TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI di prof. Giuseppe Melis, dott. Alessio Persiani (in "Diritto e Pratica Tributaria" n. 02 del 2013, pag. 1-267) TRATTATO DI LISBONA E SISTEMI FISCALI (*) Sommario: 1. Introduzione. – 2. Gli effetti sulla tutela dei diritti fondamentali. – 3. Diritti fondamentali e materia tributaria. – 4. La conferma del principio dell’unanimità in materia fiscale. – 5. Le competenze fiscali dell’Unione. – 6. Il mancato inserimento nel Trattato di principi di carattere tributario, la tutela della concorrenza e il riferimento alla «economia sociale di mercato». – 7. Sistemi fiscali e concorrenza tra Stati membri. – 8. L’autonomia impositiva dell’Unione europea e gli obiettivi di welfare. – 9. Fiscalità e tutela dell’ambiente. – 10. Conclusioni. 1. – Introduzione Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, costituisce, come noto, una soluzione di compromesso dopo il fallimento del Trattato che adottava una Costituzione per l’Europa conseguito all’esito negativo dei referendum tenuti in Francia e nei Paesi Bassi (1). Esso salva infatti la «sostanza» della Costituzione recependo molte delle innovazioni ivi contenute ma si limita ad integrarle nel testo dei trattati esistenti senza ricorrere alla forma solenne della Costituzione con i significati evocativi che essa – unitamente ad altri elementi pure venuti meno (gli strumenti della legge e della legge quadro, i simboli della bandiera, dell’inno e del motto) – avrebbe comportato. Per quanto riguarda gli effetti del Trattato di Lisbona sui sistemi fiscali, ci pare che i profili rilevanti siano i seguenti: a) la più ampia tutela dei diritti fondamentali; b) la regola dell’unanimità per la materia fiscale, che viene confermata; c) le competenze fiscali dell’Unione, che rimangono invariate; d) il mancato inserimento nel Trattato di principi di carattere tributario, il significato dell’eliminazione della tutela della concorrenza dagli obiettivi del Trattato e del riferimento, adesso contenuto nell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea (di seguito, TUE), all’economia sociale di mercato fortemente competitiva; e) il tema della concorrenza fiscale tra stati; f) la mancata istituzione di tributi a livello europeo e l’inesistenza di politiche sociali e fiscali europee; g) la fiscalità ambientale. Procediamo nell’ordine, ben consapevoli, peraltro, che mentre alcuni dei profili sopra elencati attengono all’organizzazione istituzionale dell’Unione europea – si pensi, ad esempio, alla conferma della regola dell’unanimità o alla invarianza delle competenze dell’UE in ambito tributario, al mancato inserimento di principi tributari nel Trattato e alle modifiche riferite alla concorrenza – altri influenzano in modo più diretto ed immediato i singoli ordinamenti nazionali, come avviene per la tutela dei diritti fondamentali e per le iniziative in materia di fiscalità ambientale. Tuttavia, come si avrà modo di delineare nel prosieguo, è la considerazione complessiva di tutti questi profili che – ferme restando le innegabili diversità tra essi esistenti – porta a ritenere il Trattato di Lisbona non già un mero ed insignificante tassello del percorso evolutivo della costruzione europea, ma quale importante momento di riconsiderazione dei valori che a tale costruzione sono sottesi; riconsiderazione che non può che influenzare anche i tratti essenziali del momento impositivo. 2. – Gli effetti sulla tutela dei diritti fondamentali Quanto al piano relativo alla tutela dei diritti fondamentali, il portato principale del Trattato di Lisbona attiene alle modifiche recate all’art. 6 del TUE, che, come noto, ha riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito, Carta dei diritti) il medesimo valore giuridico dei trattati, ha previsto l’adesione da parte dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (di seguito, CEDU) ed ha sancito che i diritti fondamentali, come risultanti dalla stessa CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, costituiscono principi generali del diritto dell’UE (2). Posto che tanto la Carta dei diritti quanto la CEDU operano riferimento ai diritti fondamentali, l’analisi deve necessariamente prendere le mosse dall’esame del menzionato art. 6 in punto di efficacia di queste due rilevanti fonti di tutela dei diritti degli individui. Anteriormente al Trattato di Lisbona, il tema dell’efficacia giuridica si poneva in termini relativamente agevoli per la Carta dei diritti, che, priva di carattere giuridicamente vincolante, costituiva un mero supporto interpretativo di principi enucleati sulla scorta delle altre norme dell’ordinamento dell’Unione (3). Più complesso era, invece, l’inquadramento della CEDU nell’ambito degli ordinamenti nazionali degli Stati contraenti. Quanto all’ordinamento italiano, prima delle modifiche del Titolo V della Costituzione, la CEDU era stata inquadrata dalla giurisprudenza costituzionale alla stregua di un ordinario trattato internazionale, che, in base ai principi generali applicabili in materia, si collocava nel sistema delle fonti al medesimo grado delle leggi ordinarie in virtù dell’atto normativo di esecuzione della stessa CEDU (4). A seguito delle modifiche recate dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e, in particolare, delle innovazioni apportate all’art. 117, 1° comma – in base al quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – la giurisprudenza costituzionale, con le storiche sentenze cc.dd. «gemelle» del 2007 (5), ha affermato che le previsioni della CEDU devono inquadrarsi proprio tra quelle espressive dei predetti vincoli di derivazione internazionale, costituendo norme costituzionalmente interposte, che integrano il parametro costituzionale (6). La stessa giurisprudenza ha tuttavia precisato che alle norme della CEDU non può comunque riconoscersi efficacia diretta nel nostro ordinamento, né in base all’art. 10, 1° comma, né sulla scorta dell’art. 11 della Carta Costituzionale. In particolare, la prima previsione – il c.d. «trasformatore permanente» – trova applicazione esclusivamente per le norme internazionali di carattere consuetudinario e non anche per le norme pattizie contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali; categoria, quest’ultima, cui appartengono le norme della CEDU. Quanto al ben noto disposto di cui all’art. 11 Cost., la sua inapplicabilità alle disposizioni CEDU deriva dalla mancata origine delle stesse da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità (7), ciò costituendo un rilevante tratto differenziale della stessa CEDU rispetto alle norme dell’ordinamento dell’Unione europea. Con la conseguenza, dunque, che l’eventuale contrasto tra normativa interna e previsioni della CEDU, ove non componibile sotto il profilo interpretativo, deve risolversi secondo gli ordinari criteri applicabili per i rapporti tra norme di rango costituzionale e subcostituzionale, mediante i ben noti meccanismi dell’incidente di costituzionalità. L’illustrato quadro di riferimento deve ora coordinarsi con le previsioni recate dal Trattato di Lisbona e, in particolare, dal menzionato art. 6 del TUE. Al di là del valore giuridicamente vincolante acquisito dalla Carta dei diritti – profilo che risulta tutt’altro che trascurabile, ma che, ad un’isolata considerazione, non origina particolari questioni interpretative in punto di collocazione nella gerarchia delle fonti, avendo la Carta il medesimo rango dei trattati conclusi nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione – ciò su cui merita soffermare l’attenzione riguarda le norme della CEDU, che, a motivo della loro peculiare posizione nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento interno, originano notevoli complessità anche con riferimento alle interrelazioni con l’ordinamento dell’Unione europea. Le norme della CEDU hanno, infatti, certamente natura di norme internazionali, a motivo dell’ingresso nell’ordinamento italiano a mezzo della legge di ratifica e del relativo ordine di esecuzione. In base al menzionato art. 6 del TUE, tuttavia, esse costituiscono anche fonti di supporto e di «ricognizione» nella costruzione dei principi generali dell’ordinamento comunitario, nonché, una volta concluso il processo di adesione dell’UE alla CEDU, norme rilevanti alla stregua di quelle contenute nei trattati internazionali conclusi dalle istituzioni dell’Unione, oltre che dagli Stati membri nella loro individualità (8). Tale natura ibrida delle norme CEDU ha condotto all’emersione, nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, di un orientamento incline ad una sostanziale equiparazione dei «cataloghi» dei diritti fondamentali contenuti, rispettivamente, nella CEDU e nella Carta dei diritti (9). Facendo leva tanto sulle menzionate previsioni di cui all’art. 6, §§ 2 e 3, del TUE – rispetto ai quali si sono affermate immediate conseguenze di assoluto rilievo atteso che le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 Cost. (10) – quanto sul disposto di cui all’art. 52, § 3, della Carta dei diritti quale espressione del valore di standard minimo delle norme della CEDU rispetto alla tutela accordata nell’ordinamento dell’UE ai diritti fondamentali (11), si è sostenuta l’esistenza di un «assorbimento» del sistema della CEDU nel più ampio e complesso ordinamento dell’UE e l’estendibilità alle norme convenzionali della ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha [...] portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario [...] senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno (12). Con l’ulteriore conseguenza, quindi, che nei riguardi delle norme della CEDU dotate di compiutezza espositiva potrebbe trovare applicazione la ben nota capacità di produzione di effetti diretti riconosciuta ad alcune norme facenti parte dell’ordinamento comunitario. Nonostante si tratti di posizione avente un’indubbia portata semplificatoria rispetto ad un quadro interpretativo complesso, essa non sembra essere del tutto coerente con l’impianto normativo delineato dal legislatore del TUE. Quanto all’art. 6, § 2, del TUE, infatti, non può trascurarsi come esso non recepisca la CEDU nell’ordinamento dell’Unione, ma prefiguri, sia pur in termini perentori e non meramente programmatici (13), l’adesione dell’UE alla CEDU. Quanto, poi, all’art. 6, § 3, del TUE, esso mira non già a riconnettere alle norme della CEDU effetti normativi nell’ordinamento dell’Unione, quanto a ricomprendere le previsioni convenzionali tra quei sostegni di carattere normativo e giurisprudenziale in grado di contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi fondamentali non scritti operanti nell’ordinamento europeo (14). Come più volte evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, i principi fondamentali dell’Unione godono di uno status autonomo: rispetto ad essi le previsioni della CEDU costituiscono elementi utili a ricostruirne il contenuto (15), che ben può essere, in misura più o meno marcata, diverso da quello delle stesse norme della CEDU (16), anche in funzione dell’influenza dell’ulteriore fonte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (17). Anche la Corte costituzionale, con la recente pronuncia n. 80 del 2011, ha sostanzialmente respinto una tale impostazione teorica: a fronte di argomenti volti ad affermare la riconducibilità dei diritti garantiti dalla CEDU nell’ordinamento comunitario per la via dell’illustrato art. 6, § 3, del TUE e della c.d. «trattatizzazione» della Carta dei diritti (18) – ed a prescindere, dunque, dalla formale adesione alla CEDU ad opera dell’Unione – i giudici costituzionali hanno evidenziato la diversità dei principi generali dell’ordinamento europeo rispetto alle previsioni della CEDU, affermando il ruolo strumentale delle seconde rispetto ai primi, ed hanno statuito l’inapplicabilità dell’art. 11 Cost. rispetto alla CEDU, posto che la Convenzione ha dato vita ad una realtà giuridica, funzionale e istituzionale distinta dall’Unione europea e non importante alcuna limitazione di sovranità per il legislatore italiano nel senso fatto proprio dal menzionato art. 11, continuando il rapporto tra CEDU e singoli ordinamenti nazionali a trovare la propria disciplina in ciascun sistema normativo statale non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie (19). Al di là delle perplessità che suscitano talune affermazioni della sentenza in questione – perplessità che hanno portato taluni autori a ritenere la pronuncia in discorso quale un passaggio intermedio di un’evoluzione giurisprudenziale in tema di CEDU che potrebbe ricalcare quella cui si è assistito in relazione all’ordinamento comunitario (20) – merita rilevare come la stessa Corte costituzionale abbia evidenziato l’autonomia dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione rispetto alle previsioni della CEDU, svolgendo le seconde un ruolo strumentale rispetto ai primi ed essendo una tale autonomia funzionale all’affermazione del carattere di completezza dello stesso ordinamento europeo. Se è ben vero che le previsioni della CEDU risultano autonome rispetto ai principi generali dell’ordinamento dell’Unione, non possono trascurarsi, d’altra parte, le connessioni esistenti tra la sfera dei diritti fondamentali tutelata dalla CEDU e quella garantita dall’ordinamento dell’Unione europea. Un primo collegamento è, appunto, quello di cui al più volte citato art. 6, § 3, del TUE: sebbene, come detto, non possa certamente individuarsi una relazione identitaria tra i principi dell’Unione europea e quelli della CEDU, la previsione citata esplicita comunque un collegamento tra i due ambiti convenzionali che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha affermato da molto tempo (21), assistendosi, peraltro, ad una crescente attenzione rivolta dai giudici dell’Unione europea all’evoluzione interpretativa della Corte europea dei diritti dell’uomo, finalizzata a cogliere gli orientamenti in punto di tutela dei diritti fondamentali elaborati dai giudici di Strasburgo (22). Ancor più rilevante, poi, è il collegamento tra le norme della CEDU e l’ordinamento dell’Unione che si rintraccia nelle previsioni della Carta dei diritti. Proprio in virtù del rilevante ruolo ricoperto già da molto tempo dalla CEDU nell’elaborazione giurisprudenziale comunitaria, l’esigenza di prevedere forme di coordinamento tra la Carta dei diritti e la CEDU fu avvertita sin dalle prime fasi dei lavori relativi alla Carta dei diritti. La scelta è stata quella di procedere ad una sostanziale «incorporazione» nella Carta dei diritti delle prerogative garantite dalla CEDU: in questo senso si era orientata già la commissione Simitis, che nel febbraio del 1999 aveva predisposto un primo rapporto sulla Carta dei diritti e nella medesima direzione deponevano anche gli indirizzi provenienti all’epoca dall’Assemblea del Consiglio d’Europa (23). Quanto ai rapporti tra le sfere dei diritti fondamentali garantite dai due strumenti, essi sono stati ispirati al principio del massimo standard di tutela, prevedendosi – si veda l’art. 52, § 3, della Carta dei diritti – che le norme della CEDU non sono di ostacolo ad una più ampia tutela dei medesimi diritti eventualmente prevista dalla Carta dei diritti e, dall’altro lato, che quest’ultima non intende sostituirsi alle forme di protezione dei diritti fondamentali previsti a livello nazionale ed internazionale e, in special modo, alle garanzie offerte dalla CEDU: l’art. 53 della Carta dei diritti è proprio rivolto a stabilire che il livello di protezione offerto dalla Carta non potrà in alcun caso essere inferiore a quello garantito dalla CEDU, non potendo il livello di limitazioni previsto nella Carta scendere al di sotto del livello previsto dalla CEDU. Un ulteriore e – almeno sotto il profilo applicativo – più rilevante collegamento tra CEDU e Carta dei diritti si può ravvisare nell’unitarietà del circuito interpretativo cui, a seguito del Trattato di Lisbona, si assiste in materia di diritti fondamentali. Al di là della rilevanza in punto di collocazione della CEDU nella gerarchia delle fonti interne che può riconoscersi alla – prefigurata e, allo stato, non ancora attuale – adesione dell’Unione alla CEDU, il vero portato del Trattato di Lisbona in relazione ai diritti fondamentali risiede nel conferimento di valore giuridico vincolante alla Carta dei diritti e, per tale via, nell’instaurazione di un effettivo sistema di tutela multilivello degli stessi diritti. Tenuto conto del principio del massimo standard di tutela che, come detto, ispira i rapporti tra CEDU e Carta dei diritti, non sembra illogico ipotizzare che l’interrelazione tra i diversi livelli di questo articolato sistema di tutela – livelli riferiti non solo all’ordinamento europeo ed allo strumento pattizio della CEDU, ma anche al livello costituzionale interno – possa svilupparsi secondo le direttrici di quell’interpretazione conforme, intesa quale contaminazione dei contenuti delle diverse disposizioni in tema di diritti fondamentali (24), cui è approdata la giurisprudenza costituzionale tedesca (25) e che, come detto, da tempo ispira la giurisprudenza della Corte di giustizia in punto di rapporti tra ordinamento dell’Unione europea e CEDU. Non può trascurarsi, infatti, che la Carta dei diritti, oltre a situarsi quale strumento giuridico pienamente vincolante al pari dei Trattati, richiama espressamente non solo i diritti garantiti dalla CEDU, ma anche le tradizioni costituzionali comuni ai diversi Stati membri e le legislazioni e prassi nazionali, instaurando un canale interpretativo sostanzialmente unitario, in cui la rigida separazione tra le tutele previste dai diversi strumenti tende a porsi in secondo piano, specie se l’interprete ispira la propria attività a quel principio di standard massimo di tutela espressamente sancito dalla Carta dei diritti (26). In questo contesto, evidentemente, la questione di costituzionalità rivestirebbe un ruolo di extrema ratio, da utilizzarsi nei soli casi in cui la predetta contaminazione sul piano interpretativo sollevi concreti dubbi di costituzionalità. Sotto altro profilo, è ben vero che l’incisività e la pervasività delle tutele apprestate dalla Carta dei diritti, intesa quale sistema normativo richiamante gli altri strumenti di tutela, possano incontrare dei limiti nel principio di attribuzione che fonda l’azione comunitaria; principio cui si opera più volte riferimento nel dettato della Carta dei diritti (27) e cui rinvia, sia pur a proposito dell’ambito applicativo dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione, anche la citata pronuncia costituzionale n. 80 del 2011 (28). Tuttavia, non può trascurarsi non solo che il Trattato di Lisbona ha proceduto ad un indubbio ampliamento delle competenze delle istituzioni dell’Unione europea, ma anche come diversi tra i diritti tutelati dalla Carta dei diritti trovino il proprio fondamento in quell’essenziale principio di non discriminazione – come specificato dalle previsioni in tema di libertà fondamentali – cui la Corte di giustizia ha più volte riconosciuto un’efficacia speciale e trascendente le materie di specifica competenza, imponendosi la sua osservanza da parte degli Stati membri anche quando questi agiscano nel quadro delle proprie competenze esclusive (29). Né, per idiritti aventi un fondamento diverso dal principio di non discriminazione, può escludersi che la «trattatizzazione» della Carta dei diritti non preluda ad un accresciuto interesse per la tutela dei diritti fondamentali ad opera della Corte di giustizia ed alla possibile estensione del predetto orientamento anche al di là del principio di non discriminazione e dei diritti ad esso riconducibili. 3. – Diritti fondamentali e materia tributaria Ciò detto in relazione alla tutela dei diritti fondamentali all’indomani del Trattato di Lisbona, merita ora soffermare l’attenzione sul loro contenuto e sulle possibili interrelazioni esistenti tra tali diritti e la materia tributaria. Quanto al primo profilo, lo spirito ispiratore della maggior parte delle previsioni della Carta dei diritti è fortemente ricognitivo e tutt’altro che rivoluzionario (30): come risulta anche dal Preambolo della Carta stessa, la Carta dei diritti riafferma i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sotto questo profilo, la Carta dei diritti non introduce ex novo una tutela europea dei diritti fondamentali, ma contribuisce – e in modo assai significativo, specie all’indomani del Trattato di Lisbona e dell’assunzione di valore giuridicamente vincolante – al consolidamento di una realtà giuridica già radicata nell’ordinamento dell’Unione europea, specie per merito della Corte di giustizia che, superando l’inerzia della normazione scritta, ha affermato, sin dai primi anni Settanta, che i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto (comunitario prima e, poi,) dell’Unione europea, essendo la loro tutela rimessa alla stessa Corte nel quadro degli obiettivi e della struttura dell’Unione, tenendo conto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (31). L’ampiezza del «catalogo» dei diritti fondamentali contenuto nella Carta dei diritti non consente, in questa sede, un’analisi specifica dei contenuti di ciascun diritto. Sotto un profilo generale, tuttavia, non possiamo non rilevare come l’impostazione di fondo della Carta dei diritti e, in particolare, la rilevanza assegnata in tale sede ai diritti di natura sociale – che ricevono espresso riconoscimento e tutela nei capi III e IV della Carta dei diritti dedicati, rispettivamente, all’uguaglianza ed alla solidarietà – concorra, unitamente ad altri elementi di innovazione del Trattato di Lisbona in punto di individuazione degli obiettivi della costruzione europea di cui si dirà nel prosieguo, a connotare in senso più spiccatamente sociale – o, quantomeno, non più solo mercatistico – la direzione delle politiche sviluppate dalle istituzioni dell’Unione europea. Nella Carta dei diritti, infatti, i diritti sociali vengono posti sullo stesso piano «costituzionale» rispetto a quelli civili e politici, sebbene la loro effettiva parità di rango potrà essere verificata solo nell’analisi degli indirizzi intrapresi dalle istituzioni nel loro concreto operare, dovendosi aver riguardo al punto di equilibrio tra valori economico-concorrenziali e valori sociali che le istituzioni dell’Unione saranno in grado di individuare di volta in volta in ciascuno degli ambiti ove si svolgeranno le loro azioni (32). Venendo ora ad alcune interrelazioni dei diritti fondamentali con la materia tributaria (33), ci sembra opportuno prendere le mosse da quegli ambiti – quelli del c.d. «giusto processo» e del diritto di proprietà – in relazione ai quali l’esperienza della CEDU ha sinora mostrato le espressioni più significative, tratteggiando, in un momento successivo, taluni profili di connessione desumibili dalla più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, tenendo conto, evidentemente, del contributo che in questo contesto fornisce la struttura della Carta dei diritti. Quanto alle garanzie del «giusto processo», esse sono previste nell’ambito CEDU dall’art. 6, che rappresenta all’interno della Convenzione il principale riferimento per l’individuazione di un adeguato standard di protezione della persona in rapporto all’esercizio della giurisdizione, apprestando tutela sia – e in modo preminente – sul versante del «diritto al processo» in base al § 1, sia con riferimento ai «diritti nel processo» in base al successivo § 3. È ben noto, al riguardo, l’orientamento negativo assunto dalla Corte di Strasburgo in merito all’applicabilità delle garanzie di cui all’art. 6, § 1, della CEDU al processo tributario: il riferimento è alla sentenza Ferrazzini (34), in cui i giudici di Strasburgo, facendo leva sul dato letterale che limita l’applicazione del citato art. 6 alle controversie di carattere civile e alle accuse penali e pur riconoscendo che un procedimento tributario ha indubbiamente un oggetto patrimoniale, hanno ribadito che possono esistere delle obbligazioni «patrimoniali» nei confronti dello Stato e dei suoi organi che, ai fini dell’art. 6, § 1, devono essere considerate come rientranti esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico e di conseguenza non sono compresi nella nozione di «diritti ed obbligazioni di carattere civile». In questo senso, ha specificato la Corte, la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività. Non è questa la sede per esporre ed analizzare le numerose riflessioni critiche che si sono susseguite sul caso Ferrazzini e, più in generale, sull’applicazione dei principi del fair trial alle controversie tributarie (35). Resta fermo, comunque, che anche dopo il caso Ferrazzini la Corte di Strasburgo ha ribadito il proprio orientamento sull’inapplicabilità dell’art. 6 della CEDU al contenzioso tributario, nonostante l’espresso riconoscimento che le pretese fatte valere nell’ambito tributario soddisfano uno dei criteri per la qualificazione di una controversia come civile, vale a dire il loro carattere patrimoniale (36). Ebbene, di una tutela riferita all’esercizio della giurisdizione l’individuo può ora valersi anche sulla base dell’art. 47 della Carta dei diritti, che, a differenza della disposizione della CEDU, non soffre di limitazioni rispetto alla natura delle controversie rispetto alle quali può trovare applicazione (37). Tenuto conto dei persistenti dubbi in ordine alla conformità del processo tributario ai canoni del fair trial (38), non sembra illogico ipotizzare che tali istanze possano ora trovare una più ampia ed intensa tutela nella previsione della Carta dei diritti, sia pur limitatamente alle ipotesi – peraltro in costante ascesa – in cui l’atto impositivo oggetto di contestazione o, comunque, la pretesa fatta valere dal contribuente ricada nel cono d’ombra proiettato dal diritto dell’Unione europea (39). Quanto al diritto di proprietà ed alla sottesa dialettica tra interessi individuali ed esigenze generali riferite all’imposizione prefigurata dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU, la Corte di Strasburgo ha da sempre riconosciuto agli Stati contraenti un’ampia latitudine di apprezzamento in merito alla selezione di obiettivi di politica economica e sociale compressivi dei diritti individuali di proprietà, annettendo rilievo all’esistenza di un giusto equilibrio tra le contrapposte esigenze; giusto equilibrio che, proprio a motivo della discrezionalità legislativa in ordine alla selezione dei fini da perseguire, tende a porsi sul piano della necessità, intesa quale selezione di un mezzo non eccessivo per il raggiungimento del fine, secondo la tradizionale regola del c.d. mildestes Mittel elaborata dalla giurisprudenza costituzionale tedesca (40). I principi in discorso ben possono influenzare l’attività del legislatore tributario nazionale: al riguardo assumono rilievo, in particolare, le aree dell’accertamento e della riscossione tributaria in cui, anche a seguito delle recenti innovazioni legislative riferite ai cc.dd. «accertamenti esecutivi», è dato identificare diverse ipotesi in cui il predetto principio di «giusto equilibrio» tra esigenze collettive e salvaguardia degli interessi individuali non sembra correttamente osservato (41). Non sembra agevole, allo stato, comprendere come in questo quadro si collochi la previsione recata dall’art. 17 della Carta dei diritti: se da un lato, infatti, le norme in questione pongono maggiormente l’accento sul profilo individualistico della proprietà, ravvisandosi l’unica restrizione relativa alla regolamentazione dell’uso dei beni (e non alla loro privativa) nel generico richiamo all’interesse generale contenuto nel terzo periodo dell’art. 17, § 1 (42), occorre evidenziare, dall’altro lato, che la stessa Carta dei diritti enuncia, come detto, una molteplicità di valori sociali che ben possono integrare la predetta nozione di interesse generale e, per tale via, consentire tanto alle istituzioni dell’Unione quanto alle autorità nazionali di ponderare i diritti individuali con i valori sociali legati all’eguaglianza sostanziale, alla solidarietà ed al rispetto della persona umana, ferma restando, anche in tal caso, l’osservanza di quel «giusto equilibrio» affermato in ambito CEDU e più volte richiamato anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (43). Come si dirà amplius nel prosieguo, il Trattato di Lisbona – specie, ma non solo, in virtù del suo richiamo alla realizzazione in ambito europeo di un’economia sociale di mercato – legittima una maggiore attenzione ai profili legati ai diritti sociali della persona; attenzione che, come detto, trova sostegno anche nell’impostazione della Carta dei diritti e – aspetto questo più rilevante – anche in importanti iniziative delineate dalle istituzioni dell’UE nell’ultimo periodo (44). Resta fermo, comunque, che solo l’osservazione dello sviluppo delle azioni delle stesse istituzioni nel prossimo futuro – specie nell’attuale contesto di crisi economico-finanziaria – potrà legittimare un’effettiva attenzione anche nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione ai valori sociali e, per tale via, il superamento della logica economico-mercatistica che per lungo tempo ha ispirato le dinamiche dell’ordinamento comunitario. Ciò detto quanto ai diritti fondamentali che hanno da sempre mostrato un’interrelazione con la materia tributaria, merita ora soffermarsi, come accennato, su talune ipotesi connotate in senso più particolare. A tale riguardo, rilievo assume la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa al regime tributario previsto dallo Stato francese per l’associazione avente carattere religioso dei Testimoni di Geova, in cui si discuteva della legittimità della normativa fiscale francese in tema di tassazione delle donazioni volontarie disposte in favore di enti e associazioni di natura religiosa (45). A seguito di una verifica fiscale svolta nel 1997 e riferita al periodo 1993-1996, venne notificato all’associazione un avviso di accertamento per un importo complessivamente pari, a titolo di maggiori imposte sanzioni ed interessi, ad oltre quaranta milioni di euro, non potendo l’associazione beneficiare del regime speciale di esenzione per i lasciti a titolo gratuito effettuati a favore di enti religiosi non avendo l’associazione ottenuto l’autorizzazione ministeriale necessaria a tal fine (46). Posto che gli argomenti dell’associazione non avevano ricevuto accoglimento a livello interno, l’associazione si era rivolta ai giudici di Strasburgo, assumendo la violazione dell’art. 9 della CEDU, che tutela, tra l’altro, la libertà di religione (47) a motivo delle conseguenze che dalla soddisfazione del debito tributario sarebbero potute derivare in relazione ad alcuni luoghi di culto – sub specie di necessaria disposizione della proprietà di tali luoghi al fine raccogliere le risorse economiche necessarie per l’adempimento dell’obbligazione tributaria (48) – violazione che, invece, veniva negata dalle autorità francesi sulla scorta dell’estraneità della tassazione delle offerte e delle liberalità rispetto all’esercizio del culto. Dopo aver ricordato il ruolo fondamentale della libertà di religione nel contesto della libertà di espressione dell’individuo, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è curata di verificare se la condotta delle autorità francesi potesse qualificarsi come un’ingerenza sul libero esercizio del diritto alla libertà di religione. Nonostante l’applicazione di un determinato regime fiscale non rappresenti, di norma, un’ingerenza in grado di comprimere una tale libertà, né, tantomeno, quest’ultima possa essere invocata al fine di ottenere benefici fiscali aventi carattere agevolativo (49), la stessa Corte, nel caso di specie, è giunta a ritenere la condotta delle autorità francesi quale avente un effetto pregiudizievole sulla libertà garantita dall’art. 9 della CEDU, facendo leva da un lato sul ruolo largamente prevalente delle donazioni e delle altre liberalità rispetto al complesso delle fonti di finanziamento dell’associazione e, dall’altro lato, sull’elevato ammontare complessivo del debito gravante in capo all’associazione, ritenuto idoneo a pregiudicare l’esistenza dell’associazione e, in particolare, la libera disponibilità dei luoghi di esercizio del culto. In ogni caso, al di là di questa posizione – comunque rilevante e costituente uno dei rari momenti di interrelazione nella giurisprudenza della Corte tra libertà di religione e materia tributaria – ciò che maggiormente interessa evidenziare attiene alla successiva verifica condotta dai giudici di Strasburgo in ordine alla legittimità della restrizione, in base al disposto dell’art. 9, § 2, della CEDU. Ebbene, lungi dall’entrare nel merito della valutazione relativa alla legittimità degli obiettivi perseguiti dalle autorità francesi rispetto alla tutela della libertà di religione dell’individuo, i giudici di Strasburgo hanno concentrato l’attenzione sulla rispondenza della normativa francese al requisito fissato dal citato § 2 sulla previsione per legge delle stesse restrizioni alla libertà in questione. A tale riguardo, la Corte – collocandosi nel solco di un indirizzo giurisprudenziale emerso in tempi relativamente recenti ma in via di progressivo consolidamento (50) – ha evidenziato come il quadro normativo rilevante nella specie, considerato alla luce delle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza al riguardo, non avesse consentito all’associazione di poter ragionevolmente prevedere il regime tributario applicabile alle donazioni ed alle liberalità ricevute. La rilevanza di un tale indirizzo – già evidente ad un autonomo inquadramento nel contesto della CEDU – ci sembra possa accrescersi alla luce di una considerazione combinata con le più recenti evoluzioni anche nel contesto dell’ordinamento dell’Unione europea. Più in dettaglio, non solo non può trascurarsi che l’art. 10 della Carta dei diritti riconosce una tutela analoga a quella della CEDU in tema di libertà di religione, anche con riferimento alle limitazioni che le autorità statali possono prevedere (51), ma occorre altresì tenere presente che la stessa Corte di giustizia in pronunce recenti, ed estranee allo specifico contesto della libertà di religione, ha valorizzato il profilo della c.d. foreseeability delle previsioni normative, rilevando come la sua mancanza è idonea a condurre ad un riscontro negativo di proporzionalità – avendo riguardo, più precisamente, al requisito di necessità – delle misure nazionali limitative di prerogative riconosciute dall’ordinamento dell’Unione europea agli individui (52). Ci sembra che un tale indirizzo – che esce rafforzato dalla congiunta considerazione della CEDU e della Carta dei diritti e, per tale via, si impone in modo più intenso al legislatore nazionale con riferimento non solo alla sua collocazione nella gerarchia delle fonti, ma anche, e soprattutto, ai suoi contenuti – debba essere tenuto presente dal legislatore nazionale in sede di predisposizione della normativa tributaria e, in particolare, nel contesto della libertà di religione cui l’illustrata pronuncia della Corte di Strasburgo opera riferimento (53). Un ulteriore spunto di interesse in merito alla interrelazione tra i diritti fondamentali tutelati dalla CEDU e dalla Carta di Nizza e la materia tributaria proviene dal c.d. «diritto al silenzio», in base al quale l’individuo non è tenuto ad autoaccusarsi. Il principio del nemo tenetur se detegere trova tutela tanto nell’ambito della CEDU, quanto nel contesto comunitario ove è stato ritenuto un principio generale dell’ordinamento dell’Unione europea (54). Ebbene, oltre ai dubbi, autorevolmente evidenziati, in merito al possibile contrasto tra il predetto principio e la significatività dell’eventuale rifiuto di collaborare opposto dal contribuente in sede di verifica (55), ci sembra che del principio in discorso debba tenersi conto anche nell’interpretazione di una recente previsione normativa in tema di rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria. Il riferimento è, in particolare, alla previsione recata dall’art. 11, 1° comma, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, laddove stabilisce che chiunque, a seguito delle richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui agli artt. 32 e 33 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, e agli artt. 51 e 52 del d.p.r. 29 settembre 1972, n. 633, esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero è punito ai sensi dell’art. 76 del d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445. Si tratta, in sostanza, di una norma che punisce a titolo di falso materiale o ideologico il contribuente che offra una collaborazione incompleta o mendace rispetto alle richieste avanzate dall’Amministrazione finanziaria. Come evidenziato dalla relazione di accompagnamento, la norma mira a reprimere i moltissimi casi in cui le informazioni [...] fornite dal contribuente controllato, o da soggetti ad esso collegati per convergenza di interessi economici, [...] sono caratterizzate da mendacio, come avviene, ad esempio, in occasione delle risposte agli inviti a fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento o a esibire atti e documenti o, ancora alle risposte ai questionari inviati ai contribuenti ai medesimi fini, così come alle dichiarazioni rese dai contribuenti ai verificatori e riportate nei processi verbali di constatazione (56). A fronte di tale versione originaria della previsione, in sede di conversione del d.l. n. 201 il legislatore ha aggiunto un secondo periodo al medesimo 1° comma disponendo che relativamente ai dati e alle notizie non rispondenti al vero la riferita norma di cui al primo periodo si applica solo se a seguito delle richieste di cui al medesimo periodo si configurano le fattispecie di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Ebbene, non v’è dubbio che la precisazione della condotta punita operata in sede di conversione dell’art. 11 sia riconducibile al rilevato contrasto esistente tra la versione originaria della norma ed il principio del nemo tenetur se detegere (57): sulla scorta della versione originaria della disposizione, infatti, il contribuente sarebbe stato punibile anche nell’ipotesi di una risposta mendace alla richiesta dell’Amministrazione finanziaria rivolta ad evitare un’incriminazione per un delitto già commesso. Ecco, allora, che se da un lato appare meritorio l’intervento legislativo operato in sede di conversione e volto a tenere nel dovuto conto il c.d. «diritto al silenzio» dell’individuo, occorre comunque rilevare, dall’altro lato, che dall’integrazione recata dal secondo periodo del 1° comma in commento è originato un notevole depotenziamento della portata applicativa della sanzione. Avendo riguardo, ad esempio, ai delitti riferiti all’infedeltà della dichiarazione di cui agli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 – delitti cui sono riconducibili la gran parte delle condotte penalmente rilevanti dei contribuenti – occorre considerare che tali reati si considerano commessi al momento della presentazione della dichiarazione stessa – tenendo conto dell’ulteriore termine di novanta giorni concesso per l’invio della dichiarazione c.d. «tardiva» (58) – e, dunque, in un momento di norma antecedente a quello in cui il contribuente riceve questionari o richieste dall’Amministrazione finanziaria o, comunque, vengono effettuati accessi, ispezioni o verifiche nei suoi confronti. Con la conseguenza che in tali ipotesi – tra le più frequenti nella pratica, ripetiamo – non sembra agevole pervenire all’applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 11 in questione, posto che ben difficilmente il reato tributario potrà ritenersi commesso – configurarsi, nella formulazione letterale dell’art. 11 – in un momento successivo alla richiesta effettuata dall’Amministrazione finanziaria. Non sembra dubbio, allora, che l’integrazione normativa operata in sede di conversione – che ha correttamente delimitato la fattispecie delittuosa in considerazione del principio di nemo tenetur se detegere – ha anche reso meno incisiva la portata della disposizione e ciò, vale rilevare, proprio con riferimento a quei casi – risposte mendaci agli inviti a fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento o a esibire atti e documenti, risposte mendaci ai questionari inviati ai contribuenti nonché dichiarazioni non veritiere rese dai contribuenti ai verificatori – che la relazione di accompagnamento alla norma originaria aveva individuato – suscitando, peraltro, non poche perplessità – come più frequenti e meritevoli di un’adeguata risposta sanzionatoria. 4. – La conferma del principio dell’unanimità in materia fiscale Nonostante l’allargamento operato dall’Atto Unico europeo del principio maggioritario ad un’ampia serie di materie, la fiscalità è sempre rimasta condizionata all’adozione del principio dell’unanimità. L’art. 95, § 1, del Trattato CE (d’ora in poi, TCE), che prevedeva il procedimento deliberativo a maggioranza qualificata, veniva infatti espressamente dichiarato, nel medesimo articolo, come non applicabile alla materia fiscale. Le istanze provenienti da parte della dottrina tributaristica (59) in ordine alla sostituzione del principio del voto all’unanimità con quello a maggioranza qualificata, erano state recepite dalla Commissione europea (60), che ne aveva proposto l’introduzione in quei casi in cui le disposizioni fiscali fossero finalizzate ad aggiornare, semplificare o assicurare l’applicazione uniforme dell’iva, delle accise e dell’imposta sul capitale, a prevenire la frode, l’evasione e l’elusione nell’imposizione diretta ed indiretta, a coordinare le disposizioni per eliminare restrizioni, discriminazioni e doppia imposizione, nonché a conseguire gli obiettivi del Trattato in materia ambientale. Alle proposte di adozione del principio di maggioranza qualificata, si accompagnava, inoltre, quella di un ampliamento dei poteri del Parlamento europeo nel processo legislativo, oppure del conferimento al Consiglio di una maggiore rappresentatività democratica (61). Il progetto di Costituzione dell’Unione europea approvato dalla Convenzione europea il 10 luglio 2003 aveva fatto balenare la possibilità di un cambiamento sul punto. Pur non estendendosi alla materia tributaria il nuovo e generale principio del voto a maggioranza e del procedimento di co-decisione tra Consiglio e Parlamento europeo per l’esercizio della potestà normativa, veniva infatti previsto il potere di adottare a maggioranza qualificata, una volta verificatane la necessità, leggi o leggi-quadro europee che avessero ad oggetto la cooperazione amministrativa o la lotta contro la frode fiscale e l’elusione fiscale illecita nel settore dell’imposizione indiretta e dell’imposta sul reddito delle società (62). Queste disposizioni non sono state tuttavia recepite né nel testo definitivo della Costituzione, che in materia di armonizzazione e ravvicinamento delle imposte dirette ed indirette (nonché in materia di fiscalità ambientale), riproponeva la regola dell’unanimità, senza eccezione alcuna, né nel testo del Trattato di Lisbona. A ben vedere, in un’Unione a ventisette Stati, la persistenza del meccanismo dell’unanimità, almeno nella misura in cui abbia ad oggetto fattispecie di rilevanza meramente intracomunitaria, appare sempre più difficilmente argomentabile. Il problema risiede, tuttavia, nella pluralità dei modi, e nel loro diverso grado di pervasività, in cui un determinato obiettivo avente tale rilevanza può di regola essere perseguito. Ciò pare chiaramente dimostrato dalle numerose ipotesi di regolamentazione che si sono succedute nel dibattito sulla direttiva sul risparmio, tese tra gli interessi finanziari degli Stati membri da un lato e l’esistenza del segreto bancario in alcuni di essi dall’altro lato. Ebbene, la previsione di una deroga, come proposto, nei casi di provvedimenti finalizzati al contrasto alla frode o all’elusione, avrebbe certamente legittimato in una simile ipotesi l’intervento a maggioranza, tuttavia con gli effetti politici che è agevole immaginare. Per provare ad avanzare nel processo di integrazione nonostante il principio dell’unanimità restano, dunque, solo due strade percorribili. Da un lato, il ricorso al meccanismo della c.d. «cooperazione rafforzata» nel caso di Stati membri like-minded. Si tratta tuttavia di un tema bifronte, perché se è vero che un certo obiettivo europeo, finalizzato allo sviluppo del mercato interno, può essere perseguito tra una ristretta cerchia di Stati, è anche vero che gli accordi raggiunti in tale sede non devono mai risolversi in un vantaggio per gli Stati diversi da quelli in seno ai quali sia stato raggiunto l’accordo (63). Dall’altro lato, il ricorso a fonti di carattere «non legislativo» (cosiddetta soft law), sviluppatosi soprattutto, per quanto riguarda la materia fiscale, a seguito del nuovo approccio in tema di armonizzazione e «coordinamento fiscale» avviatosi verso la fine degli anni ’90. All’obiettivo del coordinamento fiscale – sul cui contenuto torneremo oltre – si è infatti accompagnata un’innovazione sul piano delle forme dell’azione: le indicazioni contenute in raccomandazioni, guidelines, accordi multilaterali, note interpretative, comunicazioni e risoluzioni vengono infatti a svolgere un triplice ruolo di supervisione, stimolo ed indirizzo – dunque, di coordinamento – per la politica fiscale degli Stati membri, che deve inserirsi nell’articolato quadro di riferimento dell’azione comunitaria in materia tributaria che tali atti vanno a disegnare (64). Ne costituisce oggetto, tra l’altro, anche l’azione della Corte di giustizia, nell’ottica di proporre modelli comuni di riferimento in sostituzione di misure fiscali da essa giudicate incompatibili con il Trattato e così evitare risposte asimmetriche nei vari Stati membri, ma straordinariamente significativa è altresì la soft law analitica e puntuale elaborata dalla Commissione europea in materia di aiuti di Stato, servita alla commissione stessa per orientare le scelte di intervento degli Stati membri, nonché per promuovere e, in certa misura, anticipare il diritto in senso proprio (65). Tali atti, pur di regola non vincolanti, non sono peraltro privi di effetti (66). Le raccomandazioni, ad esempio, dirette agli Stati membri e contenenti l’invito (come tale non vincolante) a conformarsi ad un determinato comportamento, possono funzionare da un lato come parametro di precisazione, sul piano interpretativo (in particolare, in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE), di norme interne (che abbiano ad esempio inteso conformarsi alla raccomandazione stessa) e comunitarie (67), dall’altro lato come criterio di valutazione della legalità dei comportamenti adottati dagli Stati membri, segnatamente attraverso quel c.d. «effetto di liceità», che vale a rendere lecito il comportamento raccomandato anche quando si concreta nella violazione di preesistenti norme internazionali (68). A ciò deve aggiungersi l’obbligo «morale» che esse creano per gli Stati membri (69), quale stimolo ad agire in una certa direzione o ad astenersi da comportamenti contrastanti con l’interesse generale o con gli obiettivi dell’Unione. Le stesse risoluzioni del Consiglio, cui può ricondursi il codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, e le comunicazioni della commissione, sempre più frequenti in materia tributaria, vengono a svolgere una funzione di pressione sia tra Unione e Stati, sia tra gli stessi Stati membri; le guidelines, infine, adottate in materia di aiuti di Stato dalla commissione per informare gli Stati membri sulle modalità di controllo nei nuovi aiuti, sono addirittura intese a produrre effetti giuridici, al punto da ritenersi impugnabili dinanzi alla Corte di giustizia (70). Appare evidente che la finalità propria di tutti questi atti – almeno nei casi in cui essi non rappresentino, in ossequio ai principi di sussidiarietà e proporzionalità, un mero passaggio «politico» intermedio prima del ricorso all’extrema ratio della hard law (71) – è proprio quella di aggirare, per quanto possibile, la rigidità del principio dell’unanimità in materia fiscale, cui viene addebitato il blocco decisionale nell’ambito del Consiglio e l’impossibilità di perseguire la convergenza in termini più incisivi (72). Proprio per tale ragione, questa vasta congerie di strumenti più o meno atipici alimenta tuttavia quei noti profili problematici di legittimazione democratica e la diffidenza degli Stati membri più volte manifestatisi con riferimento all’operato della Corte di giustizia e sfociati, a nostro avviso, in una attenuazione della spinta riformista della Corte stessa, sempre più attenta alle giustificazioni degli Stati alle misure discriminatorie e restrittive adottate e incline semmai ad approfondire il profilo della proporzionalità, anche qui, tuttavia, senza mai imporre allo Stato il mildestes Mittel ed accontentandosi di una soluzione «ragionevole». 5. – Le competenze fiscali dell’Unione Il TCE ha da sempre difettato di una considerazione di ampio respiro dei temi legati al fenomeno tributario. Questa assenza non deve tuttavia sorprendere. Non solo, infatti, la Comunità economica europea nasce come unione doganale, risolvendosi così il fattore fiscale, in chiave strumentale (73), nel mancato assoggettamento dei prodotti, al momento del loro passaggio tra uno Stato e l’altro, a dazi di esportazione (o di importazione) o a qualsiasi prelievo di effetto equivalente, e nell’istituzione di una tariffa doganale comune nei confronti di Paesi terzi rispetto alla Comunità. Soprattutto – e più esattamente – ciò che emerge dalla trama del Trattato e ne segna l’originaria impostazione è la stretta connessione tra prelievo indiretto e scambi commerciali intra- ed extracomunitari: le disposizioni fiscali sono così destinate ad evitare gli effetti distorsivi causati dalle imposte alla libera circolazione delle merci, nel duplice senso di eliminazione delle barriere fiscali a tale libera circolazione e di divieto di qualsiasi utilizzo in funzione discriminatoria del tributo per favorire la produzione nazionale rispetto a quella proveniente da un altro Stato membro. Una funzione, pertanto, «riduttiva» dei sistemi di imposizione indiretta interni e dei loro differenziali: in altri termini, di tipo «negativo». Al perseguimento di tali obiettivi iniziali e al successivo graduale passaggio dall’unione doganale al mercato comune – relativo all’abolizione di ogni vincolo quantitativo e qualitativo non solo per i beni e servizi, ma anche per i fattori produttivi – ha dunque concorso l’azione in materia di imposizione indiretta, connotando una prima fase della fiscalità comunitaria che ha occupato un ampio arco temporale e che comunque, pur collocata ormai in secondo piano nel dibattito europeo, è ben lungi dall’essersi conclusa. Ancor più complesso è il terreno dell’imposizione diretta. Pur costituendo infatti l’assenza nel TCE di qualsiasi esplicito riferimento ad essa un problema ampiamente superato, la circostanza che la base giuridica sia stata rinvenuta nell’art. 3, lett. h), TCE (che prevedeva il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune) e nell’art. 94 TCE (ora art. 115 TFUE) (che tuttora prevede la competenza del Consiglio a deliberare all’unanimità sulle direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune) (74), ha fatto sì che il terreno sul quale sono nati e si sono sviluppati gli interventi in materia di imposizione diretta è quello della realizzazione del mercato comune, o meglio ancora, interno, a seguito delle modifiche intervenute con l’Atto Unico europeo (75). Gli interventi in tale materia sono stati tuttavia limitati non solo quantitativamente ma anche qualitativamente, non avendo mai coinvolto aspetti puramente nazionali data la forte resistenza degli Stati membri ad abdicare in materia di imposizione diretta a favore degli organi comunitari (76). Nonostante gli auspici che il Rapporto Neumark conteneva in ordine all’introduzione di un’imposta sulle società armonizzata e al ravvicinamento della struttura della tassazione del reddito delle persone fisiche, gli interventi di carattere puramente nazionale si sono infatti sistematicamente arenati sulla considerazione dell’inopportunità di annullare la leva fiscale a disposizione di ogni Stato, già fortemente compromessa dal sostanziale azzeramento dei vantaggi derivanti dalla selettività dell’imposizione indiretta e dall’impossibilità di un’azione sui cambi per effetto del passaggio alla moneta unica. In tale ottica, anche gli obiettivi «minimali» individuati agli inizi degli anni ’90 dal Comitato Ruding (77) – incaricato dalla Commissione europea presieduta da M.me Scrivener di individuare le principali distorsioni di natura fiscale al funzionamento del mercato interno e le misure specifiche per eliminarle –, consistenti nel raggiungimento di un livello minimo di uniformità nella determinazione della base imponibile e nella previsione di una forbice di aliquote d’imposta sugli utili societari (comprese le imposte locali), avevano finito per formare oggetto di ampie riserve da parte della stessa commissione e del Consiglio, poiché ritenuti inopportuni sotto numerosi profili. Quanto sopra – che è alla base dell’esistenza, allo stato attuale, di sensibili differenze nella determinazione della base imponibile del reddito delle persone fisiche e delle imprese, nei sistemi di tassazione di società ed azionisti e nelle aliquote societarie, che finiscono per riflettersi, sia pure unitamente ad altri non meno rilevanti fattori (78), sulle condizioni concorrenziali e le relative scelte localizzative delle imprese operanti all’interno dell’Unione – non ha subito modifiche per effetto del Trattato di Lisbona. Le competenze fiscali, infatti, non risultano modificate, neanche in parte. Anzi è stato abrogato l’art. 293 TCE che prevedeva l’avvio di negoziati tra Stati per la conclusione di accordi per l’eliminazione della doppia imposizione. Tale abrogazione consegue peraltro alla constatazione della sua sostanziale inutilità anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia che ha sistematicamente rinvenuto in essa una norma meramente «programmatica», sicché ci pare di poter condividere l’osservazione di chi non rinviene in tale abrogazione una forma di regressione (79). La materia delle imposte sui redditi resta dunque appannaggio dei singoli Stati, senza che sia stato introdotto alcun ulteriore potere di armonizzazione da parte dell’Unione europea al di fuori dei limiti sopra esaminati. Questa soluzione difficilmente può essere criticata. Da un lato, infatti, essa è coerente con quel richiamato percorso che ha condotto all’elaborazione del concetto di coordinamento fiscale. Si delinea infatti a decorrere dalla metà degli anni Novanta – forse definitivamente – un concetto di armonizzazione per l’imposizione diretta che non è (né mai lo è stata) unificazione, ma neanche semplice adeguamento ad un tipo comune: è solo, invece, approssimazione, convergenza elastica finalizzata ad eliminare le distorsioni più rilevanti. Da un lato il contenuto del concetto di armonizzazione utilizzato dal Trattato in materia di imposizione indiretta tende ad affievolirsi in direzione di quello – testualmente indicato dall’art. 94 TCE (ora 115 TFUE) – di ravvicinamento, dall’altro emerge e si consolida un concetto di coordinamento: nozioni – quelle di ravvicinamento e coordinamento – che costituiscono, rispetto a quella di armonizzazione, forme di integrazione maggiormente rispondenti ai principi di necessità e sussidiarietà dell’azione comunitaria già sanciti dagli artt. 3 e 5 TCE ed oggi confermati dall’art. 5 del TUE (80). Non si specificano dunque, per gli istituti puramente nazionali, né modelli di imposta, né basi imponibili comuni, né livelli impositivi uniformi: l’azione comunitaria si rivolge soltanto, con un grado di incisività maggiore nell’imposizione indiretta e minore in quella diretta (81), ad aspetti dell’imposizione che interessano flussi intracomunitari di ricchezza. Per il resto, si guarda più al coordinamento delle politiche fiscali, sia per evitare che le modalità di esercizio del potere tributario da parte di uno Stato membro si traducano in un pregiudizio per gli altri Stati membri, sia per far sì che le scelte in materia di politica fiscale si attuino in quel quadro di riferimento che gli atti adottati dagli organi comunitari, anche di cosiddetta soft law, vengono a delineare (82). Quanto accaduto a livello dei singoli Stati membri a seguito della crisi economica e finanziaria conferma l’inevitabilità di tale approccio ed induce per il momento ad accantonare la possibilità di prevedere forme avanzate di armonizzazione in materia di imposte sui redditi. L’analisi comparatistica delle massicce strategie fiscali adottate dagli Stati membri dopo la crisi consente infatti di evidenziare come la prospettiva fiscale abbia rivestito un ruolo fondamentale (83), al punto che appare veramente difficile pensare che agli Stati sia sottratta la leva fiscale in materia di imposizione diretta. Ciò nondimeno, tale analisi mostra – questo sì – una mancanza di coordinamento tra le misure adottate a livello nazionale, sicché ci pare che dal punto di vista europeo ciò dovrebbe costituire almeno uno stimolo per contribuire al potenziamento del coordinamento fiscale, finalizzato ad aumentare l’integrazione fiscale tra gli Stati nel rispetto delle sovranità fiscali nazionali. 6. – Il mancato inserimento nel Trattato di principi di carattere tributario, la tutela della concorrenza e il riferimento alla «economia sociale di mercato» Già nel corso dell’ampia discussione che aveva accompagnato la stesura della Costituzione europea si era assistito ad un rinnovato interesse per i grandi temi della fiscalità comunitaria, tra cui: a) se e quali principi di carattere tributario inserire nella Costituzione europea; b) se e quali tributi istituire a livello europeo e, più in generale, se e come rimodellare l’autonomia impositiva comunitaria. Per quanto attiene al primo tema, il dibattito non ha portato ad alcun risultato. Le pur autorevoli proposte (84) di fare un esplicito riferimento nel testo della Costituzione (rectius, nella Carta dei diritti da incorporare in essa) al principio del consenso (anche mediante l’ampliamento dei poteri del Parlamento nel processo legislativo), del riparto delle spese pubbliche secondo la capacità contributiva individuale nel rispetto dell’esistenza libera e dignitosa del contribuente e della famiglia, della solidarietà tra i consociati e della certezza del diritto, del divieto di tributi di carattere confiscatorio, della promozione dell’autonomia finanziaria degli enti sub-centrali e, infine, dell’azione dell’Amministrazione finanziaria secondo principi di imparzialità, eguaglianza e affidamento, sono infatti rimaste inascoltate. La Costituzione prima e il Trattato di Lisbona poi si pongono in una prospettiva di perfetta continuità con il TCE: il Trattato di Lisbona si limita come detto a riprodurne, senza variazioni, le disposizioni fiscali, e la fiscalità resta un fattore strumentale al perseguimento del mercato interno, informato alle libertà economiche e al principio di libera concorrenza. Viene dunque confermata l’idea di una fiscalità considerata essenzialmente in negativo, in cui il tributo, anziché perseguirne in positivo le finalità, non deve costituire un ostacolo al conseguimento degli obiettivi fissati nel Trattato, e nel quale è precluso ogni intervento finalizzato alla giustizia o razionalità dei sistemi tributari nazionali (85). In altri termini, viene ribadito come le regole fiscali europee rispondano alla logica dell’integrazione dei mercati secondo i principi della libera concorrenza e della neutralità, e non già a quella del perseguimento di quei valori di eguaglianza sostanziale che caratterizzano il fenomeno tributario nei sistemi nazionali (86). È sì vero che si è proceduto all’eliminazione, nell’articolo dedicato agli obiettivi del Trattato, del riferimento a un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno (art. 3, § 1, lett. g), TCE), sostituito dall’obiettivo di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale (art. 3 TUE), la quale certamente valorizza la «dimensione sociale europea». Questa eliminazione risulta tuttavia ampiamente compensata sia dal suo trasferimento all’interno del Protocollo sul mercato interno e sulla concorrenza (n. 27), che in quanto allegato al Trattato ne costituisce parte integrante, sia dalla circostanza che il sistema normativo attraverso cui si procede all’attuazione del principio di libertà di concorrenza è rimasto di fatto inalterato (cfr. artt. 101 e ss. del TFUE). Da un lato, infatti, si afferma nel Protocollo che considerando che il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata; dall’altro, che l’Unione adotta, se necessario, misure in base alle disposizioni dei trattati, ivi compreso l’art. 352 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, dall’altro ancora, che il presente protocollo è allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato sul funzionamento dell’Unione europea (87). Si riconosce, pertanto, che il principio di tutela della concorrenza rientra nell’art. 3 del Trattato, si evidenzia la possibilità di ricorrere alla «clausola di flessibilità» di cui all’art. 352 TFUE (già art. 308 TCE) per garantire che la concorrenza sia libera e non falsata e si lascia chiaramente intendere che il Protocollo, proprio in quanto allegato al Trattato, ne ha lo stesso rilievo giuridico ai sensi dell’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. A ciò si aggiunga, poi, l’orientamento manifestato dalla Corte di giustizia in merito alla persistente centralità degli obiettivi concorrenziali, sia pur nel contesto di un più ampio e complessivo apprezzamento rispetto a valori di diversa natura (88). Sotto questo profilo, ancorché sia stato paventato il rischio di una declassificazione della politica comunitaria di concorrenza rispetto alle altre e di un suo depotenziamento (89), pare potersi convenire con chi ritiene che la libertà di concorrenza conserva tutto il suo valore giuridico e mantiene intatta la sua collocazione nel quadro dei principi-obiettivi dell’ordinamento dell’Unione (90), mentre non condividiamo, per quanto diremo oltre, la radicalità dell’affermazione secondo cui essa sarebbe stata declassata da valore a strumento (91). Al tempo stesso, tuttavia, non può certamente essere ignorato il nuovo riferimento alla economia sociale di mercato, che dovrebbe essere inteso a valorizzare, come detto, la «dimensione sociale europea» dell’azione comunitaria, e dunque i diritti fondamentali, la solidarietà e gli aspetti egalitari (92). La Corte di giustizia, in effetti, pur facendo riferimento alla funzione sociale della proprietà, mostrava pur sempre di riferirsi all’interesse generale che sta alla base dei trattati, vale a dire l’instaurazione di un’economia di concorrenza, dove la proprietà assurge a diritto fondamentale, che può però essere limitato se il limite è giustificato dall’ordine economico che concorre a realizzare (93). La diversa espressione ora utilizzata dal Trattato di Lisbona non costituisce tuttavia di certo una «controriforma». Da un lato, infatti, la tutela dei diritti fondamentali costituisce da sempre il presupposto della legittimità democratica dell’Unione, dall’altro la giurisprudenza comunitaria, nell’applicare l’art. 16 della Carta dei diritti che sancisce la libertà di esercizio di un’attività economica e il diritto di operare in un mercato concorrenziale, ha riconosciuto nella dignità della persona e nei diritti fondamentali un limite certo di tale libertà, ritenendo che la tutela dei diritti fondamentali può prevalere su una libertà economica riconosciuta dal Trattato, previo un loro attento bilanciamento (94); dall’altro ancora, il principio di solidarietà ha formato oggetto di costante valorizzazione da parte della Corte di giustizia, in quanto alla base del sistema europeo (95). Allo sviluppo e al consolidamento del principio di solidarietà si ricollega altresì quanto accaduto in materia di libertà di circolazione delle persone, la quale possedeva originariamente una connotazione esclusivamente economica, costituendo essa nella fase iniziale uno tra i principali fattori di unificazione di una Comunità riservata ai soggetti economicamente attivi (96). Il legislatore europeo, attraverso una serie di atti derivati, ha infatti ampliato progressivamente il diritto di ingresso e soggiorno, riconoscendo il diritto di residenza in un altro Stato membro indipendentemente dall’esercizio della libera circolazione dei lavoratori o della libertà di stabilimento, sino a giungere alla consacrazione con il Trattato di Maastricht della libertà di circolazione mediante l’inserimento, nella nuova Parte II intitolata alla cittadinanza dell’Unione (97), dell’art. 18 TCE (ora art. 21 TFUE), che riconosce a ogni cittadino dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso (98). Le disposizioni sulla libertà di circolazione non investono dunque più i soli soggetti professionalmente attivi, conformemente alla c.d. «concezione mercantilistica del diritto di circolazione» (99), bensì si rivolgono al cittadino europeo, titolare del diritto fondamentale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli altri Stati membri (c.d. «diritto di incolato») (100), offrendo così un parametro normativo ulteriore per la verifica della legittimità delle eventuali restrizioni a tale diritto, con rilevanti effetti anche in materia tributaria, sol che si pensi alle exit taxes applicate a soggetti che si trasferiscono in un altro Stato membro per motivi meramente residenziali. Insomma, nell’esaminare il dilemma tra una politica europea di maggiore impronta sociale e la costante attenzione al piano del mercato e della produttività (101), emergono dalla trama comunitaria una serie di elementi che potrebbero apparire ambigui e tra loro contrastanti se non si giungesse alla conclusione, che ci pare di poter condividere, che non si tratta in realtà di coppie di antitesi in conflitto (mercato e diritti, liberalismo e solidarietà, liberismo e dirigismo) ma di concetti che si influenzano vicendevolmente e formano parte di un progetto complessivo (102). Come è stato scritto, i diritti sociali non vanno pensati in senso conflittuale rispetto al mercato, bensì come strumenti etero-correttivi della competizione diretti a conseguire risultati redistributivi che il mercato, da solo, non genera (103). Così come non pare dubitabile che l’attività di protezione sociale, lungi dal deprimere la crescita economica di un sistema, fornisce incentivi positivi alla produzione (104). Si tratta di una prospettiva – quella della complementarietà tra obiettivi sociali ed obiettivi economici – che in realtà sembra accompagnare la costruzione europea sin dai suoi primi passi, sol che si pensi alla sentenza Defrenne (105) in cui la Corte evidenziava, in relazione al principio di parità tra uomini e donne con riguardo alla retribuzione, che esso è un mezzo per conseguire due scopi fondamentali della Comunità stessa, l’uno economico e consistente nell’evitare distorsioni della concorrenza tra Stati, l’altro sociale e consistente nel garantire il costante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei popoli europei. Questa prospettiva è peraltro tornata di attualità proprio con la recente crisi economica e finanziaria, che ha rafforzato la tesi della necessità di contemperare mercato e sociale, non potendo l’economia di mercato prescindere da un sistema sociale adeguato. Nella lettera di incarico di Barroso a Monti del 20 ottobre 2009, si indica la priorità di verificare modi e forme per un mutuo rafforzamento tra il mercato e la dimensione sociale dell’economia, potendo solo una maggiore attenzione ai diritti sociali a livello europeo impedire la disaffezione verso l’integrazione economica ed evitare uno sfaldamento che minerebbe le radici stesse dell’Unione; ma altrettanto significativa è la comunicazione della commissione del 27 ottobre 2010 (106), la quale contiene proposte per realizzare un disegno preciso di una disciplina giuridica in materia di lavoro che attui in concreto un’economia sociale di mercato, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 9 TFUE (107). In effetti, una siffatta prospettiva ha trovato ampio spazio proprio nella strategia dell’occupazione, fondata sul coordinamento tra principi di solidarietà e concorrenza. A tale riguardo, l’idea che i diritti sociali abbiano finalmente visto riconoscere il loro ruolo quale non secondario rispetto alle libertà economiche, superando una visione dell’Unione europea teleologicamente orientata alla formazione del mercato comune fondato sulla concorrenza, si è dovuta confrontare, anteriormente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con una giurisprudenza che aveva ingenerato nella comunità scientifica il timore che i diritti sociali, nel raffronto con le libertà economiche, fossero sempre destinati a soccombere (108). La dottrina constata tuttavia come la Corte abbia già sottolineato il maggior valore adesso attribuito dall’ordinamento europeo ai diritti sociali, a favore della tesi per cui si stanno muovendo i primi passi verso un più maturo riconoscimento dei diritti sociali nell’Unione (109). Tale riconoscimento trova esplicazione non solo in un più attento vaglio delle istituzioni dell’Unione del rispetto dei diritti fondamentali in occasione di ciascuna iniziativa legislativa (110), ma, auspicabilmente, anche in una diversa rilevanza nella giurisprudenza della Corte del balancing test tra valori economici e scopi lato sensu sociali interno al giudizio di proporzionalità (111); momento, questo, che era sinora rimasto nell’ombra a motivo del carattere recessivo dei valori non economici all’interno della trama dei trattati comunitari (112). Naturalmente, questo avanzamento in materia giuslavorista può assumere una rilevanza anche tributaria. Si pensi, ad esempio, alla sentenza Roemer della Corte di giustizia (113), con la quale la Corte ha esteso ad un soggetto legato ad un altro del medesimo sesso da un’unione civile in Germania la più favorevole aliquota fiscale gravante sulla pensione complementare di vecchiaia prevista soltanto in favore di persone coniugate e non separate (114). Con specifico riferimento alla materia fiscale, ci sembra invece che il punto nodale stia nel verificare se, per effetto del riferimento all’economia sociale di mercato, si sia registrato un diverso approccio in ordine al controllo di misure statali che producano effetti tali da modificare le condizioni di concorrenza tra le imprese. In altri termini, se questo riferimento abbia in qualche modo giocato a favore di uno specifico contemperamento degli interessi in causa ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di aiuti di stato. La crisi economica e finanziaria mette invero a dura prova il sistema europeo delle regole a tutela della concorrenza, poiché gli Stati sono tentati sempre più di ricorrere all’intervento pubblico (115). Si tratta del ben noto problema delle finalità c.d. «promozionali» del diritto tributario, che non è solo finalizzato ad attuare il riparto della spesa pubblica su tutti quei consociati in qualche modo interessati alla vita della collettività di cui sono parte e che siano titolari di indici di capacità contributiva (116), ma anche di favorire il perseguimento, tramite lo strumento fiscale, di obiettivi ritenuti meritevoli. Questa finalità promozionale, comportando una minore imposta in capo a determinati soggetti, costituisce un’evidente deroga al criterio del riparto, determinando, a parità di spesa pubblica da finanziare, una maggiore imposta in capo ai restanti soggetti. Ecco dunque che, trovando detta funzione di riparto copertura nel principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., occorre che l’agevolazione trovi parimenti copertura in un altro principio costituzionale, giustificando un bilanciamento di valori. Un siffatto bilanciamento trova tuttavia difficoltà di recepimento sul piano europeo. Emblematica è la vicenda dei soggetti c.d. «non profit»: nessuno revoca in dubbio la meritevolezza della funzione da essi svolta, talvolta anche sostitutiva dell’intervento statale al punto di far considerare le agevolazioni alla stregua di tax expenditures alternative agli oneri che lo Stato dovrebbe altrimenti sostenere. Ciò nonostante, nella nota sentenza della Corte di giustizia del 10 gennaio 2006 nella causa C-222/04 Cassa di risparmio di Firenze (117), la Corte stessa ha chiaramente affermato che le finalità, pur meritevoli, non rilevano nel diritto europeo nella misura in cui la disciplina agevolativa determini un’alterazione della concorrenza. Se ciò accade, allora la normativa interna contrasta con il divieto di accordare aiuti di stato, intesi come vantaggi, anche di natura tributaria, a beneficio di determinate imprese o produzioni mediante risorse pubbliche che abbiano l’effetto di distorcere la concorrenza nel mercato unico. Ecco dunque che i pur rilevanti contrappesi costituzionali che giustificano la deroga al riparto finiscono per diventare irrilevanti al cospetto della tutela della concorrenza assicurata dalle norme del Trattato UE. Si tratta allora di vedere se quei medesimi valori ed interessi costituzionalmente riconosciuti negli ordinamenti nazionali, una volta «usciti dalla porta», possano poi in qualche modo «rientrare dalla finestra» rifluendo sul piano europeo ora sul terreno della valutazione della non selettività dell’aiuto (inquadrandosi il differenziato regime nella c.d. «natura o struttura del sistema fiscale»), ora sul terreno della meritevolezza degli interessi perseguiti tale da giustificare una deroga alla disciplina comunitaria: introducendo, dunque, un nuovo bilanciamento, questa volta tra tutela della concorrenza e quei medesimi valori promossi dagli ordinamenti nazionali e alla cui attuazione la disciplina fiscale è ordinata, nella misura in cui detti valori possano trovare un riconoscimento da parte del diritto europeo (118). In generale, che vi sia una maggiore sensibilità verso il problema è dimostrato dalle numerose comunicazioni emanate dalla commissione sin dalla fine del 2008 su sollecitazione dell’ECOFIN (119). Tuttavia, mentre per quanto riguarda il profilo della non selettività dell’aiuto, si osserva in effetti una maggiore disponibilità della commissione a considerare le misure adottate dagli Stati come misure escluse dal divieto, per quanto riguarda il profilo del bilanciamento, l’esistenza di specifiche deroghe nella disciplina degli aiuti conduce tuttora ad una risposta negativa alla domanda se quei valori ed interessi costituzionalmente rilevanti alla base del bilanciamento interno, una volta receduti rispetto alla tutela della concorrenza, possano essere successivamente recuperati. Si tratta, infatti, di questione, quella della rilevanza degli obiettivi perseguiti, già considerata (ed esaurita) a livello europeo mediante la previsione delle deroghe di cui all’art. 107, § 3, TFUE, luogo di conciliazione tra obiettivi di solidarietà e tutela della concorrenza, che al potere della commissione costituiscono un insuperabile limite (120). Ciò cui si assiste, al momento, è soltanto una maggiore apertura verso gli aiuti ad istituzioni finanziarie, in considerazione del rischio per l’economia dei singoli Stati membri che il loro default potrebbe provocare (121). 7. – Sistemi fiscali e concorrenza tra Stati membri È stato evidenziato in dottrina che la concorrenza non è più di per sé un obiettivo dell’Unione ma diventa uno strumento al servizio dei consumatori e in questo quadro aggiunge l’evasione tra gli strumenti di distorsione della concorrenza: con la conseguenza del divieto di norme fiscali che alterino gli scambi, come accade nel caso di un’imposta sulle società con aliquote eccessivamente basse (122). Si evidenzia dunque un secondo profilo: a quello relativo alla valutazione delle misure interne che abbiano l’effetto di falsare la concorrenza in nome di determinati valori, si aggiunge quello della concorrenza fiscale tra Stati membri. Ora, a partire dalla metà degli anni ’90 e sino ai giorni nostri l’intervento europeo in materia fiscale non è stato più rivolto al solo obiettivo di eliminare gli ostacoli di natura fiscale al raggiungimento del mercato interno, ma anche a quello di tutelare gli interessi finanziari dei singoli Stati membri. L’integrazione in materia di imposizione diretta non è stata pertanto più vista solo come elemento (negativo) di perdita di sovranità fiscale per gli Stati membri, ma anche, in un certo senso, come strumento (positivo) per preservarla. L’attenzione si è rivolta così alle politiche tributarie sleali e dannose, finalizzate ad attrarre investimenti produttivi e finanziari dei soggetti non residenti, che indebolendo le finanze degli Stati membri con pressione fiscale più elevata, ne condizionano la politica economica e sociale e, in definitiva, le scelte politiche sui livelli di welfare ritenuti più soddisfacenti. È pertanto venuta meno la logica dell’adeguamento spontaneo «verso il basso», del cosiddetto race to the bottom, della competizione tra Stati membri, alla quale si imputa una allocazione non efficiente delle risorse, la mancanza di equità interstatale e la concentrazione del prelievo verso forme reddituali caratterizzate da scarsa mobilità, in primis il lavoro (123). Ciò che ha sollevato, tuttavia, per i più scettici, il triplice rischio di dare vita nei rapporti tra Stati membri e loro cittadini ad un «cartello fiscale»; di diminuire, nei rapporti tra Stati UE e Stati extra-UE, l’attrattività dell’area euro nei confronti degli altri attori dell’economia mondiale (124); di favorire quegli Stati membri la cui maggiore estensione territoriale e del mercato interno già assicura un vantaggio competitivo (125). Si è attuato, in particolare, un ampio processo di transizione da quell’approccio ai singoli problemi (piecemeal approach) che aveva caratterizzato l’azione dell’Unione europea sino agli inizi degli anni ’90, ad un approccio anche globale, ad una visione di insieme dei problemi della fiscalità comunitaria, in cui la fiscalità viene considerata in relazione ai diversi obiettivi fissati dal Trattato e in cui vengono in rilievo temi quali la stabilizzazione delle entrate tributarie, il buon funzionamento del mercato interno e la promozione dell’occupazione (126). Nella comunicazione della commissione al Consiglio Verso il coordinamento fiscale nell’Unione Europea: un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa (127), si introduce infatti per la prima volta, sotto l’ombrello del coordinamento fiscale, una distinzione tra una concorrenza fiscale legittima ed una «dannosa» (harmful tax competition), per impedire agli Stati membri di adottare o mantenere misure fiscali che siano tali da falsare in modo «sleale» il gioco della concorrenza, attraendo in maniera non trasparente capitali ed imprese di altri Stati membri in pregiudizio dei relativi interessi finanziari (cosiddetto beggar thy neighbour) (128). Ciò ha comportato un’azione sotto un duplice fronte. Da un lato, essa ha riguardato gli investimenti di origine finanziaria e il progetto in materia di fiscalità del risparmio si è tradotto – a seguito di lunghe e complesse trattative, che hanno richiesto la stipula di appositi accordi anche con Stati terzi – nella Direttiva n. 2003/48/CE, in cui è venuto meno il modello della cosiddetta «coesistenza» tra ritenuta e scambio di informazioni – essendo quest’ultimo diventato il meccanismo-base, al fine di sancire definitivamente il principio della tassazione degli interessi nello Stato di residenza del percettore – e si è consentito soltanto in via eccezionale e transitoria a taluni Stati di applicare una ritenuta alla fonte sino al raggiungimento di ulteriori accordi tra l’Unione e tali Stati terzi aventi ad oggetto un sistema di scambio di informazioni a richiesta (129). Dall’altro, essa ha riguardato gli investimenti di origine produttiva, tramite l’introduzione di un codice di condotta (code of conduct), che ha imposto agli Stati di astenersi dall’adottare (c.d. clausola di standstill), ovvero di eliminare (c.d. clausola di rollback), tutte le misure fiscali, di carattere non generalizzato, in grado di incidere sensibilmente sulla localizzazione delle attività produttive all’interno dell’Unione europea (130). In tale contesto, la soppressione dei regimi ritenuti nocivi alla concorrenza dell’Unione è passata talvolta, ove ne ricorrevano i presupposti, attraverso le forche caudine delle disposizioni del TCE in materia di aiuti di Stato (131), altre volte ha formato oggetto di eliminazione spontanea, ed altre volte ancora, infine, di negoziazione con le istituzioni comunitarie in vista dell’ottenimento di una proroga al termine per la loro eliminazione. Dunque, anche sul piano dei comportamenti dei singoli Stati si è preso atto che la concorrenza va vista in un’ottica più ampia, al fine di non mettere a repentaglio valori ed obiettivi altrettanto importanti. Ci pare, tuttavia, che ciò non possa spingersi al punto da attirare alla tutela comunitaria quei regimi tributari a carattere generalizzato e non discriminatorio, anche quando si concretino in un’aliquota sensibilmente inferiore a quella mediamente applicata negli Stati membri, e dunque a rinvenire nel Trattato di Lisbona una novità in tal senso. A tale riguardo, fortemente significativa appare la vicenda dell’Irlanda, dove il salvataggio delle finanze irlandesi approvato dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale è stato usato, senza successo, da governi (Francia e Germania), istituzioni multilaterali (OCSE) e altri soggetti quale pretesto per obbligare Dublino ad aumentare l’aliquota dell’imposta sulle società, attualmente fissata al 12,5 per cento. Del resto, come è stato osservato (132), se è vero che la politica fiscale dell’Irlanda ha consentito che le società americane investissero in Irlanda più che in Cina, India, Brasile e Russia messe assieme, non può ritenersi che i problemi causati dal debito sovrano irlandese possano essere addossati al ridotto livello di tassazione. Anzi, il gettito generato dalla tassazione delle società equivale in Irlanda a quasi il 3 per cento del PIL, rispetto ad un valore appena superiore all’1 per cento della Germania; né potrebbe spiegarsi come i mercati dei titoli di Stato abbiano punito severamente paesi come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, in cui le aliquote dell’imposta sulle società sono da due a tre volte più elevate. È pertanto auspicabile che si prenda finalmente atto che una concorrenza sulle aliquote fiscali costituisce uno dei fattori principali per rendere nuovamente l’Unione europea un luogo privilegiato di investimento per i capitali internazionali e per spingere gli Stati membri ad una gestione virtuosa dei bilanci sul fronte delle spese. In questa direzione si stanno muovendo diversi Paesi che, nonostante l’incremento della pressione fiscale, hanno diminuito le aliquote relative alle imposte sui redditi societari. 8. – L’autonomia impositiva dell’Unione europea e gli obiettivi di welfare La visione restrittiva del fenomeno tributario non poteva non investire anche l’autonomia impositiva dell’Unione europea. Si tratta di un tema complesso, rispetto al quale possiamo individuare almeno due aspetti rilevanti. In primo luogo, quello delle modalità di finanziamento dell’Unione europea in sé considerate: il dibattito sull’autonomia finanziaria dell’Unione, avviato agli inizi degli anni ’70 con l’istituzione delle cc.dd. «risorse proprie» (133), si è infatti sempre più orientato in direzione della creazione di una reale autonomia di bilancio dell’Unione e non di una mera autosufficienza finanziaria, e dunque della fine della dipendenza di essa dai contributi versati dagli Stati membri (134). Rispetto ad essa, l’istituzione di un tributo proprio rappresenta una delle possibili soluzioni, quale modo per ovviare ad una situazione, considerata paradossale, di representation without taxation. In secondo luogo, quello della correlazione tra le entrate dell’Unione e le spese che esse sono destinate a finanziare. A tale riguardo, le politiche di entrata e di spesa sono saldamente nelle mani dei governi nazionali, tenuti unicamente al rispetto del cosiddetto «Patto di stabilità», e dunque all’obbligo del mantenimento di taluni parametri economici in un range predefinito. Il welfare rimane prerogativa degli Stati membri, così come la decisione delle politiche in materia di imposizione diretta ed indiretta, con i soli limiti, più o meno intensi, imposti dal Trattato, dalle fonti comunitarie derivate e dalla giurisprudenza comunitaria. Il principio cardine che informa tale impostazione è quello della sussidiarietà (art. 5 TCE, adesso art. 5 TUE), che richiede il trasferimento all’Unione delle sole funzioni che possono essere gestite in modo più efficace a livello europeo. Ciascuno Stato ha pertanto disegnato un proprio sistema fiscale in relazione alla dimensione e composizione della spesa pubblica, perseguendo specifiche finalità di produzione di beni pubblici, distribuzione del reddito e protezione sociale. La fiscalità svolge così una funzione complementare insieme alla spesa pubblica, con proprie forme di prelievo, scale di aliquote, esenzioni ed incentivi fiscali. Naturalmente, i mezzi utilizzati per perseguire gli obiettivi ed i valori di volta in volta fissati nei sistemi nazionali, dovranno armonizzarsi con i principi fissati dal Trattato e dalla giurisprudenza comunitaria, ovvero, in caso di relativo conflitto, almeno potersi includere in quelle «valvole di sfogo» costituite dalle ragioni imperative di interesse generale proprie della rule of reason o nelle deroghe all’operatività delle norme in materia di aiuti di Stato, previste dall’art. 107 TFUE in funzione di obiettivi economici e sociali ritenuti degni di tutela nella prospettiva comunitaria (135). Così stando le cose, non pare debba essere enfatizzato il ruolo delle funzioni e della spesa in ambito europeo per giustificare la necessità di un massiccio aumento di risorse (136), né appare univoca la correlazione tra tale necessità e l’attribuzione di poteri tributari al soggetto che attua la politica della spesa. Ciò anche alla luce della Carta dei diritti, che, sotto il profilo testuale, non pare offrire elementi determinanti in tal senso, essendo i riferimenti ai temi classici del welfare (sanità, previdenza, assistenza, istruzione) tratteggiati in modo piuttosto generico e che, in sostanza, rimette l’effettivo perseguimento di finalità lato sensu sociali alla concreta azione e, per certi versi, discrezionalità di ponderato bilanciamento delle istituzioni dell’Unione nei diversi settori di azione. Si tratta dunque di una configurazione per la quale l’Unione, almeno avendo riguardo alla lettera della Carta dei diritti, non si occupa di politiche sociali fiscali, di sanità, pensioni, istruzione ed ordine pubblico, che viene tuttavia fortemente criticata da coloro che ritengono che non si possa separare a lungo la regolazione economica e monetaria affidata all’UE e i provvedimenti sullo stato sociale e le tasse di competenza dei governi, senza incidere sui fondamenti stessi della democrazia, essendo i tempi maturi per sviluppare il pilastro «popolare» europeo (137). Il processo di Karlsruhe al Trattato di Lisbona – c.d. Lissabon-Urteil (138) – ha in effetti precisato, in relazione al c.d. «controllo di identità», che l’unificazione europea non può realizzarsi in modo tale da lasciare agli Stati membri uno spazio insufficiente per la determinazione politica delle condizioni di vita economiche, culturali e sociali (§ 249) e che per la capacità di autodeterminazione propria di uno Stato costituzionale si considerano particolarmente sensibili [...] le decisioni fondamentali in materia fiscale su entrate e uscite – motivate anche dalla politica sociale – della mano pubblica (139). Non si negano, dunque, per la materia fiscale, in modo assoluto spazi di integrazione e di primazia europea, purché rimangano spazi alla sovranità, la cui delimitazione avviene per il tramite della locuzione decisioni fondamentali. Sotto questo profilo il Trattato di Lisbona non presenta criticità, non prevedendo esso, come i precedenti trattati, in alcun modo il definitivo ed irreversibile trasferimento dei poteri sovrani dagli Stati alla UE, ribadendo anzi l’identità nazionale degli Stati stessi ed il loro potere di modificare le norme del Trattato comprese quelle relative alla Kompetenz-Kompetenz (140). In quest’ottica, mentre il dibattito sul primo profilo – quello di una reale autonomia finanziaria dell’Unione europea – può sfociare in un qualche apprezzabile risultato sul piano concreto, come detto non necessariamente coincidente con l’istituzione di un tributo proprio, il secondo profilo – quello di una correlazione tra le entrate dell’Unione e le spese che esse sono destinate a finanziare – non appare né realistico né, probabilmente, auspicabile. Se una politica redistributiva efficacemente attuata a livello europeo può immaginarsi, essa va valutata rispetto agli Stati membri considerati nel loro complesso: del resto, da un lato la quota non destinata al funzionamento dell’Unione viene già adesso destinata a politiche di vario genere attuate nei vari Stati membri, con net contributors e net recipients a seconda della maggiore o minore intensità con la quale queste politiche sono ivi attuate; dall’altro, la politica in materia di aiuti di Stato favorisce quei territori il cui prodotto interno lordo si colloca al di sotto della media europea. Ciò che esclude in radice, ovviamente, qualsiasi trasferimento a livello europeo del prelievo progressivo sul reddito dei «cittadini» europei (141) ed allontana decisamente qualsiasi prospettiva organizzativa in senso federalista dell’ordinamento europeo (142). In tale quadro, le modalità attraverso le quali può realizzarsi l’autonomia finanziaria dell’Unione europea degradano a mera questione tecnica, da risolversi sulla base di criteri di carattere economico, come le eventuali distorsioni provocate dal prelievo o la stabilità del prelievo stesso; di carattere amministrativo, come i relativi costi di riscossione; ovvero infine di carattere politico, soprattutto in considerazione del modo con il quale il prelievo sarà percepito dai cittadini dell’Unione, la cui insofferenza per l’azione delle istituzioni comunitarie si è inequivocabilmente manifestata nell’esito negativo dei referendum francese ed olandese sulla Costituzione europea (143). Concludendo su tale aspetto, siamo dunque ben lontani da un «ordinamento fiscale europeo» nel quale l’Unione europea esercita piena competenza fiscale tramite una o più imposte proprie, definendone la base imponibile ed assicurandone l’accertamento e la riscossione; né può ipotizzarsi l’allocazione a livello europeo di funzioni decisive – quali la regolazione della pressione fiscale globale negli Stati membri, la ripartizione del carico fiscale complessivo tra i diversi rami dell’imposizione e la struttura delle singole imposte o almeno di quelle più importanti –, che dipendono dalla struttura economica e sociale dei singoli Stati membri e richiedono interventi ad hoc fondati sulla sovranità nazionale. Va tuttavia rilevato che la crisi finanziaria ed economica che ha colpito le economie mondiali sta favorendo una fervente discussione politica a livello mondiale ed europeo in materia di tassazione del settore finanziario che coinvolge anche il tema delle risorse proprie. In particolare, nel contesto europeo, nonostante le diverse forme che la tassazione del settore finanziario (144) può assumere – si pensi, in particolare, alla tassa sulle banche, alla tassa sulle attività finanziarie (TAF) ed, infine, alla tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) – solo quest’ultima, comunemente chiamata Tobin Tax, è stata considerata idonea a conseguire gli obiettivi degli Stati membri ed è quella di cui oggi si propone l’introduzione (145). L’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie trova la sua ratio, in primo luogo, nella volontà di garantire che il settore finanziario partecipi ai costi della crisi e che venga ad essere tassato in modo equo rispetto ad altri settori (146). In secondo luogo, attraverso tale tributo si vuole disincentivare le attività a eccessivo tasso di rischio da parte degli enti finanziari e generare nuove entrate. Tali entrate potrebbero essere utilizzate o per ridurre altre forme di imposizione con l’obiettivo di stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro, o per introdurre politiche specifiche, quali l’aiuto allo sviluppo o la lotta al cambiamento climatico (147). Secondo il Parlamento europeo e la Commissione europea una parte del gettito proveniente dall’imposta sulle transazioni finanziare – che dovrebbe complessivamente corrispondere a circa 57 miliardi di euro – dovrebbe essere gestita dall’Unione europea quale risorsa propria, con l’obiettivo ultimo di ridurre la dipendenza del bilancio dell’Unione europea dai contributi nazionali e liberare pertanto risorse dei bilanci nazionali per destinarle ad altri fini (148)(149). Si conferma, per tale via, l’idea secondo cui le politiche sociali devono rimanere nelle mani degli Stati membri e non trasformare l’UE in un produttore di sicurezza per i suoi cittadini. Del resto, i possibili scopi di un tributo proprio non si esauriscono nella possibilità di attrarre al livello europeo la tutela del welfare, potendo investire obiettivi ben diversi quali, ad esempio, la stabilizzazione anti-ciclica dell’economia (150). Al tempo stesso, tuttavia, come è stato osservato (151), la previsione di una entrata propria di tale importanza, potrebbe finalmente aprire la strada alla concreta possibilità di introdurre nel Trattato i principi fondamentali tributari di garanzia che di un siffatto tributo proprio dovrebbero costituire il logico corollario. 9. – Fiscalità e tutela dell’ambiente In base all’art. 3 del TUE, l’elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente costituisce – unitamente alla crescita economica equilibrata, alla stabilità dei prezzi e all’economia sociale di mercato fortemente competitiva – uno dei fattori utili al perseguimento di uno sviluppo sostenibile dell’Europa. A ciò si aggiunga, poi, che per effetto delle modifiche recate dal Trattato di Lisbona le tematiche ambientali hanno acquisito una spiccata dimensione internazionale: è quanto risulta tanto dalla previsione generale dell’art. 2, § 5, del TUE, in cui si opera riferimento al contributo delle istituzioni comunitarie alle azioni internazionali volte a promuovere uno sviluppo sostenibile della Terra, quanto dalla più specifica disposizione dell’art. 21, § 2, lett. f) del TUE che impegna le istituzioni comunitarie ad agire sul piano internazionale nel senso della preservazione e del miglioramento della qualità dell’ambiente e della gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali (152). Né, sempre nell’ottica della centralità delle tematiche ambientali, può trascurarsi il portato dell’art. 37 della Carta dei diritti, che – sebbene non attribuisca ai cittadini europei un vero e proprio diritto all’ambiente salubre (153) – ribadisce, con impronta individualistica, l’impegno europeo al miglioramento della qualità dell’ambiente, che deve essere garantito conformemente al principio dello sviluppo sostenibile. Anche l’ambiente viene dunque in rilievo quale meccanismo di correzione dell’ordine economico «efficiente», nel contesto di un’azione comunitaria che deve comunque essere improntata alla promozione di uno sviluppo sostenibile. Da tempo le istituzioni comunitarie hanno individuato nella fiscalità uno strumento per il perseguimento degli obiettivi di natura ambientale: tralasciando le iniziative più risalenti nel tempo, già nel contesto della strategia di Lisbona del marzo 2000 – rivolta a fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo – e dell’azione di rilancio di tale strategia del 2005 la Commissione europea aveva individuato nella leva tributaria uno – se non il principale – strumento di promozione dell’uso sostenibile delle risorse nell’UE e, in tal modo, dell’innovazione quale fattore di crescita economica dell’intera area comunitaria (154). Proprio in questo contesto si inquadrano i lavori dei primi anni Duemila che hanno condotto all’approvazione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità (155); direttiva che, nonostante un approccio perfettibile alle tematiche ambientali, ha comunque rappresentato un primo e importante passo in avanti della strategia rivolta al perseguimento di finalità ambientali mediante lo strumento impositivo. L’approvazione del Trattato di Lisbona, in verità, non ha di per sé apportato mutamenti significativi alle tematiche dell’imposizione ambientale. Se è vero, infatti, che la dimensione internazionale delle tematiche ambientali e l’attribuzione alle istituzioni comunitarie di competenze specifiche in tema di azione esterna dell’UE hanno consentito alle istituzioni stesse di esprimere un pensiero comune in sede internazionale (156), va rilevato che sul piano interno l’azione comunitaria ha continuato a svolgersi secondo le linee direttrici già impostate in precedenza sulla base dapprima della strategia di Lisbona e, successivamente, degli interventi di rilancio della strategia stessa del 2005. Né, sotto questo profilo, le previsioni di cui agli artt. 192, § 2 e 194, § 3 del TFUE ci sembrano vadano oltre una riconferma della regola dell’unanimità in materia fiscale, anche se l’imposizione è finalizzata al perseguimento di finalità ambientali o energetiche. Ben diversa è stata, invece, l’influenza della recente crisi economico-finanziaria sulle tematiche che ci occupano. Infatti, preso atto che la crisi ha vanificato anni di progressi economici e sociali e messo in luce le carenze strutturali dell’economia europea (157), ha preso corpo la strategia «Europa 2020», che ha posto un importante accento sulle tematiche ambientali, evidenziando la necessità del raggiungimento dei relativi obiettivi in punto di riduzione di gas a effetto serra, di innalzamento della quota di fonti di energia rinnovabile e di miglioramento dell’efficienza energetica (158), ciò che genererebbe non solo un importante risparmio finanziario sulle fonti di approvvigionamento petrolifere, ma – e, in un’ottica di miglioramento dell’economia sociale, soprattutto – anche nuovi posti di lavoro ed un rilevante incremento del prodotto interno lordo europeo (159). È proprio in questo contesto di incalzante rilievo delle tematiche ambientali nel più ampio ambito della exit strategy dalla crisi finanziaria che ha preso corpo la proposta della commissione per la riforma della tassazione dell’energia (160), volta a (i) riequilibrare l’onere fiscale tra i vari combustibili, comprese le energie rinnovabili, in modo oggettivo e avendo riguardo al contenuto energetico e alle emissioni di CO2 e (ii) istituire un quadro normativo per la tassazione del CO2 nel mercato interno e, di conseguenza, fissare un prezzo per le emissioni di CO2 che non sono coperte dal sistema di scambio delle quote di emissioni dell’UE. In questa prospettiva, la commissione ha proposto una scissione dell’aliquota minima sui prodotti energetici, prevedendo da un lato una tassazione generale del consumo di energia basata sul contenuto energetico e indipendente dal tipo di prodotto, essenzialmente volta ad incentivare il risparmio di energia e, dall’altro lato, un’imposizione legata al CO2, dipendente direttamente dalla quantità di emissioni di CO2 del prodotto energetico, rivolta, evidentemente, ad incentivare l’uso di prodotti energetici a bassa emissione di CO2. Fermo restando che la proposta di direttiva non è stata ancora approvata e che, in ogni caso, gli effetti benefici della nuova impostazione dipenderanno in gran parte dalle scelte attuate a livello nazionale (161), il «salto di qualità» rispetto alle precedenti ipotesi di riforma della tassazione dell’energia appare evidente (162). Si pensi, al riguardo, che soltanto nel 2005 – e, dunque, prima dell’inizio della crisi economico-finanziaria – la Commissione europea, lungi da una radicale ristrutturazione della tassazione dell’energia, si era limitata ad evidenziare alcune puntuali necessità di intervento, riferite, in particolare, alla tassazione del gasolio professionale, al ravvicinamento verso l’alto delle aliquote di accisa dei prodotti utilizzati per la produzione e alla tassazione delle autovetture (163). Se è vero, dunque, che la specificazione introdotta dal Trattato di Lisbona nel senso della duplice finalità della politica ambientale a favore di un miglioramento della qualità dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile può aver influito sulla struttura dualistica dell’imposizione proposta dalla commissione, non è casuale che a tale radicale proposta di riforma si sia giunti solo nel contesto della crisi economico-finanziaria e della relativa exit strategy «Europa 2020», in un clima generale in cui molti Stati membri stanno mettendo a punto le proprie strategie per uscire dalla crisi economica e finanziaria e stanno considerando di apportare riforme strutturali alle politiche di bilancio e ai regimi tributari, ciò che offre l’occasione per di una revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia nell’ottica di realizzare contemporaneamente sia gli obiettivi economici sia quelli ambientali. Sotto un profilo più generale, poi, va evidenziato che l’accresciuta attenzione e lo spirito di rinnovamento in tema di imposizione ambientale che è conseguito alla crisi finanziaria e alla relativa exit strategy europea dovrebbero, auspicabilmente, contribuire ad un maggior coordinamento a livello europeo in tema di tassazione ambientale. In questa prospettiva, la radicale (proposta di) riforma della tassazione dell’energia nel senso del perseguimento di obiettivi tanto di miglioramento della qualità dell’ambiente, quanto di sviluppo sostenibile potrebbe costituire un importante impulso ad un più ampio coordinamento tra gli Stati membri sulle tematiche di fiscalità ambientale. Un tale coordinamento, peraltro, potrebbe conseguire, in modo più agevole rispetto ad un’azione puramente nazionale, quell’obiettivo lato sensu redistributivo da tempo al centro delle azioni comunitarie in materia fiscale, consistente nello spostamento del peso fiscale verso fattori connotati da maggiore mobilità, a vantaggio di quelli meno mobili, quali, tipicamente, il lavoro (164). Sotto altro profilo, un’azione coordinata in materia di imposizione ambientale minimizzerebbe l’impatto concorrenziale della tassazione di un fattore di produzione quale è l’energia, riducendo, peraltro, anche i costi di compliance delle imprese interessate. Nella prospettiva del coordinamento nello specifico settore della fiscalità ambientale, rilievo potrebbe assumere il ruolo delle istituzioni dell’Unione – e della commissione in particolare – in materia di aiuti di Stato a finalità ambientale. Intendiamo riferirci, più precisamente, agli orientamenti elaborati dalla commissione in materia di misure di sostegno statale volte al perseguimento di finalità ambientali; orientamenti che, come noto, definiscono e delimitano l’ambito degli interventi statali autorizzabili in base alla normativa in tema di aiuti di Stato (165). Ora, se è ben vero che in tale contesto il riferimento è alle sole misure statali di agevolazione, non può trascurarsi come dagli orientamenti della commissione discenda un inevitabile effetto conformativo degli Stati interessati, che se intendono promuovere misure di incentivazione o agevolazione degli scopi ambientali devono attenersi, almeno in linea generale, alle indicazioni contenute negli orientamenti in questione. Più precisamente, gli orientamenti della commissione, nel delineare le caratteristiche richieste per l’ammissibilità di misure agevolative compatibili con il mercato comune, influenzano la struttura del sistema nazionale delle agevolazioni – e, dunque, del sistema fiscale – promuovendo un sia pur parziale coordinamento a livello europeo. Non v’è dubbio, peraltro, che – come sottolinea la stessa commissione – un maggior coordinamento della fiscalità ambientale è al momento non solo auspicabile, ma indispensabile nell’ottica tanto di un miglioramento dell’integrazione comunitaria, quanto dell’elaborazione di una risposta comune alla crisi economico-finanziaria e, al contempo, della promozione di una crescita economica che presti la dovuta attenzione ai profili sociali (166). Diversamente, l’istituzione di tributi a finalità ambientale a livello puramente nazionale e al di fuori di un appropriato quadro comune rischia di originare disparità di trattamento e diversità competitive, certamente non auspicabili nel presente momento storico e politico dell’UE. 10. – Conclusioni In conclusione, ci sembra che le modifiche di maggior peso apportate dal Trattato di Lisbona non possano ritenersi «rivoluzionarie» rispetto all’assetto complessivo dell’ordinamento dell’UE. La novità principale – l’assunta vincolatività giuridica della Carta dei diritti e la conseguente acquisizione del medesimo valore giuridico dei trattati dei diritti fondamentali in essa sanciti – è stata bensì rilevante, ma certamente non tale da sconvolgere l’assetto dell’ordinamento dell’Unione, sol che si tenga conto che già nel quadro ante Lisbona i medesimi diritti fondamentali assumevano rilievo quale principi generali del diritto comunitario, in virtù delle progressive evoluzioni della giurisprudenza comunitaria (167). Anche l’ulteriore ed importante innovazione relativa agli obiettivi dell’Unione in punto di costruzione di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale non costituisce, come detto, una «controriforma» rispetto al passato, se è vero che il «diritto comunitario vivente» – vale a dire la giurisprudenza della Corte di giustizia – aveva già valorizzato il principio di solidarietà ed evidenziato sin dagli anni Settanta l’intimo collegamento tra obiettivi di carattere economico e sociale (168). Tantomeno può ritenersi che il Trattato di Lisbona abbia attuato una «rivoluzione fiscale» (169), se è vero che, in tale ambito, le modifiche si sono limitate all’abrogazione dell’art. 293 del Trattato CE in tema di riconoscimento agli Stati del compito di eliminazione della doppia imposizione e ad alcuni impulsi favorevoli all’intrapresa di un percorso di armonizzazione nel settore della fiscalità ambientale e che, per converso, nulla è mutato con riferimento alle competenze dell’Unione in materia fiscale e alla persistente applicabilità del principio dell’unanimità. E, tuttavia, non si può cedere alla tentazione di concludere che nulla è mutato. Il cambiamento è forse meno evidente, ma – almeno in linea teorica – potrebbe rivelarsi più profondo. Sia pur in un panorama normativo non privo di contraddizioni (170), al Trattato di Lisbona deve ascriversi il merito di aver operato espresso riferimento ad obiettivi ulteriori rispetto a quelli prettamente mercatistici, tipici della precedente costruzione comunitaria, facendo sì che l’obiettivo dell’instaurazione del mercato interno assommi ora al proprio interno una trama complessa e variegata di interessi (171). La conseguenza di un tale mutato approccio di fondo deve rintracciarsi nell’ormai acquisita parità di tali obiettivi di carattere lato sensu sociale rispetto a quelli di carattere economico-concorrenziale: se è vero, come detto, che l’obiettivo della promozione di un assetto concorrenziale non è né venuto meno né ha perso significativamente di rilievo, non può trascurarsi che, a seguito del Trattato di Lisbona, per i valori di carattere sociale deve ritenersi ormai superato il tradizionale approccio delle istituzioni comunitarie – e della Corte di giustizia in particolare – incline ad una loro interpretazione restrittiva e in chiave meramente derogatoria dei valori di tipo economico. Il portato del Trattato di Lisbona risiede, dunque, nel definitivo superamento di quel rapporto gerarchico tra obiettivi di carattere economico e scopi di tipo sociale che ha caratterizzato la costruzione comunitaria nei decenni precedenti in favore di una più complessa interrelazione tra tali finalità, rivolta all’individuazione di un punto di equilibrio tra tali esigenze necessariamente mutevole di volta in volta a seconda della materia di riferimento (172). Ferma restando l’esigenza di verificare in concreto l’azione delle istituzioni comunitarie, il rapporto ormai paritario tra valori economici e sociali dovrebbe risolversi non solo in una più equilibrata ponderazione di tali interessi ad opera del Consiglio e della commissione (173), ma anche nella rilevanza di quella terza fase del giudizio applicativo del principio di proporzionalità – dedicata, appunto, alla ponderazione vera e propria degli interessi in gioco secondo un criterio che tenga conto di costi e benefici connessi ai reciproci sacrifici dei predetti interessi – che, come detto, è rimasta a lungo nell’ombra nella giurisprudenza della Corte di giustizia (174). La cennata parità tra valori economici e sociali potrebbe riflettersi in un diverso approccio delle istituzioni dell’Unione anche rispetto alla materia fiscale: non solo la rilevanza del bilanciamento tra valori di diversa natura in sede di giudizio di proporzionalità potrebbe condurre ad un diverso apprezzamento ad opera dei giudici della Corte degli interessi di carattere nazionale in sede di valutazione delle cause di giustificazione di misure fiscali discriminatorie o restrittive, ma – e soprattutto – la diversa enfasi posta sui valori di tipo sociale potrebbe influenzare il balancing test cui saranno chiamati la commissione ed il Consiglio in sede di adozione di atti di c.d. «integrazione fiscale positiva». Note: (*) Contributo sottoposto a revisione anonima da parte di professori ordinari e fuori ruolo italiani e valutato positivamente da due componenti del Comitato scientifico della Rivista. I §§ 1, 4, 5, 6, 7 e 8 sono stati redatti dal prof. Giuseppe Melis, i §§ 2, 3 e 9 dal dott. Alessio Persiani. Le conclusioni sono sono state redatte congiuntamente dagli autori. Il presente lavoro, peraltro, costituisce il frutto di una prima riflessione da parte degli autori sulla materia e sarà seguito da uno scritto più ampio ed approfondito. (1) Vedi B. Nascimbene - A. Lang, Il Trattato di Lisbona: l’Unione europea a una svolta?, in Corr. giur., 2008, 37 ss. (2) Così l’art. 6 del TUE: l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. (3) Si veda, al riguardo, G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2005, 132, il quale evidenzia la rilevanza della Carta dei diritti quale momento di riaffermazione di valori già tutelati nell’ordinamento comunitario, sia pur con qualche precisazione e/o aggiunta. L’assenza di valore giuridico vincolante non ha impedito, peraltro, che la Carta dei diritti sia stata più volte richiamata, in funzione appunto di supporto interpretativo, dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza. Si veda, ad esempio, la sentenza del 12 maggio 2005, relativa alla causa C-347/03, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e altri c. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, nonché la successiva sentenza del 27 giugno 2006, relativa alla causa C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio, ove si afferma, al § 38, che se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo «considerando» della direttiva, che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti dalla Carta. L’obiettivo principale della Carta, come emerge dal suo preambolo, è peraltro quello di riaffermare «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla [CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte [...] e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sul punto, sia pur con riferimento ad alcuni richiami alla Carta dei diritti allora contenuti solo nelle conclusioni degli Avvocati generali, si veda R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Introduzione, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Bologna, 2001, 24 e ss. (4) Quanto al testo originario della CEDU, il riferimento è alla l. 4 agosto 1955, n. 848, recante, appunto, la ratifica e l’esecuzione della CEDU nell’ordinamento italiano. Con riferimento alla giurisprudenza costituzionale si vedano le pronunce della Corte cost. 18 aprile 1967, n. 48; 8 aprile 1976, n. 69; 16 dicembre 1980, n. 188; 5 luglio 1990, n. 315 e 6 giugno 1989, n. 323. Non erano mancate, invero, talune prese di posizione più «avanzate» ad opera della stessa Corte: il riferimento è, in particolare, alla pronuncia 19 gennaio 1993, n. 10 – ove un passaggio valorizzava il disposto dell’art. 2 Cost. per affermare che le norme della CEDU derivavano da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria – e alla sentenza 19 febbraio 1999, n. 38 in cui la Corte, dopo aver escluso che la CEDU potesse integrare il parametro di costituzionalità, aveva comunque evidenziato l’integrazione tra le diverse Carte sotto il profilo interpretativo. Tuttavia – come precisato da A. Guazzarotti, La CEDU dopo il Trattato di Lisbona: come in un gioco dell’oca?, in Studium iuris, 2012, 172173 e R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, in Teoria del diritto e dello Stato, 2010, 415-416 – si era trattato di affermazioni che erano rimaste isolate, nel contesto di un orientamento consolidato nel senso della riconduzione della CEDU entro i confini dell’ordinario diritto internazionale pattizio. (5) Si tratta, in particolare, delle sentenze della Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349. Le sentenze hanno formato oggetto di un’ampia disamina in dottrina. Si vedano, per tutti, AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349 del 2007 della Corte costituzionale, a cura di C. Salazar - A. Spadaro, Milano, 2009; B. Conforti, La Corte costituzionale e gli obblighi internazionali dello Stato in tema di espropriazione, in Giur. it., 2008, 569-573; A. Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità, tra prospettiva formale-astratta e prospettiva assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico (a prima lettura di Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007), in www.forumcostituzionale.it. (6) La particolare collocazione riconosciuta alle norme CEDU dalle pronunce costituzionali in parola era volta – come precisa la stessa Corte costituzionale – a fare chiarezza su tale problematica [...] avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli operatori del diritto. Sotto questo profilo, le pronunce della Corte costituzionale hanno costituito una risposta agli orientamenti interpretativi emergenti nella giurisprudenza civile di legittimità, inclini ad operare un sindacato diffuso di compatibilità delle norme interne di volta in volta rilevanti con le previsioni della CEDU e comportante, in caso di contrasto, la disapplicazione della legislazione italiana di riferimento. Si vedano, al riguardo, le pronunce Cass., sez. I pen., 3 ottobre 2005, n. 35616; Cass., sez. I pen., 3 ottobre 2006, n. 32678, nonché la più ampia sentenza Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507 ove si affermava la natura sovraordinata alle norme della CEDU sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto. Si trattava, a ben vedere, di un percorso inopportuno – così R. Calvano, La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: Orgoglio e pregiudizio?, in Giur. it., 2008, 574 – dalla Corte correttamente censurato a favore di un sindacato accentrato secondo l’ordinario procedimento dell’incidente di costituzionalità, mediante la valorizzazione dell’art. 117, 1° comma, Cost. ed il richiamo alla teoria delle norme interposte; teoria cui, prima delle sentenze del 2007, autorevole dottrina – F. Sorrentino, Il diritto europeo nella giurisprudenza della Corte costituzionale: problemi e prospettive, in Quaderni regionali, 2006, 636 – aveva già fatto cenno proprio in funzione di una maggiore valorizzazione del dettato della CEDU. (7) Così la sentenza della Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348. (8) Sulla tematica dei rapporti tra ordinamento dell’UE e trattati internazionali conclusi dalle stesse istituzioni europee si veda R. Cafari Panico - L. Tomasi, Il futuro della CEDU tra giurisprudenza costituzionale e diritto dell’Unione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, 199-200. Con particolare riferimento al tema della diretta applicabilità in ambito UE delle previsioni contenute negli accordi internazionali, uno dei casi più rilevanti attiene ai trattati conclusi nel contesto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Quanto alla dottrina ed alla giurisprudenza rilevante in materia sia consentito rinviare ad approfondimenti ed indicazioni contenuti in A. Persiani, Organizzazione Mondiale del Commercio, disciplina in materia di sovvenzioni ed imposizione diretta: alcune riflessioni, in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2007, 515-568, nonché in A. Persiani, GATS, clausola della nazione più favorita e rimborso IVA a soggetti residenti in stati terzi: una sentenza laconica per una vicenda che non poteva risolversi diversamente. Nota alla sentenza della Corte di giustizia del 7 giugno 2007, relativa alla causa C-335/05, Rízení Letového Provozu, in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2008, 1321-1345. (9) Il riferimento è, in particolare, alla sentenza del T.a.r. Lazio, sez. II-bis, 18 maggio 2010, n. 11984, con nota di F. D’Oro, La disapplicazione delle norme interne contrastanti con le norme CEDU: note a margine della sentenza t.a.r. Lazio, Sez. II-bis, 18 maggio 2010, n. 11984, in Giur. it., 2011, 1435-1444 e alle pronunce del Cons. Stato, 2 marzo 2010, n. 1220; 28 maggio 2010, n. 3760 e 29 settembre 2010, n. 7200, quest’ultima con nota di D. Gallo - L. Paladini, Note sulla «rilevanza diretta» della CEDU nella recente giurisprudenza amministrativa, in Giur. it., 2011, 2186 e ss. Sia pur in termini meno netti, si vedano altresì le pronunce del T.a.r. Lombardia, sez. II, 20 maggio 2010, n. 2070; T.a.r. Liguria, sez. I, 18 novembre 2010, n. 10405; T.a.r. Sicilia, sez. II, 1° febbraio 2011, n. 175 e T.a.r. Veneto, sez. I, 10 marzo 2011, n. 400. (10) Così la menzionata sentenza del T.a.r. Lazio n. 11984 del 2010. (11) Così l’art. 52, § 3 della Carta dei diritti: laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa. (12) Così ancora la menzionata sentenza del T.a.r. Lazio n. 11984 del 2010. (13) In questo senso, rispetto all’identica previsione contenuta nel trattato costituzionale europeo si era espresso J. Jacquè, La Constitution pour l’Europe et les droits fondamentaux, in Europe des libertés, 2004, 14, 12. Ciò non significa, peraltro, che la procedura relativa all’adesione dell’UE alla CEDU sia priva di profili problematici. L’art. 218, § 8, terzo periodo del TFUE prevede che il Consiglio delibera all’unanimità [...] per l’accordo sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; la decisione sulla conclusione di tale accordo entra in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali. Se è vero, infatti, che, come desumibile dall’art. 218, § 1, del TFUE, l’accordo di adesione alla CEDU costituirebbe un accordo concluso dall’Unione – autonomamente considerata rispetto agli Stati membri che la compongono – e gli altri Stati contraenti della CEDU, la previsione di un’approvazione ex post da parte degli Stati membri rispetto all’accordo di adesione alla CEDU sembra contraddire in modo piuttosto chiaro la piena personalità giuridica e, in particolare, la piena autonomia sul piano internazionale che l’art. 47 del TUE riconosce all’Unione europea. In questo senso si veda G. Amato, Prefazione, in J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, Bologna, 2007, 10. Ecco allora che sembra avvalorata la tesi di coloro – J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, cit., 104 – che ritengono che la previsione in questione celi una profonda sfiducia da parte degli Stati membri nei confronti delle istituzioni europee, considerate non in grado di agire in piena autonomia sul piano internazionale. Più in generale, sui nodi problematici sottesi all’adesione dell’Unione alla CEDU si vedano G. Fiengo, Verso l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: prime riflessioni sugli aspetti problematici dell’attuale fase del negoziato, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2011, 108-119; J. Jacquè, The Accession of the European Union to the European Convention on Human Rights and Fundamental Freedoms, in Common Market Law Review, 2011, 995-1023; T. Lock, Walking on a tightrope: the draft ECHR Accession Agreement and the autonomy of the EU legal order, in Common Market Law Review, 2011, 1025-1054. (14) Taluni dubbi sull’effettiva opportunità di mantenere nel corpo dell’art. 6 del TUE il richiamo contenuto al § 3 ai principi generali dell’ordinamento dell’UE e, indirettamente, alla CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nonostante il riconoscimento alla Carta dei diritti dello stesso valore giuridico dei trattati esprime L. Daniele, La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona: un quadro d’insieme, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, 650-652 che giustifica la permanenza de suddetto richiamo solo in relazione alla mancata accettazione dell’efficacia giuridica della Carta dei diritti ad opera del Regno Unito e della Polonia, come risultante dal Protocollo n. 30 allegato al Trattato di Lisbona. (15) Sulla funzione di integrazione della CEDU rispetto ai principi generali dell’ordinamento dell’UE si veda, ben prima delle modifiche normative in commento, F. Salerno, voce Principi generali di diritto (diritto internazionale), in Dig. disc. priv., sez. pubbl., 1996, Vol. IX, 524 e ss. il quale evidenzia come già prima del richiamo alla CEDU contenuto nell’art. F, § 2 del Trattato sull’Unione europea (risultante dalle modifiche del Trattato di Maastricht) la stessa CEDU fosse considerata espressione di principi generali di diritto vigenti negli Stati membri e come, a seguito dell’introduzione del menzionato art. F e del richiamo ivi contenuto alla CEDU ed alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, la Convenzione, lungi dal porsi in contrasto in termini di contenuto con le stesse tradizioni costituzionali, abbia acquisito il ruolo di catalogo puntuale dei diritti fondamentali garantiti negli Stati membri. Sottolinea l’importanza del Trattato di Lisbona ai fini dell’accresciuta intensità dei rapporti tra diritto dell’Unione europea e CEDU avendo particolare riguardo agli organi giurisdizionali G. Harpaz, The European Court of Justice and its relations with the European Court of Human Rights: the quest for enhanced reliance, coherence and legitimacy, in Common Market Law Review, 2009, 105-141. (16) Sul punto si veda E. Cannizzaro, Diritti «diretti» e diritti «indiretti»: i diritti fondamentali tra Unione, CEDU e Costituzione italiana, in Il diritto dell’Unione europea, 2012, 26-27. (17) A questo proposito, si veda la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia che ha da sempre posto su un piano di parità la CEDU e le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ai fini della ricostruzione dei principi generali in argomento. In particolare, si veda la sentenza del 14 marzo 1974, relativa alla causa C-4/73, J. Nold-und Baustoßgrosshandlung c. Commissione, la sentenza del 13 dicembre 1979, relativa alla causa C-44/79, L. Hauer c. Land Rheinland-Pfzalz, la pronuncia dell’11 luglio 1989, relativa alla causa C-265/87, H. Shrader HS Kraftfutter GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Gronau e la sentenza del 13 luglio 1989, relativa alla causa C-5/88, H. Wachauf c. Germania. (18) Per «trattatizzazione» intendendosi l’acquisizione da parte della Carta dei diritti del medesimo valore giuridico dei trattati espressamente sancita dall’art. 6, § 1, del TUE. (19) Così la sentenza della Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80. (20) In questo senso, R. Cafari Panico - L. Tomasi, Il futuro della CEDU tra giurisprudenza costituzionale e diritto dell’Unione, cit., 195. (21) Per una valorizzazione della CEDU, ritenuta fonte di particolare significato ai fini della ricostruzione dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea, si veda la sentenza del 21 settembre 1989, relativa alle cause riunite C-46/87 e C-227/88, Hoechst AG c. Commissione nonché la pronuncia del 18 giugno 1991, relativa alla causa C-260/89, Elliniki Radiophonia Tileorassi AE c. Dimotiki Etairia Pliroforissis e Sotirios Kouvelas. (22) Si veda la sentenza della Corte di giustizia del 17 febbraio 1998, relativa alla causa C249/96, Lisa Jacqueline Grant c. South-West Trains Ltd. In dottrina, si veda D. Simon, Des influénces reciproques entre CJCE et CEDH: «je t’aime, moi non plus»?, in Pouvoirs, 2001, 96, 31 e ss., nonché, più recentemente, A. Tizzano, Les cours européenes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, in Il diritto dell’Unione europea, 2011, 29 e ss. il quale precisa che i giudici della Corte di giustizia possono non conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che mettano a repentaglio i principes identitaires et fondamentaux de l’Union; scenario comunque che appare realisticamente poco probabile. A favore di un vero e proprio vincolo degli indirizzi giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della CEDU nel contesto dell’ordinamento interno si è invece espressa la nostra Corte costituzionale nella sentenza 11 novembre 2010, n. 317, ove la medesima Corte ha precisato che essa non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione. Sul punto, in senso critico, si veda E. Cannizzaro, Il bilanciamento fra i diritti fondamentali e l’art. 117, 1° comma, Cost., in Rivista di diritto internazionale, 2010, 128 e ss. (23) Si veda, in particolare, la raccomandazione dell’Assemblea del Consiglio d’Europa n. 1439 del 2000, ove si invitava la Comunità ad aderire alla CEDU ed il più ampio rapporto del Committee on Legal Affairs and Human Rights n. 8611 del 14 gennaio 2000. Al riguardo, si veda T. Groppi, Commento all’art. 52, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A Celotto, cit., 358-359. (24) Così R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, cit., 438. Sull’istituto dell’interpretazione conforme nell’ambito del diritto costituzionale, del diritto comunitario e della CEDU si veda A. Celotto - G. Pistorio, Interpretazioni comunitariamente e convenzionalmente conformi, in Giur. it., 2010, 1979 e ss. nonché G. Pistorio, I «limiti» all’interpretazione conforme: cenni su un problema aperto, in Rivista AIC, 2011, n. 2, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. (25) La giurisprudenza costituzionale tedesca, sulla base di un’interpretazione sistematica di talune previsioni del Grundgesetz, ha elaborato un principio di «favore per il diritto internazionale» che si esplicita in un onere per il giudice comune di interpretazione conforme dei diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento interno alla CEDU, fungendo questa da sussidio interpretativo (Auslegungshilfen) rispetto ai primi. Merita precisare che il principio in parola muove non già da una superiorità gerarchica della CEDU – che, anzi, possiede il rango della relativa legge di esecuzione nell’ordinamento interno e non assurge a parametro di costituzionalità – quanto dalla particolare rilevanza della materia dei diritti fondamentali e dalla necessità di evitare responsabilità delle autorità tedesche sul piano internazionale. Su tale principio – affermato già in una risalente sentenza del 1987 e ribadito più di recente dal Bundesverfassungsgericht nell’ordinanza n. 1481 del 14 ottobre 2004, Görgülü – si vedano A. Di Martino, Il Tribunale costituzionale tedesco delimita gli effetti nel diritto interno delle sentenze della Corte europea dei diritto dell’uomo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, cit., 424-430. (26) Sotto questo profilo, appare significativa la posizione assunta dall’Avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni del 6 maggio 2010, relative alla causa C-104/09, Pedro Manuel Roca Álvarez c. Sesa Start España ETT SA, in cui, al fine di ovviare alla dubbia efficacia orizzontale delle disposizioni contenute nella Direttiva n. 76/207/Cee in un’ottica di restaurazione della parità di trattamento tra uomo e donna nel contesto della disciplina spagnola di riduzione dell’orario lavorativo per esigenze legate alla cura dei figli, si delinea lo strumento dell’interpretazione conforme quale valida alternativa alla disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con la normativa dell’ordinamento dell’Unione, fermo restando lo scopo ultimo, consistente nella piena efficacia del diritto dell’ordinamento UE. A favore di un maggior peso dell’interpretazione conforme si schiera anche R. Morelli, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del Trattato di Lisbona, cit., 437440. (27) Si veda, al riguardo, l’art. 51 della Carta dei diritti ove prevede che le relative disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, non derivando dalla Carta dei diritti alcuna estensione dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione o, comunque, l’introduzione di competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione. (28) Si veda la citata sentenza della Corte cost. n. 80 del 2011, laddove afferma, sulla base anche degli orientamenti della giurisprudenza della Corte di giustizia, che i principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali, essendo viceversa tali principi inapplicabili nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario. (29) Si veda la sentenza della Corte di giustizia 2 febbraio 1989, relativa alla causa C-186/87, Ian William Cowan c. Tresor Public, in cui la Corte, nel valutare la violazione del principio di non discriminazione in relazione ad una normativa relativa al risarcimento dei danni fisici subiti da un turista inglese che si era recato in Francia, ha precisato, al § 19, che se la legislazione penale e le norme di procedura penale, nel novero delle quali rientra la controversa disposizione nazionale, sono in linea di principio riservate alla competenza degli Stati membri, tuttavia dalla giurisprudenza costante della Corte risulta che il diritto comunitario pone dei limiti a tale competenza. Le norme considerate non possono infatti porre in essere discriminazioni nei confronti di soggetti cui il diritto comunitario attribuisce il diritto alla parità di trattamento né limitare le libertà fondamentali garantite dal diritto comunitario. Nella medesima direzione «estensiva» dell’ambito applicativo del principio di non discriminazione si veda anche la successiva sentenza della Corte di giustizia del 5 giugno 2008, relativa alla causa C-164/07, James Wood c. Fonds de garantie des victimes des actes de terrorisme et d’autres infractions. Sotto un profilo più generale, va rilevato come il principio di eguaglianza abbia conosciuto un’importante evoluzione nel corso dei decenni della costruzione europea. In una prima fase – che ha preso avvio negli anni Settanta del secolo scorso – si è assistito ad una progressiva affermazione del principio di eguaglianza in senso formale sotto il profilo dell’ampliamento del suo ambito di operatività sia ratione materiae – con l’adozione di atti di diritto comunitario derivato volti a rendere il principio de quo applicabile a situazioni non espressamente previste dal Trattato, quali quello dell’impiego, della maternità e della previdenza sociale in relazione alla non discriminazione in base al sesso – sia ratione subiecti, a seguito dell’ampliamento operato dalla Corte di giustizia in merito all’ambito applicativo della libera prestazione dei servizi, ritenuta applicabile a tutti coloro che si spostano in un altro Stato membro a prescindere dal fatto che lo facciano per effettuare o ricevere una prestazione. Il Trattato di Maastricht prima e quello di Amsterdam poi hanno segnato, invece, l’avvio del riconoscimento della dimensione sostanziale del principio di eguaglianza, che, peraltro, viene per la prima volta posto tra gli obiettivi che Comunità ed Unione europa debbono perseguire ed esteso – per mezzo dell’allora art. 13 del Trattato CE – anche a settori estranei all’ambito della concorrenza e del mercato. Il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti costituiscono l’ultimo passaggio di quest’evoluzione, non ancora conclusa, con l’affermazione all’art. 21 della stessa Carta di un generale divieto di discriminazione, che in tal modo supera la tassatività delle cause di discriminazione che connotava il precedente art. 13 del Trattato CE. In tutto questo percorso evolutivo, significativo è stato l’apporto della giurisprudenza della Corte di giustizia: oltre alle menzionate pronunce Cowan e James Wood in tema di ambito di applicazione del principio di non discriminazione, non può trascurarsi l’indirizzo emerso in tempi più recenti in merito alla fonte del principio stesso e ad alcune sue specifiche declinazioni. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza del 22 novembre 2005, relativa alla causa C-144/04, Werner Mangold c. Rüdiger Helm e alla successiva pronuncia del 19 gennaio 2010, relativa alla causa C-555/07, Seda Kucukdeveci c. Swedex, in cui la Corte ha affermato, con specifico riferimento al principio di non discriminazione in base all’età, che esso trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, in tal modo superando l’ostacolo derivante dall’inapplicabilità nella specie della clausola di non discriminazione prevista dalla Direttiva n. 2000/78/CE per la mancata scadenza del termine utile per il relativo recepimento e la difficoltà, non meno rilevante, in merito agli effetti solo verticali e non anche orizzontali delle norme chiare, precise ed incondizionate contenute in direttive non recepite. Tale evoluzione del principio di non discriminazione trova riscontro in analisi del medesimo principio legate anche a fattori diversi da quello dell’età, come, ad esempio, è avvenuto per la non discriminazione in base al sesso nella sentenza del 30 settembre 2010, relativa alla causa C-104/09, Pedro Manuel Roca Álvarez c. Sesa Start España ETT SA, e nella successiva pronuncia dell’11 novembre 2010, Dita Danosa c. LKB Līzings SIA, e, da ultimo, sta conducendo al vaglio ad opera della stessa Corte di Giustizia della coerenza delle norme contenute in atti di diritto derivato con il medesimo principio di non discriminazione, come avvenuto nella sentenza del 1° marzo 2011, relativa alla causa C236/09, Association Belge des Consommateurs Test-Achats ASBL e altri c. Conseil des ministres. Se è ben vero che, allo stato, il principio in discorso appare sprovvisto del carattere di universalità e che permangono talune difficoltà – comunque temperate dai menzionati orientamenti giurisprudenziali – ad affermare l’operatività del principio stesso nei settori della fiscalità estranei all’area di influenza del diritto dell’UE, non può comunque trascurarsi come sia in corso una lenta ma progressiva evoluzione volta a ricomprendere, quantomeno in modo indiretto, le misure di natura tributaria entro il perimetro di interesse delle istituzioni europee, facendo leva sulla crescente attenzione delle stesse istituzioni verso tematiche di coesione sociale che, in quanto tali, ben possono coinvolgere la leva tributaria in funzione del raggiungimento di finalità più ampie e generali. Sull’evoluzione del principio di non discriminazione e, in particolare, sulle vicende legate alla giurisprudenza Mangold e Kucukdeveci si vedano L. Cappuccio, Il caso Mangold e l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria sul principio di non discriminazione, in AA.VV., Dieci casi sui diritti in Europa, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2011, 111-124; A. D’Aloia, Il principio di non discriminazione e l’integrazione europea «attraverso» la Corte di giustizia: riflessi del caso Mangold, in AA.VV., Dieci casi sui diritti in Europa, a cura di M. Cartabia, Bologna, 2011, 125-137; C. Feliziani, La tutela dei diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona. La Corte di giustizia prende atto della natura giuridica vincolante della Carta di Nizza, in Rivista AIC, 2011, 1, 1-26; M. Marchegiani, Sul principio di non discriminazione in base all’età nell’ordinamento comunitario, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2010, 603-615; M. Pacini, Il principio generale europeo di non discriminazione, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, 779-787. Inoltre, sull’estensione applicativa del principio di non discriminazione anche a fattispecie connotate da un collegamento tenue con il diritto del’Unione europea, si veda S. Amadeo, Il principio di eguaglianza e la cittadinanza dell’Unione: il trattamento del cittadino europeo «inattivo», in Il diritto dell’Unione europea, 2011, 59-94. Con specifico riferimento alla materia tributaria, si veda F. Gallo, L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2013, 50 ss. e 72 (in particolare le note 30, 31 e 32). (30) Così R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Introduzione, cit., 12. (31) Si veda, al riguardo, la sentenza della Corte di giustizia 12 novembre 1969, relativa alla causa C-29/69, Stauder e la successiva pronuncia del 17 dicembre 1970, relativa alla causa C11/70, Internationale Handelsgesellschaft. Particolarmente rilevante è stata anche la giurisprudenza della Corte di giustizia riferita al diritto di proprietà, di cui alla successiva nota n. 43. Sul punto si veda anche R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, Introduzione, cit., 13-14. (32) Si veda, al riguardo, A. Lo Giudice, L’Unione europea dopo Lisbona. Dal primato dei diritti alla costruzione di uno spazio sociale, in AA.VV., L’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, a cura di N. Parisi - V. Petralia, Torino, 2011, 223 e ss., il quale evidenzia che l’effettività dei diritti sociali passa per il grado di efficacia dello strumento tuttora più utilizzato per la definizione di politiche sociali di portata europea, vale a dire il metodo di coordinamento aperto, il quale, se da un lato favorisce il coordinamento in un contesto sovrastatale in relazione a materie ove l’azione di armonizzazione è più difficile, dall’altro lato annette un ruolo comunque centrale agli Stati nazionali, ciò che può condurre ad una race to the bottom negli standard di protezione sociale, data l’assenza di soglie minime predeterminate e di obiettivi precisi. Sebbene non aiuti, non sembra comunque costituire un ostacolo invalicabile il mancato ampliamento delle competenze delle istituzioni dell’Unione; mancato ampliamento espressamente ribadito anche dall’art. 6, § 2 del TUE. Si è rilevato infatti – si veda A. Alaimo - B. Caruso, Dopo la politica i diritti: l’Europa «sociale» dopo il Trattato di Lisbona, in AA.VV., L’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, a cura di N. Parisi - V. Petralia, Torino, 2011, 203 – che non solo l’attivismo della Corte di giustizia ha condotto in passato ad un’applicazione di taluni principi fondamentali – è il caso del principio di non discriminazione, su cui si veda la giurisprudenza citata nella precedente nota n. 29 – al di là della sfera di competenze delle istituzioni europee, ma anche che – si veda M. Cartabia, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona. Verso nuovi equilibri?, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, 222 – la storia degli Stati federali mostra l’esistenza di una forza di pressione considerevole che i diritti tendono ad esplicare sul riparto delle competenze, chiaramente a favore di un movimento centripeto. (33) Non è questa la sede per analizzare compiutamente tutte le possibili interrelazioni. Per una recente analisi dei profili europei – intesi come comprensivi tanto della CEDU quanto dell’ordinamento dell’Unione europea – dei diritti fondamentali dei contribuenti, si veda S. Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, retro, 2012, I, 308 e ss. (34) Si tratta della nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia. Per un commento si veda M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. dir. trib., 2002, 571 e ss. (35) Si vedano, per tutti, A. Bodrito – A. Marcheselli, Questioni attuali in tema di giusto processo tributario nella dimensione interna e internazionale, in Riv. dir. trib., 2007, 723-793; L. Del Federico, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e art. 111 Cost. Nota alla sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, 17 giugno 2004, n. 11350, in GT - Riv. giur. trib., 2005, 154-159; S. Dorigo, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario nella giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 42 e ss.; F. Gallo, Verso un «giusto processo» tributario, in Rass. trib., 2003, 11-41; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 11 e ss.; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 11-58. (36) Sulla rilevanza del carattere della patrimonialità della pretesa fatta valere ai fini della ricomprensione della relativa controversia nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della CEDU si veda M. Chiavario, Art. 6 Diritto ad un processo equo, in AA.VV., Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi, Padova, 2001, 167. (37) Si veda, al riguardo, il documento n. 2007/C 303/02, Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in G.U.U.E. n. C 303 del 14 dicembre 2007, 30 ove, sulla scorta anche della giurisprudenza comunitaria, si precisa, con riferimento all’art. 47 della Carta dei diritti, che nel diritto dell’Unione il diritto a un giudice non si applica solo a controversie relative a diritti e obblighi di carattere civile. Nel medesimo senso si veda altresì M. D’Amico, Commento all’art. 47, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, cit., 322. Sotto questo profilo, dunque, trova applicazione il principio del massimo standard di tutela cui, come detto, è informato il rapporto tra CEDU e Carta dei diritti: posto che, nella specie, si assiste ad una maggior tutela – almeno con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione – accordata dalla Carta dei diritti, ci troviamo dinanzi ad una delle ipotesi prefigurate dal secondo periodo dell’art. 52, § 3 della Carta dei diritti, ove si dispone l’assenza di limiti ad eventuali tutele più estese accordate dalla stessa Carta dei diritti rispetto alla CEDU. (38) Si vedano le ampie disamine di A. Bodrito - A. Marcheselli, Questioni attuali in tema di giusto processo tributario nella dimensione interna e internazionale, cit., 723-793; F. Gallo, Verso un «giusto processo» tributario, cit., 11 e ss.; P. Russo, Il giusto processo tributario, cit., 11 e ss.; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, cit., 11 e ss. (39) Ciò in virtù di quanto previsto dall’art. 51 della Carta dei diritti, riportato nella precedente nota n. 27. Quanto alle situazioni processuali che possono considerarsi ricadenti nel perimetro dell’attuazione del diritto dell’Unione, si pensi, a titolo di esempio, alle ipotesi di applicabilità del principio di non discriminazione – sub specie delle diverse libertà fondamentali garantite dal TFUE – ovvero alla disciplina in materia di aiuti di Stato. Per una conferma, a contrario, che le ipotesi in cui si faccia luogo all’invocazione delle libertà fondamentali rientrano nell’attuazione del diritto dell’Unione si veda la sentenza della Corte di giustizia del 1° marzo 2011, relativa alla causa C-457/09, Claude Chartry c. État belge, § 25. (40) Si vedano, ex multis, F. Buonuomo, La tutela della proprietà dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2005, 73 e ss.; F. Manganaro, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto di proprietà, in Diritto amministrativo, 2008, 379 e ss.; M.L. Padelletti, Art. 1 Protezione della proprietà, in AA.VV., Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi, Padova, 2001, 801 e ss.; M.L. Padelletti, La tutela della proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2003, 174 e ss.; M.L. Padelletti, Commento all’art. 1, in AA.VV., Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole - De Sena - V. Zagrebelsky, Padova, 2012, 791 e ss.; C. Panzarino, Il diritto di proprietà nell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Rassegna di giurisprudenza, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 2003, 340-341. (41) Al riguardo, sia consentito rinviare alla disamina condotta in G. Melis - A. Persiani, Riscossione coattiva e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcune riflessioni, in Rass. trib., 2011, 901-923. (42) Si veda, al riguardo, A. Lucarelli, Commento all’art. 17, in AA.VV., L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco - M. Cartabia - A. Celotto, cit., 142 ove afferma che il profilo individualistico, inteso come stretta relazione tra individuo, diritto di godimento e bene, è decisamente accentuato nell’art. 17, comprimendo, in parte, il nesso funzionale tra soddisfazione di bisogni individuali e bisogni collettivi. (43) Il riferimento è, in particolare, alla fondamentale sentenza del 14 maggio 1974, relativa alla causa C-4/73, J. Nold, Kohlen- und Baustoffgrosshandlung c. Commissione, ove la Corte di giustizia ha precisato che le limitazioni dei diritti proprietari non solo devono essere giustificati dagli obiettivi d’interesse generale perseguiti dalla Comunità, ma devono anche far sì che non resti lesa la sostanza dei diritti stessi; profilo quest’ultimo da accertarsi avendo riguardo al principio di proporzionalità e, in particolare, al requisito di necessità, come precisato dalla stessa Corte nella sentenza del 13 dicembre 1979, relativa alla causa C-44/79, Liselotte Hauer c. Land Rheinland-Pfalz, § 19. Nella medesima direzione si veda altresì la sentenza del 7 febbraio 1985, relativa alla causa C-240/83, Procuratore della Repubblica c. Association de defense des bruleurs d’huiles usagees e la pronuncia dell’8 ottobre 1986, relativa alla causa C-234/85, Procedimento penale a carico di Franz Keller. In dottrina si veda L. Daniele, La tutela del diritto di proprietà e del diritto al libero esercizio delle attività economiche nell’ordinamento comunitario e nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Il Diritto dell’Unione europea, 1998, 53 e ss. (44) Si vedano le proposte delineate dalla commissione nel documento COM (2010) 608 del 27 ottobre 2010, Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva. 50 proposte per lavorare, intraprendere e commerciare insieme in modo più adeguato, in tema di rafforzamento della solidarietà nel mercato unico (23-25) e di promozione dell’economia sociale di mercato (26-28), ove si afferma, tra l’altro, che il Trattato di Lisbona e l’affermazione del concetto di economia sociale di mercato altamente competitiva tra gli obiettivi chiave [...] costringe ad una visione più completa del mercato unico. Le libertà economiche e le libertà di azioni collettive devono essere «armonizzate». [...] Le libertà di un mercato unico devono essere valorizzate a vantaggio dei più forti e dei più deboli. Tutti devono poter beneficiare delle opportunità del mercato unico, anche i disabili e gli anziani e si delineano proposte volte a sostenere ed accompagnare lo sviluppo di progetti imprenditoriali innovativi sul piano sociale. Ancora, nel successivo documento COM (2011) 206 del 13 aprile 2011, L’Atto per il mercato unico. Dodici leve per stimolare la crescita e rafforzare la fiducia. Insieme per una nuova crescita, con riferimento alla coesione sociale, si legge che la commissione proporrà [...] una legislazione trasversale che permetta di chiarire l’esercizio delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi accanto ai diritti sociali fondamentali, tra cui il diritto di azione collettiva, conformemente alla legislazione e alle prassi nazionali e nel rispetto del diritto dell’Unione e, ancora, con riferimento all’imprenditoria sociale, che la stessa commissione proporrà una legislazione mirante a creare un quadro europeo che garantisca lo sviluppo dei fondi d’investimento solidale. Un importante accento sui profili sociali si può rilevare anche nel documento COM (2012) 173 del 18 aprile 2012, Verso una ripresa fonte di occupazione, dedicato al mercato del lavoro. (45) Si tratta della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 30 giugno 2011, n. 8916/05, Affaire Association les Témoins de Jéhovah c. France. (46) Si veda la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 13, ove si riporta il passaggio del provvedimento di rifiuto della concessione del regime di esenzione in parola, negato in quanto l’associazione n’ayant pas obtenu à ce jour d’autorisation préfectorale ou ministérielle de recevoir des dons ou legs en franchise de droits de mutation à titre gratuit, elle ne peut bénéficier des dispositions de l’article 795-10. (47) In particolare, l’art. 9 della CEDU dispone al § 1 che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti e al § 2 prosegue stabilendo che la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui. (48) Così la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 46: si la taxation litigieuse était confirmée, il en résulterait la saisine et la vente du Béthel, ce qui entraînerait la perte d’un lieu de culte. La pratique collective d’une religion implique de pouvoir s’appuyer sur des ressources matérielles et celles-ci sont généralement le fruit des offrandes des fidèles. Elle implique le droit de louer ou d’acquérir un lieu de culte et de préparer des manuels. Les offrandes sont de nature religieuse et représentent sa principale ressource soit 86,47%. Leur taxation aboutirait inévitablement à la liquidation, l’Etat pouvant mettre en vente les biens hypothéqués. (49) Si veda al riguardo la citata sentenza n. 8916/05, Témoins de Jéhovah, § 52. (50) Si veda la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 20 settembre 2005, n. 68741/01, CBC-Union SRO c. Czech Republic, 14 ottobre 2010, n. 23759/03, Shchokin c. Ukraine, 7 luglio 2011, n. 39766/05, Serkov c. Ucraina e 20 settembre 2011, n. 14902/04, OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia. (51) Si veda, al riguardo, il documento n. 2007/C 303/02, Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, cit., 21. (52) Si veda la sentenza 5 luglio 2012 relativa alla causa C-318/10, Société d’investissement pour l’agriculture tropicale SA (SIAT) c. Stato belga, relativa ad una normativa belga che prevedeva l’indeducibilità di determinate spese per prestazioni di servizi allorché queste fossero state sostenute nell’ambito di operazioni intercorse con soggetti residenti in Stati ove i relativi ricavi non erano tassati o, comunque, non erano tassati in modo congruo. Ebbene, in tale contesto la Corte di giustizia, pur ammettendo che una tale disciplina restrittiva potesse ritenersi idonea a perseguire esigenze di contrasto all’evasione fiscale, di preservazione dell’efficacia dei controlli fiscali e di salvaguardia della ripartizione della potestà impositiva, ha comunque ritenuto la medesima disciplina non in linea con il criterio di necessità a motivo dell’inadeguata delimitazione da parte del legislatore dell’ambito applicativo della disciplina, evidenziando – al § 56 della sentenza – che essa può essere applicata in assenza di qualsivoglia criterio oggettivo e verificabile da parte di terzi che possa servire da indizio dell’esistenza di una costruzione di puro artificio, priva di realtà economica, al fine di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati dalle attività svolte sul territorio nazionale, in quanto viene preso in considerazione solo il livello impositivo cui è assoggettato il prestatore di servizi nello Stato membro ove è stabilito. (53) Volendo ipotizzare un risvolto pratico di tale giurisprudenza, può porsi mente alla vicenda di stretta attualità della normativa in tema di esenzione (prima dall’ICI e, successivamente) dall’IMU degli immobili destinati a particolari attività considerate meritevoli sotto il profilo sociale. Il riferimento è, in particolare, all’art. 7, 1° comma, lett. i), del d.lgs. n. 504 del 1992 che esenta da imposizione gli immobili utilizzati, tra l’altro, per attività di religione o di culto purché gli immobili siano a ciò esclusivamente destinati. Tale disposizione, che già in passato aveva formato oggetto di un vasto contenzioso e dal quale erano emersi diversi indirizzi interpretativi – un tentativo di chiarimento dell’ambito applicativo della disposizione in discorso era stato effettuato dal legislatore del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, che aveva provveduto all’inserimento nel corpo dell’art. 7 del d.lgs. n. 504 del 1992 di un comma 2-bis, in base al quale si disponeva che l’esenzione disposta dall’art. 7, 1° comma, lett. i), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale – è stata recentemente modificata dall’art. 91-bis del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, ha subordinato l’applicazione dell’esenzione non solo alla destinazione esclusiva dell’immobile, o di una sua parte, allo svolgimento dell’attività socialmente meritevole, ma anche a che l’attività stessa sia svolta con modalità non commerciali, prevedendosi che, nel caso in cui non sia possibile stabilire in modo puntuale la porzione dell’immobile effettivamente utilizzata per lo svolgimento dell’attività rilevante, debba adottarsi un criterio proporzionale avendosi riguardo alle modalità stabilite da un decreto ministeriale avente natura regolamentare. Ebbene, in un quadro di scarsa chiarezza normativa e complesso sotto il profilo interpretativo – e, dunque, di difficile comprensione e applicazione per i contribuenti interessati – il Consiglio di Stato ha reso un primo parere (parere del Consiglio di Stato 4 ottobre 2012, n. 4180) fortemente critico in merito allo schema di decreto elaborato dal Ministero dell’Economia, sottolineando come esso si fosse spinto a stabilire, in modo peraltro assai eterogeneo, criteri per la qualificazione della natura commerciale o meno delle modalità di esercizio dell’attività; criteri, questi, affatto estranei al compito assegnato alla normazione di rango secondario e, dunque, eccedenti rispetto all’ambito di effettiva disciplina. Ora, ponendosi nell’anzidetta prospettiva di disposizioni che siano quanto più possibile coerenti con i canoni di chiarezza e prevedibilità applicativa auspicati sia dalla Corte di Strasburgo quanto dalle istituzioni dell’Unione europea, non può non rilevarsi come l’incertezza applicativa che il susseguirsi degli interventi sta determinando non contribuisca affatto a precisare l’ambito applicativo di una previsione di assoluto rilievo, in quanto di interesse per tutti gli enti operanti nel settore del c.d. «no profit». Né, peraltro, il profilo di prevedibilità nell’applicazione della normativa sembra essere significativamente migliorato a seguito dell’ulteriore e recente intervento di cui all’art. 9, 6° comma, del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 – convertito, con modificazioni, dalla l. 7 dicembre 2012, n. 213 – che, integrando la previsione di cui al citato art. 91-bis, ha assegnato al regolamento ministeriale anche il compito di stabilire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui all’art. 7, 1° comma, lett. i) del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, come svolte con modalità non commerciali: i criteri stabiliti dal regolamento ministeriale per lo svolgimento con modalità non commerciali delle attività rilevanti sono ben lungi, infatti, dal poter formare oggetto di univoca interpretazione. Come puntualmente rilevato dal secondo parere reso dal Consiglio di Stato sulla questione (parere del Cons. Stato, 13 novembre 2012, n. 4802) tali criteri – e, in particolare, quello riferito all’attività assistenziale e sanitaria da svolgersi dietro versamento di importi non superiori alla metà di quello medio previsto per le stesse attività convenzionate o contrattualizzate svolte nello stesso ambito territoriale – appaiono di difficile applicazione. Orbene, non si vede come i contribuenti interessati possano procedere «senza timori» all’applicazione di una normativa che, allo stato, presenta non trascurabili complessità di attuazione pratica, tenuto conto, peraltro, della risoluzione del Dipartimento delle Finanze 3 dicembre 2012, n. 1, che ha ritenuto le previsioni in merito allo svolgimento con modalità commerciali delle attività applicabili già a partire dal periodo d’imposta in corso (e giunto quasi al termine). Con la conseguenza che i contribuenti interessati si sono visti costretti a determinare la debenza o meno dell’IMU sulla scorta di norme emanate solo da pochi giorni e che presentano non poche complessità applicative (si pensi, ad esempio, con riferimento all’attività didattica, alle difficoltà di definire compiutamente il criterio dei corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio). Sotto altro profilo, poi, non può trascurarsi come solo in tempi assai recenti – il riferimento è, in particolare, alla decisione della Commissione europea del 19 dicembre 2012 – si siano dissolti i dubbi in punto di compatibilità comunitaria della disciplina specificamente riferita all’IMU dovuta dagli enti «no profit» con la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato. (54) Sul punto si veda la compiuta e puntuale analisi giurisprudenziale di S. Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, cit., 331-338. (55) Si vedano al riguardo le riflessioni di L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 333-337. (56) Si veda la relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 4829 relativo alla conversione in legge del d.l. n. 201 del 2011 presentato alla Camera dei Deputati il 6 dicembre 2011. (57) In questo senso si vedano anche le notazioni di A. Marcheselli, Obbligo di collaborare con il Fisco e diritto di tacere: violazione del diritto comunitario?, in Corr. trib., 2012, 2533 e ss. (58) Sul tempus commissi delicti riferito a tali fattispecie si vedano anche i chiarimenti della circolare dell’Agenzia delle entrate 4 agosto 2000, n. 154/E. (59) Tra i tanti, si veda W. Schön, Tax competition in Europe – the legal perspective, in EC Tax Review, 2000, 104. Si vedano anche le argomentazioni di F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, relazione presentata al Convegno di studio Per una Costituzione fiscale europea, Bologna, 28 e 29 ottobre 2005. (60) Comunicazione della commissione al Consiglio COM (2000) 114 del 14 marzo 2000, Contributo supplementare della commissione alla Conferenza intergovernativa sulle riforme istituzionali. Il voto a maggioranza qualificata per gli aspetti relativi al Mercato unico nei settori dell’imposizione fiscale e della sicurezza sociale. Va detto che la commissione ha fatto balenare qualche volta anche la possibilità di intervenire mediante la procedura a maggioranza di cui all’attuale art. 116 del TFUE, che fornisce la base giuridica per l’adozione a maggioranza da parte della commissione di provvedimenti nel caso di distorsioni della concorrenza nel mercato interno: si veda, ad esempio, la Comunicazione della commissione al Consiglio COM (2001) 260, § 4.2. Tuttavia, in concreto essa non vi ha mai fatto ricorso: si vedano B. Terra - J. Wattel, European Tax Law, L’Aia, 2005, 21. (61) F. Vanistendael, Memorandum on the Taxing Powers of the European Union, in EC Tax Review, 2002, 120 ss. (62) Si tratta delle cosiddette «passerelle tributarie». Si veda G. Bizioli, Imposizione e costituzione europea, in Riv. dir. trib., 2005, 233 ss. (63) Si pensi, ad esempio, all’istituzione di una imposta di tipo europeo (ad esempio, sull’energia) soltanto in taluni Stati membri, che finirebbe per attrarre investimenti in quegli Stati in cui tale imposta non esiste. Va rilevato, invero, che sul fronte dell’utilizzo della cooperazione rafforzata in ambito fiscale sembra potersi assistersi ad una significativa evoluzione: nel contesto dell’imposta sulle transazioni finanziarie – di cui diremo al successivo § 8 – la commissione, al fine di superare le divergenze di opinione degli Stati membri in ordine alla’istituzione di un tale tributo e prendendo atto dell’esistenza di una volontà favorevole all’adozione dell’imposta da parte di undici Stati (precisamente, Belgio, Germania, Estonia, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Austria, Portogallo, Slovenia e Slovacchia), ha proposto al Consiglio l’adozione di una decisione di autorizzazione alla cooperazione rafforzata in tale ambito in base all’art. 329, § 1, del TFUE. Al momento, gli Stati non partecipanti a tale cooperazione rafforzata hanno richiesto ulteriori valutazioni sull’incidenza dell’istituenda imposta sulle dinamiche concorrenziali del mercato interno. Si vedano, in proposito, il documento della commissione COM (2012) 631 del 25 ottobre 2012 ed il documento del Consiglio n. 16051 del 2012 relativo alle decisioni del Consiglio ECOFIN adottate nella riunione del 13 novembre 2012. (64) Ad esempio, con riferimento alla tassazione dei dividendi, si veda la comunicazione della commissione al Consiglio COM (2003) 810 del 19 dicembre 2003, Dividend taxation of individuals in the Internal Market; in merito al regime delle perdite transfrontaliere, si veda la comunicazione della commissione al Consiglio COM (2006) 824 del 19 dicembre 2006, Tax treatment of losses in cross-border situations; quanto, infine, alle exit taxes, si veda la comunicazione della commissione al Consiglio COM (2006) 825 del 19 dicembre 2006, Exit taxation and the need for co-ordination of Member States’ tax policies. (65) Così F. Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, in Sociologia del diritto, 1993, 80 e ss. Si veda anche M. Orlandi, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, Napoli, 1995, 91 e ss., che ne evidenzia l’importanza in relazione alle tipologie di aiuti non ancora interessate da una disciplina organica di diritto comunitario derivato. (66) Sugli effetti della soft law, si veda B. Pastore, Soft law, gradi di normatività, teoria delle fonti, in Lavoro e diritto, 2003, 5 e ss., per il quale l’espressione soft law è generalmente usata per indicare una serie di atti, non omogenei quanto ad origine e natura, che, pur privi di effetti giuridici vincolanti, risultano comunque, in vario modo, giuridicamente rilevanti; F. Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, cit., 80 e ss. secondo il quale si tratta di regole di condotta che, in linea di principio, non sono dotate per legge di forza vincolante ma che, nondimeno, possono produrre effetti pratici; A. Poggi, Soft law nell’ordinamento comunitario, in www.astrid-online.it/rassegna, che evidenzia l’esistenza di tre principali orientamenti sul tema: quello secondo cui la soft law individua una tipologia di atti, quello secondo cui essa delinea una tecnica di regolazione e quello, infine, secondo cui il fenomeno comprenderebbe tanto una tipologia di atti, quanto una tecnica di regolazione. Con riferimento all’ordinamento internazionale, si veda M. Distefano, Origini e funzioni del soft law in diritto internazionale, in Lavoro e diritto, 2003, 17 e ss. (67) Si veda al sentenza della Corte di giustizia del 13 dicembre 1989, relativa alla causa C322/88, Grimaldi. (68) Cfr. P. Mengozzi, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione Europea, Padova, 2003, 184. Con riferimento alle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, si veda B. Conforti, Organizzazione internazionale, in Enciclopedia del Novecento, IV, Roma, 1979, 960, che cita l’esempio delle raccomandazioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) alla rottura delle relazioni commerciali con taluni Stati, la cui esecuzione sarebbe sempre lecita anche se comportante l’inosservanza di trattati bilaterali o multilaterali di commercio. Anche alle comunicazioni della commissione si riconosce un effetto di liceità, in quanto sarebbero idonee ad ingenerare nei destinatari una situazione di legittimo affidamento: si veda A.E. La Scala, Il divieto di aiuti di Stato e le misure di vantaggio nel quadro della politica regionale dell’Unione Europea e degli Stati membri, in Dir. prat. tribut. intern., 2005, 37 e ss. (69) Cfr. V. Guizzi, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, 2003, 313. (70) A. Grau - M. Herrera, The link between tax coordination and tax harmonization, in EC Tax Review, 2003, 34. Sugli atti di soft law nel contesto della disciplina degli aiuti di Stato e sulla loro produzione di effetti giuridici per il tramite dei principi generali dell’ordinamento dell’UE si veda O. Stefan, Hybridity before the court: a hard look at soft law in the EU competition and state aid case law, in European Law Review, 2012, 49-69. (71) Infatti, ben potrebbe accadere che l’atto di soft law sia suscettibile di essere trasformato in hard law nel caso di inerzia degli Stati membri: si pensi, ad esempio, alle comunicazioni della commissione che elevano a «sistema» le conclusioni della Corte di giustizia in tema di non discriminazione o di restrizioni, dove la perdurante presenza di normative incompatibili con il Trattato potrebbe condurre la commissione all’apertura di una procedura di infrazione. In questo senso, dunque, il coordinamento fiscale non sempre rappresenta un modello di azione in aree ove è carente un potere normativo della Comunità, talvolta essendo riconducibile alla volontà di un approccio iniziale più morbido, altre volte essendo frutto dell’impossibilità di superare il vincolo dell’unanimità. (72) Occorre rilevare, peraltro, che anche atti di soft law non direttamente riguardanti la materia fiscale potrebbero, cionondimeno, incidere sulle future iniziative delle istituzioni dell’Unione relative all’assetto dei sistemi tributari nazionali. Riprendendo il tema dei diritti fondamentali consacrati dalla Carta dei diritti, di cui si è detto nei precedenti §§ 2 e 3, la commissione ha proceduto all’elaborazione di una serie di atti di soft law volti ad indirizzare la valutazione ad opera delle istituzioni dell’Unione – e, in primis, della stessa commissione – del grado di compatibilità delle diverse proposte di carattere normativo con i precetti della Carta dei diritti. Si veda, in particolare, la Comunicazione del 27 aprile 2005, n. COM (2005) 172, Rispetto della Carta dei diritti fondamentali nelle proposte legislative della commissione: metodologia per un controllo sistematico e rigoroso, nonché la successiva Comunicazione del 29 aprile 2009, n. COM (2009) 205, Relazione sul funzionamento pratico della metodologia per un controllo sistematico e rigoroso del rispetto della Carta dei diritti fondamentali, ove, più chiaramente, si afferma che è necessario [...] pensare in termini di diritti fondamentali, nonché favorire la «cultura dei diritti fondamentali» fin dalle fasi iniziali di ideazione delle proposte. Tenuto conto del recente attivismo mostrato dalle istituzioni dell’UE nel contesto tributario – tradottosi, al momento, nelle proposte da un lato di istituzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie a livello europeo e, dall’altro lato, di adozione di una rinnovata disciplina della tassazione dell’energia – non sembra illogico ritenere che tali atti di soft law non espressamente riferiti alla materia tributaria possano comunque incidere sull’approccio delle stesse istituzioni nei confronti delle questioni fiscali, portando ad una diversa considerazione dei diritti di natura non economica nel contesto di atti attinenti al momento impositivo. (73) C. Sacchetto, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, in Enc. giur., II, 1988, 1; da ultimo, M. Basilavecchia, L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2009, 361 ss. (74) Ad esse si aggiungevano, sia pure su un piano secondario, l’art. 96 TCE (ora art. 116 TFUE), relativo alla rimozione della disparità delle disposizioni interne che falsano la concorrenza, e l’art. 293 TCE (adesso abrogato), che evidenzia l’obiettivo della eliminazione della doppia imposizione nei rapporti internazionali. Va inoltre ricordato l’art. 174 TCE (ora art. 191 TFUE), che colloca il canone chi inquina paga tra i cardini della politica della Comunità in materia ambientale e riconosce lo strumento tributario quale possibile mezzo per attuarlo: sul tema della fiscalità ambientale, si veda R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, 449 ss.; F. Picciaredda - Selicato, I tributi e l’ambiente, Milano, 1996; F. Gallo - F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1999, 115 e ss.; C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario «chi inquina paga» nei tributi ambientali, ivi, 2003, 1614 ss. (75) Ai sensi dell’art. 8A TCE, introdotto dall’Atto Unico europeo, il mercato interno postula uno spazio senza frontiere interne in cui sono assicurate quattro libertà di circolazione fondamentali, e cioè quelle afferenti alle merci, alle persone, ai servizi e ai capitali. Mentre il mercato comune può essere definito come una zona di libero scambio, il mercato interno coincide con un’area economica integrata in direzione di un’unione economica e monetaria. (76) Sul punto, C. Sacchetto, Armonizzazione fiscale, cit., 1 ss.; F. Tesauro, Profili della fiscalità comunitaria, in Boll. trib., 1988, 1751 ss.; A. Fantozzi, Il sistema tributario italiano verso il mercato unico europeo, in Rass. trib., 1988, 551 ss.; Russo - R. Cordeiro Guerra, L’armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, ivi, 1990, 629 ss.; G. Croxatto, Armonizzazione fiscale e mercato unico europeo, in Soc., 1990, 105 ss.; E. De Mita, L’armonizzazione delle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 1989, 53 ss.; C. Garbarino, Imposizione diretta e imprese multinazionali nella Comunità europea, in Soc., 1991, 1182 ss.; F. Gallo - G. Melis, L’elusione fiscale internazionale nei processi di integrazione tra Stati: l’esperienza della Comunità Europea, in Justiça tributaria: direitos do fisco e garantias dos contribuintes nos atos da administraçao e no proceso tributario (Autori vari), San Paolo, 1998, 165 ss.; F. Amatucci, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 1998, 117 ss.; B. Terra - J. Wattel, European Tax Law, cit., 4. (77) Sull’approccio «minimalista» del Comitato Ruding, v. I. Stitt, Corporate Taxation in the EC, in British Tax Review, 1993, 75 e ss. (78) Sarebbe infatti ingenuo ritenere che l’armonizzazione dei soli aspetti fiscali sia idonea ad eliminare ogni squilibrio concorrenziale tra le imprese, sussistendo ad esempio forti divari anche nel costo del lavoro e del capitale di credito. Si veda al riguardo S. Pininfarina, Competitività delle imprese e sistema fiscale, in L’impegno dell’industria tra l’Italia e l’Europa: Discorsi e interventi in quattro anni di presidenza Confindustria (1988-1992), Roma, 1993, 524 ss. (79) Marchessou, Le conseguenze fiscali del Trattato di Lisbona, in Rass. trib., 2010, 598. Anzi sottolinea E. Kemmeren, After Repeal of Article 293 EC Treaty Under the Lisbon Treaty: the EU Objective of Eliminating Double Taxation Can Be Applied More Widely, in EC Tax Review, 2008, 156-158 come a seguito di tale abrogazione le istituzioni dell’Unione possano perseguire con maggiore convinzione finalità di eliminazione della doppia imposizione nel mercato interno. (80) Questo nuovo approccio prende le mosse dalla comunicazione della commissione al Consiglio COM (90) 601 del 20 aprile 1990, Orientamenti relativi all’imposizione fiscale delle imprese. Sul principio di sussidiarietà in materia fiscale, si veda A. Grau - M. Herrera, The link between tax coordination and tax harmonization: limits and alternatives, cit., 28 ss. Sull’incremento del ricorso alla soft law quale risultato del dibattito sul principio di «sussidiarietà» stabilito nel Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992), si veda F. Snyder, «Soft law» e prassi istituzionale nella comunità europea, cit., 80 ss. Quanto all’esperienza, per certi versi analoga, del diritto commerciale, v. J. Wouters, European Company Law: quo vadis?, in Common Market Law Review, 2000, 272. (81) Cfr. F. Bolkestein, The future of European tax policy, in EC Tax Review, 2002, 19 ss. (82) Questo approccio coinvolge, a seguito del vertice di Lisbona (23-24 marzo 2000), anche la politica economica, in cui gli Stati membri perseguono obiettivi comuni, ma sono liberi di adottare forme di implementazione secondo le circostanze che si presentano a livello nazionale e nell’ambito dei rispettivi frameworks istituzionali: v. I. Begg, Future fiscal arrangements of the European Union, in Common Market Law Review, 2004, 775 ss. Ancor più significativa appare la vicenda delle politiche occupazionali e sociali, dove si utilizza il concetto di «metodo di coordinamento aperto», vera e propria forma di cooperazione (o pratica di concertazione, che dir si voglia) «istituzionalizzata», fondata sugli artt. 147, 148, 151 e 143 del TFUE (elaborazione annuale da parte del Consiglio, su proposta della commissione, delle guidelines per gli Stati membri; esame da parte del Consiglio dell’attuazione di tali politiche nei vari Stati membri; relazione annuale del Consiglio sull’attuazione degli orientamenti; ecc.): si veda F. Bano, Diritto del lavoro e nuove tecniche di regolazione: il soft law, in Lavoro e diritto, 2003, 48 ss., per il quale siamo in presenza di un metodo istituzionalizzato di azione comunitaria, nel quale si rinvengono atti e procedure la cui rilevanza trascende la sfera puramente politica, per produrre effetti giuridicamente apprezzabili; V. Hatzopoulos, A (more) social europe: a political crossroad or a legal oneway? Dialogues between Luxembourg and Lisbon, in Common Market Law Review, 2005, 1630, ove evidenzia la rilevanza del metodo di coordinamento aperto nel perseguimento degli obiettivi della strategia di Lisbona intrapresa negli anni Duemila; M. Massa, Modelli e strumenti del governo delle politiche sociali al livello nazionale e comunitario, in AA.VV., La garanzia dei diritti sociali nel dialogo tra legislatori e Corte costituzionale, a cura di Bianchi, Pisa, 2006, 30, che sottolinea che in sintesi, il metodo aperto di coordinamento consiste nella determinazione di obiettivi a livello comunitario, che singoli Stati sono chiamati ad integrare e realizzare, per poi renderne conto alle istituzioni europee: tutto ciò, peraltro, senza che da questo procedimento derivino vincoli giuridici in senso stretto a carico degli Stati; P. Olivelli, Diritti sociali e «metodo di coordinamento aperto» in Europa, in Argomenti di diritto del lavoro, 2002, 313 ss. Tale «istituzionalizzazione» è invece assente nel coordinamento fiscale. Sulla nozione di coordinamento, si veda anche M. Aujean, Le fonti europee e la loro efficacia in materia tributaria, tra armonizzazione, coordinamento e concorrenza fiscale leale, relazione presentata al Convegno di studio Per una Costituzione fiscale europea, Bologna, 28 e 29 ottobre 2005. (83) Si veda, al riguardo, G. Melis - F. Pitrone, Coordinating Tax Strategies at the EU Level as a Solution to the Economic and Financial Crisis, in Intertax, 2011, 374-380. (84) Si allude alle proposte del Gruppo di lavoro costituito presso l’Associazione per gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche (Astrid), i cui contributi (di A. Fantozzi, S. La Rosa e G. Marongiu) possono essere letti in Riv. dir. trib., 2003, IV, 97 ss. Si veda anche F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione Europea, in Rass. trib., 2003, 1487 e ss.; Id., Etica e giustizia nella «nuova» riforma tributaria, retro, 2004, I, 41 ss.; A.E. La Scala, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione Europea, Milano, 2005, 35 ss. (85) Cfr. C. Sacchetto - G. Bizioli, Fisco, il grande assente nel Trattato UE, in Italia Oggi, 20 aprile 2005, 1. (86) Cfr. F. Gallo, Le ragioni del Fisco, Bologna, 2011, 130; Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, 189. (87) Sulla rilevanza del protocollo n. 27 si veda anche S. Lavrijssen, What role for national competition authorities in protecting non-competition interests after Lisbon?, in European Law Review, 2010, 637. (88) Si veda S. Lavrijssen, What role for national competition authorities in protecting noncompetition interests after Lisbon?, cit., 637, che opera riferimento alla sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, relativa alla causa C-501/06, GlaxoSmithKline e del 4 giugno 2009, relativa alla causa C-8/08, T-Mobile. (89) R. Mastroianni, Osservazioni sul sistema italiano di applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza: i recenti sviluppi, in Rass. Avv. Stato, 2007, 21 ss. (90) De Pasquale, Libera concorrenza ed economia sociale nel Trattato di Lisbona, in Dir. pubbl. com. ed eur., 2009, I, 81 ss., la quale evidenzia che il nuovo Trattato ha fatto salvo il richiamo all’adozione di una politica economica [...] condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (art. 119 TFUE) – sia pure spostandolo dai principi alla politica economica e monetaria – e quello ad un regime competitivo non alterato (artt. 116 e 120 TFUE). (91) G. Vettori, Diritti fondamentali e diritti sociali. Una riflessione fra due crisi, in Contr. e impr., 2011, 915. (92) Al riguardo, il Trattato di Maastricht affermava, ben diversamente, che l’economia europea dovesse essere condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (art. 4 del Trattato istitutivo, nel testo modificato dal Titolo II, art. G, del Trattato di Maastricht: L’azione degli Stati membri e della Comunità deve essere improntata ad una politica economica condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza), ponendo non trascurabili problemi di raffronto con le Costituzioni di alcuni Stati membri. Si pensi, ad esempio, alla Costituzione tedesca e alla sua ispirazione all’economia sociale di mercato – intesa come riferimento ai principi classici dell’economia di mercato senza tuttavia considerarli in modo assoluto ma come condizioni strutturali all’interno delle quali realizzare la giustizia sociale e la solidarietà – oppure di quella italiana, la quale all’art. 41 Cost. afferma che l’economia deve essere indirizzata a fini sociali, e che tale funzione di indirizzo debba essere svolta dallo Stato. In altri termini, l’idea è pur sempre quella secondo cui lo Stato deve creare le precondizioni per un corretto funzionamento del mercato, non essendo le forze spontanee e la flessibilità da sole in grado di generare un mercato efficiente. (93) R. Rolli, La proprietà come diritto dell’uomo?, in Contratto e impr., 2011, 1039. Sulla diversità tra i principi elaborati in materia di proprietà privata dalla giurisprudenza europea rispetto a quelli della «Costituzione economica» italiana, si veda C. Salvi, La proprietà e l’Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 418 ss. (94) Si veda la sentenza della Corte di giustizia del 12 giugno 2003, relativa alla causa C112/00, Schmidberger. (95) Si veda P. Mengozzi, Il contributo del diritto alla determinazione dell’identità dell’Unione Europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 645 ss. e la giurisprudenza ivi richiamata. (96) Sul punto, si veda S. Amadeo, Il principio di eguaglianza e la cittadinanza dell’Unione: il trattamento del cittadino europeo «inattivo», cit., 59-94. (97) Sull’origine della cittadinanza europea, le cui prime proposte risalgono al 1972, si veda M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enc. giur., Agg.to, IX, Roma, 1995, 1 ss. (98) Il profondo mutamento di tale concezione è in larga parte merito della Corte di giustizia, che ha fornito un’interpretazione uniforme del contenuto della libertà di circolazione delle persone – essendo sufficiente la qualificazione come lavoratore subordinato, autonomo o prestatore di servizi per beneficiare di un trattamento sostanzialmente identico (Corte di giustizia, 8 aprile 1976, C-48/75, Royer, § 12) – ha interpretato in senso ampio la nozione di lavoratore e di destinatario dei servizi (comprendendovi anche i turisti: si veda Corte di giustizia, 2 febbraio 1989, C-186/87, Cowan, § 15), e ha infine riconosciuto un diritto di accesso e di soggiorno a tutti coloro in grado di esibire alla frontiera un documento di identità valido (Corte di giustizia, 27 aprile 1989, C-321/87, Commissione c. Belgio, § 11 e ss.), estendendo la disciplina della libera circolazione delle persone ad ipotesi di mera ricerca di lavoro, di formazione professionale, di turismo, di fruizione di cure mediche e di servizi in genere (Corte di giustizia, 7 luglio 1976, C-118/75, Watson and Belmann; 23 marzo 1982, C53/81, Levin; 31 gennaio 1984, C-286/82 e C-26/83, Luisi e Carbone; 13 febbraio 1985, C293/83, Gravier. Si veda L.S. Rossi, I beneficiari della libera circolazione delle persone nella giurisprudenza comunitaria, in Foro it., 1994, IV, 97 ss.). (99) Secondo la felice espressione di G. Tesauro, Diritto comunitario, cit., 453, che sottolinea come le direttive del 1990 abbiano stabilito un diritto di soggiorno di durata indeterminata pur in assenza del requisito dell’esercizio di un’attività economica, all’unica condizione di disporre di risorse sufficienti; si veda anche P. Farmer, Il divieto di discriminazione in base alla nazionalità e le libertà fondamentali della Comunità, relazione al Convegno di studio su Libertà economiche del Trattato UE ed imposizione diretta degli Stati, Bologna, 27-28 settembre 2002, 9 del dattiloscritto; M. Condinanzi - A. Lang - B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano, 2006, 20 ss. e 83 ss., i quali evidenziano anche che il passaggio della denominazione da Comunità economica europea in Comunità europee sottende il superamento dell’iniziale impostazione «funzionalista», e sottolineano in ogni caso l’esistenza di limiti, sia dal punto di vista delle ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità, sia in ordine alla circostanza che il soggetto economicamente inattivo non diventi un onere eccessivo per lo Stato membro ospitante. Per la giurisprudenza comunitaria, si veda Corte di giustizia, 21 settembre 1997, C-378/97, Wijsenbeek; 12 maggio 1998, C-85/96, Martinez Sala; 23 novembre 2000, C-135/99, Elsen; 11 luglio 2002, C-224/98, D’Hoop; 20 settembre 2001, C-184/99, Grzelczyk; 19 settembre 2002, C-413/99, Baumbast, in cui viene definitivamente chiarito l’effetto diretto dell’art. 18; 19 ottobre 2004, C-200/02, Kunquian; 7 settembre 2004, C-456/02, Trojani. Sul punto, si veda B. Terra - P. Wattel, European Tax Law, cit., 32. (100) Tale previsione modifica anche la base giuridica per la disciplina della libera circolazione delle persone, prevedendosi il coinvolgimento del Parlamento europeo: L. Marini, La cittadinanza europea, in AA.VV., La cittadinanza. Problemi e dinamiche in una società pluralistica, a cura di G. Dalla Torre – F. D’Agostino, Torino, 2000, 15 ss. Sulla concezione storica del diritto di incolato come diritto politico riconosciuto ai soli cittadini, vedi B. Nascimbene, Lo straniero nel diritto italiano, Milano, 1988, 9 ss. (101) Si veda L. Cruciani, L’Europa dopo Lisbona: il modello liberista e il modello sociale, in Riv. crit. dir. priv., 2007, 143 ss. (102) Si veda G. Vettori, op. ult. cit., 130. (103) P. De Pasquale, op. ult. cit., 86. Sottolinea anche le finalità dell’Unione di mantenimento al mercato di una funzione sociale, subordinando i fenomeni che in esso di possono determinare alla tutela della dignità delle persone, P. Mengozzi, Il contributo del diritto alla determinazione dell’identità dell’Unione Europea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 645 ss. (104) A.B. Atkinson, La politica sociale nell’Unione Europea nel contesto della liberalizzazione, in L. Constabile (a cura di), Istituzioni per il benessere sociale. Alternative per l’Europa, in Studi Economici, 2005, 15 ss. (105) Si veda la sentenza della Corte di giustizia dell’8 aprile 1976, relativa alla causa C43/75, Defrenne. (106) Si veda il documento COM (2010) 608. (107) In base all’art. 9 del TFUE nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana. (108) Il riferimento è alle perplessità che hanno suscitato le note pronunce della Corte di giustizia dell’11 dicembre 2007, relativa alla causa C-438/05, Viking e del 18 dicembre 2007, relativa alla causa C-341/05, Laval in tema di bilanciamento tra libertà fondamentali e diritti dei lavoratori. Per un inquadramento si veda L. Azoulai, The Court of Justice and the social market economy: the emergence of an ideal and the conditions for its realization, in Common Market Law Review, 2008, 1335-1356. (109) M.T. Crotti, I diritti sociali collettivi in Europa nell’intreccio fra Corti, nel susseguirsi di fonti, in Dir. rel. industr., 2011, 864 e 874. (110) Si vedano, sul punto, i documenti menzionati nella precedente nota n. 72. A ciò si aggiunga anche la Comunicazione del 19 ottobre 2010, n. COM (2010) 573, Strategia per un’attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui la commissione delinea un piano di azione volto a rendere il più possibile effettivi i diritti fondamentali contenuti nella Carta dei diritti, non limitandosi, peraltro, alle sole politiche interne, ma coinvolgendo altresì la sua azione esterna. Al di là della spiccata procedimentalizzazione dell’attenzione per i diritti fondamentali all’interno del processo legislativo, merita evidenziare come la sollecitazione ad introdurre appositi «considerando» all’interno degli atti normativi dedicati all’esame di compatibilità con i diritti fondamentali sia altresì idonea ad incidere sul momento interpretativo delle previsioni normative: tenuto conto della tendenziale centralità del canone teleologico nell’interpretazione delle disposizioni dell’ordinamento UE, l’interprete ben può annettere rilievo ai «considerando» introduttivi dell’atto normativo al fine di ricostruire in modo accurato gli obiettivi perseguiti dalle istituzioni in sede di adozione dell’atto normativo. (111) Il riferimento è, in particolare, alla terza fase del giudizio applicativo del principio di proporzionalità; principio che – nell’ambito del diritto dell’UE – si ritiene strutturato secondo la tradizionale tripartizione elaborata dalla dottrina e giurisprudenza tedesca in riferimento al Verhältnismäßigkeitprinzip. Ad una prima fase di verifica dell’idoneità della misura adottata (Geeignetheitsprüfung) segue il controllo di necessità (Notwendigkeitsprüfung), rivolto ad accertare che la misura esaminata non ecceda quanto srtettamente necessario al conseguimento del fine. L’ultima fase – Abwägung ovvero Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne – attiene alla ponderazione vera e propria degli interessi in gioco, secondo una valutazione che tenga conto dei costi e dei benefici connessi ai reciproci sacrifici dei predetti interessi. (112) Nel senso della sostanziale assenza della terza fase del giudizio di proporzionalità nella giurisprudenza della Corte di giustizia anteriore al Trattato di Lisbona si veda G. Scaccia, Il principio di proporzionalità, in AA.VV., L’ordinamento europeo, a cura di S. Mangiameli, Milano, 2006, tomo II, 273-274, il quale, rinviando alla più ampia analisi in G. Scaccia, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, passim, evidenzia come la non parità tra i valori posti a confronto impedisca un vero bilanciamento tra essi, nel senso fatto proprio dal giudizio applicativo del principio di proporzionalità. (113) Si tratta della sentenza 10 maggio 2011, relativa alla causa C-147/08, Juergen Roemer. (114) Cfr. P. Piciocchi, I recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria in materia di politiche sociali, in Dir. pubbl. com. ed eur., 2011, 579. (115) F. Ferraro, L’evoluzione della politica sugli aiuti di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi economica e finanziaria, in Dir. un. eur., 2010, 335 ss. (116) Per tutti, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, 23. (117) In Riv. dir. trib., 2006, III, 57 ss., con nota di M. Tenore, Agevolazioni fiscali alle fondazioni bancarie e compatibilità con la normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato. (118) Assolutamente improbabile appare invece invocare la teoria dei cc.dd. «controlimiti», potendosi difficilmente ascrivere ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale i trattamenti fiscali derogatori accordati ad enti non profit e dovendosi tenere conto del fatto che gli Stati hanno espressamente aderito ad un Trattato che pone la tutela della concorrenza tra i suoi obiettivi fondamentali riconoscendo espressamente solo talune deroghe. (119) F. Ferraro, L’evoluzione della politica sugli aiuti di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi economica e finanziaria, cit., 343. Su una maggiore considerazione degli elementi solidaristici nel contesto delle valutazioni relative ai servizi di interesse economico generale ed ai loro rapporti con la disciplina della concorrenza, si veda N. Boeger, Solidarity and EC Competition Law, in European Law Review, 2007, 319-340, la quale evidenzia come gli elementi solidaristici considerati assumano almeno due forme: una prima forma riguarda l’esigenza invocata (e provata) dagli Stati membri di procedere ad una distribuzione del bene o servizio considerato secondo criteri non di mercato, una seconda forma attiene, invece, al carattere sociale e pubblico del settore di riferimento ed all’inquadramento di una tale connotazione in un più ampio contesto di realizzazione del programma sociale statale. (120) Vedi A. Persiani, Le fonti e il sistema istituzionale, in AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini et al., Padova, 2007, 26. Resta ferma la clausola di chiusura di cui all’art. 107, § 3, lett. e), che consente di comprendere tra le deroghe anche le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su proposta della commissione. (121) Si veda, sul punto, anche l’Editorial Comment, in Common Market Law Review, 2010, 313-318. (122) P. Marchessou, op. cit., 600. (123) Si veda W. Schön, Tax competition in Europe – the legal perspective, cit., 90 ss. (124) Al punto che – parafrasando l’espressione di harmful tax competition – si è parlato di harmful tax harmonization: così, R.A. Sommerhalder, Harmful Tax competition or harmful tax harmonization, in EC Tax Review, 1999, 244 ss. Si veda anche R. Perrone Capano, L’Europa tra debolezza dell’Euro e crisi dello Stato fiscale. Una interpretazione funzionale, in Rass. trib., 2001, 1321. (125) S. Cipollina, Armonizzazione vs. competizione fiscale: il trade-off Europa-Italia, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, 101. (126) Emblematica, in tal senso, è la comunicazione della commissione al Consiglio COM (2001) 260, cit., intrisa di riferimenti al concetto di coordinamento fiscale. Si veda anche la comunicazione della commissione al Consiglio COM (2003) 726 del 24 aprile 2003, Un mercato interno senza ostacoli inerenti alla tassazione delle società – risultati, iniziative in corso e problemi ancora da risolvere. (127) COM (97) 495 del 1° ottobre 1997. La posizione della commissione è stata successivamente fatta propria dal Consiglio Ecofin nelle conclusioni al proprio meeting del 1° dicembre 1997 (doc. 98/C - 2/01), nel quale è stata adottata la risoluzione contenente il «codice di condotta per la tassazione delle imprese». (128) Le misure vengono considerate potenzialmente dannose quando determinano livelli effettivi di imposizione nettamente inferiori al livello generalmente applicato nel Paese interessato e, inoltre, 1) sono riservate ai non residenti, 2) sono completamente isolate dal resto dell’economia nazionale, 3) sono attribuite senza che si sia svolta alcuna attività economica, 4) implicano criteri di determinazione dei profitti che si discostano dalle norme internazionali, 5) difettano di trasparenza nell’applicazione o nella definizione delle fattispecie. Cfr. T. Rosembuj, Harmful Tax Competition, in Intertax, 1999, 316 ss.; F. Bolkestein, Taxation and Competition: The Realization of the Internal Market, in EC Tax Review 2000, 78 ss. (129) Viene dunque mantenuto in tali Stati il segreto bancario e l’anonimato del percettore, il quale, se ritiene, può tuttavia rinunziare a tale anonimato e chiedere la tassazione nel proprio Stato di residenza, ovvero scomputare in esso, senza alcun limite, la ritenuta subita nello Stato della fonte. (130) Al codice di condotta fece seguito la nomina di una commissione (cosiddetta «Primarolo») incaricata di individuare nei singoli ordinamenti degli Stati membri le misure tali da falsare il libero gioco della concorrenza; la commissione pervenne, nel mese di marzo del 2000, all’approvazione di un dettagliato rapporto che, su duecentottantadue misure esaminate, ne considerava dannose dal punto di vista della concorrenza ben sessantasei. Per l’Italia, l’unica misura contestata era quella relativa alle agevolazioni concesse alle imprese svolgenti servizi finanziari e assicurativi nella zona offshore di Trieste, peraltro mai entrata in vigore. (131) Così è avvenuto per il centro offshore di Trieste e per altre tre misure, tra cui i centri di coordinamento belgi (si veda il documento della commissione n. IP/01/982 dell’11 luglio 2001). Si assiste, in tal modo, alla trasformazione della soft law in hard law: si veda, infra, § 4. (132) Si veda A. Vargas Llosa, Addosso all’Irlanda!, reperibile all’indirizzo internet http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=9881. L’Autore richiama anche un lavoro dello studioso dell’università di Oxford Dalibor Rohac, pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni e intitolato Tax Competition: A Curse or a Blessing? che dimostra che, in presenza di una crescente mobilità di capitale e lavoro, la concorrenza tra diversi regimi fiscali porta benefici a tutti i paesi. Alcuni degli Stati dell’Europa centrale – che hanno adottato imposte ad aliquota unica relativamente leggere a dispetto delle proteste in ambito nazionale e internazionale – sono proprio tra quelli che mostrano una ripresa ragionevolmente solida dopo la grande crisi. Nel mondo reale – conclude Rohac – la concorrenza fiscale si profila come un mezzo per assoggettare i governi a una maggiore disciplina e permettere agli individui di sfuggire al peso di una tassazione eccessivamente elevata. (133) Cfr. A. Carinci, La questione fiscale nella Costituzione europea, tra occasioni mancate e prospettive per il contribuente, in Rass. trib., 2005, 545 ss. (134) Cfr. I. Begg, Future fiscal arrangements of the European Union, cit., 775 ss. Attualmente, le risorse destinate al finanziamento della Comunità provengono dai prelievi agricoli, dai dazi doganali, da una quota percentuale dell’Iva e da una quota del prodotto interno lordo/prodotto nazionale lordo degli Stati membri. (135) Sul punto, F. Fichera, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1998, 87. (136) Ritiene anche R. Lupi, Concorrenza tra ordinamenti, Comunità europee e prelievo tributario, in Rass. trib., 2004, 997, nt. 14, che l’importo relativamente modesto del budget comunitario, rispetto a quello dei singoli Stati provvisti di una amministrazione attiva, rende superflua la creazione di tributi comunitari ulteriori, rispetto a quelli (dogane e IVA) il cui gettito è in tutto o in parte attribuito alla Comunità. Va al riguardo sottolineato che il budget della Comunità europea ammonta a circa l’uno per cento del prodotto nazionale lordo degli Stati membri: di esso, circa la metà è destinato alle politiche agricole comuni, e circa un terzo a politiche strutturali a favore di regioni o gruppi sociali svantaggiati. (137) Sui termini del dibattito, vedi G. Vettori, I principi comuni, cit., 119. (138) Su cui vedi J. Luther, Il processo di Karlsruhe al Trattato di Lisbona: alla ricerca di interpretazioni ragionevoli, in Giur. cost., 2011, 925 ss. (139) Vedi anche S. Mangiameli, Il disegno costituzionale dell’Unione Europea dopo il Trattato di Lisbona, in Dir. Un. Eur., 2011, 377 ss., ove considerazioni sulla successiva sentenza Mangold del 6 luglio 2010, la quale, pur riconoscendo la possibilità della Corte costituzionale tedesca di decidere, anche in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia, la non applicazione del diritto europeo, ha tuttavia affermato il ruolo di coordinamento del giudice europeo nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto europeo al fine di assicurare l’unità e la coerenza dell’ordinamento sopranazionale. Si tratta dunque di un sostanziale restraint da parte del Bundesverfassungsgericht, che afferma altresì che il controllo ultra vires (relativo al rispetto delle competenze) debba essere esercitato secondo il canone della Europarechtsfreundlichkeit. Sul fatto, pertanto, che dopo la sentenza Mangold la sensazione che la categoria dei controlimiti venga più predicata che praticata, si veda M. Raveraira, L’ordinamento dell’Unione europea, le identità costituzionali nazionali e i diritti fondamentali, in Riv. dir. sic. soc., 2011, 332 ss. Si tratta, se vogliamo, di un’esperienza simile a quella che ha caratterizzato la giurisprudenza costituzionale italiana. È noto, al riguardo, che la Corte costituzionale italiana, ricostruendo il suddetto rapporto in termini dualistici, si è riservata di assicurare la tutela dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» (Corte cost., 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. cost., 1973, 2401 ss.) e i diritti inalienabili della persona umana (Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. it., 1984, I, 1521 ss.). Il principio è ribadito in Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in Giur. cost., 1991, 1409 ss.), con un’impostazione sostanzialmente corrispondente a quella adottata dalla Corte costituzionale tedesca (BVerfG 29 maggio 1976 (c.d. «Solange I»), in BVerfGE, XXXVII, 271). La natura di tali principi e diritti – comunemente denominati «controlimiti» in coerenza con l’idea che il diritto europeo costituisca non il fondamento bensì un insieme di limiti al diritto italiano – non è mai stata precisata dalla Corte costituzionale. Anzi, nel caso Fragd, essa si era trovata dinanzi al possibile conflitto tra una pronunzia di invalidità della Corte di giustizia di un regolamento comunitario e il diritto costituzionalmente garantito alla difesa, atteso che la Fragd aveva versato degli importi compensativi monetari come stabiliti dal regolamento Cee della commissione 19 giugno 1980, n. 1541/80, i quali erano stati calcolati secondo lo stesso procedimento previsto in un precedente regolamento già dichiarato illegittimo in parte qua; sennonché la Corte di giustizia, nella sentenza resa ai sensi dell’ex art. 177, § 1, lett. b) del Trattato CE, aveva ritenuto di applicare analogicamente l’ex art. 174, § 2 del Trattato CE, delimitando gli effetti della propria pronunzia soltanto pro futuro e dunque escludendo dal rimborso tutti i tributi versati anteriormente ad essa. Tale pronunzia veniva confermata dalla Corte di giustizia nella sentenza emessa sul regolamento Cee n. 1541 del 1980, cit., sia in ordine all’illegittimità dei criteri di determinazione degli importi, sia in ordine alla portata temporale della decisione, così determinando la remissione al giudice delle leggi della questione di legittimità costituzionale sull’art. 267 del TFUE, come interpretato dalla Corte di giustizia, in quanto ritenuto lesivo della garanzia del poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi assicurato dall’art. 24 Cost. Si veda M. Carducci, L’interpretazione dell’art. 177 del Trattato CEE come «oggetto» e «fattore di condizionamento» del sindacato di costituzionalità, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1992, 107 ss. La Corte ha tuttavia eluso la domanda dichiarando la questione irrilevante, per essere la controversia dinanzi al giudice a quo non [...] quella che ha provocato la declaratoria del regolamento contestato e non ponendosi, pertanto, con essa nella relazione necessaria che intercorre tra giudizio principale e giudizio incidentale (Corte cost., 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, I, 1001 ss.). (140) Si veda M. Raveraira, L’ordinamento dell’Unione europea, le identità costituzionali nazionali e i diritti fondamentali, cit., 332 ss. (141) In senso conforme, Boria, Diritto tributario europeo, cit., 138 ss. (142) Osserva infatti Boria, op. cit., 177 ss., che non soltanto negli Stati regionali, ma anche negli Stati tradizionalmente orientati verso modelli costituzionali di pronunciato federalismo, le imposte sul reddito delle persone fisiche e quelle sul reddito delle società sono regolate attraverso atti normativi di pertinenza delle istituzioni dello Stato. (143) Le possibilità sono molteplici e tutte da verificare. La relazione su «Il finanziamento dell’Unione europea» presentata dalla commissione in data 14 luglio 2004, indica tra le possibilità quella della tassazione dei prodotti energetici, l’addizionale comunitaria sull’Iva o una addizionale sull’imposta sul reddito delle società, applicando un’aliquota comune ad una base imponibile armonizzata. Si tratta, dunque, di una proposta assai prudente, che ipotizza non già l’introduzione di nuovi tributi, ma solo l’assegnazione alla Comunità di una quota di quelli già esistenti. Il dibattito ha tuttavia avuto ulteriori sviluppi, essendosi introdotte altre opzioni, quali un prelievo sulle speculazioni finanziarie, sui trasporti aerei e marittimi e sul tabacco: per i termini del dibattito, v. l’articolo Riappare la tassa europea, in Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2006, 11. L’ipotesi della compartecipazione al gettito dell’imposta sulle società è peraltro frequentemente sostenuta anche in sede dottrinale, sulla base dell’esperienza degli Stati federali (o confederali), in cui tale gettito è sempre presente nel finanziamento del livello di Governo più elevato, in maniera esclusiva ovvero in partecipazione con i livelli inferiori di Governo: si veda A. Di Majo, Il ruolo dell’imposizione societaria nella Cee, in AA.VV., Le imposte del 1992: aspetti fiscali del completamento del mercato unico europeo, Milano, 1990, 191. (144) Commissione Europea, Staff Working Document on the Taxation of the Financial Sector, COM (2010) 549, 2010. (145) Vale la pena rilevare che al momento non sembra possibile il raggiungimento di un consenso unanime dei 27 Stati membri sull’introduzione di una Tobin tax a livello europeo, e pertanto sta prendendo sempre più piede l’idea di utilizzare la procedura della cooperazione rafforzata. Si veda la Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva n. 2008/7/CE, P7_TA(2012)0217 nonché i recenti documenti citati nella precedente nota n. 63. (146) A. Šemeta, Una Tobin tax per la crescita, in Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2012. (147) Commissione europea, Financial Transaction Tax: Making the financial sector pay its fair share, 28 settembre 2011; Commissione europea, Proposta di Direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva 2008/7/CE, COM(2011) 594; Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva 2008/7/CE, P7_TA(2012)0217. (148) Commissione europea, Proposta di Direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva 2008/7/CE, COM(2011) 594; Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva 2008/7/CE, P7_TA(2012)0217. (149) Per quanto concerne la tipologia di tributo che si vuole introdurre, la proposta di direttiva della Commissione europea presentata il 28 settembre 2011, e approvata, con emendamenti, il 23 maggio 2012 dal Parlamento europeo, intende introdurre un tributo esigibile per ogni transazione finanziaria nel momento in cui la stessa avviene. La proposta si applica a tutte le transazioni finanziarie – ossia l’acquisto e la vendita di uno strumento finanziario, come azioni delle società, obbligazioni, strumenti del mercato monetario, quote di organismi d’investimento collettivo, prodotti strutturati e derivati, e la conclusione o la modifica di contratti derivati – a condizione (i) che almeno una delle parti coinvolte nella transazione sia stabilita in uno Stato membro e che un ente finanziario stabilito sul territorio di uno Stato membro sia parte coinvolta nella transazione, agendo per conto proprio o per conto di altri soggetti oppure agendo a nome di una delle parti della transazione; o (ii) che la transazione riguardi uno strumento finanziario emesso da persone giuridiche registrate nell’Unione (questo secondo punto è stato aggiunto da uno degli emendamenti proposti dal Parlamento europeo, v. Emendamento 13, Parlamento europeo, Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 23 maggio 2012 sulla proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della direttiva 2008/7/CE, P7_TA(2012)0217). Le aliquote saranno fissate da ogni Stato membro ma non possono essere inferiori allo 0,1% per le transazioni finanziarie non relative a contratti derivati e allo 0,01% per i contratti derivati (art. 8 della proposta di direttiva, Commissione europea, Proposta di Direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della Direttiva 2008/7/CE, COM(2011) 594). (150) G. Bizioli, La disciplina europea della finanza pubblica. Origine, evoluzione e crisi del Patto europeo di stabilità e crescita, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2012, 121-135. (151) F. Gallo, Le ragioni del Fisco, cit., 129. (152) Si veda, al riguardo, M. Alberton - M. Montini, Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona per la tutela dell’ambiente, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2007, 506 e ss. (153) In questo senso, M. Alberton - M. Montini, Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona per la tutela dell’ambiente, cit., 514-515 sottolineano che il mancato riconoscimento ai cittadini europei di un diritto all’ambiente salubre costituisce la lacuna più grave del Trattato di Lisbona, almeno con riferimento alla materia ambientale. Va rilevato, d’altra parte, che il diritto all’ambiente salubre quale portato del diritto alla salute costituzionalmente tutelato è stato da tempo configurato dalla giurisprudenza interna di legittimità – si veda la storica sentenza della Cass. n. 1152 del 1979 ove si precisava che dovendo preservarsi le condizioni indispensabili o anche solo propizie alla salute dell’uomo, anche nei luoghi in cui si articolano le comunità sociali nelle quali si svolge la sua personalità, il diritto alla salute, piuttosto e oltre che come mero diritto alla vita e all’incolumità fisica deve configurarsi come diritto ad un ambiente salubre – e, in tempi più recenti, risulta «rafforzato» dal sostegno alla tutela ambientale proveniente dalle interpretazioni rese dalla Corte europea dei diritti umani in relazione agli artt. 8 e 10 della CEDU. Si vedano, in proposito, le pronunce della Corte di Strasburgo del 9 dicembre 1994, n. 16798/90, Lopez Ostra v. Spain; 19 febbraio 1998, n. 116/1996/735/932, Guerra et autres c. Italie; dell’8 luglio 2003, n. 36022/97, Hatton and others v. The United Kingdom. (154) Al riguardo, si veda la Comunicazione della commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 25 ottobre 2005, n. COM n. (2005) 532, Il contributo delle politiche fiscali e doganali alla strategia di Lisbona, § 3.2. Quanto alla preferenza per lo strumento tributario, questo, quale strumento di mercato, consente di rimediare al fallimento del mercato riferito ai beni ambientali in modo più efficiente rispetto agli strumenti normativi. Come evidenziato dalla Commissione europea, gli strumenti di mercato si riflettono in modo diretto sul prezzo del prodotto, in tal modo non solo rendendo immediatamente percepibile il valore dei costi e dei benefici esterni, ma stimolando anche le imprese ad impegnarsi verso un miglioramento dell’efficienza della produzione sotto il profilo ambientale, in modo da acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. (155) Si tratta della Direttiva 27 ottobre 2003, n. 2003/96/CE. (156) È sufficiente porre mente, al riguardo, alla recente conferenza internazionale ONU sullo sviluppo sostenibile Rio+20 tenutasi a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno 2012, in cui le istituzioni comunitarie si sono direttamente impegnate per la promozione della qualità dell’ambiente e, sia pur in un contesto decisionale complesso, hanno ottenuto l’inserimento nel documento finale di specifici commitments da parte degli Stati partecipanti. Si veda, in proposito, il discorso tenuto dal Commissario europeo per l’ambiente Janez Potočnik il 5 luglio 2012 dinanzi al Parlamento europeo a proposito dell’esito della menzionata conferenza ONU; discorso in cui si opera ripetuto riferimento all’attività svolta dalle istituzioni comunitarie in seno alla conferenza internazionale nel senso di proporre – e, in parte, ottenere – una maggiore chiarezza degli impegni assunti dagli Stati partecipanti su tematiche ambientali. Lo stesso Commissario riconosce, peraltro, che le istituzioni comunitarie non sono riuscite ad ottenere la fissazione di scadenze precise per tali impegni, eccezion fatta per l’impegno alla riduzione entro il 2025 dell’inquinamento marino. (157) Così la Comunicazione della commissione 3 marzo 2010, n. COM (2010) 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, 5. (158) Si tratta dei cc.dd. obiettivi «20/20/20», in quanto le istituzioni comunitarie si sono impegnate entro il 2020 a ridurre le emissioni di gas a effetto serra almeno del 20% rispetto ai livelli del 1990 (o del 30%, se sussistono le necessarie condizioni su scala internazionale), a portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabile nel consumo finale di energia e a migliorare del 20% l’efficienza energetica. Si veda, al riguardo, la Comunicazione della Commissione europea 3 marzo 2010, COM (2010) 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, 12. (159) Così la Comunicazione della Commissione europea 3 marzo 2010, COM (2010) 2020, Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, 17: se conseguiamo i nostri obiettivi in materia di energia, risparmieremo 60 miliardi di euro di importazioni petrolifere e di gas da qui al 2020. Non si tratta solo di un risparmio in termini finanziari, ma di un aspetto essenziale per la nostra sicurezza energetica. Facendo ulteriori progressi nell’integrazione del mercato europeo dell’energia si potrebbe aggiungere uno 0,6% supplementare allo 0,8% del PIL. La sola realizzazione dell’obiettivo UE del 20% di fonti rinnovabili di energia potrebbe creare oltre 600.000 posti di lavoro nell’Unione che passano a oltre 1 milione se si aggiunge l’obiettivo del 20% per quanto riguarda l’efficienza energetica. (160) Si veda la Comunicazione della commissione 13 aprile 2011, n. COM (2011) 168, Un’imposizione fiscale più intelligente dell’energia nell’UE: proposta di revisione della direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici. (161) Si fa riferimento, in particolare, alle scelte dei diversi Stati membri in punto di ripartizione del peso fiscale tra le componenti dell’imposta (tassazione delle emissioni di CO2 da un lato e tassazione del contenuto energetico dall’altro lato) e, ovviamente, di aliquote applicabili in ciascuna ipotesi. (162) In questo senso, si veda anche il parere del Comitato Economico e Sociale Europeo relativo alla proposta di modifica della Direttiva n. 2003/96/CE elaborata dalla commissione. Il parere è pubblicato in G.U.U.E. 28 gennaio 2012, serie C, n. 24, 70 e ss. (163) Si veda, in particolare, la citata Comunicazione n. COM n. (2005) 532, 15-16. (164) Si veda, in proposito, il rapporto 9 maggio 2010 del prof. Mario Monti al Presidente della Commissione europea Barroso, Una nuova strategia per il mercato unico al servizio dell’economia e della società europea (c.d. Rapporto Monti), 84-88. Nella medesima direzione – e in sostanziale attuazione del rapporto Monti – si veda l’indicazione contenuta nel documento della commissione n. COM (2012) 173, 4 ove si auspica la riduzione del cuneo fiscale che grava sul lavoro senza incidere sul bilancio orientandosi [tra l’altro] verso imposte ambientali. (165) Si veda, in particolare, il documento della commissione n. 2008/C 82/01, Disciplina comunitaria degli aiuti di stato per la tutela ambientale, in G.U.U.E. n. C 82 del 1° aprile 2008, 1 e ss. (166) Si veda, in particolare, il citato documento della commissione n. COM (2011) 168, 1213, ove si precisa che la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia nei termini proposti dalla commissione ristrutturerà il regime fiscale attualmente applicabile all’energia, al fine di renderlo più efficiente e coerente. Oltre a migliorare il funzionamento del mercato interno, creando pari condizioni di concorrenza per le imprese, che saranno trattate su un piano di parità sia che consumino petrolio, gas naturale o biomassa, produrrà soprattutto incentivi positivi in campo ambientale e concorrerà quindi alla realizzazione degli obiettivi della strategia Europa 2020. In prospettiva, questo nuovo quadro dell’UE permetterà agli Stati membri di attuare a livello nazionale politiche più ambiziose, forgiate sia dalla necessità di conseguire gli obiettivi ambientali sia da ragioni di bilancio, motivo per cui si può affermare che la proposta è in grado di generare guadagni di efficienza che superano di gran lunga gli effetti/i benefici riscontrati al momento dell’attuazione. Essa permette in tal modo agli Stati membri di onorare i propri impegni derivanti dalla strategia Europa 2020 in maniera conveniente in termini di costi e offre loro la certezza del diritto necessaria nel momento in cui, per uscire dalla crisi economica e finanziaria, stanno affrontando le riforme strutturali delle loro politiche di bilancio e dei regimi tributari. Il nuovo quadro, nel contempo, promuoverà una crescita economica sostenibile e favorirà la creazione di posti di lavoro. In breve, una tassazione più intelligente dell’energia andrà a beneficio sia dell’ambiente che dell’economia. (167) Si veda infra, § 3 e, in particolare, la giurisprudenza citata nella precedente nota n. 31. (168) Si veda infra, § 6. (169) Volendo riprendere il titolo della recente ed interessante proposta di riforma del sistema fiscale francese – ma con considerazioni estensibili a molti dei Paesi europei, compresa l’Italia – di C. Landais - T. Piketty - E. Saez, Per una rivoluzione fiscale, Brescia, 2011. (170) Contraddizioni sottolineate da A. Algostino, Costituzionalismo e Trattato di Lisbona: l’insostenibile pesantezza del mercato, in Diritto pubblico, 2009, 835-853, che giunge a ritenere le modifiche rivolte alla valorizzazione dei profili sociali come meramente formali, non risultando scalfita, a suo avviso, la centralità dei valori economici. (171) È sufficiente porre mente, al riguardo, al disposto dell’art. 3, § 3, del TUE dedicato agli obiettivi dell’Unione, ove all’instaurazione del mercato interno si accompagnano una serie di corollari che fanno esplicito riferimento, tra l’altro, allo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale. (172) Si vedano, in proposito, le affermazioni dell’Avvocato generale Villalòn nelle conclusioni del 5 maggio 2010 relative alla causa C-515/08, Santos Palhota e altri, ove, con riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, precisa, al § 53, che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona implica che, qualora le condizioni di lavoro si presentino come motivi imperativi d’interesse generale che giustificano una deroga alla libera prestazione dei servizi, esse non devono più essere interpretate restrittivamente. Nella misura in cui la protezione del lavoratore diventa un fattore meritevole di essere tutelato direttamente dai Trattati, non ci troviamo più dinanzi ad una mera deroga ad una libertà, né, tantomeno, dinanzi ad una deroga non scritta e ricavata dalla giurisprudenza. Il nuovo sistema del diritto primario, imponendo obbligatoriamente un elevato grado di protezione sociale, sta facendo sì che gli Stati membri, in nome della salvaguardia di un determinato livello di protezione sociale, possano giungere a porre limiti ad una libertà, e li autorizza a ciò senza che il diritto dell’Unione consideri siffatta limitazione atto straordinario e, in quanto tale, soggetto ad una valutazione restrittiva. Nella relativa sentenza – va rilevato – la Corte di giustizia non ha ribadito le precisazioni dell’Avvocato generale, adottando un approccio più cauto, che lascia aperto a future riflessioni sul rapporto tra diritti di natura sociale e libertà fondamentali. (173) Profilo, questo, a proposito del quale non può trascurarsi l’attenzione riposta dalla commissione sulla verifica di compatibilità delle iniziative legisaltive con i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti. Si vedano, al riguardo, le precedenti note nn. 72 e 110. (174) Tra le poche eccezioni possono annoverarsi la citata pronuncia relativa alla causa C112/00, Schmidberger e la sentenza del 14 ottobre 2004, relativa alla causa C-36/02, Omega, in cui i giudici comunitari hanno proceduto ad un vero bilanciamento dei valori di carattere economico sottesi alle libertà di movimento con i diritti fondamentali – nella specie, la libertà di riunione ed il rispetto della dignità umana – intendendo questi ultimi in un’accezione non restrittiva e meramente derogatoria dei primi. Va rilevato, peraltro, come taluni autori – F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2005, 91 – in sede di valutazione della pronuncia Schmidberger abbiano comunque sollevato dubbi sul bilanciamento tra libertà personali e diritti economici, evidenziando come normalmente nelle costituzioni degli Stati membri la libertà di riunione viene limitata e bilanciata non dalle libertà economiche, ma da interessi attinenti alla pacifica convivenza, quali l’ordine pubblico o il buon costume. Ad una tale prospettazione si è replicato – G. Morbidelli, Corte costituzionale e Corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte del Lussemburgo), in Diritto processuale amministrativo, 2006, 300-301 – come non solo la nostra Corte costituzionale abbia da sempre effettuato un bilanciamento tra iniziativa economica privata e libertà personali, ma anche che tali diritti si devono situare ad un grado pari nell’ordinamento dell’Unione europea, non essendone dunque precluso il bilanciamento.