Lo sapevate che………..
Il potere non logora... ma a volte dà alla testa
Il potere dà alla testa. Ed è per questo che chi lo detiene crede erroneamente di poter controllare
eventi che esulano dalle proprie possibilità reali.
A darne una dimostrazione scientifica è stato un gruppo di ricercatori della Stanford Graduate
School of Business, della London Business School e della Northwestern University, in uno studio
pubblicato sulla rivista Psychological Science.
Sia i leader politici o i grandi dell'industria tendono a sottostimare i costi in tempo, denaro, mezzi e
vite umane che sono necessari per raggiungere un certo obiettivo.
"Abbiamo condotto quattro esperimenti per studiare il rapporto fra potere e illusione di controllo,
la credenza cioè di avere la capacità di influenzare esiti che sono determinati in buona parte dal
caso", hanno detto i ricercatori. "In tutti gli esperimenti, sia che il partecipante fosse forte di
un'esperienza di gestione del potere, sia che fosse stato assegnato casualmente in base alle regole
al ruolo di manager, finiva per percepire un controllo sugli esiti che andava oltre il suo ambito di
possibilità. Inoltre, l'idea di essere capaci di controllare un risultato 'casuale' portava a un
ottimismo irrealistico e a un'autostima gonfiata", hanno detto. In un esperimento, per esempio, al
detentore del potere veniva presentata una coppia di dadi e offerta una ricompensa per prevedere gli
esiti di un lancio, chiedendiogli anche se voleva lanciare lui i dadi o scegliere qualcuno che lo
facesse.
Tutti i partecipanti del gruppo di potere più alto sceglievamo di lanciarli in prima persona, contro
una percentuale inferiore al 70 per cento nei gruppi di potere minore o in quelli neutri di controllo,
suffragando l'ipotesi che la semplice esperienza del potere possa portare una persona a sovrastimare
notevolmente le proprie abilità, in questo caso, influenzando l'esito di una mano lanciando
personalmente i dadi.
Gli autori osservano che le illusioni positive possono essere adattative, aiutando i detentori del
potere a rendere possibile ciò che potrebbe apparire a prima vista impossibile. Ma la relazione fra
potere e illusione del controllo può contribuire direttamente anche alla perdita stessa del potere,
facendo prendere una serie di scelte sbagliate.
Con l'ottimismo si vive più a lungo
L'ottimismo aiuta a vivere più a lungo e in maniera più salubre: lo rivela uno studio condotto da
ricercatori statunitensi che darà ai pessimisti un motivo in più per lamentarsi.
La ricerca, compiuta su 100.000 donne e presentata al congresso annuale dell'American
Psycosomatic Society, ha rivelato una forte legame tra ottimismo e rischio di contrarre un cancro,
una malattia cardiaca o morire prematuramente.
Nel 1994 i ricercatori presero in esame i tratti della personalità di un ampio gruppo di donne; otto
anni più tardi, facendo uno studio su quelle morte si sono accorti che la percentuale era molto più
alta tra quelli che non erano ottimiste.
La ricerca riflette studi precedenti, che collegano l'ottimismo alla vita più lunga, ha confermato
Hilary Tindle, autrice dello studio, assistente all'università di Pittsburgh. Impossibile però per i
ricercatori dire se sia l'ottimismo che porta a trend di vita più salubri, se il pensare positivo influisca
direttamente su manifestazioni fisiche come lo stress, o magari entrambi le cose insieme. Un'ipotesi
è che le persone ottimiste reagiscano fisicamente meglio allo stress mentale, magari seguendo più
attentamente i consigli dei medici e dunque siano in grado di mantenersi meglio in salute. Per
esempio, le donne ottimiste -ha spiegato la Tindle- adottano uno stile di vita più salutare: "E' meno
probabile che fumino, sono di solito più attive ed hanno quasi sempre un indice di massa corporea
più basso: e questi sono tutti fattori di rischio che certamente determinano lunghezza di vita e
salute".
Infelici da piccoli, malati da grandi
I bambini infelici hanno piu' probabilita' di diventare degli adulti permanentemente malati o
disabili, secondo uno studio britannico. La ricerca e' stata effettuata dal King's College London che
ha seguito oltre 7.100 persone nate tra il 1950 e il 1955. Gli scienziati hanno scoperto che gli
individui descritti come "infelici" dai loro insegnanti avevano cinque volte piu' probabilita' di essere
spesso assenti dal lavoro da adulti a causa di problemi di salute. Inoltre, i bambini infelici erano piu'
soggetti a depressione.
Lo studio, pubblicato dal British Journal of Psychiatry, ha coinvolto bambini cresciuti ad Aberdeen
negli Anni Cinquanta. Ai loro insegnanti e' stato chiesto di rispondere a un questionario sul
comportamento degli allievi a scuola e sulla frequenza alle lezioni. I ricercatori hanno poi ritrovato
gli stessi bambini - oggi persone di mezza eta' - e hanno chiesto loro notizie sul lavoro che svolgono
e sulle assenze.
Quasi 400 persone hanno riferito di non lavorare affatto per una disabilita' o malattia permanente,
pari al 5,5% degli individui analizzati. Un quarto dei bambini descritti come "infelici, angosciati,
spesso in lacrime" dagli insegnanti a scuola erano nel gruppo degli adulti malati o disabili. Il
coordinatore della ricerca, Dr Max Henderson, commenta: "Non possiamo affermare che l'infelicita'
da bambini causi la cattiva salute da adulti, ma certamente e' un fattore che contribuisce ai
problemi successivi, anche perche' questi individui sono molto piu' soggetti a depressione e ansia,
che peggiorano lo stato di salute".
Bullismo: l'insicurezza dietro l'aggressività
Il bullismo o la violenza sugli altri nascondono una profonda insicurezza e mancanza di
personalità. Lo ha detto Maria Paola Graziani, psicologa dell'Istituto di scienze dell'alimentazione
(Isa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Avellino. "In questi mesi - ha spiegato Graziani
- siamo testimoni di ricorrenti comportamenti socialmente riprovevoli che coinvolgono giovani e
adulti, italiani e stranieri, con manifestazioni di violenza e bullismo contro i 'più fragili' bambini,
adolescenti e diseredati di vario genere. Genericamente intesi, questi comportamenti, classificati
come 'aggressivi', di fatto esprimono esempi di 'moderne barbarie'". Gli episodi di violenza
collettiva riportati dai media in queste settimane richiedono sicuramente una lettura che consideri
più fattori: oltre l'aspetto antropologico e sociale del fenomeno (povertà, emarginazione, bassa
scolarizzazione, assenza o 'carenza' di modelli genitoriali adeguati), anche quello psicologico,
emotivo e conoscitivo.
"L'atteggiamento sicuro e spavaldo che sottende molte aggressioni di efferata brutalità, spesso di
gruppo - ha proseguito la ricercatrice del Cnr - non sempre è determinata dalla noia. Spesso tali
comportamenti indicano un'assenza di identità, o un tortuoso e inutile percorso per trovarla o ritrovarla. Indicano, infine, fallimentari tentativi di affermazione e sicurezza, scollegati da qualunque
giustificazione rispetto ai danni che provoca". Un'instabilità interiore, quindi, che impedisce ad
alcuni di noi di affermare in modo sano la propria personalità. "La fragilità psicologica - ha
concluso Graziani - spesso spinge gli individui a riunirsi in branco e/o armati contro individui
indifesi, esprimendo, un distruttivo e patologico esercizio primitivo di atterramento della preda,
non giustificato dal bisogno. In azioni di questo genere l'aggressione non manifesta il coraggio del
corpo a corpo che si realizzava nell'arte della difesa e dell'attacco in epoca pre-tecnologica, ma
una grande debolezza e una totale assenza di sè, che gridano protesta e affermazione a basso
prezzo".
Amore a prima vista, questione di... cervello
E' il primo incontro quello che conta, le prime impressioni con cui si stabiliscono simpatie e
antipatie, ma soprattutto amore e attrazione.
Uno studio americano ha individuato per la prima volta i meccanismi cerebrali che si attivano
quando conosciamo qualcuno, e che freneticamente elaborano un'idea, quasi sempre definitiva, sul
tipo di sentimento che proveremo per lei.
I ricercatori dell'Università di New York, guidati da Elizabeth Phelps, nel loro studio pubblicato
sulla rivista scientifica britannica "Nature Neuroscience" riferiscono che due aree del cervello sono
coinvolte in questo processo. Sia l'amigdala che la corteccia cingolata posteriore, infatti, si
attivano quando conosciamo una persona: la prima, piccola struttura nel lobo temporale mediale,
più da un punto di vista emotivo, sociale e culturale, la seconda si occupa invece delle valutazioni
razionali ed economiche, e di assegnare un valore soggettivo alle ricompense.
Analizzando le reazioni dei partecipanti allo studio su 20 soggetti virtuali, di cui venivano
presentato un profilo e una foto allegata, la risonanza magnetica funzionale ha "fotografato" attività
significative nelle due regioni del cervello. Pochi istanti, e l'idea su una persona era già formata.
Via i brutti ricordi? basta una pillola…
Chi non ha sognato almeno una volta nella vita di dimenticare i brutti
ricordi, quelli più fastidiosi, imbarazzanti e tristi? Beh, il sogno potrebbe
diventare realtà: un gruppo di medici dell‟Università di Amsterdam ha
testato gli effetti che un farmaco beta-bloccante avrebbe sui ricordi.
Secondo lo studio - pubblicato su internet, sul portale di Nature
Neuroscience - la somministrazione di questa sostanza permetterebbe di
cancellare i ricordi meno piacevoli attraverso un farmaco utilizzato
solitamente per i malati di cuore. I recettori beta-adrenergici se associati
alla proteina G sarebbero, in pratica, in grado di agire sul modo in cui il
cervello immagazzina e rielabora i ricordi più dolorosi.
Sessanta i volontari coinvolti nello studio, perfettamente suddivisi tra uomini e
donne con una paura in comune: quella per i ragni.
Prima sono state mostrate immagini dei ragni, accompagnate da leggere scosse
elettriche per associare la paura allo stimolo elettrico. In seguito i volontari sono
stati suddivisi in due gruppi: ad uno è stato somministrato un placebo, all‟altro il
farmaco beta-bloccante.
Il risultato? Il gruppo al quale era stato somministrato il „farmaco delle meraviglie‟ non mostrava
reazioni alla vista delle immagini dei ragni.
Insomma, basta una pillola…e passa la paura. Da qui la proposta del team di medici, guidati dal
professor Merel Kindt, di utilizzare una pillola per dimenticare i brutti ricordi, da somministrare,
soprattutto, a quei pazienti con problemi psicologici causati da gravi traumi.
Ovviamente, impazza il coro dei no. Secondo molti medici sarebbe un grave sbaglio affidare la
cancellazione dei propri ricordi ad un farmaco, anche perché molto spesso risolvere traumi e disagi
a livello psicologico attraverso la terapia farmacologica non sarebbe la strada più adatta.
Senza trascurare l‟importanza che ha la memoria per persone vittime di violenze e/o stupri,
necessaria per riconoscere il proprio carnefice, ma anche per elaborare il dolore e superarlo.
Inoltre, da un punto di vista etico, l‟essere umano è la somma delle proprie
esperienze e dei propri ricordi.
Eliminando le esperienze negative si rinuncia ad una parte del proprio
carattere, ad aspetti della propria personalità che contraddistinguono la
persona e la rendono unica.
Infine non si conoscono ad oggi gli eventuali effetti collaterali dell‟utilizzo
della pillola magica: e se cancellasse anche i ricordi più belli?
Scoperto il gene dell'ottimismo e del
pessimismo
Se si vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto dipende dai nostri geni. In particolare, da uno
che influenza il nostro modo di vedere le cose. A identificarlo è stato un gruppo di ricercatori della
University of Essex in uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society B.
Il gene in questione è coinvolto nel trasporto di sostanze chimiche come la serotonina, che
influenzerebbero la visione ottimistica o pessimistica del mondo. Le persone che hanno una
versione lunga del gene tendono ad avere una visione positiva trascurando gli elementi negativi
della vita. Le persone, invece, che hanno la versione corta del gene sono decisamente più
pessimisti.
Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno coinvolto nello studio 97 volontari a cui sono
state mostrate 20 immagini belle, 20 immagini brutte e 40 neutre. I ricercatori hanno quindi
misurato il livello di attenzione che ciascun volontario ha mostrato guardando un'immagine.
Ebbene, le persone che hanno la versione più lunga del gene hanno soffermato la loro attenzione
maggiormente sulle immagini belle, come la foto di alcune caramelle. Mentre, i volontari che hanno
una versione del gene corta hanno focalizzato la loro attenzione maggiormente sulle immagini
brutte, come quella raffigurante dei ragni.
I ricercatori hanno quindi concluso che dedicare la propria attenzione selettivamente può influire sul
modo di reagire allo stress. "Coloro che avevano una versione lunga del gene trasportatore della
serotonina - ha spiegato Elaine Fox - tendevano a guardare il lato positivo della vita e a evitare
selettivamente il materiale negativo".
Grazie a queste conclusioni i ricercatori sperano di poter sviluppare nuove terapie efficaci contro
l'ansia e la depressione.
Il senso del ritmo e' innato
Il senso del ritmo si manifesta nei bambini a un'eta' molto piu' precoce di quanto i medici abbiano
finora sospettato. Un team internazionale di ricercatori ha osservato con la risonanza magnetica le
reazioni del cervello di un gruppo di bebe' di due o tre giorni di vita, e ha scoperto che i neonati
riuscivano a seguire il ritmo della musica: ascoltavano e reagivano se si interrompeva. La ricerca e'
stata pubblicata sui 'Proceedings of the National Academy of Sciences'. Per lo studio sono stati
esaminati 14 bimbi.
Gli scienziati hanno osservato nel loro cervello un'attivita' elettrica del tutto simile a quella dei 14
adulti - le mamme che li tenevano in braccio - esaminati contemporaneamente durante una seduta in
cui e' stata suonata della musica con un forte ritmo scandito dalla batteria, ha spiegato il co-autore
Henkjan Honing della University of Amsterdam. Le risonanze magnetiche al cervello hanno
rivelato che i bebe' seguivano il ritmo e, come chiunque ascolti della musica, hanno cominciato ad
anticipare le note, aspettandosi che il batterista continuasse con lo stesso ritmo e reagendo se invece
si interrompeva.
La scoperta potrebbe cambiare il modo in cui i medici considerano le abilita' musicali dei bambini,
ha dichiarato un altro co-autore dello studio, Istvan Winkler della Hungarian Academy of Sciences
di Budapest. Molti ricercatori hanno finora pensato che i bambini imparino la musica ascoltando gli
adulti, ma la nuova ricerca suggerisce che il ritmo potrebbe essere un'abilita' innata, "gia' scritta nel
cervello umano", come afferma Honing. E sarebbe una qualita' prettamente umana: secondo lo
scienziato, non dipende dal fatto di sentire il battito del cuore della mamma o la sua voce quando il
feto e' ancora nell'utero. Honing fa infatti notare che i primati a noi piu' vicini, gli scimpanze',
sentono anch'essi il battito del cuore materno prima di nascere, e tuttavia non hanno il senso del
ritmo.
Chi resta in ufficio troppo va incontro a demenza
Lo sostiene uno studio finlandese: lavorare per troppe ore può aumentare il rischio di declino
mentale e portare alla demenza.
La ricerca si è basata sull'analisi di 2.214 dipendenti pubblici britannici di mezza età e ha scoperto
che quelli che facevano gli straordinari in ufficio (lavorando più di 55 ore a settimana) avevano
capacità mentali ridotte rispetto a coloro che rispettavano l'orario standard. In particolare, il team
finlandese, come riportato dall'American Journal of Epidemiology, ha scoperto che i funzionari che
lavoravano di più avevano problemi con la memoria a breve termine e faticavano a ricordare le
parole.
La coordinatrice della ricerca, Marianna Virtanen del Finnish Institute of Occupational Health, ha
commentato: "Non vanno sottovalutati gli effetti sulla salute del restare in ufficio oltre l'orario
standard".
Ma perchè lavorare a lungo danneggia il cervello? Gli studiosi non hanno una risposta certa, ma
puntano il dito su alcuni fattori. Innanzitutto, chi resta troppo in ufficio, dorme male. Poi, è più
soggetto a depressione, con più probabilità segue uno stile di vita poco sano e si stressa, il che
danneggia il sistema cardiovascolare e, di rimando, il cervello.
I dipendenti pubblici inglesi che hanno preso parte alla ricerca hanno effettuato cinque diversi test
della loro funzionalità mentale, la prima volta tra il 1997 e il 1999, la seconda tra il 2002 e il 2004.
Quelli che lavoravano di più hanno ottenuto i punteggi più bassi ai test che misuravano la facoltà di
ragionamento e la capacità di richiamare alla mente le parole. Gli effetti erano cumulativi: più ore
lavoravano, peggiori erano i risultati.
I dipendenti che lavoravano di più con più probabilità riferivano di dormire poco, di soffrire di
depressione e di bere molto alcol.
Il Professor Mika Kivimä, che ha lavorato allo studio, ha concluso: "Continueremo a indagare su
questa relazione. E' importante capire se lavorare troppo abbia effetti duraturi sulla salute
innescando problemi anche gravi come la demenza".
Esiste una rabbia sana e costruttiva
Arrabbiarsi un po‟ può anche fare bene alla carriera. Una ricerca condotta presso la Harvard
Medical School ha dimostrato che chi reprime le proprie frustrazioni lavorative è tre volte più
predisposto a confessare di essere sceso a compromessi e di aver deluso le proprie aspettative.
I ricercatori statunitensi hanno monitorato 824 persone per ben 44 anni e hanno concluso che una
sana rabbia, utilizzata per esprimere i propri sentimenti e dar voce alle proprie ragioni con capi e
colleghi, può solo fare bene alla salute e alla carriera perché sarebbe il sintomo che non si è disposti
ad arrendersi facilmente e a scendere a compromessi che non soddisfano.
George Vaillant, coordinatore dello studio, ha spiegato che anni e anni di teoria e tecnica del
“pensiero positivo” hanno forse fatto male e hanno convinto le persone e i lavoratori che
l‟ottimismo e la mediazione sono sempre la scelta giusta. E invece, il rischio è quello di “negare la
realtà a furia di raccontarsi che va tutto bene e a rimetterci è la carriera ma forse anche la salute
che non può giovare di anni e anni di repressione dei sentimenti”. Lo studioso ha spiegato che le
emozioni negative come la paura sono innate nell‟essere umano e se usate bene sono molto utili per
superare situazioni critiche e migliorare la vita.
Attenzione, però. Non siamo autorizzati a lasciarci andare a crisi di rabbia incontrollate: queste, sì,
che possono fare ancora peggio della frustrazione.
Telefonini dei medici fonte di focolai
I cellulari del personale medico e paramedico negli ospedali sono fonte di agenti infettivi, tra i
quali il 'super-batterio', il micidiale Staphylococcus Aureus, ormai diventato resistente agli
antibiotici.
Lo rivela uno studio pubblicato dalla rivista Annals of Clinical Microbiology and Antimicrobials.
Secondo la ricerca, i telefonini potrebbero essere la fonte di molte delle infezione che si
contraggono negli ospedali: il team della Facoltà di Medicina dell'Università Ondokuz Mayis
(Turchia) ha analizzato i telefonini di medici e infermieri impiegati in reparti di chirurgia e in
reparti di terapia intensiva; e hanno scoperto che quasi il 95% di questi apparati erano contaminati
con differenti tipi di batteri, da quelli che causano infezioni minori ai più letali.
Solo il 10% del personale puliva infatti il suo telefonino con una certa regolarità.
"I cellulari potrebbero essere il focolaio di infezioni che può favorire la trasmissione da paziente a
paziente in un centro ospedaliero". Secondo i ricercatori, la scoperta mette in luce "la necessità
ovvia" di adottare misure per prevenire la contaminazione dei cellulari e di altri strumenti
elettronici: "Si raccomandano rigidi controlli delle infezioni, disinfezione ambientale, igiene delle
mani e metodi di decontaminazione".
Influenza: aria umida contrasta diffusione virus
L'influenza si diffonde indisturbata nell'aria secca invernale e si contrasta invece con l'aria umida.
Lo dice una ricerca condotta presso l'Oregon State University americana e pubblicata dalla rivista
Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas). I ricercatori, diretti da Jeffrey
Shaman, si sono concentrati sul rapporto fra umidita' assoluta e sopravvivenza virale, ossia sulla
lunghezza del periodo in cui il virus rimane vitale una volta nell'aria. L'umidita' assoluta indica la
quantita' di acqua nell'aria, indipendentemente dalla temperatura dell'ambiente.
"La correlazione e' risultata sorprendentemente forte", ha detto Shaman. "Quando l'umidita'
assoluta e' bassa, il periodo di sopravvivenza del virus dell'influenza si allunga e i tassi di
trasmissione salgono". Via libera dunque a umidificatori e vaporizzatori per prevenire il diffondersi
della malattia: secondo le analisi di Shaman - che ha esaminato i dati di studi precedenti sul
collegamento tra umidita' e influenza - bassi livelli di umidita' assoluta
spiegherebbero il 50% dei casi di trasmissione del virus dell'influenza e sarebbero
responsabili nel 90% dei casi della sopravvivenza del virus.
"Abbiamo finalmente spiegato perche' il virus dell'influenza prospera d'inverno e
non d'estate, quando i vapori di umidita' nell'aria possono essere addirittura
quattro volte superiori a quelli di una tipica giornata invernale", ha concluso Shaman
È allarme-lettori mp3: attenzione ai danni acustici causati dai
batteri da iPod
Qualche mese fa il Comitato scientifico per i rischi sanitari emergenti della Commissione UE
aveva lanciato un allarme-abuso di lettori mp3 da parte dei più giovani. Gli esperti di Bruxelles
avevano parlato di “seria preoccupazione” nei confronti dell‟uso continuato di iPod per più di
sessanta minuti al giorno e per cinque anni continuativi; secondo il team UE questo tipo di utilizzo
potrebbe essere causa di danni irreversibili per l‟udito nei giovani. Questi ultimi, e gli adolescenti in
particolar modo, sarebbero esposti ad un rischio ancor maggiore per via dei volumi alti di ascolto
adottati regolarmente.
Nei giorni scorsi, un pool di studiosi indiani ha messo in guardia gli
appassionati di iPod e di lettori mp3 sottolineando anche i rischi legati all‟uso
degli auricolari, che sarebbero uno straordinario veicolo di batteri.
Un gruppo di ricercatori del Kasturba Medical College di Manipal ha
illustrato, infatti, sulle pagine del Journal of Health and Allied Sciences i
dati dello studio, che ha preso in esame cinquanta auricolari di lettori mp3 e le
orecchie di altrettanti giovani individui, suddivisi in due gruppi costituiti da 25
soggetti ciascuno: il primo usava regolarmente un lettore mp3 mentre il secondo ne faceva un uso
saltuario.
Stando ai dati raccolti dal team indiano al termine del follow-up, è emerso che le orecchie di coloro
che regolarmente ascoltano musica da auricolari collegati a iPod o lettori simili sono letteralmente
invase da indesiderati batteri rispetto a ciò che avviene per chi usa raramente le cuffiette.
Migliaia sono - spiegano gli studiosi di Maripal - i microrganismi innocui che si
annidano negli auricolari e che non espongono a rischi particolari, ma talvolta “negli
auricolari si insinuano batteri come lo stafilococco, che possono nuocere
gravemente alla salute”. La raccomandazione del team indiano è quella di evitare lo
scambio frequente di cuffiette e auricolari tra ascoltatori di iPod, Zen o altri lettori di questo tipo: si
tratta, infatti, di una pratica particolarmente in voga tra i giovani e, soprattutto, nella fascia 15/18
anni.
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