PERCORSO
DI STORIA LOCALE
Una regione povera e ribelle
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Una zona depressa
UNITÀ 1
Nella seconda metà dell’Ottocento, la nuova regione nata con l’unità d’Italia – che comprendeva l’ex ducato di Parma e Piacenza, l’ex ducato di Modena e Reggio Emilia, Bologna e gli altri territori che, a est del capoluogo, per secoli erano appartenuti allo Stato
della Chiesa – non godeva di una fama nazionale particolarmente buona. Pur non conoscendo un fenomeno migratorio di particolare intensità, l’Emilia Romagna era comunque,
in linea di massima, una zona depressa, assolutamente priva di quel benessere che il lavoro indefesso dei suoi abitanti avrebbe poi saputo costruire nei tempi successivi. Come
notava nel 1860 il questore di Bologna, «non è men vero che per molti volonterosi manchi il lavoro e quindi quel guadagno che basti a dare pane alle loro famiglie, e si trovino
così, direi quasi, costretti a cercare nel delitto quell’alimento che è loro negato di guadagnare onestamente».
Nel dicembre 1868, per affrontare una situazione finanziaria nazionale che stava diventando ingovernabile, gli uomini della Destra storica, che allora guidavano il governo, introdussero la cosiddetta tassa sul macinato, un’odiosa imposta indiretta che veniva riscossa dai mugnai quando i contadini portavano il proprio grano al mulino, ed era versata in proporzione alla quantità di cereali trasformata in farina. La gente fece ricorso agli
epiteti più infamanti per definire quella tassa, che venne chiamata imposta sulla fame e imposta sulla miseria, visto che il pane era ancora il principale (per non dire unico) alimento della maggioranza della popolazione.
Nei primi mesi del 1869, si verificarono numerosi tumulti contro la tassa sul macinato:
in tutt’Italia, si ebbero 257 morti, 1099 feriti e 3788 arresti. Secondo alcuni storici, queste sommosse possono essere considerate l’equivalente settentrionale del brigantaggio tipico delle regioni del Sud. Area decisamente povera, prevalentemente rurale, abitata da
una popolazione in preda alla miseria cronica, l’Emilia Romagna fu uno degli epicentri più importanti delle rivolte popolari, che in alcuni casi inneggiavano al papa o addirittura al governo austriaco. In altre situazioni, invece, è documentato il tentativo di qualche gruppo di democratici e di repubblicani di trasformare il moto in una rivoluzione diretta contro la monarchia.
Il mazziniano Aurelio Saffi, tuttavia, decise di intraprendere in Romagna una strategia
repubblicana del tutto diversa. A suo giudizio, non era possibile rinviare al periodo successivo alla caduta della monarchia la soluzione della questione sociale; inoltre, la svolta istituzionale non sarebbe mai arrivata agendo mediante rivolte o congiure, che a suo giudizio, ormai, avevano fatto il loro tempo. Piuttosto, occorreva entrare nelle amministrazioni
comunali, partecipare ai consigli d’amministrazione delle banche popolari, dar vita a società cooperative o di mutua assistenza. In tal modo, il popolo avrebbe preso piena coscienza di quale partito stava davvero dalla sua parte e l’avrebbe sostenuto anche nella sua
lotta più impegnativa ed elevata, cioè nello sforzo di giungere alla cancellazione del regime monarchico. Grazie a questa infiltrazione capillare nella realtà sociale romagnola, Saffi permise ai repubblicani di radicarsi sul territorio, cioè di diventare un soggetto
politico e sociale di fondamentale importanza, mentre in altre zone d’Italia essi tendevano a essere sempre più marginali e irrilevanti.
1
Repubblicani
in Romagna
Il giovane Mussolini e il socialismo in Emilia Romagna
Il giovane Mussolini
e il socialismo
in Emilia Romagna
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
Una veduta di Bologna
in una fotografia
dei primi anni
del Novecento.
UNITÀ 1
PERCORSO DI STORIA LOCALE
PERCORSO DI STORIA LOCALE
Anarchici e socialisti
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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Cooperative
agricole
Insieme ai repubblicani, l’altra grande forza rivoluzionaria diffusa sul territorio romagnolo
era quella degli anarchici. Il 4 agosto 1872 si tenne a Rimini una conferenza programmatica di tale movimento, ed è interessante rilevare che su 18 sezioni rappresentate
ben dieci si trovavano in Romagna: Bologna, Ravenna, Rimini, Imola, Lugo, Fusignano,
San Giovanni in Persiceto, Forlì, Sant’Arcangelo di Romagna, Mirandola. La figura
di maggiore prestigio era Andrea Costa, che tuttavia – qualche anno più tardi – compì
un gesto clamoroso, abbandonando l’anarchia per il socialismo. Il 27 luglio del 1879,
Costa scrisse una lettera Ai miei amici di Romagna, in cui li invitava ad aggiornare i
propri metodi di lotta. La meta della rivoluzione non era affatto abbandonata: a tal
fine Costa diede vita al Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che nel 1881 si dotò
(a Cesena) di un proprio organo di informazione, denominato Avanti!, proprio come
il quotidiano del Partito socialista italiano (che sarebbe nato nel 1892). Lo scontro
finale con la borghesia, però, andava preparato con una lunga campagna di educazione popolare.
A partire dagli anni Novanta, sull’intero territorio della regione, una politica simile fu
adottata dai socialisti, che riuscirono via via a soppiantare gli anarchici: anche in questo caso, il mito dell’insurrezione risolutrice di tutti i problemi sociali fu affiancato (e,
a volte, sostituito) da una politica fatta di azioni concrete, finalizzata a portare benefici
immediati alla popolazione. La nascita di cooperative agricole, ad esempio, permise di
cambiare il tipo di produzione, di introdurre prodotti più redditizi e di diventare sempre più competitivi sul mercato. Così, nel comune di Massa Lombarda, la faticosa e poco
redditizia coltura del riso fu progressivamente sostituita, grazie all’impegno congiunto dei braccianti, riuniti in cooperative, da quella delle piante da frutto (peschi, meli,
susini, ecc.). Nel 1910, gli alberi di questo tipo presenti sulle terre gestite dalla cooperativa braccianti erano 2400; nel 1921, erano saliti a 14 950 e stavano già alimentando un ramificato sistema di industrie conserviere, finalizzato alla trasformazione della
frutta in marmellate e altri prodotti alimentari.
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Primo maggio a Forlì
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pag. 5
Nuove macchine
agricole
DOCUMENTI
Nel 1890, il 1° maggio fu celebrato per la prima volta anche in Italia. Per l’Emilia Romagna (e, più
precisamente, per Forlì) le annotazioni presenti nel diario del conte Filippo Guarini esprimono il diffuso clima di paura che la festa operaia produsse, in un primo tempo, tra i borghesi e i proprietari terrieri. Tutti i conservatori erano convinti che il 1° maggio avrebbe segnato l’inizio della rivoluzione, della resa dei conti, del giudizio universale che tutti attendevano: gli uni con angoscia e terrore, gli altri
con fiduciosa speranza.
26 aprile. Il ministero dell’Interno ha diretto una circolare telegrafica ai Prefetti per ordinare loro di vietare qualsiasi manifestazione pubblica operaia pel 1° Maggio. Non si permetteranno quindi processioni o passeggiate collettive, né assembramenti o riunioni in luoghi pubblici od aperti al pubblico che si volessero tenere allo scopo di concorrere a questa
così chiamata festa del lavoro. Anche ai comandanti delle truppe sono venuti ordini i più precisi e severi, onde l’ordine non venga turbato. Ciò non toglie che si dicano le più sbardellate cose del futuro 1° Maggio, nel quale si devono affermare i diritti dei lavoratori, le famose
otto ore al giorno, e via discorrendo, in tutta Europa; si parla qui di dover tener chiuse le case
e le botteghe, di alcuni che si allontanano per paura, di una quasi rivoluzione repubblicana
o socialista. Forse non avverrà nulla, ma intanto la gente non vive tranquilla…
30 aprile. Tutti parlano della giornata di domani; nel popolino e nella campagna c’è un
gran panico: chi dice che non ci sarà una bottega aperta, e prevedendo ciò, ha fatto la spesa
anche per domani; chi domanda ai fornaj se porteranno il pane alle case…
1° maggio. La città [Forlì] è squallida; pochissime ortolane vengono in piazza; due o tre
banchi di panoni e limoni; nessuna cantina di privati aperta; le botteghe socchiuse come se
aspettino d’essere invase o danneggiate ad ogni momento; non si vede un contadino; gironzano annojati gli operai che fanno sciopero... Dopo mezzogiorno si chiudono caffè, alberghi, osterie e negozii, girando alcuni socialisti per incitare a ciò i proprietarii; la sera non Con quali sentimenti
si riaprono che le farmacie, le botteghe dei tabaccaj e qualche osteria; la città è anche più
i borghesi attesero
deserta… Alla funzione del mese mariano in Duomo la sera non va quasi nessuno; tutto que(e vissero) il
sto per la trepidazione generale.
1° maggio?
L. Casali, «Sovversivi e costruttori. Sul movimento operaio in Emilia-Romagna», in R. Finzi (a cura di), Come reagirono
L’Emilia-Romagna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 486-487
i lavoratori?
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UNITÀ 1
Riferimento
storiografico
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Il giovane Mussolini e il socialismo in Emilia Romagna
In altri contesti – il caso più clamoroso fu quello di Reggio Emilia – l’impegno principale delle amministrazioni socialiste fu la lotta all’analfabetismo, soprattutto nelle campagne. Per molti anni, nel reggiano, la figura socialista di maggior prestigio fu il deputato Camillo Prampolini, infaticabile organizzatore di leghe e di cooperative e fondatore
del quotidiano La Giustizia, da cui diffuse un socialismo imbevuto di fortissimi valori etici, che ripudiava l’odio e la violenza.
Anche il repubblicano Saffi si era già mosso in questa direzione. In comune, democratici e socialisti avevano il desiderio di contrastare l’oscurantismo dei preti. Inoltre, entrambi
si posero precocemente il problema dell’istruzione femminile. A Bologna – che a lungo
fu amministrata da conservatori – l’impegno dell’educazione popolare fu invece assunto
da società di mutuo soccorso. Nel 1871, ad esempio, nacque una Lega per l’istruzione del
popolo, che si propose di «istruire, moralizzare il popolo ed educarlo alla vita sì privata che
pubblica» ed era presieduta da Giosuè Carducci.
Con il passar del tempo, i socialisti scelsero di dare un’importanza sempre maggiore
all’istruzione tecnica dei contadini, al fine di diffondere nuove colture (come la barbabietola
da zucchero) e tecniche agrarie d’avanguardia; nella loro concezione, progresso scientifico e modernizzazione erano in perfetta sintonia con l’impegno politico per il socialismo.
Pertanto, anche l’introduzione delle prime macchine agricole non fu oggetto di rifiuto:
nel 1917-1920, ad esempio, la Federazione delle cooperative di Ravenna possedeva 14 trattori e 7 mezzi meccanici per l’aratura.
Infine, va rilevato lo sforzo di molti comuni per creare scuole tecniche, in cui venivano tenuti corsi finalizzati a potenziare l’istruzione dei lavoratori, al fine di trasformarli in
operai qualificati e specializzati.
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Riferimento
storiografico
pag. 7
Un giovanissimo
Benito Mussolini
durante un comizio.
UNITÀ 1
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Mussolini leader rivoluzionario
TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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Nei primi dieci anni del XX secolo, il movimento socialista romagnolo fu dominato dalla figura di Benito Mussolini, nato il 29 luglio 1883, a Dovia, frazione di Predappio, in
provincia di Forlì. Suo padre, di professione fabbro ferraio, era un appassionato militante socialista: il nome stesso Benito, per il figlio, lo scelse in onore di un celebre rivoluzionario messicano del XIX secolo (Benito Juarez). Conseguito il diploma di maestro all’istituto
magistrale di Forlimpopoli, il futuro leader politico esercitò per qualche anno, saltuariamente, la professione di insegnante elementare, ma mostrò ben presto di essere più interessato (e propenso) al giornalismo. Pertanto, dopo essersi trasferito in Svizzera in cerca
di fortuna, collaborò per un paio d’anni (1902-1904) con alcuni periodici socialisti, diffusi tra i lavoratori italiani emigrati nella Confederazione. In questi anni decisivi per la
sua formazione politica, Mussolini si avvicinò notevolmente alle posizioni dei sindacalisti rivoluzionari: per lui, il socialismo doveva essere prima di tutto azione, lotta senza quartiere contro i capitalisti, lo Stato e la Chiesa, considerati nemici irriducibili del proletariato. Con il sistema borghese non si doveva scendere ad alcun compromesso: di qui
la sua ostilità nei confronti dei riformisti come Turati, e
il suo legame con Serrati e altri esponenti del cosiddetto massimalismo rivoluzionario.
Negli anni 1907-1910, le campagne del forlivese e, più
in generale, della Romagna, furono in agitazione. Poiché
i braccianti, nelle campagne della provincia di Forlì, erano molto numerosi (oltre 20 000, intorno al 1905, pari
al 7 per cento dell’intera popolazione), questi lavoratori poveri si trovavano sempre a rischio di disoccupazione, mentre i salari erano spesso drammaticamente bassi. Per favorire il numero degli occupati, le leghe dei braccianti criticavano severamente la pratica del cosiddetto
scambio delle opere, un’antica usanza di sostegno reciproco che le famiglie contadine (coltivatori diretti o mezzadri) si garantivano al momento del raccolto. In pratica, i contadini di un podere si recavano a lavorare gratuitamente in un altro fondo, perché poi il servizio era
ricambiato: ma entrambe le famiglie, in tal modo, evitavano di assumere manodopera stagionale.
Nell’estate del 1908, i braccianti del forlivese cercarono di impedire questa pratica al momento della treb-
biatura, che però si svolse regolarmente, grazie alla protezione dell’esercito. Vi furono comunque diversi tafferugli tra i soldati e i braccianti, con numerosi feriti.
Tradizione e modernizzazione nelle campagne
Braccianti
e mezzadri
Lo scontro riprese ancora più duro nel 1910, allorché in Romagna cominciarono a diffondersi in gran numero le macchine per trebbiare il grano. Per garantire l’occupazione, le
cooperative di braccianti si dotarono subito di trebbiatrici meccaniche e cercarono di imporre ai mezzadri di servirsi solo dei loro strumenti; i mezzadri, ovviamente, rifiutarono
di piegarsi a questo monopolio e procedettero anch’essi all’acquisto di trebbiatrici. A complicare ulteriormente il quadro, sopraggiunse la decisione dei braccianti repubblicani di
dar vita a una propria cooperativa di braccianti che, guidata da Pietro Nenni, in breve riunì
circa 1300 lavoratori e si dotò di proprie macchine. In pratica, dallo scontro del 1910, i
braccianti socialisti uscirono pesantemente sconfitti, dimostrando di essere incapaci di dettare le regole del mercato del lavoro agricolo in Romagna.
Dal gennaio del 1910, il piccolo giornale socialista forlivese La lotta di classe era diretto
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Riferimenti storiografici
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La lotta contro l’analfabetismo
Una delle principali preoccupazioni dei repubblicani e dei socialisti emiliano-romagnoli fu quella di
diffondere la cultura tra le masse popolari. In questa lotta contro il diffuso analfabetismo si segnalò soprattutto Reggio Emilia, all’inizio del Novecento, cioè a partire dal momento in cui il consiglio comunale
(a quell’epoca responsabile, in larga misura, della politica scolastica locale) fu guidato dai socialisti.
Vale la pena esaminare attentamente (a mo’ di esempio) l’attività della prima amministrazione socialista reggiana; se dovessimo indicare un punto che caratterizzò sopra tutti
l’attività degli amministratori socialisti di Reggio Emilia, non potremmo che indicare il problema scolastico e dell’educazione, nel senso più lato del termine.
Quasi simbolicamente, la prima delibera assunta dalla Giunta presieduta da Alberto Borciani a partire dal dicembre 1899 fu quella di concedere la illuminazione per la sala del Collegio dei ragionieri allo scopo di poter far funzionare una scuola serale commerciale gratuita
per piccoli commercianti ed agenti di commercio. Nel corso del mese di gennaio del 1900
(e siamo ancora ai primissimi atti della nuova maggioranza), ritenendo che «uno fra i primi
doveri dell’amministrazione civica [fosse] quello di favorire per quanto possibile l’istruzione
e l’educazione del popolo», venivano aperte scuole serali per adulti a Canali, Massenzatico,
Rivalta e Pieve Modolena.
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Contro la guerra
di Libia
UNITÀ 1
Contro i riformisti
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Il giovane Mussolini e il socialismo in Emilia Romagna
da Mussolini, che insieme alla direzione del periodico ottenne anche l’incarico di segretario della federazione forlivese del PSI. Dalle colonne del suo giornale, Mussolini sostenne
la lotta dei braccianti socialisti con articoli appassionati, polemici soprattutto nei confronti dei repubblicani, insultati con una violenza verbale di eccezionale portata. Al socialismo forlivese, Mussolini diede un’impostazione fieramente intransigente e rivoluzionaria;
i suoi articoli attaccavano senza mezzi termini Turati e gli altri riformisti, che tuttavia a
livello nazionale – nel 1910 (Congresso di Milano, del 21-25 ottobre) – risultarono vincenti. Mussolini prese allora una decisione clamorosa, cioè convinse la federazione forlivese ad abbandonare il partito, «per non essere complici della sua inevitabile ulteriore degenerazione». Il gesto dei socialisti di Forlì, però, non fu imitato da nessun’altra federazione locale, neppure da quella di Cesena, su cui pure Mussolini godeva di una certa influenza e che aveva promesso il suo sostegno.
L’isolamento e la conseguente crisi di prestigio che poteva derivare furono evitati nel 1911,
allorché il dirigente forlivese si scagliò con la consueta foga contro la guerra di Libia (osteggiata anche da Nenni e dai repubblicani). Lo sciopero generale contro la guerra, bandito per il 27 settembre 1911, registrò un successo clamoroso a Forlì; timoroso per l’ordine pubblico, il prefetto ordinò gli arresti di Mussolini, Nenni e Aurelio Lolli, un leader
sindacale repubblicano, molto attivo nella Camera del Lavoro forlivese. L’arresto ebbe luogo il 14 ottobre; il 23 novembre, i tre imputati furono condannati a una pesante multa
e a un anno di reclusione. In appello, però, le pene furono ridotte e Mussolini fu scarcerato (12 marzo 1912).
Ormai non era più un estremista, noto e apprezzato solo a livello locale, bensì una figura di spessore nazionale. Come ha scritto Renzo De Felice, «la crisi tripolina non solo aveva salvato Mussolini da uno scacco politico personale forse gravissimo, ma, determinando un nuovo orientamento delle masse e un nuovo rapporto di forze nel Partito socialista (nell’ambito del quale ora sì i voti dei forlivesi potevano essere determinanti), gli aveva aperto la porta del successo. Successo che la sua potente personalità, il suo presentarsi come l’uomo nuovo che in quel difficile momento occorreva e la sua preparazione culturale, per quanto limitata, di varie spanne superiore a quella della grande maggioranza
degli altri esponenti rivoluzionari, avrebbero rapidamente confermato, sino a farne il vero
leader del Partito».
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PERCORSO DI STORIA LOCALE
UNITÀ 1
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TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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Opera di alfabetizzazione
attuata nelle campagne
nei primi anni
del Novecento.
Proprio sull’insegnamento Reggio otteneva espliciti elogi e riconoscimenti dalle autorità
centrali. Nell’agosto 1902 il ministro della Pubblica istruzione inviava «parole di sincera lode»
per l’inaugurazione del ricreatorio educativo, frequentato da oltre 300 bambini delle scuole
elementari. Il secondo elogio venne addirittura dal regio commissario che resse il comune
fra il febbraio ed il luglio 1905. Egli presentò al nuovo consiglio un’ampia Relazione nella quale
prendeva in esame lo stato dell’ente locale durante la sua gestione ed affrontava direttamente
– ed esprimendo anche espliciti giudizi – l’operato della precedente Amministrazione a partire dalle elezioni del 1901. Nel settore dell’istruzione pubblica egli partiva dalla constatazione
che le scuole elementari erano state in continuo incremento, come sedi e come frequentanti. Nel corso degli ultimi quattro anni scolastici gli allievi erano costantemente aumentati,
passando da 5595 a 6193 (+10,7 per cento). Ancor più significativo può risultare lo scorporo delle cifre offerte dal Commissario. Nelle scuole urbane gli scolari erano passati da 1666
a 1890 (+13,4 per cento); ma -0,1 se si partiva dal 1899), mentre in quelle di campagna si
era passati da 3929 a 4403 (+9,5 per cento; +26,7 per cento dal 1899). Infine, per quanto
riguardava il sesso, i maschi erano ora 3471 (+12,3 per cento; +24,0 dal 1899) e le femmine 2722 (+8,7 per cento; +11,6 rispetto al 1899).
Non mancavano difetti e le scuole erano, a volte, ospitate in edifici indegni e decadenti;
tuttavia, concludeva Cardin Fontana [il commissario straordinario, n.d.r.], nel loro complesso
«le scuole del Comune di Reggio [meritavano] l’estimazione in cui [erano tenute] dalla Cittadinanza e dall’Attività Scolastica». Gli apprezzamenti del commissario prefettizio tuttavia
non si fermavano al quadro generale dell’istruzione elementare. Almeno due iniziative specifiche avevano destato la sua ammirazione. La prima era la scuola speciale pei fanciulli tardivi, che era stato «costretto» a chiudere non perché essa non avesse «corrisposto alle
aspettative del benemerito comitato che la [aveva] proposta e del Comune che l’[aveva] istituita», né perché la scuola fosse mal diretta. Tutt’altro: aveva provveduto a chiuderla – e se
ne rammaricava – perché la legislazione nazionale non la prevedeva, cioè le leggi del Regno non tenevano ancora conto di quelle che il commissario prefettizio definiva le «migliori
riforme scientifiche e pedagogiche». In altri termini, il comune di Reggio Emilia aveva organizzato una sperimentazione didattica troppo avanzata pedagogicamente in relazione a
quanto consentito dalle leggi.
La seconda iniziativa che veniva elogiata esplicitamente era relativa all’acquisto dell’inchiostro da parte del comune ed alla cosiddetta municipalizzazione dei libri: «Da due anni il
Comune fornisce alle Scuole di Città e Campagna l’inchiostro, mentre prima lo si faceva pagare agli alunni dando luogo a non piccoli inconvenienti e costringendo le famiglie a un lieve
sacrificio… Agli scolari poveri si provvedono carta e oggetti di cancelleria per una spesa complessiva di lire mille; e da due anni si somministrano anche oggetti di calzatura e di vestiario fino alla concorrenza di mille e cinquecento lire. Poca cosa per una popolazione scolaF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Che atteggiamento assunsero le autorità centrali, nei confronti delle scuole promosse dalle
amministrazioni socialiste?
Quali innovazioni pedagogiche furono introdotte nelle scuole reggiane?
2
Mussolini contro il riformismo
Nel 1912, in vista del Congresso di Reggio Emilia – che avrebbe visto la vittoria della corrente più
rivoluzionaria del PSI – Mussolini precisò la propria concezione del socialismo. Rifiutando il riformismo
e il lavoro sul territorio svolto dalle cooperative e dai sindacati, egli rinviava tutto al grande cataclisma
finale, che avrebbe abbattuto il capitalismo.
Per Mussolini, che in tal modo si inseriva […] nel filone più dinamico in quel momento
del socialismo internazionale, la conquista del potere non poteva che essere rivoluzionaria,
contro lo stato borghese: il richiamo all’esperienza della Comune, così frequente negli scritti
e nei discorsi di Mussolini in questo periodo, è sintomatico, così come il richiamo ai relativi
scritti di Marx. Il rivoluzionarismo di Mussolini non era che la conseguenza di questo suo convincimento maturato su Sorel e (ma l’influenza fu certo molto minore) su Blanqui. «Il proletariato – come disse a Forlì in occasione del congresso delle federazioni socialiste romagnole
– deve essere psicologicamente preparato all’uso della violenza liberatrice». Doveva cioè essere sempre idealmente pronto a cogliere l’occasione rivoluzionaria e non doveva farsi addormentare dalla fiducia nelle riforme successive [che, susseguendosi le une alle altre, gradualmente avrebbero sgretolato il sistema capitalistico, n.d.r.]. È partendo da questa
premessa che bisogna giudicare – per limitarci ai due problemi da lui più spesso affrontati
durante il dibattito precongressuale della primavera 1912 – le prese di posizioni circa le organizzazioni economiche e il suffragio universale.
Il 16 giugno, illustrando a Forlì l’o.d.g. della frazione rivoluzionaria, Mussolini affermò (e
l’affermazione non mancò di suscitare vivaci proteste tra i riformisti) che per dieci anni i socialisti avrebbero dovuto disinteressarsi dell’organizzazione economica. Come ebbe a chiarire più tardi, con questa affermazione apparentemente paradossale egli non voleva dichiararsi contrario all’organizzazione economica in se stessa («sono invece partigiano e
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 1
L. Casali, «Sovversivi e costruttori. Sul movimento operaio in Emilia-Romagna», in R. Finzi (a cura di),
L’Emilia-Romagna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 488-492
7
Il giovane Mussolini e il socialismo in Emilia Romagna
stica di oltre seimila fanciulli, la maggior parte poveri, ma anche questo poco serve per far
fronte ai più urgenti bisogni. Nell’ultimo triennio il Municipio ha giovato alle famiglie degli scolari in altro modo, autorizzando cioè la Direzione delle Scuole e l’Economato ad acquistare
direttamente dagli Editori i libri di testo obbligatori nelle diverse classi e a somministrarli, pel
tramite dei Maestri, ai fanciulli al prezzo di costo, cioè con un ribasso variante dal 30 al 55
per cento. In tal modo, senza alcuna spesa per parte del Municipio e senza che il servizio
abbia dato luogo mai ad alcun inconveniente, si sono fatte risparmiare ogni anno alla scolaresca più di 600 lire».
Sperimentazione d’avanguardia, senza alcun dubbio, ma soprattutto introduzione di elementi di democrazia, dal momento che la scuola veniva concepita quale tramite per la promozione sociale dell’uomo e via per costruire quell’uomo nuovo che avrebbe dovuto guidare la futura società egualitaria e socialista. Nella Relazione a Bilancio di previsione per il
1902 troviamo infatti scritto: «C’è soddisfazione a spendere per l’istruzione perché se ne vedono gli ottimi risultati. Procuriamo di spendere bene, ma non siamo avari in questo campo,
perché l’istruzione distrugge la miseria».
Così le innovazioni non potevano fermarsi al semplice impegno ad aprire nuove scuole
e ad assumere nuovi insegnanti; non mancavano la riflessione didattica e la sperimentazione
anche in questo terreno. […] L’utilizzazione delle maestre nelle prime classi maschili aveva
rappresentato una delle novità introdotte dall’assessore Augusto Curtini che, appena nominato, non aveva esitato ad incontrare «tutti» gli insegnanti del comune per «consultarli sulle
varie questioni didattiche e pedagogiche». Proprio da tali incontri era uscita quella proposta, rivoluzionaria per l’epoca, che veniva motivata da una specie di continuità dell’affidamento materno. Incontrare in classe, al primo giorno di scuola, una maestra era cosa meno
traumatica e più rassicurante per un bambino che così comprendeva di poter trovare anche nella scuola quelle «cure amorevoli, quelle piccole attenzioni di cui solo le maestre, perché donne, sono capaci». […] Né va dimenticato – sempre a proposito di democratizzazione
della scuola reggiana – che il 24 agosto 1903 venne approvata la parificazione degli stipendi
fra maestri e maestre.
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TRA ’800 E ’900: L’EPOCA DELLE MASSE E DELLA VELOCITÀ
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difensore dell’organizzazione economica quando essa sia dichiaratamente socialista, cioè
adotti il metodo della lotta di classe, per giungere come meta all’espropriazione della borghesia»), ma voleva prendere posizione contro il carattere ed il ruolo che le organizzazioni
economiche avevano avuto e tutt’ora avevano nel movimento operaio italiano. Alle organizzazioni economiche Mussolini rimproverava: primo, di aver ucciso il sentimento rivoluzionario del proletariato: esse «hanno rimpicciolito l’orizzonte mentale dell’operaio convertendolo in un passivo piccolo borghese, sordo ai richiami ideali»; secondo, di aver
depauperato il Partito socialista dei suoi quadri migliori: «Sta in fatto che da dieci anni a questa volta, il Partito Socialista ha dato la parte migliore di se stesso, il suo sangue più vermiglio, i suoi uomini più devoti alle organizzazioni economiche. Si è esaurito il circolo [l’organizzazione di partito, n.d.r.] per dar vita alla lega [l’organizzazione sindacale dei braccianti o
di altre categorie di lavoratori, n.d.r.]. La comunità delle idee ha abdicato davanti alla comunità
degli interessi. Mentre la Confederazione generale del lavoro aumentava enormemente i suoi
quadri, il Partito Socialista vedeva restringere i suoi a cifre sempre più modeste. Noi credevamo che queste organizzazioni economiche assumessero e vivificassero il nostro ideale.
Delusione! L’organizzazione economica è divenuta in Italia qualche cosa di piatto e di mercantile. Le mille pecore sbandate sono oggi sotto la ferula di pochi pastori, ma sono sempre pecore. L’unione per se stessa non fa la forza. È tempo di rivedere questo clichè e di
toglierlo dalla circolazione. L’unione diventa la forza, quando l’unione è cosciente. Altrimenti
no. L’operaio semplicemente organizzato è divenuto un piccolo borghese che non obbedisce che alla voce degli interessi. Ogni richiamo ideale lo trova sordo». […]
Contro il riformismo delle organizzazioni economiche («le organizzazioni economiche sono
riformiste perché la realtà economica è riformista») e della CGL, il cui socialismo in dieci anni
«si è risolto in una pratica computistica di dare e di avere» e i cui esperimenti cooperativi
«sono falliti e quando prosperano non hanno nulla di socialista: si tratta di aziende semplicemente borghesi», l’unico strumento valido restava il partito, che andava rinsanguato e
rafforzato, con vantaggio delle stesse organizzazioni economiche, che ne sarebbero state
per riflesso rafforzate a loro volta. «Torniamo dunque – concludeva – all’opera di proselitismo puramente socialista, aumentando le sezioni e il numero degli iscritti, propaghiamo la
nostra fede!». […] Ora [nel 1912, dopo il congresso di Reggio Emilia, n.d.r.], con l’Avanti! nelle
sue mani, questo processo di trasformazione del Partito socialista poteva avere inizio; in un
secondo tempo, reso il partito uno strumento effettivo di lotta, una milizia, lo si sarebbe potuto lanciare alla conquista del potere con metodi che non fossero più quelli gradualisti, parlamentari, delle successive riforme, della conquista delle amministrazioni locali e della lenta
trasformazione dell’economia nazionale attraverso le organizzazioni economiche operaie e
contadine, dei riformisti, ma – appunto – con i metodi della conquista rivoluzionaria. L’anima
di questa conquista sarebbero state «delle minoranze audaci e delle élites precorritrici», l’effettiva conquista del potere non poteva però aver luogo senza le masse, senza «l’irreggimentazione completa di tutto il proletariato». Questo doveva costituire l’esercito della rivoluzione. «Senza soldati… non c’è l’esercito; senza cellule, non c’è l’organismo»: il Partito
socialista doveva pertanto essere reso l’esercito della rivoluzione.
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965, pp. 120-123 e 137
Per quali ragioni Mussolini era ostile al suffragio universale?
Spiega l’affermazione di Mussolini secondo cui per dieci anni i socialisti avrebbero dovuto
disinteressarsi dell’organizzazione economica.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
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Il giovane Mussolini e il socialismo in Emilia Romagna