Un’antropologia della libertà creata come ‘immagine’∗
Quanto detto a proposito del tema teologico dell’uomo immagine di Dio ci
permette ora di affrontare la questione in chiave sistematica. Va premesso che
la ripresa sistematica dell’antropologia teologica non potrà essere perseguita se
non ci allontaniamo dagli schemi della vecchia psycologia rationalis. La riflessione
scolastica medioevale e moderna considerava l’uomo solo da un punto di vista
razionale (l’uomo in sé), e conseguentemente relegava la grazia ad un semplice
calco della natura. In questo modo il tema della grazia è stato trattato
conformemente alla previa descrizione dell’uomo secondo la psicologia delle
facoltà: anima, appetito intellettuale e volitivo, virtù e atti corrispondenti,
oggetti. Conformemente ai canoni antropologici della scolastica si parlava poi
del piano soprannaturale: habitus entitativo della gratia gratum faciens, habitus
operativi (virtù infuse) e relativi atti di fede speranza e carità. Questa visione
naturalistica comprendeva l’identità dell’uomo come animal rationale, senza
preoccuparsi di porre attenzione alle forme immediate della coscienza (il
corpo, l’altro, la cultura, l’educazione).
Questa critica vale anche per l’antropologia moderna inaugurata da
Cartesio, il quale pone al centro della sua riflessione antropologica il cogito,
come luogo dell’identità del soggetto, misconoscendo così il debito originario
che la coscienza ha con le forme pratiche del sapere in ordine alla
determinazione della sua identità. Si tratta di una comprensione autarchica del
cogito che non pone attenzione alle mediazioni storiche della coscienza e che
anzi propende per una immagine di soggetto costituito a monte rispetto ai
rapporti con l’altro da sé (il mondo, l’altro, il rapporto sociale) e, dunque,
anche a monte rispetto alla relazione religiosa che, come vedremo, caratterizza
originariamente la coscienza stessa.
Il programma per un rinnovamento dell’antropologia teologica deve
dunque prendere le mosse dall’esplicitazione di un’antropologia fondamentale
della libertà, intesa come coscienza credente, in rapporto all’esperienza del
senso e alla determinazione di sé. Ciò significa elaborare un sapere della
coscienza che sa e decide di sé relazionandosi con l’altro, superando così una
concezione della coscienza intesa solo come soggettività e individualità. Tale
prospettiva dell’autopossesso, pur importante, rischia però di non riconoscere
il debito originario della coscienza nei confronti dell’esperienza pratica, quale
esperienza di senso in cui essa vive e di fronte a cui deve determinarsi.
La libertà è invece questione di relazione, di porsi in un ‘dramma’, cioè
nell’interazione con le diverse forme di alterità. Questa connotazione
drammatica della libertà favorisce l’esperienza del senso che si dà nella
Cf F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?, Queriniana,
Brescia 2005, 209-211.382-399.468-470.
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coscienza, in quanto avviene nella forma di un dono che istituisce la libertà e
la chiama alla sua realizzazione mediante una decisione. In questo modo la
questione dell’identità della coscienza non è data a monte di un con-senso a
un debito originario che mi precede e mi chiama, e per il quale mi decido
attraverso le forme dell’agire che esperisco nelle varie esperienze di alterità (del
corpo, dell’altro).
1. La libertà come dono e compito: la coscienza nell’agire
Un sapere della libertà deve prendere avvio dai due aspetti della libertà che
si presentano concretamente nell’agire dell’uomo: la libertà come dato
(attributo ontologico) e come compito (valore morale). Il primo aspetto indica
che la libertà si presenta come una qualità naturale dell’uomo, mentre il
secondo indica che l’agire libero non si può qualificare come tale se non in
rapporto al valore perseguito. Occorre però puntualizzare che non si tratta di
due aspetti in successione univoca, secondo il detto operari sequitur esse.
L’aspetto per cui la libertà è qualità dell’essere umano (attributo ontologico)
non è comprensibile a monte del suo agire. La libertà non si erge previamente
all’agire umano, a prescindere cioè dalla sua vita, sofferenze, desideri, ecc.,
come una qualità presente in lui fin dalla sua nascita, altrimenti si scadrebbe in
una considerazione naturalistica e oggettivante della libertà. Il senso della
libertà come ‘dato’ dell’uomo va piuttosto compreso come un dono, una
promessa che è data all’uomo perché egli possa riconoscerla e a cui deve
dedicarsi nel suo agire. Al contrario una concezione naturalistica della libertà
può pregiudicare anche la libertà come compito (valore morale), poiché in
questo caso essa verrebbe intesa semplicemente come un’esigenza e un
bisogno dell’uomo (le libertà moderne, intese come processi di liberazione
sociale, politica, razziale). In questo caso la libertà sarebbe considerata un
valore solo perché colmerebbe un bisogno o sorgerebbe da un’esigenza
(liberazione da uno stato di indigenza), a prescindere dal fatto che s’imponga
alla coscienza libera come valore ideale o imperativo morale.
Per superare questa comprensione oggettivante e naturalistica della libertà
occorre pensare la libertà come una promessa che si presenta e che motiva il
volere. In questo senso bisogna pensare il debito che la libertà ha con le forme
immediate della vita, particolarmente in quelle forme in cui la libertà accade
originariamente: la generazione, la relazione uomo-donna, l’esperienza della
prossimità (cf più avanti). Queste sono le esperienze originarie della coscienza,
dove l’identità del soggetto si costituisce nell’incontro con l’altro. In
particolare nella generazione, la libertà appare come il dono che è l’esistenza
stessa. Il soggetto non è costituito previamente al riconoscimento di tale dono.
L’esistenza stessa appare come dono e la libertà come relazione donata. C’è un
debito di origine verso cui la libertà è chiamata a decifrarsi e a spendersi. Il
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‘dovere’ della libertà non si dispone innanzitutto dinnanzi alla legge ma prima
di tutto di fronte a quell’appello originario che è la sorgente della libertà.
1.1 Struttura circolare della libertà: capacità, atto, realtà
Secondo quanto sta emergendo nel nostro studio sistematico, l’identità
dell’uomo si dà nel suo agire, perché solo l’uomo libero può agire. Se però è
libero l’atto dell’uomo che può fare ciò che vuole, tuttavia il potere di farlo
non spiega ancora la libertà dell’azione (volere liberamente l’azione).
Perché l’azione sia effettivamente libera è necessario che essa non si pensi
semplicemente in rapporto al nostro potere di agire ma soprattutto alla realtà
che mi si offre come dotata di senso buono/vero, e che quindi mi induce a
immaginare e a determinare, tra le azioni possibili, quella veramente voluta.
Nel momento in cui agisco, io pongo l’«intenzione» che mi impegna nell’atto
stesso di volere e, insieme, faccio apparire quella «promessa» che la realtà
voluta (ad es. l’incontro con una persona) porta con sé come bene
apprezzabile. L’agire ingloba in sé l’intenzione volente, l’atto voluto e
l’interpellazione della realtà voluta.
Diciamo subito che l’intenzione che si dà nell’agire resta sospesa finché non
si attua e così si presta anche alla possibilità dell’inganno, in quanto non è
possibile verificare previamente che l’atto immaginato (intenzionalità del
volere) corrisponda all’atto realizzato. Ma anche nel caso dell’inganno, non si
può dubitare dell’intenzione del mio agire. Ad esempio, nell’incontro con
l’altro posso scoprire di essermi sbagliato circa le sue intenzioni (scopro di
essere stato ingannato) ma non posso negare quella che è stata la mia
intenzione: cioè il fatto di aver prestato credito all’altro, di essermi affidato a
lui. Queste intenzioni erano infatti contenute nella mia azione. In altri termini,
la serietà del volere implica la coscienza di sé (intenzione) e non la conoscenza
dettagliata di ogni cosa. Se l’agire fosse autorizzato solo da un conoscere
preventivo esauriente, l’azione sarebbe paragonabile all’adeguamento, al fare
tecnico e calcolante in ordine ad uno scopo previsto, e non avrebbe più la
forma dell’agire libero dell’intenzione.
In sintesi, l’agire pratico (diverso da quello tecnico) si configura come un
prestar credito (intenzione anticipatrice) al bene (carattere promettente della
realtà) che autorizza la decisione incondizionata attraverso cui la libertà si
autodetermina (nella forma dell’affidamento) di fronte al bene e in tal modo
dispone di sé. L’identità dell’io (coscienza) non è data, dunque, né a monte
dell’agire (concezione naturalista dell’uomo), né è semplicemente il suo
risultato (concezione tecnico-pragmatica dell’uomo).
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potere di agire
atto
realtà
coscienza (identità)
intenzione anticipatrice
carattere promettente
2. L’esperienza della passività nell’agire: il corpo, l’altro e il ‘noi’
Il senso che si dona nel carattere promettente della realtà istituisce la libertà
umana nel suo agire, sicché dobbiamo tenere presente questa duplice
articolazione:
a) passività/alterità del senso: il senso, latente nella realtà promettente, è ‘altro’
rispetto a noi, ma noi lo possiamo sperimentare/accogliere (‘passività’)
b) attività dell’uomo: l’uomo, interpellato da questa passività, risponde
liberamente, si affida ad esso.
L’esperienza della passività/alterità del senso è la condizione originaria che
interpella la libertà (attività) dell’uomo. L’uomo, dunque, nel suo agire si affida
ad un senso-altro che gli si fa incontro come promessa e lo chiama a
compiersi liberamente. Sulla linea di P. Ricoeur1 menzioniamo le tre forme di
passività, e dunque di alterità, che convergono nella formazione dell’identità
della coscienza.
2.1 Il corpo proprio
Per prima cosa, l’agire della libertà appare connotato originariamente da una
dimensione corporea che è la prima forma (interna alla coscienza) del
sentimento dell’alterità.
L’esperienza del ‘corpo proprio’ o ‘corpo vissuto’ (Leib) a differenza del
corpo oggetto tra gli oggetti (Körper), descrive il corpo come carne, come un
corpo dato/donato, che appare nell’esperienza originaria della generazione
prima accennata. Il corpo donato è il luogo in cui si istituisce la
passività/alterità, proprio attraverso il fatto che il bambino si distacca
gradualmente dal suo originario rapporto fusionale con la madre (il mio corpo
è ‘altro’ da quello di mia madre). La vita donata porta inscritta nella carne che
essa è già un bene presente in me perché donato a me.
Allo stesso tempo l’esperienza della passività che si iscrive nella forma del
‘corpo proprio’ (il corpo ‘mi è dato’) è anche appello alla libera risposta dell’io,
all’agire inteso come debito grato verso la propria origine.
Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, 432. Qui Ricoeur parla appunto di un «tripode
della passività».
1
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Ma l’esperienza della passività ritorna anche quando la vita è minacciata,
cioè in tutte le esperienze del patire e subire. Qui l’uomo fa esperienza
dell’alterità, in quanto percepisce il suo corpo sofferente come estraneo, un
corpo che non gli appartiene, ma allo stesso tempo questo corpo invoca il
ritrovamento di sé come ‘corpo proprio’.
La dimensione ‘patica’ dell’io come corpo proprio implica la dimensione
simbolica del corpo (poetica e pratica). La coscienza è sempre connotata in
modo corporeo: io sento, io voglio, io posso, io muovo, io trasformo. Il corpo
dice la simbolicità dell’uomo, cioè la necessità di darsi agli altri e di darsi a se
stesso. Il corpo dice l’uomo nel suo essere-al-mondo. Come corpo, inoltre,
l’uomo è pure immerso nel tempo (storicità), che è insieme la possibilità e la
necessità di scegliere. Non a caso la nostra memoria è abitata da immagini che
hanno sempre connotazioni spazio-temporali. L’uomo può dunque agire se
continuamente vive il proprio corpo non solo come strumento, ma come un
corpo sentito che opera decidendosi per il bene.
2.2 Il corpo dell’altro
L’esperienza della passività/alterità, non è iscritta solo all’interno della
coscienza umana che fa esperienza del corpo proprio, ma anche nell’alterità
dell’altro, del tu, del prossimo. A partire dal rapporto uomo-donna, l’altro non
può essere risucchiato nel proprio io come alter ego, anima gemella, perché la
sua alterità è facilmente esperibile nella sua forma corporea che è altra da me,
nonostante tutti i desideri di fusione. Perciò il rapporto uomo-donna può
essere considerato come l’archetipo dell’esperienza della prossimità, cioè
dell’incontro con l’altro che mi sta di fronte come un tu.
A ben vedere l’incontro con il tu non sopraggiunge successivamente
rispetto all’esperienza della passività del proprio corpo, perché anche
l’esperienza del mio corpo è mediata dall’alterità, da un tu (padre, madre).
L’esperienza del proprio corpo rimanda dal suo interno all’alterità dell’altro.
Ad esempio il volto è il mio volto (corpo proprio) in quanto è guardato
[passività/alterità] da un altro (madre) ed è suscitato dal suo sorriso.
L’incontro con l’altro appartiene quindi originariamente alla costituzione di sé,
ne è prova il fatto che lo stesso corpo proprio ci è rivelato dall’altro. In questo
senso Ricoeur definisce la relazione con l’altro, il tu, come quel sentimento del
lasciarsi interpellare dall’altro. Il fatto di essere toccati/chiamati dall’altro è
vissuto come auto-affezione e possibile auto-determinazione. L’altro però non
è l’unica sorgente di responsabilità (chiamata alla risposta), ma lo è se io mi
lascio chiamare [passività/alterità] e mi concedo [attività/libertà] all’altro da
me che mi chiama. La mia identità coscienziale si istituisce solo se l’altro mi
appare come prossimo (carattere promettente della realtà iscritta della
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passività/alterità del senso), e io mi metto in gioco in un rapporto
interpersonale (intenzione anticipatrice iscritta nella mia attività/libertà).
Nel lasciarmi chiamare e nel lasciarmi mettere in gioco dall’altro e dalla
realtà io percepisco sia un dinamismo di auto-trascendenza (personale) sia
un’esperienza radicale di senso della trascendenza (esperienza religiosa). In
modo simmetrico la stessa cosa vale anche per l’altro che entra in rapporto
con me.
2.3 Il corpo sociale
L’esperienza dell’alterità del tu avviene dentro il rapporto sociale, il noi, per
cui io percepisco il tu come altro-tra-gli-altri. Il mio essere con gli altri, il mio
essere socio con gli altri, precede dunque e rende possibile il rapporto con l’altro
come tu, come prossimo. La socialità e la cultura, non sono dunque aggiunte
rispetto alla coscienza (corporea) di sé e all’agire responsabile a favore degli
altri. Al contrario, la socialità, il linguaggio/cultura sono anch’essi elementi
costitutivi dell’identità del soggetto. La relazione al tu non può essere astratta
dall’appartenenza a un noi, non può cioè essere pensata come al di fuori dei
rapporti civili e culturali già dati2. La cultura è la prima forma con cui la
coscienza accede al senso e a se stessa. Si pensi, ad esempio, alla lingua che
media già il mondo della vita non solo a livello informativo ma più
profondamente a livello esistenziale (desideri, timori, giudizi, progetti).
In sintesi, le forme della passività della coscienza (corpo, altro, noi)
dischiudono ogni volta un aspetto ‘drammatico’, in cui viene messo in gioco
l’agire dell’uomo. La libertà si dà in un dramma, in un’azione cioè in cui ne va
sempre anche della propria identità.
3. La libertà come immagine e il suo destino escatologico
Abbiamo visto che vi sono delle esperienze di passività/alterità che
presiedono alla costituzione dell’identità del soggetto. A loro volta abbiamo
anche notato che queste forme di alterità implicano anche un’esperienza di
Scrive Lonergan: «Nessuno di noi è un Adamo che vive all’origine delle vicende umane,
che diviene tutto ciò che è mediante le proprie decisioni e impara tutto ciò che sa per
esperienza personale, intellezione personale, discernimento personale. Noi siamo i prodotti
di un processo che nei suoi diversi aspetti è chiamato socializzazione, acculturazione,
educazione. Mediante tale processo si è formata la nostra disposizione mentale iniziale,
visione del mondo, sguardo, orizzonte. Su tale base ed entro le sue limitazioni noi iniziamo
pian piano a divenire padroni di noi stessi, a pensare da noi stessi, a prendere le nostre
decisioni, ad esercitare la nostra libertà e responsabilità». Ritorneremo su questo punto
quando analizzeremo ciò che dice Lonergan a proposito della differenziazione della
coscienza all’interno del mondo mediato e costituito dal significato (B. LONERGAN, «The
Ongoing Genesis of Methods», in A Third Collection. Papers by Bernard J. F. Lonergan, S.J., ed.
by F. E. Crowe, Paulist Press/G. Chapman, New York/Mahwah - London 1985, 156).
2
7
trascendenza (religiosa) del senso e di autotrascendenza (personale) nel sentire
e nell’agire.
La passività/alterità (corpo proprio, corpo dell’altro, corpo sociale) che
costituisce la coscienza, rivela e comunica una differenza originaria del
senso che suscita nella coscienza un debito di gratitudine
(attività/libertà), il quale non solo autorizza ad agire per portare a
compimento la promessa che quel senso annuncia, ma costituisce il
soggetto stesso nella sua identità personale.
Possiamo raccogliere tutto questo sotto la nozione di immagine. L’uomo ‘ad
immagine’ di Dio non indica tanto una ‘natura’ creata (anima, spiritualità), o
qualche ‘caratteristica’ presente nell’uomo (le facoltà dell’anima), ma
soprattutto l’identità sintetica dell’uomo in quanto si riconosce dentro le
relazioni che la costituiscono/creano e si autodetermina attraverso il suo
libero agire. L’uomo è dunque LIBERTÀ CREATA, proprio perché è relazione,
ovvero:
a) egli si costituisce (è creato) nella relazione all’altro: passività alterità del
senso;
b) e al tempo stesso si autodetermina volendo e affidandosi quel senso che
gli viene incontro come degno di essere scelto: attività/libertà.
L’uomo dunque è immagine nel senso di libertà creata. ‘Creata’, dice il suo
essere radicalmente costituita, ‘libertà’ dice che tale costituzione avviene nella
forma della chiamata.
Ma la libertà creata è AD IMAGINEM, cioè non è data una volta per tutte, ma
accade nel rapporto con quel senso che è anticipato nelle esperienze ‘pratiche’
dall’alterità, e giunge alla forma dell’esperienza religiosa quando in quelle
esperienze percepisce l’appello incondizionato a un senso compiuto e
definitivo (escatologico). Ora, tale appello non indica solo il debito originario
che costituisce la coscienza nella forma grata alla sua origine indisponibile, ma
rende possibile - alla medesima coscienza che si affida (autodetermina) - il
proprio compimento; compimento che sarebbe impossibile come risultato del
proprio agire meritorio.
Ciò significa che la coscienza, se già di per sé è credente in quanto si affida
liberamente ad un senso promettente che la precede, diventa però
esplicitamente religiosa quando, riconoscendo l’incondizionato del dono della
chiamata, si lascia abilitare/addestrare gratuitamente alla risposta dalla
sorgente stessa del dono che è l’azione dello Spirito Santo. Questa azione si
colloca nel cuore stesso della libertà e fa passare la coscienza credente alla
forma teologale della fede.
8
Il nostro discorso vuole dunque mostrare come la creaturalità non è solo un
attributo nativo della libertà, ma la creatura umana nasce come una coscienza
che può attuarsi solo come libertà. Senza tale approdo il discorso teologico
sull’uomo come imago Dei, cioè sulla libertà come relazione in vista di un
compimento, resterebbe senza mediazione critica. Pertanto, l’uomo, come
imago Dei, è una libertà creata come capacità di relazione e possibilità di attuazione.
Ciò significa che è una coscienza credente che trova la sua figura non
semplicemente determinandosi nel mondo e di fronte all’altro, ma
propriamente
autodeterminandosi
di
fronte
a
Dio.
Cioè
affidandosi/destinandosi a quel senso/verità, che gli viene incontro come un
dono che lo rende capace di relazione (la libertà creata ad imaginem) e compie
in modo eccedente (gratuito) il suo essere desiderio di comunione (cf la
vicenda filiale di Gesù quale libertà conformata all’imago Dei). Il dono della
grazia attua quindi la libertà come fede teologale, ossia come ‘coscienza
credente cristiana’ che decide di sé affidandosi/destinandosi alla forma filiale
della libertà di Gesù. In questo senso anche il tema teologico della
predestinazione degli uomini in Cristo riceve una fondazione critica. A partire,
infatti, dal movimento dell’affidarsi/determinarsi/destinarsi della libertà così
come è emerso dal modello della coscienza credente appena esposto, si può
elaborare un’antropologia della ‘destinazione’ (Bestimmung) quale griglia
interpretativa della “predestinazione”, ovvero della chiamata universale alla
salvezza degli uomini in Cristo (cf Ef 1,3-6; 1,9-10; Col 1,15.17-18).
4. Antropologia della destinazione
Se l’agire dell’uomo non è visto solo come un facere che dispone mezzi in
ordine agli scopi (personali e sociali), ma come un agere che anticipa nel suo
agire il bene promesso, ne consegue che l’azione libera ha la figura di un agire
nell’orizzonte della promessa. Infatti, mentre l’uomo decide questo o quello
come un bene da perseguire (per sé e per gli altri) e a cui dedicarsi, si decide
anche di fronte al bene promesso che in quei beni si anticipa, ma non si
esaurisce. Così però l’uomo decide di sé non solo dinnanzi a quei beni ma,
attraverso di essi, si autodetermina dinnanzi al Bene che si offre all’uomo
come un’alterità donatrice di senso e di libertà. Questa alterità donatrice ha la
figura dell’attesa di un bene promesso, presente nella forma della promessa e
assente nella forma del pieno possesso.
Se dunque la predestinazione è la chiamata degli uomini in Cristo, allora la
libertà - che è chiamata alla destinazione - può e deve autodeterminarsi dinanzi
al suo futuro inteso come ‘pre-donazione’. Spieghiamo meglio i termini della
questione. Abbiamo detto che la libertà di ogni uomo ha una destinazione ed
esige di autodeterminarsi nel suo agire di fronte ad un senso che gli viene
incontro; questa non è solo una possibilità iscritta nell’agire dell’uomo, ma è
9
anche una scelta pratica che va riconquistata ogni volta, di fronte alla
possibilità che la medesima libertà incontra di cadere e di soccombere. Ora, la
dialettica tra chiamata alla destinazione e libero affidamento ad una verità
(liberamente scelta dall’uomo come buona per venire a capo della sua
identità), comporta almeno due aspetti in feconda tensione; da un lato, che
l’uomo sia ‘capace’ di auto-trascendersi verso una destinazione (Bestimmung)
che gli viene incontro e, dall’altro, che questa destinazione si renda presente
con i caratteri di una pre-donazione. I due aspetti sono tra loro intrecciati, così
che il primo dice che l’uomo nel suo agire è in cerca di futuro e solo
determinandosi nelle sue scelte ritrova anche la sua identità, mentre il secondo
dice che il modo di attuazione di tale agire non può accadere se non è
preceduto da un’offerta radicale di vita buona e felice che gli viene incontro
come pre-donata.in questo senso, l’uomo è capace di agire e può effettivamente
essere una libertà che dispone di sé (l’uomo come zōón loghikón o politikón) solo
se è sor-preso, preso-da (l’uomo come zōón pathetikón o aisthetikón) un dono
che non è solo la sua destinazione futura, ma è anche il modo della sua
realizzazione presente.
La figura compiuta di tale movimento è la dedizione pasquale di Gesù. Essa
è annunciata come donazione nell’evento pasquale (predestinazione di Cristo),
è offerta a tutti, ed è attuata in ciascuno in forza dello Spirito che rende libero
l’agire dell’uomo, donandogli la figura di un agire confidente, dedito e
fiducioso (fede, speranza e carità).
5. L’incorporazione mediante l’azione dello Spirito
L’azione dello Spirito, la sua presenza inabitante, istituisce la figura filiale
della coscienza credente. Il senso di cui la coscienza si sente costituita,
attraverso il corpo, l’altro e il mondo (natura e cultura) è riconosciuto come il
dono dello Spirito stesso, sperimentato come una ‘presenza’ permanente e
stabile. Questa è la forma propriamente teologale della coscienza credente (la
fede cristiana), perché lo Spirito porta a compimento l’agire della libertà conformandola alla vicenda filiale di Cristo, quale coscienza credente che
liberamente si affida a Dio, e la rende membro del suo corpo.
In questa prospettiva si comprende la difficoltà dei tentativi proposti nel
secolo XX per pensare l’interiorità della presenza dello Spirito (inabitazione) nella
libertà dell’uomo. La dottrina dell’habitus era nata per radicare la presenza dello
Spirito nell’ontologia dell’uomo, pensato secondo un’antropologia delle
facoltà (natura, facoltà, atti e passioni). La grazia, dono dello Spirito all’uomo e
nell’uomo, era un habitus, un’abilitazione della sua natura che lo proporzionava
al fine soprannaturale.
La teologia contemporanea ha voluto superare, mediante modelli
antropologici differenti, questa visione scolastica. L’intenzione complessiva di
10
diversi teologi è stata quella di mostrare la trasformazione profonda della
natura dell’uomo mediante l’azione dello Spirito con una concettualità storica
anziché essenzialista (causalità). Tuttavia è necessario che le categorie storiche
non vadano a detrimento della trasformazione ontologica interiore (nuova
creatura). Si tratta pertanto di mediare il tema dell’inabitazione dello Spirito
all’interno di un’antropologia dove l’identità dell’uomo non è pensata facendo
astrazione dal suo libero attuarsi nel tempo.
Se la libertà non è intesa a monte dell’agire dell’uomo, ma come coscienza
credente, è possibile intendere l’azione dello Spirito nell’uomo come una
presenza costante che con-forma alla vicenda filiale di Gesù e trasforma il
nostro agire nella storia. Come abbiamo detto, la libertà creata è relazione, nel
senso che riconosce le relazioni di cui è costituita (cioè perviene alla sua
identità mediante l’esperienza del corpo proprio, dell’altro, del noi e del
mondo) come portatrici di un senso promettente che autorizza la libertà a
decidersi per il proprio destino. Allora, potremmo dire che la coscienza
credente cristiana percepisce il dono promesso come una ‘presenza’ affidabile,
la presenza stessa dello Spirito che non solo trasforma l’uomo nelle sue
profondità, ma lo costituisce come una storia ‘spirituale’ di comunione. La
presenza del dono dello Spirito in noi trasforma la libertà come relazione,
attuandola come comunione. Infatti, la libertà come relazione è sempre soggetta
ad un’ambivalenza radicale: quella di interpretare il dono promesso (dentro
l’alterità di cui è costituita) non come la chiamata a una dedizione, ma come
un’affermazione di sé attraverso l’esperimento a cui sottopone tutta la realtà.
Essa cioè è buona se corrisponde alla volontà onnipotente e immediata
dell’uomo. È questa la forma radicale del peccato nella sua origine! Per questo
la libertà come relazione, il suo essere ad imaginem sperimenta il dono
promesso, non solo come un senso di cui può venire a capo, ma come una
presenza costante, la quale non si sottrae anche quando l’uomo non l’accoglie
e che gli consente sempre da capo un nuovo riconoscimento. L’uomo la
sperimenta come una presenza che trasforma non solo il suo essere, ma anche
il suo agire, perché come abbiamo visto l’uomo come libertà si dà nelle sue
molte relazioni in atto, attraverso le quali si autodetermina, decidendo del suo
futuro e quindi anche di sé. Ora, questa autodeterminazione è simultanea al
riconoscimento della promessa come la presenza stessa dello Spirito in noi,
nel senso che la sua presenza attua la coscienza credente nella sua figura filiale e
redenta.
SCHEMA DELLA PROPOSTA SISTEMATICA
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PUNTO DI PARTENZA: l’uomo è imago Dei perché è libertà intesa come
relazione in vista di un compimento (destinazione).
OBIETTIVO: mediazione critica di tale affermazione teologica attraverso la
fenomenologia dell’agire pratico della coscienza umana.
CRITICA:
a) in negativo: l’antropologia scolastica e cartesiana descriveva l’uomo
(psycologia rationalis, cogito) a monte rispetto alla sua vita/azione pratica;
b) in positivo: l’identità dell’uomo/coscienza non può essere individuata se
non a partire dal darsi concreto della libertà umana.
LIBERTÀ: LA COSCIENZA NELL’AGIRE
Due concezioni della libertà:
1) ‘dato’= attributo ontologico o qualità naturale dell’uomo
2) ‘compito’= valore morale o agire libero in rapporto al valore perseguito
STRUTTURA DELLA LIBERTÀ
Premessa: l’identità dell’uomo si dà nel suo agire/libertà (e non a monte di
esso)
L’identità dell’uomo come libertà:
a) è suscitata dalla realtà che ha un carattere promettente: senso
b) è anticipata dalla mia intenzione: con-senso
potere di agire
intenzione anticipatrice
atto
coscienza (identità)
realtà
carattere promettente
FORME PRATICHE IN CUI LA LIBERTÀ ACCADE ORIGINARIAMENTE
1. Considerazioni generali
Ci sono delle esperienze originarie della coscienza che ci mostrano come
l’«identità del soggetto» si costituisce nell’incontro con l’«altro».
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Queste esperienze originarie mostrano due dimensioni ineliminabilmente
collegate:
a) alterità/passività del senso= c’è una «realtà promettente» ‘altra’ da me,
che mi si fa avanti, e dalla quale sono colpito/affetto (‘passività’);
b) attività/libertà dell’uomo= l’uomo fa suo questo senso decidendosi e
affidandosi liberamente ad esso. Questa è la condizione originaria in cui
accade la ‘libertà’.
2. Approfondimento
2.1 Il corpo proprio:
• generazione= corpo donato (esperienza dell’alterità/passività)
• gratitudine
e
custodia=
corpo
proprio/Leib
(esperienza
dell’attività/libertà)
2.2 Il corpo dell’altro:
• alterità dell’altro (tu), cioè chiamata del prossimo= auto-affezione,
lasciarsi interpellare
• attività/libertà dell’io, cioè auto-determinazione= concedersi
2.3 Il corpo sociale:
• appartenenza dell’io al noi (alterità che ci precede e da dipendiamo)
• decisione responsabile (appropriazione libera e responsabile)
LIBERTÀ COME IMMAGINE
Queste tre forme originarie di alterità tramite cui la coscienza accede alla sua
identità, rivelano – al tempo stesso – un’esperienza di:
a) AUTO-TRASCENDENZA personale nel sentire e agire
b) TRASCENDENZA religiosa del senso
La nozione di uomo «immagine di Dio» è rintracciabile nella libertà stessa
dell’uomo che è in relazione:
• all’altro (senso che mi viene incontro);
• a sé (mi auto-determino attraverso la scelta di quel senso che mi
viene incontro).
L’uomo è pertanto immagine di Dio, perché è libertà creata ad imaginem
1) CREATA: l’uomo è un essere radicalmente costituito/creato (passività)
dall’alterità del senso;
2) LIBERTÀ: tale costituzione avviene nella forma della chiamata a cui
l’uomo acconsente attivamente/liberamente;
3)
AD IMMAGINE:
13
questa costituzione/identità non è data una volta per
tutte, ma giunge al suo compimento nell’esperienza religiosa. Infatti,
nelle esperienze di alterità/passività l’uomo percepisce l’appello
incondizionato a un senso compiuto e definitivo (escatologico).
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3_ Antropologia della libertà creata _sistematica