Una mostra della Fondazione Matasci celebra l’arte di Edmondo Dobrzanski
Il tempo della creazione
La Regione, 12.05.2014
Dentro gli incubi della Storia
e della guerra, nell’esilio
e nel tormento, ecco le forme
in cui si trasfigura il vissuto
del più celebre artista ‘ticinese’
di Claudio Guarda
Cent’anni fa, il 2 agosto del 1914, nasceva
a Zugo Edmondo Dobrzanski, l’artista
più incisivo e robusto, fors’anche il più
tormentato, che abbia operato in Ticino
tra gli anni 50 e 60: in grado certamente,
per qualità e respiro della sua pittura, di
reggere il peso di un confronto internazionale. La ricorrenza non poteva passare sotto silenzio almeno nel suo Paese.
Per dare giusto rilievo all’opera e alla figura di Dobrzanski, la Galleria Matasci
si è fatta carico di allestire un’antologica
museale, distribuita nelle due sedi di Tenero e della Fondazione Matasci a Riazzino, con opere che ne scandiscono il
percorso lungo gli anni: 40 oli di grande e
medio formato alternati a una trentina
di pastelli – tecnica in cui Dobrzanski eccelleva – dagli anni 50 fino agli 80.
La Storia, il sangue, l’arte
Per capire le ragioni profonde dell’arte di
Dobrzanski bisogna partire dalle tormentate radici, precedenti la sua stessa
nascita, di una famiglia costretta allo
sradicamento; e collegare poi il tutto con
il contesto storico europeo in cui toccò a
lui personalmente di vivere: dalla prima
guerra mondiale, anno della sua nascita,
agli orrori della seconda. Nel 1864, suo
nonno Boleslao Dobrzanski, ufficiale di
aristocratica famiglia poco più che ventenne, aveva scelto la via dell’esilio piuttosto che chinarsi di fronte all’invasione
russa; girovagò poi a lungo per l’Europa
prima di trovar terra ferma in Svizzera.
Sua madre era greca; sposa suo padre ad
Alessandria d’Egitto, andranno a vivere
a Zugo, dove nasce Edmondo che però
trascorre la sua infanzia tra continue peregrinazioni: per ben due volte in Ticino,
dal 1922 al 1929, e poi ancora dal ’34 al ’36:
quando si iscrive a Brera. Si tratta però
degli anni più cupi del fascismo: un clima che si fa insopportabile e conclude
con il conflitto mondiale, cui segue il forzato rimpatrio dell’artista a Zurigo.
È dentro questo drammatico orizzonte
di vicende private e pubbliche che va calata la pittura di Dobrzanski: settant’anni di tragici avvenimenti che in un crescendo concernono una famiglia, e poi
un Paese, quindi un continente e infine il
mondo intero. Per forza di cose egli leggeva la sua vicenda personale e familiare
come il segno di un destino che nel suo
piccolo si intersecava con quello ben più
tragico di un’Europa a ferro e fuoco, privata della sua libertà, lacerata da rigurgiti di razzismo. La vecchia Europa, culla
di gloriose civiltà sembrava aver dimenticato la sua stessa storia, la sua luce
(‘Europa wo das Licht’), per inabissarsi
in uno stadio di barbarie le cui conseguenze si sarebbero prolungate nei tempi a seguire. È in quel torno d’anni che
Dobrzanski matura sempre più la coscienza del fare arte come riflessione
sull’uomo e sul proprio tempo, sui fatti e
misfatti della storia, sulle tragedie di ieri
che si rinnovavano ogni giorno.
Ed è da quella prospettiva che egli legge
poi tutta la Storia (presente, passata o futura) e dipinge: dalle marine con tanto di
residuati bellici e fortificazioni sulla costa normanna al Vietnam, dalla guerra
fredda alle spie satellitari, agli esperimenti atomici. Ma quello stesso sentimento lo si avverte protagonista della
tela anche quando egli dipinge un bricco
di caffè, un vecchio clown o un mazzo di
fiori reciso: grazie soprattutto ai toni e
agli impasti che tramano la sua pittura.
“Varlin – raccontava Dobrzanski – diceva una cosa bellissima: devi capire un
tono generale che corrisponde al tuo stato d’animo e poi ci fai dentro le tue cose.
Questa frase mi ha aiutato molto”. Da qui
i toni plumbei e nerastri dei suoi dipinti
accesi qua e là da sinistri bagliori di
espressionistica ascendenza; da qui la
materia che si ingruma in inusitati spessori, pesanti come l’asfalto; da qui lo sfaldarsi delle forme, anche dei più bei fiori,
che nel loro scivolare pesantemente al
suolo sembrano incarnare il presentimento di un collasso epocale.
Rispetto alla coeva lombarda – e questa
è la sua cifra intellettuale e artistica –
l’arte di Dobrzanski si distingue proprio
in quanto si fa carico di un portato storico per lui ineludibile, diventa riflessione
storicizzata su follie e fragilità dei comportamenti umani, sulla sempre incombente degenerazione della civiltà umana. Dobrzanski ha incarnato questo ruolo di coscienza critica e di figura morale:
questo è senza dubbio il suo più grande
merito sia come uomo che come artista
di indubbio spessore. E di levatura europea nella consonanza che le sue opere
hanno con la dimensione tragica e morale, con la sinfonia di toni bassi di un
Permeke, di un Sironi, di un Rouault e di
un Beckmann.
Fino al 28 giugno.
‘La madre’ e, sopra, ‘Bunker abitato’
‘Vecchio clown’
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