L'infezione da Clostridium difficile A cura del Dott. Roberto Rossotti, Prof.ssa Anna Orani Malattie Infettive e Tropicali Ospedale A. Manzoni - Lecco FONTE: http://www.simit.org/ • • • • • • • • • • Introduzione Epidemiologia Epidemiologia regionale Fattori di virulenza Fattori di infezione Diagnosi Terapia Nuove prospettive terapeutiche Conclusioni Bibliografia Introduzione L’infezione da Cl. difficile (ICD) è stata descritta per la prima volta in letteratura nella seconda metà degli anni Settanta e, benché importanti lavori siano stati condotti per definirne epidemiologia, diagnosi clinica e controllo dei focolai ospedalieri, continua ad essere un'importante - anche in termini di costi economici. – infezione gastrointestinale associata alle procedure assistenziali. Infatti, in questi ultimi anni i casi di ICD hanno conquistato un posto sempre più rilevante nel dibattito medico e scientifico: non solo si è assistito ad un incremento delle segnalazioni di epidemie, ma esse si stanno estendendo anche in popolazioni tradizionalmente non considerate a rischio per l’acquisizione di tale patologia [1]. Epidemiologia Secondo i dati ufficiali dell’OMS, nell’ultimo quinquennio si è osservato un incremento dei ricoveri per infezioni intestinali batteriche in molti paesi europei: in Austria si è passati dallo 0.19 per 1000 abitanti del 2001 allo 0.24 del 2006, in Finlandia dallo 0.24 del 2002 allo 0.31 del 2006, in Norvegia dallo 0.15 del 2002 allo 0.21 del 2005 e in Gran Bretagna dallo 0.1 del 2000 allo 0.17 del 2005. Di questi casi, una quota significativa è rappresentata dalle ICD: la prevalenza varia dallo 0 al 15% negli ospedali in assenza di focolai epidemici per arrivare a percentuali del 16-20% quando si verificano epidemie nosocomiali [2]. I dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control mostrano un incremento della prevalenza di casi attribuibili a questo patogeno nosocomiale dallo 0.039% del 1999 allo 0.122% del 2007. Non solo, generalmente, i tassi di ICD in comunità sono bassi (7-12 casi/100000 abitanti/anno); tuttavia, in letteratura, sono sempre più numerose le segnalazioni di epidemie comunitarie [3]; uno studio francese ha recentemente dimostrato che quasi il 20% dei casi di ICD avvenuti fra il 2000 e il 2004 non sono attribuibili a procedure nosocomiali ma si sviluppano autonomamente all’ambito comunitario [4]. Tale dato non va dimenticato se si considera che, verosimilmente, non vengono diagnosticate tutte le infezioni intestinali insorte in pazienti che non presentano fattori di rischio tipici o che siano recentemente stati ricoverati. In sintesi, l’incidenza e la severità sembrano essere in aumento in diversi Paesi; l’epidemiologia è rapidamente mutata negli ultimi 5 anni e, gradualmente, è divenuto evidente che il mondo sta affrontando un’epidemia di ICD associata a maggior severità e a maggiore refrattarietà alle terapie convenzionali. Figura 1. Numero di casi di ICD per anno. Le linee continue rappresentano le dimissioni ospedaliere negli USA (ICD-9, codice 00.845); le linee tratteggiate rappresentano le positività ottenute nei laboratori dei medesimi ospedali per la ricerca di C. difficile. Se è vero che i casi stanno aumentando, è altrettanto vero che i medici hanno migliorato negli ultimi anni la consapevolezza dell’incremento della ICD e quindi della necessità di un approfondimento diagnostico mirato, reso possibile grazie all’ evoluzione dei test diagnostici di laboratorio. I cambiamenti nell’allerta e l’ausilio diagnostico vanno, tuttavia, ancora indirizzati al fine di interpretare i dati epidemiologici, dal momento che non c’è consensus sulla definizione di caso di malattia né sui programmi di sorveglianza [5]; in molti Paesi non vengono routinariamente segnalati i casi di ICD [6], né tantomeno i casi pediatrici; l’impatto delle infezioni acquisite in comunità non è ancora ben definito. Basti pensare che, in letteratura, i dati relativi alle ospedalizzazioni sono descritti come episodi per 100 o per 1000 ricoveri, per 1000, 10.000 o 100.000 giorni di ricovero o per 100.000 abitanti: vi è dunque un’evidente necessità di maggiore uniformità [7]. Infatti, a fronte di numerose segnalazioni di un incremento di casi di ICD sia in Paesi Occidentali [8] che in Asia [9], un lavoro di Gravel recentemente pubblicato su CID [10] sottolinea che i tassi di ospedalizzazione in Canada non si sono sostanzialmente modificati rispetto a quanto osservato nei medesimi centri 10 anni prima, bensì è stato segnalato un incremento di almeno 4 volte della mortalità attribuibile a ICD (dall’1.5% al 5.7%; p<0.001), il che configurerebbe tale infezione come una nuova causa emergente di mortalità nei pazienti ospedalizzati in Canada, soprattutto per quanto riguarda i soggetti anziani. Le cause dell’incremento di incidenza e di severità di ICD non sono del tutto chiare e sono tuttora oggetto di analisi. Uno studio ha dimostrato un’associazione fra l’infezione sostenuta dal ceppo ipervirulento NAP1/BI/027 e l’utilizzo di fluorochinolonici per il trattamento di polmoniti acquisite in comunità [11]; svariati studi caso-controllo hanno dimostrato che l’esposizione ai fluorochinoloni rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di infezioni sostenute da ceppi NAP1/BI/027 e [A(-)/B(+)] [12, 13], più comuni in Asia. Alcuni autori suggeriscono che l’aumento dei casi di ICD sia legato alla maggior diffusione di Cl. difficile nei reservoir animali [14] (maiali e altro bestiame d’allevamento). Secondo altre ipotesi, l’uso di sostanze non-sporicide per l’igiene delle mani ha favorito il passaggio fra pazienti e fra operatori sanitari e pazienti nell’ambito delle strutture d’assistenza sanitaria [15] : molti ospedali, infatti, hanno introdotto l’uso di disinfettanti a base alcoolica per favorire la politica di igiene delle mani, ma tali prodotti sono privi di azione sulle spore. Epidemiologia regionale In Nord America, l’incidenza di ICD è aumentata negli ultimi 5 anni; in alcuni casi, si sono verificate delle epidemie sostenute dal ceppo NAP1/BI/027, la cui prima segnalazione è avvenuta nel 2004 da parte di ricercatori del Québec, che avevano notato un passaggio da 35.6 a 156 casi ogni 100.000 abitanti dal 1996 al 2002 [16]. A partire dal Dicembre 2002, infatti, una trentina di ospedali della provincia francofona ha segnalato un inatteso elevato numero di casi di ICD che, dal 2003, ha coinvolto anche altri nosocomi del Paese; queste epidemie erano caratterizzate da un’elevata incidenza confrontata con i controlli storici (156.3/100000 contro 35.6/100000 del 1991), un’aumentata mortalità (22% contro il 4.5% del 1991) e un incremento delle complicanze (18.2% contro il 7.1% del 1991). Il ceppo NAP1/BI/027 deve il nome alle sue caratteristiche molecolari: North American Pulse-field di tipo 1 in base all’elettroforesi; pattern “BI” in base ad analisi di restrizione di endonucleasi; tipo “027” in base alla ribotipizzazione. Poiché in America è più comunemente utilizzata la PFGE (Pulse-Field Gel Electrophoresis) per la tipizzazione del ceppo, esso viene generalmente denominato NAP1 dagli autori nordamericani, mentre in Europa è più diffusa la tecnica di ribotipizzazione, per cui viene riconosciuto semplicemente come 027 dagli autori del Vecchio Continente. Questo nuovo ceppo NAP1/BI/027 presenta tre importanti caratteristiche microbiologiche: • • • è in grado di produrre tossine binarie; produce livelli maggiori di tossine A e B; è resistente ai fluorochinoloni. Questi ceppi risultano resistenti alla clindamicina e alla levofloxacina e recenti segnalazioni indicano anche lo sviluppo di resistenza verso gatifloxacina e moxifloxacina; i pazienti infettati da Cl. difficile appartenente al ceppo NAP1/BI/027 presentavano forme cliniche più severe, ed erano stati trattati in strutture dove, recentemente, levofloxacina era stata sostituita con gatifloxacina o moxifloxacina: si è ipotizzato che la maggior attività anti-anaerobi di questi antibiotici a spettro più ampio abbia svolto un ruolo importante nella selezione di ceppi NAP1/BI/027 antibiotico-resistenti. I sistemi di controllo in Europa sono meno efficienti che negli Stati Uniti [17], tuttavia analisi dei limitati dati disponibili dimostrano che l’incidenza di ICD è in incremento e che un’epidemia simile a quella occorsa in America negli anni scorsi si sta verificando, da noi, proprio in questi mesi [18, 19]. L’epidemia in Europa si caratterizza per tre aspetti distintivi: una diffusione in senso nord-sud; la maggiore incidenza ha interessato paesi culturalmente più avanzati per quanto attiene il controllo delle infezioni nosocomiali; il ruolo del ceppo NAP1/BI/027 appare ancora limitato. L’epidemia europea ha, infatti, avuto inizio nei Paesi settentrionali (Paesi Bassi, Svezia, Gran Bretagna), per poi coinvolgere le nazioni continentali (Belgio, Germania, Austria, Francia) e, da ultimo, gli stati mediterranei (Grecia e Spagna). Dal momento che l’epidemia da ICD ha avuto inizio proprio in Svezia e nei Paesi Bassi, che, tradizionalmente, possiedono un ottimo sistema di controllo delle infezioni ospedaliere; questa osservazione ha suscitato allarme sui fattori non controllati dalle misure preventive tradizionali, come l’isolamento da contatto e la pulizia della stanza al termine della degenza, i quali possono avere un ruolo importante nell’evoluzione dell’epidemia. Infine, il ceppo NAP1/BI/027 ha finora avuto un ruolo minoritario, sebbene la sua diffusione sia in aumento: nel 2005 poco più del 6% dei ceppi di CD isolati erano di questo tipo (soprattutto in Irlanda, Belgio e Olanda), mentre, attualmente, viene segnalata un’incidenza che va dal 30% della Danimarca al 49% della Finlandia. È stata, però, evidenziata anche l’emergenza in Belgio, Paesi Bassi, Ulster, Scozia e Spagna di un nuovo ceppo, denominato 078, che ha un meccanismo d’azione simile a NAP1/BI/027. Anche in Europa si cominciano a segnalare casi di ICD acquisiti in comunità, dove un terzo dei soggetti non risulta esposto a terapie antibiotiche, né è venuto a contatto con strutture sanitarie [20]. Dati comparativi in Asia e in Medio Oriente sono estremamente limitati, tuttavia i rapporti di singoli centri sembrano dimostrare un incremento dei casi di ICD in numerosi Paesi dell’area orientale. Anche in questi casi l’epidemia non pare sostenuta da NAP1/BI/027: recentemente alcuni ricercatori coreani hanno tipizzato 462 isolati di Cl. difficile raccolti dal 1980 al 2006 e non è stato individuato nessun clone appartenente a tale ceppo [21]. Al contrario, sono emerse svariate segnalazioni di ceppi che producono la tossina B ma non la tossina A [A(-)/B(+)] [22], caratterizzati da estrema aggressività (frequente sviluppo di colite pseudomembranosa). L’incremento della diffusione di questi ceppi pone anche un problema di carattere diagnostico, dato che spesso i laboratori effettuano la diagnosi mediante la ricerca della sola tossina A, con conseguente sottostima dei casi. Un problema a parte è rappresentato dal Giappone, dove il ceppo NAP1/BI/027 è stato isolato per la prima volta nel 2007 [23] e dove si sono riscontrate delle epidemie acquisite in comunità (anche a carico di bambini in età prescolare ). I dati relativi all’America centro-meridionale sono ancora limitati, ma i casi di ICD segnalati sembrano in aumento; in Oceania e in Africa, invece, non si sono osservate modificazioni dell’epidemiologia e il ceppo NAP1/BI/027 non è ancora stato identificato. Fattori di virulenza L’azione patogena di Cl. difficile è mediata a livello locale intestinale dalle tossine: esse si legano a dei recettori cellulari (ancora ignoti) sulla superficie degli enterociti, cui fa seguito un’endocitosi recettoremediata della porzione terminale della molecola tossinica. L’acidificazione che si realizza all’interno del lume endosomiale porta al riassemblamento della tossina stessa con successiva esposizione delle regioni idrofobiche: questo provoca la formazione di pori a livello della stessa membrana cellulare con ingresso di altre tossine nell’enterocita. Nel citoplasma, si verifica la glicosilazione delle proteine Rho e Ras (utilizzando l’UDP-glucosio come substrato) e, quindi, l’alterazione della struttura dell’actina all’interno del citoscheletro [25], con conseguente sovvertimento dell’architettura cellulare, rottura delle tight-junctions e fuoriuscita di liquidi. La tossina A esplica, inoltre, un’attività citotossica mediata dal sistema delle caspasi. Cl. difficile è un bacillo gram-positivo anaerobio obbligato che, nel 25% dei casi, non risulta patogeno; la normale flora intestinale inibisce in vitro e in vivo la crescita del clostridio. La patogenesi discende dalla risposta dell’ospite alla produzione di tossina A (enterotossica) e di tossina B (enterotossica e citotossica) che si legano ai recettori intraluminali delle cellule epiteliali del colon. Una quota del 5-6% dei batteri produce anche una tossina binaria (CDT). La tossina A e la tossina B sono codificate a partire dai geni tcdA e tcdB; tali geni sono collocati all’interno di una regione in cui sono presenti anche un gene per una porina (tcdE) e i geni regolatori di iper-espressione (tcdD) e di ipo-espressione (tcdC). In caso di polimorfismi o delezioni nell’ambito del gene tcdC, viene a mancare il controllo negativo dell’espressione delle tossine che, così, risulta incrementata di 16-23 volte [27]; il ceppo NAP1/BI/027 presenta proprio una delezione di 18 paia di basi a livello di tcdC, per cui possiede, oltre a CDT, anche un’iperproduzione di tossine batteriche. La presenza delle tossine, però, non giustifica tutto: molti pazienti presentano le tossine e sono asintomatici, e ciò indica che la presenza della tossina non è predittiva al 100% della manifestazione clinica e viceversa. Inoltre, finora sono stati riconosciuti altri elementi di virulenza quali i fattori di adesione cellulare, le proteasi e le proteine di superficie [28]. Fattori di infezione Cl. difficile è, tipicamente, acquisito durante il ricovero in una struttura sanitaria, ma si sono verificate anche delle manifestazioni endogene o acquisite in comunità. I pazienti raramente vengono screenati per Cl. difficile all’ingresso in ospedale e lo sviluppo di ICD appare solo dopo un periodo di ricovero: i portatori asintomatici possono divenire clinicamente sintomatici dopo esposizione a specifici fattori di rischio che portano all’eccessiva crescita del germe. Quando si verifica un’epidemia nosocomiale, la trasmissione avviene attraverso oggetti o personale ospedaliero o compagni di stanza contaminati da spore. I fattori di rischio tradizionalmente implicati nell’acquisizione dell’infezione sono: le condizioni dell’ospite (senilità, difetti del sistema immunitario, comorbidità), l’aumentata esposizione alle spore di Cl. difficile (ricoveri prolungati, ambiente ospedaliero, compagni di stanza infetti o personale sanitario portatore di germi) e fattori che alterano la normale flora microbica intestinale (antibiotici, antiacidi e altre procedure assistenziali). Figura 2. Fattori di rischio riconosciuti per l’acquisizione di ICD L’epidemiologia mostra, tuttavia, delle modificazioni nella tipologia di soggetti affetti da ICD: accanto alle categorie tradizionalmente considerate a rischio, esiste una piccola , ma in costante aumento, quota di pazienti in altre condizioni cliniche (donne gravide, trapiantati di organi solidi, professionisti sanitari, persone in buone condizioni generali che vivono in comunità). Le forme morbose in gravidanza si sono dimostrate eccezionalmente severe; i casi si sono verificati in periodo post-partum e in pazienti che si erano esposte a trattamento antibiotico durante il parto o comunque nel mese precedente le manifestazioni cliniche [29]. Fra i trapiantati, i riceventi polmoni e reni sono quelli che appaiono a maggior rischio di sviluppare ICD e in forme più aggressive [30]; la colonizzazione da parte di Cl. difficile negli operatori sanitari è estremamente comune, ma, fortunatamente, le manifestazioni sintomatiche sono ancora rare [31]. Sono stati, infine, segnalati casi isolati di infezioni di adulti e bambini in comunità senza apparenti fattori di rischio [32]. Diagnosi Un dato fondamentale da considerare è che un semplice esame di laboratorio non è sufficiente a porre (o ad escludere) diagnosi di ICD. Il saggio di citotossicità sulle tossine è ancora considerato il “gold-standard” per la diagnosi, eppure la coltura batteriologica riesce ad evidenziare quasi un terzo di casi in più: tuttavia, entrambi gli approcci hanno perso importanza sul piano clinico. Infatti, nonostante i metodi di coltura batterica siano molto sensibili (90-100%) e consentano di applicare i processi di tipizzazione per le analisi epidemiologiche, tuttavia richiedono un significativo carico di lavoro per il personale laboratoristico, hanno un lungo turnaround time (circa 72 ore) che li rende impraticabili nei casi di urgenza e, soprattutto, non sono in grado di evidenziare se il ceppo coltivato è produttore di tossine o meno. Pertanto, molto spesso si utilizzano test mirati esclusivamente all’evidenziazione delle tossine di Cl. difficile: attualmente, il 79-90% degli ospedali utilizza saggi immunoenzimatici rapidi (EIA)[33] per la diagnosi di ICD; esistono test in grado di riscontrare entrambe le tossine e altri capaci di rilevare solo la tossina A. Si tratta di test abbastanza semplici, con una sensibilità accettabile (80-95%) e con un breve turn-around time (2 ore), il che ne favorisce l’utilizzo in urgenza. Un’importante limitazione di quest’approccio è che, coi kit che rilevano esclusivamente la tossina A, si ottengono dei falsi negativi nei casi sostenuti da ceppi produttori di tossina B soltanto (in progressiva diffusione in Asia); falsi negativi si possono avere anche nei casi in cui i ceppi batterici producono solo bassi quantitativi di tossine senza raggiungere la soglia di determinabilità del test stesso. Nel tentativo di aumentare la sensibilità dei test, si ricorre alla biologia molecolare: la PCR eseguita sul campione fecale ha una sensibilità superiore a quella della metodica EIA [34]; il limite di determinabilità è di 1 x 105 batteri per grammo di feci (con una sensibilità del 100% e una specificità del 94% rispetto al test di citotossicità) e un buon turn-around time (meno di 4 ore). Per cercare di combinare la rapidità di risposta con una buona sensibilità, sono stati proposti degli algoritmi diagnostici in cui si associa il test EIA come primo screening, cui fa seguito il saggio di citotossicità tossinica; la sensibilità di questo approccio in due fasi è del 98% con una specificità dell’89% [35]. Altri algoritmi diagnostici in tre fasi sono stati valutati, ma il bilancio fra i costi e i benefici di questi approcci è ancora da definire. In ogni caso, il medico dovrebbe considerare una ICD in ogni adulto che sviluppa diarrea a livello nosocomiale, specialmente se è stato esposto ad antibiotici o se presenta altri fattori di rischio per ICD. Generalmente i test impiegati routinariamente sono affidabili, per cui solo occasionalmente si dovrebbe impostare una terapia ex-adjuvantibus (ad esempio, in caso di forme molto severe); le terapie empiriche, tuttavia, non si sono dimostrate efficaci nel controllo dei focolai epidemici, per cui questa pratica non viene raccomandata [36]. Terapia Non è solo l’epidemiologia a variare: anche gli approcci terapeutici si stanno modificando di concerto in modo sostanziale. Storicamente, la vancomicina per os è stata il primo farmaco utilizzato per il trattamento di ICD; successivamente, studi comparativi hanno dimostrato la sostanziale equivalenza fra vancomicina e metronidazolo, per cui si è scelto di usare quest’ultimo in prima linea sia per un problema di costi economici che per il rischio di selezionare enterococchi vancomicino-resistenti [37], limitando l’impiego di vancomicina in prima linea alle donne in gravidanza o nel periodo dell’ allattamento e ai soggetti che non tollerano il metronidazolo. Inoltre, studi di valutazione del rapporto costo/efficacia condotti negli Stati Uniti hanno dimostrato che, valutando sia i costi dei farmaci che quelli correlati alle eventuali complicanze, il metronidazolo resta il farmaco di prima scelta (il costo della vancomicina dovrebbero essere ridotto del 90% per pareggiare il rapporto costo/beneficio) [38] . Pertanto, le linee guida americane attuali [39] distinguono tre livelli di gravità clinica: • • • forme lievi-moderate: metronidazolo per os 500 mg ogni 8 ore; forme severe (GB ≥15.000 cell/mmc o creatinina ≥1.5 il livello di normalità): vancomicina per os 125 mg ogni 6 ore; forme severe complicate (necessità di ricovero in Terapia Intensiva, indicazione alla colectomia, megacolon tossico, ileo paralitico, ipotensione o perforazione colica): vancomicina per os 500 mg ogni 6 ore e/o metronidazolo per via endovenosa 500-750 mg ogni 8 ore; nel caso di ileo paralitico, si somministra metronidazolo per via parenterale associato a vancomicina somministrata per via rettale. Il trattamento per via parenterale è limitato dal fatto che i farmaci raggiungono delle basse concentrazioni endoluminali: la vancomicina per via endovenosa ha una penetrazione limitata nell’intestino, raggiungendo nelle feci una concentrazione di solo 6.410µg/mL [40]; l’escrezione del metronidazolo, invece, avviene soprattutto nella porzione più prossimale del tratto gastrointestinale e meno del 14% viene poi escreto con le feci [41]. Le linee guida suggeriscono che la prima recidiva dovrebbe essere trattata col medesimo farmaco impiegato la volta precedente a meno che la manifestazione clinica sia nettamente peggiorata. I tassi di recidiva variano dal 5 al 20%; è stato ipotizzato lo sviluppo di resistenza da parte del bacillo verso gli antibiotici utilizzati, ma i dati attualmente presente in letteratura sono ancora contrastanti. Il vero problema è che test di suscettibilità di Cl. difficile agli antibiotici non vengono eseguiti di routine, poiché si dà per scontata la suscettibilità sia a vancomicina che a metronidazolo. Recenti analisi hanno dimostrato differenze nelle MIC di ceppi isolati negli ultimi mesi versus ceppi storici con la dimostrazione della comparsa di bacilli con una suscettibilità ridotta a questo antibiotico. Pertanto, sono state condotte ricerche di ribotipizzazione per descrivere la diffusione dei sottogruppi con MIC ≥ 6 mg/mL [40]; i bacilli con ridotta sensibilità al metronidazolo appartenevano prevalentemente al ribotipo 001, sebbene il significato clinico e le conseguenze pratiche di questa definizione debbano ancora essere pienamente descritte [42]. Per altro, altre osservazioni portano ancora maggiori dubbi: dai dati raccolti dai centri canadesi è emerso che, dal 1996 al 2002, i soggetti che hanno ricevuto vancomicina hanno effettivamente avuto un outcome migliore rispetto a chi aveva assunto metronidazolo, ma, dal 2003 al 2006, tale differenza si è andata perdendo ed è rimasta statisticamente significativa solo per i casi più severi [43]. Figura 3. Schema riassuntivo delle indicazioni terapeutiche per i casi di ICD. Nuove prospettive terapeutiche Altre molecole in fase di sviluppo includono prodotti estremamente differenti, da nuovi antibiotici a sostanze chelanti le tossine fino ad agenti immunomodulatori. Fra gli antibiotici ricordiamo la ramoplanina, la rifaximina e la rifampicina, il nitazoxanide, l’OPT-80, l’acido fusidico e la teicoplanina. La ramoplanina è un antibiotico lipoglicopeptidico che si è dimostrato attivo verso batteri gram positivi sia aerobi che anaerobi [44], quali Enterococcus e Cl. difficile; esplica la propria attività antibatterica bloccando la sintesi del peptidoglicano senza tuttavia crociare con quella di vancomicina. È stata sviluppata per la terapia delle infezioni intestinali poiché raggiunge concentrazioni molto elevate a livello fecale. Uno studio di Fase II ha valutato l’efficacia della ramoplanina versus vancomicina [45]; il trial era multicentrico, in aperto, randomizzato in tre bracci (ramoplanina 200 mg BID, ramoplanina 400 mg BID, vancomicina 125 QID). I dati emersi hanno evidenziato un’accettabile efficacia con una scarsa tossicità, ma lo studio non era sufficientemente forte per stabilire la noninferiorità rispetto a vancomicina. La rifaximina è un derivato rifamicinico scarsamente assorbito a livello intestinale, attivo contro germi gram positivi e negativi sia aerobi che anaerobi attraverso l’inibizione della sintesi dell’RNA batterico [46]. Attualmente, il farmaco è impiegato essenzialmente nella diarrea del viaggiatore e, soprattutto in Italia, per la gestione delle complicanze della cirrosi epatica. Recentemente, sono emersi incoraggianti dati in vivo sulla potenza dell’attività antibatterica di rifaximina contro Cl. difficile [47]; purtroppo, però, si sono evidenziati anche tre ceppi che hanno sviluppato resistenza, il che solleva dei dubbi sull’effettiva possibilità di impiego dato il rischio di una maggiore diffusione di tale resistenza; va, per contro, sottolineato che proprio i ceppi NAP1 presentavano le MIC più basse, per cui rifaximina potrebbe ritagliarsi uno spazio di applicazione specificamente per queste infezioni più severe. Salix Pharmaceuticals sta attualmente conducendo un trial di fase III per valutare sicurezza ed efficacia di rifaximina versus vancomicina [48]. Benché appartenente alla medesima classe, la rifampicina è sempre stata tradizionalmente considerata solo come un farmaco antitubercolare e antistafilococcico, sottovalutando il suo impiego in altri ambiti quale è, per esempio, quello dell’ICD [49]; sono state descritte elevate concentrazioni di rifampicina a livello endoluminale, sebbene non ci siano dati sull’eliminazione fecale. Uno studio prospettico, in singolo-cieco randomizzato a ricevere metronidazolo 500 mg TID o metronidazolo al medesimo dosaggio più rifampicina 300 mg BID [50] è stato prematuramente interrotto a seguito della morte di 6 soggetti nel braccio che assumeva la terapia di combinazione (1 decesso nel braccio in monoterapia con metronidazolo). L’elevato tasso di mortalità è stato correlato all’età avanzata dei pazienti, che presentavano delle importanti comorbidità. In ogni caso gli autori hanno concluso che rifampicina non possiede un ruolo nella gestione routinaria delle ICD dato il basso tasso di efficacia. Nitazoxanide è un derivato nitrotiazolide utilizzato nella terapia antiparassitaria di cryptosporidiosi e giardiasi, ma attivo anche contro Cl. difficile [51]. Agisce interferendo col meccanismo della reazione indispensabile per il metabolismo anaerobio di trasferimento di elettroni catalizzato della piruvatoferredoxin-ossireduttasi. L’inibizione di Cl. difficile si osserva già con basse dosi di nitazoxanide e col suo metabolita tizoxanide. Nitazoxanide è stato inizialmente confrontato versus metronidazolo in uno studio prospettico, randomizzato e in doppio cieco, ma la risposta antimicrobica sostenuta a 31 giorni non mostrava differenze fra i due trattamenti. Un altro studio è stato disegnato per valutarne l’efficacia in pazienti che abbiano fallito regimi tradizionali di metronidazolo e/o vancomicina [52]; i risultati sono stati soddisfacenti: il 71% dei soggetti plurifalliti ha risposto al trattamento e l’86% delle recidive è guarito con nitazoxanide (p=0.65). Lo studio, però, era gravato dal limite di essere in aperto e di non essere stato disegnato come comparativo. L’antibiotico macrociclico OPT-80 (noto anche come PAR-101 e tiacumicin B) è un antibiotico naturale prodotto da Dactylosporangium aurantiacum, il cui spettro d’azione include batteri gram positivi aerobi e anaerobi [53]. Gli studi di fase I hanno evidenziato uno scarso assorbimento orale di OPT-80 ma con una significativa concentrazione fecale; uno studio di fase II, in aperto, di dose-defining ha identificato nel dosaggio di 200 mg BID quello ottimale per il trattamento di ICD [54]. Nel corso del 2008 è stato condotto lo studio di fase III, randomizzato, in doppio cieco, per confrontare l’efficacia di OPT-80 versus vancomicina e i primi dati paiono supportare una uguaglianza di attività fra i due antibiotici [55]. In Italia l’acido fusidico è registrato esclusivamente per la somministrazione topica; in dermatologia, se ne sfrutta la capacità di prevenire la traslocazione dei ribosomi per bloccare la sintesi proteica degli stafilococchi cutanei. L’utilizzo per via sistemica è limitato dagli eventi avversi di tipo gastrointestinale e da rari casi di rash cutanei e disordini ematologici. Nei confronti di Cl. difficile, si ritiene che agisca come inibitore dell’L-selectina, che è la molecola di adesione che sfrutta i leucociti nella patogenesi della colite da CD [56]. Alla fine degli anni ‘90 è stato condotto uno studio prospettico, randomizzato comparativo fra acido fusidico, metronidazolo, vancomicina e teicoplanina [57] dal quale è emerso che l’acido fusidico aveva un alto tasso di successo, ma aveva anche il più alto tasso di recidive e di eventi avversi. Un altro studio randomizzato in doppio cieco, che ha comparato acido fusidico e metronidazolo per il trattamento del primo episodio di ICD, ha dimostrato che il tasso di cura era dell’83% per acido fusidico contro il 93% del metronidazolo (p=0.116), mentre il tasso di recidive era del 13% per acido fusidico e 10% per metronidazolo . Strutturalmente simile alla vancomicina, la teicoplanina è un glicopeptide non assorbibile che ha dimostrato attività contro Cl. difficile con delle MIC inferiori a quelle della vancomicina stessa. Il già citato lavoro di Wenisch del 1996 ha dimostrato che tale antibiotico ha un’applicazione promettente, con un tasso di cura al 96% e un tasso di recidive al 7%. Sono state sviluppate anche delle molecole come la colestiramina e il tolevamer per il chelaggio delle tossine in sede endoluminale. L’associazione colestiramina/colestipol ha mostrato la capacità di legare in vitro le tossine A e B [59]; esistono svariate segnalazioni di casi di pazienti sia adulti che pediatrici che, dopo numerose recidive trattate con agenti tradizionali, hanno finalmente risposto a questo trattamento. Tuttavia, un trial randomizzato e controllato ha fallito nel dimostrare un effetto sull’eliminazione fecale dei bacilli o delle tossine [60]. Il tolevamer, noto anche come GT160-246 e GT267-004 è un polimero di stilene sulfonato che ha dimostrato la capacità di legare in modo non covalente le tossine A e B [61] riducendo di oltre 80 volte l’accumulo di fluidi intraluminale e diminuendo di circa 16 volte la permeabilità intestinale rispetto ad un modello murino trattato con colestiramina. Uno studio di fase II ha confrontato vancomicina 125 mg QD per 10 giorni, tolevamer 1 g TID o 2 g TID per 14 giorni [62] da cui è emerso che tolevamer al dosaggio di 6 g/die non era inferiore a vancomicina (p=0.02). Si è, quindi, iniziato uno studio di fase III per comparare tolevamer alle terapie tradizionali, ma la compagnia ha interrotto lo studio poiché il farmaco non si era dimostrato non inferiore a vancomicina [63]. Esistono numerosi prodotti, sia di origine sintetica che animale, con l’obiettivo di proteggere e/o restaurare la normale flora batterica commensale in corso di trattamento antibiotico. Test su animali dimostrano l’efficacia di enzimi beta-lattamici nella prevenzione dello sviluppo di ICD: animali trattati con antibiotici ad ampio spettro presentano una crescita di Cl. difficile pari a oltre 10 milioni di batteri/mL ma, in presenza di questi enzimi, la normale flora batterica resta inalterata impedendo la proliferazione dei bacilli. Gli enzimi beta-lattamici vengono somministrati per os ma vengono scarsamente assorbiti, per cui hanno un effetto minimo a livello del circolo ematico e riescono ad accumularsi a livello intestinale, raggiungendo una concentrazione tale da risultare protettiva per la normale flora batterica [64]. Studi di fase II sono attualmente in corso a Cleveland (Ohio, USA). Un composto più tradizionale è, invece, il REP3123, inibitore della metionil tRNA sintetasi, una proteina essenziale per la sintesi proteica nei batteri (si lega competitivamente all’RNA batterico al sito attivo per la biosintesi). REP3123 si lega molto rapidamente all’enzima batterico, inibendone la replicazione, ed appare selettivo soprattutto per i germi gram positivi, di fatto risparmiando la normale flora intestinale; inoltre, inibisce la produzione delle tossine e la sporulazione, che rappresenta uno dei principali problemi nella patogenesi dell’ICD [65]. È stato osservato che il colostro umano possiede un’attività neutralizzante nei confronti delle tossine A e B [66] e questo può essere uno dei motivi per i quali i neonati sono spesso colonizzati da clostridi senza tuttavia sviluppare la patologia. Studi su modelli animali hanno dimostrato che IgG concentrate ottenute dal colostro di mucche iper-immunizzate possiedono un ruolo protettivo e terapeutico; dopo queste osservazioni, sono state estratte da latte maturo bovino e concentrate dal siero del latte delle proteine dirette contro Cl. difficile (anti-CD-WPC), dove c’è una preponderanza di IgA rispetto a IgM e IgG. I composti anti-CD-WPC si sono dimostrati efficaci nel ridurre le recidive in pazienti precedentemente trattati con un regime antibiotico standard [67]. L’utilizzo di probiotici è, da sempre, molto controverso: essi agiscono come mezzo per restaurare la normale flora microbica intestinale e in tal modo, teoricamente, prevenire l’ICD. Vengono commercialmente utilizzati ceppi di batteri Lactobacillus e Bifidobacterium e del lievito Saccharomyces, ma la loro efficacia è discutibile: esistono diversi studi per valutare l’efficacia del lattobacillo nel trattamento dell’ICD, ma i risultati non sono definitivi. Recentemente, uno studio randomizzato in doppio cieco contro placebo ha valutato l’efficacia del lattobacillo quale agente profilattico [68] somministrato da 2 giorni dopo l’inizio della terapia antibiotica e proseguito per i 7 giorni successivi al termine del trattamento: lo studio ha visto una riduzione del rischio relativo pari al 17% (p=0.001). Sebbene non ci siano studi controllati sull’efficacia di Saccharomyces per la prevenzione primaria, alcuni studi ne supportano l’uso nella gestione dei casi recidivanti [69] anche se dati più recenti non hanno riscontrato tale effetto protettivo [70]. Non ci sono molti dati relativi all’effetto di bifidobatteri nella ICD, sono segnalate batteriemie ed endocarditi sostenute da questo battere soprattutto in popolazioni immunodepresse; dati ancora più evidenti sono stati raccolti relativamente alle fungemie da Saccharomyces boulardii. Queste infezioni, sebbene rare, devono essere tenute in considerazione nei pazienti affetti da ICD che presentano altre importanti comorbilità croniche; da questo punto di vista, i dati sull’utilizzo di lattobacillo nei pazienti trapiantati [71] lo configurano come il probiotico più sicuro. Anche l’immunoterapia è stata a lungo studiata per valutare eventuali applicazioni nella gestione dell’ICD. Sulla base di studi su modelli animali, sono stati sviluppati due anticorpi monoclonali: CDA1 diretto contro la tossina A e MDX-1388 diretto contro la tossina B. Sono attualmente in corso presso l’Università del Massachusetts dei trial di fase III per valutare l’effetto dell’aggiunta di tali anticorpi ad una terapia antibiotica standard. Poiché alti livelli di IgG anti-tossina A si associano a protezione verso ICD [72], è stato sviluppato un tossoide anti-Cl. difficile per verificare se sia possibile indurre una risposta immunitaria in pazienti con episodi ricorrenti di ICD [73+. I risultati di un trial di fase I hanno dimostrato che quattro dosi di vaccino erano ben tollerate ed inducevano una risposta immunitaria in giovani volontari sani [74]; un secondo trial di fase I condotto in pazienti sopra i 65 anni d’età [75] ha constatato che il vaccino, a differenti dosi, era ben tollerato e induceva una risposta immunitaria, per cui alla fine del 2008 è iniziato un trial di proof-of-concept. L’efficacia delle immunoglobuline per via endovenosa ad un dosaggio di 200-300 mg/kg in singola dose si è dimostrato efficace in numerose segnalazioni [76, 77], ma i dati da analisi retrospettive sono discordanti [78]. Dal momento che mancano trial clinici disegnati in maniera corretta, per il costo elevato e la scarsa disponibilità del materiale, questo tipo di approccio [79] non è raccomandato. Nell’ambito del Secondo Congresso AMIT recentemente svoltosi a Milano, Mark A. Miller, uno dei maggiori esperti dell’epidemia di Cl. difficile sostenuta da ceppi NAP1 manifestatasi all’inizio del decennio in Quebec, ha definito il trapianto di feci attraverso un sondino nasogastrico come “l’approccio che nessuno vuole fare pur essendo quello migliore e che non fallisce mai”. Il trapianto viene eseguito prelevando un campione fecale da un parente stretto o, se non disponibile, da un altro familiare o da donatore sano; questo approccio si associa comunque a vancomicina 250 mg ogni 8 ore partendo 4 giorni prima e fino alla notte antecedente alla procedura [80]. Benché eventi avversi seri non siano mai stati segnalati, il rischio di trasmissione di patologie infettive esiste, pertanto i donatori vengono screenati per virus epatitici, HIV-1 e 2, lue, Cl. difficile e altri batteri e parassiti intestinali. Poiché la disponibilità del paziente ad accettare questo tipo di approccio può, in ogni caso, rappresentare un limite, l’indicazione al trapianto dovrebbe essere valutata nei casi severi refrattari alle terapie convenzionali. Conclusioni L’emergenza di ceppi ipervirulenti di Cl. difficile in America ha condotto ad un elevato numero di epidemie caratterizzate da manifestazioni severe di ICD: sebbene il ribotipo 027 non sia ancora stato isolato in Italia, sempre più segnalazioni dimostrano la sua presenza e diffusione anche in Europa, pertanto i programmi di valutazione e monitoraggio delle epidemie nosocomiali dovrebbero essere implementati per far fronte a tale patogeno. Le modificazioni epidemiologiche della patologia devono, però, stimolare anche dei cambiamenti nell’approccio e nella gestione dei casi: • • • • valutazione delle eventuali forme di ICD acquisite in comunità e in popolazioni non considerate tradizionalmente a rischio; introduzione di programmi di controllo integrati che associano più strategie basate sul controllo delle vie di trasmissione (lavaggio delle mani, isolamento del paziente, precauzioni per i contatti) e sulla riduzione del rischio di esposizione (accurata scelta di disinfettanti ambientali, di presidi sanitari e di politiche che limitino l’uso di antibiotici ad ampio spettro); analisi dei rischi correlati al sempre più ampio utilizzo di fluorochinoloni (non è ancora chiaro il ruolo di questa classe di antibiotici nella genesi delle infezioni intestinali da Cl.difficile e la correlazione con l’insorgenza dei ceppi 027; infatti i dati osservati potrebbero essere il risultato del loro uso sempre più preponderante negli ultimi anni rispetto a farmaci considerati fino ad oggi i fattori di rischio classici della ICD); sebbene nuove molecole siano in corso di valutazione, la terapia standard attuale è ancora quella basata su metronidazolo e vancomicina; i fallimenti osservati con metronidazolo dovrebbero essere rivalutati più estensivamente per delineare una strategia terapeutica omogenea. Infine il miglioramento nella gestione dei casi di ICD dovrebbe prevedere una maggiore uniformità dei programmi di sorveglianza attiva, soprattutto a livello europeo, che includano: la documentazione dei trend epidemiologici, il riconoscimento dei ceppi antibiotico-resistenti emergenti, la valutazione delle epidemie e la possibilità di condividere i dati per incrementare l’efficacia dei programmi stessi. Ancora una volta, la collaborazione fra Paesi risulta indispensabile per una pronta e corretta gestione delle patologie infettive. Bibliografia 1. 1) McFarland LV Renewed interest in a difficult disease: Clostridium difficile infections – Epidemiology and current treatment strategies. Curr Opin Gastroenterol 2009; 25(1): 24-35. 2. 2) McFarland LV, Beneda HW, Clarridge JE et al. Implications of the changing face of Clostridium difficile disease for healthcare practitioners. Am J Infect Control 2007; 35: 237-253. 3. 3) Centers for Disease Control. 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