Pedagogia: Gli anni Ottanta sono stati, per la pedagogia italiana, un periodo di intenso fermento epistemologico, sociale e cognitivo. Sono stati gli anni che hanno visto la pedagogia attraversata da nuove esigenze formative, nuovi orientamenti politici e sociali e anche nuovi soggetti in formazione. Tre sono stati, in particolare, i vettori che hanno innervato il sapere pedagogico: quello del femminismo, il vettore legato all’emergenza ecologica, e quello relativo alle problematiche multiculturali • Dal fermento epistemologico e sociale che ha innervato il sapere pedagogico a partire dagli anni Ottanta, ciò che emerge è una sorta di apertura dei molti paradigmi dell’educazione convergenti, tutti, verso un’unica frontiera, la formazione della persona e l’educazione come elemento chiave per l’emancipazione • La persona di oggi come osserva Umberto Galimberti, deve essere una sorta di “viandante” che non fa del “diritto” il suo punto di riferimento, bensì guarda all’esperienza perché, a differenza dell’uomo moderno che ha le sue certezza nella solidità delle istituzioni e nella legge, il “viandante” vive realizzando quotidianamente e in tutti gli ambiti della vita la diversità dell’esperienza Nell’ottica galimbertiana la figura del viandante senza meta e senza punti di riferimento precisi, con la sua etica “nomade” che si nutre di relativismo e che esalta le differenze, può diventare il punto di riferimento dell’umanità dell’oggi. Cfr., U. Galimberti, Parole Nomadi, Milano, Feltrinelli, 2006. • Matilde Callari Galli nel suo Lo spazio dell’incontro sottolinea la necessità, per l’individuo che abita la società della Complessità, di abbattere le molte barriere e dicotomie tipiche della cultura occidentale che non fanno altro che ridurre la complessità della vita sociale invece di esaltarne le differenze. E’ necessario, allora, promuovere una cultura dell’incontro, un incontro inteso come spazio etico, sociale e pedagogico che deve farsi promotore di relativismo culturale e differenza Cfr., M. Callari Galli, Lo spazio dell’incontro, Roma, Meltemi, 1996. • Questa visione di “nuova universalità” è possibile grazie all’educazione e alla valorizzazione delle “molte voci della diversità” che andranno a convergere in quell’ideale di uomo, animato da un pensiero critico e complesso, libero da stereotipi e aperto al confronto con l’Altro. • • Comunicazione: • In termini educativi e pedagogici, questo viaggio alla scoperta del valore della differenza, del pluralismo, dell’apertura all’universo delle possibilità, significa aspirare alla costruzione di quelle dimensioni formative la cui complessa trama è tenuta insieme dai fili della dialettica del confronto, dello scambio, del rifiuto di qualsiasi forma di dogmatismo e di logiche conformatrici • a favore di modelli educativi e formativi che spostino l’attenzione dal soggetto all’intersoggettività, in quanto il soggetto si costruisce e si riconosce nel dialogo, nel confronto e nella comprensione poiché l’individuo come monade diviene solo una astrazione priva di senso. • Il mondo dell’educativo in generale e il sapere pedagogico in particolare, potrebbero attingere nuovi spunti di riflessione proprio da questa sorta di “nuovo pensare” che per essere tale, cioè “nuovo” e attento alle varie, complesse e problematiche dimensioni della persona, deve prendere in considerazione la dimensione pedagogica del soggetto relazionato e dell’educazione alla comunicazione Cfr., E. Ducci, Essere e comunicare, Anicia, Roma 2003. • Una formazione così intesa deve rispecchiarsi in una persona riconsegnata alla vita con le sue ombre, con i suoi vuoti della coscienza, con la sua forma di esistenza mancata, ma per proprio per questo motivo aperta alla possibilità, agli stimoli di un progetto educativo che per sottrarre la persona stessa al rischio dell’alienazione e dell’assurdità dell’esistere, deve spingerla a realizzarsi nel rapporto costruttivo con l’altro da sé, in una dimensione di intersoggettività che tragga sempre nuovi stimoli dalla dinamica della circolarità. • marginalità: quel vasto ambito di esperienze di vita segnato dal disagio, quel contesto esistenziale di forte estraneità rispetto ai processi sociali, culturali e politici delle società organizzate, quegli spazi educativi in cui si riscontrano i conflitti della società, al fine di intervenire con particolari strategie forse diverse dalle tradizionali vie educative, spesso insufficienti a garantire il completo sviluppo delle dimensioni della persona, del suo esistere. • Secondo Franco Basaglia la psichiatria classica, ufficiale, doveva mettersi da parte e riconoscere di aver fallito il suo compito: curare e accogliere i soggetti sofferenti che, invece di cure, erano stati rinchiusi nell’unica dimensione ritenuta adatta alla loro condizione di diversi: l’emarginazione e la segregazione. • La psichiatria ufficiale aveva finito con il sostenere quel processo di esclusione del “malato mentale” imposto da un sistema politico certo di poter negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, emarginandole, rifiutandone la dialettica, per potersi distinguere ideologicamente come una società senza contraddizioni. La formazione è un concetto complesso e problematico perché la questione educativa che si pone è quella della persona, del soggetto che si vuole formare, ma anche del soggetto che si forma, si con-forma, si de-forma. La formazione è, altresì, un processo concreto, co-implicato nella prassi umana e che comprende anche azioni ed eventi che incidono sulla crescita ontologica a biopsichica del soggetto. . • La problematicità strutturale di questa categoria, la si può evincere dall’ osservazione che la formazione è sia il risultato del tempo storico in cui la persona vive, sia il risultato mai compiuto di azioni intenzionali e di eventi che si sottraggono alla volontà del soggetto Rita Fadda ha osservato come la formazione scorra parallela alla vita dell’uomo; finchè e dove c’è vita c’è anche formazione. “La nostra vita - scrive la Fadda - è punteggiata da eventi che incidono su di noi, che lasciano un segno, che ci formano (…). La nostra storia di formazione ha inizio con un evento per antonomasia qual è la nascita. Evento in quanto noi non abbiamo scelto nulla: non lo spazio (il dove) non il tempo (il quando), non abbiamo scelto i genitori, non le caratteristiche genetiche e soprattutto non abbiamo scelto di nascere” Romano Guardini considera il nascere come la risultante di una serie di incontri casuali tra i nostri genitori, tra i genitori dei nostri genitori in una catena che si perde nel tempo. Così facendo sembra “attenuare” il concetto di “caso” dalla nascita introducendo un elemento rassicurante e consolatorio: persona si sono incontrate, forse amate, forse volute e accolte; anche noi a nostra volta incontreremo qualcuno che ci amerà e che ameremo e così via. • In tale senso, invece dell’idea del mero essere gettati, che evoca la solitudine, la passività e la disumanità del nostro mero accidente, si possono introdurre, all’origine del nostro venire al mondo, gli elementi umani e non casuali dell’amore, della volontà, dell’accoglienza e della cura. Potremmo anche dire che c’è qualcosa di non casuale nella assoluta casualità del nostro nascere, in quanto veniamo al mondo in virtù di qualcosa che ci precede e che può essere una passione, un gesto, una volontà. Appena venuti al mondo ci troviamo immessi in una rete di relazioni e di reciprocità. Heidegger afferma che l’essere umano è “il nonancora”; l’incompletezza è la sua caratteristica fondamentale. Questo “non-ancora” altro non è che il processo formativo, che è senza fine. Ogni persona assume quella forma, che è unica e irripetibile. Perciò l’identità, la forma, quella forma che ci differenzia da ogni altro uomo, non è qualcosa che si acquisisce una volta per tutte e in cui ci si ferma, ma piuttosto ciò di cui continuamente andiamo alla ricerca. La persona è apertura, progettualità, capacità di intendersi e comunicare con l’altro, vivere nella società facendo propri, criticamente, cultura e tradizione; è affettività, cognitività, anima e corpo. L’evento-morte è per la persona, gravida di significato pedagogico e formativo. A formarci non è la nostra morta, estrema esperienza della nostra vita, ma l’idea che di essa ci facciamo, il modo di concepirla, di pensarla e di dirla. Nessuno sfugge all’idea della morte neanche quando la nega, la ignora, la rimuove. Si può dire che tutti quanti noi siamo formati in qualche modo alla e dalla idea della morte. • Odo Marquard in Apologia del caso ha scritto “Il caso che ci coglie nella maniera più carica di destino e più dura, a meno che non lo si consideri come la consolazione del non dovere continuare all’infinito con i nostri volteggi, è la nostra morte. Dalla nascita, per un caso del destino, noi siamo condannati a morte, vale a dire a quella brevità della vita che non ci lascia il tempo di liberarci a nostro piacere di ciò che per caso già siamo”. L’idea espressa in questo passo, che noi uomini siamo più i nostri accidenti che la nostra scelta, non è da considerarsi una sfortuna dal momento che il caso è la nostra normalità storica, condizionata dalla mortalità. Jankélévitch in La mort scrive: “La morte dà forma alla vita. In ciò consiste la doppiezza del limite: nel dire insieme si e no, e cioè nel rifiutare affermando e nell’affermare rifiutando, in quanto il termine diventa ciò che determina e il limite risulta parte integrante della forma”. La morte è l’altra faccia della vita. Vero è che nella morte dell’altro si annuncia la nostra morte e porta via una parte di noi, tutta quella parte di noi che gli appartiene; muore tutto un universo di possibilità. Perciò noi sperimentiamo la morte come perdita in tutto il corso della nostra vita: in un obiettivo mancato, in un desiderio inappagato, in un amore finito o mai cominciato, in una malattia, in un lutto. Ogni perdita rappresenta, in qualche modo, una esperienza di morte. In ciò consiste il nostro “ordinario morire”. Su questo fatto che la morte può dare il via ad un orizzonte di umanizzazione della vita, concorda anche Ernesto de Martino, che mette in luce il significato della morte e dell’elaborazione di questa nei riti e nei lamenti funebri dell’antichità del cristianesimo, come condizione della forza rigenerante della cultura. Di fronte al problema della morte di chi ci è caro, abbiamo tre possibilità: dimenticarli e farli morire in noi, farli rivivere continuando la loro opera, perdere noi stessi morendo con colui che muore. Ma questo è il rischio di chi è disarmato di fronte al dolore e alla disperazione e non riesce a riportare la morte da mero fatto naturale a elemento di cultura, di civiltà, di valore. Forse in tale senso, la morte è la “silenziosa compiutezza della vita”. La vita senza la morte sarebbe come un’opera incompiuta. Ancora sul tempo storico: L’avvento della società della comunicazione. La comunicazione umana avviene su tre livelli: • a)verbale, ovvero il contenuto della comunicazione: • b) paraverbale, ovvero il tono, il ritmo della voce, l’emissione dei suoni, la pronuncia; • c) non-verbale, ovvero gli atteggiamenti posturali, la mimica facciale, la gestualità, la gestione della distanza dagli altri (la prossemica). Accade spesso che questi tre livelli non siano in sintonia tra di loro. Ad esempio, se nel corso di una conversazione dico al mio interlocutore che lo sto ascoltando ma il mio sguardo si perde nel vuoto, si palesa una contraddizione la tra mia comunicazione verbale e quella non verbale. • La mimica facciale: La faccia è il più importante canale della nostra espressività. Pensiamo ai segnali involontari e difficilmente controllabili come il dilatarsi delle pupille, i cambiamenti di colore dell’epidermide. Ancora, il linguaggio degli sguardi, una delle forme principali attraverso cui gli individui prendono contatto gli uni con gli altri. • Gli atteggiamenti posturali: il modo con cui gli individui si muovono, gestiscono il proprio corpo rappresenta una fonte di segnali analogici. La conformazione della struttura corporea è il risultato del patrimonio genetico, ma è anche vero che il corpo stesso è modellato dall’uso che ne facciamo • La prossemica:(E.T. Hall) letteralmente vuol dire “linguaggio della prossimità”. Si intende il modo che abbiamo di gestire lo spazio che ci circonda in presenza di simili. Gli esseri umani, come gli animali, sono estremamente sensibili all’uso che dello spazio fanno i propri simili e ai messaggi relazionali che tale uso veicola. Per comprendere queste dinamiche, immaginiamo lo spazio prossemico all’interno del quale si muovono gli individui, come costituito da sfere concentriche di natura psicorelazionale, aventi come centro il corpo Nel primo livello, il più prossimo al corpo, vi è lo spazio intimo. Tale spazio si estende fino a 50 cm dal corpo. Questa prima sfera relazionale è quella maggiormente carica di valenze affettive e psicologiche. Solo le persone di cui ci fidiamo davvero possono entrare in questa sfera. Solo i familiari più stretti, il partner sono “ammessi”. L’invasione dello spazio intimo da parte di soggetti non autorizzati viene vissuta istintivamente come una minaccia e attiva una serie di meccanismi di difesa sia fisiologici che coscienti. Il disagio di chi utilizza una metro affollata, dove i corpi sono schiacciati gli uni con gli altri, è da ricondursi ad un riflesso fisiologico di difesa. La non intenzionalità della situazione fa si che il disagio sia relativamente modesto. • . Ad un secondo livello si pone lo spazio personale che inizia dove finisce lo spazio intimo e termina a circa un metro di distanza dal corpo. Si indica con questo, lo spazio entro cui lasciamo entrare le persone intime verso cui riponiamo una certa fiducia ma non tanto da consentire loro di entrare nello spazio intimo. Dopo vi è lo spazio sociale . vi rientrano le persone che non ci coinvolgono affettivamente, i colleghi di lavoro, i conoscenti. • Oltre lo spazio sociale, si estende lo spazio pubblico che è la distanza che un soggetto parlante tende a tenere quando, di solito, il pubblico è numeroso. E’ il caso dell’insegnante che parla in aula, dell’avvocato che tiene un’arringa. • Chi è l’Altro. • La “diversità” rende l’Altro a prima vista interessante e coinvolgente ma può anche, a causa di questa forte carica di differenza, “spaventare” ed essere vissuto come pericolo. In tale senso, è l’insicurezza verso la propria identità che fa sentire debole l’individuo dell’oggi, per cui finisce con il vivere l’illusione che rifiutando il diverso, aggredendolo, può darsi una sorta di identità forte. • la paura dell’alterità, di un universo di valori, credenze e modi di vita diverso da chi, invece, si percepisce in uno stato di presunta normalità, è direttamente proporzionale all’incapacità che ha l’individuo moderno di controllare la propria vita, dato che vive una identità instabile e complessa. • “Il desiderio dell’altro e di altri è sempre attivo, perché inscritto nella socialità dell’umano, ma esso appare meraviglioso e intollerabile insieme, perché se è vero che può aprirci altri orizzonti, è altrettanto vero che può anche rischiosamente minacciare le nostre identità”. • A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni. • Il progetto educativo e pedagogico, per dirsi tale, deve nascere dall’idea che la ricchezza dell’incontro con l’Altro non risiede nella “sintesi” di due alterità, ma nell’irriducibilità dell’alterità, nel “non sintetizzabile”. In questa prospettiva ben si inserisce il pensiero di Emmanuel Lèvinas quando dice che l’altro gioca un ruolo di realtà irriducibile Cfr., E. Lèvinas, Totalità e infinito (1961), Jaca Book, Milano 1980. • L’esperienza esistenziale dell’alterità, si realizza concretamente nell’incontro con l’Altro, fuori dal cerchio magico dell’interiorità. Questa idea del non sintetizzabile per Lèvinas, si attua nella dimensione pratica del faccia a faccia; l’alterità è, dunque, il volto che si autoimpone di per sé. • Lévinas riflette su come la società occidentale abbia posto ai margini la dimensione della molteplicità in nome della totalità unitaria, sminuendo l’Alterità e riducendola “a un soggetto rivolto verso se stesso (…) a un soggetto che si definisce così per la cura di sé e che nella felicità attua il suo per sé”; a tutto questo Lèvinas oppone “il desiderio dell’Altro, che non sono né il mio nemico (…), né il mio “complemento”. (…) Il desiderio degli Altri nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che potrebbe mancargli o appagarlo”. • Gianni Vattimo riconduce la fine della modernità ad alcuni momenti fondamentali e tra questi l’avvento della società della comunicazione. Il postmoderno è dunque un modo di guardare alla realtà che si apre alle differenze, a tutto ciò che non è più riconducibile ad un unico elemento legittimante. In questo senso, <<radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo>>. Questa vertiginosa moltiplicazione della comunicazione, che porta alla ribalta dell’opinione pubblica sub-culture di ogni genere, è l’effetto più evidente prodotto dai media. • Questa sorta di “prodotto” dei media, questa “liberazione delle molte culture”, questa pluralizzazione di punti di vista e di riferimento, male si adattano ad un’idea “unitaria” di storia. La realtà che oggi viviamo è il risultato dell’incrociarsi delle molteplici interpretazioni, immagini, punti di vista, che i media contribuiscono a creare e, perciò, priva di una “coordinazione” centrale. Nell’odierna società della comunicazione, si fa spazio un ideale emancipativo basato sui concetti dell’“oscillazione” e della “pluralità”. • Questa liberazione delle differenze, degli elementi locali, è ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Vattimo sostiene che il senso emancipativo di questa liberazione dei “dialetti” consiste in un reciproco effetto di spaesamento e identificazione • “spaesamento, che è anche, e nello stesso tempo, liberazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti>> • <<Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola “lingua”, ma è appunto un dialetto tra gli altri. Se professo il mio sistema di valori -religiosi, estetici, politici, etnici - in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio> • Dominique Wolton che in una intervista pubblicata su Nuova Umanità n.165/166maggio-agosto 2006) ha dichiarato: “Con la globalizzazione ci si accorge che si possono inviare suoni, immagini, radio e televisione su Internet, e che il mondo è un piccolo villaggio globale; ma in esso gli uomini non si comprendono ancora. E ciò conferma quanto dicevo sopra: per inviare delle informazioni nel mondo intero bisogna che ci sia "prima”la comunicazione. • La richiesta che ci giunge dalla globalizzazione, quindi, è quella di rispettare l’Altro - in scala più vasta, ovviamente -, il che vuol dire riprendere i valori della democrazia, scoprire la mancanza di comunicazione - perché ci si accorge che la relazione tra culture, lingue, popolazioni e cose non funziona -, e costruire la coabitazione. In fondo, l'orizzonte della globalizzazione è la costruzione di una coabitazione culturale a livello planetario. • Riconoscere la diversità culturale ed evitare che essa si riduca a una difesa miope delle identità comunitarie, una volta posto il principio della diversità, richiede di capire come organizzare tale diversità. È la coabitazione culturale, che rinvia alla semplice coabitazione umana, che a sua volta ritorna alla comunicazione: cioè, come coabitare, come comunicare e come rispettarsi quando non si hanno gli stessi valori? • Se non si trattano politicamente e democraticamente i problemi della comunicazione e della cultura a livello globale, la mia ipotesi è semplice: andiamo dritti verso lo scontro delle civiltà. La mia battaglia è perciò semplice: prima di arrivare allo scontro, cerchiamo di organizzare la coabitazione. Cioè comunichiamo” • “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. • Se si potesse pensare di vivere “diverse” vite, il percorso emotivo/esperenziale cambierebbe. Rifletti su un evento significativo della tua vita pensando a come sarebbe andata la tua vita, se avessi fatto una scelta diversa. • “Forse il manicomio si apre per questo, perché il vero peccato mortale per gli uomini è la libertà. Sul nostro tetto non viaggiavano gli operai come su casa mia. Ci ignoravano del tutto e questo per loro era un grande ossequio alla malattia mentale, che voleva dire un grande menefreghismo. Tanto che io non parlavo più. Ho imparato a parlare anni dopo. Al manicomio ci tenevano puliti. Allora poi siamo usciti, ci siamo sporcati con la terra, ci siamo cosparsi il volto e il corpo perché per dodici anni eravamo vissuti al chiuso, sognando di poter toccare, le rose, l’erba. Eravamo di nuovo liberi di vivere sporchi”. • A. Merini, La nera novella. • Chi è l’Altro. • Uno degli interrogativi che da sempre anima il dibattito filosofico e pedagogico riguarda la relazione tra l’io e l’altro: chi è l’io? Chi è l’altro? Come entrano in relazione? • Riflettendo sull’io e sull’altro il primo pensiero è che questi sono estranei in modo reciproco che esiste, cioè, tra loro una profonda e inevitabile distanza; senza questa distanza l’io non sarebbe io e l’altro non sarebbe altro, non sarebbero, cioè, in grado di distinguersi. • Ma nonostante questa distanza, necessaria tuttavia affinché l’io e l’altro entrino in contatto, affinché in un certo senso si riconoscano, l’io e l’altro sembrano essere legati da una relazione originaria, una relazione che in qualche modo li precede. • In altri termini, l’io e l’altro sembrano entrare in relazione perché esiste qualcosa che li precede e che fa sì che la distanza che esiste tra i due si abbrevi; questo qualcosa potrebbe essere il linguaggio? • A prescindere se sia l’Io a fondare l’Altro o viceversa, il punto in questione è che all’origine non si danno l’Io e l’altro come separati, ma all’origine c’è la relazione, ovvero una dualità, un noi. • La “diversità” rende l’Altro a prima vista interessante e coinvolgente ma può anche, a causa di questa forte carica di differenza, “spaventare” ed essere vissuto come pericolo. Forse è l’insicurezza verso la propria identità che fa sentire debole la persona, per cui la persona finisce con il vivere l’illusione che rifiutando il diverso, aggredendolo, possa darsi una sorta di identità forte. • la paura dell’alterità, di un universo di valori, credenze e modi di vita diverso da chi, invece, si percepisce in uno stato di presunta normalità, è direttamente proporzionale all’incapacità che ha l’individuo moderno di controllare la propria vita, dato che vive una identità instabile e complessa. • “Il desiderio dell’altro e di altri è sempre attivo, perché inscritto nella socialità dell’umano, ma esso appare meraviglioso e intollerabile insieme, perché se è vero che può aprirci altri orizzonti, è altrettanto vero che può anche rischiosamente minacciare le nostre identità”. • A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni. • P. Fèdida in Umano/Disumano si interroga sul concetto di disumanità che emerge nei casi in cui l’Io non ha più la possibilità di riconoscere l’Altro: “è il sentimento di un decadimento, quando il volto, le parole, la voce, le stesse possibilità di riconoscere le reazioni dell’Altro, cominciano a disfarsi”. Caso emblematico di disumanità è la Shoa. Il regime nazista non voleva solo uccidere gli ebrei ma cancellare, far scomparire tutte le tracce. • Per Fèdida il punto essenziale è costruire, non ricostruire perché se la relazione si interrompe, se l’Io non ha più la necessità di riconoscere l’Altro, se arriva al punto di non riconoscere più neanche se stesso, se perde il volto, la parola, la voce,se l’lo fa l’esperienza dolorosa della disumanità, allora è chiaro che questa esperienza non deve essere ricostruita. • Bisogna restituire l’umanità alla persona. Tramite la relazione e il linguaggio. l’Altro offre costantemente all’Io la possibilità di colmare la distanza che li separa. In un certo senso l’Altro offre costantemente all’Io la possibilità di colmare la distanza che li separa. L’altro è sempre in grado di guarire l’Io. • Dopo l’orrore della disumanità, l’Io ridiventa umano se riconosce l’Altro come simile, se comprende che anche l’Altro prova gioia, tristezza, infelicità, dolore. La disumanità consiste nell’andare oltre l’umano, andare verso ciò che è radicalmente dissimile, impossibile riconoscere. “Distruggere, demolire un uomo significa che le apparenze che consentivano il riconoscimento sono disfatte. Nella nostra esperienza, le apparenze sono il volto, , lo scambio tra volti, lo scambio di un gesto. • La demolizione di un uomo è rendere impossibile il far esistere l’umanità al suo livello essenziale, che è quello dell’apparenza. L’apparenza restituisce il simile”. • Ma cosa avviene di così angosciante nell’incontro con l’Altro?L’ Altro è radicalmente estraneo, è imprevedibile; letteralmente potrebbe fare qualsiasi cosa, fino ad arrivare ad uccidere l’Io. • La paura di fronte all’Altro diventa angoscia di fronte al non conosciuto. Entra il gioco l’empatia che per Fèdida ha a che fare più con l’ascolto che con la comprensione. Ascoltare l’Altro vuol dire parlare con l’Altro: è tramite la dimensione del linguaggio che l’Io tocca l’Altro e viceversa. “La parola tocca, dispone di una capacità di contatto. La parola è contatto”. E. Levinas. • L ’Altro è infinitamente Altro, si trova su un piano asimmetrico rispetto all’Io (se fossero sullo stesso piano si fonderebbero) e pertanto non è riconducibile neanche alle categorie dell’essere. L’Altro non è. L’Altro non si lascia catturare ma precede il costituirsi stesso della soggettività: l’Altro fonda l’Io. • L’Alterità è costitutiva della soggettività: non ha importanza che l’Io incontri l’Altro, che acconsenta o rifiuti l’Altro in quanto l’Altro lo riguarda e viene prima dell’io. Inquietudine dell’Altro vuol dire che l’Io è da subito inquietato dall’Altro che lo precede e lo costituisce. La radicalità del pensiero di Levinas sta appunto nell’impossibilità di ricondurre l’Altro al piano ontologico dell’io, perché sarebbe come uccidere la sua alterità. • L’incontro con l’Altro non risiede nella “sintesi” di due alterità, ma nell’irriducibilità dell’alterità, nel “non sintetizzabile”. L’altro gioca un ruolo di realtà irriducibile • L’esperienza esistenziale dell’alterità, si realizza concretamente nell’incontro con l’Altro, fuori dal cerchio magico dell’interiorità. Questa idea del non sintetizzabile per Lèvinas, si attua nella dimensione pratica del faccia a faccia; l’alterità è, dunque, il volto che si autoimpone di per sé. • Lévinas riflette su come la società occidentale abbia posto ai margini la dimensione della molteplicità in nome della totalità unitaria, sminuendo l’Alterità e riducendola “a un soggetto rivolto verso se stesso (…) a un soggetto che si definisce così per la cura di sé e che nella felicità attua il suo per sé”; a tutto questo Lèvinas oppone “il desiderio dell’Altro, che non sono né il mio nemico (…), né il mio “complemento”. (…) Il desiderio degli Altri nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che potrebbe mancargli o appagarlo”. • l’apertura per Lévinas è “non più l'essenza dell’essere che si apre per mostrarsi, non è la coscienza che si apre alla presenza aperta e affidata a lei. L’apertura è il denudamento della pelle esposta alla ferita e all’oltraggio. L’apertura è la vulnerabilità di una pelle offerta, nell’oltraggio e nella ferita, al di là di tutto ciò che si possa mostrare, al di là di tutto ciò che dell’essenza dell’essere possa esporsi alla comprensione e alla celebrazione • Nella sensibilità si pone allo scoperto, si espone un nudo più nudo di quello della pelle che, forma e bellezza, ispira le arti plastiche: nudo di una pelle offerta al contatto alla carezza che sempre - persino equivocabilmente nella voluttà - è sofferenza per la sofferenza dell’altro”. • Romano Guardini. • Uno dei valori ai quali deve tendere sempre lo spirito è l’amore decentrante che fa si che la persona avverta il valore dell’Altro, la sua essenza profonda. Quando questo non accade, quando cioè l’uomo non si apre all’universo delle possibilità dell’Altro, lo spirito si ammala poiché si ritrova concentrato solo su se stesso; “l’esistenza si muta in carcere. Tutto si rinserra. Le cose opprimono. Ogni realtà diviene estranea e nemica nell’intimo. Sparisce il senso ultimo, evidente. L’essere non fiorisce più”.