L’impugnazione del licenziamento individuale alla luce della recente sentenza della Suprema Corte Con la recente sentenza 4.9.2008 n. 22287 la Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui l’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6 l. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale ed ancorchè essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine. In linea generale, l’art. 6 della l. 604/1966 prevede che il lavoratore licenziato possa, entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale alla prima, impugnare il recesso del datore di lavoro. La disposizione richiamata non solo utilizza il termine “impugnazione” in senso generico ed improprio (cfr. TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, CEDAM 2000, 364), in quanto riferibile a qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale o proveniente da un’organizzazione sindacale, purchè idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento (cfr. Cass. 2200/1998), ma non distingue neppure le ipotesi di licenziamento a cui possa dirsi applicabile il termine decadenziale ivi previsto. In relazione, invece, alla indicazione del termine per impugnare, la norma si limita a precisare che i 60 giorni decorrono dalla comunicazione del licenziamento, senza specificazione alcuna. Da tali premesse è conseguita un’intensa attività interpretativa diretta a colmare le lacune di una disposizione di notevole rilievo, soprattutto se si tien conto delle conseguenze legislative in cui incorre il lavoratore nelle ipotesi di tardiva impugnazione di un licenziamento che, per qualunque ragione, egli consideri illegittimo. La giurisprudenza prevalente, in primo luogo, ha confermato l’applicabilità del termine di legge fissato nell’art. 6 ad ogni ipotesi di licenziamento, sia esso nullo, annullabile o inefficace, salva l’ipotesi di impugnativa del licenziamento intimato oralmente o assolutamente privo di elementi essenziali, quali la sottoscrizione del datore di lavoro, in quanto giuridicamente inesistente (cfr. Cfr. Cass., Sez. lav., 29 novembre 1996, n. 10697, in Mass., 1996; Id., Sez. un., 18 ottobre 1982, n. 5934, in Giust. Civ., 1982, I, 869). In tali ultimi casi, infatti, l’unico termine che il lavoratore sarà tenuto a rispettare ai fini della tempestiva impugnazione del licenziamento, è il più ampio termine prescrizionale. Difficoltà interpretative, invece, sono sorte in relazione ad ipotesi analoghe alla vicenda recante la massima in rassegna in cui, il dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto aveva impugnato il licenziamento e spedito la relativa lettera prima della scadenza del termine di 60 giorni prescritto dalla legge. La comunicazione, però, era giunta al datore di lavoro solo dopo la scadenza del termine suddetto. Diversi e contrastanti orientamenti giurisprudenziali, succedutisi nel tempo e culminati con la sent. 22287/2008, hanno affrontato la questione concernente la natura recettizia o 1 meno dell’atto di impugnazione del licenziamento e, conseguentemente, il verificarsi o meno della decadenza prescritta dalla legge. Un primo orientamento a cui si è conformata gran parte della giurisprudenza successiva, è da rinvenirsi nella risalente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte 5395/1982 che, componendo un contrasto giurisprudenziale sulla natura recettizia dell’atto di impugnazione del licenziamento, propendevano per la soluzione affermativa, sostenendo che per impedire la decadenza attraverso l’impugnazione giudiziale fosse necessario che, nel termine stabilito dalla legge, il ricorso fosse notificato alla controparte e non solo depositato in cancelleria. Gravava, così, sul lavoratore il rischio di una notificazione tardiva dell’atto alla controparte, anche nelle ipotesi in cui tale eventualità non fosse imputabile alla sua condotta e fosse, dunque, al di fuori della sua sfera di controllo. Sulla scia di tale orientamento si è sviluppata la giurisprudenza successiva, che ha condotto fino all’importante e innovativo intervento della Corte Costituzionale, la quale, in materia di decadenza processuale nel campo delle notificazioni all’estero prima (cfr. Corte Cost. 69/1994), ed estendendo il medesimo principio ad ogni tipo di notificazione poi, ha affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto l’agente postale) sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo (Corte Cost. 26.11.2002 n. 447; cfr. Corte Cost. 12.3.2004 n. 97). Si tratta del cd. principio della sufficienza del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla disponibilità del notificante (cfr. Corte Cost. 69/1994), principio confermato dalla Corte Cost. nella pronuncia 477/2002 in cui ha considerato palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante ma a soggetti divrsi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale) e che, perciò, resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo. La Corte, dunque, ha ritenuto che per impedire il verificarsi della decadenza per il soggetto onerato dalla notifica degli atti, è sufficiente la consegna che egli ne faccia all’ufficiale giudiziario, senza che gli si accollino conseguenze derivanti da un eventuale ritardo non imputabile alla sua condotta. Una diversa soluzione, sempre secondo l’orientamento della Corte, infatti, contrasterebbe col diritto di difesa ex art. 24 Cost., poiché esporrebbe il notificante al rischio di disservizio postale, facendo ricadere sullo stesso il pericolo nel ritardo di un’attività del tutto estranea alla sua sfera di controllo, ma altresì col principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., per la semplice ragione che, in materia di notificazioni di atti giudiziari o di ricorsi amministrativi, altre norme dell’ordinamento attribuiscono rilevanza esclusiva unicamente alla data di spedizione dell’atto. 2 Da tali premesse la Corte ha, inevitabilmente, determinato una scissione tra il momento in cui la notifica può considerarsi perfezionata per il notificante rispetto a quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. Per il primo, infatti, tale momento si identifica con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, laddove per il destinatario è individuato nella data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento. Del resto è la stessa legge n. 890 del 1982 che, in materia di notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari, all’art. 8 prevede che, in caso di assenza del destinatario e di mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere il piego, la notificazione si perfeziona per il notificante alla data di deposito del piego presso l’ufficio postale e, per il destinatario, nel momento del ritiro del piego stesso ovvero alla scadenza del temine di compiuta giacenza. (Corte Cost. 26.11.2002 n. 447). L’intervento innovativo della Corte Costituzionale ha determinato un’inversione di tendenza nell’interpretazione della giurisprudenza successiva che, in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, ha ritenuto sufficiente, per la sospensione del termine di decadenza, il deposito dell’istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di Conciliazioine, considerando irrilevante il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (cfr. Cass. 19/06/2006, n. 14087, in Mass. Giur. Lav., 2006, n. 11, 880). Dov’è, dunque, il focus della mutazione apportata dalla pronuncia in rassegna? Ebbene l’aspetto innovativo della sent. 22287/2008 si ritrova nell’aver generalizzato il principio enunciato dalla Corte Costituzionale, rendendolo applicabile al diritto sostanziale e non solo al diritto processuale. A tal proposito, peraltro, la Suprema Corte ha ritenuto che il principio enunciato nella massima in rassegna tanto più deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti di tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia con un mezzo che può privare il lavoratore de mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 , primo comma, Cost). I componenti del Supremo Collegio hanno considerato non in linea con i principi di ragionevolezza e di difesa ex art. 3 e 24 Cost., imputare al lavoratore tutto ciò che possa verificarsi fuori dalla sua sfera di controllo come, ad esempio, eventuali disguidi del servizio postale tali da far decorrere il termine prescritto dalla legge prima che la comunicazione con cui impugna il licenziamento giunga a conoscenza del datore di lavoro. E ciò in considerazione delle conseguenze derivanti da una impugnazione tardiva. L’eventualità in cui il lavoratore impugni il licenziamento oltre i termini prescritti dalla legge, infatti, pur non comportando la liceità del licenziamento stesso, fa però venir meno il presupposto necessario per accertarne l’illegittimità, determinando, per il lavoratore licenziato, la perdita delle tutele prescritte dalla legge. A questo riguardo, infatti, è pacifico che La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì 3 preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Ne consegue che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall'impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l'atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile. (Rigetta, App. Torino, 27 Ottobre 2003). Cass. civ., Sez. lavoro, 10/01/2007, n.245, in Mass. Giur. It., 2007 Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale ripercorsa, può dirsi colmata la lacuna contenuta nella disposizione dell’art. 6 l. 604/1966 e, quindi, uniformata la disciplina dell’impugnazione del licenziamento e della sua tempestività. In particolare, nelle ipotesi di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, la consegna della raccomandata all’ufficio postale nel termine di 60 giorni dall’intimazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi, è presupposto necessario e sufficiente per considerare tempestiva l’impugnazione del licenziamento, a nulla rilevando che, per qualunque ragione dovuta alla condotta di soggetti diversi dal lavoratore, l’atto possa giungere al datore di lavoro quando ormai sono prescritti i termini previsti dalla legge. Si tratta, probabilmente, di una interpretazione destinata a perdere rilievo stante il ddl 1141 quater A, oggi all’esame del Senato che, tra le altre novità, non solo prevede di portare a 120 giorni il termine fissato nell’art. 6 l. 604/1966 per l’impugnazione del licenziamento ma che, con valore ancor più rilevante, prevede di eliminare dalla disposizione richiamata il riferimento a qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso, limitando tale facoltà del lavoratore unicamente al deposito del ricorso al Tribunale in veste di Giudice del Lavoro. 4