Prof. Elena Lesma La linfangioleiomiomatosi La LAM è una patologia rara caratterizzata dalla proliferazione di cellule muscolari lisce anomale, dette appunto cellule LAM, con distruzione cistica polmonare, tumori addominali (soprattutto angiomiolipomi renali) e dall’infiltrazione del sistema linfatico assiale nel torace e nell’addome (adenopatie e linfangioleiomiomi). La LAM può essere sporadica o associata alla sclerosi tuberosa ed insorge in donne in età fertile; per questo è ritenuta associata agli estrogeni. Ad oggi non esiste una cura efficace per la LAM. Nei casi più gravi le pazienti necessitano di ossigeno-terapia o trapianto. Va però sottolineato come anche nel caso di trapianto si può assistere a recidiva della malattia. Visto il quadro anatomopatologico della malattia è stata avanzata l’ipotesi della metastasi benigna, poiché le cellule LAM si ritrovano in tutte lesioni della malattia. Queste cellule presentano la mutazione per il gene TSC2 con la perdita di eterozigosità per la proteina “tuberina”. Inoltre le cellule LAM hanno molti recettori per estrogeni e progesterone e la positività all’HMB45 oltre che al CD44v6. Tutto ciò rende ragione del modello metastatico. La sclerosi tuberosa è una malattia genetica autosomica dominante che colpisce entrambi i sessi. E’ una malattia sistemica caratterizzata dalla formazione di amartomi a livello cerebrale, a livello addominale, a livello della cute, della retina e dei polmoni. La TSC si manifesta per la mutazione a carico di due geni che codificano la produzione di due proteine, la tuberina e l’amartina. Il complesso tuberina-amartina regola la proliferazione cellulare che è a sua volta attivata dall’attivazione del recettore dell’EGFR1 e dalla possibile attivazione del recettore dell’IGF. Il complesso tuberina-amartina attiva mTOR (mammalian target of rapamycin) che a sua volta regola la sintesi proteica e la proliferazione cellulare. La ricerca della relatrice è partita dall’isolamento di cellule muscolari lisce pure per mutazione TSC2 (tuberina). Queste cellule presentavano una fosforilazione particolarmente elevata di S6. Queste cellule isolate mostravano la necessità di EGF per la crescita, condizione atipica per una cellula muscolare liscia. Infatti un anticorpo anti EGFR (cetuximab) porta alla morte cellulare entro 12 giorni. Questo ha introdotto 1 l’idea di utilizzare il cetuximab per il trattamento della malattia. Negli studi della relatrice l’utilizzo di rapamicina non riusciva invece ad indurre morte cellulare. L’utilizzo delle cellule LAM isolate ha permesso di produrre un modello animane in topi nudi, mediante somministrazione per via endonasale. Il modello ottenuto è quasi esclusivamente un modello di LAM più che di TSC. Gli animali sono stati trattati con il cetuximab e con la rapamicina. Già dopo 7 giorni dalla somministrazione, le cellule inalate venivano ritrovate a livello linfonodale. A 30 settimane le cellule sono ancora presenti a livello linfonadale ma si ritrovano anche a livello polmonare ed a livello uterino. L’inalazione di cellule non TSC nell’animale non produce lo stesso effetto. La somministrazione per 4 settimane di trattamento sia di cetuximab che con rapamicina porta alla netta riduzione del numero di cellule che si ritrovano a livello polmonare. E’ stata poi valutato l’effetto dei due trattamenti farmacologici sulla capacità di proliferare di queste cellule, ed anche questa valutazione ha dimostrato l’efficacia sia del cetuximab che della rapamicina. Interessante come le cellule LAM non risultassero, nel modello animale, in fase di replicazione quando presenti a livello linfonodale. Questo aspetto costituisce una significativa differenza tra i meccanismi di metastatizzazione nella LAM e nei tumori maligni. I risultati strutturali dei trattamenti sono risultati soddisfacenti; va però sottolineato come il trattamento con rapamicina era associato ad emottisi e ad ispessimento interstiziale senza, quindi, una totale restitutio ad integrum del quadro strutturale polmonare. E’ stato poi verificato come, anche nel modello animale, si assista ad un incremento della linfangiogenesi. Sono poi state isolate cellule da una paziente LAM-TSC che derivavano da chilotorace. Anche queste cellule necessitavano di EGF per crescere. Inoltre queste cellule mostravano sul secondo allele (il primo era danneggiato da una mutazione) un evento epigenetico e non una delezione, come avviene nelle cellule isolate dall’angiomiolipoma. La cosa interessante è questo fenomeno è potenzialmente reversibile mediante dei modellanti della cromatina, come l’acido valproico. 2 Dr. Giuseppe Paciocco L’ipertensione arteriosa polmonare Una delle certezze relative all’ipertensione arteriosa polmonare è che la diagnosi necessita del cateterismo cardiaco destro. Negli anni ’90 gli unici trattamenti erano i calcio-antagonisti e l’epoprostenolo, mentre attualmente abbiamo ben 3 classi di trattamento: gli inibitori delle fosfodiesterasi 5, gli antagonisti del recettore dell’endotelina 1 ed i prostanoidi. Quello che è ancora dubbio è come condurre il follow-up di questi pazienti. Un articolo (D’Alonzo G et al. Ann Intern Med 1991; 115: 343-349) pubblicato nel 1991 ha individuato i 3 parametri del cateterismo destro che condizionano la prognosi: l’indice cardiaco, la pressione atriale destra e la pressione media in arteria polmonare. Questo approccio oggi non viene più utilizzato, con il proliferare di trattamenti (attualmente sono disponibili 7 molecole). Un recente articolo del 2010 (Humbert M et al. Circulation 2010; 122: 156-163) ha dimostrato come la prognosi predetta dal solo cateterismo destro ad oggi non è più utilizzabile. Il sitaxentan, un inibitore dell’endotelina, è stato ritirato dal commercio nel 2010. I punti ad oggi aperti sono quando iniziare il trattamento di associazione tra le diverse classi e come definire un trattamento inadeguato. I farmaci per l’ipertensione arteriosa sono efficaci, come ha dimostrato un articolo del 2009 (Galiè N. et al. EHJ 2009; 30: 394-403) con una riduzione sia della mortalità che delle ospedalizzazioni. Negli ultimi anni sono stati pubblicati i risultati di 6 grandi studi che hanno valutato l’efficacia dell’associazione tra 2 farmaci nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. I risultati di questi studi sono contrastanti. Uno dei possibili motivi di questa discordanza dei risultati è che molti studi hanno utilizzato come outcome solamente il test del cammino. Il primo parametro da valutare è la classe WHO di gravità del paziente. Infatti i pazienti che, una volta trattati, rientrano nella classe NYHA 1 e 2 hanno una prognosi decisamente più favorevole degli altri. Quindi uno degli obiettivi della terapia della PAH non deve essere la semplice stabilizzazione del paziente ma il suo passaggio in classe NYHA 1 e 2. Altri parametri utili sono il test del cammino, il test da sforzo cardiopolmonare. Questo approccio è stato ripreso dalle linee guida pubblicate nel 2009 (Galiè N, et al. Eur Heart J 2009; 30: 24933 2537), che però prevedono anche un’ampia aria grigia, quando cioè il paziente non rientra né nel criterio di prognosi favorevole (ad esempio percorrere più di 500 metri al test del cammino), né in quello sfavorevole (percorrere meno di 300 metri). Viene quindi lasciato ampio margine al medico nel gestire il paziente. Il test del cammino viene utilizzato spesso come outcome; però presenta delle pecche quando viene utilizzato per individuare il miglioramento in seguito alla terapia. Oggi viene utilizzato molto il dosaggio del BNP o del pro-BNP, che è un neuroormone prodotto dalle camere cardiache sia sinistre che destre in seguito allo stiramento di parete. Una casistica del relatore su 42 pazienti ha confermato l’efficacia clinica del BNP che ben correla al test del cammino. Il BNP ha valore anche in acuto, ad esempio su pazienti ricoverati in terapia intensiva per scompenso destro (Sztrymf B et al. Eur Respir J 2010; 35: 1286–1293). In futuro verranno utilizzati tutta una serie di parametri ottenuti da risonanza cardiaca del cuore, sia al momento della diagnosi che durante il follow-up. Infine vi sono una serie di studi che stanno cercando di individuare altri fattori bioumorali (come la bilirubina, la PCR o le interleuchine) utili nel prevedere la prognosi dei pazienti colpiti da ipertensione polmonare. Nel centro del relatore i pazienti vengono rivalutati clinicamente e mediante test funzionali ogni mese, nel caso in cui il paziente sia in terapia con prostanoidi, ed ogni 2 mesi per tutti gli altri. Il cateterismo destro viene eseguito nel caso in cui vi sia il dubbio che il paziente sia peggiorato. 4 Prof. Pier Luigi Viale La gestione delle infezioni nosocomiali Le infezioni respiratorie costituiscono una parte estremamente consistente delle infezioni ospedaliere, essendo le seconde in numero, subito dietro le infezioni delle vie urinarie, ma le prime in quanto a mortalità. Le polmoniti ospedaliere (HAP) e le polmoniti da ventilatore (VAP) sono entrambe caratterizzate dal fatto di essere sostenute da diversi microrganismi con ampi profili di farmaco-resistenze. La patogenesi delle polmoniti nosocomiali prevede sia meccanismi endogeni che esogeni. Oggi, soprattutto in ambito di terapia intensiva, è necessario l’utilizzo di molte misure di prevenzione per ridurre il numero di infezioni respiratorie (Bouadma L et al Clin Infect Dis 2010; 51:1115–1122). Tra queste sicuramente l’igiene delle mani e l’utilizzo di guanti e mascherine, evitare sondini naso-gastrici, evitare la sovra distensioni gastriche, utilizzare la posizione semiseduta e l’igiene del cavo orale. Esistono norme simili, anche se meno codificate, anche al di fuori delle terapie intensive. Un concetto importante è quello di ridurre la colonizzazione, visto l’alta incidenza di riattivazione endogena dei microrganismi. L’eccesso utilizzo degli inibitori di pompa si è dimostrato un fattore favorente le polmoniti, sia in comunità che in pazienti ospedalizzati (Herzig SJ et al JAMA. 2009;301:2120-8). Un altro aspetto interessante è l’uso di probiotici come strumento preventivo. Uno studio del 2009 ha dimostrato un effetto favorevole dei probiotici nel limitare la colonizzazione gastrica da Pseudomonas (Forestier C, et al Crit Care 2008;12:R69). Non è poi possibile parlare di polmoniti nosocomiali senza trattare il tema della profilassi antibiotica, anche topica. Una revisione della Cochrane del 2009 (Liberati A et al, Cochrane Database Syst Rev. 2009 Oct 7) ha dimostrato una riduzione, mediante appunto profilassi antibiotica, del numero di infezioni delle basse vie aeree senza incidere però sulla mortalità dei pazienti. Rimane poi sempre il dubbio che l’approccio profilattico possa aumentare il numero di ceppi resistenti. E proprio la resistenza antimicrobica è un tema molto attuale, anche perché i germi soggetti a questo fenomeno sono tra quelli più frequentemente isolati in corso di polmonite nosocomiale o VAP. Per lo Staphilococcus aureus stanno aumentando 5 drammaticamente le MIC per la vancomicina; anche le enterobatteriacee negli ultimi anni sono sempre più spesso produttrici di betalattamasi a spettro esteso, cosa che limita l’utilizzo di gran parte dei beta-lattamici e costringendoci ad utilizzare l’unica categoria di beta-lattamici attivi, cioè i carbapenemici, con progressivo incremento di Pseudomonas resistenti ai carbapenemici e la selezione di enterobatteriacee produttrici di carbapenemasi e di Acinetobacter multi-resistenti. Uno studio recente (Jung YJ et al, Crit Care Med 2010 38:175–180) ha dimostrato come il contemporaneo utilizzo di rifampicina e vancomicina migliora il tasso di sopravvivenza in pazienti con polmonite da MRSA. La rifampicina infatti non va mai utilizzata da sola, ma sempre in associazione. Ma forse la vera risposta per il trattamento dell’MRSA è il linezolid, vista la farmacocinetica straordinariamente più favorevole rispetto alla vancomicina, come dimostrato da uno studio non ancora pubblicato. Una delle ragioni del vantaggio del linezolid può essere proprio la farmaco resistenza alla vancomicina di molti Staphilococchi. Nel caso in cui ci siamo fattori di rischio per lo Staphiloccocco è possibile iniziare un trattamento empirico con Linezolid in attesa degli esami colturali. Nel caso in cui ci sia evidenza di un MSSA di può attuare una de-escalation verso l’oxacillina. Nel caso in cui si isoli un MRSA con una MIC < a 0.5 si potrà invece sospendere il linezolid ed introdurre la vancomicina + la rifampicina. Il problema dei microrganismi produttori di carbapenemasi è invece molto più complesso. Le carbapenemasi più temibile è la tipo A. La risposta terapeutica a questa evenienza è molto deficitaria. Infatti il numero di farmaci efficaci è molto basso (Hirsch EB & Tam TH J Antimicrob Chemother 2010): tigeciclina, tetracicline, colimicina, gentamicina e amikacina. Questi farmaci sono in realtà molto diversi. Gli studi su questo ambito sono molto pochi. Le risposte al trattamento vanno dal 75% per gli aminoglicosidi al 14% della colimicina utlilizzata da sola. Ad oggi le combinazioni che sembrano più efficaci sono quelle tra colimicina e rifampicina o colimicina e doxiciclina. Le EMBL, cioè le carbapenemasi di classe B, vedono nell’associazione tra doripenem, colimicina e rifampicina il trattamento più efficace. Come emerso fin qui emerge l’importanza della colistina, farmaco molto tossico. Il grande dubbio sulla colistina nel trattamento di infezioni respiratorie è che il farmaco abbia una attività modesta, vista la difficoltà di questo farmaco di raggiungere il polmone (Lu Q et al Intensive Care Med (2010) 36:1147–1155). Questo giustifica diverse esperienze in letteratura di pazienti trattati con colimicina per via inalatoria. La colistina è un farmaco 6 concentrazione dipendente, e quindi necessita di dose di carico. Oggi la dose più accreditata è di 9 milioni di unità al giorno in due somministrazioni con una dose da carico iniziale uguale a quella giornaliera. Si può associare una terapia inalatoria con 2 milioni di unità ogni 8 ore. La colistina poi è meno nefrotossica di quanto di pensasse in passato, soprattutto se il paziente è ben idratato. 7 Dr. Stefano Nava End stage in medicina respiratoria L’allungamento ad ogni costo della vita potrebbe non essere oggi considerato uno scopo primario della medicina. Tutto il personale medico si trova spesso di fronte al fine vita. Va sottolineato il significato di alcuni termini importanti: • Astensione dalla terapia: decisione pianificata di non intraprendere terapie altrimenti applicate secondo la “buona pratica clinica” (i.e. intubazione, dialisi, amine, chirurgia d’urgenza, trasfusione, nutrizione ed idratazione). • Sospensione: sospensione di trattamenti “salvavita” iniziati in precedenza (i.e riduzione FiO2 21%, estubazione, sospensione della ventilazione, sospensione delle amine….) • Eutanasia: condizione non legale in Italia. Si intende un dottore che uccide intenzionalmente una persona che sta soffrendo dietro sua volontaria, esplicita, ripetuta e ben considerata ed informata richiesta. Uno studio pubblicato nel 2006 su Intensive Care Medicine ha focalizzato il vero problema in Italia del fine vita: cioè il fatto che i codici civile e penale hanno oltre 60 anni e sono stati scritti in un momento in cui non vi erano i supporti vitali che oggi utilizziamo. Chi è il paziente a cui ci riferiamo? Non è facile visto che gli indici di APACHE e SAPS sono ancora poco efficaci. Uno studio del 2000 pubblicato su BMJ ha chiesto ha 346 medici di valutare la prognosi di 468 pazienti. Questo studio ha dimostrato come solo il 20% delle valutazioni fosse accurato. Uno studio francese pubblicato su Lancet nel 2001 ha valutato la percentuale di pazienti con patologie croniche nei quali veniva presa una decisione di fine vita. La percentuali di pazienti con patologia respiratoria cronica era del 35%. Una cosa che noi medici valutiamo poco è ciò che desiderano i nostri pazienti. Il punto più importante per i nostri pazienti è evitare l’eccessivo prolungamento della vita, ed il secondo punto è di perdere il controllo su ciò che viene deciso. Il codice di deontologia medica prevede che Il medico deve fornire al paziente la più 8 idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Purtroppo gli aspetti comunicativi nella pratica clinica sono poco valutati. Quando parliamo con i pazienti noi dovremmo comprendere l’informazione ed immagazzinare quanto compreso per un periodo sufficiente a ponderare una decisione. Nel 2006 uno studio dell’ERS task force ha dimostrato come in Europa, soprattutto meridionale, vi sia un discreto livello di comunicazione, soprattutto con i parenti. E’ raro il coinvolgimento o supporto religioso. Un altro fattore che aumenta il livello di fiducia del paziente è il numero di anni in cui lo seguiamo. Ma quando parlare del fine vita con i nostri pazienti? Gli americani hanno codificato questi fattori che sono: FEV1<30%, l’utilizzo dell’ossigeno, uno o più ricoveri per BPCO riacutizzata, presenza di importanti comorbidità, cachessia, performance status ridotto, età superiore a 70 anni ed aumento della dipendenza. Il 78% dei pazienti BPCO preferisce la morte piuttosto che la ventilazione a lungo termine. Questo verosimilmente anche per la concomitanza di ansia e depressione. Di cosa dovremmo parlare ai nostri pazienti? Dei loro sintomi, di come avere una morte dignitosa e di dove il paziente vorrebbe morire. Uno studio condotto con il Dr. Vitacca (ERS 2010) ci dice che i pazienti muoiono più spesso in ospedale rispetto a casa. 9 Prof. Luca Richeldi Year in review - Idiopatic Pulmunary Fibrosis (IPF): il futuro è cominciato. La fibrosi polmonare idiopatica è l’interstiziopatia epidemiologicamente più importante insieme alla sarcoidosi. Il ruolo dell’età nel determinismo delle patologie respiratorie è un ambito che non è stato ancora sufficientemente indagato. Esistono delle zone cromosomiche chiamate telomeri che sono 4 per ogni coppia di cromosomi. I telomeri sono strutture di DNA che hanno il compito di proteggere il DNA replicativo anche dal tempo. Ci sono vari strumenti per misurare la lunghezza dei telomeri. Diversi studi hanno dimostrato che col passare del tempo in ogni organismo la lunghezza dei telomeri si riduce, esponendo il DNA replicativo ad errori. Quindi l’erosione dei cromosomi può attivare gli oncogeni e favorire le patologie degenerative. Un lavoro pubblicato sul NEJM nel 2005 ha trasferito queste conoscenze di medicina di base nella clinica, studiando l’anemia aplastica. Il gene coinvolto era il gene TERT la cui mutazione, indipendentemente dall’età, portava ad un fenomeno tipico dell’età come quello della anemia aplastica, patologia tipica della senescenza. Questo stesso approccio è stato trasferito nel polmone, studiando la fibrosi polmonare. Un lavoro pubblicato alla fine del 2010 su PlosOne ha dimostrato come la lunghezza dei telomeri e la mutazione del gene TERT siano fattori importanti per la fibrosi polmonare che si è dimostrata una malattia dipendente dall’età e dall’esposizione al fumo di sigaretta. E’ stata quindi per la prima volta dimostrata la connessione tra genetica, ambiente e fibrosi polmonare. Le nuove linee guida sulla gestione della fibrosi polmonare idiopatica sostituiscono quelle del 2000. Queste linee guida hanno utilizzato la metodologia “grade”. Il primo punto trattato è relativo alla diagnosi di IPF. Essendo idiopatica andranno escluse tutte le cause ambientali, autoimmunitarie e tossiche da farmaci. Vi deve poi essere un pattern UIP radiologico ed anatomopatologico. Questa è una novità rispetto al passato quando non vi era un fattore diagnostico radiologico. Un altro punto è la mancata necessità di sottoporre il paziente ad una broncoscopia. L’algoritmo diagnostico prevede, nel sospetto di IPF, di escludere tutte le fibrosi a causa nota. Una volta superato questo punto il paziente va sottoposto a TAC del 10 torace ad alta risoluzione che deve mostrare un pattern UIP. Se invece il pattern non è definitivo per UIP il paziente va sottoposto a biopsia chirurgica. Viene poi stressato che la diagnosi è multidisciplinare. La diagnosi radiologica vede tre livelli di evidenza: UIP definitiva, possibile UIP, non tipico di UIP. Anche per il quadro anatomopatologico sono previsti dei livelli di evidenza: certo, probabile, possibile e non UIP. Va sottolineato che se un paziente con quadro TAC non suggestivo per UIP viene sottoposto a biopsia che testimonia un quadro di UIP la diagnosi di IPF rimane possibile, dal momento che sappiamo che vi sono quadri anatomopatologici di UIP in pazienti non affetti da IPF, come ad esempio in alcuni casi di asbestosi o artrite reumatoide. Rispetto al trattamento, nel 2000 veniva consigliato l’utilizzo del cortisone insieme ad immunosoppressore. Le nuove linee guida sconsigliato l’utilizzo dello steroide da solo in questi pazienti, anche per gli effetti a lungo termine dello steroide stesso che preclude la possibilità di eseguire il trapianto. Vi sono poi trattamenti non farmacologici come l’ossigenoterapia o il trapianto. Subito dopo la stesura il relatore ha eseguito una review sistematica sui trattamenti non steroidei per la IPF. E’ emerso come l’effetto complessivo su capacità vitale o sopravvivenza (progression-free servival) del pirfenidone è risultato significativo. Uno studio pubblicato nel 2010 sull’ERJ dal Prof. Vancheri ha suggerito come nel caso della IPF il quadro è più vicino al tumore piuttosto che ad una malattia cronica degenerativa. E’ quindi logico che anche per la fibrosi polmonare si utilizzi un outcome come la sopravvivenza. Sono in ricerca poi altri farmaci con attività anti-tirosin chinasi, molecole tipicamente utilizzate in ambito oncologico. 11 Dr. Fabiano Di Marco Lo studio UPLIFT e le pubblicazioni relative: una valutazione globale Che i broncodilatatori fossero efficaci su molti outcome nel caso della BPCO è cosa nota. Uno studio spagnolo pubblicato su Thorax nel 2010 ha dimostrato come la prognosi dei pazienti dimessi da un reparto di pneumologia per una riacutizzazione di BPCO è migliorata nel confronto tra la seconda metà degli anni ’90 e la prima metà degli anni 2000. Nei due periodi l’approccio che è significativamente cambiato è un aumentato utilizzo di broncodilatatori a lunga durata d’azione. Lo studio UPLIFT ha voluto valutare l’effetto di tiotropio sul decadimento del FEV1 nel tempo. Rispetto agli outocome primari lo studio, pur mostrando un importante broncodilatazione, ha dato esito negativo. Lo studio UPLIFT invece ha dimostrato una riduzione delle riacutizzazioni che necessitano ospedalizzazione, un miglioramento della qualità della vita. Lo stesso vale per la mortalità, che nello studio UPLIFT è risultata più bassa rispetto a quanto mostrato dallo studio antecedente TORCH. Una metanalisi aveva suggerito come l’utilizzo di anticolinergici potesse aumentare la mortalità; in realtà tutti i dati, compresi quelli emersi dallo studio UPLIFT, hanno dimostrato la sicurezza di tiotropio. Rispetto alla velocità di decadimento del FEV1 nel tempo sono necessarie alcune riflessioni. La prima è che, seppur la velocità di decadimento del FEV1 è risultata uguale nei due gruppi nello studio UPLIFT, i pazienti trattati con tiotropio, partendo da un livello di broncodilatazione più sostenuta raggiungerebbero comunque dopo il livello di disabilità. La seconda è che la curva di Fletcher e Peto sembra dimostrare che la velocità di decadimento nel tempo del FEV1 aumenta. Oggi in realtà sappiamo che non è così, non solo dallo studio UPLIFT ma anche dallo studio TORCH. Se andiamo a vedere la velocità di caduta del FEV1 nei pazienti con patologia più lieve troviamo in realtà che l’utilizzo di tiotropio è efficace. Va però ricordato che questa è un’analisi post-hoc che ha dei rischi dal punto di vista statistico. Se poi facciamo un’altra analisi limitandoci ai pazienti più giovani, troviamo risultati simili, cioè che il trattamento con tiotropio è efficace nel ridurre la velocità di decadimento del FEV1 nel tempo. Quindi ad un paziente giovane che si presenti alla nostra attenzione con 12 una BPCO di media entità noi possiamo dire che mediamente il trattamento con tiotropio è in grado di modificare la storia naturale della malattia. E se un paziente non è in trattamento di fondo? Le sottoanalisi dello studio UPLIFT hanno risposto anche a questa domanda, trovando che i pazienti non in trattamento mostravano, se trattati con tiotropio rispetto a placebo, una riduzione della velocità di decadimento del FEV1 nel tempo. E se il paziente è fumatore? In questo caso non vediamo nessuna differenza di efficacia dei trattamenti nelle varie classi (fumatori attivi, intermittenti ed ex fumatori), come a dire che il trattamento è parimenti efficace anche in pazienti fumatori. E se tratto pazienti con un significativo grado di reversibilità bronchiale? Uno studio cha ha risposto a questo quesito ci dice intanto che il livello di broncodilatazione nel tempo può cambiare e che il livello di broncodilatazione stesso non influenza l’esito del trattamento. E nelle donne? E’ stata fatta una valutazione anche su questo, non trovando nessuna differenza di efficacia di tiotropio in base al tempo. Non bisogna però dimenticare che ad oggi buona parte dei pazienti anche con patologia lieve non sa di avere la BPCO e non è in trattamento di fondo con il miglior farmaco disponibile, che è un broncodilatatore a lunga durata d’azione. 13 Prof. Alberto Pesci Year in review: l’ipertensione polmonare. L’ipertensione polmonare è un argomento di interesse, anche per la possibilità di avere nuovi trattamenti farmacologici. Il congresso mondiale del 2008 ha riordinato la classificazione, rendendo più omogeneo il gruppo 1 in cui troviamo oltre all’’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica anche quella dovuta a farmaci ed associata ad altre malattie come le connettivopatie. La definizione della PAH prevede una pressione media in arteria polmonare superiore a 25 mmHg. In generale la prognosi di questa malattia è pessima, pur potendo variare a seconda di alcuni parametri sia clinici che funzionali. Il trattamento di fondo va diretto alla patologia di fondo; nei pazienti che, nonostante il trattamento di fondo, rimangono in classe NYHA 2, 3 e 4 vanno trattati, in centri specialistici, con farmaci specifici. Va ricordato che tutti i pazienti devono essere sottoposti a cateterismo cardiaco destro. I farmaci modificano il quadro funzionale e clinico, mentre vi sono maggiori dubbi su una reale efficacia nel ridurre la mortalità. Un lavoro pubblicato da Galiè nel 2009 ha mostrato una riduzione della mortalità, prendendo in esame 14 studi, ma questo dato non ha convinto tutti i clinici. Nel 2010 sono stati resi noti i dati del grande registro americano (REVEAL) e di un registro più piccolo francese. I dati americani si rifanno a 2967 pazienti valutati nella reale pratica clinica. I pazienti dovevano essere valutati ogni 90 giorni. Tra le PAH associate ad altre malattie erano più spesso legate a connettivopatie. Buona parte dei pazienti erano in classe NYHA 3 con un 10% di responders ai test di vasodilatazione. I pazienti sono gravati da molte comorbidità come l’ipertensione arteriosa e l’obesità. I pazienti erano quasi tutti in trattamento, quasi sempre con più di un farmaco. Solo un paziente su due era scoagulato. Le donne nel registro erano più numerose. I pazienti con una pressione di incuneamento tra 16 ed i 18 mmHg erano più anziani e con un test del cammino meno brillante (meno metri percorsi). I dati associati ad una prognosi migliore essere in classe NYHA 1, percorrere al 6’WT più di 440 metri, un BNP<50 pg/nl ed una DLCO>80%. L’aumento dell’arruolamento di donne nei registri rispetto al passato è stato giustificato dall’uso di estrogeni, farmaci noti per poter dare una danno a livello dei vasi ed una maggior 14 rischio di obesità. L’incidenza della PAH a livello USA è risultata più bassa rispetto a quella francese, forse per una maggior efficacia del sistema francese nel diagnosticare la malattia. Il registro francese contiene molti meno pazienti. Anche il registro francese ha trovato dei fattori prognostici positivi e negativi, che non si discostano di molto da quelli individuati negli Stati Uniti. Rispetto alla mortalità, il registro francese ha trovato dei dati del 10% più favorevoli rispetto alla casistica degli anni ’80 dell’NIH. Cosa ci aspetta per il futuro? Soprattutto un trattamento più precoce e più aggressivo per portare i pazienti in classe NYHA 1 e 2. Uno studi pubblicato nel 2001 sull’AJRCCM (Blanco I et al. AJRCCM 2010; 181:270-8) ha valutato l’utilizzo del sildenafil in pazienti affetti da BPCO, ritrovando un’efficacia sui parametri emodinamici con la possibilità, però, di peggiorare il livello di ossigenazione per un peggioramento del rapporto ventilazione/perfusione. Un altro studio ha valutato l’efficacia della simvastatina (Wilkins MR et al. AJRCCM 2010; 181:1106-1113); l’end point primario, che era il miglioramento del test del cammino, non è stato raggiunto, ma è emersa una significativa riduzione delle resistenze del circolo polmonare. L’imatinib un inibitore della tirosin kinasi che potrebbe stimolare il recettore dell’ossido nitrico, è stato studiato su pazienti che nella maggior parte dei casi erano affetti da malattia idiopatica. Altri segnali positivi sono emersi da altri farmaci che hanno dimostrato come siano possibili altre strade dal punto di vista terapeutico, oltre ai 3 patways già ben studiati. 15 Prof. P.A. Bertazzi L’inquinamento atmosferico e nell’ambiente lavorativo La consapevolezza dell’importanza della purezza di aria ed acqua è nata con la medicina ma il primo grande episodio che ha portato alla luce l’effetto dell’inquinamento ambientale risale al 1952 a Londra, quando si registrò in un determinato periodo un incremento di 4-5 volte della mortalità in particolare tra gli anziani, soprattutto per le alte concentrazioni del biossido di zolfo emesso da grandi impianti industriali sul Tamigi e per la concomitante nebbia. Gli inquinanti atmosferici attualmente di interesse sono diversi. Tra questi vi è appunto il biossido di zolfo, che ad oggi però non costituisce più un problema, per il suo abbattimento dovuto alle modificazioni dei processi industriali. Gli ossidi nitrosi, soprattutto l’NO2, sono invece ancora sostenuti a livello ambientale, per l’importante traffico veicolare nelle nostre città. Per quanto riguarda il monossido di carbonio non è un grande problema di salute pubblica, visti suoi bassi livelli. Altri due inquinanti importanti sono l’ozono ed il PM10. Il primo non è in riduzione, sia nelle metropoli che a livello ad esempio del lago di Como. L’ozono non è prodotto da un processo industriale ma si forma, soprattutto in estate, come prodotto delle alte temperature e del grande irraggiamento. Altra particolarità è che la riduzione a livello ambientale di NO favorisce il formarsi di ozono. In Lombardia i livelli di ozono sono molto spesso superiore ai livelli di guardia. L’ozono è un importante irritante delle vie aeree. Dagli anni ’70 si è assistito ad una riduzione del particolato sospeso, ma nell’ultimo periodo, la misura anche delle frazioni più piccole ha messo in luce la stabilità in atmosferica del PM10 ed in particolare della sua componente più piccola, il 2.5. In effetti c’è un modesta discesa di questo particolato di piccole dimensioni, ma rimaniamo al di sopra dei livelli di soglia. A livello alpino e prealpino vi è un incremento dei livelli di PM10 e questo per l’incrementato utilizzo dei fenomeni di combustione del legno che risulta conveniente dal punto di vista economico. La pianura padana ha condizioni geofisiche molto sfavorevoli, essendo un bacino contornato da montagne. Il PM10 è un inquinante importante poiché può essere inalato e raggiungere le porzioni più 16 periferiche dell’albero respiratorio fino, per le porzioni più fini, agli alveoli con la possibilità di e valicare la membrana alvoelo-capillare. Il PM10 è costituito da una serie di sali come il nitrato ed il solfato di ammonio, composti organici che derivano dalla combustione di idrocarburi, il carbonio elementare che è una emissione primario sempre della combustione, polvere terrigena ed ossidi di metalli. La fonte del PM10 è costituito soprattutto dalla combustione. L’esposizione al PM10 è anche indoor, particolarmente importante vista la durata di esposizione. A Milano i livelli di PM10 sono alti, ma se andiamo a valutare i livelli pro-capite in realtà la nostra è una delle città con la minore emissione. Delle valutazioni recenti nella zona di Lodi si conferma l’importanza dei valori di inquinamento da PM10 indoor, dove da un lato l’inquinamento entra dall’esterno ma dall’altro vi sono anche delle fonti di produzione interne, soprattutto in presenza di fiamma libera durante la preparazione dei pasti. L’inquinamento ambientale va ad interagire con condizioni patologiche come l’iperreattività bronchiale, l’infiammazione o le patologie cardiache. Ad esempio è noto come l’inalazione di sostanze inquinanti promuova la liberazione di cito- e chemochine che possono incrementare il livello di infiammazione sistemica. Un’altra via è il passaggio diretto delle particelle più piccole a livello del circolo con effetto pro-trombotico. Nell’inquinamento indoor vanno ricordati soprattutto gli agenti biologici, sostanze chimiche ed il fumo. Rispetto al tumore del polmonare va ricordato l’effetto del radon, il cui inquinamento si realizza soprattutto in ambienti chiusi. L’inquinamento indoor poi facilità diverse infezioni delle vie aeree. Ma quanto influisce il PM10 sulla salute della popolazione in Lombardia? I molti studi condotti, che hanno valutato tutte le città lombarde, dimostrano un aumento della mortalità ed ospedalizzazione all’aumentare del livello del PM10. 17 Prof. Francesco Blasi Burden of disease: la polmonite pneumococcica. La polmonite pneumococcica è un evento importante sia dal punto di vista epidemiologico che dal punto di vista della potenziale gravità. In Italia nei pazienti gestiti al di fuori del ricovero ospedaliero l’incidenza è di 1.7 su 1000 abitanti; incidenza è simile a quella dei Paesi mediterranei ed inferiore a quella dei paesi del nord Europa. I tassi di ospedalizzazione sono diversi tra Paese e Paese e questo dipende anche dalle differenze dei modelli organizzativi sanitari. Sappiamo ad esempio che i tassi di mortalità dei Paesi anglosassoni sono più alti rispetto ai nostri ed a quelli spagnoli. I costi sono alti e dipendono soprattutto all’ospedalizzazione, oltre che dalla perdita di giorni di lavoro. Quindi, soprattutto negli Stati Uniti, sono stati messi a punto degli “score” per limitare il numero di ospedalizzazioni. L’eziologia della CAP vede nello Streptococco pneumoniae uno dei protagonisti. Come noto, il 60-70% degli episodi di polmonite non sono etichettabili dal punto di vista eziologico; ma se andiamo a vedere gli studi più approfonditi che hanno cercato di mettere in luce la causa di queste polmoniti, troviamo come nel 60% dei casi l’agente eziologico era proprio lo Streptococcus pneumoniae. Le manifestazioni patologiche da pneumococco vanno dalla colonizzazione a livello faringeo, come nel bambino, fino alla meningite. La trasmissione è attraverso le goccioline respiratorie. La mortalità da pneumococco può variare dal 5% nel caso delle polmoniti fino al 30% in caso di meningite. Uno dei problemi emergenti è la resistenza dello Pneumococco nei confronti delle penicilline e dell’eritromicina. La colonizzazione da Pnemococco avviene durante i primi anni di vita, e si diffonde in comunità, soprattutto a livello infantile, vista l’alta capacità di trasmissione, con trasmissione che giunge facilmente alla popolazione anziana. Vi sono poi ceppi di pneumococchi più cattivi, che sono stati introdotti nei vaccini. Il driver della resistenza è soprattutto l’uso degli antibiotici. L’Italia e l’Ungheria sono ad esempio i Paesi nei quali si utilizzano di più i fluorchinoloni. Va però ricordato che un corretto uso di antibiotici riduce la mortalità in molte occasioni. L’epidemiologia dello Pneumococco sta cambiando sia per la pressione degli antibiotici che per il rapido spostamento dei soggetti a livello planetario. Vi sono 18 quindi alcuni ceppi sempre più frequenti ed altri ceppi che stanno scomparendo. Quelli che emergono sono evidentemente i ceppi resistenti. Il vaccino ha un ruolo? Il 23 valente, quello disponibile per l’adulto, ha un effetto relativo, dal momento che i dati non sono particolarmente forti in questo ambito. Non c’è ad esempio un effetto molto significativo sulle riacutizzazioni della BPCO. Con il vaccino coniugato fatto nei bambini l’effetto è invece più importante, con una caduta delle infezioni invasive da pneumococco. L’effetto di questa vaccinazione sui bambini ha una ricaduta protettiva anche sugli adulti e sugli anziani. Dai 20 ai 39 anni, cioè tra i giovani genitori, si ha una riduzione del 40% delle infezioni. L’introduzione del vaccino ha ridotto il ricircolo di alcuni ceppi ma ha incrementato l’incidenza di altri ceppi che però sono meno invasivi. Questo però non è vero per un ceppo che è resistente ed ha una importante invasività. La vaccinazione non è l’unico presidio da attuare; dobbiamo anche utilizzare meglio gli antibiotici. Certamente va ridotto l’utilizzo di antibiotici in corso di bronchite acuta. A breve avremo i risultati di un grande studio che ha valutato un vaccino 13-valente coniugato per l’adulto, che è diverso dal 23 valente non coniugato. 19 Prof. G.B. Migliori TB MDR, l’epidemiologia aggiornata L’OMS divide i farmaci per la TBC in cinque classi; la TBC si definisce MDR quando il BK è resistente ai due principali farmaci che sono l’isoniazide e la rifampicina, metre l’XDR mostra resistenza anche ad un chinolonico e ad un farmaco iniettabile. Nella maggior parte dei Paesi in cui vi sono laboratori idonei sono stati isolati casi XDR. La maggior parte dei Paesi mostra dati di incidenza molto bassi ma vi sono zone del pianeta, come India, Cina ed alcuni Paesi ex sovietici, dove l’incidenza è più alta. Nei pazienti già trattati la percentuale di resistenza arriva fino al 50%. Vi sono 3 gruppi di fattori per lo svilupparsi di MDR: fattori legati ai provider di health care, fattori legati ai farmaci e fattori legati alla compliance alla terapia. Nei pazienti si arriva dopo un po’ a capire che siamo di fronte ad una forma MDR ed il trattamento con i farmaci di prima classe certamente peggiora il problema della resistenza. Una recente survey pubblicata sull’ERJ ha dimostrato come solo il 40% dei pazienti viene trattato in modo adeguato dal punto di vista “educazionale”. Uno dei problemi importanti è il corretto utilizzo dei respiratori, che spesso sono mal posizionati sul viso e quindi, al pari della maschera chirurgica da sola, non proteggono sufficientemente. L’OMS ha recentemente pubblicato una policy che ci ricorda i punti più importanti. Gli errori rispetto al trattamento possono essere diversi: trattamento sbagliato, dosaggio inadeguato, durata inadeguata. La diagnosi necessità di un buon laboratorio, cosa spesso non vera per i Paesi ad alta incidenza delle MDR. Dal punto di vista diagnostico sono stati fatti grandi passi avanti, con la possibilità di arrivare alla diagnosi rapidamente e permettendo in questo modo al paziente di essere trattato in modo adeguato. La vera novità oggi è il Gene Xpert, un test che in meno di 2 ore ci dice se siamo di fronte alla TBC e se è TBC resistente alla rifampicina, con elevata sensibilità e specificità. La cultura liquida per TBC impiega circa 17 giorni contro i 35 della cultura solida. L’OMS prevede di sviluppare la tecnologia Gene Xpert a tutti i pazienti precedentemente trattati. 20 Rispetto ai pazienti trattati con MDR va ricordato che circa l’86% dei casi manifesta effetti collaterali legati alla terapia. Ben il 20% dei casi rimane contagioso nonostante il trattamento. Una recente survey ha dimostrato come il numero di farmaci ai quali i pazienti XDR sono resistente si aggira intorno ad 8-9, contro i 4-5 degli MDR. La grande coorte europea ha dimostrato che il successo terapeutico cambia tra gli XDR ed MDR; in quest’ultimo caso infatti si può arrivare intorno all’80%. Le recenti linee guida OMS suggeriscono di utilizzare in modo graduale le cinque classi di farmaci, di dare almeno 4 farmaci insieme, di personalizzare la terapia, di farla durare almeno 18 mesi. E’ in corso una metanalisi relativa a tutti casi MDR pubblicati fino ad oggi. La terapia ideale deve durare tra i 19 ed i 24 mesi, il numero di farmaci da utilizzare è 5, 4 nella fase di mantenimento, gli odds ratio più favorevoli li hanno la levofloxacina e soprattutto la moxifloxacina. Uno studio condotto in Bangladesh pubblicato recentemente sull’AJRCCM ci dice come un trattamento con farmaci di prima e seconda linea per 9 mesi, 4 mesi intensiva e 5 mesi continuazione, può portare un successo nell’88% dei casi con una bassa proporzione di effetti collaterali. Vi sono dubbi che questo stesso regime possa funzionare altrettanto bene in altri ambiti. Come prevenire la TBC farmaco resistente? Avere un buon piano di controllo, avere centri clinici attrezzati, aver un buon laboratorio, farmaci di qualità, una sorveglianza adeguata e sufficienti risorse nazionali ed internazionali. 21 Dr. Paolo Tarsia Nuove opportunità per la gestione delle infezioni respiratorie riacutizzate Per BPCO riacutizzata si intende un peggioramento dei sintomi che richiede una variazioni del trattamento; questa definizione è evidentemente molto soggettiva. Due studi recenti dimostrano come il numero di riacutizzazioni aumenta col peggiorare dell’ostruzione bronchiale, andando da una riacutizzazione all’anno in pazienti con BPCO moderata, 1.5 per la BPCO grave, e 2 riacutizzazioni all’anno per i pazienti più grave. Il fatto di riacutizzare influenza significativamente la malattia, andando ad agire sulla mortalità e sulla velocità di declino della funzione respiratoria. Le cause delle riacutizzazioni sono di tipo infettivo ed atmosferico. Il primo gruppo comprende circa l’80% delle riacutizzazioni, con i batteri responsabili del 50% dei casi da soli od in associazione con i virus. Tra i batteri l’Haemophilus inflenzae è il più importante, seguito dallo pneumococco e dalla moraxella. La distribuzione dei germi è quindi diversa da quella delle polmoniti. Sappiamo che il tipo di microrganismo responsabile cambia con il peggiorare dell’ostruzione bronchiale. Nei più gravi infatti troviamo più spesso enterobatteri. Molti studi hanno valutato l’efficacia del trattamento antibiotico nei pazienti riacutizzati. Quello che emerge è un beneficio clinico lieve; uno studio (Roede BM et al, Eur Respir J 2009;23:282-88) ha dimostrato che l’aggiunta dell’antibiotico allo steroide riduce la mortalità ed offre un fattore protettivo verso nuove riacutizzazioni sicuramente fino a 3 mesi. Un altro studio (Rothberg MB, et al. JAMA 2010;303:2035-42) retrospettivo ha valutato il tasso di fallimento ed ha trovato come l’utilizzo di antibiotici riduce l’insuccesso. Tutto questo a rischio di qualche effetto collaterale. Visto che solo il 50% dei pazienti con riacutizzazione riconosce una causa batterica, come riconoscere i pazienti che verosimilmente beneficeranno maggiormente della terapia antibiotica? I criteri di Anthonisen ci vengono in aiuto, soprattutto con espettorato purulento, oppure avere una riacutizzazione grave. Altri fattori sono l’età e la presenza di comorbidità. Sarebbe poi utile avere un biomarcatore. La procalcitonina sembra dare risultati promettenti, con un utilizzo del 30% in meno con risultatati clinici sovrapponibili. Il risparmio di antibiotici può migliorare la comparsa di resistenze. Lo studio 22 GRACE, svolto a livello europeo, ha evidenziato le abitudini dei medici di medicina generale in 14 paesi rispetto a pazienti con sospetta infezione delle vie aeree. E’ emersa una guarigione in 4-5 giorni indipendentemente dall’attitudine maggiore o minore di prescrivere antibiotici. E’ poi emerso come, mentre nei pazienti più anziani, con comorbidità e sintomi più gravi, tutti prescrivono antibiotici, nei pazienti più giovani e sintomi meno importanti la prescrizione è molto disomogenea, con alti tassi di prescrizione a Milano rispetto al nord Europa o alla Spagna. Rispetto alle molecole prescritte sempre a Milano vi è un grande utilizzo di chinolonici respiratori. Tutto questo è grave poiché non sono attesi molti nuovi antibiotici nei prossimi anni. Quindi, l’utilizzo di antibiotici va ottimizzato. Stanno ad esempio nascendo ceppi resistenti ai chinolonici. Molte moraxelle producono beta-lattamasi, lo stesso avviene per lo pneumococco resistente anche al di fuori dell’ospedale. Gli enterobatteri sono spesso produttori di betalattamasi che li rendono resistenti a tutte le penicilline ad eccezione dei carbapenemici. I macrolidi ad esempio sono intrinsecamente poco attivi nei confronti delle moraxelle e degli Haemophilus per meccanismi di espulsione dalla cellula, anche se questo è vero soprattutto per l’etritromicina e meno per la più nuova azitromicina. Questo significa non poter più utilizzare i macrolidi? Va ricordato come i macrolidi, a differenza dalle penicilline, hanno la capacità di concentrarsi a livello dei tessuti con concentrazioni 10-100 volte superiori a quelle del plasma. Questo rende ragione del fatto che anche batteri resistenti possano essere clinicamente efficaci, soprattutto in pazienti non trattati di recente con altri antibiotici o importanti comorbidità. Rispetto ai beta-lattamici ci sono 3 meccanismi di resistenza: la modifica della molecola target, la produzione di beta-lattamasi e la chiusura dei pori di ingresso alla cellula. Questo non significa non poter più utilizzare questa categoria di farmaci, utilizzando ad esempio dosi più importanti o una somministrazione più frequente. Le cefalosporine orali non hanno mai avuto una grande reputazione dal punto di vista dell’efficacia clinica. Dal punto di vista dell’attività nei confronti dell’Haemophilus quasi tutte le cefalosporine hanno un tempo sopra MIC superiore al 50%. Rispetto allo pneumococco il cefditoren ad esempio ha una buona attività. L’Italia è il Paese d’Europa nel quale si utilizza il maggior numero di fluorchinoloni. Andrebbero quindi utilizzati in modo più razionale. Come gestire quindi le riacutizzazioni? Per le riacutizzazioni lievi in 23 un paziente con patologia di moderata entità l’antibiotico possiamo anche non utilizzarlo, mentre il suo uso è decisamente consigliato in pazienti con riacutizzazioni moderate e gravi. I patogeni variano in base alla comorbidità associate alla selezione di enterobatteriacee e dello Staphilococco. Dobbiamo poi sempre valutare la presenza di fattori di rischio per lo Pseudomonas. Riassumendo possiamo dire che nelle riacutizzazioni lievi e moderate i farmaci di scelta sono i beta-lattamici, sia le penicilline che le cefalosporine. Un’alternativa può essere costituita dai macrolidi e nelle riacutizzazioni moderate i chinolonici, la levofloxacina e la moxifloxacina ma non la ciprofloxacina. Nel caso in cui ci sia il rischio di Pseudomonas invece la ciprofoloxacina può essere indicata. Nei casi più gravi si possono associare due farmaci attivi sullo Pseudomonas, o un beta-lattamico più un chinolonico o, in seconda battuta un aminoglicosidico più un fluorchinolonico. Sappiamo che però l’aminoglicosidico raggiunge minori concentrazioni a livello polmonare. 24 Prof. Mario Cazzola L’impatto delle malattie cardiovascolari nell’asma e sue problematiche terapeutiche Da un database della SIMG emerge come la prevalenza dell’asma sia del 6.1%. Sempre dallo stesso database sono state valutate le comorbidità e si evince che se è vero che la prevalenza delle malattie cardiovascolari aumenta con l’età, questo fenomeno nell’asma è accentuato. Sembra quindi che la comorbidità asma-malattie cardiovascolari o sia presente fin dall’inizio oppure prescinda dall’età dei pazienti. Il trattamento attuale dell’asma Italia si fonda sull’associazione tra i beta-2 agonisti e gli steroidi inalatori, con una stabile alta prescrizione di beta-2 stimolanti, verosimilmente utilizzati al bisogno. Questo è un problema per pazienti cardiopatici, per la ricca presenza di beta-recettori a livello cardiaco. I beta-2 stimolanti attualmente a disposizione sono molto diversi tra loro. La stimolazione dei recettori beta-1 può portare all’aritmia. Anche basse dosi di salbutamolo possono portare ad un’aumentata attività simpaticomimetica a livello cardiaco. Se aumentiamo il dosaggio abbiamo una diminuzione della lunghezza del ciclo del seno ed un abbreviamento del tempo di recupero del seno. Vi sono poi effetti favorevoli come l’incremento dell’output cardiaco ed una riduzione delle resistenze periferiche. Non è una sorpresa che una metanallisi abbia documentato come tutti gli studi sui beta-2 abbiamo mostrino un impatto dei beta-2 sulla frequenza cardiaca e sulla potassiemia. Uno studio in realtà ci dice che i pazienti a rischio di sviluppare infarto del miocardio erano “nuovi utilizzatori” di beta-2 negli ultimi 3 mesi, pazienti verosimilmente che avevano una dispnea cardiaca e che erano stati erroneamente trattati come malati respiratori. Questo è stato confermato da altri studi, mentre è stato confermato che pazienti con QT lungo in trattamento con beta-2 stimolanti sono a rischio di un aumento degli eventi cardiaci. Una proprietà importante dei beta-2 è l’efficacia intrinseca che regola la produzione del secondo messaggero a livello cellulare. Questo giustifica i maggiori effetti cardiaci ad esempio del formoterolo, a differenza ad esempio del salbutamolo. Se il paziente però è ipossiemico il rischio soprattutto del 25 formoterolo è aumentato. Una sintesi ci viene però dalla review relativa alla sicurezza di formoterolo pubblicata sull’ERJ (Sears et al, Eur Respir J 2009;33:21-32) che conferma come le morti cardiache legate all’uso del farmaco siano molto rare. Quindi i beta-2 a dosi raccomandate sono farmaci sicuri se il paziente non ha una chiara patologia cardiaca sottostante. Un altro punto è l’utilizzo dei beta-bloccanti. Questi farmaci possono disturbare l’attività respiratoria, anche se non tutti i beta-bloccanti sono uguali, essendo più o meno selettivi. Questo spiega perché l’impatto sulla funzione respiratoria sia molto diverso. La metanalisi pubblicata dalla Salpeter (Salpeter et al. Ann Intern Med 2002;137:715-725) conferma la sicurezza di questi farmaci. I beta-bloccanti riducono l’attività simpaticomimentica. Nei pazienti con scompenso congestizio a livello cardiaco si assiste ad un aumento dei recettori beta-2, la cui stimolazione può però portare ad una instabilità delle frequenza cardiaca. I farmaci più selettivi sono il bisoprololo, il carvediolo ed il metoprololo. Concludendo i pazienti asmatici non dovrebbero utilizzare beta-bloccanti, tranne nel caso di patologia cardiaca che lo richieda. In questo caso vanno usate basse dosi, utilizzano farmaci con bassa attività simpaticomimentica intrinseca e selettività per i recettori beta-1. E’ stato, poi, dimostrato come la stimolazione dei beta2-recettori, a differenza di quella dei beta1, riduce i fenomeni di apoptosi a livello delle cellule cardiache. Va poi introdotto il concetto di agonista inverso, che si riferisce a ligandi capaci di spegnere l’attività di recettori attivati spontaneamente e di ridurre, in questo modo, il livello basale di attività, mentre i bloccanti classici non interferiscono su questo livello di fondo di attività spontanea. Esiste un sottogruppo di beta-bloccanti con queste proprietà. Quindi tutti gli agonisti inversi sono beta-bloccanti ma non tutti i betabloccanti sono agonisti inversi. Il nadrololo è l’agonista inverso più potente che abbiamo attualmente a disposizione; la sua somministrazione in acuto aumenta l’iperreattività bronchiale, mentre la riduce in cronico. Questo è stato dimostrato anche da Hanania valutando la metacolina. Questa attività viene invertita dal salbutamolo, dimostrando in questo modo che i recettori non erano bloccati. 26