Numero V Athene Noctua I nostri saggi Il concetto di sovranità in Hobbes e Rousseau di Manfredi Camici WWW.ATHENENOCTUA.IT II Indice Il concetto di sovranità in Hobbes e Rousseau Capitolo primo – Il concetto di sovranità 1.1. Breve storia del concetto di sovranità ..................................................... 1 1.2. Le basi della sovranità in Hobbes e Rousseau ....................................... 2 1.2.1. L’approdo alla sovranità assoluta in Hobbes ............................... 3 1.2.2. L’approdo alla sovranità assoluta in Rousseau ........................... 4 Capitolo secondo – La teoria del contratto sociale in Hobbes e Rousseau 2.1. A chi compete la sovranità?...................................................................... 6 2.2. La teoria del patto sociale in Hobbes ...................................................... 7 2.3. La teoria del contratto in Rousseau ......................................................... 8 Capitolo terzo – Esistono dei limiti alla sovranità? 3.1. Critica alla teoria delle “parti” della sovranità .................................... 11 3.2. La religione come mezzo del Sovrano e non come limite .................. 12 3.3. I limiti della sovranità in Hobbes........................................................... 13 3.4. Il limite della volontà generale in Rousseau ........................................ 14 3.4.1. Il problema del contratto in Rousseau e la sua debolezza........ 15 Bibliografia ......................................................................................................... 17 Il concetto di sovranità in Hobbes e Rousseau Il concetto di sovranità 1.1. Breve storia del concetto di sovranità Lo scopo di questo lavoro è quello di indagare il rapporto tra Hobbes e Rousseau a riguardo del concetto di sovranità. Al fine di poter analizzare al meglio le analogie e le differenze tra i due autori è necessario però fare un breve riepilogo etimologico della parola “sovranità”. Il termine compare per la prima volta ne I sei libri dello Stato di Jean Bodin, scritto dal filosofo francese nel 1576, dove per sovranità «si intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato»1. Esso costituisce l’inizio della moderna dottrina della politica e delle istituzioni. Per Bodin il sovrano non è obbligato dalla legge: la forza obbligante di quest’ultima risiede, infatti, unicamente nel diritto naturale. Più in generale, la figura del principe è vincolata dai ceti o dal popolo soltanto finché l’adempimento della sua volontà coincide con l’interesse del popolo stesso, ma egli non è più vincolato qualora vi sia una necessità urgente. La sovranità è dunque riconducibile alla decisione ultima, inoppugnabile in quanto superiore. L’attributo peculiare della sovranità, descritto da Bodin, è la competenza ad annullare la legge vigente. Bodin attribuisce quindi al sovrano la possibilità di generare ed eliminare il diritto. Il termine che sarà ripreso poi lungo tutta la storia della filosofia moderna e contemporanea è divenuto oggi sinonimo e sintomo del potere statale. Possiamo anzi affermare, senz’ombra di dubbio, che tanto Hobbes quanto Rousseau fondano e sviluppano le loro filosofie attorno a questo concetto, sebbene sia l’uno sia l’altro siano detrattori di Bodin. Per comprendere appieno il significato da loro attribuito a quest’idea cardine delle rispettive filosofie è tuttavia necessario soffermarsi sulle peculiarità e le caratteristiche della loro posizione. 1 J. BODIN, I sei libri dello Stato, a cura di Margherita Isnardi Parente, Torino, UTET, 1964, Vol. I, cap. X, pp. 477 sgg. 2 1.2. Le basi della sovranità in Hobbes e in Rousseau Sin dagli Elements of Law fino al De cive e al Leviathan, Hobbes illustra coerentemente le basi di una politica resa necessaria dagli effetti distruttivi dell’uguaglianza naturale. Ciò porta il filosofo inglese ad affidare al patto sociale e all’alienazione dei diritti naturali il compito di dare alla luce una nuova uguaglianza, in virtù della quale il sovrano non distingua i singoli dalla massa dei sudditi. Hobbes riprende quindi una nozione di sovranità caratterizzata dall’indivisibilità e dalla perfezione naturale del sovrano, libero da qualsiasi vincolo e dunque legibus solutus. Il sovrano, escluso dal patto, è l’unico in grado di fondare il diritto in virtù della sua condizione naturale. Benché questo possa apparire come un segno del suo giusnaturalismo, Hobbes si avvicina notevolmente ad una concezione del diritto positivo in quanto diritto posto dal sovrano, e dunque ad una posizione giuspositivistica. Per questo motivo non è sbagliato ritenere Hobbes come il precursore di Kelsen. La legge è, infatti, misura del giusto e dell’ingiusto. E’ possibile, date queste premesse, tracciare un parallelo fra Hobbes e Rousseau? Secondo Diderot, assolutamente no: la filosofia del ginevrino Rousseau è quasi all’opposto di quella di Hobbes. L’uno crede l’uomo naturalmente buono, l’altro lo giudica cattivo. Per il filosofo di Ginevra lo stato di natura è uno stato di pace; per il filosofo di Malmesbury, di guerra. Per Hobbes, sono state le leggi e la formazione della società a rendere l’uomo migliore; per Rousseau, lo hanno corrotto. L’uno era nato in mezzo ai tumulti e alle fazioni; l’altro viveva nella società fra i dotti. Diversi i tempi, diverse le circostanze, diversa la filosofia2. Come nota giustamente Robert Derathé, per completare l’opposizione, si potrebbe dire che uno si è fatto sostenitore dell’assolutismo e l’altro della democrazia. In questo modo tuttavia si farebbe di Rousseau un anti-Hobbes, ma si resterebbe abbastanza lontani dalla verità. Anche il ginevrino, affida al patto sociale e all’alienazione dei diritti individuali il compito di portare dar vita all’uguaglianza civile o morale. Rousseau quindi come Hobbes descrive la sovranità come assoluta; rispetto ad essa i sudditi sono «come i servi dinnanzi al padrone, eguali e senza onore alcuno al cospetto del sovrano». 2 Oeuvres, t. XV, p. 122. 3 1.2.1. L’approdo alla sovranità assoluta in Hobbes In Hobbes l’uguaglianza naturale degli uomini è dovuta al fatto che nessuno è tanto più forte degli altri, o più astuto, da poter vivere in sicurezza. Ciascuno ha un potere sufficiente da mettere a repentaglio la vita altrui. Questa concezione è agli antipodi di quella rousseauiana dello stato naturale. E’ proprio nella regressione che investe quest’ultimo che Rousseau individua lo sviluppo della socialità in forme violente e inique. Il contenuto del patto che porta alla sovranità hobbesiana è costituto dall’affermazione del principio di reciprocità, che motiva la rinuncia di ciascuno alla propria libertà naturale e assoluta. L’uguaglianza è tanto alla base dell’uscita dallo stato naturale quanto condizione necessaria alla possibile costituzione della società civile. Questa non può esistere se non sulla base di condizioni uguali per tutti. Per comprendere appieno la nozione di sovranità hobbesiana è necessario introdurre, a questo punto, il concetto di diritto; questo è la libertà che ciascuno ha di far uso delle proprie capacità naturali in modi conformi alla ragione. La ragione, per Hobbes, non è altro che calcolo dell’utile per garantirsi la sopravvivenza. Quando Hobbes parla di un diritto naturale degli uomini, si riferisce alla loro costituzione materiale, prescindendo da qualsiasi elemento morale. Inserendo tutto ciò nel contesto naturale, dove la forza è l’unico limite al diritto, questo diviene un semplice sinonimo di forza. Poiché gli uomini hanno forze uguali, hanno diritti identici. Lo Stato assolutistico di Hobbes crea il diritto poiché gestisce la forza di ciascun associato, che se ne è privato affinché potesse esistere una forza tale da garantirgli la sopravvivenza. L’uguaglianza viene riconosciuta non perché sia giusta, ma perché è utile e necessaria alla fine di poter istituire un potere sovrano. A quest’idea non si accompagna alcuna nozione connessa al valore della persona, e all’obbligo morale del rispetto della sua dignità. La sovranità dunque non ha alcun vincolo morale. In Rousseau invece il carattere morale delle persone costituisce un vincolo alla legittimità dell’autorità politica. Nella filosofia rousseauiana i concetti di ragione, libertà e natura costituiscono un’idea del diritto naturale contrapposta a quella di Hobbes; di ciò tuttavia se ne parlerà successivamente. Come detto in precedenza, il fine dello Stato e della sovranità è quello di garantire ciò che lo stato naturale non assicura: la sopravvivenza. Sembrerebbe dunque esistere un limite di resistenza al potere sovrano, qualora questo metta a rischio la nostra vita; al contrario è proprio la 4 sua natura extra-giuridica a conferire al diritto di resistenza la rilevanza che gli compete. Questo diritto segna il limite invalicabile della tenuta o della giustificabilità morale dell’autorità politica. Non è sul piano della legittimità che il sovrano incontra ostacoli nel disporre secondo il proprio volere, bensì sul terreno materiale che decide della saldezza del suo potere. Nel caso di Hobbes appare evidente come il valore supremo e inviolabile sia la vita di ciascun suddito. Ma come ciò non pone un limite interno alla sovranità, bensì esterno ad essa. Il sovrano può tutto sul piano del diritto, può condannare a morte chiunque, poiché la legge non è altro che l’espressione della sua volontà. La sopravvivenza dei sudditi è la condizione che permette l’esistenza del potere politico stesso. Quando la vita del suddito è minacciata viene meno ogni motivo della sua lealtà; la legittimità si riduce a una forma vuota. E’ qui che la politica comincia a perdere la sua capacità di dominio e a morire. In Rousseau sono invece due i temi fondamentali, da una parte la solidità hobbesiana del sistema, ma dall’altra è fondamentale la questione della sua legittimità. Per il ginevrino, il criterio fondamentale del giudizio sulle forme della politica è il rispetto dei diritti della persona concepita come un ente dotato di libertà morale inviolabile. 1.2.2. L’approdo alla sovranità assoluta in Rousseau Rousseau nel definire assoluta la sovranità tiene però a precisarne il carattere incedibile e irrappresentabile. La sovranità collettiva può essere solamente il frutto della volontà generale comune a tutti i cittadini come membri del corpo sovrano. Vi è dunque a differenza di Hobbes una condizione di legittimità del potere sovrano. D’altronde darsi a un sol uomo creerebbe unicamente dei padroni e degli schiavi, e ciò non rispecchierebbe né l’uguaglianza naturale degli uomini, né la loro uguaglianza morale. Un potere monarchico non può essere legittimo neanche per garantire la sicurezza dei cittadini. Tant’è che Rousseau fa sua la critica di Locke: 5 sarebbe come pensare che gli uomini siano tanto folli da affannarsi a prevenire il male che potrebbe venire loro da puzzole e volpi, mentre si rallegrano di essere divorati da leoni, anzi si sentono al sicuro per questo 3. Tuttavia sarebbe errato credere che non accetti nulla della dottrina hobbesiana. Del resto, più che la concezione giuridica dello stato di natura, egli contesta a Hobbes la psicologia dell’uomo naturale. L’errore di Hobbes non è nell’aver istituito lo stato di guerra fra gli uomini indipendenti e diventati socievoli, ma nell’aver supposto che questo stato fosse connaturato alla specie e nell’averne fatto la causa dei vizi di cui è l’effetto 4. Anche Rousseau del resto è ostile ad ogni forma di limitazione e di partizione della sovranità. Ma se, per Hobbes, tale volontà poteva essere indifferentemente quella di un sol uomo o di un’assemblea, per il ginevrino, solo la volontà morale della collettività può costituire la volontà generale o sovrana. Affinché la libertà sia salvaguardata, bisogna che la sovranità appartenga al popolo. In un certo senso possiamo dire che il fondamento rousseauiano della costituzione dello stato politico sia identico a quello hobbesiano, ma che i principi su cui lo Stato si fonda siano differenti. Rousseau fa nascere lo stato politico dalla necessità di assicurare la libertà naturale e morale, Hobbes dalla sicurezza. Entrambi però si rendono conto che lo stato si può reggere solo se è uno. J. LOCKE, Il secondo trattato sul governo, Saggio concernente la vera origine, l’estensione e il fine del governo civile, Milano, BUR rizzoli, 2009, Cap. VII – 93, pp. 183-185. 4 J.J. ROUSSEAU, Manoscritto di Ginevra, in J.J. Rousseau scritti politici volume secondo, Bari, Editori Laterza, 1994, lib. I, cap. II, p. 10. 3 6 Capitolo secondo La teoria del contratto sociale in Hobbes e Rousseau 2.1. A chi compete la sovranità? Quello che emerge nella descrizione della sovranità, sia in Hobbes sia in Rousseau, è che l’ordinamento giuridico riposa su una decisione e non su una norma. La questione è però orientata sempre al soggetto della sovranità, si tratta cioè sempre di un applicazione ad una situazione concreta. Essere sovrano significa avere la competenza di detenere un potere illimitato. La decisione sovrana è libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta. Il sovrano è anche colui che è in grado di creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche. Non esiste nessuna norma che possa essere applicata al caos dello stato naturale. Prima dev’essere stabilito l’ordine, ed è questa la capacità peculiare del sovrano. I sovrani assoluti di Hobbes e Rousseau dimostrano di non aver bisogno di diritto per creare il diritto. E’ lo Stato che costituisce la legge: “Auctoritas, non veritas facit legem”. Per la realtà giuridica della legge vi è unicamente il problema della competenza, dato che per entrambi questa non può mai sbagliare. Tuttavia mentre il sovrano di Hobbes viene indicato esplicitamente dal patto, ed è dunque di facile individuazione, ciò non accade per Rousseau. Secondo quest’ultimo infatti è la volontà generale a diventare sovrana; nello stesso tempo però il concetto di generale acquista anche una determinazione quantitativa, cioè il popolo diventa sovrano. E’ l’unità morale che prende il posto della molteplicità dei cittadini. Emerge dunque una grande differenza tra le due concezioni della sovranità: la concezione rousseauiana non ha il carattere personalistico che invece permane in quella di Hobbes. 7 2.2. La teoria del patto sociale in Hobbes “Dò autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni”. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS. E’ questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa5. Lo stato di natura hobbesiano è uno stato di guerra di tutti contro tutti. Ciò è dovuto alla naturale uguaglianza degli uomini, sia nel corpo che nella mente. Questa uguaglianza comporta un uguale diritto di tutti su tutto. Non esiste proprietà, né legge, né giusto e ingiusto. Dall’uguaglianza scaturisce il conflitto per poter godere dei beni necessari alla sopravvivenza. Da questa nasce la diffidenza che porta al conflitto per paura di essere aggrediti. Dalla competizione nasce negli uomini il sentimento di orgoglio e vanagloria che porta al conflitto per la propria reputazione. Attraverso la ragione però l’uomo riesce a scoprire quei precetti che gli permettono di evitare il conflitto: le leggi naturali. Sono queste a richiedere la necessità di un patto per poter uscire da questa condizione. C’è bisogno di una forza superiore che possa dirigere la forza di tutti per mantenere la pace. Per questo motivo, la teoria del patto sociale hobbesiano è schierata esplicitamente contro le teorie del doppio patto: quello d’unione seguito da quello di sottomissione. Il patto di sottomissione istituisce, secondo il filosofo inglese, due poteri nello stato e porta ad una divisione interna alla sovranità. Se il sovrano fosse legato ad un patto con i sudditi, vi dovrebbe essere un altro potere in grado di giudicare sull’esecuzione del contratto stesso. Ma se esistesse un potere limitato da un potere limitante sarebbe quest’ultimo il detentore della sovranità. Se viceversa si lasciano i singoli giudicare per conto loro ci si ritrova nuovamente 5 T. Hobbes, LEVIATANO o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile , Bari, Editori Laterza, 2009, p. 143. 8 nell’indipendenza dello stato naturale che ha portato al conflitto. Bisogna dunque che gli atti del sovrano siano al di sopra di ogni possibile contestazione. Perciò Hobbes ritiene necessario che la società civile si costituisca senza l’intervento di un patto fra il sovrano e i sudditi. Sono i singoli che stringono fra loro una serie di patti reciproci con i quali donano al sovrano tutti i loro diritti, e tutta la loro forza; una rinuncia reciproca in favore di un terzo beneficiario. Ciò porta all’unione reale di tutti in una sola persona. Questa rinuncia ai diritti fa sì che i cittadini contraggano un obbligo nei confronti della persona, o dell’assemblea, beneficiaria, la quale diventa titolare della sovranità. L’obbligo che scaturisce dal patto sociale è duplice: da un lato i cittadini si impegnano gli universo gli altri, dall’altro verso il titolare della sovranità. La sovranità ha la sua costituzione giuridica sul fondamento della donazione del diritto da parte dei sudditi, e sul mantenimento del suo diritto naturale. Tuttavia l’obbligo verso i cittadini è reciproco, mentre verso il sovrano è unilaterale. Ora che i sudditi sono soggetti alla direzione di un’unica volontà, le loro forze possono essere messe al servizio della pace e della difesa comune, invece di contrastarsi vicendevolmente. 2.3. La teoria del contratto in Rousseau “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi in quanto corpo politico riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”. Automaticamente, al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, assumeva in altri tempi il nome di Città, e prende ora quello di repubblica o di corpo politico; ed è chiamata dai suoi membri Stato in quanto è passivo, corpo sovrano in quanto è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Quanto agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo; e in particolare si chiamano cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato 6. 6 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009, lib. I, cap. 7, pp. 80-82. 9 Anche Rousseau respinge la teoria del doppio contratto. Per lui l’istituzione del governo non è un contratto. “c’è un solo contratto nello Stato, quello dell’associazione. Di per sé, esso, esclude tutti gli altri”. Non esiste dunque nessun patto di sottomissione né un contratto di governo, ma solo un patto di associazione. Su questo punto Rousseau è d’accordo con Hobbes. Nella concezione di questo unico patto, tuttavia c’è fra i due autori una differenza essenziale. Per Hobbes il patto è un atto reciproco di ogni cittadino con tutti gl’altri escluso il sovrano. Per Rousseau, invece, non sono gli individui ad impegnarsi gli uni con gli altri, perché “ l’atto di associazione comporta un impegno reciproco del pubblico con i singoli”. Si tratta di una promessa reciproca fra il corpo del popolo, considerato come una persona morale e i singoli. In altri termini, come scrive Reale, è un patto interno all’individuo stesso: da una parte il suo lato morale (che fonda l’unità del corpo morale-collettivo) e dall’altra il suo lato naturale (che fonda la molteplicità dei sudditi) 7. Rousseau, come Hobbes, fa del sovrano l’unico giudice dell’esecuzione del contratto stesso, perché solo a questa condizione lo stato può durare. E’ inconcepibile che una collettività possa nuocere a tutti i suoi membri, poiché così facendo nuocerebbe a se stessa. La sovranità, infatti, si esprime tramite la volontà generale – che per sua natura non può tendere a atti particolari e gli atti di questa volontà, le leggi, sono misure che si applicano indifferentemente a tutti i cittadini, cosicché nessuno possa essere favorito o svantaggiato rispetto agli altri. Il sovrano è dunque un corpo morale e collettivo di cui i cittadini sono membri. Il danno può venire unicamente dai sudditi poiché questi restano degli uomini, legati al loro interesse particolare piuttosto che a quello generale. Il patto sociale comporta dunque l’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti all’intera comunità. Tale alienazione conferisce allo stato un potere assoluto su tutti si suoi membri. Per questo molti critici di Rousseau gli rimproverano di instaurare un sistema dispotico identico a quello del Leviatano. Ma questa alienazione totale fa degli uomini dei sudditi, e nello stesso tempo dei membri del corpo sovrano. Il patto comporta semplicemente l’obbligo di subordinare la volontà particolare a quella generale di cui ognuno dispone. Sì è liberi uni7 M. REALE, Le ragioni della politica.Rousseau dal Discorso sull'ineguaglianza al Contratto, Ateneo, Roma, 1983 vedi pp. 435-447 . 10 camente obbedendo alla legge della volontà generale, questa infatti permette alle persone di acquistare la loro libertà morale. La volontà generale o sovrana, può essere definita altrimenti, come una regola di giustizia che impedisce alla libertà di autodistruggersi. L’obbligo di obbedire non è dovuto all’esistenza di un’autorità esterna e superiore agli individui, che imponga loro la legge, ma questo è fondato nell’individuo stesso e sul suo impegno a far prevalere il lato morale. L’uomo, proprio come in Hobbes, non può adattarsi alla vita sociale se non cambia la propria condotta, se non utilizza la ragione piuttosto che l’istinto. E’ la soggezione alle leggi, e al proprio sé morale, che rende liberi. Capitolo terzo Esistono dei limiti alla sovranità? 3.1. Critica alla teoria delle “parti” della sovranità Nel delineare una teoria della sovranità assoluta e indivisibile e inalienabile, Rousseau prende di mira una teoria esposta da Grozio e Pufendorf: quella delle parti della sovranità. Grozio e Pufendorf dividevano infatti la sovranità, separandone i diritti ed i poteri, in legislativo ed esecutivo. Queste separazioni vengono riprese da Hobbes che, sia nel De Cive, sia nel Leviatano, elenca i diritti del sovrano. Tuttavia Hobbes riteneva che non si potesse dividere la sovranità senza annullarla. Ma nonostante ciò, la sua concezione, consiste nell’unione di più poteri, anche se l’esercizio di uno comporta inevitabilmente il possesso di tutti gli altri, così che il sovrano non può rinunciare a nessuno di essi. Sono questi i diritti che costituiscono l’essenza della sovranità e i segni che permettono di discernere in quale uomo o in quale assemblea è posto e risiede il potere sovrano. Si tratta infatti di diritti incomunicabili e inseparabili 8. Per Hobbes, dunque, la sovranità è composta di diversi diritti, legati tra loro in maniera tale da non poter sussistere separatamente e questi, a maggior ragione, non possono essere attribuiti a persone diverse. Anche Pufendorf è della stessa opinione. Grozio invece, non esclude che sia possibile che i diritti del sovrano siano tenuti da persone differenti, senza che venga distrutta la sovranità. Nonostante ciò, tutti gli autori antecedenti a Rousseau fanno della sovranità un aggregato di diversi diritti o poteri, ma sono in disaccordo sulla loro divisione. Affermando a sua volta l’indivisibilità Rousseau si schiera con gli assolutisti e contro i teorici liberali del suo tempo. Si rischierebbe però di cadere in errore se ci affrettassimo a concludere che Rousseau si limita a far sue le concezioni di Hobbes e di Pufendorf. Per il ginevrino, la sovranità è una perché semplice e non si può in alcun modo considerarla un aggregato di diversi diritti o diversi poteri. 8 T. Hobbes, LEVIATANO o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile , Bari, Editori Laterza, 2009, p. 151. 12 Rousseau distingue la sovranità dal governo: il primo esercita atti che si applicano alla totalità del corpo politico, il secondo si applica a un oggetto specifico, ed è dunque il frutto delle volontà particolari. La volontà è generale o non lo è; appartiene alla totalità del popolo o solo a una sua parte. Nel primo caso, questa volontà dichiarata è un atto di sovranità e costituisce una legge; nel secondo, è una semplice volontà particolare o un atto di magistratura; tutt’al più è un decreto9. Il potere esecutivo o magistratura è dunque un potere subordinato a quello sovrano e non una sua parte. La legge è unicamente una dichiarazione pubblica della volontà generale, la sua esecuzione particolare, affidata alla magistratura, è un decreto. 3.2. La religione come mezzo del Sovrano e non come limite Un tema ricorrente sia nel Leviatano che nel Contratto sociale è costituito dall’approccio comune alla religione. E’ proprio a tal riguardo che Rousseau afferma: Fra tutti gli autori cristiani il filosofo Hobbes è il solo che abbia penetrato esattamente il male e il suo rimedio, e che abbia osato proporre di riunire le due teste dell’aquila e di ricondurre tutto all’unità politica senza cui non ci sarà mai né un governo né uno Stato ben costituito. Ma ha dovuto rendersi conto del fatto che lo spirito dominatore del Cristianesimo era incompatibile col suo sistema e che l’interesse del prete sarebbe stato sempre più forte di quello dello Stato. E a far odiare la politica hobbesiana non è stato tanto ciò che includeva di orribile e di falso, quanto ciò che c’era di giusto e di vero 10. In questo passo del Contratto sociale, Rousseau si richiama alla critica volta da Hobbes alla religione, in particolare al cattolicesimo. Entrambi vogliono evitare che la religione costituisca un potere terreno che si contrapponga e limiti la sovranità. J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009, pp. 93-94. 10 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009, p. 226. 9 13 Secondo il filosofo inglese, esistono due tipi di religione: quella scaturita dall’invenzione degli uomini, oppure quella fondata dai profeti per volere di Dio. Entrambe le religioni hanno per scopo quello di rendere gli uomini più inclini all’obbedienza. La differenza consiste nel fatto che mentre la prima è parte della politica umana e insegna ai sudditi parte dei doveri che i re terreni gli impongono, la religione dei secondi è politica divina e contiene i precetti per coloro che si riconoscono come i sudditi di Dio. Il problema è che il secondo tipo di religione crea un doppio potere, come sottolineato anche da Rousseau, che si ispira dichiaratamente a Hobbes e più velatamente a Machiavelli. “Non si è mai arrivati a capire chi, tra il padrone e il prete si dovesse obbedire” 11. Ora come si è visto, per entrambi i filosofi è necessario che il sovrano sia uno, mentre questa religione “del prete” dà agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, e li sottomette a doveri contraddittori e impedisce ai sudditi di essere a un tempo devoti e cittadini. La religione, come tutte le idee che possono creare problemi sociali, devono essere vagliate dal sovrano. La religione, come prima di loro aveva sostenuto anche Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, deve essere sottomessa alla politica e alla sua volontà sovrana. In conclusione, l’importanza che Rousseau riconosce a Hobbes deriva dal fatto che quest’ultimo elimina la teologia dal potere statale. Hobbes infatti, vivendo in un contesto di guerre di religione, nell’Inghilterra del Seicento, sancisce la necessità della fuga dalla teologia come elemento costitutivo del potere sovrano. 3.3. I limiti della sovranità in Hobbes Hobbes per aver identificato il potere sovrano con il potere assoluto è stato ritenuto il teorico del dispotismo. Questa considerazione nasconde però la portata più generale della sua teoria della sovranità. Essa è indipendente dalle valutazioni relative alla forma migliore di governo; la sovranità è la stessa tanto in una democrazia, quanto in una monarchia. La sua tesi è che in ogni stato, qualunque sia la forma di governo, il potere sovrano è necessariamente un potere assoluto. La natura del potere è sempre la stessa, indipendentemente dalla maniera in cui si manifesta. Il potere non ha altri limiti che la potenza stessa dello Stato. La pa11 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009, p. 225. 14 ce civile può essere assicurata unicamente se la moltitudine slegata dei singoli forma una persona con un’unica volontà, il che è possibile se e solo se vi è la sottomissione di tutti in un unico individuo o assemblea. Ne consegue che fissare dei limiti alla sovranità è contrario ai fini dell’istituzione civile. Ma come abbiamo detto in precedenza esiste in Hobbes un diritto inalienabile, che non può essere ceduto neanche al sovrano: il diritto sulla propria vita. Questo diritto è al di fuori della sfera sovrana e ne pone un limite invalicabile. Rousseau ricorre allo stesso argomento hobbesiano quando vuole dimostrare che la libertà è inalienabile. L’obbedienza è promessa solo in cambio della protezione. Se questa viene a mancare allora l’obbligo ad obbedire non ha più ragione di esistere. Quando il sovrano non può garantire la sicurezza dei sudditi si ritorna alla condizione naturale. Ciò che porta a costituire il potere assoluto, la sopravvivenza, è anche ciò che porta al suo dissolvimento qualora questa non venga più garantita. Non perché il sovrano non abbia il potere di uccidere i propri sudditi, ma perché questi non hanno mai alienato il loro diritto di vivere. 3.4. Il limite della volontà generale in Rousseau Come è stato evidenziato in precedenza, l’elemento fondamentale del contratto sociale rousseauiano è la libertà. Ed è proprio questa, come il diritto sulla propria vita per Hobbes, a porre un limite alla sovranità. Bisogna infatti trovare una forma di associazione che con la forza comune difenda e protegga le persone e i beni di ogni associato, in cui ciascuno, unendosi a tutti, pure ubbidisca solo a se stesso e rimanga libero come prima12. Le convenzioni che instaurano la libertà civile non sono in potere del sovrano: con il patto sociale si mantiene esattamente la libertà che già si possedeva, più la forza per conservare ciò che si ha (proprietà). Rousseau si muove dunque in una concezione lockeana del potere, per la quale il limite è costituzione immancabile del potere stesso.13 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009, lib. I, cap. 7, p. 79. 12 13 M. REALE, Le ragioni della politica.Rousseau dal Discorso sull'ineguaglianza al Contratto, Ateneo, Roma, 1983 vedi p. 455 . 15 Il sovrano trova il suo limite nella sua stessa volontà: deve esprimersi in termini generali. Esso non può gravare un suddito più di un altro. Le leggi devono trattare tutti allo stesso modo, tutti sono uguali dinnanzi ad esse. La volontà generale deve partire da tutti per applicarsi a tutti senza mai tendere verso casi particolari o individuali. La legge, di conseguenza, per essere legittima deve essere impersonale. Nel caso in cui la legge fosse particolarizzata non sarebbe più tale, ma bensì un atto di magistratura e il sovrano decadrebbe. Nella suddivisione, compiuta da Rousseau, tra cittadini e sudditi emerge un dislivello. Il sovrano, composto dai cittadini, si configura come libero da ogni vincolo e incapace di avere interessi contrari a quelli dei suoi membri; mentre i sudditi devono essere sottoposti al vincolo della forza in quanto continuano ad avere una volontà particolare irriducibile alla volontà generale che essi hanno come cittadini. Ma l’impossibilità a operare sulla particolarità da parte della volontà generale, come spiega Mario Reale, si riflette negativamente sulla stessa che così facendo perde il carattere di attivo potere legislativo e accentua piuttosto quello di pura e indeterminata disposizione al bene14. Rousseau mantiene la sovranità assoluta di Hobbes, ma al tempo stesso fa derivare, come Locke, la legittimità dello Stato dal diritto costitutivo della persona alla propria libertà. Ne deriva che la volontà generale ha un carattere originariamente individuale e non sociale. 3.4.1 Il problema del contratto in Rousseau e la sua debolezza Il fatto che la volontà generale abbia un carattere individuale vuol dire che questa dipende dalla libertà morale, che costituisce l’unità tra tutti gli individui. A differenza del patto sociale hobbesiano, che è un patto tra ogni membro con tutti gl’altri ad esclusione del sovrano, quello di Rousseau è un patto interno alle persone stesse. In Rousseau a contrattare è il sé particolare di ogni persona, con il suo sé morale. E’ dall’unità morale degli individui che si estrinseca la sovranità come corpo morale-collettivo e le conseguenti leggi come atti della sua volontà. 14 M. REALE, Le ragioni della politica.Rousseau dal Discorso sull'ineguaglianza al Contratto, Ateneo, Roma, 1983 vedi p. 506. . 16 Nella teoria contrattualistica di Hobbes, una volta stipulato il patto questo rimane valido sino a quando non cessa il potere del sovrano, ovvero quando lo stato non è più in grado di garantire la sicurezza e si torna allo stato di natura e ciò può accadere o meno. Per quanto riguarda Rousseau invece, il contratto e la sovranità sono destinati sin dalla loro nascita a una fine quasi certa. Le volontà particolari dei sudditi sono sempre e costantemente più forti del loro volere morale. La volontà particolare è destinata a prevalere su quella generale, il sé particolare è destinato a prevalere sul sé morale. La debolezza costitutiva del patto, di cui Rousseau è conscio, deriva dal fatto che il contratto è sempre in essere. L’uomo morale contratta in ogni momento con il proprio interesse particola e quest’ultimo è destinato ad avere la meglio. Il contratto è sempre messo in discussione, cosa che non avviene invece per la teoria hobbesiana. Mentre in Hobbes una volta che il sovrano garantisce la sicurezza lo stato è stabile, non si può dire lo per Rousseau. Nonostante la libertà morale degli individui venga garantita dalla volontà generale e dall’impersonalità dalla legge, lo stato è sempre a rischio in virtù dell’origine individuale-morale e non sociale del patto. Bibliografia BODIN JEAN, I sei libri dello Stato, a cura di Margherita Isnardi Parente, Torino, UTET, 1964. BURGIO ALBERTO, Eguaglianza, Interesse, Unanimità. La politica di Rousseau, Bibliopolis, 1989. DERATHE’ ROBERT, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, 1993. HOBBES THOMAS, LEVIATANO o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile , Bari, Editori Laterza, 2009 LOCKE JOHN, Il secondo trattato sul governo, Saggio concernente la vera origine, l’estensione e il fine del governo civile, Milano, BUR rizzoli, 2009. REALE MARIO, Le ragioni della politica.Rousseau dal Discorso sull'ineguaglianza al Contratto, Ateneo, Roma, 1983. ROUSSEAU JEAN-JACQUES, Il contratto sociale, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2009. ROUSSEAU JEAN-JACQUES, Manoscritto di Ginevra, in J.J. Rousseau scritti politici volume secondo, Bari, Editori Laterza, 1994.