinquant’anni di
elaborazione giurisprudenziale, anche dal punto di vista processuale penale. La
recidiva deve essere contestata e solo se è contestata intervengono le
valutazioni, interviene la disputa tra le parti e interviene poi la valutazione del
Giudice. Dev’essere contestata o allora si era fatta la questione, che poi fu
risolta nel senso dell’obbligo della motivazione quando la recidiva era
obbligatoria, perché nel caso di automatismo si diceva: “Basta che ci sia il
certificato penale e la si può ritenere”; è stato là che sono intervenute le Sezioni
Unite a dire: “Deve essere sempre e comunque contestata”.
A questo punto mi pare che potremmo fare un passo avanti proprio per guardare
al nostro agire nel processo; qua la contestazione non deve essere un vago
richiamo, come si faceva una volta, recidiva specifica reiterata
infraquinquennale e via discorrendo, nossignori: adesso dobbiamo fare quello
che non si è fatto dal ‘74 in avanti, perché abbiamo dimenticato la recidiva.
Visto che la recidiva è stata riesumata, allora va contestata come qualunque
circostanza aggravante facendo riferimento al fatto che la integra, perché la
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contestazione non è quella di un nomen iuris, la contestazione è un fatto, e
disputeremo, in tutti i casi in cui non è obbligatoria, e sono la maggior parte, se
potrà o non potrà, se dovrà o non dovrà essere ritenuta. Questo è il compito che
attende le parti. Bisognerebbe poter dire anche molte cose sulla prescrizione, ma
bisogna andare via molto veloci.
Sulla recidiva vorrei dire un’altra cosa. Questa legge per molti aspetti è stata
lasciata andare alla contrapposizione tra gli opposti schieramenti politici,
dimenticando che, con riguardo ai problemi della giustizia, con riguardo ai
problemi della giustizia penale, con riguardo al diritto penale sostanziale, alla
procedura e al penitenziario, esiste da sempre, era esistita da sempre una
trasversalità tra gli schieramenti politici che purtroppo è stata dimenticata. La
Legge Saraceni era stata messa insieme da due che credevano in un certo diritto
penitenziario ed erano di opposti schieramenti: ecco un esempio. Il giusto
processo in Costituzione, che le Camere Penali hanno propugnato strenuamente
nel ‘98 e nel ‘99, è stato il frutto di una trasversalità. Purtroppo i mali che sono
venuti in gran parte dalle leggi prodotte in questa legislatura, compresa questa,
in particolare questa, ci sono perché è stata abbandonata, per ragioni perverse,
questa trasversalità.
Ora io dico: ma per quale ragione non si è potuto ricercare anche qui, attraverso
l’intesa tra coloro che hanno una certa concezione della giustizia penale, del
processo penale, del diritto penale sostanziale, del diritto penitenziario,
un’intesa che potesse aggiustare questo testo? Gli aggiustamento sono stati fatti
male, sempre nella logica della contrapposizione. Ricordavo all’amico
Melchionda che nel Codice Zanardelli la recidiva era temporanea: ecco, sarebbe
bastato trovare il consenso di qua e di là sulla temporaneità della recidiva per
annullare la maggior parte dei problemi. Pensate che mettere la temporaneità
della recidiva a dieci anni, come l’aveva messa il codice Zanardelli nel 1889,
era una grandissima scommessa e una soluzione avanzata, tenuto conto della
vita media di allora. Pensiamo alla vita media di adesso: che senso ha con
l’aumento della vita media di adesso avere la recidiva perpetua? Qualcuno,
vivaddio, l’ha detto questo in Parlamento? È andato qualcuno a dirlo? Ho letto
gli atti parlamentari, non è scritto da nessuna parte! Certamente, le riforme di
sistema non possono essere consegnate così tout court al Parlamento, ma non si
può neanche impedire al Parlamento se vuole occuparsene di farlo; altri
dovrebbero farlo, sono le aggregazioni associative che dovrebbero farlo e che
purtroppo non l’hanno fatto, anche qui in una logica di contrapposizione, perché
alle Camere Penali interessava combattere la recidiva da una parte, alla
Magistratura interessava combattere la prescrizione dall’altra. Certo che non
sono tutti d’accordo, ma bisogna anche essere capaci di trovare le intese
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all’interno, come è sempre stato fatto: abbiamo fatto così col Codice di
Procedura Penale, abbiamo fatto così in tanti altri modi. Bastava introdurre la
temporaneità della recidiva e ci sarebbero stati molti meno problemi.
Detto questo - scusate ma a questo punto devo andare con molta rapidità e
anche con molta concitazione, come capita sempre quando si parla per ultimi –
devo dire qualcosa sulla prescrizione, su questa tormentata disciplina della
prescrizione. Anche qui sono state messe davanti a tutti le contraddizioni, starei
per dire le ombre, e non le luci. Ma credo che una disciplina della prescrizione
quale quella che si aveva prima di questa legge era una disciplina che
consegnava la causa estintiva del reato alla discrezionalità giudiziale.
Siamo stati per troppo tempo nelle mani di attenuanti che si riconoscevano o
non si riconoscevano, di comparazioni che si facevano o non si facevano e così
via, a cui conseguiva: sì all’estinzione, no all’estinzione. Questa era una
stortura, costitutiva una stortura. Dare al Giudice la possibilità di collocare la
res iudicanda nella cornice di un reato già prescritto ovvero non ancora
prescritto, non in funzione del nomen iuris del reato, ma in funzione del gioco
delle circostanze e particolarmente delle circostanze attenuanti generiche su cui
il ricorso per Cassazione era come dire: non c’è, era qualche cosa che
evidentemente urtava contro il sentimento di giustizia. La discrezionalità
giudiziale è stata eliminata, le circostanze non rilevano più, non rileva neppure
la comparazione. A questo punto i termini prescrizionali, che in parte solo per
taluni reati sono stati ridotti, ma per la maggior parte sono stati prolungati, io
dico francamente che cinque anni per una contravvenzione mi sembrano un
termine prescrizionale eccessivo. O qua c’è una riforma grande che si dovrebbe
fare, una scommessa grande, eliminare le contravvenzioni dal Codice Penale,
fare tutti illeciti amministrativi. È una scelta che ha fatto la Commissione
Nordio, sarà condivisibile o no, pazienza, però a un certo punto affrontiamoli
questi problemi. I termini sono minimamente certi a questo punto; quanto alla
misura di questi termini basta prendere quello schema che è stato fatto in fondo
alla monografia, al dossier di Guida al Diritto per rendersi conto che
complessivamente i termini prescrizionali qua sono aumentati, non diminuiti.
A questo punto però diciamo un’altra cosa: che certo qui ci troviamo di fronte a
qualcosa che diversamente dal passato, da quello che è accaduto fin qui,
modifica e stimola l’esercizio delle funzioni processuali, questo è il punto.
Perché è chiaro che si può giocare o non giocare sulla prescrizione prolungando
o meno la durata delle indagini preliminari; io ho notato più di una volta che
certe querele per diffamazione vengono lasciate lì per il tempo necessario a
prescrivere, dopo di che si domanda l’archiviazione, alle soglie della
prescrizione del reato. Ma a questo punto è chiaro che c’è un potere forte nel
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Pubblico Ministero quando si fanno delle scelte. Oggi questa revisione del
meccanismo dei termini prescrizionali induce certamente a una riflessione ai
Pubblici Ministeri, così come induce a una riflessione i Difensori i quali a loro
volta non sono immuni da mancanze con riguardo proprio al gioco della
prescrizione.
Vorrei però dire una cosa, mi ha stimolato anche qui l’amico Melchionda a
proposito della sospensione del corso della prescrizione. Da una parte si è
cercato di rivedere quella sospensione collegata alle attività e alle richieste
difensive, però ci si è dimenticati di quella famigerata sentenza delle Sezioni
Unite 28 novembre 2001 della Cassazione, la quale aveva esteso al termine
prescrizionale le cause di sospensione del termine di custodia cautelare - io
porto sempre questo come massimo esempio di giurisprudenza creativa; in
genere accusano i Giudici di merito di farla, ma la giurisprudenza creativa la fa
la Corte di Cassazione non la fanno i Giudici di merito! Qui è il massimo
esempio della giurisprudenza creativa – ed era stata poi portata questa cosa
nella norma, quindi dentro la previsione. Ma come mai si è dimenticato che la
Cassazione aveva fatto la nicchia per le attività difensive attinenti all’esercizio
delle prove e ai termini a difesa? Dove sono finite queste cose qui? Perché
molto ottimisticamente l’amico Melchionda un momento fa diceva: “Ma
insomma, anche qui..”, non c’è più questa eccezione, è sparita! Allora bisogna
farla recuperare in via esegetica, perché o la facciamo recuperare in via
esegetica o il diritto alla prova e il diritto al termine a difesa vanno a farsi
benedire. Quindi dobbiamo evidentemente lavorare in questo senso.
Mi piacerebbe poter dire qualche cosa a proposito del diritto transitorio. Solo
una cosa dico: quella decisione molto tempestiva della Corte di Cassazione
secondo me è persuasiva quando dice che non siamo di fronte ad una situazione
di incostituzionalità con riguardo al 25 comma 2 della Costituzione; così come
ormai abbiamo alle spalle una giurisprudenza costituzionale che sull’Art. 2
comma 3 del Codice Penale dice che sostanzialmente non è costituzionalizzato,
per lo meno, non lo è del tutto.
Però l’Art. 2 comma 3 ci dà una strada. Io non so perché è sorto il dubbio sul
giudizio abbreviato. Il giudizio abbreviato non ha una disciplina specifica come
quella e allora a questo punto per il giudizio abbreviato vale l’Art. 2 comma 3
del Codice Penale. Non so dove sia il problema, perché la Corte Costituzionale
ha detto: “Quando non siamo di fronte a norme sanzionatorie o incriminatici o
aggravatici delle sanzioni, non siamo obbligati dal punto di vista costituzionale
a prevedere l’applicazione della norma più favorevole. Il legislatore allora ha
una discrezionalità al riguardo: se la esercita benissimo, l’ha esercitata, nulla
quaestio, ma se non la esercita vale l’Art. 2 comma 3 del Codice Penale. Allora,
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siccome sul giudizio abbreviato non è stato detto niente, si applica la regola
generale, punto e basta.
Un altro profilo invece mi pare che abbia trascurato la Cassazione, non mi pare
persuasivo questo profilo, ed è quello che riguarda invece l’individuazione della
barriera prima della quale e oltre la quale - il limite discriminante - operano o
non operano i termini più brevi della nuova norma: l’apertura del dibattimento.
Questo è uno stadio processuale, è un punto, una linea di demarcazione, quella
dell’apertura del dibattimento, che è suscettibile di creare un numero infinito nel
concreto di disparità di trattamento e quindi di mettere in gioco fortemente
secondo me il principio di uguaglianza. Doveva essere scelta una linea più
stabile, mi pare particolarmente instabile questa. Ecco perché forse varrebbe la
pena di fare un’ulteriore riflessione su questo punto, perché basterebbe pensare
alle situazioni, prima di tutto la regressione, perché improvvisamente viene a
mancare un componente del Collegio: bisogna ricominciare daccapo e bisogna
ricominciare da dove? Bisogna fare di nuovo un’apertura del dibattimento? Qua
qualcuno dice di no, perché bisogna assicurare gli stessi Giudici solo a
dibattimento già aperto. Ma quando si riconosce una nullità che è intervenuta,
una nullità non sanata, intervenuta nel corso del dibattimento, cosa succede?
C’è una regressione. E se questa nullità riguarda soltanto la posizione di uno e
non degli altri, non c’è un trattamento differenziato? Collegato a che cosa? Alla
mera casualità. Allora ecco perché forse varrebbe la pena di fare una riflessione
ulteriore. Ma il diritto transitorio? Il diritto transitorio si medica da solo e allora
a questo punto tante cose sono lasciate passare.
Credo però che un segnale positivo ci dovrebbe venire, il segnale positivo col
quale mi sono permesso di aprire questo discorso un po’ sconclusionato, ed è
questo: non lasciamoci più prendere dalla logica della contrapposizione,
cerchiamo anche di essere costruttivi nel nostro operare quotidiano, proprio
attraverso le funzioni processuali che siamo chiamati a rivestire; e allora
cerchiamo di portare fin dove si può l’interpretazione e l’applicazione di questa
legge del processo, attraverso la nostra attività nel processo, verso epiloghi che
non siano in contrasto con i principi generali, con i principi costituzionali in
particolare e soprattutto non ci radicalizzino in contrasti e contrapposizioni
quali potrebbero essere quelli che potrebbero venire da posizioni così estreme
come quelle prese da queste certe Procure cui faceva riferimento l’amico
Melchionda. Cerchiamo con pacatezza di trovare la soluzione e le soluzioni
equilibrate per non alterare più di tanto e recuperare, se possibile, dalle
alterazioni troppo gravi il sistema. Grazie.
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AVV. ANTONIO FRANCHINI
Grazie al prof. Frigo per la bellissima e appassionata relazione.
Io adesso, siccome ci resta ancora uno spicchio, darei la parola a chi intende
fare delle domande, porre dei quesiti ai nostri relatori o chi vuole o desidera fare
un intervento sui temi che abbiamo trattato.
DOTT. ENNIO FORTUNA
Non tutti sanno che noi abbiamo una conferenza periodica che io dirigo e
composta da tutti i Procuratori del distretto. L’Accusa precede sempre la Difesa,
è logico, ed è anche più importante, dico io, l’Accusa, ma lo dico per scherzo!
Ed è ovvio che ci a siamo occupati della Cirielli molto prima e può essere
interessante sapere che oggi non ho sentito nulla di nuovo, cioè le tematiche che
sono state toccate qua sono le stesse che abbiamo esaminato noi e posso dire
con una certa soddisfazione che sono quasi tutte coincidenti le soluzioni. Non
del tutto; per esempio ce n’è una capitale sollevata dal prof. Patarini, di cui
vorrei parlare un secondo perché è una questione veramente cruciale, secondo
me. Per il resto ci siamo trovati d’accordo. Soprattutto siamo d’accordo con
Melchionda quando dice che la recidiva obbligatoria è una sola: siamo
assolutamente d’accordo; siamo assolutamente d’accordo anche su un’altra
cosa: che dev’essere contestata pienamente, e noi siamo andati un pochino più
in là, per la verità, nella riunione, può essere interessante saperlo..
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Cosa vuol dire “pienamente”?
DOTT. ENNIO FORTUNA
Lo dico subito: siamo andati più in là dicendo che non solo dev’essere
contestata, ma per applicare la recidiva secondo la nuova meccanica prevista
dalla legge ex Cirielli occorre anche che le eventuali condanne precedenti
finiscano col coincidere con il regime attuale, è stato già detto credo da
Melchionda. Se per caso ho la recidiva del comma quarto, come capita spesso è sempre esistito il comma quarto, non è una scoperta di Cirielli – allora noi
applicheremo il nuovo regime gravatorio soltanto se ad esempio non c’è
l’omicidio colposo, il reato colposo o la contravvenzione. Deve perfettamente
coincidere. Dopo di che applicheremo tutta la situazione gravatoria del nuovo
regime anche alla recidiva, perché applichiamo, come è stato appena ricordato
dal prof. Frigo, l’Art. 2 comma 3, quindi la situazione più favorevole anche nel
regime della recidiva. Questa è una cosa sicura.
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La contestazione è pacifica, sono assolutamente d’accordo, secondo me è
sufficiente la contestazione classica. Io non me la farei tanto cauta con i
recidivi, perché se continuiamo a difenderli, come state facendo, ad un certo
punto difenderemo i mafiosi e poi i terroristi. La recidiva esiste - faccio una
questione di merito -; se cominciamo a contestare la recidiva non possiamo
parlar male della recidiva come tale se prima non esaminiamo il grande istituto
che è la pericolosità sociale. Siccome la pericolosità sociale nessuno la vuole
togliere - e anche il tentativo del collega Nordio con l’ultimo codice è partito
che la voleva eliminare e poi ci sono ricapitati dentro - non possiamo escludere
la recidiva tenendo la pericolosità sociale, la recidiva è una componente
essenziale della pericolosità. Quindi è un discorso che va rimeditato tutto intero
per arrivare al cosiddetto diritto penale del fatto. Oggi non c’è mai stato il diritto
penale del fatto anche in prima, dal 1930 in su, quindi non vedo perché
dovremmo averlo oggi, perché il signor Cirielli si è sognato di mettere questa
recidiva in questo modo.
Un altro punto sul quale siamo stati assolutamente d’accordo riguarda
l’abbreviato e credo non ci sia bisogno di fare il passaggio che ha fatto adesso il
prof. Frigo: l’abbreviato si applica quando certamente la Cirielli è più
favorevole, perché la legge secondo me fissa la cesura al momento dell’apertura
del dibattimento; se devo essere sincero questa legge mi sembra assurda da
questo punto di vista, perché l’unico momento rilevante per fissare un
diaframma tra prima e dopo sarebbe stato l’esercizio dell’azione penale e
nient’altro, ma in ogni caso prendiamocela così com’è.
Un punto invece che non ho capito, che speravo di capire, ma continuo a non
capire, non è stato detto niente qui e noi Procuratori ci siamo azzannati per circa
un’ora per cercare di capirci qualcosa e non ci siamo riusciti e il dubbio che ho
ve lo rimbalzo, visto che il prof. Melchionda non mi ha risposto: c’è un
misterioso comma che se qualcuno si alza e mi dice che è così gli sarò grato e
gli offro anche la cena! Proprio in tema di prescrizione. Quando per il reato la
legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e pecuniaria si applica il
termine di tre anni. Che significa questo comma misterioso? Allora, siccome
l’unica possibile interpretazione è quella di Melchionda e riguarda i reati del
Giudice di Pace, io per lo meno l’ho sostenuto, ma per esempio Calogero mi ha
dato addosso, perché secondo lui è una cosa inapplicabile e c’è quello della
Guida del Diritto che sostiene essere assolutamente inapplicabile, e c’è stato
ricorso in Cassazione a Padova perché si dice che questo è inapplicabile. In
realtà non è applicabile, almeno per come la vedo io - è una proposta, non sono
affatto sicuro di ciò che dico -: in realtà se procedo davanti al Giudice di Pace
ad esempio per lesioni, per diffamazione o altro, non posso applicare questo
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termine di tre anni, perché la prescrizione è quella ordinaria, è la prescrizione di
quel reato fino a quando? Questo è il punto in cui il dubbio nasce e diventa
gigantesco: fino a quando il Giudice di Pace decide per ragioni sue che non
applica la reclusione o la pena pecuniaria, ma decide di applicare la permanenza
domiciliaria o il lavoro di pubblica..
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Sarebbe l’unico caso di prescrizione vincolato dalla consumazione del reato.
DOTT. ENNIO FORTUNA
Allora le alternative, il corno del dilemma è doppio: o applichiamo la
prescrizione triennale che ci dà il nuovo Art. 157, decorrendo dal momento del
commesso reato come apparentemente, solo apparentemente secondo me,
perché questa pena nasce nel momento della condanna.
AVV. ANTONIO FRANCHINI
È una causa di estinzione del delitto, per cui è solo dal momento della
consumazione.
DOTT. ENNIO FORTUNA
Che c’entra questo? Ma in tre anni possono essere passati, ne possono essere
passati cinque di anni, non tre. Quindi bisogna chiederci se questi tre anni
significa e da che momento significa. Lascio qui il dubbio, perché sono sicuro
che non riusciamo a risolverlo.
Vengo alla questione sua, che è certamente capitale, ed è la questione sulla
quale ci siamo molto accapigliati: come interpretare il nuovo 576. Che significa
che la sentenza è eseguibile se è stata applicata la recidiva ex Art. 99 comma
quarto e per questo si nega la sospensione? Abbiamo centinaia di condannati in
questa situazione. Cosa abbiamo fatto nella riunione? Non so se abbiamo detto
giusto: sembrerebbe che la condanna fosse eseguibile, può non piacere la
conclusione, ma secondo me è esatta, perché è una norma processuale e quindi
tempus regit actum, è immediatamente applicabile. Ci possiamo trovare però
ancora una volta con una recidiva ex Art. 99 comma quarto, applicata prima. Il
problema è di condanne precedenti all’8 dicembre. Questo abbiamo detto, può
darsi che abbiamo sbagliato, ma è una cosa molto importante: se le condanne
precedenti all’8 dicembre coincidono nel regime con l’Art. 99, testo attuale,
diciamo che applichiamo tutta la condanna così com’è e neghiamo la
sospensione; se, viceversa, per caso, il regime del 99 comma quarto tiene conto
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per esempio di delitti dolosi oppure di contravvenzioni, non l’applichiamo,
perché torniamo un’altra volta all’Art. 2 comma 3, tutto qua.
È molto confortante la riunione di questa sera, perché ho visto che al
novantanove per cento le soluzioni coincidono.
AVV. ELIO ZAFFALON
E una volta sola?
DOTT. ENNIO FORTUNA
È lo stesso concetto di prima: si applica il regime coincidente.
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Siamo d’accordo al novantotto per cento, però sulla contestazione della recidiva
è un punto grave. Non è una crociata sulla recidiva, è che il principio della
contestazione deve pervadere l’ordinamento in ogni contestazione anche delle
circostanze e quindi non si vede perché per la recidiva basti dire: recidivo
specifico nel quinquennio. Non voglio una risposta.
DOTT. ENNIO FORTUNA
C’è una risposta molto più importante. Parliamo tanto di recidiva e di
contestazione della recidiva; nessuno sa e nessuno dice o ammette che non
siamo in condizioni di applicare la recidiva come pretendete voi e come
vorremmo che fosse, per una ragione semplicissima: abbiamo il casellario in
ritardo. Le cose vanno dette, perché io non ho nessuna tenerezza per i recidivi,
visto che me lo chiedete, nessuna proprio, e tutto sommato nella Cirielli
l’aspetto recidive andrebbe anche bene, però giustamente qui si domanda: che
ne facciamo di tutti questi condannati, dove li mettiamo? Il carcere è uno
scandalo, sono il primo a dirlo, quindi questa legge impatterà contro una
situazione assolutamente impossibile e anche per la recidiva, non so negli altri
distretti, ma qui in qualche cosa siamo con circa tre anni di ritardo. Quindi le
contestazioni della recidiva corrette come le volete credo che siano impossibili
AVV. ANTONIO FRANCHINI
Non posso credere che un garantista come te possa far cedere il passo sul
principio della contestazione perché i casellari non funzionano. Cercheremo noi
di fare del nostro meglio!
C’è qualche domanda da parte di qualcuno o qualcuno che vuole intervenire?
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AVV. MARINO DE FRANCESCHI
Purtroppo una sola volta nei confronti del recidivo reiterato: solo in fase di
concessione o anche in fase di eventuale estensione, 51 bis? Chiarisco la
domanda. Semplicemente: voi sapete che se un detenuto è sottoposto a una
misura alternativa e interviene un altro titolo il Magistrato di sorveglianza può
estendere la misura ad altro titolo. Se costui è recidivo, nel momento in cui la
norma parla di “concessione”, al recidivo reiterato non può essere concesso più
di una volta, cosa succede? A me risulta che debba essere estesa anche in forza
di una sentenza della Cassazione che riguardava l’estensione del 94 Legge
Stupefacenti e posso dire che sembra che il Tribunale di Sorveglianza di
Venezia sia orientato in questo senso. Volevo fare una domanda al dottor
Fortuna, anche perché ci interessa molto qual è l’orientamento della Procura,
perché ci dobbiamo confrontare con il 656: deduco che la recidiva non rileva
come situazione in fatto, ma dev’essere contestata e applicata dal Giudice; devo
dedurne anche che la recidiva deve riguardare il titolo in esecuzione? Non è che
uno che è stato dichiarato recidivo con un’altra sentenza può vedersi preclusa la
sospensione..
DOTT. ENNIO FORTUNA
Il Dottor Calogero sostiene che la recidiva, anche se non fosse stata contestata o
fosse contestata male, se c’è stato il giudicato, se per caso erroneamente il
Giudice avesse detto che c’era la recidiva e non c’è, e poi la sentenza è passata
in giudicato, purtroppo è pollice verso. Io francamente avrei qualche dubbio,
perché viene fuori una questione di incostituzionalità, però..
AVV. ANTONIO FRANCHINI
C’è qualcun altro che vuole intervenire, fare domande, porre quesiti?.. No.
Allora io vi ringrazio per l’attenzione, ringrazio i nostri relatori per le bellissime
relazioni e la nostra Commissione di studio per il lavoro svolto.
Per tradizione al Camera Penale Veneziana dà un segno ai relatori per la loro
partecipazione.
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Gli atti del seminario sulla legge "ex Cirielli"