Pedagogia:
Gli anni Ottanta sono stati, per la pedagogia
italiana, un periodo di intenso fermento
epistemologico, sociale e cognitivo. Sono stati gli
anni che hanno visto la pedagogia attraversata da
nuove esigenze formative, nuovi orientamenti
politici e sociali e anche nuovi soggetti in
formazione. Tre sono stati, in particolare, i vettori
che hanno innervato il sapere pedagogico: quello
del femminismo, il vettore legato all’emergenza
ecologica, e quello relativo alle problematiche
multiculturali
• Dal fermento epistemologico e sociale
che ha innervato il sapere pedagogico a
partire dagli anni Ottanta, ciò che
emerge è una sorta di apertura dei molti
paradigmi dell’educazione convergenti,
tutti, verso un’unica frontiera, la
formazione della persona e l’educazione
come elemento chiave per
l’emancipazione
• La persona di oggi come osserva
Umberto Galimberti, deve essere una
sorta di “viandante” che non fa del
“diritto” il suo punto di riferimento, bensì
guarda all’esperienza perché, a differenza
dell’uomo moderno che ha le sue
certezza nella solidità delle istituzioni e
nella legge, il “viandante” vive
realizzando quotidianamente e in tutti gli
ambiti della vita la diversità
dell’esperienza
Nell’ottica galimbertiana la figura del
viandante senza meta e senza punti di
riferimento precisi, con la sua etica
“nomade” che si nutre di relativismo e
che esalta le differenze, può diventare il
punto di riferimento dell’umanità
dell’oggi. Cfr., U. Galimberti, Parole
Nomadi, Milano, Feltrinelli, 2006.
• Matilde Callari Galli nel suo Lo spazio
dell’incontro sottolinea la necessità, per
l’individuo che abita la società della
Complessità, di abbattere le molte barriere e
dicotomie tipiche della cultura occidentale che
non fanno altro che ridurre la complessità
della vita sociale invece di esaltarne le
differenze. E’ necessario, allora, promuovere
una cultura dell’incontro, un incontro inteso
come spazio etico, sociale e pedagogico che
deve farsi promotore di relativismo culturale e
differenza Cfr., M. Callari Galli, Lo spazio
dell’incontro, Roma, Meltemi, 1996.
• Questa visione di “nuova universalità”
è possibile grazie all’educazione e alla
valorizzazione delle “molte voci della
diversità” che andranno a convergere
in quell’ideale di uomo, animato da un
pensiero critico e complesso, libero da
stereotipi e aperto al confronto con
l’Altro.
•
• Comunicazione:
• In termini educativi e pedagogici, questo
viaggio alla scoperta del valore della
differenza, del pluralismo, dell’apertura
all’universo delle possibilità, significa
aspirare alla costruzione di quelle
dimensioni formative la cui complessa
trama è tenuta insieme dai fili della
dialettica del confronto, dello scambio,
del rifiuto di qualsiasi forma di
dogmatismo e di logiche conformatrici
• a favore di modelli educativi e
formativi che spostino l’attenzione
dal soggetto all’intersoggettività, in
quanto il soggetto si costruisce e si
riconosce nel dialogo, nel confronto
e nella comprensione poiché
l’individuo come monade diviene
solo una astrazione priva di senso.
• Il mondo dell’educativo in generale e il sapere
pedagogico in particolare, potrebbero
attingere nuovi spunti di riflessione proprio da
questa sorta di “nuovo pensare” che per
essere tale, cioè “nuovo” e attento alle varie,
complesse e problematiche dimensioni della
persona, deve prendere in considerazione la
dimensione pedagogica del soggetto
relazionato e dell’educazione alla
comunicazione Cfr., E. Ducci, Essere e
comunicare, Anicia, Roma 2003.
• Una formazione così intesa deve rispecchiarsi
in una persona riconsegnata alla vita con le
sue ombre, con i suoi vuoti della coscienza,
con la sua forma di esistenza mancata, ma per
proprio per questo motivo aperta alla
possibilità, agli stimoli di un progetto
educativo che per sottrarre la persona stessa
al rischio dell’alienazione e dell’assurdità
dell’esistere, deve spingerla a realizzarsi nel
rapporto costruttivo con l’altro da sé, in una
dimensione di intersoggettività che tragga
sempre nuovi stimoli dalla dinamica della
circolarità.
• marginalità: quel vasto ambito di esperienze
di vita segnato dal disagio, quel contesto
esistenziale di forte estraneità rispetto ai
processi sociali, culturali e politici delle società
organizzate, quegli spazi educativi in cui si
riscontrano i conflitti della società, al fine di
intervenire con particolari strategie forse
diverse dalle tradizionali vie educative, spesso
insufficienti a garantire il completo sviluppo
delle dimensioni della persona, del suo
esistere.
• Secondo Franco Basaglia la psichiatria
classica, ufficiale, doveva mettersi da
parte e riconoscere di aver fallito il suo
compito: curare e accogliere i soggetti
sofferenti che, invece di cure, erano
stati rinchiusi nell’unica dimensione
ritenuta adatta alla loro condizione di
diversi: l’emarginazione e la
segregazione.
• La psichiatria ufficiale aveva finito con il
sostenere quel processo di esclusione
del “malato mentale” imposto da un
sistema politico certo di poter negare ed
annullare le proprie contraddizioni
allontanandole da sé, emarginandole,
rifiutandone la dialettica, per potersi
distinguere ideologicamente come una
società senza contraddizioni.
La formazione è un concetto complesso e
problematico perché la questione educativa
che si pone è quella della persona, del
soggetto che si vuole formare, ma anche
del soggetto che si forma, si con-forma, si
de-forma. La formazione è, altresì, un
processo concreto, co-implicato nella prassi
umana e che comprende anche azioni ed
eventi che incidono sulla crescita
ontologica a biopsichica del soggetto.
.
• La problematicità strutturale di questa
categoria, la si può evincere dall’
osservazione che la formazione è sia il
risultato del tempo storico in cui la
persona vive, sia il risultato mai compiuto
di azioni intenzionali e di eventi che si
sottraggono alla volontà del soggetto
Rita Fadda ha osservato come la formazione scorra
parallela alla vita dell’uomo; finchè e dove c’è
vita c’è anche formazione.
“La nostra vita - scrive la Fadda - è punteggiata da
eventi che incidono su di noi, che lasciano un
segno, che ci formano (…). La nostra storia di
formazione ha inizio con un evento per
antonomasia qual è la nascita. Evento in quanto
noi non abbiamo scelto nulla: non lo spazio (il
dove) non il tempo (il quando), non abbiamo
scelto i genitori, non le caratteristiche genetiche e
soprattutto non abbiamo scelto di nascere”
Romano Guardini considera il nascere come la
risultante di una serie di incontri casuali tra i
nostri genitori, tra i genitori dei nostri genitori
in una catena che si perde nel tempo. Così
facendo sembra “attenuare” il concetto di
“caso” dalla nascita introducendo un
elemento rassicurante e consolatorio: persona
si sono incontrate, forse amate, forse volute e
accolte; anche noi a nostra volta incontreremo
qualcuno che ci amerà e che ameremo e così
via.
• In tale senso, invece dell’idea del mero
essere gettati, che evoca la solitudine, la
passività e la disumanità del nostro mero
accidente, si possono introdurre,
all’origine del nostro venire al mondo, gli
elementi umani e non casuali dell’amore,
della volontà, dell’accoglienza e della
cura.
Potremmo anche dire che c’è qualcosa di non casuale
nella assoluta casualità del nostro nascere, in
quanto veniamo al mondo in virtù di qualcosa che ci
precede e che può essere una passione, un gesto,
una volontà.
Appena venuti al mondo ci troviamo immessi in una
rete di relazioni e di reciprocità.
Heidegger afferma che l’essere umano è “il nonancora”; l’incompletezza è la sua caratteristica
fondamentale. Questo “non-ancora” altro non è che
il processo formativo, che è senza fine.
Ogni persona assume quella forma, che è unica e
irripetibile. Perciò l’identità, la forma, quella
forma che ci differenzia da ogni altro uomo, non
è qualcosa che si acquisisce una volta per tutte e
in cui ci si ferma, ma piuttosto ciò di cui
continuamente andiamo alla ricerca. La persona
è apertura, progettualità, capacità di intendersi e
comunicare con l’altro, vivere nella società
facendo propri, criticamente, cultura e
tradizione; è affettività, cognitività, anima e
corpo.
L’evento-morte è per la persona, gravida
di significato pedagogico e formativo. A
formarci non è la nostra morta, estrema
esperienza della nostra vita, ma l’idea
che di essa ci facciamo, il modo di
concepirla, di pensarla e di dirla.
Nessuno sfugge all’idea della morte
neanche quando la nega, la ignora, la
rimuove. Si può dire che tutti quanti noi
siamo formati in qualche modo alla e
dalla idea della morte.
• Odo Marquard in Apologia del caso ha scritto
“Il caso che ci coglie nella maniera più carica
di destino e più dura, a meno che non lo si
consideri come la consolazione del non
dovere continuare all’infinito con i nostri
volteggi, è la nostra morte. Dalla nascita, per
un caso del destino, noi siamo condannati a
morte, vale a dire a quella brevità della vita
che non ci lascia il tempo di liberarci a nostro
piacere di ciò che per caso già siamo”.
L’idea espressa in questo passo, che noi uomini siamo
più i nostri accidenti che la nostra scelta, non è da
considerarsi una sfortuna dal momento che il caso è
la nostra normalità storica, condizionata dalla
mortalità.
Jankélévitch in La mort scrive:
“La morte dà forma alla vita. In ciò consiste la
doppiezza del limite: nel dire insieme si e no, e cioè
nel rifiutare affermando e nell’affermare
rifiutando, in quanto il termine diventa ciò che
determina e il limite risulta parte integrante della
forma”.
La morte è l’altra faccia della vita.
Vero è che nella morte dell’altro si annuncia la nostra
morte e porta via una parte di noi, tutta quella
parte di noi che gli appartiene; muore tutto un
universo di possibilità. Perciò noi sperimentiamo la
morte come perdita in tutto il corso della nostra
vita: in un obiettivo mancato, in un desiderio
inappagato, in un amore finito o mai cominciato, in
una malattia, in un lutto. Ogni perdita rappresenta,
in qualche modo, una esperienza di morte. In ciò
consiste il nostro “ordinario morire”.
Su questo fatto che la morte può dare il
via ad un orizzonte di umanizzazione
della vita, concorda anche Ernesto de
Martino, che mette in luce il significato
della morte e dell’elaborazione di
questa nei riti e nei lamenti funebri
dell’antichità del cristianesimo, come
condizione della forza rigenerante della
cultura.
Di fronte al problema della morte di chi ci è caro,
abbiamo tre possibilità: dimenticarli e farli
morire in noi, farli rivivere continuando la
loro opera, perdere noi stessi morendo con
colui che muore. Ma questo è il rischio di chi è
disarmato di fronte al dolore e alla
disperazione e non riesce a riportare la morte
da mero fatto naturale a elemento di cultura,
di civiltà, di valore.
Forse in tale senso, la morte è la “silenziosa
compiutezza della vita”. La vita senza la morte
sarebbe come un’opera incompiuta.
Ancora sul tempo storico: L’avvento della società della
comunicazione.
La comunicazione umana avviene su tre livelli:
• a)verbale, ovvero il contenuto della comunicazione:
• b) paraverbale, ovvero il tono, il ritmo della voce,
l’emissione dei suoni, la pronuncia;
• c) non-verbale, ovvero gli atteggiamenti posturali, la
mimica facciale, la gestualità, la gestione della distanza
dagli altri (la prossemica). Accade spesso che questi tre
livelli non siano in sintonia tra di loro. Ad esempio, se nel
corso di una conversazione dico al mio interlocutore che
lo sto ascoltando ma il mio sguardo si perde nel vuoto, si
palesa una contraddizione la tra mia comunicazione
verbale e quella non verbale.
• La mimica facciale: La faccia è il più importante
canale della nostra espressività. Pensiamo ai segnali
involontari e difficilmente controllabili come il
dilatarsi delle pupille, i cambiamenti di colore
dell’epidermide. Ancora, il linguaggio degli sguardi,
una delle forme principali attraverso cui gli individui
prendono contatto gli uni con gli altri.
• Gli atteggiamenti posturali: il modo con cui gli
individui si muovono, gestiscono il proprio corpo
rappresenta una fonte di segnali analogici. La
conformazione della struttura corporea è il risultato
del patrimonio genetico, ma è anche vero che il
corpo stesso è modellato dall’uso che ne facciamo
• La prossemica:(E.T. Hall) letteralmente vuol dire
“linguaggio della prossimità”. Si intende il modo che
abbiamo di gestire lo spazio che ci circonda in presenza di
simili. Gli esseri umani, come gli animali, sono
estremamente sensibili all’uso che dello spazio fanno i
propri simili e ai messaggi relazionali che tale uso veicola.
Per comprendere queste dinamiche, immaginiamo lo spazio
prossemico all’interno del quale si muovono gli individui,
come costituito da sfere concentriche di natura psicorelazionale, aventi come centro il corpo
Nel primo livello, il più prossimo al corpo, vi è lo spazio
intimo. Tale spazio si estende fino a 50 cm dal corpo.
Questa prima sfera relazionale è quella maggiormente
carica di valenze affettive e psicologiche. Solo le persone di
cui ci fidiamo davvero possono entrare in questa sfera. Solo
i familiari più stretti, il partner sono “ammessi”. L’invasione
dello spazio intimo da parte di soggetti non autorizzati
viene vissuta istintivamente come una minaccia e attiva
una serie di meccanismi di difesa sia fisiologici che
coscienti. Il disagio di chi utilizza una metro affollata, dove i
corpi sono schiacciati gli uni con gli altri, è da ricondursi ad
un riflesso fisiologico di difesa. La non intenzionalità della
situazione fa si che il disagio sia relativamente modesto.
• . Ad un secondo livello si pone lo spazio personale che
inizia dove finisce lo spazio intimo e termina a circa un
metro di distanza dal corpo. Si indica con questo, lo spazio
entro cui lasciamo entrare le persone intime verso cui
riponiamo una certa fiducia ma non tanto da consentire
loro di entrare nello spazio intimo. Dopo vi è lo spazio
sociale . vi rientrano le persone che non ci coinvolgono
affettivamente, i colleghi di lavoro, i conoscenti.
• Oltre lo spazio sociale, si estende lo spazio pubblico che è
la distanza che un soggetto parlante tende a tenere
quando, di solito, il pubblico è numeroso. E’ il caso
dell’insegnante che parla in aula, dell’avvocato che tiene
un’arringa.
• Chi è l’Altro.
• La “diversità” rende l’Altro a prima vista
interessante e coinvolgente ma può
anche, a causa di questa forte carica di
differenza, “spaventare” ed essere
vissuto come pericolo. In tale senso, è
l’insicurezza verso la propria identità che
fa sentire debole l’individuo dell’oggi, per
cui finisce con il vivere l’illusione che
rifiutando il diverso, aggredendolo, può
darsi una sorta di identità forte.
• la paura dell’alterità, di un universo
di valori, credenze e modi di vita
diverso da chi, invece, si percepisce
in uno stato di presunta normalità, è
direttamente proporzionale
all’incapacità che ha l’individuo
moderno di controllare la propria
vita, dato che vive una identità
instabile e complessa.
• “Il desiderio dell’altro e di altri è sempre
attivo, perché inscritto nella socialità
dell’umano, ma esso appare meraviglioso e
intollerabile insieme, perché se è vero che può
aprirci altri orizzonti, è altrettanto vero che
può anche rischiosamente minacciare le
nostre identità”.
• A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione.
Paradigmi e intersezioni.
• Il progetto educativo e pedagogico, per dirsi
tale, deve nascere dall’idea che la ricchezza
dell’incontro con l’Altro non risiede nella
“sintesi” di due alterità, ma nell’irriducibilità
dell’alterità, nel “non sintetizzabile”. In questa
prospettiva ben si inserisce il pensiero di
Emmanuel Lèvinas quando dice che l’altro
gioca un ruolo di realtà irriducibile Cfr., E.
Lèvinas, Totalità e infinito (1961), Jaca Book,
Milano 1980.
• L’esperienza esistenziale dell’alterità,
si realizza concretamente
nell’incontro con l’Altro, fuori dal
cerchio magico dell’interiorità.
Questa idea del non sintetizzabile
per Lèvinas, si attua nella
dimensione pratica del faccia a
faccia; l’alterità è, dunque, il volto
che si autoimpone di per sé.
• Lévinas riflette su come la società occidentale
abbia posto ai margini la dimensione della
molteplicità in nome della totalità unitaria,
sminuendo l’Alterità e riducendola “a un
soggetto rivolto verso se stesso (…) a un
soggetto che si definisce così per la cura di sé
e che nella felicità attua il suo per sé”; a tutto
questo Lèvinas oppone “il desiderio dell’Altro,
che non sono né il mio nemico (…), né il mio
“complemento”. (…) Il desiderio degli Altri
nasce in un essere che non manca di nulla o,
più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che
potrebbe mancargli o appagarlo”.
• Gianni Vattimo riconduce la fine della modernità
ad alcuni momenti fondamentali e tra questi
l’avvento della società della comunicazione. Il
postmoderno è dunque un modo di guardare alla
realtà che si apre alle differenze, a tutto ciò che
non è più riconducibile ad un unico elemento
legittimante. In questo senso, <<radio,
televisione, giornali sono diventati elementi di
una generale esplosione e moltiplicazione di
Weltanschauungen, di visioni del mondo>>.
Questa vertiginosa moltiplicazione della
comunicazione, che porta alla ribalta
dell’opinione pubblica sub-culture di ogni genere,
è l’effetto più evidente prodotto dai media.
• Questa sorta di “prodotto” dei media, questa
“liberazione delle molte culture”, questa
pluralizzazione di punti di vista e di
riferimento, male si adattano ad un’idea
“unitaria” di storia. La realtà che oggi viviamo
è il risultato dell’incrociarsi delle molteplici
interpretazioni, immagini, punti di vista, che i
media contribuiscono a creare e, perciò, priva
di una “coordinazione” centrale. Nell’odierna
società della comunicazione, si fa spazio un
ideale emancipativo basato sui concetti
dell’“oscillazione” e della “pluralità”.
• Questa liberazione delle differenze, degli
elementi locali, è ciò che potremmo
chiamare, complessivamente, il dialetto.
Vattimo sostiene che il senso
emancipativo di questa liberazione dei
“dialetti” consiste in un reciproco effetto
di spaesamento e identificazione
• “spaesamento, che è anche, e nello stesso
tempo, liberazione delle differenze, degli
elementi locali, di ciò che potremmo chiamare,
complessivamente, il dialetto. Caduta l’idea di
una razionalità centrale della storia, il mondo
della comunicazione generalizzata esplode come
una molteplicità di razionalità “locali” minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o
estetiche - che prendono la parola, finalmente
non più tacitate e represse dall’idea che ci sia
una sola forma di umanità vera da realizzare, a
scapito di tutte le peculiarità, di tutte le
individualità limitate, effimere, contingenti>>
• <<Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un
mondo di dialetti, sarò anche consapevole
che esso non è la sola “lingua”, ma è appunto
un dialetto tra gli altri. Se professo il mio
sistema di valori -religiosi, estetici, politici,
etnici - in questo mondo di culture plurali,
avrò anche un’acuta coscienza della storicità,
contingenza, limitatezza, di tutti questi
sistemi, a cominciare dal mio>
• Dominique Wolton che in una intervista
pubblicata su Nuova Umanità n.165/166maggio-agosto 2006) ha dichiarato: “Con la
globalizzazione ci si accorge che si possono
inviare suoni, immagini, radio e televisione su
Internet, e che il mondo è un piccolo villaggio
globale; ma in esso gli uomini non si
comprendono ancora. E ciò conferma quanto
dicevo sopra: per inviare delle informazioni
nel mondo intero bisogna che ci sia "prima”la
comunicazione.
• La richiesta che ci giunge dalla globalizzazione,
quindi, è quella di rispettare l’Altro - in scala
più vasta, ovviamente -, il che vuol dire
riprendere i valori della democrazia, scoprire
la mancanza di comunicazione - perché ci si
accorge che la relazione tra culture, lingue,
popolazioni e cose non funziona -, e costruire
la coabitazione. In fondo, l'orizzonte della
globalizzazione è la costruzione di una
coabitazione culturale a livello planetario.
• Riconoscere la diversità culturale ed evitare
che essa si riduca a una difesa miope delle
identità comunitarie, una volta posto il
principio della diversità, richiede di capire
come organizzare tale diversità. È la
coabitazione culturale, che rinvia alla semplice
coabitazione umana, che a sua volta ritorna
alla comunicazione: cioè, come coabitare,
come comunicare e come rispettarsi quando
non si hanno gli stessi valori?
• Se non si trattano politicamente e
democraticamente i problemi della
comunicazione e della cultura a livello
globale, la mia ipotesi è semplice:
andiamo dritti verso lo scontro delle
civiltà. La mia battaglia è perciò semplice:
prima di arrivare allo scontro, cerchiamo
di organizzare la coabitazione. Cioè
comunichiamo”
• “Si dice che il minimo battito d’ali di una
farfalla sia in grado di provocare un uragano
dall’altra parte del mondo”.
• Se si potesse pensare di vivere “diverse” vite, il
percorso emotivo/esperenziale cambierebbe.
Rifletti su un evento significativo della tua vita
pensando a come sarebbe andata la tua vita,
se avessi fatto una scelta diversa.
• “Forse il manicomio si apre per questo, perché il vero peccato
mortale per gli uomini è la libertà. Sul nostro tetto non
viaggiavano gli operai come su casa mia. Ci ignoravano del
tutto e questo per loro era un grande ossequio alla malattia
mentale, che voleva dire un grande menefreghismo. Tanto
che io non parlavo più. Ho imparato a parlare anni dopo. Al
manicomio ci tenevano puliti. Allora poi siamo usciti, ci
siamo sporcati con la terra, ci siamo cosparsi il volto e il
corpo perché per dodici anni eravamo vissuti al chiuso,
sognando di poter toccare, le rose, l’erba. Eravamo di nuovo
liberi di vivere sporchi”.
• A. Merini, La nera novella.
• Chi è l’Altro.
• Uno degli interrogativi che da sempre anima il
dibattito filosofico e pedagogico riguarda la
relazione tra l’io e l’altro: chi è l’io? Chi è
l’altro? Come entrano in relazione?
• Riflettendo sull’io e sull’altro il primo pensiero
è che questi sono estranei in modo reciproco
che esiste, cioè, tra loro una profonda e
inevitabile distanza; senza questa distanza l’io
non sarebbe io e l’altro non sarebbe altro, non
sarebbero, cioè, in grado di distinguersi.
• Ma nonostante questa distanza, necessaria
tuttavia affinché l’io e l’altro entrino in
contatto, affinché in un certo senso si
riconoscano, l’io e l’altro sembrano essere
legati da una relazione originaria, una
relazione che in qualche modo li precede.
• In altri termini, l’io e l’altro sembrano entrare
in relazione perché esiste qualcosa che li
precede e che fa sì che la distanza che esiste
tra i due si abbrevi; questo qualcosa potrebbe
essere il linguaggio?
• A prescindere se sia l’Io a fondare
l’Altro o viceversa, il punto in
questione è che all’origine non si
danno l’Io e l’altro come separati,
ma all’origine c’è la relazione,
ovvero una dualità, un noi.
• La “diversità” rende l’Altro a prima vista
interessante e coinvolgente ma può
anche, a causa di questa forte carica di
differenza, “spaventare” ed essere
vissuto come pericolo. Forse è
l’insicurezza verso la propria identità che
fa sentire debole la persona, per cui la
persona finisce con il vivere l’illusione
che rifiutando il diverso, aggredendolo,
possa darsi una sorta di identità forte.
• la paura dell’alterità, di un universo
di valori, credenze e modi di vita
diverso da chi, invece, si percepisce
in uno stato di presunta normalità, è
direttamente proporzionale
all’incapacità che ha l’individuo
moderno di controllare la propria
vita, dato che vive una identità
instabile e complessa.
• “Il desiderio dell’altro e di altri è sempre
attivo, perché inscritto nella socialità
dell’umano, ma esso appare meraviglioso e
intollerabile insieme, perché se è vero che può
aprirci altri orizzonti, è altrettanto vero che
può anche rischiosamente minacciare le
nostre identità”.
• A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione.
Paradigmi e intersezioni.
• P. Fèdida in Umano/Disumano si interroga sul
concetto di disumanità che emerge nei casi in
cui l’Io non ha più la possibilità di riconoscere
l’Altro: “è il sentimento di un decadimento,
quando il volto, le parole, la voce, le stesse
possibilità di riconoscere le reazioni dell’Altro,
cominciano a disfarsi”. Caso emblematico di
disumanità è la Shoa. Il regime nazista non
voleva solo uccidere gli ebrei ma cancellare,
far scomparire tutte le tracce.
• Per Fèdida il punto essenziale è costruire,
non ricostruire perché se la relazione si
interrompe, se l’Io non ha più la
necessità di riconoscere l’Altro, se arriva
al punto di non riconoscere più neanche
se stesso, se perde il volto, la parola, la
voce,se l’lo fa l’esperienza dolorosa della
disumanità, allora è chiaro che questa
esperienza non deve essere ricostruita.
• Bisogna restituire l’umanità alla persona.
Tramite la relazione e il linguaggio. l’Altro
offre costantemente all’Io la possibilità di
colmare la distanza che li separa. In un
certo senso l’Altro offre costantemente
all’Io la possibilità di colmare la distanza
che li separa. L’altro è sempre in grado di
guarire l’Io.
• Dopo l’orrore della disumanità, l’Io ridiventa
umano se riconosce l’Altro come simile, se
comprende che anche l’Altro prova gioia,
tristezza, infelicità, dolore. La disumanità
consiste nell’andare oltre l’umano, andare
verso ciò che è radicalmente dissimile,
impossibile riconoscere. “Distruggere,
demolire un uomo significa che le apparenze
che consentivano il riconoscimento sono
disfatte. Nella nostra esperienza, le apparenze
sono il volto, , lo scambio tra volti, lo scambio
di un gesto.
• La demolizione di un uomo è rendere
impossibile il far esistere l’umanità al suo
livello essenziale, che è quello
dell’apparenza. L’apparenza restituisce il
simile”.
• Ma cosa avviene di così angosciante
nell’incontro con l’Altro?L’ Altro è
radicalmente estraneo, è imprevedibile;
letteralmente potrebbe fare qualsiasi
cosa, fino ad arrivare ad uccidere l’Io.
• La paura di fronte all’Altro diventa
angoscia di fronte al non conosciuto.
Entra il gioco l’empatia che per Fèdida ha
a che fare più con l’ascolto che con la
comprensione. Ascoltare l’Altro vuol dire
parlare con l’Altro: è tramite la
dimensione del linguaggio che l’Io tocca
l’Altro e viceversa. “La parola tocca,
dispone di una capacità di contatto. La
parola è contatto”.
E. Levinas.
• L ’Altro è infinitamente Altro, si trova su
un piano asimmetrico rispetto all’Io (se
fossero sullo stesso piano si
fonderebbero) e pertanto non è
riconducibile neanche alle categorie
dell’essere. L’Altro non è. L’Altro non si
lascia catturare ma precede il costituirsi
stesso della soggettività: l’Altro fonda l’Io.
• L’Alterità è costitutiva della soggettività: non
ha importanza che l’Io incontri l’Altro, che
acconsenta o rifiuti l’Altro in quanto l’Altro lo
riguarda e viene prima dell’io. Inquietudine
dell’Altro vuol dire che l’Io è da subito
inquietato dall’Altro che lo precede e lo
costituisce. La radicalità del pensiero di
Levinas sta appunto nell’impossibilità di
ricondurre l’Altro al piano ontologico dell’io,
perché sarebbe come uccidere la sua alterità.
• L’incontro con l’Altro non risiede nella
“sintesi” di due alterità, ma nell’irriducibilità
dell’alterità, nel “non sintetizzabile”. L’altro
gioca un ruolo di realtà irriducibile
• L’esperienza esistenziale dell’alterità, si
realizza concretamente nell’incontro con
l’Altro, fuori dal cerchio magico
dell’interiorità. Questa idea del non
sintetizzabile per Lèvinas, si attua nella
dimensione pratica del faccia a faccia;
l’alterità è, dunque, il volto che si
autoimpone di per sé.
• Lévinas riflette su come la società occidentale
abbia posto ai margini la dimensione della
molteplicità in nome della totalità unitaria,
sminuendo l’Alterità e riducendola “a un
soggetto rivolto verso se stesso (…) a un
soggetto che si definisce così per la cura di sé
e che nella felicità attua il suo per sé”; a tutto
questo Lèvinas oppone “il desiderio dell’Altro,
che non sono né il mio nemico (…), né il mio
“complemento”. (…) Il desiderio degli Altri
nasce in un essere che non manca di nulla o,
più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che
potrebbe mancargli o appagarlo”.
• l’apertura per Lévinas è “non più l'essenza
dell’essere che si apre per mostrarsi, non è la
coscienza che si apre alla presenza aperta e
affidata a lei. L’apertura è il denudamento
della pelle esposta alla ferita e all’oltraggio.
L’apertura è la vulnerabilità di una pelle
offerta, nell’oltraggio e nella ferita, al di là di
tutto ciò che si possa mostrare, al di là di tutto
ciò che dell’essenza dell’essere possa esporsi
alla comprensione e alla celebrazione
•
Nella sensibilità si pone allo
scoperto, si espone un nudo più
nudo di quello della pelle che,
forma e bellezza, ispira le arti
plastiche: nudo di una pelle offerta
al contatto alla carezza che sempre
- persino equivocabilmente nella
voluttà - è sofferenza per la
sofferenza dell’altro”.
• Romano Guardini.
• Uno dei valori ai quali deve tendere sempre lo
spirito è l’amore decentrante che fa si che la
persona avverta il valore dell’Altro, la sua
essenza profonda. Quando questo non accade,
quando cioè l’uomo non si apre all’universo
delle possibilità dell’Altro, lo spirito si ammala
poiché si ritrova concentrato solo su se stesso;
“l’esistenza si muta in carcere. Tutto si rinserra.
Le cose opprimono. Ogni realtà diviene
estranea e nemica nell’intimo. Sparisce il senso
ultimo, evidente. L’essere non fiorisce più”.
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