Kulturgeselleshaft: la conchiglia dell'uomo paguro si rompe?
Giovanni Spitale
1° anno Tesina di Storia Contemporanea
1
Corso di Filosofia
Introduzione
L'uomo alla superficie è soltanto l'uomo. Non appena gli si leva la pelle e lo si disseziona, si scopre la macchina. Paul Valere
Una macchina può fare il lavoro di cinquanta uomini ordinari, ma nessuna macchina può fare il lavoro di un uomo straordinario. Elbert Hubbard
Non è facile definire la natura del rapporto tra l’uomo e la macchina. Da quel lontano giorno in cui, nelle aride savane dell’Africa, un nostro antenato utilizzava un bastone o forse un sasso per compiere un lavoro che altrimenti non sarebbe stato alla sua portata, nulla è più stato lo stesso. Quel giorno l’uomo fece il primo passo sul sentiero della ribellione ad una natura tiranna che governava la sua esistenza intera, dalla nascita alla morte, senza possibilità alcuna di rivalsa. L’uomo smetteva di subire, si sottraeva alla selezione naturale, supplendo con prodotti artificiali concepiti e realizzati dalla sua intelligenza alle naturali mancanze fisiche: pietre affilate in luogo di artigli e denti, pelli d’animale per combattere i rigori del clima, pali e pertiche per arrivare più in alto o più lontano di quanto non potessero fare le braccia. Molto è cambiato da quei tempi in cui ancora non esistevano parole per raccontare il progresso dell’uomo, innumerevoli e grandi sono state le scoperte e le invenzioni che hanno sconvolto per sempre le sorti della nostra vita e della nostra storia. Nonostante oggi l’uomo grazie alle sue macchine riesca a viaggiare a velocità supersoniche, a produrre sofisticatissimi oggetti, a colonizzare ambienti estremamente ostili alla sua esistenza (come ad esempio le profondità oceaniche, il gelo dei poli, addirittura il cielo) o ad indagare scientificamente le origini e la natura di se stesso e dell’universo intero, il nostro modo di fare rimane identico a quello che applicavamo all’alba dei tempi per rompere noci: costruiamo qualcosa che faccia quello che a noi è precluso. Il titolo di questo lavoro, così particolare ed atipico, ha una sua genesi specifica ed articolata: il titolo della mia tesi di maturità al liceo fu “L'uomo paguro: l'evoluzione biologica, l'evoluzione tecnologica”. Si trattava sostanzialmente di un'analisi dei rapporti che intercorrono ora e sono intercorsi nella storia tra l'uomo e la macchina (intesa nel senso più globale del termine), sia nella dimensione reale e tangibile della vita di fabbrica o della ricerca scientifica, sia nella dimensione metaforica del rapporto tra creatore e creatura, trattando esempi celebri e non, nella letteratura, nel cinema e nell'animazione, quali ad esempio il Frankenstein di Mary Shelley, vari film del periodo impressionista tedesco come ad esempio “Homunculus” di Rippert, l'inquietante “Tetsuo: the iron man” di Shinya Tsukamoto e su quel filone (letto a partire dal pensiero del futurista Mario Morasso a proposito del suo Wattman) capolavori di animazione come Gundam ed Evangelion. Quel titolo stava appunto a intendere il rapporto stretto ed esistenziale tra l'uomo ed il prodotto del suo ingegno. Questo lavoro, per quanto differisca dal precedente per fini, struttura, contenuti, stile e quant'altro, ne è idealmente figlio ed in questo senso ho voluto mantenere, anche nel titolo, l'indicazione di un rapporto. Fatte salve queste premesse, mi auguro che nella lettura possiate far vostro un saggio consiglio del vecchio Voltaire, che pressappoco diceva
Giudicate un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte.
2
Autoproduzione, autoconsumo
Dacché l'uomo ha iniziato a vivere con il supporto di mezzi a lui esterni, facendo per l'appunto uso di quanto possiamo designare sotto il termine globale ed onnicomprensivo di tecnologia, intendendo con questa parola qualunque oggetto artificiale realizzato dall'uomo, è sempre esistito un rapporto diretto o poco mediato tra l'oggetto ed il suo proprietario: in poche parole la maggior parte dei beni e la quasi totalità degli alimenti nel corso della loro esistenza passavano per pochissime mani. Fino all'avvento dell'era industriale infatti era in vigore il duplice sistema autoproduzione­autoconsumo. Prendiamo ad esempio un qualunque nucleo familiare vissuto in un qualunque luogo dell'Europa occidentale in un qualunque secolo precedente il diciannovesimo: troviamo un'economia rurale basata sull'agricoltura come mezzo di sostentamento primario, integrata con la vendita nei mercati locali dell'eventuale (ed irrisorio) surplus. All'interno del nucleo familiare troviamo tutte le conoscenze e le competenze necessarie alla realizzazione degli oggetti di uso comune, come calzature, abiti ed utensili. Ogni gruppo umano è quindi virtualmente un microcosmo indipendente da ogni altro. Ogni oggetto ed ogni bene inizia e conclude la sua esistenza nel raggio di pochi chilometri. Fanno eccezione alcune lavorazioni particolari, come ad esempio le sete del nord­ovest d'Italia, apprezzate e commercializzate in tutta l'Europa e realizzate (prima dell'introduzione delle filande, già simili al venturo sistema di fabbrica) durante l'inverno, quando non era praticabile alcun altro lavoro nei campi, mediante la vendita del lavoro a cottimo: i mercanti portavano della seta grezza, che veniva filata, tessuta ed infine resa al mercante stesso, che pagava il lavoro a cottimo. In sostanza un'economia chiusa e di breve respiro, un sistema secondo il quale la sopravvivenza di un gruppo di persone è legato non tanto agli andamenti della politica di questo o quel sovrano, delle grandi scoperte o quant'altro, bensì alle annate dei raccolti, ad eventuali malattie del bestiame o delle colture, al tempo atmosferico.
Rivoluzione industriale e sistema di fabbrica Il mito della macchina ha radici profonde. Sin dai primi decenni del XIX secolo, quando i primi inventori iniziarono a realizzare strani congegni per gli scopi più disparati, troviamo una vasta testimonianza in letteratura dell'impatto che questa “tecnologizzazione del mondo” ebbe sull'immaginario collettivo. Per averne un'idea basta leggere un qualunque romanzo di Jules Verne, da “Ventimila leghe sotto i mari” a “Dalla terra alla luna”. In tempi più recenti altri autori si sono occupati di rinsanguare la discendenza di questo tipo di romanzi, come ad esempio Isaac Asimov per il versante narrativo. La maggior disponibilità di mezzi comunicativi ha portato però ad altre interessanti creazioni a tema tecnologico, come ad esempio le serie ispirate al lavoro di Gene Roddenberry, Star Trek (nella cui matrice troviamo anche il fascino che esercitava l'esplorazione spaziale quando ancora era ai suoi primi passi). In Giappone questo filone ha una storia tutta particolare: dopo la seconda guerra mondiale e dopo le devastazioni che essa portò con sé, soprattutto nelle città industriali distrutte dalle bombe atomiche, solo una massiccia opera di reindustrializzazione poté salvare questo paese e portarlo ad avere oggi un ruolo dominante sul panorama economico mondiale. Questo processo ha ancora oggi una forte eco nella produzione artistica e letteraria giapponese, come è facile notare dall'esame delle opere d'animazione più 3
famose. Basti pensare a Gundam1: l’umanità, dopo aver lasciato la terra, vive in grandi stazioni orbitanti equipaggiate per riprodurre le condizioni di vita del pianeta. È in corso una guerra tra la federazione terrestre ed una colonia esterna che si è proclamata indipendente, e le migliori armi dei due schieramenti sono i cosiddetti battle suit: grandi macchine antropomorfe comandate da un pilota posto al loro interno. Dal punto di vista grafico ciò che prima salta all’occhio è la dovizia di particolari con cui ogni oggetto prodotto dall’uomo è disegnato: viti, bulloni, giunzioni, addirittura i numeri di serie dei battle suit, mentre la figura umana viene riprodotta in maniera assolutamente abbozzata. Spesso i personaggi hanno tratti facciali talmente androgini che è sufficiente cambiare la capigliatura per cambiare il sesso del personaggio. Un'opera di animazione che ha avuto particolare risalto anche in Italia, Steamboy2, indaga invece in maniera più approfondita la genesi del rapporto tra uomo e tecnologia. L'anime è ambientato in Inghilterra negli anni dell'esposizione universale di Londra. Il giovane Ray Steam, figlio e nipote di due inventori, scopre dal nonno e dal padre la metafisica della tecnica, interrogandosi sui suoi scopi, trovandosi a confronto con la torre Steam, una gigantesca fabbrica nonché macchina da guerra. Il dilemma che si trova ad affrontare, le cui possibili soluzioni sono incarnate nell'avo e nel genitore, che hanno opinioni radicalmente diverse, riguarda gli scopi della scienza e la possibilità del suo asservimento al potere economico o politico. Altro personaggio interessante è la giovane signorina Scarlett, una ricca e viziata ragazzina americana, figlia del finanziatore della torre Steam. Inizialmente ottusa ed entusiasta della “piccola guerra dimostrativa” condotta all'esposizione per palesare le potenzialità della tecnologia, Scarlett scopre la “morte tecnologicamente amplificata” ed inizia a porsi delle domande sulla correttezza di quanto il padre stia facendo fare. Chiudendo l'excursus artistico – letterario sulla storia del rapporto tra l'uomo e la tecnologia e tornando ad occuparsi di materiale più ortodosso, è molto interessante la definizione che Marco Revelli dà della rivoluzione industriale: A partire dai primi decenni del secolo, quello che si profila è un massiccio processo di sradicamento delle consolidate abitudini di auto­produzione e di consumo comunitario, delle forme di micro­cooperazione quotidiana – le pratiche originarie del make, per così dire, del «produrre per sé » ­ per sostituirle con gli strumenti a più alto tasso di efficienza dell'economia razionalizzata basata sulla produzione di fabbrica, per imporre il sistema universale del buy, dell'acquisto sul mercato, sotto forma di merce (di «valore di scambio») ­ di ciò che prima era generato esclusivamente come «valore d'uso». Un processo che ricorda, sul piano della riproduzione sociale, ciò che il taylorismo andava compiendo sul piano della produzione industriale, dissolvendo antichi mestieri, radicati savoir faire, strappandoli al controllo dei produttori che li avevano fino ad allora gelosamente custoditi per trasferirli agli uffici Tempi e Metodi, alle strutture gerarchiche di fabbrica.3
Con queste parole Revelli esprime quella che possiamo considerare l'essenza più profonda dello straordinario mutamento nella storia dell'uomo che ha preso il nome di rivoluzione industriale, ovverosia del processo che ha ribaltato la gerarchia tra creatore e creatura, rendendo l'uomo­operaio un accessorio intercambiabile, la rotella di un meccanismo grande come la fabbrica, il mercato, 1 Yoshiyuki Tomino, Kido senshi Gundam, Nippon Sunrise, Tokio, 1979
2 Katsuhiro Otomo, Steamboy, Sony pictures, 2005
3 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2006, p. 76
4
presto il mondo intero. Troviamo una chiara testimonianza di ciò nel resoconto che il medico francese Louis Destouches stilò per conto della Health Section della società delle nazioni nel 1925, dopo una visita agli stabilimenti Ford di Detroit. Destouches parla di un terzo degli operai (oltre 13000) colpiti da invalidità serie e croniche, tra cui tubercolosi, asma, epilessia, psicosi, ernia, disfunzioni cardiache, cecità, atassia, nefrite, cistite e malattia del sonno.4 Dati che l'autore utilizza per dimostrare come alla Ford di fine anni '20 «chiunque può sostituire qualunque altro operaio in qualsiasi attività, immediatamente, senza che ne risulti alcuna, o quasi, diminuzione dei pezzi fabbricati alla fine della giornata»5. Le tesi del medico si spingono anche più in la: a suo avviso la direzione di fabbrica arriva addirittura a preferire questi operai fisicamente e mentalmente tarati, dalla ridotta se non nulla capacità di volere, di decidere e di pretendere per via della loro gratitudine per chi gli fornisce un salario che per quanto misero è pressoché l'unico che possano guadagnare. Usando le parole dello stesso Céline, essi «formano una manodopera più stabile, che si rassegna meglio di un'altra, più sveglia, al ruolo estremamente limitato che gli è riservato nell'industria moderna»6.
Alienazione sociale ed eterogenesi dei fini
Un processo del genere non può che avere conseguenze devastanti su quello che erano stati l'uomo e l'associazione di esseri umani nei secoli precedenti. Chiunque abbia lavorato ad una catena di montaggio conosce l'orrore dei ritmi martellanti, l'impossibilità di fare qualcosa che non sia previsto e programmato dalla rigida tempistica della macchina, di parlare con quelli che si possono senza troppe difficoltà definire compagni di sventura, addirittura di pensare a qualcosa che non sia seguire il ritmo della fabbrica. I ritmi della produzione non sono quelli dell'essere umano. E tutto ad un tratto ci si trova ad essere nient'altro che tante pirandelliane “mani che girano una manovella”. In un attimo quello che era la bottega o il laboratorio, luogo in cui i lavoranti si scambiavano oralmente saperi relativi alla loro professione, ma anche opinioni sull'andamento della città, dello stato o quant'altro, diviene un luogo di perdizione. Non solo dell'individuo, come troviamo negli scritti di Céline, ma di un'intera classe, di un intero gruppo umano, di tutta una società. Si tratta del processo che Revelli ha definito «eterogenesi dei fini»7. Il sistema fordista, con la sua parcellizzazione del lavoro, allontana sempre di più, materialmente e concettualmente, l'operaio ed il suo gesto nella catena di montaggio dal risultato finale del prodotto finito. Marco Paolini esprime molto bene questa condizione nel suo monologo “Cipolle e libertà”8, registrato nel 2003 al Teatro Civico di Schio. Si tratta della breve storia di Gelmino, nato a San Pietro di Legnago nel '36, operaio specializzato alla Riello per 41 anni. I nuovi operai, interrogati sulla loro professione, rispondono che entrano in fabbrica e con la loro macchina fanno dei pezzi, ma non conoscono né la natura di questi “pezzi”, né il loro scopo, né le macchine che utilizzano per produrli. Non è difficile vedere i risvolti di questo straniamento nel corso della storia dell'ultimo secolo, come fa notare Revelli 4 Louis Destouches, A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, in Bulletins et mémoires de la Societé de Médicine de Paris, n.10, 1928; ripubblicata a firma Louis­Ferdinand Céline, La Médicine chez Ford, in Lectures 40, n.4, 1 agosto 1941 e n.5, 15 agosto 1941 [trad. it. in Id., I sotto uomini. Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Company, Firenze 1993 pp. 123­124]
5 Ibid., p. 122
6 Ibid., p. 123
7 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2006, cap. 3
8 Marco Paolini, Teatro civico. Cinque monologhi per Report, vol. I, Einaudi Stile Libero DVD, Torino 2003 5
(riprendendo le tesi sostenute da Günther Anders in seguito al processo Eichmann9) nella sua analisi delle ragioni di quella che lui chiama la “mostruosità del '900”, facendo riferimento alle guerre con il loro sempre più alto carico di vittime, soprattutto civili, nonché ai grandi massacri indiscriminati che definiamo genocidi: armeni, curdi, ebrei, omosessuali, oppositori politici; in generale persone che in un determinato regime autoritario potevano essere catalogate come “diversi”, quindi potenzialmente destabilizzanti, quindi “pericolosi”. Tali radici sono fondamentalmente due: in primis la parcellizzazione del “lavoro”, intendendo con tale termine qualunque attività, anche la deprecabile produzione seriale di morte dei lager. La “catena di montaggio burocratica” separa sempre di più l'uomo ed il suo agire dai risultati finali dello stesso. In questo modo Klaus Eichmann, “criminale metafisico” diviene un «coscienzioso passacarte, esperto in trasporti ferroviari, perfetto sincronizzatore di orari»10, la cui “mostruosità” sta più nel «distacco per la materia mortale che aveva “trattato”, [...] [nel]l'atteggiamento professionale, ­ sine ira ac studio, appunto, come si addice ad ogni buon funzionario di un'efficiente burocrazia»11. Possiamo vedere lo stesso fenomeno anche nella storia della bomba atomica, dal progetto Manhattan allo sgancio ai risvolti del “terrore nucleare” in piena guerra fredda: l'eco che ne abbiamo è indubbiamente diversa per tutta una serie di ragioni che vanno dal fatto che la storia di Hiroshima è stata come al solito scritta dai vincitori, al fatto che il “terrore nucleare” è per molti versi una realtà ancora oggi. Le armi atomiche sono infatti state prodotte a migliaia, nonostante dopo Hiroshima fosse ben noto il loro potenziale distruttivo, la loro capacità di cancellare l'uomo (e forse la vita intera) dalla faccia della terra. Possiamo interpretare anche questo comportamento umano, chiaramente autodistruttivo e quindi assolutamente contrario alla conservazione della specie, legge che sembrava incontrovertibile, in base alle suddette tesi sull'eterogenesi dei fini e sulla crescente separazione tra il lavoro ed il suo prodotto finale. L'altra causa del “mostruoso” nel '900, teoria a dire il vero meno condivisibile, sta nella gefälle, nella discrepanza tra i mezzi tecnologici a disposizione dell'uomo e la sua possibilità di comprenderne pienamente gli effetti. A mio personale avviso, una tale teoria tende in un certo senso a deresponsabilizzare l'uomo, adducendo la non comprensione come parziale scusante per i massacri tecnologici del XX secolo. Dopo Ypres il gas tossico che prese il nome di iprite non venne abbandonato, nonostante i suoi effetti terrificanti fossero sotto gli occhi del mondo. Anzi, divenne aprivia di una serie sterminata di armi chimiche, dal gas nervino allo Zyklon B, al napalm, al fosforo bianco. A mio avviso è possibile spiegare questo abuso del potere tecnologico dell'uomo ricorrendo ancora alla teoria sull'eterogenesi dei fini: il sistema bellico, affetto dallo stesso straniamento prodotto dal sistema a “catena di montaggio”, anzi, incentivandolo esaltando i valori dell'obbedienza ai superiori e dell'ordine, opera mediante esseri umani che per abitudine eseguono e per abitudine non si preoccupano eccessivamente delle ragioni e degli effetti di quello che fanno.
Il post­fordismo e le sue radici
Nella seconda metà del XX secolo il sistema di produzione fordista si trovò messo in crisi: la grande fabbrica centralizzata, mastodontica, rigidamente verticale stava iniziando a cedere il passo ad un 9 Günther Anders, Wir Eichmannsöhne, Beck, München 1964 [trad. it. Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, Giuntina, Firenze 1995]
10 Marco Revelli, Oltre il Novecento... cit, p. 31
11 Ibid., pp. 31­32
6
nuovo sistema di produzione che si potrebbe definire come reticolare, parcellizzato, un sistema che privilegiava la dimensione orizzontale a quella verticale. Il sistema che è stato appunto definito come post­fordista, caratterizzato da importanti differenze rispetto al precedente. Nella fattispecie nuove tecnologie d'informazione e di collegamento, maggior attenzione ai tipi di consumatori piuttosto che alle classi sociali, aumento del settore terziario e dei “colletti bianchi”, femminilizzazione della forza lavoro, globalizzazione dei mercati finanziari. Le radici di questo mutamento epocale affondano negli anni '60 del '900: nel 1962 a Port Huron venivano stabilite e dichiarate le premesse su cui si intendeva rifondare il mondo intero. [...]Noi consideriamo l'uomo come infinitamente prezioso e dotato di potenzialità inappagate di ragione, libertà e amore. Affermando ciò siamo consapevoli di scontrarci con le concezioni dell'uomo dominanti nel XX secolo, secondo cui egli sarebbe una cosa da manipolare, intrinsecamente incapace di dirigere da se il proprio destino [...] Noi ci opponiamo alla spersonalizzazione che riduce gli esseri umani allo stato di cose: le brutalità di questo secolo ci mostrano che mezzo e fine sono strettamente correlati [...] Solitudine, estraneità e isolamento descrivono l distanza oggi esistente tra gli uomini, la quale non può essere superata da una migliore «gestione del personale» o da congegni perfezionati, ma solo dall'amore per l'uomo e non per le cose. 12
Oltre a simili dichiarazioni programmatiche che in seguito sarebbero state i manifesti dei movimenti che hanno popolato gli anni '60 la creazione di un nuovo modello di fabbrica è stata incentivata anche da altri fattori, anche ben diversi dalle contestazioni di quel periodo e dalle rivendicazioni di uno spazio, financo mentale, da parte di «una nuova generazione di studenti e di operai [...] lavoratori intellettuali e manuali [...] ultima mutazione antropologica dell'Arbeiter delle origini»13, nonché da quel «grande fenomeno di “luddismo” istituzionale ed organizzativo»14 che è stato il sessantotto. La “rivoluzione informatica” è senza dubbio uno dei più importanti, forse in assoluto il principale, anche per i suoi risvolti nel mondo di oggi di cui tratterò più avanti. La rivoluzione informatica non è stata un'operazione commerciale organizzata a tavolino dalle grandi industrie produttrici di mainframes come l'IBM. Anzi, a detta di Paul Freiberger e Michael Swaine «se fosse stato per le industrie di minicomputer e di mainframe la rivoluzione dei personal computer farebbe ancora parte del futuro»15. La “rivoluzione informatica” ha preso avvio nelle comunità di appassionati che si scambiavano chips, pezzi di codice, conoscenze per l'assemblaggio e la programmazione dei primi vecchi Altair, secondo la logica della cooperazione, del miglioramento reciproco, del dono. Del resto al tempo questo tipo di conoscenza «veniva considerata res nullius, priva di un valore produttivo e dunque di un “peso” reale. O forse meglio, res omnium, proprietà naturale di tutti, come l'acqua del mare, o l'aria, o le parole, appunto, che nascono e muoiono senza copyright». E' facile capire come poi qualcuno abbia capito le potenzialità di Cash Cow della nuova tecnologia, iniziando a privatizzarla e a venderla. Emblematica in tal senso la lettera aperta sulla 12 Students for a Democratic Society, The Port Huron Statement, in appendice a James E. Miller, Democracy is in the Streets. From Port Huron to the Siege of Chicago, S. and S., New York – London – Toronto – Sidney – Tokyo 1987
13 Marco Revelli, Oltre il Novecento... cit, p. 81
14 Id, Oltre il Novecento... cit, p. 85
15 Paul Freiberger, Michael Swaine, Silicon Valley. Storia e successo dei personal computer, Muzzio, Padova 1993, p. 30
7
pirateria di Bill Gates, che già nel 1976 accusava di furto gli hackers che diffondevano gratis il basic che lui vendeva a 500 dollari, sistema operativo sviluppato a partire da un codice fino ad allora libero, liberamente diffuso e liberamente sviluppato da centinaia di persone. Come fa notare Revelli, quella informatica e tecnologica «non è l'unica radice della crisi del fordismo e della successiva transizione a quello che chiamiamo per semplicità post­fordismo»16. Nello stesso periodo, negli anni '60, troviamo un fenomeno diverso dal clamore delle grandi contestazioni, più simile a una presa di coscienza delle élites: un chiaro esempio è il Club di Roma, un'associazione di managers, intellettuali ed opinion leaders, fondato da Aurelio Peccei, «tecnocrate colto, cosmopolita, attivissimo»17. E' del 1972 la prima pubblicazione del Club: nella fattispecie un rapporto dall'allarmante titolo di “The Limits to Growth”, in cui per la prima volta si affermava qualcosa che era sotto agli occhi di tutti, ma che mai nessuno, in ambiente manageriale, aveva osato affermare. Contro a tutti i fondamenti del fordismo, ma anche della stessa mentalità positivista, si sosteneva la finitudine del mondo. Affermazione che implicava la finitudine dei mercati, delle risorse, della possibilità di smaltire i rifiuti. Insomma, il mondo industriale non era destinato ad una infinita crescita, bensì al collasso. La soluzione prospettata al fine di permettere ancora l'esistenza del mondo così come lo conosciamo era l'autolimitazione della crescita della popolazione e dell'inquinamento. Insomma, la fine della crescita economica. Tale messaggio ebbe un impatto tutto speciale sul mondo dell'industria: in primis veniva dal suo stesso interno e non da un qualche marginale ed esaltato profeta di sventura; in secondo luogo era stato realizzato con una raffinata simulazione al computer, mezzo che per eccellenza poteva dare autorità ad un tale verdetto. Il fordismo si trovò così a perdere quella che fino ad allora era stata la sua più salda certezza fondante: il senso di illimitato. L'ultima ragione della struttura decentralizzata, orizzontale e reticolare della fabbrica post­fordista, secondo Revelli, è stato il massiccio impiego femminile, a partire dalle necessità delle fabbriche di materiale bellico che nel periodo delle due guerre non potevano impiegare operai maschi, impegnati al fronte. Tesi a mio avviso abbastanza discutibile: Revelli, prendendo spunto dalle teorie di Christian Marazzi sul diverso modo con cui uomo e donna si rapportano con il lavoro, a partire dalla cooperazione delle massaie inglesi del XVIII secolo nella produzione di patchwork, sostiene che lo stesso modo di intendere il lavoro delle donne abbia contribuito alla mutazione del fordismo. Infatti basta un veloce giro in una fabbrica che impieghi anche personale femminile per rendersi conto come in realtà sia stata l'industria a cambiare le donne, e non viceversa. Ovviamente la mia opinione trae origine da esperienza diretta e non è supportata da alcuno studio critico di carattere antropologico o sociologico di mia conoscenza; ciononostante questa teoria mi rimane di difficile accettazione. Kulturgeselleshaft
Si definisce kulturgeselleshaft la società del tempo liberato, della cultura, in opposizione alla arbeitsgeselleshaft, la società del lavoro totale. Entrando nel dettaglio possiamo descriverla come una «”società della cultura” o del “tempo liberato”, dove ai principî fordisti – tayloristi di prestazione, di normalizzazione, di specializzazione e di spersonalizzazione [...] possano sostituirsi “nuovi rapporti di cooperazione, di comunicazione, di scambio” capaci di definire “un nuovo spazio 16 Marco Revelli, Oltre il Novecento... cit, p. 119
17 Id., Oltre il Novecento... cit, p. 120
8
culturale per l'intera società, fatto di attività autonome, e fini liberamente scelti”»18. In sostanza si tratta di uno spazio dedicato ad attività non necessarie o mercificabili, non riducibili al criterio dell'utile, in un certo senso fini a se stesse; svolte secondo le forme dell'agire cooperativo, della mutualità e del dono. Insomma, la kulturgeselleshaft sarebbe uno spazio in cui se non si annulla, il dislivello tra «attività lavorativa e quotidianità vissuta e auto­diretta»19 si riduce di molto, restituendo all'individuo il controllo pressoché totale sul suo modo di esistere e sul suo rapporto con il mondo. Revelli definisce questo modello di società, forse un po' utopisticamente, non solo come auspicabile, ma addirittura come realizzabile attraverso tre misure relativamente semplici. La riduzione degli orari di lavoro, resa possibile dall'aumento delle potenzialità dell'automazione; il riconoscimento di un reddito slegato dal tempo di lavoro, ricavato da attività che oggi si svolgono per passione, di tipo conviviale e cooperativo; la creazione, nel tempo così ricavato, di una sfera di vita comunitaria, autogestita ed auto­organizzata, che si possa dedicare ai servizi alle persone, ad attività relazionali e di cura, oppure altre attività non remunerate. In sostanza, ad allargare la sfera di sovranità della persona. E come ho accennato poc'anzi qui torna in ballo la “rivoluzione informatica”, con i suoi protagonisti e la sua eredità. La kulturgeselleshaft teorizzata da Revelli infatti esiste, senza dubbio in maniera parzialmente diversa e allo stato embrionale, nelle comunità del software libero. Fulcro di questo movimento sono i sistemi operativi alternativi a quelli a pagamento, nella fattispecie Linux, alcune distribuzioni di BSD, Solaris ed Unix. Attorno a questi software ruotano comunità molto estese continuamente impegnate, in maniera non remunerata, assolutamente volontaria (e spesso con eccellenti risultati) nello sviluppo di nuove applicazioni e nel miglioramento di quelle esistenti, secondo la logica della cooperazione, dello scambio e del dono. Storicamente questi gruppi di “geeks” conducono una sorta di battaglia contro i mulini a vento per diffondere i principi del software libero ed aperto, con la speranza che qualche utente possa decidere di provare questa “via diversa” alle tecnologie d'informazione e che magari possa far propri i principi che muovono la comunità open­source, magari portandoli per abitudine nella vita di tutti i giorni, dando luogo ad una kulturgeselleshaft reale oltre che virtuale.
18 Id., Oltre il Novecento... cit, p.154; André Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 105 (corsivi di Marco Revelli)
19 Id., Oltre il Novecento... cit, p. 154
9
Scarica

Kulturgeselleshaft: la conchiglia dell`uomo paguro si rompe?