Società di comodo e disapplicazione della normativa antielusiva: il revirement della Cassazione Filippo Alessandro Cimino Ricercatore nell’Università Kore di Enna Sommario: 1. Orientamenti della Corte di Cassazione sulla natura dell’impugnazio ne del diniego di disapplicazione - 2. La posizione dell’Agenzia delle Entrate ed il varie gato panorama dottrinale - 3. Natura ed effetti della risposta del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate all’istanza di interpello - 4. L’interesse ad agire e l’impugnabi lità del diniego di disapplicazione 1. Orientamenti della Corte di Cassazione sulla natura dell’impugnazione del diniego di disapplicazione La Corte di Cassazione si è più volte pronunciata in merito all’impugnabilità del diniego opposto dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate a fronte dell’istanza di interpello presentata ai fini della disapplicazione della normativa antielusiva vigente in materia di società di comodo ai sensi dell’art. 30 della L. n. 724/1994. Assumono particolare rilievo due pronunce della Suprema Corte, sezione Tributaria. Con la sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011 la Corte afferma che il diniego sull’istanza di interpello disapplicativo deve essere ritenuto compreso tra gli atti autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546, in quanto equiparato al provvedimento con cui viene negata un’agevolazione fiscale. Nella stessa sentenza si fa rilevare che il sindacato del giudice tributario è “a cogni zione piena”, con la conseguenza che la pronuncia non solo incide sulla legittimità del diniego, ma anche sul merito della questione attraverso una valutazione della fondatezza o meno della domanda di disapplicazione. Muovendo da questo presupposto la Corte afferma che il diniego costituisce “un atto tipi co” recettizio avente immediata rilevanza esterna, la cui mancata impugnazione nei termini comporta l’intangibilità dello stesso per acquisita definitività, con l’esclusione della possibilità di contestazione successiva. Pertanto, secondo questo orientamento, l’impugnazione avverso il diniego si configura come necessaria per evitare il definitivo consolidamento degli effetti dell’atto. La Suprema Corte, con la successiva sentenza n. 17010 del 5.10.2012, si è discostata dal precedente orientamento, rilevando che il contribuente ha una mera facoltà di impu1 gnare il diniego di disapplicazione, atteso che esso non rappresenta un atto di diniego di agevolazione, ma un provvedimento di disapplicazione di una norma antielusiva. In particolare il Collegio ha affermato che l’impossibilità di ricondurre, in modo certo ed inequivoco, il diniego ad uno degli atti indicati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, induce a ritenere che esso “non può essere ritenuto obbligatoriamente impugnabile”. Tuttavia possono essere facoltativamente impugnati dal contribuente anche atti diversi da quelli elencati nell’art. 19 cit., che recano una “ben individuata pretesa tributaria” o che, come nella fattispecie, portano a conoscenza del contribuente il convincimento dell’Amministrazione Finanziaria in merito a un determinato rapporto tributario, con conseguente diretta incidenza sulla condotta del soggetto istante. In proposito la Cassazione ha ribadito che, trattandosi di una mera facoltà, la mancata impugnazione non pregiudica il diritto del contribuente a proporre motivi di ricorso sulle questioni oggetto dell’interpello in sede di impugnazione del successivo atto impositivo. Inoltre la Corte ha chiarito che la risposta negativa all’istanza di interpello non impedisce all’Amministrazione Finanziaria di rivalutare la situazione del contribuente e di mutare successivamente la propria risposta, ritenendo, dopo ulteriori valutazioni, sussistenti i presupposti per la disapplicazione della disciplina antielusiva. Nel caso di risposta affermativa, invece, l’Agenzia delle Entrate non può più cambiare orientamento, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento. Le problematiche che scaturiscono dalla lettura delle citate sentenze offrono lo spunto per alcune riflessioni, incentrate sulla natura e sugli effetti dell’atto di diniego dell’istanza di disapplicazione, nonché sulla necessità, ovvero sulla possibilità di contestazione del medesimo in sede giurisdizionale. 2. La posizione dell’Agenzia delle Entrate ed il variegato panorama dottrinale L’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione netta, negando in ogni caso la possibilità di rivolgersi alle Commissioni tributarie di fronte alla risposta negativa sull’istanza di interpello ed affermando che la tutela giurisdizionale potrà esplicarsi solo quando saranno adottati gli atti impugnabili discendenti da detti responsi o si formerà il cd. silenzio rifiuto sulle domande di rimborso che da essi traggono origine. Secondo l’Agenzia delle Entrate, il diniego opposto a fronte dell’istanza di interpello non costituisce esercizio di un potere impositivo e non è pertanto ricorribile per via giurisdizionale; esso costituisce piuttosto un parere obbligatorio, di natura non provvedimentale, il quale vincola esclusivamente l’Amministrazione finanziaria, ma che non incide sulla sfera giuridica del contribuente, il quale resta libero di disattenderlo. 2 La dottrina è invece divisa tra coloro che ammettono l’impugnabilità del diniego, assimilato da alcuni ad un diniego di agevolazione e da altri ad un avviso di accertamento, e coloro che propendono per la soluzione negativa, riconoscendo la tutela giurisdizionale solo in via successiva e differita in sede di impugnazione del conseguente atto impositivo. Un primo orientamento attribuisce al diniego di disapplicazione la natura di provvedimento “di tipo autorizzatorio”, anche se emesso senza alcun potere discrezionale. Si afferma che tale provvedimento, non essendo compreso tra gli atti autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, può essere impugnato soltanto in via differita. Un altro orientamento qualifica la risposta del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate come un atto avente natura meramente interpretativa, non vincolante quindi né per il contribuente né per il giudice e, come tale, non suscettibile di produrre una lesione attuale della posizione giuridica del contribuente. La non impugnabilità del diniego, pertanto, andrebbe esclusa allo stesso modo in cui si esclude l’impugnabilità di una risoluzione ministeriale. Altri studiosi muovono dall’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, il quale fissa il principio secondo cui i precetti antielusivi si prestano ad essere disapplicati quando il contribuente dimostri che, nella vicenda che lo riguarda, gli effetti elusivi contrastati da tali disposizioni “non potevano verificarsi”. Ciò posto, ritengono che l’interpello abbia una funzione di mero orientamento della condotta di chi reputi di trovarsi nella condizione contemplata dalla norma, senza che esso debba considerarsi uno strumento necessario per pervenire alla disapplicazione. Ne consegue che la presentazione dell’istanza di disapplicazione assume un carattere facoltativo, potendo il contribuente scegliere di non applicare la disposizione antielusiva, esponendosi al rischio di un successivo atto di accertamento, oppure di applicarla, richiedendo successivamente il rimborso delle imposte versate in eccedenza a motivo del rispetto di una norma che invero non doveva essere applicata. Inoltre la risposta negativa del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, avendo la natura di mero atto di indirizzo, non vincola affatto il contribuente, il quale può non tenerne conto, esponendosi al rischio di una successiva contestazione, ovvero rispettarla, potendo in seguito incardinare un giudizio di rimborso. La conclusione coerente di tali premesse è che il diniego all’interpello disapplicativo non integra affatto l’interesse qualificato ad agire richiesto nel processo tributario, e, pertanto, non è impugnabile. Tra gli orientamenti che riconoscono l’impugnabilità del diniego opposto all’interpello disapplicativo, figurano anche quelli, peraltro isolati, che sostengono che la giurisdizione in materia spetterebbe al Giudice amministrativo. La dottrina maggioritaria configura la possibilità di una impugnazione diretta del diniego dinanzi alle Commissioni tributarie, reputando non condivisibile l’ipotesi della tutela dif3 ferita, anche in considerazione degli effetti della risposta negativa, sostanzialmente equiparabili a quelli propri di un atto impositivo con la conseguente sindacabilità innanzi al Giudice. Di notevole rilievo sistematico è, infine, quell’orientamento dottrinale che distingue la categoria degli interpelli cd. “necessari”, nei quali la richiesta del contribuente si configura come condizione necessaria per l’applicazione di un determinato regime giuridico o di una disciplina, dalla categoria degli interpelli cd. “consultivi”, nei quali la funzione svolta dal procedimento è solo quella di orientare le scelte del contribuente, senza esplicare effetti giuridicamente vincolanti. E tra gli interpelli cd. “necessari” sono collocati anche gli interpelli disapplicativi, in cui il privato può, previa istanza, richiedere l’applicazione di una disciplina diversa da quella che, in via ordinaria, si applicherebbe all’operazione, al verificarsi di determinate circostanze la cui sussistenza deve essere accertata preventivamente dall’amministrazione. Tale dottrina inquadra gli interpelli cd. “necessari” nella categoria, elaborata dal Capaccioli, delle “verificazioni necessarie”, nella quale trovano collocazione una serie di atti della pubblica amministrazione i cui effetti giuridici scaturiscono direttamente dalla legge, e per i quali è necessario tuttavia che venga verificato e attestato di volta in volta che i presupposti fissati dalla legge si siano realizzati. Con particolare riferimento all’interpello disapplicativo, tale dottrina riconosce l’immediata impugnabilità della risposta negativa, atteso che essa incide negativamente ed immediatamente nella sfera giuridica altrui, e, da un punto di vista funzionale, equipara la risposta negativa all’interpello disapplicativo al diniego di agevolazioni. 3. Natura ed effetti della risposta del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate all’istanza di interpello Delineato in tal modo il quadro giurisprudenziale e dottrinale relativo all’impugnazione del diniego di disapplicazione, al fine di affrontare compiutamente la problematica occorre preliminarmente esaminare la natura della risposta all’istanza di interpello disapplicativo. La sinteticità della normativa ed il silenzio della stessa su aspetti strutturali dell’istituto hanno consentito letture diversificate e soluzioni difformi in ordine a profili applicativi di pur considerevole rilievo. Al riguardo si deve rilevare immediatamente una aporia legislativa, la quale - a sommesso avviso di chi scrive - sembra essere alla radice della diversità delle tesi prospettate in dottrina. In particolare l’art. 30, comma 4-bis, della L. n. 724/1994, stabilisce che la società interessata “può” richiedere la disapplicazione delle disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973. 4 A sua volta la norma da ultimo richiamata prescrive che il contribuente, al fine di disapplicare le norme tributarie antielusive, “deve” presentare istanza al Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate. La prospettata antinomia tra facoltà e necessità della richiesta di disapplicazione da parte del contribuente pertanto permea le disposizioni sul punto e di conseguenza le interpretazioni proposte. Ne deriva, come si è evidenziato nel paragrafo precedente, che la dottrina si è cimentata sulle relative problematiche poggiando su argomenti solidi, ma inevitabilmente contrastanti. Si deve tuttavia rilevare che l’espresso richiamo, contenuto nell’art. 30 della L. 724/1994, all’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, fa rientrare le disposizioni sulle società ed enti non operativi tra quelle antielusive analitiche o a valenza particolare. Tale inquadramento, per quanto non esente da critiche, sembra costituire il punto di partenza indefettibile per individuare la natura e gli effetti della risposta all’interpello. In particolare l’art. 37-bis, comma 8, citato, introdotto sotto la spinta dell’esigenza di superare le rigidità connesse all’applicazione delle norme antielusive, consente al contribuente di interpellare l’Amministrazione al fine di dimostrare il mancato verificarsi degli effetti elusivi nella particolare fattispecie concreta, con la conseguente disapplicazione delle norme con cui si limitano posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento. Le norme antielusive analitiche, a differenza delle disposizioni generali (le quali dettano clausole flessibili, come, ad esempio, il criterio delle valide ragioni economiche), si configurano come disposizioni correttive rigide, aventi struttura ordinaria, che si limitano, sulla base di una valutazione eseguita dal legislatore, a delineare una disciplina restrittiva che incide direttamente sulla formazione della base imponibile, inibendo o limitando posizioni altrimenti spettanti al contribuente sulla base delle regole ordinarie. Al verificarsi di una fattispecie che rientra nel loro alveo, le disposizioni restrittive diventano la regola la quale, in assenza di un esplicito provvedimento di disapplicazione, va applicata al caso concreto. L’art. 37-bis, comma 8, cit. con l’utilizzo delle locuzioni “dimostri”, “istanza” e “chiede”, sembra subordinare la disapplicazione delle norme antielusive all’approvazione dell’Amministrazione, e dunque escludere che essa possa essere attuata autonomamente dal contribuente, sia pure previa comunicazione all’Amministrazione stessa. Invero il contribuente, al fine di ottenere la disapplicazione della norma antielusiva e quindi una specifica regola per il singolo caso concreto, è tenuto a presentare un’apposita richiesta al competente Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, descrivendo compiu5 tamente l’operazione e dimostrando che nella fattispecie non possono verificarsi gli effetti che le norme antielusive di cui si chiede la disapplicazione sono volte a prevenire. Inquadrando l’istituto da una prospettiva funzionale che attribuisca valenza decisiva alla finalità dell’istanza presentata dal contribuente, si può affermare che la richiesta che dà inizio al procedimento previsto nell’art. 37-bis, comma 8, non è affatto volta ad acquisire un parere, quanto, piuttosto, ad ottenere un atto dell’Amministrazione che consenta la disapplicazione nella fattispecie di norme antielusive sostanziali introdotte per contrastare comportamenti elusivi. Peraltro il coinvolgimento del Direttore regionale che deve valutare in concreto i presupposti per la disapplicazione, la espressa previsione della comunicazione del provvedimento al contribuente e la possibilità di espletare richieste istruttorie, sono tutti elementi i quali confermano che il provvedimento reso in risposta alla richiesta di disapplicazione riveste un ruolo ben più pregante di un mero parere. Se si accetta questa impostazione, sembra difficile riconoscere alla risposta all’interpello disapplicativo un carattere meramente interpretativo; piuttosto sembra corretto attribuire alla risposta del Direttore una valenza attuativa della norma tributaria, nel senso che essa ne verifica l’applicabilità al caso concreto descritto nell’istanza del contribuente. Ed il potere di disapplicazione, come peraltro correttamente riconosciuto dalla sentenza della Cassazione n. 8663/2011, non è un potere discrezionale ma vincolato, nel senso che ai fini della emanazione del provvedimento non rileva alcuna ponderazione di interessi ma unicamente l’accertamento nel caso concreto, sulla base della forza probante della documentazione presentata dal contribuente, delle situazioni oggettive contemplate dalla norma. Attraverso il provvedimento, atto insindacabile in sede gerarchica in quanto “definitivo”, si manifesta la volontà dell’Amministrazione finanziaria rispetto ad una richiesta del contribuente, in quanto presuppone il previo esercizio di una funzione non discrezionale di accertamento, nella fattispecie, dei presupposti per l’accesso ad un determinato regime fiscale. Naturalmente occorre sempre ricordare che il provvedimento direttoriale è emesso allo stato degli atti, sulla base della documentazione acquisita, e non impedisce all’Amministrazione di rivedere l’orientamento negativo precedentemente espresso. 4. L’interesse ad agire e l’impugnabilità del diniego di disapplicazione Se si condividono le considerazioni esposte nel precedente paragrafo, nel senso che l’atto amministrativo di disapplicazione emesso dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate è necessario per potere operare in difformità dalle norme antielusive, l’interesse a ricorrere in caso di diniego sembra evidente. 6 In tale ipotesi, infatti, il Direttore regionale ha esercitato il potere di accertamento dei presupposti ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, D.P.R. n. 600/1973 con esito negativo, e non sembra, ad avviso di scrive, che il contribuente possa prescindere dal provvedimento di diniego come se esso non fosse stato emesso, disapplicando autonomamente la disposizione antielusiva. Invero il contribuente, a fronte del provvedimento negativo adottato nonostante la dimostrazione che nel caso concreto non possono verificarsi gli effetti elusivi che la disposizione intende prevenire, sembra essere posto dinanzi ad una secca alternativa: o sottoporre a tassazione il reddito minimo presunto, versando le imposte in misura maggiore rispetto a quanto dovuto sulla base delle disposizioni antielusive, con la possibilità di inoltrare successivamente un’istanza di rimborso, oppure esporsi al rischio di essere destinatario di un avviso di accertamento relativo alla dichiarazione d’imposta presentata in difformità alle predette norme antielusive, con conseguente irrogazione delle sanzioni. Ne consegue un interesse immediato, attuale e diretto, che gli consente l’accesso alla tutela giurisdizionale. Ed il giudice potrà, con cognizione piena, entrare nel merito dell’assenza di rischi di elusione ed emanare una sentenza sostitutiva, proprio perché l’esercizio del potere di disapplicazione da parte del Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate ha un carattere vincolato e non discrezionale, essendo legato esclusivamente alla ricognizione di alcuni presupposti predeterminati dalla legge. All’immediata impugnabilità del diniego di disapplicazione non sembra ostare la sua assenza nella elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Premesso che la proponibilità dell’azione innanzi al Giudice tributario è condizionata dalla previa emanazione di un atto, l’attenta analisi della giurisprudenza della Suprema Corte evidenzia la progressiva evoluzione da un assetto chiuso degli atti impugnabili fondato sulla loro predeterminazione normativa compiuta dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, anche se suscettibile di interpretazione estensiva, ad un assetto aperto che valorizza l’individuazione giurisprudenziale degli atti medesimi. E proprio nell’ambito di questa evoluzione del diritto vivente si colloca a pieno titolo la problematica dell’autonoma impugnabilità del diniego opposto dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate all’istanza di disapplicazione della disciplina in materia di società ed enti non operativi. Invero la Corte di Cassazione ha nel tempo adottato due diversi orientamenti. Secondo un primo approccio, la Suprema Corte ammette la possibilità di interpretare estensivamente l’art. 19 cit. ricomprendendo tra gli atti impugnabili anche quelli assimilabili, quanto alla loro funzione, ad uno di quelli espressamente elencati. 7 La sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011 va sicuramente ascritta a tale indirizzo del Supremo Collegio, essendo fondata sull’assunto che il diniego di disapplicazione della norma antielusiva integra un caso di negazione di agevolazione fiscale per il quale il relativo provvedimento è direttamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 cit.. Dall’attribuzione della natura provvedimentale alla risposta negativa del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate e dall’equiparazione tra la stessa ed il diniego di agevolazione, la Corte trae dalla mancata impugnazione la conseguenza della decadenza dal diritto di agire contro i successivi atti tipici, con la conseguente definitiva perdita della possibilità di disapplicare la disposizione antielusiva. Invero l’equiparazione funzionale operata dalla sentenza del Supremo Collegio non sembra condivisibile, in quanto si tratta di due fattispecie sostanzialmente diverse per la struttura stessa delle norme tributarie che le disciplinano. Infatti, il diniego di agevolazione fa riferimento ad una fattispecie dove la legge pone direttamente una condizione di favore per il contribuente. Al contrario, il diniego di disapplicazione interviene in una situazione in cui la legge pone una condizione di sfavore per il contribuente, in quanto la norma da applicare nella fattispecie è quella restrittiva dettata dalla disposizione antielusiva. E tale regola restrittiva vincola il contribuente finché non intervenga un provvedimento positivo di disapplicazione che consente di superarla e di ripristinare il trattamento ordinario, non di introdurre un trattamento di favore. Inoltre tale orientamento giurisprudenziale appare non condivisibile in un’ottica di tutela del contribuente, proprio per l’asserita decadenza, in caso di inerzia, dal diritto d’impugnare i successivi atti tipici. Sempre nella prospettiva delle conseguenze derivanti da tale primo orientamento, si è sostenuto che la mancanza, nel provvedimento di diniego di disapplicazione, delle indicazioni sui tempi e sulle modalità per ricorrere dovrebbe impedire la decorrenza del termine per impugnare l’atto. Sotto il profilo applicativo dovrebbe essere adottato l’istituto della rimessione i termini, soprattutto ove si consideri che l’Amministrazione finanziaria si è pronunciata espressamente nel senso di considerare tale atto non impugnabile. In seno alla Suprema Corte, tuttavia, è maturato un altro orientamento mirato al superamento dell’estensione funzionale dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992: ne è espressione la sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012. In particolare la Cassazione ha affermato la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore da cui consegua una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa si rivesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 cit., 8 riconoscendo al contribuente l’immediato interesse a conoscere il corretto trattamento fiscale ai sensi dell’art. 100 c.p.c.. Al contempo il Supremo Collegio ha affrontato la questione degli effetti dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., del primo atto con il quale l’Amministrazione finanziaria esprime la propria pretesa nel caso in cui venga successivamente notificato il provvedimento autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 cit., il quale rappresenta l’ultimo atto della catena procedimentale. Ed ha riconosciuto la facoltà di invocare fin da subito una tutela giurisdizionale, senza che ciò comporti la preclusione, nel caso in cui il contribuente non eseri tale facoltà, del diritto ad impugnare il successivo atto tipico. A sommesso avviso di chi scrive, sembra preferibile questo secondo indirizzo della Suprema Corte, dal momento che esso espande le possibilità di tutela offerte al contribuente e rimedia efficacemente all’inadeguatezza dell’art. 19 rispetto al continuo sviluppo dell’azione amministrativa, senza alcuna necessità di effettuare una difficile equiparazione del diniego di disapplicazione con uno degli atti tipici autonomamente impugnabili. In particolare l’orientamento da ultimo riportato è espressivo di un contemperamento tra l’interesse ad una tutela immediata avverso il diniego di disapplicazione e quello, non meno rilevante, alla tutela avverso i successivi atti tipici (avviso di accertamento, atto di diniego dell’istanza di rimborso) nei quali la manifestazione di volontà dell’Amministrazione finanziaria è comunque destinata ad esprimersi. L’impugnazione facoltativa del diniego di disapplicazione sembra peraltro coerente con il mantenimento della struttura impugnatoria del processo tributario, nel quale non si è mai ammessa un’azione di accertamento negativo generalizzata, ma la si è sempre condizionata alla presenza di un atto. In considerazione del recente revirement giurisprudenziale, sembra opportuno che la Suprema Corte garantisca, in coerenza con la sua indispensabile funzione nomofilattica, un paradigma interpretativo coerente e non episodico, suscettibile di assicurare la razionalità e la sistematicità dell’assetto normativo. In particolare tale finalità dovrebbe indurre il Supremo Collegio a rivisitare funditus il sistema della giurisdizione tributaria, chiarendo inequivocabilmente se, e soprattutto con quali limiti, la tutela dell’interesse al ricorso prevalga sulla regola della predeterminazione normativa degli atti impugnabili. E tale funzione nomofilattica risulta tanto più essenziale ove si consideri che si è oramai notevolmente affievolita, sia per la novella dell’art. 2 che per l’evoluzione giurisprudenziale, la funzione originaria dell’art. 19, originariamente concepito per dare certezze nella regolamentazione dell’accesso alla tutela del Giudice tributario. 9