Le professioni sociali e sanitarie nelle loro differenze di ruolo: nuovi modelli e strumenti di integrazione professionale di Luciana Ridolfi Paper for the Espanet Conference “Innovare il welfare. Percorsi di trasformazione in Italia e in Europa” Milano, 29 Settembre — 1 Ottobre 2011 Luciana Ridolfi Dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Responsabile Settore Programmazione e Allocazione Risorse Umane, AUSL Rimini. mail: [email protected] Introduzione
Alla luce delle considerevoli modificazioni intervenute nell’assetto istituzionale dei sistemi sanitari,
tutti gli attori del sistema-salute (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, direttori di
distretto, organizzazioni pubblico-private e non-profit, cittadini-utenti/pazienti…) concorrono oggi
alla costruzione di reti di relazioni stabili in grado di scambiarsi risorse.
La governance che ne risulta supera la settorialità e l’autoreferenzialità degli interessi corporativi e
di mercato e sostituisce al consueto governo gerarchico-burocratico, la coordinazione comunitaria,
negoziata e condivisa del sistema socio-sanitario (community health governance): ciò induce i
diversi professionisti al ripensamento e alla ri-negoziazione dei rispettivi ambiti di competenza.
Peraltro, le stesse norme rinviano all’urgenza di una più accurata definizione del ruolo e delle
responsabilità delle nuove professioni sanitarie e sociali emergenti che, sebbene differenti per
cultura, formazione e specifico campo giurisdizionale, tendono tutte ad un obiettivo comune e sono,
dunque, interdipendenti. Attraverso l’analisi di concetti quali il lavoro di rete, l’integrazione, la
multidisciplinarietà e la condivisione interprofessionale della cura (shared care), intendo proporre
una riflessione su alcune tematiche che ritengo cruciali per lo sviluppo professionale. In particolare:
•
partendo dall’evidenza che il numero ed i profili delle professioni sanitarie e sociali sono in
continua crescita, occorre chiedersi se, nell’economia dell’intero sistema, il dato rappresenta
un elemento di criticità oppure disegna nuove opportunità organizzative;
•
contemporaneamente, è necessario ricercare le strategie più idonee per la costituzione di
équipe operative in cui si realizzi una reale cultura dell’integrazione multiprofessionale;
•
quest’ultimo concetto rimanda inevitabilmente ad una revisione critica dell’organizzazione
del lavoro di cura/assistenza tuttora in uso: è opportuno applicare modelli innovativi (ad es:
community nursing, case management…) che si fondano sul coordinamento e su un’effettiva
autonomia dei professionisti “non medici”, complementare ed integrata a quella medica.
Obiettivi della ricerca
L’obiettivo di queste pagine è documentare come l’aumento dell’offerta formativa dei diversi
profili professionali in ambito sociale e sanitario, se da un lato comporta la possibilità di garantire
un’offerta socio-assistenziale maggiormente qualificata e più rispondente ai bisogni molteplici ed
attuali della società, dall’altro può rendere complesso il coordinamento di tali figure con elevati
rischi di conflittualità interprofessionale, di mancata integrazione organizzativa e di ricadute
negative in termini di continuità delle cure e di outcomes per i cittadini.
2
Metodologia di lavoro
Lo studio si avvale della combinazione di alcuni approcci metodologici qualitativi, tra i quali:
-
una revisione della letteratura finalizzata ad un approfondimento teorico dei concetti di
professione, professionalizzazione e managerialismo;
-
un’indagine sulle professioni sociali e sanitarie emergenti con un’analisi dei conflitti
interprofessionali e le strategie competitive tra gruppi occupazionali concorrenti;
-
una revisione sulle definizioni, gli strumenti e le misure di valutazione dell’integrazione
professionale e della continuità dell’assistenza;
-
una riflessione sociologica sull’opportunità di mettere in campo nuovi strumenti e nuovi
modelli di integrazione professionale.
I concetti di professione, professionalizzazione e managerialismo
I professionisti rappresentano i nodi vitali di una struttura organizzativa: a loro è infatti richiesto di
“caricarsi di una parte della missione, degli obiettivi e delle sfide dell’impresa”.1
Operando una rapida schematizzazione, ricordiamo come il modello di organizzazione del lavoro e
di gestione delle risorse umane di stampo tayloristico del XIX secolo, aveva determinato una
scissione tra il lavoro di management e quello di produzione: “direzione” ed “esecuzione” si
configuravano come due mondi separati, ciascuno con logiche e linguaggi diversi...
Oggi le organizzazioni si “orizzontalizzano” e, all’interno di esse, conoscenza, controllo,
management e potere sono allocati in modalità diffusa in tutta l’azienda.2 Compito essenziale delle
professioni non è più la produzione di conoscenze scientifiche e tecniche fine a sé stessa, bensì la
loro applicazione ai problemi umani: il professionista che opera nelle organizzazioni sanitarie e
sociali, pur con ampi margini di autonomia e di responsabilità rispetto all’organizzazione e ai suoi
fruitori, contribuisce allo sviluppo ed all’integrazione di conoscenze rilevanti per i processi
dell’ente in cui opera (knowledge worker). 3
1
F. Butera, “Dalla sociologia delle professioni all’analisi dei gruppi professionali…”, in: M. Giannini e E. Minardi (a
cura di), I gruppi professionali, Franco Angeli, Milano, 1998 p. 227
2
Un tempo l’organizzazione era stabile, rigida, basata sulla parcellizzazione e specializzazione del lavoro,
standardizzazione delle attività produttive e pervasività delle procedure di gestione e controllo. Il passaggio alla società
post-industriale, lo sviluppo delle tecnologie informatiche, l’emergenza del modello a rete rappresentano i punti critici
di un processo evolutivo che spinge le organizzazioni post-moderne verso configurazioni flessibili e nuovi ruoli
professionali. Cfr. G. Giarelli, E. Venneri, Sociologia della salute e della medicina, F. Angeli, Milano, 2009, p. 389.
3
I knowledge workers sono individui che assimilano, gestiscono e traducono immense quantità d’informazioni di
importanza cruciale per il vantaggio competitivo e il successo finale dell’azienda in cui operano.
3
In ambito sociologico ed economico, queste attribuzioni sottendono un ampio dibattito nel tentativo
di definire concetti e caratteristiche tipiche di una professione: credo sia utile perciò operare una
breve rassegna sulle principali nozioni legate al concetto di professione allo scopo di ottenerne sia
una definizione basilare in ambito sociologico (a scopo analitico-comparativo), sia per rintracciare
elementi utili per comprendere le attuali problematiche in tema di integrazione interprofessionale.
Le professioni sanitarie tra approccio funzionalista, strategie neoweberiane e new
management
L’approccio funzionalista ha origine nel pensiero di E. Durkheim e si evolve poi con la riflessione
di autori come A.M. Carr Saunders, E.O.Wilson e J.W. Goode, sino a giungere a T. Parsons.
Se Durkheim riflette sullo sviluppo delle corporazioni professionali quale antidoto alla rilassatezza
anomica della morale pubblica, la prima analisi organizzata sulle professioni sanitarie risale al 1930
per merito di Carr Saunders e Wilson, i quali operano una ricostruzione storica dei principali gruppi
professionali apparsi in Inghilterra nel XIX secolo.4 Lo studio dei due autori costituisce la base di
partenza per l’elaborazione successiva di una vera e propria teoria delle professioni ad opera di
studiosi funzionalisti quali Goode e Parsons. Lo sviluppo della conoscenza tecnico-scientifica tende
a far crescere sia il numero dei professionisti, sia quello delle occupazioni che ambiscono a essere
riconosciute come professioni: ciò spinge Goode a dichiarare che una società che si industrializza è
una società che si professionalizza5 e Parsons a ritenere lo sviluppo delle professioni come la più
rilevante trasformazione operata nel sistema occupazionale della società moderna.6
L’idea dell’opportunità evolutiva delle occupazioni in professioni introduce il tema del cosiddetto
professionalismo per attributi. Con “professionalizzazione”, W. Tousijn intende il “processo
mediante il quale le singole occupazioni, nel corso della loro storia, si trasformano in professioni,
ossia acquisiscono gli attributi speciali del professionalismo”.7
Il professionalismo si configura dunque come un continuum che dall’occupazione giunge sino a
costituirsi professione attraverso l’acquisizione di attribuiti specifici. Vari autori si spingono fino ad
individuare un vero e proprio “approccio per attributi” capace di misurare il livello di
professionalizzazione di varie occupazioni grazie a scale progettate sulla base del possesso dei
diversi attributi speciali.
4
Si parla di dentisti, ingegneri, architetti, chirurghi, avvocati... Cfr. A.M. Carr Saunders, E.O.Wilson, Professions, in
Encyclopaedia of the social sciences, New York 1954, pp. 476-480.
5
J. W.Goode, Encroachment, charlatanism, and the emerging profession, in: Amer. sociological rev. 25, 1960, p. 902
6
T. Parsons, Professions, in International encyclopedia of the social sciences (a cura di D.L. Sills), vol. XII, New York
1968, pp. 536-547 (tr. it. in: W. Tousijn (a cura di), Sociologia delle professioni, Il Mulino, Bologna, 1997. pp. 73-90).
7
W. Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, Il Mulino, Bologna, 2000.p. 14
4
Il più noto interprete del cosiddetto approccio per attributi allo studio delle professioni è E.
Greenwood che riconduce le peculiarità di un’attività professionale a cinque elementi distintivi:
abilità superiore, autorità professionale, sanzione della comunità, regole etiche codificate,
creazione di associazioni.8
Alcuni autori avanzano l’ipotesi se sia individuabile una sequenza comune di fasi attraverso cui
siano transitate tutte le professioni: questa idea viene ripresa con successo soprattutto da H.
Wilensky tramite una verifica sperimentale circa la storia di ben diciotto professioni americane.
Secondo l’autore, tutte le occupazioni possono assumere dignità professionale purché attraversino
cinque fasi del processo di professionalizzazione secondo questo ordine: manifestazione di una
determinata occupazione a tempo pieno, creazione di scuole di formazione specialistica, nascita di
associazioni professionali (locali e nazionali), garanzia di tutela dello Stato verso la professione
stessa, predisposizione di un codice deontologico. Emerge così l’idea che il processo di
professionalizzazione è unidirezionale, sequenziale e costituito da una “progressione costante di
eventi fino alla terra promessa del professionalismo”.9
A questa teoria si contrappone A. Abbott secondo il quale, nel processo di professionalizzazione,
non esisterebbe alcuna analogia nelle “storie” della professionalizzazione: all’opposto, l’ascesa di
un’occupazione verso lo “status” di professione va principalmente rapportata e ricondotta ad un
insieme di fattori critici di tipo culturale, economico, politico e tecnologico; tali fattori determinano
l’estrema mutabilità dei processi attraverso cui le professioni conseguono, mantengono, aggiustano,
perdono il loro esclusivo “potere” in specifici settori occupazionali. Abbott si avvale del termine di
“giurisdizione” per indicare la relazione tra una professione e la sua area di attività professionale.
La pretesa di un territorio di esclusiva competenza del proprio lavoro si realizza all’interno di uno
scenario fortemente instabile, dove i tre campi sociali del sistema giuridico-istituzionale, dei
clienti/consumatori, e dei territori di lavoro “influenzano la vulnerabilità della giurisdizione
professionale”.10 Tousijn sottolinea l’interdipendenza dei tre domini sociali nonché la variabilità
nel tempo e in Paesi diversi della loro incidenza sui processi di professionalizzazione.11
Intorno agli anni ’70, le critiche rivolte alla classificazione di Greenwood ed alla sequenzialità
unidirezionale delle professioni di Wilensky danno avvio ad un vero e proprio cambiamento
epistemologico in questo campo.
8
Cfr. E. Greenwood, “Attributes of a profession”, in: Social work 2, 1957, pp. 45-55, (tr. it. in G.P. Prandstraller (a cura
di), Sociologia delle professioni, Roma 1980, pp. 103-118).
9
Cfr. H. Wilensky, The professionalization of everyone?, in Amer. sociological rev. 1964, LXX, pp. 133-158 (tr. it in:
W. Tousijn (a cura di), Sociologia delle professioni, op. cit, pp. 113-135).
10
Cfr. A. Abbott, The system of professions. An essay on the division of expert labor, Univer. of Chicago Press, 1988.
11
Cfr. W. Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, op. cit, pag. 24
5
Ben presto si configura una nuova corrente interpretativa che, grazie all’apporto teorico dei
contributi di M. Weber, va ad analizzare le professioni in quanto gruppi sociali organizzati dotati di
competenza esclusiva di un dato mercato, controllo su altre occupazioni, potere di definire i bisogni
del consumatore e il modo di provvedervi.12 Tra i teorici neo-weberiani spicca il lavoro di T.
Johnson che considera le professioni come “strumenti di controllo della relazione” che si instaura
fra chi elargisce la prestazione/servizio (professionista) e chi utilizza il servizio professionale
(cliente), distinguendo tre modalità principali: controllo collegiale, patronato, mediazione. 13
In sintesi, il processo di professionalizzazione delle occupazioni lavorative viene a snodarsi
all’interno di posizioni nettamente opposte: da una parte è rintracciabile l’idea di una
“universalizzazione del modello professionale”, dall’altra si evidenziano le debolezze di questa
idea, soprattutto in riferimento alle situazioni di “negoziazione e di conflitto che ciascuna
occupazione, in quanto soggetto collettivo e organizzativo, sostiene innanzitutto con le altre
occupazioni, ma anche con lo stato e con i clienti stessi”.14
A partire dagli anni ‘90 il dibattito sul processo di professionalizzazione si è arricchito di un’altra
tendenza – il cosiddetto managerialismo – sistema che ha portato a gestire le strutture pubbliche
mediante l’adozione di moduli di tipo privatistico che seguono le linee del cosiddetto new
management.15 Nel settore sanitario, il new management si è tradotto principalmente nella
trasformazione delle organizzazioni sanitarie in aziende: queste, pur mantenendo la gestione
pubblica, operano secondo sistemi e criteri di tipo privatistico.16
La “rivoluzione manageriale” ha riguardato molti Paesi europei, con intensità diverse, raggiungendo
alti livelli soprattutto in Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Italia e minore influsso in Francia e
Germania. L’impatto del managerialismo sembra incidere maggiormente sull’autonomia di alcune
categorie (i medici in primis), in quanto tende a rompere le giurisdizioni e le identità professionali,
andando a riassegnare i compiti in base ad una logica dell’efficienza.
12
Cfr. G. Giarelli, E. Venneri, Sociologia della salute e della medicina, op. cit, p. 392
13
Controllo collegiale: Sistema corporativo dove sono i professionisti che definiscono i bisogni dei loro clienti e i modi
con cui tali bisogni bisogna soddisfarli.
Patronato: In questo caso è il cliente a definire i propri bisogni che devono essere soddisfatti dal professionista e le
modalità di soddisfazione che questi devono seguire.
Mediazione: una terza parte (es: lo stato o un’agenzia pubblica) media le relazioni tra professionisti e clienti definendo
bisogni e criteri di soddisfazione. Cfr. T. Johnson, Professions and Power, London 1972 (tr. it. in G.P. Prandstraller (a
cura di): Sociologia delle professioni, op. cit, pp. 119-125).
14
W. Tousijn (a cura di), Sociologia delle professioni, op. cit., pag. 56
15
Il new public management è un approccio alla riforma della PA che si basa sull'adozione di pratiche gestionali tipiche
delle aziende private adattate ad orientare l'azione delle organizzazioni incaricate di fornire servizi ai cittadini, verso
obiettivi di efficacia, efficienza e qualità delle prestazioni. Cfr. C. Pollit e G. Bouckaert, La riforma del management
pubblico, Università Bocconi Editore, Milano 2002.
16
Cfr. d.lgs. 502/92 http://www.normativasanitaria.it/jsp/dettaglio.jsp?id=13209
6
L’esito dello “scontro” tra professionalismo e managerialismo ha prodotto la cosiddetta soft
bureaucracy, un sistema di strategie di controllo sull’operato dei professionisti. 17
G. Giarelli ha indagato il rapporto creatosi tra manager e professionisti clinici e le conseguenze
sull’autonomia professionale di questi ultimi: dall’indagine emerge che l’autonomia del singolo
medico sembra essersi ridotta in tutti i Paesi esaminati (Germania, Francia, Stati Uniti, Gran
Bretagna, Svezia) con l’introduzione di strumenti come la Clinical Governance o il Managed Care
statunitense.18 Strumenti introdotti dai cambiamenti, come l’audit clinico, le peer review, la
supervisione-monitoraggio, gli indicatori di performance hanno delineato in molti casi un mezzo di
controllo esterno sui risultati del lavoro del singolo medico.
I dirigenti tuttavia, possono sostenere la concretizzazione dei piani aziendali non solo attraverso
processi di controllo, ma anche attraverso processi di empowerment attivati a livello personale e
collegiale. Molte aziende, a tale scopo, stanno aprendosi a un modello di governance che permetta
di attuare sviluppo tramite il coinvolgimento del personale, consentendo al contempo la valutazione
dei processi e il ri-orientamento verso linee di maggiore soddisfazione personale.
Questa prospettiva enfatizza le competenze etico-relazionali del management, focalizzando
l’attenzione sulla cosiddetta “capacity building”, una strategia che implica sviluppo partecipativo,
clima di dialogo e partecipazione del personale. In sostanza, si tratta di un decentramento
decisionale che restituisce a ciascuno le proprie responsabilità nell’ottica della collaborazione e
della mediazione tra costi e benefici.19
Conflitti interprofessionali e strategie competitive tra gruppi occupazionali concorrenti
La strategia maggiormente utilizzata dalle varie professioni per la conquista del proprio spazio
d’azione è quella della cosiddetta doppia chiusura: usurpazione verso l’alto ed esclusione verso il
basso.20 Uno dei fenomeni che meglio mostra le strategie messe in atto da una professione per
delineare il proprio profilo nel corso del tempo è la dominanza medica, astrazione studiata e
dibattuta ancora oggi, nonostante viva la sua fase di declino...
17
Cfr. D. Courpasson, Managerial strategies of domination. Power in soft bureaucracies. Organization Studies, 21,
2000, 1: 141-161.
18
Clinical Governance = E’ l’anello di congiunzione che permette di unire le due visioni della qualità delle cure, e cioè
quello manageriale e quella squisitamente clinico. E’ quindi una strategia necessaria ed ineludibile che deve essere
adottata per traghettare la sanità da un modello che garantisce tutto a tutti ed offre ogni libertà di scelta (modello non
più sostenibile), ad uno in grado di valutare i reali bisogni del cittadino.
Managed Care = Progetti di cura integrata legati alla necessità di coniugare l’efficacia clinica con l’uso appropriato
delle risorse, ponendo attenzione ai costi, privilegiando la qualità delle cure e la centralità del paziente nel disegno
assistenziale. Cfr. G. Giarelli, Il malessere della medicina, un confronto internazionale, Franco Angeli, Milano, 2003.
19
Cfr. D. Tartaglini, P. Binetti, Organizzazione e salute, Società Editrice Universo, Roma, 2008.
20
Cfr. A. Witz A., Professions and Patriarchy, Roudledge, Londra, 1992
7
Il concetto di dominanza medica viene introdotto da E. Freidson, che vi vede due principali
elementi costitutivi: l’autonomia professionale e la posizione dominante assunta nei confronti delle
altre occupazioni del sistema sanitario.21 Un terzo tratto distintivo, ricavabile implicitamente, è
relativo alla dimensione del potere esercitato sui pazienti: se nella definizione di potere si include la
possibilità di esercitare un controllo sui comportamenti, allora appare fin troppo chiara la rilevanza
assunta da quest’ultima dimensione.
La strategia della dominanza medica ha concorso alla nascita di un sistema fortemente stratificato
che ruota attorno al lavoro dei medici che godono di prestigio maggiore rispetto a quello attribuito
dalla società alle altre professioni. Si sono individuate almeno quattro forme di dominanza medica,
che corrispondono ad altrettanti tipi di strategie attuate dai medici per differenziare il loro ruolo da
quello di altre professioni:22 la dominanza funzionale, basata sul monopolio dei medici sulle
funzioni del processo di cura: diagnosi e scelta della terapia; la dominanza gerarchica, fondata sulla
divisione verticale del lavoro specie all’interno degli ospedali;23 la dominanza scientifica, derivante
dal potere medico di definire ambiti e competenze della medicina in quanto scienza; la dominanza
istituzionale, che fa riferimento alla massiccia presenza di medici nelle commissioni abilitative di
molte occupazioni sanitarie, nei corpi docenti, nelle istituzioni centrali di ogni professione.
Lo sviluppo storico dell’organizzazione della divisione del lavoro – secondo la quale il medico è il
solo autorizzato a eseguire/ordinare procedure diagnostiche e terapeutiche, a prescrivere analisi e
farmaci – ha portato le altre occupazioni alla dipendenza e a dover trovare qualche fonte autonoma
di legittimazione e riconoscimento. Il dibattito su un eventuale declino della dominanza medica è
tuttora in corso ed è possibile estrapolarvi sinteticamente due matrici di pensiero intorno alle
possibili trasformazioni della professione medica: una di tipo verticale ed una di tipo orizzontale.
La trasformazione verticale è un effetto della crescente stratificazione professionale, sintetizzabile
nelle tre figure individuate da Freidson: praticanti, amministratori, accademici, operatori con
obiettivi e strategie diverse.24 La trasformazione orizzontale è dovuta invece al moltiplicarsi delle
specializzazioni in campo medico ed alla loro trasformazione in professioni vere e proprie.25
21
Autonomia professionale: è la detenzione, da parte della professione medica, di un elevato grado di autonomia
funzionale, il che implica un livello di controllo sul contenuto del lavoro svolto: ciò si realizza nel potere di indirizzare
il lavoro nella forma ritenuta più opportuna, nell’esercitare un controllo sulla produzione delle conoscenze-abilità
tecniche essenziali all'esercizio della professione.
Posizione dominante: il superiore posizionamento della professione medica rispetto alle altre occupazioni o professioni.
Cfr. E. Freidson, La dominanza medica, Franco Angeli, Milano, 2002
22
Cfr. W. Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, op. cit., p. 119
23
Questo tipo di dominanza ha caratterizzato la storia di numerose professioni sanitarie, in primis, come vedremo, le
infermiere, i tecnici di laboratorio, i tecnici di radiologia, i terapisti della riabilitazione ed anche le ostetriche.
24
25
Cfr. E. Freidson, Professional Powers, University of Chicago press, Chicago, 1986
Cfr. W. Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, op. cit, pag. 44
8
La stratificazione e la specializzazione medica, nonché la pluri-occupazione nelle sue varie forme
(medico aziendalista ospedaliero-territoriale, libero professionista…), hanno fatto emergere la
consapevolezza che l’obiettivo del perseguimento della salute dipende sempre più dalla capacità di
farvi confluire saperi e competenze differenti detenute da professionisti diversi.
Tutti questi fenomeni hanno inciso ed incidono nelle relazioni di potere tra le professioni,
favorendo, in alcuni casi, processi di professionalizzazione delle professioni sanitarie non mediche,
come oggi sta accadendo con le nuove professioni sanitarie emergenti.
Analisi delle professioni sociali e sanitarie emergenti
Nello sviluppo di progetti di shared care (condivisione della cura), le prestazioni professionali
vengono a delinearsi sempre più come l’effetto dell’azione congiunta di diversi fattori che –
superando la tradizionale asimmetria della relazione medico/infermiere e medico/paziente – tendono
all’integrazione dei saperi e delle competenze. Queste, pur nella diversità dei profili funzionali e
delle metodologie adottate, concorrono tutte al soddisfacimento della domanda di salute dei
cittadini, domanda che è sempre più complessa e diversificata e che necessità di prestazioni di
natura sanitaria e socio-assistenziale e di interventi di prevenzione e promozione dei servizi.26
Man mano che le organizzazioni sanitarie si “orizzontalizzano”– specializzandosi in base al
progetto, al prodotto-servizio e valorizzando le competenze professionali specifiche – le tradizionali
gerarchie del sistema vengono a perdere rilievo per effetto della nascita di équipe socio-assistenziali
integrate e multiprofessionali in cui si attua l’incontro interdisciplinare di conoscenze specializzate
diverse e complementari.27 Per le professioni sanitarie e sociali, ciò rappresenta l’opportunità di
iniziare percorsi di mobilità sociale collettiva diretti all’acquisizione di nuove posizioni nella
divisione del lavoro ed al raggiungimento dell’autonomia professionale.28
26
Con il termine servizi socio-sanitari si indica un’area nella quale convivono servizi medico-sanitari con altri a
carattere più propriamente sociale, in quanto destinati a supportare persone con problemi di emarginazione o disabilità
che condizionano il loro stato di vita e di salute. Le aree più a rischio riguardano anziani, disagio minorile, disabilità,
patologie psichiatriche, dipendenza da droghe e alcool, immigrazione, sostegno alle donne in difficoltà. Ad un’utenza
così eterogenea corrisponde una varietà di servizi (pubblici e privati), sia del settore non profit, che con fine di lucro.
27
La legge 833/78 ha affermato il principio dell’integrazione degli interventi sanitari e sociali. La successiva normativa
in materia di assistenza socio-sanitaria ha mantenuto l’integrazione come obiettivo e ha definito, già dagli anni ‘80,
l’organizzazione dei servizi sul territorio (Aziende Sanitarie e Distretti), le competenze gestionali dei vari livelli
istituzionali (Regioni, Province, Comuni, Aziende Sanitarie) e i compiti di programmazione delle Regioni contenuti nei
Piani Sanitari Reg.li. Accanto alla riforma del sistema sanitario, avviata con il decreto 229/99, la legge quadro 328/2000
ha introdotto un nuovo schema di competenze per la realizzazione di un sistema integrato di interventi, collocando il
settore sociosanitario al centro del quadro di interventi volti a garantire/promuovere la tutela e la cura della persona.
28
M. Sarfatti Larson, nel suo classico The Rise of Professionalism (1977), ha definito il professionalismo come un
processo di mobilità sociale collettiva; in altre parole, è un modo per mantenere lo status in un sistema di
stratificazione.
9
Ciò che è avvenuto per lo sviluppo del lavoro infermieristico è particolarmente indicativo al
riguardo: dagli anni dell’Unità d’Italia ad oggi, si è assistito ad un progressivo allargamento degli
spazi occupazionali degli infermieri nell’ambito dell’assistenza, della cura, dell’educazione
terapeutica, della prevenzione e della qualificazione formativa e professionale.29
Simili movimenti caratterizzano anche l’evoluzione occupazionale delle ostetriche: la peculiarità
occupazionale di questa categoria attraversa tre fasi fortemente caratterizzate da fattori socioculturali.30 Anche le storie lavorative della maggior parte delle figure tecniche sanitarie oscillano tra
meccanismi di de-qualificazione, eliminazione e riconoscimento che, nel tempo, ne hanno
determinato una progressiva emancipazione della professione medica.
In un contesto caratterizzato da una massiccia espansione del mercato sanitario (consolidamento di
nuovi servizi, progresso delle conoscenze tecnico-scientifiche, nuova definizione dei confini
occupazionali…), la legittimazione delle professioni, in particolare di quelle sanitarie, è avvenuta
soprattutto in virtù della delega crescente di compiti lavorativi, precedentemente assolti dai medici,
ad altre occupazioni.
Diversamente, la nascita di figure tecnico-sanitarie come quelle dei logopedisti, audioprotesisti,
tecnici di radiologia medica, tecnici di laboratorio biomedico, fisioterapisti, è legata soprattutto allo
sviluppo tecnologico e alla diffusione di nuove apparecchiature in ambito ospedaliero.
La proliferazione di queste occupazioni/professioni – alle quali si aggiungono anche i dietisti, gli
igienisti dentali, gli ortottisti, i podologi, i tecnici di neuro-fisiopatologia, i tecnici ortopedici – si
verifica, nel contesto sanitario italiano, a partire dagli anni ’50 e raggiunge l’apice, anche se con
elevato ritardo rispetto ad altri paesi, con l’approvazione dei profili professionali che sostituiscono
il “mansionario”.
Nel ventennio successivo al 1974, si assiste ad una rapida successione di provvedimenti normativi
che adeguano il percorso di professionalizzazione delle attività sanitarie non-mediche ai rapidi
mutamenti della realtà sanitaria: la necessità di disporre di conoscenze specializzate per
l’erogazione degli interventi assistenziali porta, nel 1994, all’approvazione dei 22 profili
29
In Italia il percorso professionale degli infermieri procede dai primi del ‘900 con la richiesta di migliori condizioni
lavorative da parte di gruppi sindacali locali (leghe infermieristiche); prosegue tra le due guerre con l’istituzione delle
scuole di formazione e la creazione di associazioni; delinea una capillare organizzazione su tutto il territorio nazionale
nel 1954, con l’istituzione dei collegi provinciali. Nel periodo 1965-74, la categoria si sviluppa ulteriormente con
l’istituzione di tre scuole universitarie per dirigenti dell’assistenza infermieristica e la definizione dei compiti degli
infermieri “professionali” (distinti da quelli degli infermieri “generici); viene emanato il DPR n. 225/74 che, ancora a
rafforzamento del carattere ausiliario delle occupazioni sanitarie, prevede per gli infermieri, le vigilatrici di infanzia, gli
assistenti sanitari e successivamente per le ostetriche, l’attribuzione di specifiche mansioni (mansionario).
30
Nella fase pre-professionale, la levatrice assolve un compito di “genere”, di aiuto-assistenza alle partorienti; nel
momento della medicalizzazione, l’assistenza viene consentita solo nei casi di parto “fisiologico”; nel periodo neoprofessionale, la crescente attenzione ai costi sanitari, un’attenzione rinnovata alla de-medicalizzazione del parto,
conducono le associazioni professionali delle ostetriche alla rivendicazione di conoscenze e programmi di formazione
ad elevata qualificazione per l’esercizio autonomo di funzioni non mutabili da quelle mediche o infermieristiche.
10
professionali nei settori infermieristico, tecnico-sanitario e della riabilitazione che concorrono a
tracciare
una
nuova
situazione
organizzativa
caratterizzata
da
maggiore
flessibilità
nell’interpretazione dei ruoli-funzioni di ciascuna figura secondo una nuova modalità di lavoro per
processi e obiettivi.31
Con la legge 42/99 recante “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”, si abroga il cosiddetto
mansionario e si avviano nel contempo le attività di revisione-rettifica dei codici deontologici.32
Successivamente, la legge 251/2000 disciplina i settori professionali suddetti sottolineando
l’autonomia e la specificità professionale al fine di potenziare e sviluppare i servizi di promozione
della salute, prevenzione, cura ed assistenza al paziente; la stessa legge interviene altresì sui
percorsi formativi previsti per le nuove professioni riqualificandoli con l’introduzione di corsi di
laurea e master post-laurea.33
Ancora la legge n. 43/2006 perfeziona tali aspetti del processo di riforma delle professioni sanitarie;
le disposizioni della norma, infatti, ratificano e associano quelle infermieristiche, ostetriche,
riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione alla cerchia delle “professioni intellettuali”.34
Per ciò che concerne il percorso di riordino delle professioni sociali, questo è previsto dalla legge
quadro di riforma del welfare locale.35
Le figure professionali rilevate nella normativa sono riassunte nello schema seguente:
31
Per ciò che concerne le professioni sanitarie, a partire dal 1994 sono stati definiti 22 nuovi Profili Professionali, che
sono stati successivamente riconosciuti dal Sistema Universitario con il Decreto MURST del 2 aprile 2001 “Decreto
delle Classi delle Lauree e delle Lauree specialistiche” e che risultano distribuiti in quattro classi: le professioni
sanitarie infermieristiche e ostetriche; le professioni sanitarie riabilitative; le professioni sanitarie tecniche, articolate in
area tecnico-diagnostica e area tecnico assistenziale; e infine le professioni sanitarie della prevenzione.
32
33
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/99042l.htm
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00251l.htm
34
Le figure professionali sanitarie nella normativa sono:
Classe delle lauree in professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica (Infermiere, infermiere
pediatrico, ostetrica/o); Classe delle lauree in professioni della riabilitazione (Podologo, Fisioterapista, Logopedista,
Ortottista, Assistente di Oftalmologia, Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, Tecnico della
riabilitazione psichiatrica, Terapista occupazionale, Educatore professionale); Classe delle lauree in professioni
sanitarie tecniche (Area tecnico diagnostica: Tecnico audiometrista, Tecnico sanitario di laboratorio biomedico, Tecnico
sanitario di radiologia medica, Tecnico di neuro fisiopatologia; - Area tecnico assistenziale: Tecnico ortopedico,
Tecnico audioprotesista, Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, Igienista dentale,
Dietista); Classe delle lauree in professioni sanitarie della prevenzione (Tecnico della prevenzione nell’ambiente e nei
luoghi di lavoro, Assistente sanitario). http://www.parlamento.it/parlam/leggi/06043l.htm
35
legge 328/2000 http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00328l.htm
11
Profilo di riferimento
Figure Professionali
Fonti primarie
Fonti secondarie
ANIMATORE
ASSISTENTE SOCIALE
EDUCATORE
1
Assistente sociale
4
7
Assistente sociale specialista
2
Educatore professionale
7
Educatore per adulti
1
Operatore psico-pedagogico
1
Pedagogista
Figura Educativa
1
1
1
Assistente all’infanzia
1
EDUCATORE
Educatore di comunità
1
ALL’INFANZIA
Puericultrice
1
3
Vigilatrice d’Infanzia
1
3
FIGURE TECNICHE
Responsabile della struttura
MEDIATORE
Mediatore culturale
OPERATORE
D’ASSISTENZA
OPERATORE SOCIOSANITARIO(OSS)
1
1
1
Operatore d’assistenza
Operatore Socio Sanitario (OSS)
PSICOLOGO
Psicologo
SOCIOLOGO
Sociologo
2
1
4
1
4
1
L’individuazione delle professioni sociali non sempre risulta semplice: il settore sta subendo forti
modifiche per far fronte alla richiesta crescente di persone fortemente competenti e specializzate.
Da un lato, abbiamo le figure consolidate presenti stabilmente all’interno delle istituzioni pubbliche
e private del settore sociale ed in possesso di titoli di studio riconosciuti: psicologo, sociologo,
animatore, assistente di base, assistente sociale, educatore professionale, operatore socio-sanitario.
Dall’altro, abbiamo le figure professionali emergenti, che sono sorte identificandosi da subito per
un tipo di intervento più esteso socialmente, che non concerne solo la “vita degli assistiti e il loro
recupero”, ma comporta anche una serie di azioni verso il contesto sociale, produttivo e formativo.
Tra queste figure vanno menzionati il mediatore interculturale, l’operatore di comunità, il
criminologo clinico, il manager di servizi sociali, il manager di reti di servizi sociali, l’esperto in
mediazione al lavoro per categorie svantaggiate, l’esperto di formazione psico-sociale...
Si tratta di figure professionali piuttosto “circoscritte”, per le quali non esistono percorsi di studio
omogenei e la loro richiesta nel mercato del lavoro, pur essendo in aumento, è ancora delimitata.
12
La possibilità e la titolarità di auto-regolazione che le normative vigenti riconoscono alle
professioni sanitarie e sociali implicano, inevitabilmente, un riesame critico dell’organizzazione del
lavoro assistenziale, con la necessità di adottare modelli organizzativi fondati su un’effettiva
autonomia operativa, complementare ed integrata a quella medica.
Nella prospettiva di una “condivisione interprofessionale della cura”, la concretizzazione del diritto
alla salute del cittadino richiede un processo di perfezionamento della qualità organizzativa e
professionale deputata a garantire tale diritto: l’obiettivo è quello di progettare e realizzare
un’organizzazione sanitaria in cui tutti i diversi tipi di professionisti possano rinnovare l’impegno
ad interagire ed essere in grado di rinegoziare i rispettivi ambiti di competenza.
Certamente emerge la necessità condivisa di andare nella direzione dell’accorpamento e
aggregazione dei profili e non verso la loro parcellizzazione; tale assunto scaturisce dall’affiorare di
nuove e diverse esigenze di integrazione professionale che richiedono competenze in
amministrazione di sostegno e orientamento ai servizi socio-sanitari, in care management, in
tutoraggio socio-sanitario,36 in accoglienza intra-extra ospedaliera, in programmazione,
progettazione, coordinamento degli interventi socio-educativi e sanitari…
L’integrazione interprofessionale: tra cultura, conoscenza e competenza
E’ opinione condivisa come oggi ci sia bisogno di una nuova semiotica multidimensionale in grado
di fornire strumenti metodologici idonei per attivare interventi integrati, multisettoriali e multi
professionali a livello ospedaliero e territoriale.
La multifattorialità del disagio richiede infatti una nuova cultura della salute e nuove metodologie
di intervento capaci di ricollocare in un processo unitario i vari apporti sanitari, psicologici, socioassistenziali ed educativi. L’integrazione tra le competenze sociali e sanitarie non è più allora solo
un’opzione, essa diventa una necessità, anche per l’emergere di alcune tendenze in atto, simili in
tutti i paesi europei: l’attenzione maggiore a servirsi dell’assistenza sanitaria di secondo e terzo
livello solo nei casi in cui sia appropriata, la ricostruzione degli assetti organizzativi che non
favorisce più gli aspetti strutturali (numero letti, ospedali, medici…), la promozione di un welfare
mix 37 che vede congiunti il contributo dello stato, delle istituzioni e del volontariato.38
36
Tutoraggio socio-sanitario: implica la conoscenza dell’offerta dei servizi del territorio, l’aiuto alla loro consultazione
e fruizione, il supporto per la messa in atto degli adempimenti, competenze linguistiche e interculturali per le esigenze
di cittadini stranieri, spesso non in grado di usufruire in modo efficace dei servizi offerti a livello territoriale.
37
Welfare mix: gli elementi che contraddistinguono il sistema di welfare mix sono connessi alla sua essenza di
modello “misto” (welfare mix) e non più “statale” (welfare state). E’ un’idea di pluralità che non va intesa in senso
restrittivo come semplice riferimento all’aumentata varietà di soggetti coinvolti nell’erogazione di servizi sociali,
bensì avendo come riferimento l’intero sistema che diventa “misto” anche per quanto attiene l’allocazione delle
funzioni/responsabilità e gli strumenti di regolazione della domanda e dell’offerta.
13
Il bisogno di integrazione è inoltre rafforzato dal contemporaneo affermarsi della “governance per
la salute comunitaria” (community health governance), concetto che oltrepassa l’autoreferenzialità
degli interessi di categoria e sostituisce al tradizionale governo gerarchico (government), la
coordinazione comunitaria, negoziata e condivisa del sistema sanitario che spinge i gruppi
professionali alla ri-costruzione dei rispettivi ruoli nella gestione responsabile del sistema salute.
Ma cosa intendiamo esattamente con il termine “integrazione”?
La letteratura non ne dà una definizione univoca ma solo delle indicazioni relative ai vari aspetti
attraverso i quali essa si esplica… Così, ci si riferisce all’integrazione secondo un’ottica tecnicoorganizzativa (integrazione come coordinamento degli operatori o come rete integrata di servizi);39
oppure, seguendo una visione più olistica, si sottolinea l’integrazione culturale (superamento del
concetto di “assenza di malattia” per passare al concetto di “benessere fisico-psichico e sociale”:
centralità della persona nello sviluppo dei sistemi di welfare).40
Altre analisi indagano l’integrazione valutandone i diversi livelli di operatività: a livello comunitario
(integrazione tra operatore e utente), a livello professionale (integrazione tra professionalità diverse),
a livello gestionale (integrazione tra servizi), a livello istituzionale (integrazione tra strutture
decisionali politiche).41
Il concetto di integrazione viene osservato anche in base ai criteri organizzativi e di intervento: si
parla così di “integrazione orizzontale”, per aree contigue al medesimo livello (es: nel distretto aree
contigue sono la medicina di base, la specialistica, l’assistenza sociale; a livello istituzionale sono il
Comune, l’Ausl, l’Azienda ospedaliera, i soggetti del terzo settore) o di “integrazione verticale” riferita
a percorsi di intervento o di trattamento. Per l’integrazione orizzontale, il criterio proprio dei possibili
livelli di integrazione si trova nella “competenza/metodologia”; nell’integrazione verticale, il criterio
proprio dei possibili livelli di integrazione è affidato alla caratteristica dei progetti di intervento.
L’integrazione può essere ulteriormente studiata focalizzando l’attenzione su altri livelli di analisi…
- A livello di strategie e politiche aziendali: ogni struttura del network sociosanitario deve
comprendere le proprie ed altrui convenienze strategiche ed organizzare un processo di
integrazione tale da garantire equilibrio e soddisfacimento dei bisogni per tutti gli attori in gioco;
38
Cfr. F. Oleari, Il distretto nell’azienda sanitaria: possibili modelli organizzativi, in “Servizi sociali”, n. 6/1995.
39
Cfr. D. Bramanti, Alcune osservazioni in merito a: l’integrazione sociosanitaria nell’attuale assetto dei servizi, in
“Politiche sociali e servizi”, n. 1/1988. Milano, Università cattolica, 1988.
40
Cfr. C. Scapin, Strumenti di integrazione nel distretto di base, Fondazione “E. Zancan”, Padova 1991.
41
Cfr. M. Dal Pra Ponticelli., Multifunzionalità e multidisciplinarietà nella professione di Assistente Sociale, in: La
Rivista di Servizio Sociale, n.3/2002, Roma
14
- a livello operativo-organizzativo: con accordi interaziendali tramite il contracting in (istituzione
di aziende speciali miste comuni/asl) o il contracting out (verso il privato profit o no profit)42.
Da questa serie di definizioni si evince un dato comune: il processo di integrazione concerne diversi
livelli di intervento, ognuno dei quali richiama strumenti e contenuti specifici (vedi figura 1):
Figura 1. Integrazione sociosanitaria: strumenti e contenuti
Integrazione istituzionale
Strumenti: accordo di programma, Piani di
Attività Territoriali, Piani di Zona
Contenuti: Responsabilità istituzionali
Finanziamento, Programmazione
Integrazione gestionale
Strumenti: deleghe, associazioni,
accesso unitario
Contenuti: Modalità gestionali, Ambito
gestionale (distretto), Aree di bisogno,
Livelli assistenziali, Prestazioni
Integrazione
sociosanitaria
Integrazione professionale
Strumenti: Valutazione
multidimensionale del bisogno,
Cartella unitaria, Lavoro per progetti
Contenuti: Gruppi multiprofessionali
Professioni sociosanitarie
Fonte: M. Bezze e T. Vecchiato (a cura di), Tipologie di prestazioni e servizi sociosanitari e valutazione dei relativi costi,
www.trentinosalute.net/content/download/595/3591/version/.../DS030.pdf
Se sul piano complessivo i diversi livelli di integrazione sono in genere abbastanza collegati e
interdipendenti, a livello professionale non sempre si registra un effettivo coordinamento con gli
altri ambiti ed è facile che si perda di vista l’obiettivo principale dell’intervento multidimensionale:
il concetto di centralità dei bisogni della persona implica infatti non solo l’integrazione di servizi ed
attività destinate alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica, ma
anche una gestione condivisa degli interventi assistenziali e sociali, per dar coerenza e unitarietà al
lavoro delle équipe multiprofessionali.
Non a caso si parla di emergenza “ri-organizzativa” per segnalare la necessità di disporre di équipe
sempre più specializzate in grado di rispondere alla frammentazione delle tecniche, delle conoscenze ed
alla complessità degli strumenti diagnostici e terapeutici: l’esito migliore per il paziente non si gioca più
solo sull’eccellenza del singolo specialista, ma sul tasso complessivo di interazione di più soggetti.
L’équipe rappresenta dunque la modalità più coerente di erogazione delle prestazioni previste dai
progetti di salute territoriale e comunitaria: essa interviene nella lettura del bisogno e del disagio,
evidenziando il quadro conoscitivo e valutativo a più dimensioni del problema, delle potenzialità e
delle risorse personali e del contesto, per mettere a fuoco obiettivi e azioni del progetto individuale.
L’integrazione interprofessionale può essere garantita da una serie di fattori tra i quali:
42
Cfr. F. Longo, Logiche e strumenti manageriali per l’integrazione tra settore socio-assistenziale, socio-sanitario e sanitario,
AIES, Workshop nazionale, 2000. http://www.aiesweb.it/media/pdf/co0001/doc0021.pdf
15
-
la consapevolezza che la professionalità è un “attributo” comune che può essere condiviso,
-
il reciproco riconoscimento delle identità professionali e delle competenze specifiche,
-
lo sviluppo di una cultura comune per gestire unitariamente processi43 che sono comuni.44
La necessità di sviluppare una “cultura comune” tra le varie competenze (multi)professionali porta
con sé altre considerazioni… A seguito dei miglioramenti raggiunti da alcune professioni tecniche
ed assistenziali in termini di status, riconoscimento, istituzione di corsi di laurea, il fenomeno della
multiprofessionalità viene letto semplicemente come la richiesta da parte degli operatori non medici
di una maggiore legittimazione del loro ruolo e della specificità professionale.
In realtà, vi è un’urgenza più profonda: fenomeni come il consumerismo e managerialismo45 stanno
intaccando la capacità di sviluppo professionale con il rischio di divisione e perdita dell’autonomia
dei gruppi socio-occupazionali; la necessità di rivendicare la propria sfera di competenza diventa
allora condizione essenziale sia per il singolo professionista che per l’intero ordine professionale.
La situazione degli infermieri e di altre occupazioni tecniche è paradigmatica al riguardo: dopo aver
subito per lungo tempo una forte subordinazione medica ed essere giunti finalmente al
conseguimento di importanti conquiste verso l’autonomia professionale, oggi corrono il rischio di
veder fortemente limitati tali risultati dovendo ancora render conto delle proprie prestazioni a
soggetti esterni (i clienti, da un lato e i manager, dall’altro).46
Un’altra riflessione riguarda il rapporto tra le singole professioni e la multidisciplinarietà degli approcci
alle cure: è fondamentale, cioè, che l’integrazione non sia semplicemente la somma di professionalità
diverse, ma diventi un processo interprofessionale nel quale i diversi operatori mettono in campo le
propria individualità e specificità professionale, dando vita a quell’intreccio di “pluricompetenze” che è
la base del lavoro di équipe.
43
Un processo è costituito da una sequenza di attività correlate, integrate e finalizzate ad uno specifico risultato finale.
La sequenza di attività trasforma input in output producendo una prestazione che rappresenta un valore. In ambito
sanitario, il processo indica l’insieme di attività soggette a verifica di qualità, siano esse relative alla accessibilità fisica
ed organizzativa del luogo di cura, alla gestione tecnica, alla gestione del processo interpersonale, alla continuità
assistenziale; ciò implica la programmazione del percorso assistenziale dal momento dell’accesso in ospedale sino alle
dimissioni con l'attivazione di percorsi, processi e ricoveri in strutture intermedie.
44
Cfr. V. Ducci, Percorsi di integrazione nei servizi sociosanitari, in: Il Dipartimento di salute mentale. Integrazione delle
professionalità e dei servizi nella comunità locale, Contributi dal seminario, Volterra 4-10 marzo 1990.
45
Consumerismo, è un termine coniato per definire quella specifica categoria di analisi che studia il fenomeno sorto con
lo sviluppo della produzione di massa e con l’espansione dei consumi. Fino a quando i consumi erano ancorati alla pura
sopravvivenza, vista la scarsità di reddito a disposizione, l’analisi delle attività legate al consumo ha avuto una priorità
molto bassa. Con la crescita legata alla rivoluzione industriale si sono poste le basi per lo studio attento del fenomeno
consumeristico. E’ un fenomeno che sta coinvolgendo anche le aziende sanitarie a cui i pazienti/clienti chiedono
correttezza e trasparenza. Per managerialismo, vedi il precedente 4.1
46
Si parla a tal proposito di accountability, come di responsabilità di un gruppo verso soggetti esterni. In politica, ad
esempio, è la responsabilità di tipo verticale dei politici nei confronti dei cittadini che li hanno eletti ed orizzontale dei
politici verso altre istituzioni o soggetti che hanno conoscenze e potere di valutazione.
16
Prerequisito indispensabile affinché ciò possa avvenire è dato dalla reciproca conoscenza delle diverse
competenze da parte di tutti i componenti dei gruppi multiprofessionali: condizione, questa, che
sembra ancora abbastanza lontana dalla sua piena realizzazione...47
La complessità socio-assistenziale richiede la presenza di operatori in grado di rispondervi in
maniera adeguata: ciò rimanda al possesso di “griglie di competenze” che devono guidare l’operato
dei professionisti, anche in vista della sempre più crescente flessibilità negli approcci di cura
(trasferimento di competenze da un professionista all’altro, da un settore all’altro e anche da un
ambiente, quello delle strutture ospedaliere, ad un altro, quello del territorio e della comunità).
I membri dei gruppi multiprofessionali devono dunque possedere e gestire key competences tra cui:
- Competenze relazionali, fondamentali nella gestione della relazione terapeutica perché attivano il
coinvolgimento attivo della persona nell’accettazione, convivenza e gestione della malattia.
L’obiettivo è quello di educare e responsabilizzare la persona verso l’autogestione della propria
malattia e l’accesso ai servizi appropriati: la logica è quella dell’empowerment e consiste nel
conferire più potere all’utente, coinvolgendolo in una partecipazione più attiva ai processi di cura.48
- Competenze organizzative che, oltre alla conoscenza dei meccanismi procedurali e amministrativi
del sistema, devono includere anche la capacità di integrazione delle proprie pratiche professionali
con quelle degli altri professionisti all’interno di percorsi di cura strutturati.
- Competenze tecniche (o clinico-assistenziali), date dall’insieme delle specifiche conoscenze e
capacità connesse all’esercizio efficace dell’attività professionale.
A queste vanno aggiunte altre competenze che potremmo definire più avanzate e che riguardano:

competenze di leadership e decision making per guidare (e interagire con) il team assistenziale,

competenze nel settore dell’EBN (Evidence Based Nursing),

competenze manageriali per un’efficace “gestione del caso” (Case Management),49

competenze “digitali”, per comprendere i nuovi sistemi di comunicazione e di “relazione
sociale” (web 2.0) e poterli utilmente applicare nell’operativa quotidiana.
47
Vecchiato, riporta gli esiti di una ricerca effettuata su alcuni distretti di base nel nord Italia, da cui emerge che la
conoscenza reciproca tra professioni diverse è ancora molto scarsa. Cfr. T. Vecchiato T., Il gruppo di lavoro sul
problema, in "Servizi sociali", n. 4/1994.
48
Empowerment: letteralmente “rendere potenti”, “favorire l’acquisizione di potere” o “rendere abili e capaci di”…
49
Il Case Management,è uno “strumento operativo utile a direzionare i processi di pianificazione, implementazione…
valutazione finale, mette i servizi in grado di soddisfare i bisogni di salute delle persone…perseguendo esiti di efficacia
e qualità” (CSM of America: www.cmsa.org). Si colloca all’interno delle politiche di Community Care come punto di
forza della long-team care; è utilizzato in diversi contesti (salute mentale, assistenza ai bambini, servizi per gli anziani,
interventi di mediazione…). Cfr. P. Chiari, A. Santullo, L’infermiere case manager, McGraw-Hill, Milano, 2001.
17
Il coordinamento di queste competenze consente di attivare un approccio olistico al paziente/utente,
dando maggiore efficacia agli interventi e garantendo così una valenza più dinamica al lavoro
multiprofessionale, che va modificandosi in funzione delle esigenze dell’ambiente di riferimento.
Strumenti e modelli per favorire l’integrazione interprofessionale
Se gestito in modo efficace, il sistema di competenze appena visto può rappresentare il vettore per
avviare il coordinamento e la collaborazione interprofessionale nei processi di cura.
Poiché un processo di cura implica diversi fattori, è opportuno che un modello di integrazione
professionale tenga conto di alcune priorità, tra cui: il resoconto di alcune esperienze già attuate, la
valutazione e l’efficacia del grado di cooperazione interprofessionale, la scelta di adeguati metodi e
strumenti, lo sviluppo di una mappa della collaborazione professionale…
Il dato di partenza per una riflessione più approfondita è offerto dai risultati della ricerca empirica:
alcuni case study anglosassoni hanno infatti messo in risalto come una ridotta collaborazione
interprofessionale “… è associata a peggiori esiti e a minore efficienza…”.50
In letteratura non sono riportate molte sperimentazioni di collaborazione interprofessionale; una
delle più significative riguarda le Family Health Teams dell’Ontario, una serie di organizzazioni di
cura formate da team di medici di famiglia, infermieri, assistenti sociali, dietisti, farmacisti e
manager che lavorano insieme per la salute della loro comunità. I risultati della ricerca canadese
mostrano i benefici dell’approccio interprofessionale ai processi di Community care in termini di
riconoscimento dei reciproci ruoli/competenze, condivisione di obiettivi, necessità di usare
strumenti di supporto al lavoro interprofessionale (di tipo informatico, comunicativo, procedurale),
esigenza di una leadership riconosciuta.51
In Italia, analoghi modelli di collaborazione interprofessionale comunitaria si ritrovano nelle
esperienze che vedono la figura dell’infermiere di comunità al centro della rete socio-assistenziale
territoriale, quale interfaccia privilegiata tra utenti e care-givers da un lato e gli attori dell’équipe di
cura (MMG, assistenti sociali, assistenti domiciliari, terapisti, logopedisti…) dall’altro.52
50
Williams ha analizzato 328 eventi avversi o near miss in reparti chirurgici e ha evidenzato che le cause erano dovute:
20,4% ad errori di comunicazione, 26.5% a responsabilità non chiare (Williams 2007) ; Rode ha condotto un’analisi di
1985 casi di morte tra la 20° settimana di gestazione ed 1 anno di vita, (UK 1995-1999); anche qui le cause erano da
attribuirsi a gravi errori di comunicazione nella misura del 13 – 19% (Rode, 2001). Cfr F. Focarile (a cura di), La
condivisione del processo di cura: strumenti per la qualità dei servizi, Convegno CNI “La condivisione del processo di
cura: la competenza infermieristica nella logica multidisciplinare”, Firenze 21-23 ott. 2010
51
Cfr. J. Goldman, Interprofessional collaboration in family health teams. An Ontario-based study, 2010
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2954101/
52
Cfr. L. Ridolfi, L’Infermiere di comunità: un nuovo modello di organizzazione dell’assistenza infermieristica
territoriale in: Management Infermieristico, n. 2/2009
18
Un utile strumento per misurare la collaborazione interprofessionale – come riportato dalle ricerche
di F. Focarile – è dato dall’utilizzo di scale basate sia sulle opinioni degli operatori, sia sui
comportamenti. Dall’indagine è emerso che un migliore coordinamento relazionale potenzia
l’efficacia sia sugli indici clinici (es: performance chirurgica), sia sulla maggiore soddisfazione del
paziente.53 Essendo un valore stimabile, la collaborazione interprofessionale può essere
ulteriormente incrementata; esistono diverse ipotesi di intervento che vanno ad agire sul piano
organizzativo, formativo e comunicativo: una delle più interessanti riguarda il cosiddetto Crew
Resources Management e il Simulation training.54
Prima di individuare possibili opzioni metodologiche per la messa in atto di progetti di integrazione
socio–sanitaria e professionale, credo sia opportuno una breve riflessione concettuale.
Integrare, letteralmente, significa “aggiungere ciò che manca… ad un intero”: applicata al sistema
sociale e al sistema salute, questa affermazione porta con sé una serie di ulteriori considerazioni.
Rispetto al sistema sociale, dove sono presenti due spinte opposte (differenziazione e integrazione),
il concetto di integrazione rimanda all’idea di un processo attraverso il quale il sistema acquista e
conserva “unità strutturale e funzionale”, pur mantenendo la differenziazione degli elementi.
In relazione al sistema salute, l’integrazione sposta la sua attenzione sulla persona e la sua “unicità e
unitarietà”: integrare significa allora “attivare processi attraverso i quali i sistemi sociale e
sanitario acquistano e conservano una unitarietà e funzionalità centrate sulla persona”.
Siamo dunque di fronte ad una nuova concezione paradigmatica che contempla la creazione di
servizi non più orientati all’organizzazione, ma in funzione (del prendersi cura) della persona e dei
suoi bisogni in modo olistico e progettuale, perseguendo l’obiettivo del benessere visto come
possibile raggiungimento di uno stato di reale “ben-essere”...
Contestualmente, le risposte ai suoi bisogni socio-assistenziali non possono prescindere dalla
condivisione con la rete di supporto famigliare e, più in generale, con tutta la rete territoriale.
53
Esistono diverse scale tra cui: Relational coordination scale. Sviluppata nel contesto della aviazione è usata per
stimare il potenziale di performance in contesti di incertezza, interdipendenza e limitazioni temporali, esplora 4
dimensioni della comunicazione (Frequenza, Tempestività, Accuratezza, Problem solving) e 3 dimensioni della
relazione (Condivisione degli obiettivi, Condivisione delle conoscenze, Rispetto reciproco). Team functioning scale.
Esplora 4 dimensioni (Clima sociale, Relazioni interprof.li, Pratiche manageriali, Leadership) Nurse-Physician
Collaboration. Scala di Collaborazione Infermiere-Medico, rileva i comportamenti specifici in 3 ambiti: Partecipazione
ai processi decisionali, Condivisione delle informazioni, Collaborazione. Cfr. F. Focarile (a cura di), La condivisione
del processo di cura…, op. cit.
54
Crew Resources Management: è una metodologia derivata dall’aviazione, che educa al lavoro di team. Al centro
dell’attenzione vi è il modo di comunicare del leader e del team. Prevede 5 fasi del processo assertivo: Puntare
l’attenzione (rivolgersi all’operatore chiamandolo per nome), Esprimere il problema (dichiarare la propria analisi della
situazione e le eventuali emozioni), Descrivere il problema (fornire elementi oggettivi), Proporre la soluzione
(dichiarare proposte operative di soluzioni alternative), Ottenere l’assenso, (rivolgersi chiaramente a chi deve decidere).
Simulation training: concerne simulazione di situazioni reali con l’ausilio di audiovisivi, software, manichini, attori
finalizzate allo sviluppo della capacità di gestione da parte di gruppi interprofessionali di operatori.
19
Più sopra si parlava di Community care come di un approccio teso alla “presa in carico della
comunità da parte della comunità”: si tratta appunto di una metodologia volta a ripensare il sistema
complessivo dei servizi territoriali che vengono progettati e gestiti come una trama di reti di
intervento basate sull’incontro collaborativo fra soggetti di gruppi primari (famiglie, vicinato,
gruppi amicali, associazioni...) e servizi organizzati (pubblici e privati), mediante relazioni di
cooperazione. In quest’ottica, la rete dei servizi e la loro fruibilità vengono a combaciare,
assicurando la piena accessibilità per gli utenti, la definizione dei bisogni espressi (case finding), la
loro rilevanza (assessement), l’efficacia delle azioni terapeutico-assistenziali (prevalenza per
particolari patologie), l’equità nella distribuzione delle risorse/servizi alla popolazione e
l’accettabilità sociale dell’offerta. 55
Un altro modello di riferimento che mette in pratica l’applicazione della rete integrata dei servizi
territoriali, può essere rappresentato dai progetti di presa in carico attivati tramite i PUA (Porta
Unica di Accesso), secondo lo schema seguente: (figura 2)
Fig. 2. Modello di sviluppo della rete integrata dei servizi territoriali su accesso unitario
Fonte: P. Frau, L’integrazione sociosanitaria, in: www.astrid-online.it/Politiche-/I-sottogru/6--sottogr/Frau_integrazione
sociosanitaria_nota.pdf
Per la presa in carico del bisogno semplice, l’accesso unitario alla rete dei servizi avviene attraverso
l’utilizzo dei sistemi di rilevazione del bisogno, di progettazione dell’intervento individualizzato e
di programmazione delle attività avviati sia dai referenti del Sistema Sanitario (MMG/PLS), sia dai
referenti del Servizio Sociale Professionale (SSP). Quando il bisogno diventa più complesso (per un
aggravamento, per la gestione di una dimissione protetta…), interviene l’équipe multiprofessionale
che di fatto prevede, nella sua composizione, ancora la partecipazione del MMG e del SSP.
L’équipe non fa altro che “utilizzare” le informazioni preliminarmente fornite dai referenti medici,
55
Cfr. L. Ridolfi, L’Infermiere di comunità: un nuovo modello di organizzazione dell’assistenza inf. territoriale, op. cit.
20
alle quali si aggiungono le eventuali valutazioni specialistiche per decidere assieme (decision
making) il piano di intervento più adeguato e i soggetti da attivare. Questo modello di governance
territoriale rappresenta un ulteriore esempio per un’integrazione a “tutto campo”, sia sul versante
dell’offerta/sviluppo dei servizi, sia vista sotto l’ottica del coordinamento multidisciplinare.
Conclusioni
Nelle righe introduttive, ci si chiedeva se l’espandersi delle cosiddette helping professions
(infermieri, psicologi, assistenti sociali, tecnici…) può contribuire a generare nuove opportunità
organizzative oppure dar vita a criticità all’interno dei gruppi professionali di cura/assistenza.
Le esperienze riportate in letteratura ci dicono che le équipe che operano secondo la logica del
lavoro di gruppo condiviso, raggiungono spesso risultati significativi sia sul piano dei macro
interventi socio-sanitari territoriali, sia nell’approccio più specifico alla gestione dei singoli casi.
La domanda che ci possiamo porre ora (anche in maniera un po’ provocatoria) è questa: l’azione
“collegiale” degli operatori professionali che lavorano intorno ad un progetto unitario è davvero
sempre così “efficace e funzionale”? In realtà, le dinamiche collettive sono un po’ più complicate e
gli studi condotti sul concetto di “lavoro di gruppo” e “gruppo di lavoro” lo testimoniano...56
Il legame tra i membri del gruppo, per esempio, non può basarsi solo sull’interazione, sulla
coesione e sull’appartenenza: esso deve includere anche altri aspetti quali l’interdipendenza (cioè
l’acquisizione della consapevolezza dei membri di dipendere gli uni dagli altri, in una sorta di unità
nella differenza), l’integrazione (l’equilibrio tra somiglianze e differenze, bisogni individuali e
bisogni del gruppo, esigenze interne e richieste esterne) e l’omogeneità (persone che hanno un
obiettivo comune o persone con lo stesso ruolo organizzativo o lo stesso background professionale).
Ora, la composizione delle équipe multiprofessionali che abbiamo finora analizzato delinea
l’identità di gruppi disomogenei, caratterizzati dalla “diversità” (di genere, età, professione, ruolo,
cultura). E’ indubbio che la diversità e la molteplicità vanno assunte come “risorse” perché attivano
il circuito della creatività, della versatilità e dell’originalità delle diverse vedute…; tuttavia questi
elementi acquistano senso solo se tale “poliedricità” viene governata, se cioè viene messa al
servizio di obiettivi più alti che, superando le esigenze individuali, perseguono il miglioramento
continuo della qualità dei servizi e il mantenimento di elevati standard assistenziali, stimolando nel
contempo la creazione di un ambiente che favorisca l’eccellenza professionale.
56
Cfr. G.P. Quaglino e al., Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo: un modello di lettura della dinamica di gruppo, una
proposta di intervento nelle organizzazioni, Raffaello Cortina, Milano, 1992.
21
Se ciò non si verifica, il rischio più immediato è che l’équipe multiprofessionale ceda ad una sorta
di illusione gruppale,57 che può frustrare le aspirazioni di autonomia professionale dei singoli
operatori coinvolti, deprezzando, conseguentemente, anche la qualità dei processi attivati...
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57
Illusione gruppale: stato psichico del tipo “Noi stiamo bene insieme, costituiamo un buon gruppo, il nostro capo è
buono, va tutto bene”. Dal punto di vista psicodinamico, l’illusione gruppale è una modalità di difesa nei confronti del
rischio di smembramento connesso alla pluralità di inconsci presenti nel gruppo; risponde a desideri di sicurezza e di
preservazione dell’unità dell’Io gruppale e individuale. Alla minaccia al narcisismo individuale si risponde instaurando
un narcisismo gruppale. Il gruppo trova la sua identità quando gli individui, con l’illusione gruppale, si affermano come
tutti identici. Cfr. D. Anzieu, Il gruppo e l’inconscio. Borla, Roma, 1979.
22
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