Working Paper L'impresa che compete e che dura Federico Butera WP4 / 2012 È consentita la copia e la distribuzione a scopo divulgativo e didattico, citando la fonte. Sono consentite, inoltre, le citazioni purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso, se ne vieta l'utilizzo senza il permesso scritto degli Autori. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 1 L'impresa che compete e che dura di Federico Butera Michael Cusumano, noto ricercatore, distinguished professor di management alla Sloan School of Management del MIT e top consultant di strategia e organizzazione di grandi aziende multinazionali, ha scritto un libro importante rivolto a imprenditori, manager, decisori pubblici, studiosi, consulenti impegnati aiutare le imprese ad acquisire uno staying power, a restare forti, ossia a resistere alla temibile concorrenza dei paesi BRIC, a tener duro davanti alla più grave crisi dal 1929, a durare a lungo rafforzando il loro ruolo di istituzioni economiche e sociali. Il libro di Cusumano è innanzitutto un importante testo di management sciences, prezioso per gli studiosi e gli studenti di strategia e organizzazione in virtù delle tesi che propone, fondate sullo studio approfondito e l’interpretazione di singoli casi di grandi imprese multinazionali: è un’ulteriore prova che lo studio dei single cases può produrre proposizioni di validità generale (Eisenhardt, 2008), allorché occorra comprendere caratteristiche e paradigmi di straordinarie “invenzioni sociali ed economiche”, come in questo caso Microsoft, Apple, Toyota. Questo di Cusumano è soprattutto un libro di densa ma chiara scrittura per imprenditori, manager di imprese grandi e piccole e per dirigenti di Pubbliche Amministrazioni centrali e locali, sia per quelli che hanno letto molti libri di management, sia per chi non ne ha letto alcuno. Sarà una lettura utile soprattutto per chi affronta la crisi per chi sta cercando di cambiare strategia e vuole trovare una organizzazione adeguata ad essa, per chi vuole proteggersi dai fallimenti valorizzando la propria storia. Il volume, inserito fra i tre migliori libri di strategia manageriale del 2011 dalla rivista Strategy and Business, sintetizza la lunga esperienza di ricerca e di consulenza dell’autore e dei suoi collaboratori del MIT, proponendo sei princìpi di strategia e di organizzazione. Essi scaturiscono dall’analisi empirica della condotta di imprese leader, che hanno raggiunto grandi successi e soprattutto hanno saputo mantenerli e rinnovarli di fronte a drammatici cambiamenti del mercato, dei contesti istituzionali, delle tecnologie: sono i casi di IBM, Microsoft, Intel, Apple, Toyota, JVC, Sony, Cisco e molte altre. Cusumano esamina per contrasto anche i casi di imprese giunte alla vetta della loro crescita del fatturato e della patrimonializzazione di borsa che, però, non sono state capaci di restare forti, non ce l’hanno fatta nella competizione con soggetti più forti o più astuti di loro, come Netscape, Chrysler e altre. È una narrazione appassionante e ricca di suggestioni che vanno oltre le tesi e i princìpi su cui il volume è incardinato. La tesi di fondo del volume è che le scienze della strategia e dell’organizzazione che si sono prodigate a individuare le regole, i segreti, le lezioni per il successo hanno fallito perché hanno fatto solo metà della strada, anche quando sono state basate su ricerche serie e non solo su brillanti intuizioni (come il celebre caso del best seller In Search of Excellence di Tom Peters). Non basta avere successo, scrive Cusumano, ma è necessario difenderlo, mantenerlo e svilupparlo nel tempo. Vi è una ragione strutturale che obbliga a ciò: strategia e organizzazione devono essere cambiate di continuo e molto velocemente di fronte a mutamenti del contesto, come la competizione di nuovi paesi, il cambiamento della popolazione, il travolgente sviluppo del Web 2.0, dei social media e molto altro. Vi è anche una ragione manageriale per staying power: l’orgoglio, la superbia, la rilassatezza, l’arroganza, l’autoreferenzialità del management che dorme sugli allori di una storia di successo possono essere essi stessi un pericolo mortale per la sopravvivenza dell’impresa, come testimoniato nel caso Toyota a fondo esaminato nel volume. Cusumano prosegue nella linea tracciata nel loro famoso libro Built to Last da Collins e Porras, i quali avevano esaminato le aziende che erano durate nel tempo (tra cui, ad esempio, Ford, 3M, General Electric, IBM) e avevano cercato di individuarne alcune caratteristiche chiave, come un’ideologia di base, il concetto di BHAG (Big Hairy Audacious Goals), il disporre di una propria cultura, il tentare sempre nuove cose, il rifiutare l’idea di una “grande idea” per avviare un’impresa, l’innovazione costante. In sintesi, le aziende studiate da Collins e Porras erano non solo soggetti economici, ma istituzioni economico-sociali: questo assicurava a loro la durabilità e alla società circostante la prosperità in un contesto di continuo cambiamento. Cusumano si pone un problema simile: come assicurare continuità e prosperità all’impresa in un mondo in cui nulla è stabile? Ma Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 2 all’analisi di Collins e Porras egli aggiunge l’inquietante e recente questione: la contraddizione fra l’imperativo di continua e costosa innovazione nei prodotti/servizi, nell’organizzazione, nelle competenze da una parte e la crescente commodificazione dei prodotti/servizi dall’altra. Per le imprese occidentali non si tratta solo di fronteggiare la drammatica riduzione dei prezzi dei prodotti imposta dalle imprese manifatturiere cinesi, o quella dei servizi operata dalle imprese indiane; si tratta anche e simultaneamente di affrontare l’erosione o la scomparsa del valore dei prodotti dovuta all’innovazione tecnologica. Come contrastare, per esempio, l’abbattimento del costo dei componenti prodotti in Cina o l’abbattimento del valore economico della conoscenza scaricabile da Google a costo zero? Come si può competere e durare in una situazione in cui i prezzi dei prodotti e dei servizi si abbattono in una proporzione che non ha precedenti? Tali domande, cruciali per tutte le economie occidentali, lo sono in particolare per l’economia italiana, la seconda economia manifatturiera d’Europa. La forza dell’Italia nella manifattura non è però eguagliata nel settore dei servizi che cuba per ben oltre il 75% dell’economia nazionale: finanza, scuola, sanità, servizi di TLC e Pubblica Amministrazione non hanno lo stesso posizionamento competitivo in Europa. Le migliori imprese italiane manifatturiere e di servizi da noi studiate e accompagnate nel programma Italian Way of Doing Industry (Butera e De Michelis, 2011) si sono rivelate capaci di competere perché hanno affrontato la crisi continuando incessantemente a innovare – oltre ai loro prodotti e servizi – la loro governance, il loro posizionamento di mercato, le loro strategie e il loro dimensionamento, la loro organizzazione macro e micro, la loro tecnologia e soprattutto la loro identità. La loro battaglia, però, purtroppo non è finita: l’aggravarsi della crisi richiede anche a loro un nuovo impegno. E le altre? Le medie imprese senza forte proiezione internazionale e tutte le piccole imprese rischiano grosso. I fatturati decrescono, le sofferenze finanziarie crescono, la cassa integrazione aumenta, i fallimenti si moltiplicano. Non sono molte le imprese che hanno accumulato capacità ed esperienze come quelle rilevate nei casi dell’Italian Way: la loro debolezza di fronte alla riduzione dei consumi interni si fa critica. Si rivelano allora drammatiche le antiche carenze: insufficienti servizi finanziari e organizzativi, carenza di infrastrutture tecnologiche e logistiche, insufficienza dei beni comuni per la competitività, peso dei vincoli burocratici. Per le grandi corporation – ma la lezione è valida anche per le medie imprese italiane –, Cusumano propone sei princìpi duraturi, che consentano di reagire al cambiamento con rapidità ed efficacia, assicurando una capacità persistente di fornire buone prestazioni nell’arco degli anni e dei decenni. Non sono sei ricette manageriali, ma sei nuove visioni dei comportamenti strategici e organizzativi necessari per fronteggiare la magnitudo senza precedenti del cambiamento. I sei princìpi hanno una caratteristica distintiva: rompere con la tradizione di differenziare nettamente la strategia e l’organizzazione, con la prima che fissa obiettivi e la seconda che li realizza. Ciascuno dei princìpi di Cusumano, invece, propone un veloce ciclo interattivo, ricorsivo di strategia e organizzazione. Questo volume sembra annunciare la fine della tradizionale difficoltà di combinare i libri dei sogni con la rigidità delle burocrazie aziendali: strategia e organizzazione devono essere fatte della stessa pasta, e nei casi presentati è proprio così. Questa è la virtù principale che abbiamo rilevato anche nelle migliori imprese dell’Italian Way. L’approccio si propone di accompagnare le imprese a potenziare il loro contenuto di conoscenza e di servizi, a rafforzarne la flessibilità e la capacità di gestione dell’inaspettato, in una parola conservare la forza delle imprese in un ambiente che continuerà ad essere altamente turbolento anche oltre la presente crisi. Questi princìpi sono presentati come lezioni apprese da casi concreti da aziende che sono riuscite a mantenere il successo nel tempo. Gli esempi consentono al lettore di comprendere a fondo l’importanza e i limiti di portata di quei princìpi che sono ingredienti (non predittori sicuri) di successo. Essi sono legati alla concretizzazione nelle diverse realtà di prodotto, mercato, organizzazione, contesto. Inoltre, il proporzionamento e la combinazione di quei princìpi sono frutto della scelta, della capacità e del judgement del management, che è quello che in definitiva assicura il successo all’impresa. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 3 Il primo principio suggerisce di fare strategia e organizzazione di piattaforma piuttosto che di singoli prodotti. L’articolazione estrema e il diverso valore dei componenti di un prodotto complesso come l’automobile, il software, i prodotti ICT, i prodotti dell’aerospazio e moltissimi altri, rendono impossibile che una singola azienda possa avere un successo stabile concentrandosi solo sul prodotto finito. Nel passato l’IBM, che aveva lanciato i Personal Computer in tutto il mondo, aveva visto via via erodere il valore dei suoi prodotti dai produttori di componenti complementor, come i microprocessori di Intel e il software di Microsoft. Alla fine li ha abbandonati passando ai servizi. È anche il caso dell’automobile, in cui il 90% del valore è prodotto da fornitori esterni alla marca principale, che spesso sono più profittevoli della main contractor. L’eccezione è offerta dalla Apple, che ha proposto prodotti “chiusi” sui componenti tecnologici, ma che sta cambiando linea soprattutto sui contenuti che danno valore. I cinesi, grandi assemblatori, ormai producono di tutto, a prezzi irraggiungibili. Cusumano suggerisce allora che la strategia e l’organizzazione si concentrino sulla produzione di quei componenti che contengano maggior valore e che consentano all’azienda di assumere la “leadership di piattaforma”. L’area di management, perciò, ha per oggetto non solo le risorse interne, ma l’intero ecosistema di fornitori, clienti, istituzioni che generano il valore dei prodotti. La piattaforma o, come io l’ho chiamata, la “rete estesa di nodi vitali” (Butera, 2011a), per Cusumano genera innovazione in tutti i punti della rete e un “feedback rafforzativo” fra i componenti e la piattaforma stessa. Nascono così una nuova modalità di fare impresa e un nuovo stile di leadership di piattaforma, illustrati a fondo nel volume nei casi Intel, Microsoft, Google, e Apple dal 2004. In una situazione come quella dell’Italian Way of Doing Industry una simile indicazione è molto importante: come mostra la nostra ricerca citata, le aziende di maggior successo in Italia hanno scelto mercati internazionali di nicchia, strategie di focalizzazione su componenti di alta qualità e ad alto valore, un’organizzazione a rete che guidano o in cui sono inserite. La mancanza di imprese giganti e di disruptive product nell’industria manifatturiera italiana ha fatto diagnosticare a molti una strutturale debolezza delle imprese italiane. La lettura del volume di Cusumano ci conferma, piuttosto, che esse sono in linea con le imprese built to last di questo decennio appena iniziato, e chi le vede come “brutti anatroccoli” riceverà una secca smentita. Il modello della rete governata appare dunque la forma organizzativa dominante in questa fase (Butera e Alberti, 2011). Il secondo principio è quello di rafforzare l’offerta di servizi innovativi, per contrastare la commodificazione sia dei prodotti che dei servizi standardizzati. La “servitizzazione”, come da anni scrive e insegna Giorgio Merli (Merli et al., 2010), è la modalità (a) di spostare il valore dai prodotti soggetti ad una concorrenza insostenibile ai servizi associati ai prodotti (ad esempio assistenza tecnica con alti margini su prodotti con basso margine; customer care come centro di profitto che crea valore per il cliente; leasing di fotocopiatrici invece che loro produzione; affitto di flotte invece di vendita di auto, ecc.), oppure (b) di generare servizi di qualità di cui tanto il mercato affluente quanto quello povero sono assetati (informazioni, conoscenze, sanità, assistenza, istruzione, trasporti, sicurezza, regolazione sociale, ecc.). In entrambi i casi, quando il livello di innovazione dei servizi è alto (ossia è alta la corrispondenza ai bisogni, alla customer experience; la qualità e il costo sono ragionevoli; il sistema tecnico organizzativo professionale è originale, ecc.), i servizi generano ricavi elevati, contribuiscono fortemente alla generazione di valore per le imprese e per la società, aprono nuove opportunità di creare impresa e lavoro e, soprattutto, non sono facilmente copiabili. La possibilità di arricchire i prodotti con i servizi è fondamentale per la tenuta di imprese o sistemi di imprese che producono prodotti minacciati da una crescente concorrenza dei paesi BRIC. Il caso di alcuni produttori di caldaie italiani che offrono non solo i prodotti ma anche i servizi di installazione, alimentazione, manutenzione, certificazione con le forme contrattuali più convenienti e amichevoli per il cliente, mostra come questo arricchimento del prodotto con il servizio non solo li protegge dall’importazione di caldaie asiatiche, ma offre loro la possibilità di esportare prodotti di qualità insieme ai servizi connessi. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 4 In un’economia in cui i servizi contano per oltre il 75% del Pil, si può comprendere quanto sia importante questo principio. Generare servizi di alta qualità a basso costo è la sfida principale del sistema produttivo italiano. Le imprese che offrono servizi finanziari, tecnologici, educativi, sanitari, assistenziali sono quelle che dovranno cambiare maggiormente. Lo sviluppo dei servizi richiede due processi convergenti di innovazione apparentemente divergenti: da una parte lo sviluppo di organizzazioni e professioni innovative e centrate sul cliente e dall’altra l’industrializzazione delle attività esecutive periferiche dei servizi. Guardando i dati del Paese finora più innovativo del mondo, che ha la più alta quota di servizi – gli Stati Uniti – rileviamo che la percentuale dei lavoratori della conoscenza è più bassa rispetto all’Europa: 38,65% negli Stati Uniti a fronte del 52,17% nel Regno Unito e del 41,49% in Italia (Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo, 2008). Malone (Malone et al., 2011) spiega appunto che il processo di semplificazione dei task esecutivi nei servizi è stato oggetto di una rivoluzione industriale negli Stati Uniti: pensiamo al software, a McDonald’s, a Wal Mart, ecc. Il terzo principio è, dal mio punto di vista, la creazione di capability all’interno dell’organizzazione. Non si tratta di costruire quelle competenze molecolari allineate alla strategia, come da anni propongono Kaplan e Norton con la loro Balanced Scorecard, ma piuttosto di sviluppare in modo interattivo sia strategie di resistenza e di innovazione sia processi operativi, strumenti, tecnologie, conoscenze, abilità, competenze capaci di generare resistenza e innovazione. Cusumano conduce un rapido ma puntuale excursus sulle management sciences rilevando come, dopo un lungo periodo in cui esse si erano concentrate sulle strategie alle quali far seguire, come conseguenza, le scelte organizzative, «a metà degli anni ’90 si sviluppa un consenso che costruire capacità organizzative può evolvere nel tempo ed è almeno altrettanto importante che scegliere una particolare strategia e molto più importante che scegliere una burocrazia formalizzata di pianificazione strategica». Cusumano documenta questo principio mostrando come la competizione fra quelle imprese che seguivano un approccio sequenziale e quelle che invece seguivano una modalità ricorsiva fra strategia e capacità organizzativa si è conclusa con la sconfitta delle prime e la vittoria netta delle seconde: Nissan contro Toyota, JVC contro Sony. Il successo di Microsoft e Apple è per Cusumano certamente attribuibile anche alla cura maniacale di Bill Gates e Steve Jobs a sviluppare internal capabilities e attivare un processo di continuo change management. Questo secondo approccio attiva due vie convergenti e sinergiche per l’innovazione: oltre ai piani di innovazione top-down vengono mobilitate energie interne per coinvolgere tutti a proporre innovazioni, rafforzando così lo scrigno di competenze da cui attingere in fase di cambiamento, come scrive Suzanne Berger (Berger, 2005). Questo approccio implica l’imperativo per il management a tutti i livelli di andare deep, di stare sul campo, di stare sul ghemba. È il caso di Toyota, che con 350.000 dipendenti registra ogni anno 700.000 proposte di miglioramenti accettati, grandi e piccoli. Ciò è ottenibile sviluppando progetti esemplari e miglioramento continuo che generano innovazioni che si diffondono poi all’intero sistema che dà luogo a continuo apprendimento, a sua volta generatore di nuove strategie e capability. Ciò corrisponde all’approccio GICS (Gestione dell’Innovazione e del Cambiamento Strutturale) (Butera, 2009) sviluppato da chi scrive in grandi programmi di innovazione in cui piani, progetti, miglioramento continuo si sono intrecciati ricorsivamente cambiando insieme organizzazione, tecnologie, persone: è il caso delle isole della Olivetti, dell’unificazione degli uffici delle entrate, del sistema di customer care della Omnitel-Vodafone, della recente riorganizzazione degli Uffici Giudiziari della Lombardia e molti altri. Ciò corrisponde anche a quanto rilevato nella nostra ricerca sulle imprese dell’Italian Way of Doing Industry, la cui caratteristica distintiva è proprio l’interazione veloce fra mercato, strategia, organizzazione, anima dell’impresa, qualità del gruppo dirigente (Butera, 2011a). I casi di Luxottica, Geox, Illy, Alessi esaminati nella nostra ricerca da Alberti (Alberti, 2011) mostrano che il processo di crescita imprenditoriale è stato sostenuto da due capability organizzative chiave: (i) assorbire risorse (tangibili e intangibili) e competenze esterne all’impresa e al distretto, e (ii) ricombinarle con quelle tipicamente distrettuali. Il quarto è il principio del pull: partire dal mercato, dai bisogni del cliente e procedere a ritroso su tutte le fasi di produzione del prodotto o servizio. Così si raggiunge un’elevata capacità di affrontare le continue variazioni del mercato e di riaggiustare i processi e le strutture evitando che le “burocrazie industriali autoreferenziate” oppongano resistenza al cambiamento e all’innovazione. È l’inverso della tradizione dell’industrialismo della Ford T, basato sulla dominanza nei processi produttivi in cui «i clienti potevano scegliere qualunque macchina che volevano purché fosse il modello T e fosse nera». È invece la lezione di Toyota, un modello centrato sulla Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 5 gestione dei continui cambiamenti di volumi e delle qualità. Ciò è stato rilevato anche nella nostra ricerca sull’Italian Way: caratteristiche chiave delle migliori imprese sono la straordinaria capacità di ascolto del cliente e del mercato e la capacità di ristrutturare sia i fattori della produzione che il proprio mercato in base a questo. Esse costruiscono e cambiano i mercati, leggendo e interpretando bisogni ed esperienze ancora prima che sia stata costruita la macchina produttiva, invece che limitarsi a vendere ciò che hanno. Il quinto principio riguarda le economie di gamma (economy of scope). L’economia di scala ha dominato lo sviluppo industriale ed economico del secolo passato. Rimane ancora importante, ma la capacità di trarre il vantaggio competitivo è passata dall’Occidente ai paesi BRIC. E questo non solo da ora. Nessuna delle aziende studiate da Cusumano ha avuto successo sulla base delle economie di scala: Toyota lo ha fatto sulla base del miglioramento dei processi, JVC dell’engineering, Microsoft della capacità di ricerca e sviluppo e così via. La risposta delle imprese occidentali alla competizione globale nel futuro non può essere centrate sulla ricerca di economie di scala, ma sulle economie di gamma. Questo vuol dire innanzitutto fare diversi prodotti all’interno della stessa struttura fisica e tecnologica producendo in grandi volumi alcuni componenti comuni e differenziando i modelli o le feature, come ormai da decenni ha fatto, ad esempio, l’industria automobilistica. Ma l’applicazione di gran lunga più rilevante dell’economy of scope risiede nello sviluppo di attività ad alto livello di conoscenza come la ricerca, la progettazione, il design, il marketing, lo sviluppo prodotti, la distribuzione, la logistica, la pubblicità, gestiti non isolatamente ma attraverso la condivisione e il riuso delle conoscenze tra aree di prodotti e tra funzioni diverse. L’economy of scope richiede un’alta capacità di knowledge management e knowledge sharing. Tutto ciò non è facile perché è possibile determinare ingorghi di informazioni o rigidità. Per cui, le competenze manageriali per differenziare e integrare le aree di generazione di conoscenza non sono facili da acquisire: questa è quindi una frontiera nello sviluppo del management del futuro. I casi delle software factory e della produzione automobilistica, presentati da Cusumano alla luce di una decennale ricerca, portano vasti e approfonditi esempi e riflessioni sui requisiti organizzativi per sviluppare una economy of scope: l’efficacia ed efficienza dei team e delle strutture che presidiano aree di prodotti e servizi e la loro integrazione, dai multi project team alle nuove versioni delle strutture matriciali. Il sesto principio riguarda la flessibilità, che diventa importante come e più dell’efficienza (necessaria ma non sufficiente per lo staying power) su cui nel passato sono stati principalmente misurati i risultati e progettati i cambiamenti. Cusumano si riferisce non solo alla flessibilità operativa consolidata dalla dottrina e dalla pratica del flexible manufacturing system, ma soprattutto a quella prontezza ad adattare strategia e struttura ai cambiamenti di mercato, di contesto competitivo, di tecnologia, di costo dei fattori, di mutamenti normativi, di condizione di sistema Paese. La velocità dipende da coppie di fattori congiunti: da una parte, la lettura del cambiamento esterno anche quando i segnali sono deboli o ci si trova di fronte all’inaspettato, accoppiata alla valutazione delle capacità di cambiare i propri prodotti, processi, strutture interne; dall’altra, la prontezza di cambiare strategie e reperire le risorse finanziarie e umane per riposizionarsi in una situazione competitiva, accoppiata alla capacità di cambiamento veloce e integrato dei propri sistemi organizzativi, tecnologici, di gestione del personale. Ciò che i miei maestri della scuola socio-tecnica avevano chiamato la “prontezza intrinseca di un sistema”. Il caso citato da Cusumano è quello di Netscape, che con il suo browser diede l’accesso a Internet anche ai non specialisti, riuscì a costruire un’organizzazione robusta e flessibile intorno a un’invenzione geniale: crebbe così a una velocità straordinaria e a un certo punto raggiunse il più alto valore di capitalizzazione della borsa di Wall Street. Per far ciò aveva adottato quello che Cusumano e Yoffie (1999) chiamarono una judo strategy contro la sumo strategy del suo ben più potente competitore, Microsoft. Tuttavia, Microsoft adottò a un certo punto una diversa strategia di velocità e di flessibilità, rilasciando Explorer in tempi più veloci delle nuove release di Netscape, oltre a creare una situazione di lock-in, pacchettandolo con Windows. La fine di Netscape si rese inevitabile a causa dell’eccessiva sicurezza del proprio successo e della scarsa flessibilità strategica, confessata dallo stesso Marc Andresseen: non aveva capito a fondo come il website stava rivoluzionando il mondo di Internet. Viene in mente un celebre caso italiano di segno inverso, quello della Olivetti negli anni ’70 di fronte all’adozione giapponese delle tecnologie informatiche nei prodotti per ufficio, che sgretolava Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 6 la base tecnologica meccanica su cui erano progettati e fabbricati i suoi prodotti. Olivetti in soli tre anni – attingendo al proprio scrigno di competenze e con una modalità di cambiamento per progetti esemplari – svelò non solo una notevole flessibilità nel riorganizzarsi radicalmente, ma soprattutto spostò la fonte del suo vantaggio competitivo dalla pura efficienza produttiva alla flessibilità di mercato, basata sulla capacità di cambiare i suoi prodotti ogni sei mesi (Butera, 2011b). È quindi un nuovo modo di fare impresa radicato in esempi ed esperienze consolidate quello che consente la nascita, lo sviluppo, l’anticipazione, la resistenza delle imprese esposte ad una competizione globale e a farle diventare built to last. Assumere una leadership di piattaforma, sviluppare servizi innovativi, sviluppare capabilities organizzative, ascoltare i clienti e il mercato, perseguire economie di gamma, avere flessibilità operativa e strategica: questi sono i princìpi estratti dalla ricerca e dall’esperienza di Michael Cusumano. Li abbiamo trovati consonanti con i tratti dell’Italian Way of Doing Industry. Diffusione e sperimentazione richiederanno un grande impegno collaborativo a imprese, scuole e università, istituzioni e richiederanno l’apertura di un gran numero di cantieri di innovazione organizzativa: la questione dell’organizzazione e del lavoro dovrà divenire in Italia e in Europa una rinnovata questione nazionale che riguarda le politiche, la cultura, le competenze, la progettazione, la comunicazione, perché dobbiamo recuperare tempo e opportunità perdute entro un mondo che sta cambiando a una velocità senza precedenti (Butera, 2011c). Riferimenti bibliografici Alberti F.G. (2011), “La crescita imprenditoriale nelle imprese italiane”, in Butera F., De Michelis G. (a cura di), L’Italia che compete. L’Italian Way of Doing Industry, FrancoAngeli, Milano. Berger S. (2005), How We Compete, Doubleday, New York (trad. it.: Mondializzazione: come fanno per competere, Garzanti, Milano, 2006). Butera F. 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