CAPITOLO TERZO IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI VIRGINIA PETRELLA SOMMARIO: 3.1. Inquadramento e ratio del rito licenziamenti. – 3.2. La conciliazione obbligatoria nei licenziamenti ex art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, novellato. – 3.3. L’obbligatorietà del rito. – 3.4. L’irrisolta questione dell’erronea individuazione del rito. – 3.5. Le domande connesse. – 3.6. La legittimazione all’azione. – 3.7. La fase sommaria. – 3.8. La fase dell’opposizione. – 3.9. Il reclamo. – 3.10. Il ricorso per cassazione. – 3.11. Ambito di applicazione della riforma ratione temporis. 3.1. Inquadramento e ratio del rito licenziamenti. La l. 28 giugno 2012, n. 92, c.d. Legge Fornero, ha modificato il regime sostanziale e processuale dei licenziamenti tradizionalmente assoggettati alla c.d. tutela reale. All’art. 1, comma 42°, lett. b), ha sostituito i primi sei commi dell’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300, c.d. Statuto dei lavoratori, riorganizzando le categorie di licenziamenti illegittimi e la relativa tutela sostanziale accordata loro, mentre nei successivi commi dal 48° al 68° ha introdotto un nuovo rito per le impugnative dei licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione dello stesso art. 18, così come riformato. L’obiettivo perseguito dal legislatore è dichiarato nell’art. 1, comma 1°, l. Fornero, ossia predisporre, «(...) misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione». Sull’effettiva ricaduta positiva la dottrina è piuttosto critica sin dalle prime applicazioni della riforma, non mancando coloro che ritengono che anzi la normativa abbia favorito un’elasticità in uscita dal mercato del lavoro, senza incentivare in alcun modo il reimpiego della forza lavoro [D. DALFINO (15), 761 ss.]. Si è altresì evidenziato che si è di fatto ridotta la sfera di applicazione della tutela reale c.d. forte, sostituita per molte ipotesi di licenziamento a vario titolo illegittimo con la tutela risarcitoria, con conseguente consolidamento del- 236 CAPITOLO TERZO l’effetto auspicato dalla parte datoriale di liberarsi della forza lavoro in esubero o comunque sgradita. Si evidenzia, altresì, che anche laddove venga concretamente ordinata la reintegrazione, non è prevista alcuna sanzione per l’inottemperanza all’ordinanza del giudice, circostanza, questa, aggravata dall’espressa esclusione delle controversie di lavoro dal campo di applicazione dell’art. 614 bis c.p.c. [D. DALFINO (15), 762; v. vol. IV, nn. 15.1. e 16.3.]. Le tutele di cui all’art. 18, commi dal 4° al 7°, ed il relativo rito ad hoc, trovano applicazione quando il datore di lavoro ha le caratteristiche dimensionali previste dalla stessa norma, ossia occupi in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento più di quindici lavoratori o più di cinque per il caso di imprenditore agricolo, nonché quando il datore di lavoro, nell’ambito dello stesso comune, occupi più di quindici dipendenti ovvero, trattandosi di impresa agricola, occupi nello stesso territorio più di quindici dipendenti, anche se nella singola unità produttiva non raggiunge tali dimensioni. In ogni caso, l’art. 18 si applica ai datori di lavoro che occupano globalmente più di sessanta dipendenti. Laddove, tuttavia, si versi in ipotesi di licenziamento discriminatorio o illecito, la tutela di cui all’art. 18, commi 1°, 2° e 3°, sarà concessa indipendentemente dal numero dei lavoratori impiegati. In giurisprudenza, Trib. Roma 31 ottobre 2012, in www.diritto24.ilsole24ore.com, ha ritenuto applicabile il rito Fornero al licenziamento nullo (come quello discriminatorio o in costanza di matrimonio) indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro rientri, per natura giuridica e requisiti dimensionali, nell’area di applicazione dell’art. 18. In particolare, sono state individuate quattro categorie di licenziamenti, in relazione alle motivazioni che li hanno determinati, con altrettante tipologie di tutela, di intensità gradata: reintegratorie e/o risarcitorie, forti o deboli. Rientrano nella prima categoria, a tutela reale c.d. forte, i licenziamenti discriminatori ai sensi dell’art. 3 l. 11 maggio 1990, n. 108, i licenziamenti intimati in concomitanza con il matrimonio di cui all’art. 35 d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (c.d. codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nonché i licenziamenti intimati in violazione dei divieti a tutela della maternità e paternità ai sensi dell’art. 54, commi 1°, 6°, 7° e 9°, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, ed infine tutti i licenziamenti comunque riconducibili ad altre cause di nullità previste dalla legge ovvero fondati su un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., nonché i licenziamenti inefficaci intimati in forma orale. In dottrina si è rilevato che le fattispecie sul piano sostanziale di licenziamento discriminatorio rimangono invariate per effetto della riforma Fornero [A. VALLEBONA, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 7 ss.; D. DALFINO (15), 768], mutando la fonte della tutela c.d. forte, consistendo la vera novità nella riconduzione anche dei licenziamenti già a tutela reale di diritto comune nella tutela reale speciale dell’art. 18 St. lav., che solo in questi casi si applica quale che sia il numero di dipendenti impiegato dal datore di lavoro. Tale tipologia di licenziamento è sanzionata con la nullità e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione – comunque non inferiore a cinque mensilità – detratto il c.d. aliunde perceptum nel periodo di estromissione, per lo svolgi- IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 237 mento di altre attività lavorative ed, infine, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Ai sensi dell’art. 18, comma 3°, novellato, in alternativa alla reintegrazione, ma non al risarcimento danni che resta comunque dovuto, il lavoratore può domandare, entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia giudiziale che ordina la reintegra ovvero dalla comunicazione del datore di lavoro dell’invito a riprendere servizio, la corresponsione dell’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la quale non resta assoggettata a contribuzione previdenziale. Tale opzione comporta la risoluzione del rapporto di lavoro. La seconda categoria, ai sensi dell’art. 18, comma 4°, racchiude i licenziamenti annullabili in quanto intimati in assenza di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa, perché il fatto contestato si rivela insussistente ovvero ascrivibile alle condotte punibili con sanzioni conservative in forza dei contratti collettivi di lavoro ed infine contempla, in virtù del disposto dell’art. 18, comma 7°, ultima parte, tutte le ipotesi in cui il licenziamento risulti determinato da ragioni disciplinari. Tale disciplina è altresì estesa alle ipotesi di licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4°, e 10, comma 3°, l. 12 marzo 1999, n. 68 (norme per il diritto al lavoro dei disabili), ovvero in violazione dell’art. 2110, comma 2°, c.c. per le ipotesi di infortunio, malattia, gravidanza o puerperio. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultato manifestamente insussistente, infine, l’applicazione dell’art. 18, comma 4°, è rimessa al potere discrezionale del giudice, come si ricava dall’uso dell’espressione «può» nel comma 7° dell’art. 18 novellato. Anche in questo caso è prevista la tutela reale, nonché il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in ogni caso non superiore a dodici mensilità, dedotto il c.d. aliunde perceptum, nonché l’aliunde percipiendum. Tali importi devono essere maggiorati dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, oltre gli interessi al tasso legale, ma sono esenti da sanzioni per omessa o ritardata contribuzione. Il lavoratore può optare per l’indennità pari a quindici mensilità, in alternativa alla reintegrazione. La terza categoria di licenziamenti, contemplata dall’art. 18, comma 5°, racchiude le ipotesi nelle quali il giudice accerta l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore di lavoro. Accertata l’illegittimità del licenziamento il giudice dichiara la risoluzione del rapporto, con effetti dalla data stessa del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità, parametrate all’ultima retribuzione globale di fatto. Il giudice graduerà la sanzione stessa in relazione alla anzianità di servizio del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento ed alle condizioni delle parti, dandone contezza con specifica motivazione nel provvedimento. La medesima disciplina è estesa dal comma 7° dell’art. 18 alle ipotesi nelle quali il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, con la precisazione che in tale caso, ai fini della determinazione dell’indennità, oltre che delle circostanze di cui al comma 5° dell’art. 18 appena richiamato, il giudice dovrà tener conto anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. La quarta ed ultima categoria di licenziamenti, prevista dall’art. 18, comma 6°, contempla le ipotesi di inefficacia per violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2°, l. 15 luglio 1966, n. 604, come riformato dall’art. 1, comma 37°, l. n. 92/2012, in forza del quale la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei 238 CAPITOLO TERZO motivi che lo hanno determinato. Appartengono, inoltre, a tale categoria i licenziamenti intimati in violazione della procedura di cui all’art. 7 St. lav. o della procedura di cui all’art. 7 l. 11 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Si applica la tutela risarcitoria di cui al comma 5°, ma l’indennità è compresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo. Qualora, tuttavia, il giudice accerti che oltre alle violazioni predette ricorre anche un difetto di giustificazione del licenziamento, applica le tutele previste dai commi 4°, 5° ovvero 7°. Si ricorda, infine che, ai sensi dell’art. 1, comma 46°, l. 28 giugno 2012, n. 92, che ha sostituito il testo dell’art. 45 l. 23 luglio 1991, n. 223, la tutela di cui all’art. 18 si applica anche ai licenziamenti intimati senza l’osservanza della forma scritta; nonché, «(...) in caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12°, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1° si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». 3.2. La conciliazione obbligatoria nei licenziamenti ex art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, novellato. La riforma in esame ha altresì mutato il testo dell’art. 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ad opera di datori di lavoro dotati dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8°, l. 20 maggio 1970, n. 300. A seguito del ritocco operato con l. 9 agosto 2013, n. 99, tale procedura non si applica, tuttavia, al licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c. ed ai licenziamenti ed interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ex art. 2, comma 34°, l. 28 giugno 2012, n. 92. La ratio sottesa alla disciplina è quella di contemperare le esigenze aziendali di organizzazione dell’impresa in termini di efficacia ed economicità, costituzionalmente tutelate all’art. 41 Cost., con quelle dei lavoratori, in una materia particolarmente delicata quale quella dei licenziamenti determinati dal giustificato motivo oggettivo, che una volta dimostrato sussistente dal datore di lavoro impedisce il sindacato sulla scelta della riduzione del personale, ove siano rispettate le norme procedurali e sostanziali a tutela del lavoratore, compresa quella concernente l’onere di dimostrazione dell’impossibilità di adibire i lavoratori a mansioni analoghe nell’ambito dell’intero gruppo aziendale [in argomento R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 39; D. BORGHESI (7), 910]. Il tentativo di conciliazione è ora divenuto condizione di validità del successivo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il quale potrà essere intimato solo a seguito del fallimento della precitata procedura e con effetti che retroagiranno alla comunicazione di avvio del procedimento, fatto salvo il diritto del lavoratore al preavviso o all’eventuale indennità sostitutiva, come chiarito dall’art. 1, comma 41°, l. Fornero. Il datore di lavoro deve oggi comunicare l’intenzione di procedere al licenziamento preventivamente alla Direzione del lavoro, territorialmente competente in base al luogo in cui il lavora- IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 239 tore presta la sua opera, trasmettendo detta comunicazione, per conoscenza, anche al lavoratore presso il domicilio indicato nel contratto di lavoro o altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero consegnandola personalmente al lavoratore che ne rilascia ricevuta. Contenuto necessario della comunicazione è la dichiarazione del datore di lavoro di voler procedere al licenziamento per motivo oggettivo, nonché l’indicazione dei motivi dello stesso e le misure di assistenza alla ricollocazione predisposte nell’interesse del lavoratore. La Direzione territoriale del lavoro trasmette la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta. Le parti si incontrano dinanzi alla commissione provinciale di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. e possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato, oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori presso la stessa Direzione, ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro. La procedura si conclude entro venti giorni dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune accordo, ritengano di proseguire la discussione prolungando la durata di questa fase. Se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3°, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. In ogni caso le parti, con la partecipazione attiva della Commissione provinciale di conciliazione, possono esaminare anche eventuali soluzioni alternative al recesso. Per il caso di esito positivo del tentativo di conciliazione con risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia per la mobilità. Ai sensi dell’art. 7, comma 6°, l. 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dalla l. 9 agosto 2013, n. 99, la mancata presentazione di una o di entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c. Il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto dinanzi alla Commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa Commissione, è poi valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, comma 7°, l. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, nonché ai fini dell’applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. Coerentemente, in caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare all’incontro di cui sopra, la procedura può essere sospesa per un massimo di quindici giorni. Nonostante l’utilizzo del termine «anche» da parte del legislatore, che pare riferirsi ad elementi ulteriori rispetto a quelli citati, riesce difficile immaginare quali possano essere tali elementi ulteriori sui quali fondare il giudizio rispetto al comportamento delle parti nella fase di conciliazione. La norma pare riecheggiare l’art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, dichiarato incostituzionale con la decisione del 6 dicembre 2012, n. 272 [pubblicata, tra 240 CAPITOLO TERZO l’altro, in Dir. e giustizia, 2012, 1126]. Tuttavia in questa disposizione le sanzioni sono più marcate, in quanto il contegno delle parti dinanzi alla commissione di conciliazione incide addirittura sulla misura dell’indennità risarcitoria che il giudice potrà riconoscere al lavoratore, ossia direttamente su di un diritto soggettivo del lavoratore, mentre nella precedente normativa esso costituiva comportamento da cui trarre argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. (art. 8 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28), ovvero elemento influente sulla liquidazione delle spese di lite (art. 13 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28). La norma in esame è poi radicalmente differente dalla disposizione contenuta nell’art. 420 c.p.c., la quale attribuisce al giudice il potere di valutare, ai fini del giudizio, la mancata comparizione personale delle parti alla prima udienza, allo scopo di interrogarle liberamente e tentare la conciliazione, nonché il rifiuto della proposta transattiva formulata dal giudice stesso, senza giustificato motivo, in quanto in quest’ultimo caso il giudice valuta un comportamento tenuto nel corso del processo affidato alle sue cure. Nel regime in esame, invece, il contegno delle parti in una fase preprocessuale, che sfugge al controllo diretto del giudice, incide direttamente sulla potenziale soddisfazione di un diritto soggettivo sostanziale [R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 45]. Si segnala, peraltro, che il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, ha ritoccato il testo dell’art. 420 c.p.c. [v. supra, in questo vol., parte II, nn. 4.2.1. e 4.2.2.], qualificando «conciliativa» la proposta che il giudice è chiamato a fare all’atto dell’udienza di discussione della causa ed ha inserito ex novo l’art. 185 bis c.p.c., che obbliga il giudice in prima udienza, o comunque sino al termine della fase istruttoria del giudizio, a formulare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. 3.3. L’obbligatorietà del rito. Il legislatore ha omesso di pronunciarsi in modo inequivoco sulla obbligatorietà del nuovo rito licenziamenti, nonché sulle conseguenze derivanti dall’errata individuazione del rito ed, infine, sul procedimento da seguire nelle ipotesi di cumulo di domande connesse all’azione promossa ex art. 18. Con riferimento alla prima questione, deve preferirsi la tesi dell’obbligatorietà del rito Fornero, piuttosto che della sua alternatività al rito del lavoro ex artt. 409 ss. c.p.c. Fondamentale, in tal senso, è l’argomento testuale del secco disposto dell’art. 1, comma 48°, l. n. 92/2012, secondo cui la domanda «si propone» con ricorso. In giurisprudenza si segnala che il Tribunale di Firenze, con le linee guida dettate il 17 ottobre 2012, ha giudicato facoltativo il rito Fornero. Al contrario, i Tribunali di Roma, di Monza e di Reggio Calabria hanno valutato obbligatorio il rito Fornero, laddove ne sussistano i presupposti di applicazione. L’obbligatorietà del rito appare d’altra parte coerente con la finalità perseguita dal legislatore di evitare che i lunghi tempi della decisione comportino, per il caso di accoglimento del ricorso, un eccessivo vulnus ai diritti del datore di lavoro, costretto ad un enorme esborso per retribuzioni e relativi contributi previdenziali ed assistenziali, nonché versamenti fiscali, senza usufruire della prestazione lavorativa. D’altra parte, la potenziale contrazione dei diritti di di- IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 241 fesa, derivante dall’obbligatorietà di un rito sommario, è bilanciata dalla previsione della fase di merito pieno a seguito dell’eventuale opposizione, per il caso di ritenuta ingiustizia dell’ordinanza che definisce la fase sommaria. Contra: C. CONSOLO (12), 735-736; G. VERDE (31), 303, che definisce il rito Fornero preferenziale piuttosto che obbligatorio, riconoscendo un ruolo nella scelta del rito anche al resistente, che con la sua inerzia rispetto all’erronea scelta del rito ne cristallizza l’applicazione. Coerentemente con una tale visione, l’a. non ravvede carenze nel dettato normativo che non prevede espressamente le conseguenze della erronea scelta del rito, riconducendo la stessa al potere dispositivo delle parti. 3.4. L’irrisolta questione dell’erronea individuazione del rito. Per quanto invece riguarda le questioni concernenti le conseguenze derivanti dall’erronea individuazione del rito applicabile alla controversia concreta sottoposta al tribunale in funzione di giudice del lavoro, le stesse riguardano sia l’ipotesi in cui la causa, pur rientrando nell’ambito di applicazione del novellato art. 18, sia stata introdotta con un ricorso ordinario di lavoro ex artt. 414 ss. c.p.c., sia la diversa ipotesi in cui la causa sia stata instaurata con il nuovo rito licenziamenti, pur esulando dall’ambito di applicazione dello stesso. La dottrina maggioritaria, condivisibilmente, non esclude l’operatività di meccanismi di sanatoria del ricorso, che vanno dalla conversione del rito alla c.d. adesione della parte convenuta, rimanendo del tutto minoritaria la tesi dell’inammissibilità del ricorso. Per garantire la sanatoria, si invoca l’applicazione analogica degli artt. 426 e 427 c.p.c., in tema di coordinamento tra il rito lavoro ed il rito ordinario, i quali prevedono che il giudice disponga la conversione del rito, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta con il rito errato, in quanto il rito del lavoro appare senza dubbio il più coerente per ovvie ragioni funzionali e sistematiche, onde integrare i vuoti lasciati dal legislatore della riforma in esame. Non manca, tuttavia, tra i primi commentatori, chi ritiene invece applicabile il meccanismo di cui all’art. 4 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. In ogni caso, si ritiene che le norme citate testimoniano la volontà generale del legislatore di contenere, per lo meno nel primo grado di giudizio, le conseguenze sfavorevoli dell’errore sul rito, limitando le ipotesi in cui ad esso consegua una definizione in rito del processo, con sostanziale negazione dell’auspicata tutela di merito, a quelle espressamente previste dalla legge. Le argomentazioni appena evidenziate sono vastamente condivise dalla dottrina prevalente, la quale si richiama ai meccanismi della conversione di rito di cui agli artt. 426 e 427 c.p.c. [D. DALFINO (14), 8; G. VERDE (31), 302 s.; F.P. LUISO, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 65; D. BUONCRISTIANI (8), § 10; L. DE ANGELIS (16), § 4; G. PACCHIANA PARRAVICINI (26), 755; A. BOLLANI (6), 315; P. CURZIO (13), § 8; P. SORDI (28), § 1.3]. Pur concordando per la conservazione degli effetti della domanda, G. BENASSI (5), § 4, 242 CAPITOLO TERZO propende per l’applicazione del meccanismo di sanatoria di cui all’art. 4 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. Contra: v. S. RECCHIONI, supra, in questo vol., parte II, n. 1.4., il quale nega l’applicazione di tale disposizione in forza del suo carattere di specialità. In giurisprudenza, Trib. Roma 31 ottobre 2012, est. Pucci, in Giur. it., 2013, 1362, ha ritenuto che, laddove il lavoratore abbia promosso con il rito Fornero una controversia non assoggettata all’ambito di applicazione dell’art. 18 St. lav. debba applicarsi la disciplina di cui o all’art. 4 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che dispone il mutamento del rito nei casi di rapporto tra rito ordinario di cognizione, rito sommario di cognizione e rito del lavoro, rinviando a nuova udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. ed assegnando termine per l’integrazione degli atti difensivi, onde sanare eventuali preclusioni e decadenze intervenute. Al fine di non pregiudicare eccessivamente il lavoratore, il quale potrebbe errare nella individuazione dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, peraltro gravato dal relativo onere della prova, deve in ogni caso ritenersi che il termine decadenziale di 180 giorni dalla proposizione dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento sia stato rispettato con la proposizione del ricorso nella fase sommaria [così M. DE CRISTOFARO, in M. DE CRISTOFARO, G. GIOIA (17), 8, nota 21]. 3.5. Le domande connesse. Terzo problema lasciato irrisolto dal legislatore della riforma Fornero, attiene al rito da seguire in un processo cumulato nel quale siano proposte contemporaneamente domande assoggettate al rito Fornero e domande che, se proposte in modo autonomo, sarebbero senza dubbio assoggettate al modello del rito lavoro ex artt. 409 ss. c.p.c. Si pensi ad una domanda principale di riconoscimento della tutela reale pura, strettamente rientrante nell’alveo di applicazione del rito Fornero, alla quale venga cumulata, in via subordinata e condizionata al suo rigetto, una domanda di indennità povera ex lege 11 maggio 1990, n. 108, per il caso in cui i requisiti dimensionali del datore di lavoro non dovessero rivelarsi superati all’esito dell’espletanda istruttoria. Astrattamente il giudice potrebbe disporre la separazione delle domande non rientranti nell’alveo di applicazione dell’art. 18, ordinando la conversione del rito per la loro trattazione, ovvero dovrebbe dichiararne l’improcedibilità, ovvero ancora l’infondatezza. Tale soluzione confligge aspramente con le ragioni di economia processuale che renderebbero certamente preferibile la trattazione congiunta di questioni di fatto comuni che astrattamente comportano diversi regimi di tutela solo in ragione delle caratteristiche soggettive della parte datoriale. In dottrina, propende per la necessaria declaratoria di infondatezza delle domande esulanti l’ambito di applicazione del rito Fornero M. DE CRISTOFARO, in M. DE CRISTOFARO, G. GIOIA (17), 8, rilevando come tale apparente diniego di giustizia sia contemperato dalla possibilità di dedurle, in via subordinata, all’interno dell’eventuale fase di opposizione avverso l’ordinanza emessa a chiusura della fase sommaria. Ad analoghe conclusioni giunge anche P. SORDI (28), § 7.4. In giurisprudenza si è espresso in tal senso Trib. Venezia 2 ottobre 2012, in Guida al lav. 26 ottobre 2012, 27 ss., con nota di E. BARRACO, A. SITZA, Riforma Fornero e rito speciale: la prima ordinanza di merito. Ove si optasse per la tesi della conversione del rito, invece, la domanda di tutela obbligatoria pura proposta subordinatamente a quella di tutela reale assoggettata al rito Fornero, sarebbe trattata in un procedimento autonomo e separato da quello ex art. 18 e le due cause potenzialmente percorrerebbero binari paralleli. IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 243 Per tale soluzione ha concluso in giurisprudenza, Trib. Piacenza 13 gennaio 2013, in www.giuslavoristi.it, Osservatorio sulla riforma Fornero, il quale separando le domande di cui al rito Fornero da quelle esulanti dal suo ambito di applicazione (nella fattispecie relative all’inquadramento contrattuale ed alle mere differenze retributive), ha fissato l’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., assegnando termini alle parti per l’integrazione degli atti. 3.6. La legittimazione all’azione. In merito alla legittimazione all’azione ex art. 18, il riferimento espresso alla sola impugnativa del licenziamento potrebbe far pensare ad un rito a parti fisse, in cui attore può essere solo il lavoratore. Si può, tuttavia, obiettare che l’estensione del rito Fornero alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, operata dall’art. 1, comma 47°, l. n. 92/2012, consente di contemplare anche le azioni di mero accertamento della legittimità del licenziamento introdotte dal datore di lavoro, il cui interesse all’azione sia sorto dall’impugnativa stragiudiziale dello stesso ad opera del lavoratore. In tal senso si è espresso L. De Angelis [v. L. DE ANGELIS (16), § 4]. La dottrina favorevole ad un’interpretazione restrittiva richiama invece la ratio normativa di non veder frustrate le ragioni della parte debole, né eccessivamente pregiudicate quelle della parte datoriale per il caso di licenziamento ingiustificato, per effetto delle lungaggini processuali [v. F.P. LUISO, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 63, il quale, altresì, dubita della sussistenza in capo al datore di lavoro dell’interesse ad agire per l’accertamento della legittimità del licenziamento, in quanto la mancata proposizione del ricorso nel termine di cui all’art. 6, comma 2°, l. n. 604/1966, di fatto stabilizza gli effetti del licenziamento stesso]. 3.7. La fase sommaria. La prima fase del rito licenziamenti ha una disciplina scarna, scevra da formalismi e connotata dalla carenza di preclusioni. In assenza di un’espressa statuizione al riguardo, occorre interrogarsi sull’obbligatorietà o meno della fase sommaria, essendosi già prospettata nelle aule dei tribunali la fattispecie in cui le parti, per mutuo accordo, dichiarano di rinunciare a tale fase, onde evitare inutili duplicazioni di attività, potendosi risolvere in ogni caso l’istruttoria in poche battute. Positivamente si è espresso Trib. Piacenza con l’ordinanza del 16 gennaio 2013, cit., in una fattispecie nella quale le parti, all’apertura della prima udienza della fase sommaria, hanno dichiarato di essere concordi nel rinunciare alla fase sommaria ex art. 1, comma 48°, l. 20 giugno 2012, n. 92, e di voler passare subito alla fase con istruttoria compiuta e cognizione piena, prevista dall’art. 1, comma 51°, l. cit. Nell’accogliere la richiesta, il Tribunale di Piacenza ha cura di precisare che «se è vero che il rito previsto dalla legge Fornero non può considerarsi facoltativo, attesi il tenore letterale della norma di cui al comma 48° (la domanda si propone), l’interesse di entrambe le 244 CAPITOLO TERZO parti del rapporto di lavoro ad una sollecita definizione del processo inerente i licenziamenti con tutela ex art. 18, è anche vero che non paiono sussistere preclusioni, nell’ambito dello stesso rito, alla concorde volontà di entrambe le parti di ‘saltare’ la fase sommaria del procedimento». Il Tribunale precisa che tale conclusione non lede alcun diritto delle parti o principio fondamentale dell’ordinamento, in quanto sono comunque rispettate le regole di competenza per materia e per territorio e si perviene in tempi più ridotti ad una sentenza di primo grado, rispettando rigorosamente le cadenze processuali previste dal rito ed in sintonia con la ratio perseguita dal legislatore. Onde consentire l’esercizio di tale opzione, deve ritenersi applicabile, anche attraverso il ricorso per analogia ad istituti previsti in altri riti, un meccanismo di conversione che contempli la fissazione dell’udienza di discussione ex art. 1, comma 51°, l. 28 giugno 2012, n. 92, e l’assegnazione di termini alle parti per l’integrazione degli atti. La domanda per l’impugnazione del licenziamento si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. In assenza di contrarie indicazioni del legislatore, deve intendersi che si applichi integralmente la disciplina di cui all’art. 413 c.p.c., per l’individuazione della competenza territoriale. L’estrema sintesi della disciplina della fase sommaria del processo di impugnativa dei licenziamenti ex art. 18 St. lav. costringe, infatti, l’interprete a ricorrere ad integrazioni con la più compiuta normativa di altri modelli processuali, tra i quali deve prediligersi il rito del lavoro, anche alla luce della considerazione che le cause di licenziamento rientrano a pieno titolo nelle cause di lavoro ex art. 409, n. 1, c.p.c. L’eccezione di incompetenza può, ma non necessariamente deve, rilevarsi sin dalla fase sommaria del giudizio, ben potendo rilevarsi il vizio per la prima volta nella successiva fase di opposizione, non essendo prevista una preclusione al riguardo. Afferma espressamente la rilevabilità sin dalla fase sommaria del difetto di competenza, nonché di quello di giurisdizione, R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 102 [contra: G. BENASSI (5), 753]. Depone in favore di tale soluzione la considerazione che non avrebbe senso, in nome della celerità processuale, rimandare al giudizio di opposizione l’esame della questione di competenza che potrebbe vanificare una copiosa attività processuale compiuta da un giudice incompetente. Il ricorso per l’impugnazione del licenziamento deve essere proposto nel termine di decadenza di giorni 180 dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento stesso al Tribunale competente in base alle regole appena menzionate. L’art. 1, comma 48°, l. 28 giugno 2012, n. 92, si limita a richiamare la disposizione generale di cui all’art. 125 c.p.c., con la conseguenza che elementi necessari dello stesso atto saranno l’indicazione del tribunale competente, delle parti, nonché dell’oggetto e delle ragioni della domanda e delle conclusioni delle quali si chiede l’accoglimento. L’atto, sottoscritto dal difensore munito della procura alle liti, dovrà poi contenere l’indicazione del codice fiscale e l’indirizzo PEC comunicato all’ordine di appartenenza del difensore. IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 245 Per quanto concerne l’obbligatorietà della difesa tecnica devono ritenersi operanti l’art. 417 c.p.c., sia nella fase sommaria che nell’eventuale fase di opposizione, e, per l’ipotesi di licenziamenti del pubblico dipendente, secondo coloro che ritengono esteso anche a queste ipotesi il rito Fornero, l’art. 417 bis c.p.c. [in tal senso, R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 102 s.]. Non deve invece ritenersi operante il comma 2° dell’art. 125 c.p.c., secondo il quale la procura al difensore è valida anche se rilasciata successivamente alla notificazione dell’atto, purché anteriormente alla costituzione delle parte rappresentata, trattandosi di un rito instaurato a mezzo ricorso depositato in cancelleria e solo successivamente notificato unitamente al decreto di fissazione di udienza. Deve, invece, ritenersi applicabile il regime di sanatoria del vizio originario di procura di cui all’art. 182, comma 2°, c.p.c., da ponderarsi con le esigenze di concentrazione del rito, che richiederanno un rinvio breve a nuova udienza. Non si ritiene necessaria l’indicazione sin dal ricorso introduttivo dei mezzi di prova dei quali la parte intende avvalersi, non essendo previsto un rigido schema di preclusioni. A seguito della proposizione del ricorso, il giudice fissa con decreto l’udienza per la comparizione delle parti non oltre i quaranta giorni successivi. Alla trattazione dei ricorsi, secondo l’art. 1, comma 62°, l. 28 giugno 2012, n. 92, debbono essere destinati particolari giorni nel calendario delle udienze. L’ambigua espressione usata dal legislatore secondo la quale l’udienza non deve essere fissata oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso, in assenza della previsione di un termine per l’emissione del relativo decreto, come invece avviene nel rito ex artt. 414 ss. c.p.c., viene interpretata dalla dottrina nel senso che quello di quaranta giorni sia il termine ultimo in cui debba tenersi l’udienza e non quello in cui il giudice debba provvedere alla sua fissazione, il che sarebbe incompatibile con le esigenze di celerità e concentrazione sottese al c.d. rito Fornero [cfr. D. DALFINO (15), 784, nota 52; R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 109, i quali lamentano che tali disposizioni non forniscono alcuna garanzia di celerità, ancor più se coordinate con il comma 69° dello stesso art. 1, il quale prevede che dalle stesse non devono derivare ulteriori oneri a carico della finanza pubblica ovvero minori entrate]. Il giudice assegna un termine non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza per la notifica del ricorso e del decreto, che potrà avvenire anche a mezzo PEC, ed un termine non inferiore a giorni cinque prima della stessa udienza per la costituzione del resistente. Nel silenzio del legislatore al riguardo, ancora una volta dovrà farsi riferimento all’art. 416 c.p.c.; pertanto l’atto di costituzione consisterà in una memoria difensiva, ma con esclusione delle rigide barriere preclusive previste dal rito lavoro. La dottrina è unanime sull’assenza di barriere preclusive e di termini decadenziali, tanto per l’attore quanto per il convenuto nella fase sommaria del rito licenziamenti e ciò sia con riferimento alle istanze ed al potere di allegazione, sia con riferimento ai mezzi di prova [cfr. sul punto D. DALFINO (15), 784; P. SORDI (28), § 36; R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 112 ss.; C. CONSOLO, D. RIZZARDO (12), 736; M. DE CRISTOFARO, in M. DE CRISTOFARO, G. GIOIA (17), 16, il quale, peraltro, rileva che sulle parti grava 246 CAPITOLO TERZO comunque un onere di completezza, pur contemperato dall’ammissibilità di nova di merito ed istruttori]. Si ritiene, invece, che non sia consentito alle parti nella fase sommaria chiamare in causa terzi [G. BENASSI (5), 753], facoltà espressamente prevista per la fase di opposizione, ad ulteriore dimostrazione dall’assenza di barriere preclusive nel primo segmento processuale. Perplessità su tale limitazione esprime invece R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 164, la quale ritiene che debba essere consentita la chiamata dei terzi sia su istanza di parte che per ordine del giudice sin dalla fase sommaria. La trattazione è al massimo deprocedimentalizzata, le forme sono espressamente ridotte a quelle essenziali alla tutela del principio del contraddittorio, mentre è rimesso al prudente apprezzamento del giudice il modo di assunzione dei mezzi istruttori indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, con espresso rinvio al disposto dell’art. 421 c.p.c. e, pertanto, al relativo ampliamento dei poteri istruttori d’ufficio. Tale rinvio è motivato dalla evidente volontà, posta la delicatezza della materia, di raggiungere un provvedimento il più possibile prossimo alla verità materiale, attraverso l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nei limiti in cui la relativa prova sia indispensabile. Le parti devono essere sentite necessariamente, trattandosi di un rito sommario, ma a contraddittorio anticipato, non essendo in alcun modo ammesso un provvedimento inaudita altera parte. La fase sommaria del procedimento si conclude con l’emissione di un’ordinanza dotata di efficacia esecutiva, relativamente ai capi in cui dispone la reintegra del lavoratore e la corresponsione delle indennità, ovvero, per il caso di rigetto dell’istanza del lavoratore, relativamente ai capi di condanna del datore di lavoro al pagamento del t.f.r. ed, in ogni caso, ai capi di condanna al pagamento delle spese di lite. La cognizione della fase sommaria può estendersi anche alla qualificazione del rapporto di lavoro, pregiudiziale alla domanda di licenziamento. Trib. Napoli, ordinanza 16 ottobre 2012, in www.diritto24.ilsole24ore.com per ipotesi di difficile qualificazione del rapporto, come quando il lavoratore presta una collaborazione coordinata e continuativa o di associato in partecipazione ovvero come collaboratore autonomo con partita i.v.a., ritiene la relativa questione assoggettata alla cognizione del tribunale per effetto della proposizione del ricorso ex art. 18 nuovo testo, in quanto questione pregiudiziale all’accertamento della fondatezza dell’impugnazione del licenziamento. In merito alla concreta esecuzione dell’ordinanza, la normativa in commento evidenzia una grave lacuna, non prevedendo una sanzione specifica per la mancata reintegra del lavoratore in azienda. In dottrina si è rilevato che il legislatore avrebbe potuto espressamente dichiarare applicabile l’art. 614 bis c.p.c., che all’atto delle sua introduzione con la l. 18 giugno 2009, n. 69, fu espressamente sottratto dall’ambito delle controversie del lavoro [v. vol. IV, nn. 15.1. e 16.3.]. Questa era l’occasione che il legislatore aveva per rimediare ad un problema IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 247 di portata applicativa vastissima ed estremamente delicato, essendo note prassi datoriali volte all’inerzia rispetto all’ordine di reintegra del lavoratore, quali che ne siano le conseguenze sul piano strettamente economico [cfr. in argomento D. DALFINO (15), 762; R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 140 s.]. L’efficacia esecutiva del provvedimento di accoglimento del ricorso non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che definisce il giudizio di opposizione, coerentemente con l’esigenza di tutela della parte debole del rapporto, sottesa alla disciplina de qua. Che l’appena citata disposizione dell’art. 1, comma 50°, l. Fornero si applichi esclusivamente alle ordinanze di accoglimento del ricorso, le uniche dotate di efficacia esecutiva, è sufficientemente pacifico in dottrina, la quale esclude, altresì, che la stessa possa essere revocata o modificata dal giudice che l’ha emessa [F.P. LUISO, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 58 e 72; R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 126]. Dubbi sono invece stati sollevati dai medesimi autori, sull’applicabilità del divieto di cui all’art. 1, comma 50°, anche alle domande connesse proponibili congiuntamente all’impugnativa del licenziamento in senso stretto, non giustificandosi rispetto alle stesse un regime differente da quello dell’inibitoria delle sentenze di primo grado [cfr. R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 146]. Secondo parte della dottrina, può poi parlarsi anche di efficacia di cosa giudicata o, piuttosto, prossima alla cosa giudicata. Si giustifica una tale efficacia per un provvedimento emesso a seguito di una cognizione sommaria con l’esigenza di trovare in tempi brevi una regola stabile di giudizio. Coloro che propendono per la soluzione positiva [M. DE CRISTOFARO, in M. DE CRIG. GIOIA (17), 18, 27 ss.; F.P. LUISO, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 72 s.; A. VALLEBONA, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 75] evidenziano la natura dichiarativa del provvedimento, da estendersi, secondo F.P. Luiso, anche all’esistenza del rapporto di lavoro quale antecedente logico necessario della condanna, il cui accertamento sarà vincolante anche ai fini della pronuncia sugli altri diritti ed obblighi da esso dipendenti [contra: C. CONSOLO, D. RIZZARDO (12), 735]. D. DALFINO (15), 787 ss., spec. 789, invece, sembra propendere per una preclusione pro judicato, a carico del soccombente che non instauri il giudizio di opposizione: il lavoratore, che si vede impedito a riproporre l’impugnazione relativa al licenziamento ovvero il datore di lavoro inabilitato a proporre un’azione di accertamento della legittimità del licenziamento. In particolare, l’elemento che fa dubitare dell’acquisizione dell’efficacia di cosa giudicata all’ordinanza in assenza di impugnazione e comunque dell’attitudine della stessa ad offrire un accertamento ai sensi dell’art. 2909 c.c. è la natura sommaria della cognizione che la precede, limitata ai soli mezzi istruttori indispensabili, con rinvio della cognizione piena alla fase di eventuale opposizione. STOFARO, 3.8. La fase dell’opposizione. Avverso l’ordinanza di accoglimento o di rigetto del ricorso di impugnazione del licenziamento ex art. 18 Statuto dei lavoratori emessa a conclusione 248 CAPITOLO TERZO della fase sommaria può essere proposta opposizione entro trenta giorni dalla notificazione della stessa o dalla comunicazione, se anteriore. Competente per la fase di opposizione è lo stesso tribunale che ha emesso l’ordinanza opposta. È un’ipotesi di competenza funzionale. Il tribunale decide in composizione monocratica. In dottrina si dibatte sulla possibilità che a decidere sia poi la medesima persona fisica che ha emesso l’ordinanza nella fase sommaria. Al riguardo può invocarsi l’art. 111 Cost., che contempla tra i principi del giusto processo civile la terzietà del giudicante. Ancora, la Corte costituzionale con la sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, ha sancito l’incompatibilità del giudice della fase sommaria nel procedimento ex art. 28 St. lav. rispetto alla successiva fase di opposizione, sul presupposto che questa fase avesse natura impugnatoria. Pare preferibile, pertanto, propendere per la tesi della incompatibilità del giudice che ha conosciuto della fase sommaria in quella di opposizione [in argomento R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 154]. Il giudizio si introduce a mezzo ricorso in opposizione contenente gli elementi di cui all’art. 414 c.p.c. da presentarsi entro trenta giorni dalla notificazione o comunicazione, se anteriore, dell’ordinanza che definisce la fase sommaria. In mancanza di entrambe, deve ritenersi applicabile la disposizione di cui all’art. 1, comma 61°, l. n. 92/2012, dettata per il reclamo avverso la sentenza a chiusura della fase di opposizione, che espressamente rinvia all’art. 327 c.p.c. ed al termine lungo ivi previsto. Conclude in tal senso R. TISCINI (24), 157, la quale richiama un consolidato indirizzo giurisprudenziale estensivo dell’ambito di applicazione dell’art. 327 c.p.c. [cfr. Cass. 29 luglio 2010, n. 17704]. Il giudice fissa l’udienza per la discussione non oltre sessanta giorni dal deposito del ricorso, assegnando all’opposto un termine di dieci giorni prima dell’udienza per costituirsi. Il ricorso va poi notificato all’opposto, anche a mezzo posta elettronica certificata, almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza. L’opposto deve costituirsi depositando in cancelleria una memoria difensiva a norma e con le decadenze dell’art. 416 c.p.c. In particolare l’opposto in questo atto deve fare richiesta di autorizzazione alla chiamata del terzo, proporre le domande riconvenzionali e le eccezioni in senso stretto e contestare puntualmente i fatti dedotti dall’attore, oltre che proporre tutte le sue difese in fatto e diritto, nonché proporre le istanze istruttorie e depositare tutti i documenti di cui intende avvalersi. Oggetto del giudizio è la situazione sostanziale dedotta in causa e non l’ordinanza del giudice, con possibilità di modifica tanto dell’ambito soggettivo che di quello oggettivo della lite. Oltre alla rinuncia ad alcune delle originarie domande il cui cumulo era stato ammesso in primo grado, possono essere dedotte per la prima volta in questa fase, sia dall’opponente che dall’opposto, IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 249 domande nuove fondate sui medesimi fatti costitutivi della domanda proposta nella fase sommaria. Ad esempio accanto alla domanda di reintegra proposta nella fase sommaria, nel giudizio di opposizione il lavoratore propone la domanda di indennizzo per illegittimità del licenziamento ovvero, a fronte del rigetto della domanda di reintegra, il lavoratore propone la domanda di pagamento del t.f.r. e dell’indennità di mancato preavviso. Altresì è ammessa la riproposizione delle domande connesse la cui trattazione non era stata consentita dal giudice nella fase sommaria ed è infine possibile chiamare in causa terzi. L’art. 1, comma 53°, l. n. 92/2012 prevede che l’opposto per effettuare la chiamata del terzo in causa deve farne richiesta, a pena di decadenza, nella memoria difensiva. Il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi sessanta giorni e dispone che siano notificati al terzo, ad opera delle parti, il provvedimento, il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione dell’opposto, osservati i termini per la comparizione previsti dal comma 52°. R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 173, ritiene che le medesime modalità debbano essere rispettate anche laddove l’ampliamento dell’ambito soggettivo della lite sia richiesto dall’opponente, onde consentire il dovuto vaglio di ammissibilità da parte del giudice. Il terzo soggiace alle medesime preclusioni imposte alle parti. Laddove l’opposto proponga domanda riconvenzionale, non vi è un’espressa disciplina normativa o riferimento all’art. 418 c.p.c., che tuttavia può ritenersi applicabile per effetto del rinvio operato dall’art. 416 c.p.c., a sua volta espressamente richiamato dal legislatore della riforma. Peraltro, la domanda riconvenzionale non ha limiti oggettivi a pena di inammissibilità, tanto che se la stessa non è fondata su identici fatti costitutivi di quelli posti a base della domanda principale, il giudice ne dispone la separazione ai sensi del comma 56°. La fase di opposizione è caratterizzata da una cognizione ordinaria e da un’istruttoria piena ed esauriente e dovrebbe svolgersi tendenzialmente in un’udienza unica. A conclusione della stessa viene emessa una sentenza, preceduta, laddove le parti siano a ciò autorizzate, dal deposito di note difensive almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione. Entro dieci giorni dalla discussione la sentenza viene depositata in cancelleria completa della motivazione. L’esito può essere di accoglimento, con conseguente caducazione dell’ordinanza, ovvero di rigetto con la sostituzione della stessa con un nuovo dictum di uguale contenuto, ma con efficacia di pieno accertamento. La sentenza è provvisoriamente esecutiva ed è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, con riferimento ai capi condannatori. 250 CAPITOLO TERZO 3.9. Il reclamo. Avverso la sentenza conclusiva della fase di opposizione è ammesso il rimedio del reclamo, avente pieno valore di impugnazione. La dottrina si è interrogata sulla possibilità di proporre reclamo direttamente avverso l’ordinanza definitiva della fase sommaria, laddove la stessa, per la pienezza della cognizione svolta e per l’attività istruttoria compiuta in proporzione alla domanda, renda praticamente inutile la fase di opposizione. Tale possibilità trova giustificazione sistematica nella teoria della prevalenza della sostanza sulla forma [cfr. R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 185 s.]. L’esposta tesi ha il pregio di favorire la celerità della definizione del processo, saltando una fase che potrebbe rivelarsi superflua. Lo svantaggio è creare incertezza nella parte soccombente all’esito della fase sommaria sul procedimento da utilizzare per ribaltare l’esito del giudizio. Nonostante la terminologia utilizzata dal legislatore, il reclamo è uno strumento di impugnazione ordinaria a cognizione piena di secondo grado a critica libera, assimilabile al giudizio di appello. Per quanto non disposto dalla normativa speciale deve ritenersi applicabile la disciplina dell’appello nel rito del lavoro, in ragione delle medesime considerazioni che portano ad integrare la disciplina delle precedenti fasi con quella del rito del lavoro ex artt. 414 ss. c.p.c. Competente per il giudizio di reclamo è la corte di appello. Il reclamo si propone con ricorso, il cui contenuto non è espressamente indicato dal legislatore. Potenzialmente potrebbe ritenersi applicabile l’art. 434 c.p.c., in quanto compatibile, ovvero l’art. 125 c.p.c. [si esprime in tali termini dubitativi R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 189]. Il ricorso va depositato a pena di decadenza entro trenta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza se anteriore, o, in mancanza di entrambe, nel termine lungo di sei mesi di cui all’art. 327 c.p.c., esplicitamente dichiarato applicabile dall’art. 1, comma 61°, l. 28 giugno 2012, n. 92. La corte d’appello fissa con decreto l’udienza non oltre sessanta giorni dal deposito del ricorso e si applicano i termini di cui ai commi 51°, 52° e 53°. Nel silenzio della legge si ritiene che all’appellato si applichi l’art. 436 c.p.c. e la disciplina dell’appello nel rito lavoro codicistico, con esclusione del c.d. filtro, non trattandosi di norme di carattere generale necessarie all’integrazione delle lacune della normativa speciale. In dottrina, altresì, è stata rilevata un’ulteriore ragione di esclusione nella circostanza che il filtro è espressamente vietato per l’appello nel giudizio sommario di cognizione, che, al pari del rito in esame, pare incompatibile con una rigida formalizzazione degli atti e del procedimento [R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 192]. La trattazione è regolamentata dall’art. 1, comma 59°, l. 28 giugno 2012, n. 92, il quale ammette l’introduzione di nuovi mezzi di prova e documenti solo IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 251 nel caso in cui il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili alla decisione ovvero la parte dimostri di non averli potuti proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile. Si è sostenuta l’ammissibilità del giuramento decisorio e del giuramento estimatorio, in analogia a quanto previsto dall’art. 437 c.p.c. [R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 194]. Devono invece ritenersi vietate nuove domande, sulla base della considerazione che il legislatore della riforma ha inteso limitare la trattazione congiunta di più cause in primo grado, salvo il caso della dipendenza dai medesimi fatti costitutivi e ciò al fine di evitare ogni rallentamento dei tempi processuali. Nel giudizio di reclamo il soccombente può ottenere l’inibitoria della sentenza conclusiva della fase di opposizione, dimostrando la ricorrenza di gravi motivi, ai sensi dell’art. 1, comma 60°, l. 28 giugno 2012, n. 92. I primi commentatori della riforma hanno evidenziato che tale disposizione ripropone l’espressione di cui al vecchio testo dell’art. 283 c.p.c., in controtendenza rispetto al progressivo irrigidimento dei presupposti per la concessione dell’inibitoria non soltanto nel rito del lavoro, ma anche nelle fasi di impugnazione del rito ordinario di cognizione [R. TISCINI, in F.P. LUISO, R. TISCINI, A. VALLEBONA (24), 197] e piuttosto prendendo a modello l’inibitoria delle sentenze emesse a favore del datore di lavoro ex art. 431, commi 5° e 6°, c.p.c. [in tal senso L. DE ANGELIS (16), 19; G. BENASSI (5), 756, il quale avanza dubbi di incostituzionalità della norma]. Anche in questa fase, il rito è scevro di ogni formalità e le attività sono rimesse al potere discrezionale del giudice, il quale, sentite le parti, procede con le modalità più opportune agli atti di istruttoria ammessi. La trattazione è a cognizione piena, sia pure con un’istruttoria ridotta al minimo come si confà ad un rito «a porte chiuse». In ordine all’assunzione dei mezzi di prova, pur non essendo questa una disposizione indispensabile al rispetto del principio del contraddittorio, non è escluso che, in analogia a quanto ora previsto per il rito ordinario, la corte di appello possa delegare uno dei membri del collegio. Chiusa la fase istruttoria, viene fissata l’udienza di discussione, preceduta dall’eventuale concessione di un termine, fino a dieci giorni prima, per il deposito di note difensive. La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata entro dieci giorni dall’udienza di discussione. 3.10. Il ricorso per cassazione. Avverso la sentenza emessa nel giudizio promosso con reclamo, è ammesso il ricorso per cassazione, per regolare il quale il legislatore del 2012 rinvia all’art. 360 c.p.c. Il ricorso si propone entro sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione se anteriore, nonché per il rinvio implicito all’art. 327 c.p.c., 252 CAPITOLO TERZO entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza in mancanza di notificazione o comunicazione. L’inibitoria dell’efficacia esecutiva della sentenza emessa nel giudizio di reclamo, per la quale è competente la corte di appello, è consentita, ancora una volta, in presenza di gravi motivi, ossia di un requisito più blando di quello previsto nel rito ordinario (grave ed irreparabile danno). L’udienza sarà fissata dalla corte non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso. 3.11. Ambito di applicazione della riforma ratione temporis. Il comma 68° dell’art. 1 l. 20 giugno 2012, n. 92, stabilisce che il nuovo rito dei licenziamenti si applica ai processi instaurati successivamente alla data di entrata in vigore della l. 28 giugno 2012, n. 92, ossia al 18 luglio 2012. Per controversia instaurata deve intendersi quella per cui non vi sia litispendenza al momento di entrata in vigore della legge, con la conseguenza che decisiva diviene la data di deposito del ricorso introduttivo. L’art. 39, comma 3°, come modificato dalla l. 28 giugno 2009, n. 69, che individua il momento determinante la prevenzione ai fini della litispendenza nel deposito del ricorso (oltre che nella notifica della citazione), nonché il disposto dell’art. 2 bis l. 24 marzo 2001, n. 89, come novellato dall’art. 55 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, secondo il quale, ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo, lo stesso si considera «iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ovvero con la notificazione dell’atto di citazione», confermano detta tesi. Si segnala, peraltro, che in passato dottrina e giurisprudenza erano giunte in via interpretativa a tale conclusione [C. MANDRIOLI (25), 214; F.P. LUISO (23), 120 s.; Cass. 30 marzo 2001, n. 4686; Cass., sez. un., 11 maggio 1992, n. 5597, in Riv. dir. proc., 1993, 574 ss., con nota critica di G. MONTELEONE ed in Foro it., 1992, I, 2089 ss., con nota di G. COSTANTINO. Contra: G. TARZIA (29), 100]. Gli ambiti di applicazione della normativa sostanziale e di quella processuale, pertanto, risultano scollati ed indipendenti, in quanto le disposizioni sostanziali di cui all’art. 18 St. lav., come riformato dalla Novella, sono invece applicabili ai licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della riforma. Tale discrepanza comporta che possa verificarsi una disparità di trattamento tra fattispecie sostanziali analoghe. Ed infatti potrebbe accadere che l’impugnazione di un licenziamento intimato in epoca antecedente alla data del 18 luglio 2012, ad esempio, in forma orale da un’azienda che occupa meno di 16 dipendenti, seguirà il rito di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., non rientrando tale ipotesi nella sfera di applicazione del vecchio testo dell’art. 18 St. lav., mentre una identica fattispecie occorsa in epoca successiva, oggi trova tutela nell’art. 18, per effetto della riforma. Peraltro, può accadere che in una ipotesi di licenziamento occorso prima del 18 luglio 2012, avverso la quale sia proposta l’impugnativa in giudizio successivamente alla data di entrata in vigore della riforma, si IL RITO SPECIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI 253 abbia una discrepanza tra la disciplina sostanziale applicata (quella ordinaria, esulando tali casi dalla tutela reale della vecchia disciplina sostanziale) rispetto alla disciplina processuale modellata sulla Novella operata dalla legge Fornero. Trib. Roma 31 ottobre 2012, est. La Marra, in www.diritto24.ilsole24ore.com, ha applicato il nuovo rito sul presupposto che il ricorso era stato proposto dopo il 18 luglio 2012, nonostante il licenziamento fosse stato intimato nel mese di giugno. Ritiene rilevante unicamente la data di deposito del ricorso anche Trib. Roma 31 ottobre 2012, est. Casola, ivi, la quale ammette espressamente la dicotomia, nel periodo di transizione, tra licenziamenti assoggettati al nuovo rito, senza che possa loro applicarsi, ratione temporis, la nuova disciplina sostanziale e procedimenti nuovi ai quali si applica la nuova disciplina sostanziale. Contra: Trib. Roma 31 ottobre 2012, est. Pucci, ivi, secondo la quale in un caso di inapplicabilità, ratione temporis, delle disposizioni di natura sostanziale del novellato art. 18, ad un licenziamento intimato prima del 18 luglio 2012, non possa applicarsi neppure la nuova disciplina processuale contenuta in tale disposizione (in ipotesi di licenziamento inefficace alla luce della vecchia normativa, ma non soggetto alla reintegra). Bibliografia: (1) AA.VV., La riforma del mercato del lavoro – Aspetti sostanziali e processuali, a cura di F.M. Giorgi, Napoli 2013; (2) AA.VV., Il nuovo mercato del lavoro. Dalla riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, a cura di M. Cinelli, G. Ferraro e O. 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