DIRITTO COMUNITARIO ADDIO AL TOCAI FRIULANO? Del vitigno autoctono sacrificato dall’Europa, per i superiori interessi del commercio internazionale, sotto lo sguardo colpevolmente inerte dell’Italia Sentenza della Corte di giustizia, del 12 maggio 2005, causa C-347/03, Regione FVG e a. «La Corte (Seconda Sezione), composta dal sig. C.W.A. Timmermans (relatore e presidente di sezione), dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. R. Schintgen, G. Arestis e J. Klučka, giudici, avvocato generale sig. F.G. Jacobs, è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità e sull’interpretazione della decisione del Consiglio 23 novembre 1993, 93/724/CE, concernente la conclusione di un accordo tra la Comunità europea e la Repubblica d’Ungheria sulla tutela e il controllo reciproci delle denominazioni dei vini (in prosieguo: l’«accordo CEUngheria sui vini»), e del Regolamento (CE) della Commissione 29 aprile 2002, n. 753, che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli. Il rinvio pregiudiziale scaturisce dalla controversia pendente dinanzi al Tribunale regionale amministrativo per il Lazio tra, da un lato, la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e l’Agenzia regionale per lo sviluppo rurale (ERSA) e, dall’altro, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, avente ad oggetto l’annullamento del decreto ministeriale 26 settembre 2002 di attuazione della disciplina comunitaria sopra citata, nella parte in cui esclude l’utilizzo del termine «Tocai» nella menzione «Tocai friulano» o nel suo sinonimo «Tocai italico» per la designazione e la presentazione di taluni vini italiani alla fine di un periodo transitorio che scade il 31 marzo 2007. (…) [In particolare il giudice del rinvio, facendo anche riferimento alle argomentazioni della Regione Friuli e dell’ERSA dirette a dimostrare l’importanza delle origini storiche della denominazione Tocai Friulano e dell’utilizzo parallelo alle denominazioni ungheresi «Tokaj» o «Tokaji» per prodotti oggettivamente differenti (bianco e secco il vino friulano; ambrato e dolce quello d’Ungheria), osserva che con il decreto 26 settembre 2002 le autorità italiane si sono limitate a trasporre il disposto del Regolamento n. 753/2002 e del suo allegato II, contenenti la limitazione temporale dell’utilizzo della denominazione Tocai friulano, e hanno semplicemente precisato che tale limitazione deriva dall’accordo tra la Comunità e la Repubblica d’Ungheria sui vini. Risulta quindi evidente, secondo il detto giudice, che il danno lamentato nel ricorso principale, ovvero sia “Addio al Tocai friulano?” - Avv. Pietro Amico, Baker & McKenzie Milano S.t.P. l’impossibilità di utilizzare la denominazione Tocai friulano o Tocai italico dopo il 31 marzo 2007, deriva direttamente da due fonti normative comunitarie: la decisione 93/724/CE che approva l’accordo CE-Ungheria sui vini e il Regolamento n. 753/2002. Sennonché, dubitando della legittimità di tali fonti normative sul piano sia del diritto internazionale che del diritto comunitario, Il Tribunale amministrativo per il Lazio ha deciso di adire la Corte di giustizia proponendo una serie di questioni pregiudiziali per la risoluzione della controversia principale]. - Sulla questione dell’incompetenza della sola Comunità europea a stipulare l’accordo sui vini con l’Ungheria Con tale questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 133 CE, che conferisce alla Comunità una competenza esclusiva in materia di politica commerciale comune, costituisca un fondamento giuridico appropriato per la conclusione dell’accordo CE-Ungheria sui vini da parte della sola Comunità, tenuto conto del fatto che tale accordo conterrebbe la disciplina della tutela delle denominazioni geografiche rientranti nella materia della proprietà industriale e commerciale. Dal primo «visto» della decisione 93/724/CE risulta che il Consiglio ha prescelto specificatamente l’art. 133 CE come fondamento giuridico per la conclusione dell’accordo CE-Ungheria sui vini. Dal terzo ‘considerando’ di tale decisione risulta inoltre che, poiché le disposizioni dell’accordo erano direttamente connesse alle misure disciplinate dalla politica commerciale e agricola comune, in particolare dalla normativa comunitaria del settore vitivinicolo, il Consiglio ha ritenuto necessario attuare tale accordo sul piano comunitario. Secondo la giurisprudenza della Corte, un atto comunitario rientra nella competenza esclusiva in materia di politica commerciale comune prevista dall’art. 133 CE solo se verte specificamente sugli scambi internazionali in quanto sia sostanzialmente destinato a promuovere, facilitare o disciplinare gli scambi commerciali ed abbia effetti diretti ed immediati sul commercio o gli scambi dei prodotti interessati (v. parere 1/94 del 15 novembre 1994, Racc. pag. I-5267, punto 57; parere 2/00 del 6 dicembre 2001, Racc. pag. I-9713, punto 40, e sentenza 12 dicembre 2002, causa C281/01, Commissione/Consiglio, Racc. pag. I-12049, punti 40 e 41). Nel caso di specie si pone più specificamente il problema di stabilire se l’accordo CE-Ungheria sui vini rientri nella competenza esclusiva della Comunità in materia di politica commerciale comune ovvero, come sostenuto dalla Regione e dall’ERSA nonché dal governo italiano, nell’ambito della tutela dei diritti di proprietà intellettuale, materia in cui la Comunità e gli Stati membri hanno una competenza ripartita. A questo proposito occorre rilevare che l’accordo CE-Ungheria sui vini [rientra tra quegli accordi internazionali stipulati dalla Comunità] che hanno lo scopo principale di promuovere gli scambi commerciali tra le parti contraenti favorendo su una base di reciprocità la commercializzazione di vini originari dei paesi terzi interessati, in quanto viene assicurata a tali vini la stessa protezione di quella prevista per i vini di origine comunitaria, e la commercializzazione di questi ultimi nei paesi terzi. Tali accordi garantiscono in particolare la reciproca tutela di determinate indicazioni pag. 2 geografiche menzionate nell’etichetta utilizzata per la commercializzazione dei vini in questione sui mercati della Comunità e del paese terzo interessato. Si tratta quindi di uno strumento che influisce direttamente sul commercio dei vini. Alla luce di questi elementi, si deve concludere che simili accordi rispondono ai criteri che, secondo la giurisprudenza poc’anzi ricordata, devono essere soddisfatti perché un atto comunitario possa rientrare nella competenza esclusiva in materia di politica commerciale comune prevista dall’art. 133 CE. Ne consegue che la questione deve essere risolta dichiarando che l’art. 133 CE, di cui al preambolo della decisione 93/724/CE, costituisce un fondamento giuridico appropriato per la conclusione dell’accordo CE-Ungheria sui vini ad opera della sola Comunità. - Sulla questione della nullità del divieto di utilizzare la denominazione Tocai dopo il 31 marzo 2007 Con tale questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, nel caso in cui si dovesse considerare legittimo nel suo complesso l’accordo CE-Ungheria sui vini, il divieto di utilizzare in Italia la denominazione «Tocai» dopo il 31 marzo 2007, che risulta specificamente dallo scambio di lettere sul Tocai allegato a detto accordo, sia nullo e inapplicabile, in quanto in contraddizione con la disciplina delle denominazioni omonime stabilita dall’art. 4, n. 5, dell’ accordo medesimo. Tale questione deve essere intesa alla luce dell’argomento della Regione e dell’ERSA secondo cui la contraddizione risiederebbe nella priorità attribuita con lo scambio di lettere alla denominazione ungherese «Tokaj» a danno dell’omonima denominazione italiana «Tocai», laddove la disciplina delle denominazioni omonime prevista dall’art. 4, n. 5, dell’accordo CE-Ungheria - accordo principale al quale un atto allegato, come lo scambio di lettere, non potrebbe derogare - sarebbe fondata su una regola che garantisce la coesistenza di tutte le denominazioni a condizione che non si prestino a confusione. A questo proposito, si deve rilevare che un simile conflitto può insorgere solo qualora le denominazioni considerate omonime ai sensi dell’accordo CE-Ungheria costituiscano ciascuna un’indicazione geografica protetta in virtù del detto accordo. Orbene, contrariamente alla denominazione ungherese «Tokaj», che figura [espressamente] tra le indicazioni geografiche relative ai vini originari della Repubblica d’Ungheria protetti in virtù dell’accordo CE-Ungheria, le menzioni «Tocai friulano» e «Tocai italico» non figurano nella parte dello stesso accordo dedicata ai vini originari della Comunità. Inoltre, queste ultime denominazioni non possono comunque essere qualificate come indicazioni geografiche nel senso dell’accordo CE-Ungheria sui vini. Infatti, a termini dell’art. 2, n. 2, di detto accordo, costituisce una «indicazione geografica» «un’indicazione, inclusa la “denominazione d’origine”, che è riconosciuta dalle disposizioni legislative e regolamentari di una delle parti contraenti per la descrizione e la presentazione di un vino originario del territorio della parte contraente di cui trattasi o di una regione o località di tale territorio in cui una determinata qualità, la rinomanza o altre caratteristiche del vino sono sostanzialmente attribuibili alla sua origine geografica». pag. 3 Per quanto riguarda la normativa rilevante in vigore nella Comunità all’epoca in cui è stato concluso l’accordo CE-Ungheria sui vini, le denominazioni «Tocai friulano» e «Tocai italico» non costituivano un’indicazione geografica, bensì il nome di un vitigno o di una varietà di vite riconosciuta in Italia come idonea alla produzione di taluni v.q.p.r.d. [vini di qualità prodotti in una regione determinata] di questo Stato membro. È infatti pacifico che l’espressione Tocai friulano figurava al titolo I dell’allegato del Regolamento (CE) n. 3800/81 sulla classificazione delle varietà di viti, come varietà di vite raccomandata, o persino autorizzata, in determinate province italiane, nonché al punto 5 dell’allegato III del Regolamento (CE) n. 3201/90, recante modalità di applicazione per la designazione e presentazione dei vini e dei mosti di uve, come sinonimo della varietà di vite «Tocai italico» utilizzabile per la designazione di taluni v.q.p.r.d. italiani. Al contrario, [nello stesso regolamento da ultimo citato] i vini ungheresi denominati «Tokaj» o «Tokaji» figuravano nell’«Elenco dei vini importati designati con un’indicazione geografica». La Regione, l’ERSA e il governo italiano sostengono che, in conformità della normativa comunitaria, era ed è tuttora stabilito che, in Italia, per la designazione e la presentazione di taluni v.q.p.r.d. italiani, le indicazioni geografiche interessate quali «Collio goriziano», «Collio», «Isonzo del Friuli» e «Isonzo» siano combinate, se determinate condizioni specificate nei disciplinari di produzione sono rispettate, con la menzione della varietà di vite Tocai friulano o del suo sinonimo Tocai italico da cui i vini provengono. Tuttavia, non vi è alcun elemento prodotto dinanzi alla Corte da cui risulti che la scelta così operata dal detto Stato membro di ammettere una simile combinazione abbia avuto la conseguenza che il testo risultante da quella combinazione costituisca “un’indicazione geografica” (…). Al contrario, risulta dalla citazione dei termini «Tocai friulano» e «Tocai italico» nell’allegato II del Regolamento n. 753/2002 che, anche nella normativa comunitaria vigente all’epoca della controversia nella causa principale, quelle menzioni corrispondono ancora al nome di una varietà di vite [invero riconosciuta come “comprendente un’indicazione geografica”, e tuttavia utilizzabile nelle etichette dei v.q.p.r.d. italiani interessati solo a determinate condizioni: nel caso di specie fino allo spirare del periodo transitorio]. Stante quanto sopra, la questione deve essere risolta dichiarando che il divieto di utilizzare la denominazione «Tocai» in Italia dopo il 31 marzo 2007, quale risulta dallo scambio di lettere allegato all’accordo CE-Ungheria sui vini, non è [nullo sul piano del diritto comunitario]. - Sulla questione della inosservanza della normativa internazionale sulle denominazioni geografiche omonime (…) La Regione, l’ERSA e il governo italiano sostengono che gli artt. 22-24 dell’accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Trade Related Intellectual Property Rights Agreement, in prosieguo l’«accordo TRIPS») stipulato in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio («OMC»), impongono alla Comunità, nel caso di omonimia tra denominazioni geografiche o tra un’indicazione geografica e una denominazione che riprende il nome di un pag. 4 vitigno, di tutelare ciascuna delle denominazioni omonime; di conseguenza la normativa internazionale impedirebbe che si privi di protezione la denominazione «Tocai friulano». Tale argomento non può essere accolto, stante il tenore letterale stesso delle disposizioni pertinenti dell’accordoTRIPS. In primo luogo, l’art. 23, n. 3, dell’accordo stabilisce in particolare che, nel caso di indicazioni geografiche omonime relative a vini, la protezione viene accordata a ciascuna indicazione e che ciascun membro dell’OMC determina le condizioni pratiche alle quali le indicazioni omonime in questione saranno distinte l’una dall’altra, tenendo conto della necessità di fare in modo che i produttori interessati ricevano un trattamento equo e che i consumatori non siano tratti in inganno. In virtù dell’art. 22, n. 1, dell’accordo ADPIC, per «indicazioni geografiche» si intendono le indicazioni che servono a identificare un prodotto come originario del territorio di un membro dell’OMC, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica. Ebbene, come già rilevato precedentemente, a differenza della denominazione ungherese «Tokaj», le denominazioni italiane «Tocai friulano» e «Tocai italico» corrispondono al nome di una varietà di vite o di un vitigno, ma non costituiscono un’indicazione geografica nel senso dell’accordo CE-Ungheria sui vini. Poiché la nozione di indicazione geografica come definita in quest’ultimo accordo è sostanzialmente identica a quella adottata dall’art. 22, n. 1, dell’accordo TRIPS, la stessa constatazione vale anche in quest’ambito. Pertanto, l’art. 23, n. 3, dell’accordo TRIPS non è applicabile nella causa principale poiché essa non verte su un’omonimia tra due indicazioni geografiche. In secondo luogo, l’art. 24, n. 4, dell’accordo TRIPS stabilisce che nessuna disposizione dello stesso obbliga un membro dell’OMC ad impedire l’uso continuato e simile di una particolare indicazione geografica di un altro membro che identifichi vini o alcolici, in relazione a prodotti o servizi, da parte di suoi cittadini o di residenti nel suo territorio che abbiano utilizzato tale indicazione geografica in modo continuato per gli stessi prodotti o servizi o per prodotti o servizi ad essi affini nel territorio di detto membro per almeno 10 anni prima del 15 aprile 1994 o in buona fede prima di tale data. Da questa disposizione discende chiaramente che, benché la Comunità non sia tenuta a vietare l’uso continuato e simile di un’indicazione geografica particolare di un altro membro dell’OMC che identifichi vini o alcolici da parte di un cittadino di uno Stato membro o di una persona residente nel territorio di uno Stato membro, nulla osta a tale divieto. In altri termini, il citato art. 24, n. 4, dev’essere interpretato nel senso che istituisce, alle condizioni da esso fissate, la facoltà e non l’obbligo di accordare una protezione ad ogni denominazione omonima. In terzo luogo, l’art. 24, n. 6, dell’accordo TRIPS consente in particolare alla Comunità di applicare, in quanto membro dell’OMC, le disposizioni del detto accordo in relazione a un’indicazione geografica di qualsiasi altro membro dell’OMC per vini per i quali la pertinente indicazione sia identica alla denominazione comune di una varietà d’uva esistente nel territorio di uno Stato membro alla data di entrata in vigore dell’accordo OMC. Anche questa disposizione prevede, pag. 5 quindi, la facoltà e non l’obbligo per la Comunità di accordare una protezione a una varietà d’uva o di vite comunitarie, in particolare se questa è omonima di un’indicazione geografica relativa a un vino originario di un paese terzo. Conseguentemente, la questione deve essere risolta dichiarando che gli artt. 22-24 dell’accordo TRIPS non esigono che, in un caso quale quello della causa principale, relativo ad un’omonimia tra un’indicazione geografica di un paese terzo e una denominazione che riprende il nome di un vitigno utilizzato per la designazione e la presentazione di determinati vini comunitari che ne derivano, quella denominazione possa continuare ad essere utilizzata in futuro [e ciò nonostante la doppia circostanza che essa sia stata utilizzata in passato dai rispettivi produttori o in buona fede o per almeno dieci anni prima del 15 aprile 1994 e che indichi chiaramente il paese o la regione o la zona di origine del vino protetto in modo da non indurre in errore i consumatori]. - Sulla questione della violazione del diritto di proprietà ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo Mediante tale questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se il diritto di proprietà di cui all’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo («CEDU») concerna anche la proprietà intellettuale relativamente alle denominazioni di origine dei vini ed il suo sfruttamento, e conseguentemente se la sua tutela osti a che gli operatori interessati della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia siano privati della possibilità di utilizzare il termine «Tocai» nella menzione «Tocai friulano» o «Tocai italico» per la designazione e la presentazione di taluni v.q.p.r.d. alla fine di un periodo transitorio con scadenza 31 marzo 2007, come risulta dallo scambio di lettere sul Tocai che è allegato all’accordo CE-Ungheria sui vini, in considerazione anche dell’assenza di ogni forma di indennizzo a favore dei viticoltori friulani espropriati, della mancanza di un interesse generale pubblico che giustifichi l’espropriazione e del mancato rispetto del principio di proporzionalità. Secondo una giurisprudenza costante, il diritto di proprietà fa parte dei principi generali del diritto comunitario. Tale principio, tuttavia, non si configura come una prerogativa assoluta, ma deve essere preso in considerazione in relazione alla sua funzione nella società. Conseguentemente, possono essere apportate restrizioni all’esercizio del diritto di proprietà, a condizione che rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti garantiti (v., in questo senso, in particolare, sentenze 13 dicembre 1994, causa C-306/93, SMW Winzersekt, Racc. pag. I-5555, punto 22, e 15 luglio 2004, cause riunite C-37/02 e C-38/02, Di Lenardo e Dilexport, non ancora pubblicata in Raccolta, punto 82 e giurisprudenza ivi citata). Al fine di determinare la portata del diritto fondamentale di proprietà, principio generale del diritto comunitario, occorre tener conto in particolare dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 della CEDU, che sancisce tale diritto. Nel caso del divieto di utilizzare il termine Tocai per la designazione e la presentazione di taluni v.q.p.r.d. italiani a partire dal 1° aprile 2007 (…), dal pag. 6 momento che detto divieto non esclude qualsiasi modalità ragionevole di commercializzazione dei vini italiani interessati, nessuna privazione della proprietà ai sensi del primo comma dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 della CEDU [può essere invocata dagli operatori economici interessati]. Pertanto, il mancato indennizzo dei viticoltori friulani espropriati, rilevato dal giudice del rinvio, non costituisce di per sé una circostanza che attesti l’incompatibilità tra la misura di divieto controversa nella causa principale e il diritto di proprietà. Inoltre, senza che sia necessario stabilire se la detta misura costituisca, in quanto misura di regolamentazione dell’uso dei beni, un’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni che potrebbe rientrare nell’ambito del secondo comma dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1 della CEDU e, conseguentemente, comportare una restrizione del fondamentale diritto di proprietà, occorre necessariamente constatare che una restrizione a tale diritto, ammesso che essa sussista, può essere giustificata. Dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risulta che una misura di regolamentazione dell’uso dei beni, perché sia giustificata, deve rispettare il principio di legalità e perseguire uno scopo legittimo con mezzi ad esso ragionevolmente proporzionati (v., in particolare, CEDU, sentenza 21 maggio 2002, Jokela c. Finlande, Recueil des arrêts et décisions 2002-IV, § 48). Per quanto riguarda, in primo luogo, la legittimità della misura di divieto controversa nella causa principale, è pacifico che lo scambio di lettere sul Tocai, allegato all’accordo CE-Ungheria sui vini, prevede espressamente tale divieto e che, mediante la decisione 93/724/CE, quell’atto è stato approvato a nome della Comunità. Si tratta quindi di una misura prevista da una disposizione normativa adottata nell’ambito dell’organizzazione comunitaria del mercato vitivinicolo in vigore al momento della conclusione del detto accordo. Per quanto riguarda, poi, lo scopo di interesse generale perseguito dalla misura controversa nella causa principale, è già stato rilevato supra che l’accordo CE-Ungheria sui vini, di cui quella misura fa parte, è volto all’attuazione di una politica che ha lo scopo principale di promuovere gli scambi commerciali tra le parti contraenti; inoltre la normativa comunitaria in materia di designazione e presentazione dei vini ha l’obiettivo di conciliare la necessità di fornire al consumatore finale un’informazione esatta e precisa sui prodotti interessati con quella di proteggere i produttori sul loro territorio contro le distorsioni della concorrenza. L’obiettivo che persegue in tale modo la misura controversa nella causa principale costituisce uno scopo legittimo di interesse generale (v. sentenza SMW Winzersekt, cit., punto 25). Infine, si deve verificare se la detta misura sia proporzionata allo scopo di interesse generale perseguito. In una causa relativa ad una misura comunitaria adottata nell’ambito dell’OCM vitivinicola che vietava, alla scadenza di un periodo transitorio di cinque anni, l’utilizzo della menzione «méthode champenoise» per i vini che non avevano diritto alla denominazione di origine controllata «champagne», la Corte ha ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, in materia di politica agricola comune il legislatore comunitario dispone di un ampio potere discrezionale, che corrisponde alle responsabilità politiche che gli artt. 34 CE e 37 CE gli attribuiscono e che solamente il carattere manifestamente inidoneo di un provvedimento adottato pag. 7 in tale ambito, in relazione allo scopo che l’istituzione competente intende perseguire, può inficiare la legittimità del provvedimento medesimo (v. sentenza SMW Winzersekt, cit., punto 21). Sotto questo profilo occorre rilevare che, alla fine del periodo transitorio, i v.q.p.r.d. italiani in questione potranno continuare a essere prodotti a partire dalla varietà di vite «Tocai friulano» e a essere commercializzati con le loro rispettive denominazioni geografiche benché senza l’aggiunta del nome della varietà di vite da cui provengono. Nel caso di specie, il carattere proporzionato della misura controversa nella causa principale non può essere contestato perché, da un lato, nello scambio di lettere sul Tocai è stato previsto un periodo transitorio di tredici anni e, dall’altro, come rilevato dalla Commissione all’udienza, sono disponibili menzioni alternative per sostituire la denominazione «Tocai friulano» e il suo sinonimo «Tocai italico», vale a dire, in particolare, «Trebbianello» e «Sauvignonasse». Pertanto, la questione dev’essere risolta dichiarando che il diritto di proprietà non osta al divieto imposto agli operatori interessati della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia di utilizzare il termine «Tocai» nella menzione «Tocai friulano» o «Tocai italico» per la designazione e la presentazione di taluni v.q.p.r.d. italiani alla fine di un periodo transitorio con scadenza 31 marzo 2007 (…). Il Commento Italia e Ungheria producono sin da tempi remoti, ciascuna nel proprio territorio, una qualità di vino che, diversa per caratteristiche organolettiche, presenta tuttavia una denominazione pressoché identica nell’assonanza: il “Tocai”, vino secco da pasto o da aperitivo proveniente dal Friuli e dalle zone finitime, ed il “Tokaj”, vino dolce da dessert prodotto nell’omonima regione ungherese. La grafia dei due vini era originariamente quella comune di “Tokaj” e solo nel 1933 in Italia – a seguito dell’opinione espressa dal Prof. Dalmasso in un articolo apparso sul Corriere Vinicolo in tale anno – si cominciò a chiamare il vino friulano “Tocai”, per la diversità qualitativa con l’omonimo prodotto ungherese e poiché il suo vitigno di produzione è noto appunto con il nome di Tocai. Dal punto di vista del radicamento storico e geografico, grazie a recenti rinvenienze documentali pare attualmente acclarato che le viti del Tocai furono portate dall’Italia per essere trapiantate in Ungheria e non viceversa, come a lungo si era supposto. Precisamente, in un documento originale del 1632 da poco scoperto dai Conti Formentini di Gorizia e contenente il patto dotale di un’antenata della famiglia - la contessa Aurora Formentini, andata in sposa al conte ungherese Adam Batthyany - tra i vari beni elencati in dote figurano anche “300 vitti di toccai”. E c’è chi fa risalire la prima “importazione” di vitigni Tocai in terra magiara addirittura intorno all’anno mille, da parte del Patriarca di Aquileia Bertoldo di Andechs (1218 – 1251) o di alcuni missionari italiani dietro richiesta di re Stefano d’Ungheria (969 – 1038). Inoltre il Tocai si qualifica come toponimo presente nel territorio friulano: dalle mappe militari austriache del 1763, attualmente custodite presso il Kriegsarschiv di Vienna, risulta in località Aidussina, Lokavitz – a suo tempo appartenente alla contea di Gorizia – la località designata col pag. 8 nome Tokajer o Tokajeri. Più in generale, in tutti i registri e le mappe catastali dalla metà del XVIII secolo in poi, i toponimi Toccai risultano ufficialmente usati per indicare un fiume, un borgo ed una collina nell’ambito ed intorno alla zona viticola del Collio Goriziano. In ogni caso, la storia del “Tocai” e del “Tokaj” si era intrecciata per secoli senza che la sostanziale coincidenza delle denominazioni generasse particolari contrasti, anche perché i rispettivi territori d’origine erano appartenuti per lungo periodo alla medesima entità politico-statuale: l’Impero Austro-Ungarico. Perfino dopo il crollo degli Asburgo le due nazioni di produzione del Tocai – oramai divenute soggetti autonomi di diritto internazionale – regolarono in modo condiscendente la questione dell’omonimia tra i due vini giungendo alla stipula dell’accordo internazionale del 1948 sul Tocai nell’ambito dell’O.I.V. (Office International du Vin). In base a tale accordo, a fronte del riconoscimento da parte italiana di ben cinque diversi tipi di vini ungheresi portanti la denominazione “Tokaj”, l’Italia avrebbe potuto legittimamente continuare a utilizzare la denominazione “Tocai friulano” o “di Lison” per il vino prodotto sul proprio territorio. Già pochi anni dopo, tuttavia, a causa del poderoso aumento dei traffici commerciali internazionali conseguente alla fine della seconda guerra mondiale, iniziarono le schermaglie giudiziarie tra produttori italiani ed ungheresi per “l’esclusiva” sulla denominazione dei vini in questione. Nel 1956, in particolare, dinnanzi al Tribunale di Trieste si ebbe il primo contenzioso sul Tocai, con la società pubblica ungherese Monimpex che accusava di concorrenza sleale i titolari dell’azienda vinicola Baroni Economo di Aquileia per aver messo in commercio con la denominazione “Tokaj” un vino prodotto in Friuli. Dopo l’accoglimento della domanda di parte attrice da parte del Tribunale giuliano, in secondo grado la sentenza fu completamente riformata in quanto la Corte d’Appello giudicò che non si potesse qualificare come concorrenza sleale un comportamento – quello degli Economo di Aquileia – tenuto senza mala fede e, anzi, in conformità ad un’affermata consuetudine internazionale. In merito, infatti, i giudici d’appello ravvisarono l’esistenza di un contemporaneo, pacifico ed indisturbato uso della denominazione litigiosa da parte sia italiana che ungherese, nonché la profonda diversità dei due vini sì da non poter essere confusi dal consumatore medio, anche per il fatto che l’etichettatura, apposta su bottiglie di tipo diverso, precisava la zona di produzione e di provenienza del vino in questione. La Corte di Cassazione, investita della controversia in ultima istanza, respinse definitivamente le pretese della Monimpex rilevando quanto segue: “…indiscusso l’antico uso del nome Tokaj sia da parte dei produttori ungheresi che da quelli italiani, ed esclusa una situazione di privilegio sia pure di carattere formale del nome Tokaj in Italia per i primi, ciascuno di detti produttori ha facoltà di continuare a godere dell’uso dello stesso, che era stato sempre compiuto con l’animo di esercitare un proprio diritto...” (sentenza del 30 aprile 1962, Monimpex c. Baroni Economo Azienda Vinicola). A decenni di distanza da quella pronuncia, il Tocai è ritornato prepotentemente a far parlare di sé nelle aule di giustizia per effetto dell’accordo sottoscritto a Bruxelles il 29 novembre 1993 tra la Comunità europea e la Repubblica d’Ungheria sulla tutela ed il controllo reciproci delle denominazioni dei vini, con il quale si è vietato l’utilizzo in Italia della menzione “Tocai friulano” sull’etichetta dei prodotti vinicoli – dopo un periodo transitorio di tredici anni – per proteggere pag. 9 l’indicazione geografica ungherese “Tokaj”. In particolare, la questione della legittimità della normativa comunitaria che di fatto riflette tale accordo è al centro della battaglia legale che la Regione Friuli sta combattendo insieme ai produttori vitivinicoli locali per non dover rinunciare ad un autentico patrimonio non solo dell’economia ma anche della cultura friulana. Con la sentenza in commento, peraltro, la Corte di giustizia ha fin qui drammaticamente frustrato le aspettative dei sostenitori del Tocai, ritenendone infondate le doglianze e concludendo in pratica che la Comunità europea aveva piena competenza a concludere l’accordo controverso con l’Ungheria e che il divieto in esso contenuto sull’utilizzo della menzione “Tocai” non confligge con altre disposizioni comunitarie né con il diritto internazionale (in particolare con le regole sull’omonimia dell’Accordo TRIPs e con il principio del rispetto della proprietà privata di cui alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Ma ciò che colpisce di più, al di là dei singoli aspetti tecnico-giuridici, è il fatto che la sentenza si rifiuti quasi di considerare la plurisecolare e sostanzialmente pacifica convivenza tra le denominazioni “Tocai” e “Tokaj”, nonché un quadro internazionale essenzialmente favorevole all’omonimia e, soprattutto, il legame antico con il territorio friulano che si incarna nella storia del Tocai come vitigno autoctono della zona del Collio Goriziano, ivi coltivato da tempo immemorabile. Ebbene, per capire come un’Istituzione notoriamente equilibrata e attenta quale la Corte di giustizia abbia potuto avallare una svolta così drastica, ma anche per individuare nuovi argomenti suscettibili di venire in rilievo nell’agone giudiziario europeo, occorre riflettere sul fatto che la questione del Tocai - all’indomani della nascita della Comunità economica europea negli anni ’50 – ha smesso di essere un mero conflitto tra due denominazioni omonime di vini originari di Paesi diversi, per entrare a far parte della complessa rete di problematiche che investono la gestione della politica commerciale ed agricola comune. Precisamente, nell’ambito dell’ordinamento di mercato oggi facente capo all’Unione Europea, il Tocai ha dovuto fare i conti con le istanze di sviluppo del commercio internazionale, da una parte, e con le esigenze di una tutela “forte” dell’origine geografica dei prodotti enogastronomici, dall’altra. Sono proprio questi, a ben guardare, gli assi cartesiani della stessa pronuncia della Corte di giustizia qui in esame, la quale avrebbe potuto salvaguardare la tradizione e il portato storico-convenzionale del Tocai soltanto scardinando i già difficili equilibri del sistema mondiale di regolazione degli scambi ovvero riconoscendo al vino friulano uno status di provenienza che perfino l’Italia, il suo Paese d’origine, per ignoranza o per negligenza non gli aveva mai attribuito prima. Sotto il primo profilo, viene in rilievo il delicato ruolo che la Comunità riveste a livello di commercio internazionale come unico portatore degli interessi riferibili ai 25 Stati membri in tutte le materie c.d. “di competenza esclusiva” e, parallelamente, come negoziatore al fianco dei singoli Stati membri verso i Paesi terzi nei settori di c.d. “competenza ripartita”. Come emerge chiaramente dalla sentenza in commento, la Corte di giustizia aveva già avuto modo di precisare sul punto che, diversamente dagli accordi generali che disciplinano aspetti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, come l’Accordo TRIPs, gli accordi in materia di protezione delle denominazioni dei vini rientrano tra le attribuzioni esclusive della Comunità, in quanto le loro disposizioni sono pag. 10 direttamente collegate alle misure sia della politica commerciale che della politica agricola comune (cfr. il parere n. 1/94 del 15 novembre 1994, emesso ai sensi dell’art. 228 n.6 CE, punti 69 e 70). Questa sorta di “doppia legittimazione” rende dunque le questioni relative alle denominazioni dei vini diverse da quelle, per esempio, in tema di marchi e brevetti nell’ambito dei negoziati sulla disciplina degli scambi internazionali: le prime, infatti, costituiscono “materia disponibile” da parte della Comunità nel suo insieme, senza che i singoli Stati membri possano rivendicare posizioni differenziate se non all’interno del processo decisionale comunitario (per esempio nell’ambito delle riunioni dei rappresentanti ministeriali competenti in seno al Consiglio UE). E la Corte di giustizia non ha inteso rinunciare a questo impianto di principio, nel caso dell’accordo sui vini con l’Ungheria e del relativo divieto inerente al Tocai, sia per confermare l’attuale assetto di competenze in capo alla Comunità, sia per evitare un depotenziamento di quest’ultima come attore autonomo sulla scena delle trattative per il perseguimento di un equilibrio tra la riduzione delle distorsioni e degli impedimenti negli scambi commerciali e la promozione di una protezione sufficiente ed efficace dei diritti di proprietà intellettuale (così, in relazione alle finalità dell’Accordo TRIPs, sentenza del 13 settembre 2001, causa C-89/99, Schieving-Nijstad e a., punto 38). Detto questo, sarebbe però ingeneroso ed erroneo pensare che l’eventuale sacrificio del Tocai derivi semplicemente da una miope inclinazione delle Istituzioni europee verso i superiori interessi del commercio internazionale. Con amarezza occorre infatti rilevare una precisa responsabilità dello Stato italiano – che la Corte di giustizia con la sua sentenza sembra quasi voler stigmatizzare – per aver completamente lasciato la sorte della denominazione del vino friulano alle discussioni tra diplomazie, all’epoca dell’accordo tra Comunità europea e Ungheria, senza comprendere per tempo l’importanza e gli effetti delle regole comunitarie in materia di origine dei prodotti e di organizzazione del mercato vitivinicolo nella parte dedicata alla tutela delle indicazioni geografiche di provenienza. Il problema nasce dal fatto che il vino Tocai deve la sua denominazione non ad un luogo geografico – al contrario del Tokaj ungherese – ma al nome di un vitigno, ossia della varietà di vite dal quale è prodotto (ancorché questa varietà possa indirettamente presentare riferimenti al territorio), secondo una prassi tipicamente italiana che è stata riconosciuta per il passato anche dalla normativa interna “pre-comunitaria”. Tale sottile differenza, a quanto pare non rilevata dalle competenti autorità nazionali, ha assunto proporzioni enormi in termini di diversità di tutela con l’avvento dell’organizzazione europea del mercato vitivinicolo: infatti, nella normativa comunitaria di settore, la classificazione come varietà di vite significa che la relativa menzione può figurare nell’etichettatura di un vino prodotto con tale vitigno ma, salvo apposite eccezioni, soccomberà rispetto alla protezione prevista per le denominazioni d’origine – segni distintivi di prodotti che recano l’indicazione di una località, di una città o di una regione e le cui qualità essenziali sono riconducibili a tale origine geografica. Ciò, tra l’altro, anche nel caso di omonimia tra un vino europeo ed un vino la cui denominazione d’origine è protetta con accordo internazionale concluso dalla Comunità con uno Stato terzo, appunto come nel caso del Tocai. pag. 11 Ma il fatto che il vino friulano sia l’unico, su oltre cento vini di origine comunitaria che portano il nome della varietà di vite da cui sono prodotti, a non aver beneficiato di una deroga incondizionata per omonimia con un vino estero, la dice lunga sulle colpe ataviche dello Stato italiano. Infatti, laddove quest’ultimo si fosse attivato per tempo al fine di sostenere la menzione Tocai come “comprendente un’indicazione geografica”, ovvero fornendo prova “ …che una specifica qualità, notorietà o altra caratteristica del vino prodotto con i frutti della varietà di vite Tocai nella regione in questione sia essenzialmente attribuibile alla sua origine geografica… ” (così l’Avvocato Generale Jacobs nelle sue conclusioni del 16 dicembre 2004, punto 87), sarebbe stato molto più difficile per i giudici europei pronunciarsi oggi a favore dell’ammissibilità di un diritto assoluto all’utilizzo della denominazione ungherese Tokaj all’interno della Comunità. A questo punto, però, scemata con l’odierna sentenza della Corte di giustizia l’opportunità di percorrere la strada del rafforzamento del legame tra vitigno Tocai e territorio friulano, si può comunque immaginare un tentativo di salvare la tradizionale denominazione del vino in discorso attraverso la rivendicazione di un interesse generale ulteriore e prevalente su quello volto a ridurre, nel contesto degli scambi internazionali di merci e specificamente nella commercializzazione di prodotti vitivinicoli, “ …il rischio di confusione tra il nome della varietà di vite utilizzata per un vino e il nome dell’area geografica di provenienza dello stesso… ” (conclusioni Avv. Gen. Jacobs, cit., punto 105). La Regione Friuli, sfruttando strumentalmente il trattamento sfavorevole subito dal solo Tocai friulano tra i vitigni comunitari e alla luce della mutata condizione dell’Ungheria da Paese terzo a Stato membro dell’UE, sembra aver identificato tale interesse generale nel principio di non discriminazione, come rivela l’azione diretta ex art. 230 CE promossa il 15 ottobre 2004 – nelle more del procedimento pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia – per l’annullamento di un nuovo atto normativo della Commissione europea in materia di vini che ribadisce la limitazione temporale all'utilizzo della denominazione Tocai friulano fino al 31 marzo 2007 (causa iscritta a ruolo T-417/04). Nel proprio ricorso al Tribunale di primo grado la Regione argomenta, in particolare, che l’accordo sulle denominazioni dei vini tra Comunità europea e Ungheria è giunto a scadenza con l’ingresso di quest’ultima nell’Unione europea il 1° maggio 2004 e che il problema “Tocai”, oltretutto in assenza di specifiche previsioni del Trattato di Adesione, è divenuto essenzialmente una questione di diritto comunitario. Considerando a tale riguardo che la normativa settoriale permette agli Stati membri di autorizzare l’utilizzo del nome di oltre cento varietà di viti sulle etichette del vino e che solo il Tocai, pur trovandosi in una situazione identica, viene trattato in modo deteriore, si assume dunque la violazione del divieto di discriminazione previsto dall'art. 34 CE nonché del principio di proporzionalità e dell’obbligo di motivazione. Un altro appiglio da prendere in considerazione nel contenzioso potrebbe essere quello insistente sulla prevalenza del canone fondamentale della proprietà privata, nell’ampia accezione fatta propria nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, valorizzando maggiormente il diritto al nome “Tocai” come bene incorporale di natura economica la cui compressione ha portata effettiva e gravemente pregiudizievole per la Regione e soprattutto per i produttori vinicoli friulani. Così, pag. 12 secondo le indicazioni offerte dalla stessa Corte di giustizia, occorrerebbe addurre “ …elementi che facciano pensare che l’uso continuato del nome Tocai friulano per la varietà d’uva utilizzata nella produzione di vini del Friuli-Venezia Giulia costituisca una delle principali condizioni per la continuazione dell’attività di produzione di tali vini, [e che] il divieto di tale uso avrebbe effetti negativi sull’avviamento e il valore di quell’attività... ”, ciò anche in relazione al carattere notorio della denominazione in oggetto (conclusioni Avv. Gen. Jacobs, cit., punti 95 e ss.). Infine va rilevato come in questi ultimi anni la Corte di giustizia abbia ospitato un'altra importante vertenza riguardante il conflitto tra due denominazioni simili usate nel commercio, vale a dire la birra “Budweiser Budvar” prodotta in Repubblica ceca nell’omonima città e il noto marchio di birra “American Bud” registrato in vari Paesi UE, giungendo ad affermare la loro legittima coesistenza in base ad una protezione accordata – a determinate condizioni – alla denominazione ceca sotto forma sia di “indicazione di provenienza semplice” (cfr. sentenza del 18 novembre 2003, causa C216/01, Budejovicky Budvar/Ammersin), sia di “nome commerciale” (cfr. sentenza del 16 novembre 2004, causa C-245/02, Anheuser Busch). Di fronte alla denegata ipotesi di perdere definitivamente la menzione Tocai quale denominazione del vitigno di produzione del vino bianco friulano, sarebbe interessante esplorare le possibilità di salvarne almeno l’utilizzo sull’etichetta di commercializzazione del vino esplorando le analogie con le suddette fattispecie di tutela “minore” offerte dalla giurisprudenza comunitaria. In conclusione, dunque, la battaglia legale sul Tocai si può considerare tutt’altro che terminata con la pronuncia della Corte di giustizia del 12 maggio 2005, specie perché le varie istanze presenti nella regione Friuli Venezia Giulia a difesa del celebre vino locale (rappresentanti politici, produttori vitivinicoli e loro associazioni, semplici cittadini) continueranno a combattere strenuamente contro l’onta di dover rinominare tale vino con uno dei sinonimi alternativi ammessi dall’Office International du Vin e considerati come “accettabili” dagli indifferenti palazzi di Bruxelles. Quale peggior scenario, infatti, che entrare in una tipica osteria friulana ed essere costretti ad ordinare un “tajut” di…Trebbianello! Pietro Amico Avvocato in Udine, Milano e Bruxelles pag. 13