02 a s s o c i a z i o n e d e l r i s p a r m i o g e s t i t o QUADERNI DI DOCUMENTAZIONE E RICERCA Collana Economica Rischio e rendimento nella gestione del risparmio: misura, controllo, attribuzione Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 627 del 10 dicembre 1988 Direttore responsabile: Guido Cammarano a s s o c i a z i o n e d e l r i s p a r m i o g e s t i t o Rischio e rendimento nella gestione del risparmio: misura, controllo, attribuzione S O M M A R I O Andrea Resti Università di Bergamo Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta, Raffaele Zenti Ras Asset Management Sgr Massimo di Tria, Michele Gaffo RAS SpA Massimiliano Burgio, Michele De Sario, Maria Luisa Gota Eptafund Il risk management nell’asset management: una breve introduzione 11 Un modello di stima del rischio e la definizione della risk policy di una Sgr 27 Una nuova misura di rischio relativo: Adaptive ReVaR (A_ReVaR) 45 L'attività di risk management e le peculiarità dei diversi prodotti gestiti: uno o più modelli di misurazione e analisi del rischio? 67 Francesco Betti, Valentina Dall'Aglio Aletti Gestielle Sgr Rischio e performance attribution nel processo di investimento di una Sgr 103 Domenico Mignacca, Valeria Aiudi, Michele Ruvolato Sanpaolo IMI Asset Management Sgr Processo d’investimento e risk management 125 Rischi di credito e rischi operativi in una asset management company 147 Carlo Appetiti, Patrizia Bilardo, Massimiliano Forte Nextra Asset Management Sgr Carlo Appetiti Nextra Asset Management Sgr Il Risk management in una asset management company: la diffusione della cultura e la nuova informativa direzionale 165 Q U A D E R N I N O T E S U G L I A U T O R I Andrea Resti è consigliere economico di Assogestioni e professore associato di Matematica Finanziaria Avanzata presso l’Università di Bergamo. È consulente di numerose istituzioni finanziarie nel settore del controllo dei rischi e della pianificazione strategica. Ha coordinato il gruppo di lavoro sui rischi finanziari del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e pubblicato articoli su molte riviste scientifiche in Italia ed all’estero. Tra i suoi libri, “Misurare e gestire il rischio di credito nelle banche” (Alpha Test) e “Decidere in banca con la matematica e la statistica” (Bancaria). Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta e Raffaele Zenti operano in Ras Asset Management, la Sgr del Gruppo RAS, dove hanno sviluppato un sistema di analisi del rischio proprietario basato sul Filtered Bootstrap ed hanno contribuito a definire le risk policy per i portafogli in gestione. Dario Brandolini è responsabile dell'unità di risk management & Strategy, Raffaele Zenti è responsabile dell'unità di risk management e Massimiliano Pallotta è Senior Risk Manager. Attualmente sono al lavoro sullo sviluppo di estensioni del loro modello interno e delle risk policy impiegate. Gli autori hanno varie pubblicazioni al loro attivo. Massimo di Tria opera nel team di Financial Risk Management & Strategic Asset Allocation di RAS SpA. Precedentemente ha lavorato nel Qualitative Asset Allocation team di Fineco Investiment Sgr SpA ed è stato collaboratore del Centro di economia monetaria e finanziaria Paolo Baffi presso l’Università Bocconi di Milano. Ha pubblicato, tra l’altro, nel Rapporto BNL/Centro Einaudi sul risparmio e sui risparmiatori in Italia, 2002 e su Economic Notes. Michele Gaffo è responsabile del team di Financial Risk Management & Strategic Asset Allocation di RAS spa. Precedentemente ha ricoperto lo stesso ruolo in Fineco Investimenti Sgr ed è stato analista quantitativo presso il risk management & Research di Banca Intesa. Le principali collaborazioni sono state con l’Università degli studi di Padova, Il Sole 24 Ore e RiskWaters. Massimiliano Burgio è analista di risk management e Michele De Sario è vice responsabile risk management per Eptafund. Entrambi hanno al loro attivo un master program in Economics and Finance presso l’International Center for Economics and Finance della Venice International University. Maria Luisa Gota, dottore di ricerca in Matematica per l’Economia presso l’Università di Trieste, è responsabile risk management per Eptafund ed è stata ricercatore di ruolo presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni in volumi e riviste, in Italia ed all’estero. Francesco Betti è responsabile del risk management di Aletti Gestielle Sgr Spa, Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara. È autore di numerose pubblicazioni su tematiche finanziarie e di risk management, e del volume “Value at Risk. La gestione dei rischi e la creazione di valore” (Il Sole 24 Ore libri). Valentina Dall’Aglio si occupa di Performance e Risk Attribution in Aletti Gestielle Sgr Spa, 7 Q U A D E R N I dove è inoltre responsabile dell’adesione agli standard internazionali GIPS. È stata relatrice in convegni su tematiche di analisi e attribuzione delle performance. Domenico Mignacca è dottore di ricerca in Economia Quantitativa e M. Sc. in Economia e econometria presso l’Università di Southhampton. Ha lavorato per Deutsche Bank SpA a Milano e come responsabile dell’Analisi Quantitativa per BNL Gestioni Sgr. Oggi è Responsabile risk management & Analisi delle Performance presso SanpaoloImi Asset Management Sgr. Michele Ruvolato, laureato in Economia e commercio e master in Financial Economics, si interessa di analisi delle serie storiche e di bond pricing. Dopo esperienze presso FMR Consulting e BNL Gestioni, dal 2001 si occupa di risk management in SanpaoloImi AM. Valeria Aiudi è laureata in Matematica e ha lavorato come analista quantitativo presso BNL Gestioni; dal giugno 2001 si occupa di gestione dei rischi in SanpaoloImi AM. Carlo Appetiti è responsabile dell’Area risk management di Nextra Investment Management Sgr. In precedenza è stato risk manager di Intesa Asset Management Sgr, ed ha lavorato presso la Direzione Finanza del Banco Ambrosiano Veneto, Citibank e KPMG. Coautore de “La gestione della tesoreria nelle imprese internazionali” (Bancaria 1992. Ha pubblicato articoli su “Bancaria” e partecipato in qualità di relatore a diversi convegni sul Risk management nel settore finanziario. È dottore commercialista e iscritto all’Albo dei Revisori Ufficiali dei Conti. Patrizia Bilardo è responsabile del Settore Credito, Controparti, Emittenti e Contrattualistica Finanziaria (Credit Manager)coordinato allìinterno dell’Area Risk Management di Nextra Investment Management Sgr SpA. Proviene da un’esperienza come Credit Officer nel gruppo Chase Manhattan. Massimiliano Forte è responsabile del Settore Compliance ed Operational Risks coordinato all’interno dell’Area risk management di Nextra Investment Management Sgr SpA. È stato responsabile della Funzione di Controllo Interno e dell’Organizzazione di Symphonia Sgr. Ha lavorato in Consob presso la Divisione Intermediari. 8 Q U A D E R N I 9 Andrea Resti Professore associato Università di Bergamo Il risk management nell’asset management: una breve introduzione Q U A D E R N I 12 Q U A D E R N I Quando Assogestioni mi propose di curare un volume dedicato al risk management nell’asset management, fui ben felice di aderire all’invito, che mi consentiva di lavorare su una tematica della cui attualità e rilevanza ero, e sono, profondamente persuaso. Controllo dei rischi finanziari e risparmio gestito rappresentano infatti, singolarmente presi, due dei filoni in cui più brillante e prolifica è stata la produzione tecnico-scientifica degli ultimi vent’anni: partecipare alla stesura di un libro destinato a collocarsi all’intersezione di queste due grandi research avenues rappresentava quindi un’occasione di studio apprezzabile e stimolante. L’invito venne dunque prontamente accolto, a maggior ragione perché mi dava modo di lavorare, per qualche mese, con un gruppo di practicioners di grande livello, condividendo con loro preziose occasioni di dialogo e di confronto. Col passare del tempo e l’incedere del lavoro, mi sono ritrovato tuttavia prigioniero di una sensazione via via più precisa: come di essere gradualmente stretto in una sorta di morsa tra l’estrema urgenza ed attualità del tema (che, tra l’altro, consigliava di ridurre al minimo i tempi di lavorazione del volume) e la relativa fragilità degli approcci metodologici oggi disponibili (che avrebbe suggerito ulteriori approfondimenti, valutazioni sperimentali, affinamenti). In altri termini: l’impressione di trovarmi a lavorare su un tema ad un tempo troppo vecchio (perché l’esigenza latente di maggiori controlli sul rischio - ancorché esplosa nel 2000 a seguito della crisi dei mercati - rappresenta da sempre un tratto costitutivo dell’attività di asset management) e troppo nuovo (perché solo nei prossimi anni i modelli di risk control per i gestori guadagneranno in robustezza e diffusione). Insomma: che era meglio aspettare, ma era già tardi per procedere... Credo che questa sensazione paradossale sia, in qualche misura, condivisa dalle società di gestione del risparmio italiane; in particolare, da quelle che, negli scorsi anni, si sono dotate di una struttura di risk management via via più definita, assegnandole compiti, prerogative e obiettivi. Proprio da tale sensazione, in effetti, trae origine il taglio molto agile, rivolto al contesto applicativo, ricco di tabelle e report esemplificativi, di questa monografia. La cui unica (e per la verità non piccola) ambizione è quella di dare al lettore qualche semplice strumento per fare oggi ciò che sarebbe meglio (se solo fosse possibile...) rimandare a domani. In questa introduzione, vengono ripercorse brevemente le motivazioni del volume. Per prima cosa si cerca di chiarire perché il risk management è divenuto così importante all’interno delle Sgr (non solo italiane), conoscendo una diffusione capillare e apparentemente inarrestabile; poi verranno messe in risalto le peculiarità del controllo dei rischi in una asset management company (contrapposte alle caratteristiche del risk management nel contesto bancario, dove esso si è originariamente sviluppato); successivamente, si accen- Introduzione 13 Q U A D E R N I nerà agli effetti che una corretta attività di misura e gestione dei rischi può esercitare sul processo di investimento e sull’attività commerciale di una Sgr; infine, verrà presentata la struttura del volume, cercando di guidare il lettore verso i singoli saggi che lo compongono. 1. Il risk management nell’asset management: perché è importante? L’industria della gestione del risparmio opera, per definizione, nell’ambito di mandati conferiti da investitori terzi. L’asset manager si trova cioè “a distanza di braccio” dalle possibili minusvalenze che possono insorgere per effetto della sfavorevole evoluzione delle variabili di mercato, “protetto” dalla regola contrattuale (tipica dell’attività gestoria) che limita la sua responsabilità patrimoniale al valore di mercato degli attivi. Si tratta di una situazione oggettivamente molto diversa da quella del banchiere, ed in particolare dell’investment banker, che opera con risorse proprie (conferite dagli azionisti o raccolte sul mercato del capitale di debito) nell’intento di conseguire utili correnti o in conto capitale attraverso una superiore capacità di selezione del portafoglio. Conseguentemente, si potrebbe pensare che il controllo dei rischi relativi a possibili perdite sui patrimoni gestiti non rientri tra le priorità strategiche di un gestore, proprio perché tali perdite non sono di sua diretta pertinenza, ma gravano sul cliente finale. In effetti, è innegabile che l’industria dell’asset management si sia accostata con un certo ritardo agli strumenti di misura prospettica 1 dei rischi impliciti in una data composizione di portafoglio, strumenti che hanno visto la propria genesi proprio presso le grandi 2 banche d’investimento . Tuttavia, da alcuni anni ormai è in atto una diffusa presa di coscienza circa l’utilità di un’adeguata attività di risk management all’interno di una società di gestione del risparmio. Con riferimento al nostro Paese, l’analisi Assogestioni-Intertek relativa al 2001 conferma (cfr. tavola 1) come le Sgr abbiano adottato strumenti di analisi del rischio di mercato in misura consistente, anche se solo in tempi recenti, mentre l’adozione di metodologie per la stima dell’e- Tavola 1 Tav 1: Diffusione del risk management presso un campione di Sgr italiane Presente Previsto Previsto Non previsto entro il 2002 dopo il 2002 Funzione di risk manager o equivalente 78% 7% - 15% Analisi del rischio di mercato 61% 23% 8% 8% Analisi del rischio di credito 23% 50% 15% 12% Analisi del rischio operativo 19% 39% 19% 23% Fonte: The Intertek Group (2002) 1 Storicamente, i gestori erano soliti fare riferimento a misure di rischiosità storica della gestione. Si pensi alla deviazione standard o al beta dei rendimenti del fondo (utilizzati ad esempio nella costruzione degli indici di Sharpe e di Treynor) o a misure di rischiosità relativa (riferite, cioè, agli scostamenti dal benchmark) come la tracking error volatility usata nella formula dell’information ratio (cfr. Assogestioni, 2002, cap. 12). 2 14 Per tutti, cfr. J. P. Morgan e Reuters (1996), che riprende un lavoro del 1994. Q U A D E R N I sposizione ai rischi di credito e operativi rappresenta, in molti casi, un obiettivo per l’immediato futuro. In altri termini, si assiste una progressiva diffusione anche nel buy side delle tecniche di misura e controllo dei rischi finanziari originariamente sviluppate dal sell side. Le ragioni di tale diffusione sono molteplici, ma possono essere schematizzate come segue: 1. In primo luogo, per quanto la considerazione sia banale, giova ricordare che un’erosione del controvalore dei patrimoni amministrati, se pure non conduce nell’immediato a perdite finanziarie, rappresenta una minaccia esiziale per l’industria del risparmio gestito. Il “fatturato” del settore dipende infatti, in buona misura, da commissioni proporzionali agli asset under management; di conseguenza, la riduzione delle masse gestite comporta un calo dei profitti che, data la rigidità di talune voci di costo, può addirittura risultare più che proporzionale. Qualora tale minor profittabilità venisse ritenuta di natura permanente, lo stesso valore economico delle società di gestione del risparmio dovrebbe essere rettificato verso il basso. Esiste quindi un legame preciso, ancorché indiretto tra perdite sul patrimonio 3 dei clienti e valore del patrimonio di un asset manager . 2. Non è un caso, dunque, che il risk management abbia visto crescere la propria importanza presso le società di gestione del risparmio proprio nell’ultimo biennio, cioè in presenza di un trend negativo dei mercati. Come ricorda Rhode (2000), in un simile contesto le Sgr sono “condannate” a prendere più rischi attivi rispetto al benchmark, proprio quando l’entità delle perdite subite rende la clientela più attenta alle tematiche del rischio (e diventa fondamentale poter fornire ai gestori ed alla rete di vendita strumenti di misura e rendicontazione del rischio stesso). 3. La rapida diffusione delle attività di controllo dei rischi presso le Sgr è dunque giustificata anche dalla necessità di mantenere sotto controllo la rischiosità relativa rispetto al benchmark, che rappresenta un’importante leva competitiva, dunque un obiettivo strategico dell’attività di gestione. In effetti, dato il trend delle quotazioni di borsa (ed a maggior ragione se tale trend è negativo), la difesa delle quote di mercato passa attraverso il mantenimento di un adeguato differenziale di rendimento rispetto ad una strategia passiva “pura”; tale differenziale (sovente in4 dicato come “alfa” nella letteratura sul risparmio gestito ) consente di giustificare i costi del servizio e di accrescere la reputazione ed il brand della società di gestione. È dunque necessario disporre di tutti gli strumenti necessari per quantificare, controllare, gestire il rischio legato al conseguimento di un alfa negativo, senza per questo ripiegare su una strategia d’investimento perfettamente allineata rispetto al parametro oggettivo di riferimento. 3 Un simile legame pare essere ben noto agli investitori che operano nel mercato azionario, dove le quotazioni delle società di asset management tendono a recepire in modo pronto e pronunciato le variazioni dell’indice generale. 4 Cfr. ad. es. Lee (2000). 15 Q U A D E R N I 4. Alle fortune del risk management nelle società di gestione italiane ha certamente concorso anche un mutamento qualitativo della clientela. Non soltanto si è diffusa una maggiore consapevolezza del rischio presso gli investitori retail, ma va guadagnando spessore il mercato istituzionale che, nel nostro Paese comprende soprattutto fondi pensione negoziali, fondazioni, assicuratori e gestori terzi (per esempio gestori di “fondi di fondi”; cfr. tavola 2). Al mercato dei clienti istituzionali si associa, da un lato, una maggiore preparazione tecnica, che li porta a conferire notevole importanza alla capacità della Sgr di misurare, monitorare, rappresentare in modo trasparente e tempestivo il livello di rischio implicito in un determinato asset 5 mix ; dall’altro, una maggiore reattività che li conduce a sanzionare in modo puntuale (e talvolta pesante) eventuali errori del gestore, sottraendogli il mandato ed even6 tualmente facendo ricorso alle vie legali . È evidente quindi che tale categoria di clienti rappresenta una sorta di “pungolo”, tale da incentivare molte Sgr a dotarsi di moderni sistemi di controllo dei rischi. Tavola 2 Tav 2 Alcuni dati sul denaro istituzionale in Italia in milioni di euro Fondi pensione* 2.757,3 Fondazioni di origine bancaria** 34645,8 Fondi di fondi*** 6449.5 * Dato al 30.6.2002. Fonte: Mefop ** Dato al 31.12.2000 (totale attività finanziarie, incluse le partecipazioni). Fonte: Acri. *** Dato al 31.10.2002. Fondi gestiti da intermediari italiani (inclusi monomarca). Fonte: Assogestioni Abbiamo così richiamato i principali fattori in grado di spiegare la progressiva espansione - dal sell side al buy side - delle metodologie di risk management. Va detto, tuttavia, che tale espansione ha comportato (ma il processo è ancora in corso) una sorta di mutamento genetico in tecniche nate per rispondere alle necessità dell’azienda bancaria, e non sempre adatte alle finalità dei gestori. Vediamo ora lungo quali direttrici vada articolandosi questo mutamento. 5 Il segmento istituzionale, da sempre abituato a ragionare in termini di rendimento pesato per il rischio, ultimamente ha sviluppato una crescente attenzione per la “qualità” dei rischi assunti dal gestore, mostrando ad esempio di essere disposto a pagare un premio in cambio di rendimenti “ortogonali”, cioè incorrelati con i principali fattori di mercato (Neuhaus, 2001) 6 A titolo d’esempio, si pensi alla causa intentata dal gruppo Unilever a Merrill Lynch (in quanto controllante di Mercury Asset Management) per la persistente underperformance degli attivi affidati a quest’ultima dal fondo pensioni della multinazionale chimica. L’accusa rivolta a Mercury, che ha portato alla richiesta di un risarcimento di 130 milioni di sterline, era quella di non aver posto in essere adeguati controlli interni, in grado di evitare scommesse eccessive ed ingiustificate da parte dei gestori (cfr. The Economist, 2000). 16 Q U A D E R N I Come annotano Stubbs e Gupta (2002), l’adozione di metodologie di controllo del rischio da parte delle asset management companies non poteva ricalcare fino in fondo le logiche teoriche ed operative che hanno guidato la diffusione di tali algoritmi presso il settore bancario. Ciò accade perché il comparto della gestione del risparmio ha “regole del gioco” proprie (cfr. tavola 3), in buona parte di7 stinte da quelle prevalenti nell’intermediazione creditizia . Tra queste, merita ricordare: 1. Il diverso orizzonte temporale. Mentre il banchiere d’investimento è ancorato a orizzonti di breve termine (legati alla possibilità di “chiudere” le posizioni esplicitando i profitti o limitando eventuali perdite), il gestore ragiona su periodi più ampi, perché il suo cliente tende a giudicarlo su intervalli di tempo maggiormente estesi (un trimestre, un esercizio, o addirittura più anni). Si rende dunque necessario estendere nel tempo misure (come il VaR, o Value at Risk) nate per quantificare le perdite potenziali su brevi orizzonti temporali. Da un lato, diventa dunque cruciale verificare che la realtà empirica giustifichi le ipotesi di markovianità dei rendimenti che vengono solitamente 8 utilizzate per estendere nel tempo le misure di VaR ; dall’altro è necessario rimuovere l’ipotesi di media zero che, per periodi di tempo limitati, consente di esprimere il VaR come multiplo della deviazione standard (cfr. Rees, 2001). Alternativamente, se si ritiene che l’entità delle correzioni da apportare al procedimento di calcolo standard del VaR per poterlo adattare a intervalli di tempo più ampi sia eccessiva, è possibile abbandonare questa misura di rischio per sposare un approccio diverso, incentrato ad esempio su un’analisi delle dinamiche di lungo periodo degli indici di mercato (LeGrand, 2001). 2. Il diverso ruolo della regolamentazione. Per le banche, la normativa prudenziale sul capitale minimo obbligatorio ha rappresentato un formidabile incentivo all’adozione di metodologie di risk management. Con il market risk amend9 ment del 1996 , il Comitato di Basilea sulla Vigilanza Bancaria ha infatti accolto il principio che un’istituzione finanziaria dotata di propri strumenti di risk management, metodologicamente robusti, possa in qualche misura svincolarsi dagli schemi standard di calcolo del patrimonio obbligatorio per adottare (anche a fini regolamentari) i propri modelli interni. Ciò ha indubbiamente risvegliato l’interesse degli intermediari per lo sviluppo in house di sistemi di controllo del rischio, o per l’adozione/personalizzazione di metodologie standard offerte sul mercato della consulenza. Per le società di gestione del risparmio, viceversa, l’effetto della normativa risulta, a tutt’oggi, assai meno cogente. Se è vero, infatti, che po- 2. Il risk management nell’asset management: perché è diverso? 7 A conclusioni analoghe giunge Garolla di Bard (2002), esaminando specificatamente il mercato italiano. 8 Cfr. ancora J. P. Morgan e Reuters (1996) e, in questo volume, il lavoro di Brandolini, Pallotta e Zenti. 9 Cfr. Basel Committee on Banking Supervision (1996). 17 Q U A D E R N I trebbe profilarsi all’orizzonte l’imposizione di un requi10 sito di capitale minimo sui rischi operativi , non esistono invece vincoli patrimoniali associati al rischio di mercato sulle gestioni “per conto terzi”. La misura di tale rischio risponde dunque a finalità strategiche, gestionali e organizzative proprie dei singoli asset manager, e non ad un’imposizione “dall’alto” delle autorità. 3. Una diversa (e più complessa) ripartizione della capacità decisionale. Mentre infatti la banca esercita in modo diretto e immediato il controllo sulle proprie decisioni di investimento, nell’attività di gestione le scelte di allocazione e selezione degli attivi vengono ripartite su due livelli (cliente e gestore). Il primo detta i criteri di fondo cui deve uniformarsi l’asset manager (asset allocation strategica, stile d’investimento, limiti di rischio) mentre il secondo opera le proprie valutazioni e correzioni di portafoglio nell’ambito di un preciso mandato. Esiste peraltro una sorta di correlazione inversa tra la qualità dell’informazione riceTavola 3 Tav 3: Dalle Banche alle Asset Management Company: come cambiano le “regole del gioco” Caratteristica Banche Asset management Cliente Decisioni di investimento Misure di rischio tradizionali Obiettivi del controllo rischi Dirette Gestore Delegate VaR Tracking error Stress test Confronti con altri gestori Allocazione del capitale Ottimizzare le Limitate Tracking error volatilità Controllo dei titoli in portafoglio scelte di asset allocation Compliance con la normativa di vigilanza Strumenti di controllo Accesso alle informazioni Controllare il gestore Limiti di VaR Benchmarking Regole di Stop Loss Diversificazione Allocazione del capitale Aggiustamenti al portfolio mix Evitare perdite, assolute o relative al benchmark Diversificazione Regole di sell Immediato Ritardato e indiretto Rapido e dettagliato Breve: pochi giorni Ampio: uno o più anni Intermedio: un mese, un trimestre, un anno rilevanti Orizzonte temporale rilevante Definizione delle posizioni Posizioni composte da investimenti e debiti Possibilità di elevata leva finanziaria Diretta Percepisce un turnover ridotto Diretta Livelli di turnover intermedi Rotazione elevata Fonte: nostra rielaborazione da Stubbs e Gupta (2000) 10 È infatti probabile che il Nuovo Accordo di Basilea sul Capitale (cfr. ad es. Basel Committee on Banking Supervision, 2001) imponga ai gruppi bancari un requisito patrimoniale sul rischio operativo (cioè sulle possibili perdite a fronte di frodi, malfunzionamenti di sistemi e procedure o eventi negativi esterni); tale requisito verrebbe esteso, almeno per quanto riguarda l’Unione Europea, anche alle imprese di investimento. In proposito, cfr. anche il contributo di Appetiti in questo volume. 18 Q U A D E R N I vuta (più precisa e tempestiva per il gestore che per il cliente) e i possibili margini di autonomia. Per questo motivo, i tempi di reazione ad una sfavorevole dinamica dei mercati risultano più lunghi che nell’attività di investment banking, ed il controllo dei rischi deve sovente assumere per data l’impostazione generale del portafoglio. 4. Un diverso obiettivo. Anche per effetto della limitata autonomia decisionale della Sgr, l’attenzione del risk manager si concentra (come già richiamato nel paragrafo precedente) sugli scostamenti da un benchmark che riassume l’asset allocation di lungo periodo concordata con il cliente (ma che potrebbe anche rappresentare, nel caso di un cliente istituzionale che gestisce un fondo pensioni, il flusso di liabilities che si intende garantire in futuro). Non è quindi il rendimento assoluto ad essere oggetto di misurazione e di analisi probabilistica, bensì il differenziale di performance rispetto a un “portafoglio di riferimento”. L’ultima caratteristica ricordata merita qualche ulteriore approfondimento. Lo spostamento del focus dai rendimenti assoluti a quelli differenziali costituisce infatti un mutamento suscettibile di incidere in profondità sulle logiche di funzionamento dei modelli di risk management. Non stupisce, quindi, che sul piano metodologico siano stati proposti diversi approcci alternativi, che per comodità d’esposizione possiamo ricondurre ai seguenti due: • da un lato, è possibile considerare come variabile stocastica (cioè come grandezza incerta, di cui si vuole modellare l’evoluzione futura) l’extrarendimento rispetto al benchmark conseguito dei singoli gestori su determinate porzioni di portafoglio (per esempio, dai gestori che operano in azioni small cap o in obbligazioni estere). Questi extrarendimenti individuali (che a loro volta possono derivare da una superiore capacità di stock picking, da una maggiore esposizione al rischio di mercato o semplicemente dal caso) possono essere aggregati tra loro, all’interno di ogni asset class, utilizzando una stima della matrice di correlazione tra le prestazioni dei singoli gestori; ad un livello gerarchico successivo, è possibile proseguire l’aggregazione servendosi delle correlazioni tra extraren11 dimenti di asset class diverse . Un approccio simile è stato proposto, ad esempio da Goldman Sachs (Winkelmann, 2000) e da Schroders (Scherer, 2000). • D’altra parte, è possibile stimare gli extrarendimenti futuri ricorrendo a un artificio. Si tratta cioè di considerare un “portafoglio differenza” i cui pesi, per ogni asset class o fattore di rischio, siano dati dallo scostamento tra il portafoglio gestito e il benchmark. Infatti, se con q indichiamo il vettore dei pesi usati dal gestore attivo, con b i pesi del benchmark e con r il vettore (stocatico) dei rendimenti futuri sui fattori di mercato, allora l’extrarendimento fu11 É possibile, ad esempio, adottare l’ipotesi di correlazione nulla (che può risultare accettabile, considerato che oggetto della rilevazione non sono i rendimenti totali, ma solo i differenziali rispetto al benchmark). Cfr. Wikelmann (2000) per un esempio. 19 Q U A D E R N I turo può essere scritto come q’r - b’r, cioè come il rendimento di un portafoglio costruito con pesi h = q - b, la cui volatilità (nota la matrice di varianze e covarianze tra fattori di mercato, ∑) può essere stimata come h′Σh . Un simile approccio, adottato ad esempio da J. P. Morgan (cfr. Mina e Watson, 2000) e noto come relative VaR (o ReVaR), consente di fare riferimento ai medesimi fattori di rischio utilizzati per il calcolo di un VaR assoluto (ad esempio: indici di borsa, nodi delle curve dei rendimenti, tassi di cambio) ed è stato ripreso da molti asset managers, 12 anche in Italia . É da notare che la formula sopra richiamata si discosta dal calcolo di una tracking error volatility storica, perché riflette l’ultima composizione aggiornata del portafoglio attivo (oltre che eventuali ricomposizioni, per la verità meno frequenti, del benchmark), ed utilizza la storia passata solo per stimare la distribuzione di probabilità dei singoli fattori di rischio. 3. Il risk management nell’asset management: cosa cambierà? Abbiamo brevemente ricordato i presupposti dell’introduzione delle tecniche di risk management nelle società di gestione del risparmio e le modalità con cui tali tecniche sono state adattate alle peculiarità di questa industria. Esaminiamo ora i principali effetti dell’ingresso del risk management nelle Sgr. Proprio perché (come accennato in precedenza) il controllo dei rischi non rappresenta tanto la risposta ad una pressione normativa esterna, quanto ad un’esigenza interna e di mercato, è naturale che esso vada calandosi in profondità nei meccanismi di investimento dei gestori, condizionandone gli schemi operativi e rendendo più trasparente e razionale la rendicontazione dei processi interni. La stima del rischio totale di un portafoglio gestito è infatti solo il primo passaggio di un’opera di misurazione ben più capillare e ambiziosa, che mira a scomporre il rischio nei diversi fattori di mercato che l’hanno originato e a ripartirlo tra i diversi livelli di asset allocation e di gestione che concorrono alla realizzazione di un pro13 dotto o di un grande portafoglio . In questo modo, l’alfa atteso dai singoli gestori potrà essere rapportato alla quantità di rischio che è stato necessario assumere per ottenerlo, arrivando ad una misura di risk-adjusted performance rivolta al futuro (forward looking) e non al passato come è tipico dell’information ratio. Un simile processo di misura del rendimento aggiustato per il rischio, pur avendo peculiarità proprie, può essere in qualche misura accostato alle misure di stima del rendimento sul capitale assorbito (a livello di divisioni o di singoli desk) ormai comuni a tutte le maggiori banche. Se poi, come punto di partenza dell’analisi, non si utilizza il ri12 Cfr. in questo volume, i contributi di Brandolini, Pallotta e Zenti; Gaffo e di Tria (che del ReVar propongono un’estensione basata sul backtesting); Burgio, Di Sario e Gota; Mignacca, Aiudi e Ruvolato. 13 A tal proposito, va ricordato che misure di rischio calcolate a partire da distribuzioni dei prezzi lognormali (come avviene di solito per il ReVaR) sono direttamente proporzionali alla deviazione standard della distribuzione e consentono dunque una scomposizione del rischio di facile costruzione e interpretazione, basata sulle proprietà delle funzioni omogenee lineari e sul teorema di Eulero. Cfr. in proposito il lavoro di Mignacca, Aiudi e Ruvolato in questo volume. 20 Q U A D E R N I schio effettivamente assunto su un portafoglio gestito, bensì il limite massimo di rischio assegnato dagli organi amministrativi della Sgr (o concordato con un grande cliente istituzionale), allora la ripartizione di tale limite tra i diversi centri di responsabilità interni conduce ad un vero e proprio processo di risk budgeting (cfr. ad es. Scherer, 2000; Mina, 2001); in altri termini, ogni desk di gestione riceve in dote un certo “budget di rischio” che gli consente di allontanarsi (in modo controllato) dal suo benchmark, richiedendogli di produrre, in contropartita, un alfa positivo. Il rispetto di questa logica operativa richiede ai gestori di non eccedere il budget assegnato, ma anche di sfruttarlo per intero, evitando di assumere comportamenti eccessivamente passivi. Simili metodologie di scomposizione del rischio possono essere rese ancora più capillari: è possibile, per esempio, ricalcolare il VaR relativo di un portafoglio con o senza una determinata operazione (e si parla, in questo caso, di ReVaR marginale; cfr. Mina e Watson, 2000), per vedere se i benefici attesi dalla stessa sono in grado di coprire i maggiori rischi da essa generati. Il risk management, quindi, lungi dall’essere un “notaio” che certifica i margini di rischio impliciti in scelte di asset allocation già prese, si troverà sempre più spesso ad esercitare un profondo effetto di retroazione sui processi decisionali della gestione. Infine, anche il rapporto con la clientela finale risentirà in misura spiccata dell’introduzione delle nuove misure di rischio. In effetti, nel momento in cui persino la clientela retail (alla luce delle negative performance dei mercati) è divenuta più attenta al contenuto di volatilità delle proprie scelte di asset allocation e di stile, sarebbe impensabile non dotare la rete di vendita di semplici strumenti di rappresentazione dei profili di rischio (assoluto e relativo) impliciti nei diversi prodotti offerti. L’opera di semplificazione, standardizzazione, distribuzione in periferia di misure di rischio che richiedono un aggiornamento frequente ed attento, rappresenta evidentemente un compito complesso, eppure necessario, cui devono dedicarsi insieme il risk management e l’area commerciale. La necessità di arricchire le tradizionali misure di performance aggiungendo la dimensione del rischio richiede, ovviamente, che anche le prime vengano calcolate nel modo più possibile razionale, oggettivo, trasparente. L’avvento del risk management conduce quindi ad una rivisitazione in profondità delle tecniche di performance measurement e attribution diffuse negli anni passati (e che rappresentano, per la verità, un’area di analisi tutt’altro che consolidata). Risulta dunque difficile accostarsi ai temi del risk management nel risparmio gestito senza allargare il discorso all’argomento, collaterale e complementare, della misura delle prestazioni e della scomposizione degli extrarendimenti storici e attesi. Dalla constatazione di questo connubio nasce la struttura del presente volume, che verrà rapidamente presentata nel paragrafo che segue. Misura del rischio, attribuzione della performance, partecipazione del risk management al processo d’investimento della Sgr rappresentano i tre temi principali attorno ai quali ruotano i diversi contributi raccolti in questo libro. Non è tuttavia possibile raggrupparli nettamente attorno a questi tre poli tematici, in quanto spesso ogni singolo saggio tocca più lati del triangolo, riconoscendone i profondi collegamenti logici e pratici. 4. Questo libro 21 Q U A D E R N I Il lavoro di Dario Brandolini, Massimiliano Pallotta e Raffaele Zenti, per esempio, muove da un’importante premessa metodologica, presentando sinteticamente il modello di misura del VaR relativo adottato da Ras Asset Management e basato sul bootstrap (filtrato per l’eteroschedasticità) dei rendimenti storici dei fattori di rischio. Tuttavia, esso non si esaurisce in una descrizione dello strumento, ma compie un passo oltre, immaginando come le diverse misure di rischio generate dal modello possano essere tradotte in limiti operativi, e fornendo un’importante indicazione a favore dei limiti basati sulle misure di Excess Return at Risk (dove il budget di rischio assegnato a un gestore è correlato ai successi ottenuti nei mesi precedenti). Un altro significativo contributo metodologico alla costruzione di un modello ReVaR per la misura dei rischi di mercato ci viene poi offerto da Michele Gaffo e Massimo di Tria di RAS SpA. Nel loro capitolo, si mostra come sia possibile utilizzare i risultati del backtesting su un modello di VaR relativo non solo per quantificarne i margini di precisione, ma anche per migliorarne le prestazioni “adattandolo” senza ritardo alla maggiore o minor volatilità dei mercati. La metodologia proposta (che non a caso prende il nome di adaptive ReVar) viene messa alla prova in maniera intensiva su un vasto dataset empirico (che comprende osservazioni giornaliere e settimanali, così come holding period di ampiezza variabile) con risultati decisamente confortanti. Più composito è invece il contributo di Massimiliano Burgio, Michele De Sario e Maria Luisa Gota. La tesi degli autori è che non esiste una procedura di misurazione del rischio ottimale, bensì tante metodologie quanti sono i diversi sottoportafogli che ricadono sotto la responsabilità del risk manager; conseguentemente, vengono presentati due esempi ispirati ad approcci logicamente distinti, il primo rivolto al monitoraggio di un portafoglio azionario europeo ed il secondo destinato al controllo di un fondo di fondi. Il focus è sulla stima ex ante dei rischi futuri ma anche, in qualche misura, sulla rendicontazione ex post dei livelli di rischio evidenziati nel recente passato. Il profondo legame logico tra rischio e performance conduce poi gli Autori a dedicare un approfondimento ad hoc ad un sistema di performance attribution creato da Eptafund per il comparto obbligazionario. Proprio al tema del rapporto tra misura dei rendimenti e risk management è dedicato il capitolo curato da Francesco Betti e Valentina Dall’Aglio. Il capitolo prende le mosse dalla descrizione del sistema di performance attribution sviluppato da Aletti Gestielle Sgr e rivolto in primo luogo ai portafogli azionari; gli Autori si interrogano tra l’altro sui possibili accorgimenti metodologici per riaggregare, su orizzonti temporali più lunghi, misure di extrarendimento costruite su orizzonti di brevissimo termine, proponendo diverse soluzioni al problema. Successivamente, viene presentato un modello di risk attribution in grado di associare alla performance “lorda” dei diversi livelli di asset allocation e selectivity (ad esempio: selezione del settore, del paese, del singolo titolo) un “fattore di aggiustamento per il rischio” che consenta di isolare un extra-rendimento netto (corretto per la rischiosità intrinseca delle posizioni). L’obiettivo è quello di far evolvere il sistema di attribuzione della performance verso un vero e proprio strumento di risk-adjusted performance attribution che isoli i margini di creazione netta di valore generati ai diversi livelli del processo d’investimento. 22 Q U A D E R N I Il contributo di Domenico Mignacca, Valeria Aiudi e Michele Ruvolato (Sanpaolo Imi Wealth Management) presenta diverse sfaccettature. Dapprima, al fine di inserire l’attività del risk manager all’interno del processo di investimento, ripercorre i passaggi fondamentali dell’approccio di Black e Litterman, mostrando come le opinioni (“views”) dei gestori possano essere aggiunte alle informazioni sui rendimenti di equilibrio delle diverse asset class, derivando una nuova media “condizionale” da cui estrapolare l’asset allocation per il periodo a venire. Quindi, si concentra sull’utilizzo di un mo14 dello di ReVaR all’interno del processo di investimento stesso , ed in particolare sulla scomposizione del VaR in più porzioni, di pertinenza dei diversi sottoportafogli o fattori di rischio (per esempio settori o paesi). Successivamente, a questa ripartizione se ne sovrappone un’altra, che consente di suddividere il VaR relativo tra asset allocation risk, country allocation risk, sector allocation risk e security selection risk. Questa seconda scomposizione del rischio risulta particolarmente interessante, in quanto perfettamente simmetrica alla scomposizione della performance che viene solitamente operata, sul versante del rendimento, dagli algoritmi di performance attribution (di cui anche gli Autori ci danno un saggio nel loro capitolo). É dunque possibile valutare la coerenza tra rendimento e rischio per diversi livelli di autonomia gestionale, pervenendo ad uno strumento di riskadjusted performance attribution simile, quanto a finalità, a quello predisposto nel lavoro di Betti e Dall’Aglio (seppur diverso sul piano delle scelte metodologiche). L’ingresso del risk management nel processo d’investimento e nella cultura aziendale comporta uno sforzo continuo, da parte del risk management, per portare le proprie analisi a contatto con l’alta direzione e con i gestori. É questo l’argomento del primo dei due capitoli firmati da Carlo Appetiti (Nextra Asset Management). Il disegno di una nuova informativa direzionale, contraddistinta da una quantificazione del rischio quanto più possibile capillare, richiede al risk manager uno screening dei propri potenziali clienti (amministratori, gestione, auditing, vigilanza, clienti istituzionali e rete di vendita retail) ad una precisa conoscenza delle necessità informative di ognuno (e delle relative tempistiche). Il lavoro riporta numerosi esempi di report disegnati per rispondere alle diverse necessità di rendicontazione di questi soggetti, e ne offre una lettura guidata mettendone in risalto le potenzialità e gli eventuali limiti. Il mercato, pur se preponderante, non rappresenta la sola fonte di rischio che insiste su una società di gestione del risparmio. In primo luogo, il vivace sviluppo del comparto delle obbligazioni corporate ha imposto ai gestori di familiarizzarsi con una nuova fonte di extra-rendimenti, ma anche di possibili perdite future, ossia 15 il rischio di credito degli emittenti privati ; esso va ad aggiungersi al rischio creditizio connesso con la possibilità di mancata esecuzione dei trades da parte delle controparti sul mercato dei titoli o dei 14 Gli Autori prendono a riferimento una misura di volatilità (Tracking Error Volatility, o TEV); tuttavia, va ricordato che, se la distribuzione dei rendimenti è normale, il VaR relativo non è altro che un multiplo della volatilità stessa. Le scomposizioni presentate nel capitolo per la TEV sono dunque direttamente applicabili, a meno di una costante moltiplicativa, al ReVaR. 15 In materia, cfr. ad es. Poli e Holifield (2000). 23 Q U A D E R N I cambi (rischio di controparte o di execution) e suggerisce alle Sgr di dotarsi di un sistema di rating per censire e valutare emittenti e negoziatori, ed eventualmente imporre limiti operativi al front office. In secondo luogo, sugli asset managers ricadono anche i rischi (cosiddetti “operativi”) che riguardano la possibilità di un malfunzionamento dei sistemi informativi, di un errore umano, di una frode o di un evento esterno (si tratti di un terremoto o, come insegna la storia recente, di un attacco terroristico); l’eterogeneità di tali rischi, che rappresentano di norma eventi rari anche se molto gravi, non deve allontanare le Sgr dall’obiettivo di censirli, controllarli, quantificarne i potenziali impatti. Ad un secondo contributo di Carlo Appetiti, scritto con Patrizia Bilardo e Massimiliano Forte, va il merito di essersi confrontato con queste due tipologie di rischi (creditizio e operativo), per certi versi “misconosciuti” presso molti asset managers (e certamente di non facile inquadramento). Il capitolo propone una possibile definizione teorica e offre alcune indicazioni concrete su come Nextra Asset Management intenda muoversi in queste due particolari aree del suo sistema di risk management. A conclusione di questa panoramica, desidero ringraziare Assogestioni per essersi fatta promotrice di questa iniziativa, e naturalmente gli Autori di questo volume per aver trovato il tempo necessario a uno sforzo di riflessione che guardasse oltre le piccole necessità contingenti del lavoro quotidiano e provasse a tracciare una prima ricognizione, di massima, circa lo stato dell’arte del controllo dei rischi presso alcune grandi Sgr. Lo studio dei loro contributi è risultato per me un motivo di profondo arricchimento tecnico e professionale; confido che anche il lettore, quando sarà giunto al termine di questo volume, vorrà condividere questo mio sentimento di riconoscenza. Milano, dicembre 2002 24 Q U A D E R N I Assogestioni (2002) Guida a dati e statistiche, Assogestioni, MilanoRoma. Basel Committee on Banking Supervision (2001) The New Basel Capital Accord - consultative package, Banca dei Regolamenti Internazionali, Basilea. Basel Committee on Banking Supervision (1996) Amendment to the Capital Accord to incorporate Market Risks, Banca dei Regolamenti Internazionali, Basilea. Garolla Di Bard, Marcello (2002) “Il risk management nella gestione del risparmio”, Bancaria, n. 3, 42-47. TM J. P. Morgan, Reuters (1996) RiskMetrics - Technical Document, quarta edizione, dicembre, Morgan Guaranty Trust Company, New York. 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Riferimenti bibliografici 25 Dario Brandolini Ras Asset Management Sgr Massimiliano Pallotta Ras Asset Management Sgr Raffaele Zenti Ras Asset Management Sgr Un modello di stima del rischio e la definizione della risk policy di una Sgr Q U A D E R N I 28 Q U A D E R N I Spinte dalla clientela istituzionale e dalle esigenze di limitare l’entità di possibili performance negative, le società di asset management utilizzano in misura sempre maggiore strumenti di risk management. É piuttosto evidente che l’inserimento esplicito del risk management nel processo d’investimento risulta efficace soltanto se l’attività di risk management viene svolta in modo appropriato e coerente. Per chiarire questo punto si può partire dalla suddivisione in tre fasi del processo di risk management, ossia: 1. la stima della funzione di densità di probabilità del rendimento futuro del portafoglio, ossia la generazione degli scenari futuri di riferimento; 2. il calcolo di statistiche descrittive di tale distribuzione di probabilità, utilizzate come misure di rischio; 3. l’impiego di tali misure in una risk policy, cioè una politica atta a mantenere la performance del portafoglio sotto controllo. Se una soltanto delle tre fasi poggia su fondamenta poco solide, viene inficiato l’intero processo. Ad esempio, se la stima della funzione di densità avviene sulla base di ipotesi non realistiche, le misure di rischio calcolate possono risultare molto lontane dalla realtà e potenzialmente fuorvianti. In altri casi è la misura di rischio a non essere scelta in modo opportuno: molti asset manager, a titolo di esempio, si concentrano solo sulla probabilità di non ottenere un dato risultato (shortfall probability), quando invece rileva anche l’entità media della perdita (expected shortfall) nel caso in cui il risultato sperato non venga conseguito. Infatti, se l’obiettivo è ottenere un ritorno assoluto almeno pari al 3%, è intuitivamente molto differente avere, a parità di shortfall probability, un expected shortfall pari a 2.9% o a -5.0%. Infine, anche se la fase 1 e la fase 2 sono soddisfacenti, la mancanza di un’opportuna risk policy, cioè l’assenza di adeguate regole comportamentali a fronte di vari livelli di rischio, può far sì che indicatori di rischio ben calcolati risultino del tutto inutili e non abbiano una ricaduta operativa. La letteratura finanziaria in tema di asset management e di risk management si è occupata principalmente della fase 1 e della fase 2. Poca attenzione è stata finora rivolta alla definizione ed all’analisi empirica di risk policy volte ad aggiungere valore al processo d’investimento. Un interessante contributo su tale tema è quello di Gupta e Kartinen (2000). Utilizzando dati storici relativi ad un periodo ventennale, essi analizzano risk policy basate sul VaR, ossia sul rischio assoluto, mostrando come sia possibile definire portafogli che dominano in termini di Sharpe ratio il benchmark assegnato. Il nostro obiettivo principale è l’analisi empirica della capacità di differenti risk policy di creare valore aggiunto nel processo d’investimento dell’asset manager attivo. L’attenzione è dunque rivolta al rischio relativo, legato agli excess return, e non al rischio assoluto. Per excess return, in questo capitolo, si intende la differenza di rendi- 1. Introduzione 29 Q U A D E R N I mento tra un portafoglio ed il benchmark (ossia un portafoglio di riferimento). Inoltre, per effettuare una valutazione statisticamente affidabile delle differenti risk policy, viene impiegata una metodologia di tipo Monte Carlo. La struttura del capitolo è la seguente. Nella sezione 2 viene descritto un modello per la stima della distribuzione di probabilità del rendimento futuro del portafoglio che a nostro parere ben si adatta ad una Sgr. Nella successiva sezione 3 si accenna alle modalità di scelta degli indicatori di rischio. Nella sezione 4 si descrivono varie tipologie di risk policy, la cui efficacia viene verificata empiricamente utilizzando la metodologia descritta nella sezione 5. I risultati dei test sono riportati nella sezione 6, alla quale fanno seguito le conclusioni. 2. Un modello affidabile per gli asset manager Non è rara fra i practicioner l’idea che il modello impiegato sia scarsamente rilevante e che siano molto più importanti aspetti, spesso di natura organizzativa, legati all’impiego pratico delle misure di rischio. La nostra opinione è che la stima della funzione di 1 densità di probabilità (d’ora in avanti pdf) degli excess return sull’orizzonte di stima prescelto costituisca invece una delle fasi più cruciali del processo di risk management. Infatti, ipotesi semplicistiche circa la distribuzione futura degli excess return possono minare l’intero processo (“garbage in, garbage out”). Avendo a che fare con oriz2 zonti temporali medio-lunghi e tipicamente multipli , il problema di stima della pdf è piuttosto complesso. Per esempio, al fine di avere una descrizione della situazione di rischio sia su un orizzonte di 1 mese, sia su un orizzonte di 1 anno, occorre stimare in modo coerente le due pdf. Nella scelta del modello di rischio è bene considerare alcuni fatti, brevemente discussi nel seguito. Nel medio-lungo termine non è prudente ipotizzare che i rendimenti siano normalmente distribuiti, con volatilità costante nel periodo corrispondente all’orizzonte d’analisi e con media nulla. Si tratta di ipotesi piuttosto comuni all’interno di molti software di risk management utilizzati dalle Sgr. Anche se è ampiamente riconosciuto dalla comunità finanziaria che i rendimenti intragiornalieri, giornalieri e settimanali non sono normali, su orizzonti temporali maggiori, ad esempio 1 mese o più, l’approssimazione mediante una normale è ancora ampiamente utilizzata, soprattutto nel contesto dei modelli multifattoriali. La giustificazione è la seguente: dato che il rendimento logaritmico su un orizzonte multiperiodale è la somma dei rendimenti logaritmici giornalieri, se essi sono indipendentemente e identicamente distribuiti (i.i.d.), per il Teorema Limite Centrale essi sono approssimativamente normali. Il Teorema Limite Centrale vale anche nel caso in cui i rendimenti non siano identicamente distribuiti, basta che siano indipendenti. Sfortunatamente, l’evidenza empirica 1 2 Nulla cambierebbe nella sostanza se si trattasse di total return. Parliamo di orizzonti multipli a causa del fatto che generalmente si vuole capire quale sia la rischiosità del portafoglio tanto nell’immediato, per evitare potenziali risultati negativi che potrebbero comportare la perdita di un mandato di gestione, quanto nel medio-lungo periodo, che spesso costituisce l’orizzonte d’investimento naturale di un portafoglio in gestione. 30 Q U A D E R N I mostra che nella maggioranza dei casi la convergenza alla distribuzione normale è molto lenta e non avviene con orizzonti temporali inferiori a 3 mesi. Spesso, anche su orizzonti pluri-mensili, la distribuzione di probabilità empirica è decisamente leptocurtica (“fat-tai3 led”). Inoltre la media è tipicamente non nulla . Si vedano gli esempi riportati nella Tabella 1a e nella Tabella 1b. Il motivo della presenza di leptocurtosi anche su orizzonti medio-lunghi è principalmente imputabile al fatto che i rendimenti non sono i.i.d.; essi presentano infatti volatilità e correlazioni che cambiano nel tempo (cioè sono eteroschedastici) e spesso sono autocorrelati. Si veda la Figura 1 per un esempio. Tab 1a Tabella 1a Medie dei rendimenti Dati non annualizzati Frequenza dei rendimenti MSCI World Salomon Bros. WGBI Limite Stima Limite inferiore puntuale superiore Limite inferiore Stima Limite puntuale superiore Giornaliera 0.02% 0.03% 0.05% 0.02% 0.03% 0.04% Settimanale 0.06% 0.17% 0.28% 0.09% 0.13% 0.17% Mensile 0.26% 0.75% 1.19% 0.40% 0.58% 0.75% Trimestrale 0.71% 2.27% 3.95% 1.09% 1.74% 2.34% Dati annualizzati Frequenza dei rendimenti MSCI World Salomon Bros. WGBI Limite Stima Limite inferiore puntuale superiore Limite inferiore Stima Limite puntuale superiore Giornaliera 4.19% 8.71% 13.59% 4.93% 6.61% 8.78% Settimanale 3.18% 9.05% 14.73% 4.82% 6.89% 8.89% Mensile 3.06% 8.96% 14.23% 4.80% 6.92% 9.00% Trimestrale 2.85% 9.09% 15.82% 4.35% 6.96% 9.35% Tab 1b Tabella 1b Test di normalità dei rendimenti Dati mensili MSCI Europe MSCI USA Campione 3/’72-3/’02 3/’72-3/’02 3/’72-3/’02 1/’80-3/’02 1/’80-3/’02 1/’82-3/’02 Jarque-Bera 3459.97 160.75 47.73 41.12 24.23 72.12 0.0% 0.0% 0.0% 0.0% 0.0% 0.0% MSCI Europe MSCI USA P-Value MSCI DS US DS UK DS Japan Far East Govt. Index Govt. Index Govt. Index Dati trimestrali Campione Jarque-Bera P-Value MSCI DS US DS UK DS Japan Far East Govt. Index Govt. Index Govt. Index Q1 ’72-Q1 ’02 Q1 ’72-Q1 ’02 Q1 ’72-Q1 ’02 Media dei log-rendimenti di: i) l’indice azionario globale MSCI World, in divisa locale, nel periodo dicembre 1979 - febbraio 2002 (fonte Datastream International); ii) l’indice obbligazionario globale Salomon Bros. WGBI, in divisa locale, nel periodo dicembre 1993 - dicembre 2001 (fonte Datastream International). Si riportano sia stime non-annualizzate che annualizzate. Il limite inferiore e quello superiore sono gli estremi di un intervallo di confidenza al 95% calcolato mediante bootstrap con il metodo dei percentili di Efron, impiegando 1000 ricampionamenti. Le statistiche mostrano come le distribuzioni empiriche abbiano media significativamente diversa da zero. Q1 ’80-Q1 ’02 Q1 ’80-Q1 ’02 Q1 ’82-Q1 ’02 121.79 72.87 0.88 17.38 1.17 12.91 0.0% 0.0% 64.5% 0.0% 55.6% 0.2% Test di Jarque-Bera per alcuni indici azionari Morgan Stanley e indici obbligazionari Datastream espressi in valuta locale (fonte Datastream International); il campione utilizzato è riportato sulla tabella. Jarque-Bera è una statistica per il test di normalità di un campione. Con l’ipotesi nulla di normalità, la statistica di Jarque-Bera è distribuita secondo una c2 con 2 gradi di libertà. Un valore contenuto di P-value porta quindi al rifiuto dell’ipotesi nulla di normalità. Secondo il test, la maggior parte dei rendimenti non sono normalmente distributi (con le notevoli eccezioni dei rendimenti trimestrali delle azioni Far East e delle obbligazioni UK). 3 L’ipotesi di media nulla nel lungo periodo non è del tutto da escludere se si analizza il portafoglio attivo in modo aggregato (cioè come se si trattasse di un’unica variabile finanziaria, senza considerare esplicitamente la distribuzione dei rendimenti delle attività finanziarie che lo compongono) e se l’oggetto dell’indagine è un portafoglio attivo il cui gestore non si discosta dal benchmark in modo sistematicamente “aggressivo” (ad esempio puntando su titoli growth o usando, se permesso, la leva). Se si escludono le gestioni passive, la performance di lungo periodo dovrebbe invece risultare superiore all’indice come compenso per il rischio preso. 31 Q U A D E R N I Figura 1 Volatilità del MSCI World 35,0% 30,0% 25,0% 20,0% 15,0% 10,0% lug-01 lug-01 lug-01 gen-01 gen-01 gen-01 gen-00 lug-00 lug-00 lug-00 lug-99 gen-00 gen-00 gen-99 lug-99 lug-98 gen-99 lug-97 gen-98 lug-96 gen-97 lug-95 gen-96 lug-94 gen-95 lug-93 gen-94 5,0% gen-93 Stime di volatilità e correlazione per il MSCI World e il Salomon Bros. WGBI, entrambi in divisa locale, per il periodo gennaio 1993 dicembre 2001 (fonte Datastream International), effettuate mediante un GARCH(1,1) bivariato. È evidente come volatilità e correlazione siano fortemente variabili nel tempo. Ciò implica che i rendimenti non sono i.i.d.; quindi l’eventuale utilizzo della “regola della radice quadrata” è scorretto e può portare ad errori nelle stime di rischio su orizzonti temporali multipli. Volatilità del Salomon Bros. WGBI 6,0% 5,0% 4,0% 3,0% 2,0% 1,0% lug-98 lug-97 gen-98 lug-96 gen-97 gen-96 lug-95 gen-95 lug-94 gen-94 lug-93 gen-93 0,0% Correlazione tra MSCI World e Salomon Bros. WGBI 1,00 0,80 0,60 0,40 0,20 0,00 -0,20 -0,40 -0,60 -0,80 lug-99 lug-98 gen-99 lug-97 gen-98 gen-97 lug-96 gen-96 lug-95 gen-95 lug-94 gen-94 lug-93 gen-93 -1,00 Una conseguenza diretta del fatto che i rendimenti non sono i.i.d. è che l’utilizzo della cosiddetta “regola della radice quadrata” per calcolare indicatori di rischio su orizzonti multiperiodali a partire da statistiche ricavate su dati a maggior frequenza (ad esempio giornalieri) è errato. Alla luce di quanto detto, un modo ragionevole di stimare la pdf dei rendimenti (o degli excess return) consiste nel tentare di replicare, attraverso una simulazione, il processo stocastico seguito dalle varie attività. Il modello del Filtered Bootstrap (FB), proposto da Barone-Adesi, 32 Q U A D E R N I Giannopoulos e Vosper (1999), testato da Barone-Adesi, Giannopoulos e Vosper (2000) e da Zenti e Pallotta (2000) su orizzonti medio-lunghi, sembra una soluzione appropriata e flessibile per generare scenari futuri e stimare così la pdf. Questo metodo consente di catturare l’eteroschedasticità condizionale, l’autocorrelazione, il trend e la non normalità presente nei fattori di rischio, ovvero la maggior parte delle caratteristiche osservate nelle serie storiche. Per approfondimenti sulle tecniche di bootstrap in generale si veda Efron e Tibshirani (1998). Il modo più semplice di illustrare tale modello consiste nell’applicarlo al portafoglio. Ciò consente di ridurre il caso multivariato di un portafoglio con molte attività ad un caso univariato. Si noti tuttavia che l’applicazione più interessante e naturale di questo modello è direttamente al caso multivariato di n attività, in quanto si possono ottenere contributi medi e marginali di rischio e si possono trattare opportunamente gli strumenti derivati non lineari mediante full valuation. Introduciamo un concetto utile nel seguito: l’active frozen portfolio. Si tratta semplicemente del portafoglio i cui pesi attivi (cioè i differenziali di peso rispetto al benchmark) rimangono costanti nel tempo. Ipotizzando di operare con dati giornalieri, denotiamo con Rs(wt) il valore di excess return relativo al generico giorno (passato) s dell’active frozen portfolio basato sui pesi attivi al tempo t. Tali pesi attivi sono rappresentati dal vettore riga wt . Rs (wt), d’ora in poi per semplicità di notazione Rs , è il risultato della moltiplicazione tra il vettore riga Rs-1,s, contenente i rendimenti nell’intervallo [s-1,s] di tutte le attività incluse nell’universo investibile del portafoglio, e il vettore (trasposto) wt . In sostanza, la serie storica dell’active frozen portfolio è la serie storica degli excess return di un portafoglio che ha, in ogni istante del passato, la composizione corrente. L’applicazione del modello FB prevede che la serie storica dei rendimenti del frozen portfolio venga filtrata utilizzando un ARMA(1,1)-GARCH(1,1), cioè: , et ~(0,st) (1A) Rt = a + bRt −1 + cε t −1 + ε t st2 = α + βst2−1 + γε t2−1 (1B) dove et è l’innovazione del processo ARMA e s t è la sua varianza. Ottenuta la serie storica dei residui standardizzati zt = et / st, si applica su di essa il bootstrap, con un orizzonte temporale T ed un numero di scenari (“stati del mondo”) pari a N. Ciò significa che si effettua un campionamento con reintroduzione di T residui standardizzati, i quali sono approssimativamente i.i.d., ripetendo il campionamento N volte, ossia tante volte quanti sono gli scenari che si intendono generare. Infine, le N traiettorie di lunghezza T ottenute per i residui standardizzati vengono utilizzate iterativamente nella (1A)-(1B) per simulare il processo ARMA(1,1)-GARCH(1,1) in N scenari. Si ottiene una nuova matrice che contiene T excess return giornalieri per ciascuno degli N stati del mondo. Infine, componendo, per ciascun stato del mondo, i T excess return giornalieri, si ottengono N scenari finanziari. Essi sono utilizzati per stimare la pdf degli excess return di portafoglio e, conseguentemente, gli indicatori di rischio ex-ante. L’idea principale di questa tecnica è quella di creare una molteplicità di scenari finanziari basati su dati storici, tipicamente giornalieri, in modo da ottenere, sull’orizzonte temporale richiesto, una 2 33 Q U A D E R N I distribuzione attesa dei valori del portafoglio, da cui si ricavano vari indicatori di rischio. Così facendo, si utilizza il contenuto informativo dei dati giornalieri per creare scenari finanziari su orizzonti temporali arbitrari. In sostanza, il FB è un campionamento con reintroduzione da una serie storica opportunamente trattata, ossia filtrata. Il motivo che spinge a filtrare i dati attraverso un modello ARMAGARCH è che, a fini di calcolo del rischio, il campionamento con reintroduzione da una serie storica di excess return “grezzi” è appropriato solo se le osservazioni sono i.i.d.; in caso contrario, i risultati risultano distorti. Trattandosi di un modello simulativo, il FB consente di stimare in un modo coerente la pdf su orizzonti multipli. Inoltre, campionando direttamente dalla distribuzione empirica multivariata, non è implicita alcuna ipotesi sulla struttura di correlazione, che risulta pari a quella effettivamente manifestatasi sul mercato. Vale ancora la pena di sottolineare che la possibilità di trattare le opzioni mediante full valuation è particolarmente apprezzabile quando l’orizzonte d’investimento non è breve, come nel caso delle Sgr. In tali situazioni, la natura asimmetrica e non lineare delle opzioni è particolarmente evidente ed i metodi basati su espansioni in serie di Taylor possono risultare fuorvianti. 3. Alcune considerazioni sulla scelta degli indicatori Avendo stimato opportunamente la pdf degli excess return R sull’orizzonte temporale desiderato, occorre individuare uno o più indicatori di rischio. Un indicatore di rischio è una statistica descrittiva, rappresentabile come una funzione G della pdf stimata f(R): Risk = G( f ( R)) (2) Per esempio, il tracking error (TE), indicatore d’uso comune tra gli asset manager, è da noi definito come la radice quadrata di: +∞ ∫ (R − µ ) R −∞ 2 f ( R)dR (3) dove mR è la media degli excess return. Si tratta dunque di una stan4 dard deviation . Questa è la parte più semplice del processo, dato che, a partire dalla pdf stimata, è possibile calcolare una grande quantità di indicatori (quantili, momenti, momenti parziali inferiori e via dicendo) con poco sforzo computazionale. Occorre tuttavia avere l’accortezza di scegliere indicatori di rischio che siano coerenti con gli obiettivi di gestione. Chiariamo questo punto con un esempio che riguarda i numerosi asset manager che utilizzano il TE per gestire il rischio di portafogli attivi. Essendo la standard deviation degli excess return, il TE ne misura la sola dispersione, ignorando completamente il posizionamento della distribuzione, ovvero la media. La portata di questo fatto è evidente se si pensa agli excess return di un portafoglio A, con media mA e TE s , ed a quelli di un portafoglio B, con media mB e TE ancora pari a s, con mA>mB. Si ipotizzi inoltre che 4 Nella pratica finanziaria il termine TE non ha significato univoco. Accanto a coloro che, come noi, definiscono il TE come standard deviation delle differenze di rendimento tra portafoglio e benchmark, vi sono molti che impiegano il termine TE proprio per tali differenze, utilizzando poi il termine tracking error volatility per denotarne la standard deviation. 34 Q U A D E R N I in entrambi i casi la distribuzione degli excess return sia normale. Sebbene sia lampante che il portafoglio A domina il portafoglio B, se si utilizza il TE come indicatore “chiave” (come è prassi in molte Sgr), essi risultano equivalenti. Supponiamo invece di utilizzare il ReVaR, cioè un quantile degli excess return. In generale, se F è la funzione di ripartizione degli excess return di un portafoglio ed F-1 è la sua inversa, il ReVaR calcolato con livello di probabilità p è dato da F-1(p). Proseguendo l’esempio, per qualsiasi livello di probabilità p, emergerebbe chiaramente come il rischio dei due portafogli non sia identico, dato che si ha: (4) Re VaRA ( p) = µ A + q( p) ⋅ σ > Re VaRB ( p) = µ B + q( p) ⋅ σ essendo q(p) il quantile di ordine p di una normale standard. Pertanto, in caso di gestione attiva, cioè quando l’excess return medio del gestore può essere significativamente diverso da zero, è bene utilizzare indicatori di rischio in grado di tenere conto di tale media, 5 evitando quindi il TE . A conclusione di questa breve sezione dedicata agli indicatori, si può dire che affinché il risk management possa essere efficace è opportuno utilizzare indicatori in grado di comunicare le informazioni veramente rilevanti per la gestione. Questo principio, nonostante appaia ovvio, non sempre viene applicato. Una risk policy può essere definita come la funzione di reazione con la quale un operatore di mercato, nel caso specifico una Sgr, reagisce a differenti livelli di rischio di portafoglio, variandone la composizione. La definizione di una risk policy comporta: 1. la scelta di un indicatore di rischio; 2. la scelta di un orizzonte di calcolo per l’indicatore; 3. la fissazione di un target, o di un valore massimo, per tale indicatore di rischio sull’orizzonte temporale prescelto; 4. la stima ex-ante dell’indicatore; 5. il confronto periodico e sistematico tra la stima ex-ante ed il target e la conseguente variazione dei pesi, in modo che il rischio del portafoglio sia in linea con il target. In termini più formali, denotiamo con wt il vettore di pesi attivi del portafoglio al tempo t, con wt+h i pesi attivi determinati in t e che non saranno più oggetto di ribilanciamento fino a t+h (ossia la data di ribilanciamento), essendo h l’orizzonte temporale della risk policy. I pesi wt sono quindi quelli risultanti dall’applicazione della risk policy in t-h e dall’evoluzione dei rendimenti degli asset tra t-h e t. Se Risk* è il target per il generico indicatore di rischio prescelto e Riskt è la stima ex-ante effettuata al tempo t di tale indicatore di rischio, la risk policy può essere rappresentata schematicamente dalla funzione RP: (5) w t + h = RP( Riskt − Risk ∗ , w t ), wt + h ∈W 4. Che cos’è una risk policy? dove W è l’insieme dei pesi attivi ammissibili, ossia i pesi che soddi5 L’esempio non vuole in alcun modo affermare che il ReVaR sia un indicatore di rischio ottimale per gli asset manager. L’adozione del ReVaR presenta degli inconvenienti legati al fatto che non si tratta di una misura di rischio coerente nel senso di Artzner et al. (1997): si rinvia a tale lavoro per eventuali approfondimenti. 35 Q U A D E R N I sfano i vincoli posti dalla legge o dal management della società (può trattarsi di vincoli di massimo/minimo, vincoli di turn-over e via dicendo). La funzione RP vede come input il posizionamento attivo corrente e la differenza tra il livello di rischio corrente e quello desiderato. Nel seguito il target di rischio va inteso essenzialmente come limite massimo. Sulla base di tali input ed in ottemperanza ai vincoli di composizione del portafoglio, la funzione determina i pesi attivi wt+h , corrispondenti per definizione ad un portafoglio il cui rischio ex-ante calcolato al tempo t è pari a Risk*. Si ipotizza quindi che l’a6 gente si posizioni sul limite massimo di rischio ammesso . Il portafoglio verrà poi ribilanciato nell’istante t+h, reiterando il processo. In linea di principio, qualsiasi indicatore può essere utilizzato per rendere operativa la (5). Non è inoltre necessario che l’orizzonte temporale dell’indicatore di rischio coincida con h (anche se appare una scelta naturale). In sostanza si può pensare al processo di ricalibrazione di portafoglio operato dal gestore come ad un processo a due fasi: i) il gestore modifica i pesi secondo le proprie analisi del mercato; ii) li riscala verso il basso o verso l’alto fino a saturare il suo limite di rischio. Nel caso in cui non vi siano altre restrizioni sui pesi attivi oltre a quella che essi abbiano somma nulla e vi siano dei limiti superiori ed inferiori definiti sulle singole attività, la (5) può assumere forme semplificate, grazie al fatto che molti indicatori di rischio sono funzioni lineari omogenee di primo grado rispetto ai pesi attivi. Con riferimento a tale ipotesi, nel seguito si descriveranno alcune risk policy che possono essere ricondotte a forme semplificate e che verranno successivamente sottoposte a verifica empirica. Se la risk policy si basa sul TE, denotando con TE* il target, con h l’orizzonte temporale della risk policy e con TEt (tforward) la stima exante effettuata al tempo t del TE con un orizzonte temporale corrispondente alla data futura tforward> t , la (5) assume la forma: wt +h = wt TE ∗ TEt t forward ( (6) ) Nel caso in cui la risk policy si basi sul Relative Value at Risk (ReVaR), si ha invece wt +h = wt Re VaR∗ Re VaRt t forward , p ( ) (7) dove ReVaRt(tforward ,p) è il Relative VaR con probabilità p, ossia il quantile d’ordine p, calcolato al tempo t con un orizzonte temporale corrispondente a tforward , mentre ReVaR* è il target. La scelta dell’indicatore chiave per la risk policy potrebbe cadere sull’Expected Shortfall (ES), definito rispetto alla variabile excess return R come: 6 Ciò, si noti, è coerente con una prassi molto diffusa: il gestore vede parte della sua retribuzione correlata positivamente all’excess return, se esso è non negativo, mantenendo la sua retribuzione fissa nel caso in cui l’excess return sia negativo. In tal caso la parte variabile della retribuzione è assimilabile ad una posizione lunga in un’opzione call. Una strategia razionale consiste nel rendere massima la volatilità degli excess return, utilizzando tutto il budget di rischio concesso, elevando così il valore dell’opzione. 36 Q U A D E R N I ES = E[ R R < k ] (8) dove k è un target di excess return. Si tratta quindi del valore atteso degli excess return condizionale al fatto che essi siano inferiori al target. In questo caso la (5) assume la forma: wt +h = wt ES∗ ESt t forward , k ( (9) ) essendo ESt(tforward ,k) la stima in t dell’ES, con orizzonte temporale corrispondente a tforward ed essendo ES* il target di rischio. Un altro indicatore utilizzabile è l’Excess return at Risk (EaR), calcolato al tempo t, con probabilità p, con orizzonte forward e backward rispettivamente pari a tforward ed a tbackward . L’EaR è definito come: (10) EaRt (t forward , tbackward , p) = ER(tbackward , t ) + Re VaR(t forward , p) dove ER(tbackward ,t) è la performance relativa effettivamente conseguita da tbackward a t. L’EaR è, in sostanza, il quantile d’ordine p (tipicamente un quantile all’1% o al 5%) della performance relativa cumulata a partire dall’istante tbackward. Una risk policy fondata sull’EaR si basa sull’imposizione di vincoli sulla (10). Se, in modo realistico ed operativo, si ipotizzano un target EaR* negativo ed un quantile negativo, la (5) diventa: wt +h = wt EaR∗ − ER(tbackward , t ) ( Re VaRt t forward , p ) (11) Le risk policy basate su TE, ReVaR, ES ed EaR sono state sottoposte a verifica empirica, nell’ipotesi in cui le uniche restrizioni sui pesi attivi siano quella che essi abbiano somma nulla e che siano compresi tra un minimo ed un massimo. Utilizzando come campione il periodo dal 17/03/1995 al 17/03/2002, abbiamo fissato una frequenza di ribilanciamento di portafoglio pari a una settimana. In ciascuna data di ribilanciamento (cioè una volta alla settimana) abbiamo generato 1000 portafogli attivi assolutamente casuali, utilizzando i titoli presenti a marzo 2002 nell’indice DJ Eurostoxx 50. In pratica, in ciascuna data di ribilanciamento sono stati generati 1000 vettori, ciascuno contenente 50 posizioni attive (ossia scostamenti percentuali tra portafoglio e benchmark), comprese tra un minimo del -4% ed un massimo del +4%, corrispondenti ai titoli presenti nell’indice. In questo modo, ad ogni data di ribilanciamento sono stati generati 1000 portafogli attivi totalmente casuali, la cui performance nel periodo in esame è stata calcolata utilizzando la serie storica dei titoli costituenti l’indice. Tali portafogli sono interpretabili come il risultato dell’operato di un gestore attivo che non dichiara esplicitamente la strategia da lui perseguita. I portafogli casuali costituiscono il parametro di raffronto per i portafogli che seguono le quattro differenti risk policy in esame. Ad ogni data di ribilanciamento, unitamente a ciascuno di questi portafogli sono stati infatti individuati quattro portafogli che, a partire dalle stesse posizioni attive casuali, seguono le quattro risk policy delineate, riscalando linearmente le posizioni originali. L’orizzonte di calcolo degli indicatori 5. L’esperimento per la valutazione relativa di differenti risk policy 37 Q U A D E R N I 7 di rischio è mensile , ed i target prescelti sono stati: • 1.44% per il TE a 1 mese; • -2.30% per il ReVaR a 1 mese con probabilità 5%, ossia il quantile al 5%; • -1.07% per l’ES a 1 mese con target 0%; • -2.30% per l’EaR, calcolato con tforward pari a 1 mese, tbackward pari a 6 mesi e probabilità 5%. Per assicurare coerenza, almeno in modo approssimativo, tra i target dei differenti indicatori di rischio, si è adottato il seguente criterio: • si è ipotizzato che la distribuzione giornaliera degli excess return sia una t-student con 5 gradi di libertà, un valore in 8 linea con l’evidenza empirica ; • si è fissato il target in termini di TE e si è ipotizzato che l’excess return atteso fosse nullo (ciò, si noti, è coerente con il fatto che i portafogli sono casuali e dunque creati senza particolare vantaggio informativo rispetto al bench9 mark ); il valore del TE è stato quindi utilizzato come deviazione standard della t-student (che ha media nulla); • mediante una simulazione Monte Carlo, campionando dalla t-student individuata, sono stati calcolati i valori di ReVaR, ES ed EaR sull’orizzonte mensile. La stima degli indicatori di rischio è stata effettuata utilizzando il metodo del FB descritto nella sezione 2.0, utilizzando come campione una finestra mobile di 2 anni di dati giornalieri. In pratica, ad ogni data di ribilanciamento, se il vettore di pesi casuali non rispetta i suddetti limiti di rischio, viene aggiustato secondo le regole esposte nella sezione precedente, vincolando le risk policy a non mutare il segno delle posizioni attive (cosa che in linea di principio potrebbe accadere). In questa simulazione, per i portafogli che seguono una risk policy, è come se il gestore cambiasse composizione settimanalmente, controllasse se il portafoglio rispetta i vincoli di rischio e aggiustasse le sue posizioni di conseguenza, attraverso una trasformazione lineare, senza cioè cambiare la struttura del portafoglio. Alla fine del periodo, si valuta l’effetto dell’applicazione delle risk policy per tutte le traiettorie di pesi attivi generati, calcolando le performance ad esse associate e confrontandole con quelle dei portafogli di riferimento, completamente casuali e senza controllo del rischio. Utilizzando una finestra mobile di 2 anni come campione per la stima delle misura di rischio ex-ante, i risultati della verifica riguardano il quinquennio che va dal 17/03/1997 al 17/03/2002. Avendo 1000 risultati per ciascuna risk policy e per la strategia senza 7 Si è utilizzato anche un orizzonte settimanale, cioè di lunghezza pari al periodo di ribilanciamento: non si sono riscontrate differenze significative nei risultati. Per brevità espositiva, quindi, si riportano solo i risultati ottenuti con orizzonte mensile. 8 Sono stati generati casualmente 1000 active frozen portfolio utilizzando l’intera serie storica disponibile dei titoli del DJ Eurostoxx 50. Per ciascun active frozen portfolio sono stati stimati i gradi di libertà della corrispondente t-student utilizzando la procedura delineata da Koedjik et al. (1998): la loro media è risultata di poco superiore a 5, valore poi prescelto per la simulazione. Si è inoltre verificato che la media degli excess return di tali portafogli casuali fosse nulla. 9 Ciò è stato verificato utilizzando la procedura brevemente descritta nella nota precedente. 38 Q U A D E R N I controllo, sono stati calcolati i seguenti indicatori ex-post di sintesi sui rendimenti di periodo annualizzati: • la media; • il quantile al 5%; • l’indice di asimmetria (skewness); • la downside deviation (DD), un indicatore di rischio downside calcolato come radice quadrata del momento parziale inferiore di ordine 2 dal polo 0, ossia DD = 2 1 M min(0, ceri )) ( ∑ M i =1 (12) dove ceri è l’excess return cumulato nel periodo quinquennale nel caso i e M è pari a 1000; • l’upside deviation (UD), un indice della capacità di generare extrarendimenti, dato dalla radice quadrata del momento parziale superiore di ordine 2 dal polo 0, ovvero UD = 2 1 M max(0, ceri )) ( ∑ M i =1 (13) • il rapporto tra upside deviation e downside deviation (per brevità, ratio UD/DD), utile per individuare le risk policy con il miglior rapporto tra capacità di generare excess return positivi e capacità di contenere le perdite relative (sono ovviamente preferibili risk policy con un rapporto significativamente maggiore di 1); si tratta di un’alternativa all’Information Ratio che meglio si adatta a distribuzioni potenzialmente asimmetriche. Si sottolinea che i risultati dell’applicazione delle risk policy sono stati calcolati utilizzando le serie storiche effettive dei titoli del DJ Eurostoxx 50 (la simulazione mediante FB è stata impiegata solo per la stima delle misure di rischio ex-ante). I risultati principali sono riportati nella Tabella 2, che mostra gli indicatori ex-post, calcolati sulle performance relative, per ciascun tipo di risk policy in analisi e per i portafogli di riferimento, che non seguono alcuna risk policy. Un primo sguardo alla Tabella 2 mette in luce come le uniche risk policy che mostrano apprezzabili differenze rispetto alla situazione di assenza di controlli sul rischio siano le risk policy basate sull’ES e sull’EaR. In tutti i casi, peraltro, la media è prossima allo zero. È quindi rilevante distinguere le risk policy i cui risultati si differen- 6. I risultati Tab 2 Tabella 2 tipo Statistiche descrittive delle performance relative di differenti tipologie di risk policy media quartile skewness downside upside UD/DD (5%) deviation (DD) deviation (UD) Nessuna (assenza di risk policy) -0.01% -3.62% 0.16 1.54% 1.60% 1.037 TE -3.67% 0.13 1.64% 1.65% 1.006 -0.04% ReVaR (5%) -0.12% -3.66% 0.15 1.68% 1.60% 0.956 ES -0.02% -1.56% 0.11 0.71% 0.71% 0.992 EaR -0.06% -2.64% 1.09 1.28% 1.65% 1.290 Statistiche descrittive delle performance relative (cioè differenziali rispetto al benchmark) delle differenti risk policy, confrontate con il caso di assenza di controllo del rischio. I risultati riportati nella tabella sono calcolati sulla distribuzione dei rendimenti annualizzati delle differenti risk policy conseguiti su un periodo di 5 anni. 39 Q U A D E R N I ziano significativamente da quelli ottenuti nella situazione di assenza di risk policy. A tal fine si è innanzitutto effettuato un test t sulle differenze tra i risultati medi nel caso sia presente una risk policy rispetto al caso in cui sia assente. Poiché il test t presuppone che i dati siano normali, si è verificato tramite il test di Jarque-Bera che, con un livello di significatività del 5%, le differenze di performance relativa sono distribuite in modo approssimativamente normale. I risultati del test t, riportati nella Tabella 3, portano ad accettare l’ipotesi nulla che la performance media relativa non muta significativamente a causa dell’applicazione di una delle risk policy considerate. Tabella 3 Test t applicato alle differenze tra le performance relative annualizzate di ciascuna delle risk policy e la performance relativa associata al caso di assenza di controllo del rischio. L’ipotesi nulla è che la differenza tra le medie sia zero, sicché un P-value superiore al livello di significatività prescelto (5% o 10%), comportando l’accettazione dell’ipotesi nulla, indica che le medie in esame non appaiono significativamente differenti. Tabella 4 Test di Kolmogorv-Smirnov applicato alle performance relative annualizzate delle differenti risk policy, ciascuna individualmente confrontata con il caso di assenza di controllo del rischio. Il test di Kolmogorov-Smirnov (KS) si propone di determinare se due campioni sono distribuiti in modo significativamente differente. L’ipotesi nulla è che la distribuzione sia la stessa. Pertanto, un Pvalue basso, inferiore al livello di significatività prescelto, indica che l’evidenza statistica porta al rifiuto dell’ipotesi nulla e pertanto le due distribuzioni possono essere considerate differenti. Il test KS-test è di tipo non-parametrico e quindi non presuppone alcuna precisa forma per la distribuzione dei dati in esame. 40 Tab 3 Confronto tra le medie degli excess return tipo di risk policy statistica T P-value TE vs. assenza di risk policy 0.364 71.57% ReVaR (5%) vs. assenza di risk policy 1.125 26.07% ES vs. assenza di risk policy 0.216 82.89% EaR vs. assenza di risk policy 0.562 57.44% A questo punto è naturale chiedersi se sia la forma della distribuzione a mutare, in seguito all’applicazione di una risk policy. Si è pertanto verificato, tramite il test non-parametrico di KolmogorvSmirnov, se le distribuzioni degli excess return ottenute applicando le differenti risk policy risultano o meno significativamente differenti dalla distribuzione che si ha in assenza di qualsiasi controllo del rischio. Nella Tabella 4 si riportano i risultati del test di KolmogorvSmirnov. Essi mostrano come la risk policy basata sull’ES e quella basata sull’EaR siano le uniche a differenziarsi nettamente (con il 5% di significatività), dal caso di assenza di controllo sul rischio. Tab 4 tipo di risk policy Confronto tra le distribuzioni degli excess return statistica K-S P-value 0.058 6.7% ReVaR (5%) 0.049 17.6% ES 0.211 0.0% EaR 0.179 0.0% TE La caratteristica che noi reputiamo più importante per una risk policy è però la sua capacità di limitare performance negative senza limitare l’attitudine a produrre performance positive. È in questo senso che una risk policy estrinseca la sua capacità di produrre valore aggiunto. Da un punto di vista formale questa caratteristica può essere rappresentata dal ratio UD/DD, riportato nell’ultima colonna della Tabella 2. Tanto più alto è tale rapporto, tanto maggiore è la capacità di generare excess return positivi a fronte della capacità di limitare le perdite relative. Per analizzare in modo più dettagliato questa caratteristica delle varie risk policy, abbiamo calcolato un intervallo di confidenza per il ratio UD/DD mediante bootstrap con il metodo dei percentili di Efron, una tecnica non-parametrica che non implica alcuna ipotesi sulla forma della distribuzione dei dati. La successiva Tabella 5 riporta i risultati. Essi mostrano come la risk policy basata Q U A D E R N I sull’EaR sia l’unica a presentare un ratio UD/DD significativamente e nettamente superiore a 1. Le altre risk policy presentano inoltre un intervallo di confidenza del ratio UD/DD i cui limiti inferiori e superiori sono pressoché uguali (per la precisione leggermente minori) di quelli del caso di assenza di risk policy. Tab 5 Tabella 5 Intervallo di confidenza per il ratio UD/DD associato alle performance relative tipo di risk policy limite inferiore (intervallo di confidenza al 95%) limite superiore (intervallo di confidenza al 95%) Nessuna (assenza di risk policy) 0.931 1.156 TE 0.908 1.113 ReVaR (5%) 0.865 1.058 ES 0.888 1.101 EaR 1.150 1.433 L’unica risk policy che porta ad ottenere una distribuzione degli excess return asimmetrica, con una significativa diminuzione del rischio down-side, è dunque quella basata sull’EaR, cioè l’unica che combina un indicatore di rischio ex-ante con la performance relativa ex-post. La Figura 2, confrontando la distribuzione associata a tale risk policy con quella del portafoglio di riferimento (privo di risk policy), consente di apprezzare in modo euristico l’impatto della risk policy sulla forma della distribuzione. Per quanto concerne invece la risk policy basata sull’ES, essa pur contenendo il rischio, limita sensibilmente la capacità di conseguire elevati excess return. Limiti inferiori e superiori di un intervallo di confidenza al 95% per il ratio UD/DD, calcolato mediante bootstrap con il metodo dei percentili di Efron (cioè in modo non-parametrico), utilizzando 1000 ricampionamenti. L’analisi della distribuzione del rapporto UD/DD, effettuata grazie all’intervallo di confidenza calcolato, serve per comprendere se il rapporto tra le potenzialità di guadagno, rappresentate dall’UM e i rischi di perdita, corrispondenti allo SM siano o meno favorevoli. Un ratio UD/DD, significativamente superiore a 1, come quello associato all’EaR, indica che i potenziali guadagni più che compensano le potenziali perdite. Figura 2 Confronto tra la distribuzione empirica di probabilità degli excess return della risk policy basata sull’EaR e la distribuzione empirica di probabilità associata alla gestione in assenza di controlli sul rischio. 4,5% Frequenza relativa 4,0% 3,5% 3,0% 2,5% 2,0% 1,5% 1,0% 0,0% -6,0% -5,4% -4,7% -4,1% -3,4% -2,8% -2,1% -1,5% 0,8% 0,2% 0,5% 1,1% 1,8% 2,4% 3,1% 3,7% 4,3% 5,0% 5,6% 6,3% 6,9% 7,6% 8,2% 8,9% 9,5% 10,2% 0,5% Excess return Nessuna risk policy Risk Policy basata sull'EaR Una spiegazione circa la maggiore efficacia della risk policy basata sull’EaR può essere la seguente. Applicando tale risk policy si consente al gestore che ha realizzato rendimenti positivi tra tbackward e t di “osare” di più, conseguendo extrarendimenti che sono invece preclusi ai gestori vincolati a misure di rischio che non tengono conto della performance passata. Il fatto di utilizzare una metrica di rischio “con memoria”, come l’EaR, permette poi di sfruttare la debole, ma spesso significativa, positiva autocorrelazione dei rendimenti. In altri termini, è possibile trarre beneficio dalla presenza di eventuali trend. 41 Q U A D E R N I 7. Conclusioni 42 In questo lavoro vengono esaminate e discusse le fasi essenziali del processo di risk management, assumendo il punto di vista di una società di asset management che effettua una gestione attiva a fronte di un benchmark. Si è concentata quindi l’attenzione sulla definizione della risk policy. Sono state esaminate differenti politiche di gestione del rischio relativo, tutte basate sul medesimo modello di stima del rischio ex-ante, il FB. Successivamente si è effettuata una verifica empirica, considerando portafogli azionari europei che soddisfano alcune restrizioni di composizione. L’esame dei risultati della verifica empirica sono piuttosto netti. La risk policy basata sull’EaR, un’indicatore che combina una misura di performance (ex-post) e una misura di rischio down-side (exante), risulta dominante rispetto alle alternative considerate. Essa presenta infatti una più elevata capacità di generare excess return positivi, limitando al contempo il rischio down-side. In altri termini, tale risk policy è efficace in quanto: • diminuisce il rischio relativo down-side; • non riduce la capacità di produrre performance migliori del benchmark. Le altre risk policy esaminate non hanno impatto statisticamente significativo sulle performance. Ciò vale, si noti, anche per la risk policy basata sul tracking error. Essa, nonostante sia d’impiego diffuso tra gli asset manager, conduce a risultati praticamente indistinguibili rispetto a quelli ottenibili senza alcuna politica di controllo del rischio. Q U A D E R N I Artzner, P., Delbaen, F., Eber, J.-M., Heath, D. (1997). Thinking coherently. Risk, November. Barone-Adesi, G., Giannopoulos, K., Vosper, L. (1999). VaR without correlations for non-linear portfolios. Journal of Futures Markets, 19, August. (http://www.lu.unisi.ch/istfin/papersindex.htm). Barone-Adesi, G., Giannopoulos, K., Vosper, L. (2000). Filtering Historical Simulation. Backtest Analysis. Institute of Finance, University of Southern Switzerland, Working Paper. (http://www.lu.unisi.ch/istfin/papers/index.htm). Efron, B. and Tibshirani, R. (1998), An Introduction to the Bootstrap, 2nd edn. Chapman & Hall, New York.. Gupta, F., Kartinen, S. (2000). Bound to rebalance. Risk, June. Koedjik, K., Huisman, R., Pownall, R. (1998). VaR-x: fat tails in financial risk management. Journal of Risk, Volume 1, N. 1. Zenti, R., Pallotta, M. (2000). Historical simulation and value at risk calculation for asset managers. Atti dell’ “Eighth International Conference Forecasting Financial Markets”, Center for International Banking, Economics and Finance, London, 30 May -1 June 2001. (http://papers.ssrn.com/paper.taf?abstract_id=251669). Riferimenti bibliografici 43 Massimo di Tria RAS SpA Michele Gaffo RAS SpA Una nuova misura di rischio relativo: Adaptive ReVaR (A_ReVaR) Q U A D E R N I 46 Q U A D E R N I Negli ultimi anni, seguendo il successo avuto in ambito bancario, anche nel mondo dell’asset management ha rivestito sempre mag1 giore importanza la tematica del risk management . Questo inteso sia come strumento di supporto e controllo della gestione sia come processo a “protezione” del capitale assegnato dalla clientela alle società di gestione del risparmio attraverso l’uso di alcuni indicatori di risk management nel processo di scelta finanziaria. Si è così passati da un approccio nel quale il controllo della volatilità assoluta e relativa rispetto ad un benchmark veniva fatto solamente ex-post (misure tradizionali di standard deviation e tracking error) ad analisi molto più evolute che cercano di modellizzare e prevedere ex-ante i rischi a cui il portafoglio sarà esposto (misure di Value at Risk e Relative Value at Risk, nel seguito VaR e ReVaR). Le metodologie generalmente adottate per il calcolo di queste statistiche possono essere suddivise in tre diverse categorie: • approccio parametrico (per esempio RiskMetrics o modelli fattoriali stile Barra) • approccio MonteCarlo • approccio historical Le ipotesi sottostanti i tre approcci sono molto diverse e qui ne diamo un breve riassunto. Nell’approccio parametrico (RiskMetrics) vengono fatte assunzioni precise circa la distribuzione dei logaritmi dei ritorni dei fattori di rischio (usualmente ipotesi di gaussianità) e circa l’indipendenza e l’uguaglianza in distribuzione dei ritorni del portafoglio (nel momento in cui si ricorre alla regola della radice dell’holding period, come verrà ripreso nel paragrafo 2.1). Questo consente di giungere ad una funzione perdita assoluta o relativa distribuita in modo normale e quindi caratterizzata completamente dai primi due momenti. La varianza è generalmente stimata adottando una tecnica exponential weighted moving average (EWMA). Nei modelli fattoriali ogni asset è regredito su un insieme di fattori di rischio economico-finanziari e vengono stimate le sensibilità rispetto ad ogni fattore considerato dal modello. Questa metodologia trova fondamento nel modello APT sviluppato da Ross. Permangono le ipotesi di normalità prima accennate; grossa attenzione va posta circa la potenziale misspecificazione del modello fattoriale di volta in volta adottato. Per entrambe le metodologie svolge un ruolo cruciale la matrice di varianze-covarianze visto che la perdita è funzione dei primi due momenti della distribuzione. Inoltre, sempre per entrambe, la media è generalmente posta uguale a zero, almeno per holding period brevi. 1. Introduzione 1 Gli autori hanno realizzato il presente lavoro quando operavano in Fineco Investimenti Sgr Spa. Desiderano ringraziare per la preziosa collaborazione il Risk Management ed il Quantitative Asset Allocation Team di Fineco Investimenti Sgr Spa. Un ringraziamento particolare va inoltre ad Andrea Beltratti, Paolo Nasi e Andrea Resti. 47 Q U A D E R N I L’approccio MonteCarlo rappresenta una strada semiparametrica; ad ogni asset è associata una funzione di pricing dipendente da diversi risk factor. Viene modellizzata la struttura di volatilità e di codipendenza dei fattori di rischio solitamente tramite una distribuzione normale multivariata. A questo punto, campionando da questa distribuzione vengono generati N scenari per i fattori di rischio ed in corrispondenza di ogni scenario viene ricalcolato il valore del portafoglio ottenendo così in modo empirico la distribuzione della funzione perdita. Il modello historical è in sostanza equivalente all’approccio MonteCarlo ma gli scenari per i fattori di rischio sono scenari storici. A questo approccio sono spesso accompagnate tecniche di bootstrapping al fine di generare un numero elevato di scenari a partire dai dati storici. Questa metodologia è non parametrica poiché non fa ipotesi sulla forma della distribuzione dei fattori di rischio considerati. Nella sua formulazione standard i maggiori problemi sono che usa un solo sample path (quello storico che si è effettivamente realizzato), il rischio ha una forte componente time varying che rischia di non essere colta ed è potenzialmente difficile cogliere i break strutturali. L’approccio MonteCarlo e quello historical, essendo tecniche che prevedono la full evaluation, hanno il pregio di essere più flessibili di un approccio parametrico (soprattutto nella tipologia di strumenti finanziari analizzabili). Questa flessibilità però comporta il prezzo della elevata onerosità computazionale che porta ad esempio ad ottenere con una certa difficoltà misure di scomposizione del rischio ed analisi di tipo what if. Per una approfondita analisi delle diverse metodologie ed un loro accurato confronto rimandiamo ad Alexander (2001) e Jorion (2000). A differenza di quanto accade nel mondo bancario, nell’industria del risparmio gestito non esistono (o perlomeno non ancora) obblighi di comunicazione ad un organo di vigilanza circa verifiche sul backtesting dei propri modelli di rischio. Questo provoca una potenziale sottovalutazione del problema ed una eccessiva confidenza nei risultati di rischio ottenuti (sia tramite soluzioni interne sia attraverso utilizzo di software di terze parti). In realtà, solo attraverso una seria attività di backtesting è possibile giudicare il buono/cattivo comportamento del proprio modello e quindi l’aderenza delle stime fatte ex-ante con i valori realizzati ex-post. L’approccio che qui presentiamo (Adaptive ReVaR, sezione 2) trae spunto dall’approccio parametrico standard ma allo stesso tempo cerca di superare le critiche più pesanti a cui esso è soggetto. L’obiettivo è quello di mantenere tutti i punti di forza di un modello parametrico superandone i limiti attraverso un processo di “calibrazione” che si poggia su analisi di backtesting. Nella sezione 3 verranno messi in evidenza i punti di forza e di debolezza del modello adottato mentre la sezione 4 è dedicata alle analisi empiriche. La sezione 5 introduce alcuni indicatori di scomposizione del rischio e la 6 è dedicata alle conclusioni ed ai futuri potenziali sviluppi. 2. Adaptive ReVaR 48 In quanto segue verrà data particolare enfasi alle misure di rischio relativo essendo l’asset management maggiormente interessato a questo tipo di indicatori (almeno per le gestioni con benchmark dichiarato). La metodologia è comunque applicabile anche Q U A D E R N I nel caso di analisi di rischiosità assoluta sia pure con qualche accorgimento in più. Quest’ultimo aspetto verrà approfondito nel paragrafo 3.4. Per tutti gli approcci parametrici è possibile individuare una struttura comune, essi infatti generalmente pervengono ad una formula per il ReVaR del tipo: [ ] Re VaR(T )(1−α , H ) = − zα ( p(T ) − b(T )) Σ (T )( p(T ) − b(T )) T 1/ 2 2.1 L’approccio parametrico "naïve" 2.2 L’Adaptive ReVaR (A_ReVaR) (1) H dove: 1-a = livello di significatività H = Holding Period (orizzonte temporale) za = percentile a-esimo della normale standard p(T) = vettore pesi del portafoglio in T b(T) = vettore pesi del benchmark in T S(T) = Matrice varianze-covarianze in T dei fattori di rischio Normalmente il rendimento relativo atteso m viene ipotizzato uguale a zero (e questo costituisce fonte di critiche all’approccio tradizionale, specie per valori di H superiori ai 10 giorni). S è spesso calcolata a partire da dati giornalieri o settimanali con approccio EWMA e H è fissato di conseguenza. L’utilizzo della regola della radice di H si poggia sull’ipotesi di rendimenti del portafoglio indipendenti ed identicamente distribuiti (una delle maggiori critiche all’approccio parametrico standard). Vale la pena osservare inoltre che il ricorso a questa regola implicitamente presuppone essere trascurabili le non linearità presenti in portafoglio. Per la stragrande maggioranza dei fondi comuni a dire il vero, questa situazione è una prassi visti anche i limiti piuttosto stringenti posti dalle autorità di vigilanza sull’utilizzo di strumenti derivati. Il ReVaR(1-a, H) indica dunque la perdita massima rispetto a benchmark che il portafoglio potrà subire in un orizzonte di H giorni (o settimane) con una probabilità 1-a. Questo significa che un buon modello dovrà sottostimare la perdita effettiva del portafoglio rispetto al benchmark nell’a.100% dei casi. Partendo da questa semplice osservazione possiamo modificare l’approccio tradizionale come spiegato nel paragrafo successivo. L’idea alla base del modello presentato è quella di ampliare l’approccio parametrico tradizionale combinandolo con un approccio storico. È infatti possibile calibrare il modello sul passato ed imporre, condizionatamente a questo, un numero di eccezioni (numero di osservazioni in cui la performance relativa è minore del ReVaR) uguale a quelle teoriche attese. L’Adaptive ReVaR assume dunque la forma: [ ] A _ Re VaR(T )(1−α , H ) = − kr (T ) zα ( p(T ) − b(T )) Σ (T )( p(T ) − b(T )) T 1/ 2 H (2) Il parametro kr(T) ha l’obiettivo di correggere il modello e quindi di far ottenere un numero di eccezioni ex-post compatibile con il livello a teorico. Come si vedrà nella sezione successiva il modello è stato analizzato sia lavorando con dati giornalieri sia con dati settimanali. Per 49 Q U A D E R N I ragioni di chiarezza espositiva qui descriviamo il processo di stima di kr, che avviene in quattro passi, utilizzando osservazioni giornaliere, H = 10 giorni ed a = 5%: a) attraverso la (1) vengono calcolati i valori di ReVaR “naïve” per X giorni precedenti (quindi da T-10 a T-10-X +1), mantenendo costanti i vettori b(T) e p(T) e ricalcolando in corrispondenza di ogni osservazione passata una nuova S(t) (si veda la sezione 3 per suggerimenti sulla corretta dimensione di X). b) Sullo stesso periodo X calcoliamo le effettive performance relative realizzate dal portafoglio (p(T)-b(T)) ottenendo così le due serie storiche: - ReVaR(t)(95%,10gg) per t=T-10 , ... , T-10-X+1 - RePerf(t)(10gg) per t=T-10 , ... , T-10-X+1 Si noti che nel fare questo vanno mantenuti costanti i pesi p(T) e b(T). c) Vogliamo che il modello garantisca il 5% di eccezioni nel passato, quindi: kr(T) : # RePerf(t)(10gg) < kr(T) ReVaR(t)(95%,10gg) = 5% 2 (3) Il kr(T) così stimato sarà il valore da utilizzare per il calcolo del ReVaR(T)(95%,10gg) : A _ Re VaR(T )( 95%,10 gg ) = −1.645 kr (T ) [( p(T ) − b(T )) Σ(T )( p(T ) − b(T ))] T 1/ 2 10 (4) d) Per il giorno T+1 sarà necessario ripetere il processo di stima ma ovviamente utilizzando i nuovi pesi del portafoglio e del benchamark, p(T+1) e b(T+1) e le osservazioni aggiornate a T+1. È ovvio dunque che kr è una funzione di: kr = f ((p-b) , H , T , X , a ) (5) La Figura 2.2.1 mostra graficamente come avviene il processo di stima: Figura 2.2.1 Rispetto al metodo tradizionale, kr ha l’obiettivo di ottenere un modello di rischio con eccezioni out of sample vicine al livello teorico a. Si è esposta l’analisi per la stima del kr da applicare alla coda sinistra degli extra rendimenti. In realtà allo stesso modo può essere stimato un parametro che tenga conto della coda destra. Questo consente di stimare una misura di Massimo Profitto Atteso. Interessanti considerazioni potrebbero sorgere dal confronto tra il valore assoluto dell’Adaptive ReVaR ed il Massimo Profitto Atteso. Questo tema rappresenta un futuro fronte di lavoro per chi scrive. È importante sottolineare che l’attività di backtesting a cui i modelli dovrebbero essere soggetti non si esaurisce nel verificare il rispetto dei limiti di tracking error; non può quindi limitarsi a verifi2 50 Con la notazione # si indica “numero di casi in cui”. Q U A D E R N I care se la volatilità ex-ante ha ben previsto la volatilità ex-post. Questo perché solitamente i modelli lavorano nell’ipotesi di m uguale a zero e quindi potrebbero non cogliere effetti di drift (particolarmente pericolosi quelli minori di zero). Per questo motivo una corretta attività di backtesting dovrebbe essere condotta incrociando la perdita massima prevista con le performance relative effettivamente realizzate. Il metodo di stima di kr utilizza i valori di perdita relativa stimati ex-ante e quelli effettivamente realizzati ex-post. Ha dunque anche l’obiettivo di cogliere il fatto che m è variabile ed in generale diversa da zero. 3. Punti di forza e di debolezza dell’A_ReVaR Nella sezione 2 abbiamo visto come l’A_ReVaR sia una misura condizionata di valore a rischio, dove il fattore di correzione è stimato con un approccio storico. Il tentativo è quello di preservare i vantaggi dell’approccio parametrico sfruttando allo stesso tempo alcune utili informazioni contenute nelle serie storiche. Quali sono quindi i punti di forza e di debolezza dell’A_ReVaR? Dall’approccio parametrico eredita innanzitutto la semplicità. I potenti strumenti del calcolo matriciale assicurano chiarezza ed immediatezza nell’implementazione. Un secondo vantaggio risiede nella velocità computazionale. Inoltre, le misure di Marginal ed Incremental A_ReVaR sono facilmente ricavabili come nell’approccio parametrico “naïve”. A questo proposito, nella sezione 5 vedremo in dettaglio quali sono le peculiarità delle relazioni tra tali misure di rischio e l’A_ReVaR. D’altra parte, l’approccio parametrico ipotizza rendimenti normali ed i.i.d.; le distribuzioni dei rendimenti di molte attività finanziarie però evidenziano problemi di asimmetria e di eccesso di curtosi. A questo proposito il fattore kr, che caratterizza l’A_ReVaR, fornisce una soluzione di massima al problema estrapolando dal passato le informazioni necessarie per correggere la stima del valore a rischio in presenza di fat tails della distribuzione dei rendimenti. Un ulteriore vantaggio dell’A_ReVaR è legato alla sua capacità di essere uno strumento utile anche per l’allocazione del capitale di rischio. A differenza del ReVaR “naïve” infatti, esso si caratterizza per un processo di auto-calibrazione determinato dal fattore kr. Ciò consente all’A_ReVaR di non incappare in un’altra critica generalmente mossa all’approccio tradizionale, ossia la possibilità di sovrastimare sistematicamente il rischio anche per lunghi periodi di tempo. Uno dei principali problemi è invece rappresentato dall’inadeguatezza dell’A_ReVaR, così come del metodo delta-normal, a misurare il rischio di strumenti non-lineari, per esempio le opzioni. Tuttavia, come già detto, l’uso limitato di strumenti derivati per motivi regolamentari nelle Sgr italiane rende meno pesante il problema in tale contesto. Infine, è necessario evidenziare che la metodologia di stima di kr si basa sull’ipotesi che il passato rappresenti correttamente l’immediato futuro. Di primo acchito questa ipotesi potrebbe apparire più severa e criticabile di quanto non lo sia nella realtà operativa, almeno per quanto riguarda le analisi relative. Il fattore di correzione 3.1 A_ReVaR e ReVaR "naïve" a confronto 51 Q U A D E R N I che caratterizza l’A_ReVaR nel periodo t è calcolato in base alle eccezioni del ReVaR “naïve” su un campione rolling (t-H-X+1;t-H) di ampiezza X. Nel caso in cui tale campione sia affetto da un numero straordinariamente alto/basso di eccezioni, si ha che la stima dell’A_ReVaR in t è mal condizionata. Tuttavia, il calcolo di kr è condizionato al numero delle eccezioni e non alla loro entità e ciò contribuisce generalmente ad attenuare il problema. Inoltre, nel calcolo del valore a rischio di un portafoglio rispetto al suo benchmark è molto raro osservare un periodo particolarmente denso di eccezioni a causa del fatto che gli shock transitori (e permanenti) ai prezzi tendono a ripercuotersi su portafoglio e rispettivo benchmark in maniera non troppo dissimile. Nei paragrafi 3.2, 3.3 e 3.4 discuteremo in maniera dettagliata questa spinosa questione. 3.2 52 A_ReVaR, frequenza delle osservazioni e holding period Il calcolo del valore a rischio può essere effettuato su diversi orizzonti temporali. Escludendo le misure intra-day, tipicamente vengono presi in considerazione holding period compresi tra un giorno ed un mese. Da un punto di vista teorico, sarebbe auspicabile che la frequenza delle osservazioni utilizzate fosse sempre coerente con l’hoding period. Per fare un esempio, il processo di stima del valore a rischio ad una settimana dovrebbe prendere in input rendimenti a frequenza settimanale e lo stesso tipo di coerenza dovrebbe essere richiesta per il calcolo del fattore kr. Purtroppo, però, nella pratica operativa esistono seri problemi di scarsità dei dati e questo spesso impone l’uso di serie storiche a frequenza giornaliera anche in presenza di holding period più ampi. Quindi, siamo spesso costretti ad utilizzare dati a frequenza giornaliera sia quando vogliamo calcolare l’A_ReVaR ad un giorno sia quando, pur in presenza di un orizzonte temporale diverso, non abbiamo dati a sufficienza. Analizziamo i due casi separatamente. Se il nostro holding period è di un giorno, l’utilizzo di dati a frequenza giornaliera non presenta problemi di coerenza. Tuttavia, gli stessi dati vengono utilizzati anche per calcolare il fattore di correzione kr e ciò potrebbe comportare alcuni problemi. Ipotizziamo di essere all’indomani di una crisi che provochi uno shock transitorio al mercato, potremmo per esempio pensare al mese di settembre 2001. In un simile contesto, i limiti di valore a rischio potrebbero essere superati per alcuni giorni consecutivi e ciò inficierebbe i valori di A_ReVaR dei periodi immediatamente successivi dato che kr sarebbe calcolato su un periodo anomalo e di conseguenza condizionerebbe male il calcolo del valore a rischio. Torneremo su questo punto nei paragrafi 3.3 e 3.4 dedicati rispettivamente alle connessioni tra A_ReVaR e tracking error e all’applicabilità della nostra metodologia alla stima del VaR. Qui ci basti dire che questo problema non inficia il calcolo dell’A_ReVaR nella pratica operativa, in quanto gli shock si ripercuotono generalmente sia sul portafoglio sia sul benchmark annullandosi a vicenda o almeno attenuandosi fortemente nelle analisi relative. A questo proposito si veda la Figura 3.2.1 che mostra come in termini relativi gli shock di settembre 2001 non abbiano comportato problemi nel calcolo del valore a rischio sia nella metodologia tradizionale sia nell’A_ReVaR, sebbene un VaR “naïve” sul benchmark dello stesso portafoglio faccia registrare ben 5 eccezioni su 20 giorni nel medesimo periodo. Il portafoglio utilizzato in questo esempio (e nei suc- Q U A D E R N I cessivi della presente sezione, tranne diversa specificazione) investe il 50% nell’indice MSCI US, il 30% nel MSCI Europe ed il 20% nel MSCI Japan e si confronta con un benchmark costituito dal MSCI World. I parametri e le caratteristiche dei campioni utilizzati per questo grafico e per quelli che seguiranno sono coerenti con quanto suggerito nella sezione 4 dedicata all’analisi empirica ed all’attività di backtesting. Il livello di confidenza è pari al 95%. Figura 3.2.1 0,008 A_ReVaR e ReVaR a confronto Dati giornalieri -- HP 1 giorno -- TE contenuto- Liv Conf 95% Eccezioni: A_ReVaR = 5.020% , ReVaR = 1.948% 0,006 0,004 0,002 0 -0,002 -0,004 -0,006 -0,008 gen-91 gen-92 gen-93 gen-94 gen-95 gen-96 gen-97 gen-98 gen-99 gen-00 gen-01 gen-02 Performance ReVaR A_ReVaR Ipotizziamo adesso di voler calcolare l’A_ReVaR su un orizzonte temporale superiore ad un giorno, per esempio 10 giorni (2 settimane lavorative). In questo caso dovremmo utilizzare serie storiche di rendimenti a frequenza coerente o per lo meno settimanale, ma ciò spesso non è possibile a causa della mancanza di dati. Pertanto, nella pratica operativa si tende ad utilizzare dati a frequenza giornaliera e questa, a nostro avviso, può essere considerata una buona soluzione per le analisi relative. Le Figure 3.2.2 e 3.2.3 mostrano ReVaR “naïve” e A_ReVaR sullo stesso portafoglio considerato nella Figura 3.2.1 nei casi in cui, ceteris paribus, i rendimenti abbiano frequenza giornaliera o settimanale. Figura 3.2.2 0,02 A_ReVaR e ReVaR a confronto Dati giornalieri -- HP 10 giorni -- TE contenuto- Liv Conf 95% Eccezioni: A_ReVaR = 5.556% , ReVaR = 2.222% 0,015 0,01 0,005 0 -0,005 -0,01 -0,015 -0,02 ago-91 ago-92 ago-93 ago-94 ago-95 ago-96 ago-97 ago-98 ago-99 ago-00 ago-01ago-02 Performance ReVaR A_ReVaR In entrambi i casi, l’A_ReVaR funziona molto bene ed è ben calibrato. Come vedremo nel paragrafo 3.4, invece, nelle analisi assolute (VaR) il mancato rispetto della coerenza tra frequenza dei dati ed holding period può comportare costi non trascurabili. Quando le serie storiche a disposizione sono abbastanza lun53 Q U A D E R N I Figura 3.2.3 A_ReVaR e ReVaR a confronto Dati settimanali -- HP 2 settimane (10 giorni) -- TE contenuto - Liv Conf 95% Eccezioni: A_ReVaR = 5.104% , ReVaR = 2.204% 0,03 0,02 0,01 0 -0,01 -0,02 -0,03 feb-86 feb-87 feb-88 feb-89 feb-90 feb-91 feb-92 feb-93 feb-94 feb-95 feb-96 feb-97 feb-98 feb-99 feb-00 feb-01 feb-02 Performance ReVaR A_ReVaR ghe è comunque buona norma uniformare la frequenza dei dati all’holding period. 3.3 Connessioni tra A_ReVaR e tracking error Figura 3.3.1 A_ReVaR e ReVaR a confronto Dati giornalieri -- HP 10 giorni -- TE elevatoLiv Conf 95% Eccezioni: A_ReVaR = 4.896% , ReVaR = 1.701% Nella sezione precedente abbiamo visto come l’A_ReVaR non risenta particolarmente dell’incoerenza tra frequenza dei rendimenti e holding period. In particolare, nei casi in cui non abbiamo abbastanza dati a disposizione, possiamo usare dati a frequenza giornaliera anche per orizzonti temporali più ampi. Abbiamo anche detto che questo è possibile perché gli shock ai prezzi solitamente si ripercuotono sia sul portafoglio sia sul rispettivo benchmark. Naturalmente questo è vero nella misura in cui il tracking error tra portafoglio e benchmark sia sufficientemente contenuto. Appare ovvio che una gestione fortemente indipendente dal benchmark con un tracking error particolarmente alto risulterebbe meno immune rispetto al problema dell’incoerenza tra frequenza dei dati e holding period. Da un punto di vista empirico, tuttavia, emerge che anche ai livelli maggiori di tracking error osservabili nel mondo del risparmio gestito, l’A_ReVaR fa registrare ottime performance a prescindere dal fatto che sia rispettata o meno la coerenza tra frequenza dei dati ed orizzonte temporale. La Figura 3.3.1 mostra l’andamento di ReVaR e A_ReVaR in un caso in cui il tracking error è decisamente elevato poiché il portafoglio investe il 10% nel MSCI US, il 60% in MSCI Europe ed il 30% in MSCI Japan e si confronta con un benchmark coincidente con l’indice MSCI World. 0,06 0,04 0,02 0 -0,02 -0,04 -0,06 -0,08 ago-91 ago-92 ago-93 ago-94 ago-95 Performance 54 ago-96 ago-97 ago-98 ReVaR ago-99 ago-00 ago-01 ago-02 A_ReVaR Q U A D E R N I La rischiosità relativa di questo portafoglio è circa quattro volte quella del portafoglio precedentemente analizzato. I test sono stati condotti anche su situazioni più estreme pervenendo comunque ad ottimi risultati. Finora abbiamo parlato esclusivamente di A_ReVaR, senza mai chiederci se e come la nostra metodologia è applicabile anche alla stima del VaR. In altri termini, ha senso proporre una misura di A_VaR? Quali sono le principali differenze rispetto all’analisi relativa? Bisogna adottare ulteriori precauzioni per ottenere risultati soddisfacenti dal fattore di correzione k anche in un contesto in cui si vuole misurare il valore a rischio in termini assoluti? L’idea di fondo della nostra metodologia è facilmente applicabile anche alla stima del VaR. Si perviene dunque facilmente alla forma: [ A _ VaR(T )(1−α , H ) = − kv (T ) zα p(T )T Σ (T ) p(T ) ] 1/ 2 3.4 Applicabilità della metodologia alla stima del VaR (A_VaR) (6) H Tuttavia, in questo contesto i problemi di cui abbiamo discusso nel paragrafo 3.2 appaiono amplificati. In particolare, il rischio che il fattore kv condizioni in maniera sbagliata la stima del valore a rischio è più pronunciato. Soprattutto quando si utilizzano dati a frequenza giornaliera, infatti, le probabilità di osservare un numero anomalo di eccezioni contigue aumentano in maniera significativa. Ogni shock transitorio ai prezzi può influire eccessivamente sull’A_VaR. Per esemplificare il problema, riprendiamo l’esempio della Figura 3.3.2 calcolando questa volta il VaR e l’A_VaR sull’indice MSCI World con dati a frequenza giornaliera, holding period di 20 giorni e livello di confidenza pari al 95%. La Figura 3.4.1 mostra che in questo caso gli shock ai prezzi di agosto 1998 (17 eccezioni in un solo mese nel VaR “naïve”) e di agosto-settembre 2001 (20 eccezioni consecutive in due mesi nel VaR “naïve”) influiscono pesantemente sulla stima dell’A_VaR nei periodi immediatamente successivi provocando in questo caso una sovrastima del rischio. Si noti inoltre come tale sovrastima perduri nel tempo in funzione dell’ampiezza del campione utilizzato per stimare il fattore kv. Figura 3.4.1 0,2 A_VaR e VaR a confronto Dati giornalieri -- HP 20 giorni -- 200 osservazioni per stimare k- Liv Conf 95% Eccezioni: A_VaR = 6.620% , VaR = 7.601% 0,15 0,1 0,05 0 -0,05 -0,1 -0,15 -0,2 -0,25 ago-91 ago-92 ago-93 ago-94 Performance ago-95 ago-96 VaR ago-97 ago-98 ago-99 ago-00 ago-01 A_VaR Per far fronte a questo problema bisogna quanto meno adottare alcune precauzioni, ferma restando l’opportunità di utilizzare dati a frequenza coerente con l’orizzonte temporale laddove possibile. Un primo semplice accorgimento da adottare consiste nel far 55 Q U A D E R N I variare l’ampiezza del campione utilizzato per la stima del fattore kv in funzione dell’holding period. Esiste un trade-off tra tale ampiezza e la reattività dell’A_VaR che dipende direttamente dalla variabilità di kv. Quando l’A_VaR è una misura di valore a rischio condizionata su un set informativo più ampio, la probabilità di reagire troppo a shock transitori dei prezzi tende ad attenuarsi, ma di contro sono ridotti i benefici del condizionamento in caso di break strutturali o di semplici cambiamenti di regime della volatilità. La Figura 3.4.2 è una versione modificata della Figura 3.4.1 in cui il fattore di correzione kv è stimato su campioni rolling di 400 osservazioni giornaliere anzichè le 200 dell’esercizio precedente. Si nota immediatamente come sia attenuata la sovrastima del rischio nel periodo immediatamente successivo a settembre 2001, ma allo stesso tempo si coglie un effetto smoothing che attenua il grado di reattività dell’A_VaR. Figura 3.4.2 A_VaR e VaR a confronto Dati giornalieri -- HP 20 giorni -- 400 osservazioni per stimare k- Liv Conf 95% Eccezioni: A_VaR = 6.817% , VaR = 7.420% 0,2 0,15 0,1 0,05 0 -0,05 -0,1 -0,15 -0,2 -0,25 giu-92 giu-93 giu-94 giu-95 Performance giu-96 giu-97 VaR giu-98 giu-99 giu-00 giu-01 giu-02 A_VaR Un’alternativa a questo approccio è quella di stimare il k con dati a frequenza coerente rispetto all’holding period, ma con osservazioni overlapping. Per esempio, il rendimento a 20 giorni in t+1, costruito a partire dai dati giornalieri, ha 19 giorni in comune con il rendimento a 20 giorni in t. Iterando il processo, si ha un rendimento costruito senza dati sovrapposti, rispetto ai precedenti, solo dopo un numero di giorni pari all’orizzonte temporale (nell’esempio a t+20 non avrò più osservazioni in comune con t). In questo modo si superano i problemi di scarsità di dati, ma i risultati non sono troppo incoraggianti ed inoltre sono caratterizzati da una sorta di effetto risonanza dovuto all’utilizzo di dati sovrapposti nella stima della matrice di varianze-covarianze. La Figura 3.4.3, dove il fattore di correzione è stimato su un campione di 200 osservazioni ed il livello di confidenza è pari al 95%, mette in evidenza questa singolare caratteristica. Infine, nel caso in cui abbiamo dati a sufficienza per aggregare i rendimenti almeno a frequenza settimanale (non overlapping), è opportuno utilizzare tali dati aggregati eventualmente insieme alla regola della radice quadrata per holding period maggiori. La Figura 3.4.4 riporta il caso in cui i rendimenti sono disponibili a frequenza settimanale, l’orizzonte periodale è di 20 giorni (4 settimane lavorative) e viene usato il fattore 4 . 56 Q U A D E R N I Figura 3.4.3 0,2 A_VaR e VaR a confronto Dati giornalieri (5g overlapping) -- HP 20 giorni- Liv Conf 95% Eccezioni: A_VaR = 7.524% , VaR = 8.924% 0,15 0,1 0,05 0 -0,05 -0,1 -0,15 -0,2 -0,25 mar-98 mar-99 Performance mar-00 mar-02 mar-01 VaR A_VaR Figura 3.4.4 0,2 A_VaR e VaR a confronto Dati settimanali -- HP 4 settimane (20 giorni)- Liv Conf 95% Eccezioni: A_VaR = 4.806% , VaR = 5.736% 0,15 0,1 0,05 0 -0,05 -0,1 -0,15 -0,2 mar-90 mar-91 mar-92 mar-93 mar-94 mar-95 mar-96 mar-97 mar-98 mar-99 mar-00 mar-01 mar-02 Performance VaR A_VaR L’opportunità di implementare adeguate tecniche econometriche per migliorare il processo di stima del fattore k in presenza di rendimenti a frequenza giornaliera è un tema particolarmente interessante sul quale ci riserviamo di tornare in futuro. 4. Analisi empirica e backtesting Prima di addentrarci nell’analisi di backtesting dell’A_ReVaR, mostriamo quanto sia complesso individuare la distribuzione empirica dei rendimenti. Soprattutto quando la frequenza dei dati è giornaliera, risulta particolarmente difficile accettare l’ipotesi che i rendimenti seguano una distribuzione gaussiana o un’altra tra le distribuzioni più conosciute ed utilizzate. La Tabella 4.1.1 riporta le statistiche descrittive ed il ranking delle distribuzioni che meglio descrivono i dati al variare della fre3 quenza degli stessi. La classificazione delle distribuzioni candidate a spiegare i dati dipende dal valore assunto dalla statistica di Ander4 son-Darling aggiustata per tener conto del campione e dell’incertezza dei parametri (A-D adj). La prima parte della tabella evidenzia come la skewness e l’eccesso di kurtosis caratterizzino le serie storiche 3 4 4.1 Frequenza e distribuzione empirica dei rendimenti Tale classificazione è stata ottenuta tramite l’uso di BestFit (Palisade Corporation). Per un approfondimento di tale statistica si veda Stephens (1974). 57 Q U A D E R N I dei rendimenti. La seconda parte, invece, mostra che solo nei casi in cui i rendimenti siano aggregati a frequenza settimanale o mensile, la distribuzione logistica non viene rifiutata a valori critici pari a 0.025 (frequenza settimanale) e 0.15 (frequenza mensile). In maniera analoga, la Tabella 4.1.2 mostra l’analisi dei rendimenti relativi di un portafoglio composto da 50% MSCI US, 30% MSCI Europe e 20% MSCI Japan contro un benchmark rappresentato Tabella 4.1.1 Tab 4.1.1: Analisi dei rendimenti dell’indice MSCI World Dati giornalieri 1990 - 2002 Dati settimanali 1980 - 2002 Dati mensili 1970 - 2002 Statistiche descrittive Media 0,0001 0,0015 0,0050 Moda -0,0001 0,0025 0,0089 Mediana 0,0003 0,0022 0,0083 St. Deviation 0,0080 0,0186 0,0402 Varianza 0,0001 0,0003 0,0016 Skewness -0,2769 -1,2300 -1,2694 Kurtosis 6,6796 7,7779 6,0538 Ranking delle distribuzioni (Anderson-Darling) 1st Logistic (1.13e-4,4.38e-3) Logistic (1.46e-3,1.02e-2) A-D adj=11.598958 A-D adj=2.681151 (Rejected) (Not Rejected*) Weibull (7.44,0.26)+ -0.24 A-D adj=1.348942 (Rejected) 2nd Normal (1.13e-4,7.99e-3) Normal (1.46e-3,1.86e-2) A-D adj = 31.497093 A-D adj = 7.305597 (Rejected) (Rejected) Logistic (5.04e-3,2.20e-2) A-D adj = 1.571709 (Not Rejected**) 3rd Erf (88.45) A-D adj = 32.216312 (Rejected) Normal (5.04e-3,4.02e-2) A-D adj = 2.934455 (Rejected) Beta (63.59,3.27e+2)+ -0.16 A-D adj = 9.719066 (Rejected) * Valore critico 0.025, ** Valore critico 0.15 Tabella 4.1.2 Tab 4.1.2: Analisi dei rendimenti del portafoglio [(50% MSCI USA+30% MSCI Europe+20% MSCI Japan)-100% MSCI World] Dati giornalieri 1990 - 2002 Dati settimanali 1980 - 2002 Dati mensili 1970 - 2002 Statistiche descrittive Media 0,0000 0,0001 0,0004 Moda -0,0002 -0,0003 -0,0008 Mediana 0,0000 0,0002 0,0005 St. Deviation 0,0013 0,0030 0,0068 Varianza 0,0000 0,0000 0,0000 Skewness 0,1426 -0,2176 -0,2184 Kurtosis 8,4867 7,6363 5,5038 Ranking delle distribuzioni (Anderson-Darling) 1st Logistic (3.54e-5,7.18e-4) A-D adj = 11.188075 (Rejected) Logistic (1.03e-4,1.62e-3) A-D adj = 4.21063 (Rejected) Logistic (4.32e-4,3.72e-3) A-D adj = 2.197067 (Not Rejected*) 2nd Logistic(-1.11e-2,1.11e-2,14.83) Normal (1.03e-4,2.96e-3) 3rd A-D adj = 21.258853 (Rejected) A-D adj = 11.562241 (Rejected) Normal (4.32e-4,6.78e-3) A-D adj = 5.029949 (Rejected) Normal (3.54e-5,1.31e-3) A-D adj = 31.419405 (Rejected) Erf (2.39e+2) A-D adj = 12.477317 (Rejected) Erf (1.04e+2) A-D adj = 5.980623 (Rejected) * Valore critico 0.05 58 Q U A D E R N I dal MSCI World. In questo caso le distribuzioni appaiono più simmetriche, ma l’eccesso di kurtosis persiste. Per i dati a frequenza mensile non viene rifiutata l’ipotesi di distribuzione logistica con un valore critico pari a 0.05. A fronte delle evidenze empiriche emerse, vale la pena ricordare che un modello con volatilità variabile nel tempo è compatibile con una distribuzione non condizionata che manifesti eccesso di curtosi. L’A_ReVaR è un modello estremamente semplice ma allo stesso tempo fornisce risultati robusti sotto diverse prospettive. In questa sezione ci preme analizzare il comportamento dell’A_ReVaR al variare della frequenza dei dati e dell’holding period di riferimento. La Tabella 4.2.1 confronta le percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve” per orizzonti periodali di 1, 10, 20 e 60 giorni. La frequenza dei rendimenti è giornaliera (dati da gennaio 1990 ad agosto 2002) ed il portafoglio analizzato ha un tracking error contenuto, in quanto costituito da 50% MSCI US, 30% MSCI Europe e 20% MSCI Japan contro un benchmark rappresentato dal MSCI World. 4.2 Tab 4.2.1: Percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990 -- TE contenuto Tabella 4.2.1 1 gg 10 gg 20 gg Lambda = 0.94 Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% 60 gg Lambda = 0.99 95% 99% A_ReVaR 5,020% 0,991% 5,556% 1,354% 6,252% 1,733% 5,208% 1,313% ReVaR "naïve" 1,948% 0,396% 2,222% 0,556% 1,959% 0,603% 0,219% 0,000% # giorni calcolo "k" 200 200 300 300 400 400 500 500 N (giorni) 3028 2880 2880 2655 2655 2285 2285 3028 Robustezza dell’A_ReVaR rispetto alla frequenza dei dati ed all’holding period Dalla Tabella 4.2.1 si evince che l’ A_ReVaR funziona meglio del ReVaR “naïve” sia al 95% sia al 99%, a prescindere dall’holding period. Naturalmente, per un banale problema di numerosità delle eccezioni, il processo di calibrazione al 95% risulta più preciso e di conseguenza anche l’A_ReVaR è più stabile per quel livello di confidenza. Per una miglior comprensione di questa e delle successive tabelle della presente sezione, diamo alcuni suggerimenti circa l’interpretazione delle stesse. L’ampiezza del campione utilizzato per calcolare il fattore k è indicativo e quindi i numeri da noi suggeriti a tal proposito non sono tassativi. Consigliamo comunque di utilizzare campioni non troppo piccoli nè troppo grandi al fine di non sminuire i benefici del condizionamento della misura di valore a rischio. Inoltre, è buona norma ampliare tale campione all’aumentare dell’holding period. Per quanto riguarda invece il numero di osservazioni utilizzate per stimare la matrice S (dato non riportato nelle tabelle), ci siamo rifatti alla regola suggerita nel documento tecnico RiskMetrics (1996) per la quale: ln(1 − 0.99) ln(λ ) = # osservazioni per stimarela var − cov (7) 59 Q U A D E R N I dove l (lambda) è il fattore di decadimento nella stima EWMA della matrice di varianze-covarianze. D’altra parte, l’utilizzo della costante 0.99 ci rende confidenti che il campione così individuato contenga il 99% delle informazioni ritenute necessarie per la stima. Anche in questo caso, i valori di l usati nelle tabelle sono indicativi. Ulteriori analisi, non riportate per motivi di spazio, mostrano che l’A_ReVaR è robusto anche rispetto a variazioni di tale parametro. Il numero N(.), infine, rappresenta le osservazioni out of sample utilizzate per calcolare le percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve”. Analogamente alla precedente, la Tabella 4.2.2 riporta il confronto tra le percentuali di eccezioni nell’A_ReVaR e nel ReVaR “naïve” per orizzonti periodali di 1, 2, 4 e 12 settimane. La frequenza dei rendimenti è settimanale (dati da gennaio 1980 ad agosto 2002) e il portafoglio analizzato ha un tracking error contenuto, in quanto ha la stessa composizione di quello sottostante alla Tabella 4.3. Ancora una volta i risultati dell’A_ReVaR sono ottimi , anche per holding period elevati. Per quanto riguarda quest’ultimo punto giova sottolineare che l’A_ReVaR è ideale per il breve periodo e quindi il suo utilizzo per orizzonti temporali superiori ad un mese deve essere particolarmente accorto soprattutto in presenza di tracking error non trascurabili. Tabella 4.2.2 4.3 Robustezza dell’A_ReVaR rispetto al tracking error Tabella 4.3.1 60 Tab 4.4.2: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e nel ReVaR "naïve"- Dati settimanali dal 1980 -- TE contenuto 1 sett Lambda = 0.94 2 sett 4 sett Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% 12 sett Lambda = 0.99 95% 99% A_ReVaR 5,100% 0,665% 5,104% 0,464% 4,496% 0,620% 4,423% 0,491% ReVaR "naïve" 2,328% 0,443% 2,204% 0,580% 1,550% 0,310% 0,491% 0,000% # settimane calcolo "k" 200 200 200 200 300 300 300 300 N (settimane) 902 902 862 862 645 645 407 407 In questa sezione mostriamo che la metodologia dell’A_ReVaR è affidabile anche nella valutazione di portafogli ad elevato tracking error. Le Tabelle 4.3.1 e 4.3.2 sono rispettivamente equivalenti alle Tabelle 4.2.1 e 4.2.2, questa volta però il portafoglio analizzato ha un tracking error decisamente più elevato. Tale portafoglio è infatti costituito da 10% MSCI US, 60% MSCI Europe e 30% MSCI Japan e si confronta con il solito benchmark MSCI World. I risultati, molto apprezzabili per holding period contenuti, si deteriorano parzialmente per orizzonti ampi in linea con le performance del ReVaR “naïve” e coerentemente a quanto già detto nella sezione 3. Tab 4.3.1: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e nel ReVaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990 -- TE elevato 1 gg Lambda = 0.94 10 gg 20 gg Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% 60 gg Lambda = 0.99 95% 99% A_ReVaR 4,789% 0,892% 4,896% 1,007% 5,348% 1,281% 6,127% 2,319% ReVaR "naïve" 2,213% 0,198% 1,701% 0,278% 1,695% 0,151% 1,269% 0,000% # giorni calcolo "k" 200 200 300 300 400 400 500 500 N (giorni) 3028 2880 2880 2655 2655 2285 2285 3028 Q U A D E R N I Tab 4.3.2: Percentuali di eccezioni nel A_ReVaR e nel ReVaR "naïve" - Dati settimanali dal 1980-TE elevato 1 sett Lambda = 0.94 2 sett 4 sett Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% Tabella 4.3.2 12 sett Lambda = 0.99 95% 99% A_ReVaR 4,656% 0,443% 4,872% 0,232% 4,341% 0,775% 4,668% 1,229% ReVaR "naïve" 2,661% 0,111% 2,784% 0,464% 3,876% 1,085% 3,931% 0,737% # settimane calcolo "k" 200 200 200 200 300 300 300 300 N (settimane) 902 902 862 862 645 645 407 407 Nel paragrafo 3.4 abbiamo discusso, dal punto di vista teorico, circa l’applicabilità della nostra metodologia alla stima del valore a rischio di un portafoglio in un contesto assoluto (in assenza di benchmark). Torniamo qui sull’argomento con un approccio empirico. Le Tabelle 4.4.1 e 4.4.2 mostrano la medesima analisi fatta nelle sezioni precedenti, ma questa volta il portafoglio in questione coincide con l’indice MSCI World e non si confronta con alcun benchmark. Dai risultati emerge che anche l’A_VaR fornisce una buona stima ex-ante del valore a rischio del portafoglio, ma l’utilizzo del fattore di correzione kv in un contesto assoluto deve essere assoggettato ad ulteriori cautele. Prima di tutto, è opportuno limitare l’uso dell’A_VaR ad orizzonti temporali contenuti. In secondo luogo, è auspicabile lavorare ad un livello di confidenza del 95% in modo da rendere più agevole il processo di calibrazione. Infine, pur rendendoci conto di problemi inerenti la scarsità dei dati a disposizione, ribadiamo che è assolutamente preferibile adoperare dati a frequenza (almeno) settimanale al fine di evitare che shock transitori ai prezzi possano oltremodo influenzare la stima di kv. 4.4 Tab 4.4.1: Percentuali di eccezioni nel A_VaR e nel VaR "naïve" - Dati giornalieri dal 1990 Tabella 4.4.1 1 gg Lambda = 0.94 10 gg 20 gg Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% 60 gg Lambda = 0.99 95% 99% A_VaR 4,888% 0,862% 5,451% 1,111% 6,817% 1,394% 9,540% 2,801% VaR "naïve" 4,723% 1,288% 7,708% 2,813% 7,420% 2,825% 5,339% 2,101% # giorni calcolo "k" 200 200 300 300 400 400 500 500 N (giorni) 3028 2880 2880 2655 2655 2285 2285 3028 Tabella 4.4.2 Tab 4.4.2: Percentuali di eccezioni nel A_VaR e nel VaR "naïve" - Dati settimanali dal 1980 1 sett Lambda = 0.94 2 sett 4 sett Lambda = 0.96 Lambda = 0.98 95% 95% 99% 99% 95% 99% Applicabilità della metodologia alla stima del VaR: l’evidenza empirica 12 sett Lambda = 0.99 95% 99% A_VaR 4,878% 0,887% 5,104% 0,000% 4,806% 0,930% 7,862% 1,966% VaR "naïve" 4,767% 1,330% 4,292% 1,972% 5,736% 2,171% 4,914% 2,457% # settimane calcolo "k" 200 200 200 200 300 300 300 300 N (settimane) 902 902 862 862 645 645 407 407 61 Q U A D E R N I 4.5 Il fattore k (kr e kv) Figura 4.5.1 Andamento del fattore k rispetto all’holding period Dati giornalieri -- A-ReVaR A conclusione di questa sezione, dedichiamo un apposito paragrafo all’analisi empirica del fattore k. Abbiamo già detto che tale fattore è funzione del portafoglio analizzato, del benchmark, dell’holding period, del livello di confidenza, del set informativo complessivamente disponibile e del campione stesso su cui viene calcolato. Le seguenti Figure 4.5.1 e 4.5.2 mostrano l’andamento dei fattori k, al variare dell’holding period, nei casi in cui i rendimenti abbiano rispettivamente frequenza giornaliera e mensile. Il livello di confidenza è pari al 95% e tutti gli altri parametri utilizzati sono gli stessi delle Tabelle 4.2.1 - 4.4.2. 1,8 1,6 1,4 1,2 1 0,8 0,6 0,4 0,2 0 set-93 set-94 set-95 K -- 1g, 95% Figura 4.5.2 Andamento del fattore k rispetto all’holding period Dati settimanali -- A-ReVaR set-96 set-97 K -- 10g, 95% set-98 set-99 K -- 20g, 95% set-00 set-01 K -- 60g, 95% 1 0,9 0,8 0,7 0,6 0,5 0,4 0,3 ago-94 ago-95 K -- 1s, 95% ago-96 ago-97 K -- 2s, 95% ago-98 ago-99 K -- 4s, 95% ago-00 ago-01 K -- 12s, 95% I grafici mostrano che la volatilità delle serie storiche dei kr cresce sensibilmente all’aumentare dell’holding period. Si nota anche che tali volatilità sono nettamente inferiori nel caso di dati a frequenza settimanale. Infine, emerge che nelle analisi relative con tracking error contenuto il fattore di correzione kr è generalmente inferiore a 1 e ciò significa che il ReVaR “naïve” tende a sopravvalutare sistematicamente il rischio relativo. Naturalmente non possiamo inferire regole generali dalle Figure 4.5.1 e 4.5.2, ma quest’ultimo punto sembra riemergere anche dall’analisi di altri portafogli e su campioni diversi. Le Figure 4.5.3 e 4.5.4 riportano l’andamento dei kv calcolati per stimare l’A_VaR sul MSCI World. La dinamica della volatilità è palesemente in linea con quella dei grafici discussi in precedenza. In questo caso, tuttavia, il fattore di correzione assume valori sia minori sia maggiori di 1 e non sembra mostrare alcuna regolarità. 62 Q U A D E R N I Figura 4.5.3 2 Andamento del fattore k rispetto all’holding period Dati giornalieri -- A-VaR 1,8 1,6 1,4 1,2 1 0,8 0,6 0,4 0,2 0 set-93 set-94 set-95 K -- 1g, 95% set-96 set-97 K -- 10g, 95% set-98 set-99 K -- 20g, 95% set-00 set-01 K -- 60g, 95% 1,4 Figura 4.5.4 1,2 Andamento del fattore k rispetto all’holding period Dati settimanali -- A-VaR 1 0,8 0,6 0,4 0,2 ago-94 ago-95 ago-96 K -- 1s, 95% ago-97 ago-98 K -- 2s, 95% ago-99 K -- 4s, 95% ago-00 ago-01 K -- 12s, 95% Un’altra interessante prospettiva da cui guardare all’andamento dei k è rappresentata dal grado di fiducia rispetto al quale l’A_ReVaR e l’A_VaR sono calcolati. Le Figure 4.5.5 e 4.5.6 mostrano l’andamento del fattore k sia al 95% sia al 99% quando l’holding period è pari rispettivamente ad un giorno e ad una settimana. Emerge chiaramente che al 95% il fattore di aggiustamento è più reattivo. Inoltre, facciamo nuovamente notare che, sia con dati giornalieri sia con dati settimanali, i valori di kv sono sistematicamente maggiori di quelli di kr ed in media i primi sono maggiori di 1 ed i secondi minori di 1. Figura 4.5.5 1,4 Andamento del fattore k rispetto al livello di confidenza Dati giornalieri 1,3 1,2 1,1 1 0,9 0,8 0,7 0,6 0,5 0,4 set-93 set-94 set-95 set-96 K--1g, 95%, A-ReVaR K--1g, 95%, A-VaR set-97 set-98 set-99 set-00 set-01 K--1g, 99%, A-ReVaR K--1g, 99%, A-VaR 63 Q U A D E R N I Figura 4.5.6 Andamento del fattore k rispetto al livello di confidenza Dati settimanali 1,3 1,2 1,1 1 0,9 0,8 0,7 0,6 5. Misure di scomposizione del rischio ago-94 ago-95 ago-96 ago-97 ago-98 ago-99 ago-00 K--1s, 95%, A-ReVaR K--1s, 99%, A-ReVaR K--1s, 95%, A-VaR K--1s, 99%, A-VaR ago-01 Oltre ad avere valori sintetici per il rischio relativo ed assoluto del portafoglio, è cruciale sapere come il rischio è allocato tra i vari fattori. Capire dunque quali sono le posizioni che assorbono maggior rischio, quali si comportano come coperture e dove è meglio agire se l’obiettivo è di modificare il rischio di portafoglio. L’aver adottato un approccio parametrico, come si vedrà, rende particolarmente agevole pervenire a queste misure. Uno degli indicatori più interessanti è quello che consente di individuare come il ReVaR è stato allocato tra i vari fattori di rischio: MarginalReVaR. MargA_ReVaRi = (p - b)i dA _ Re VaR d ( p − b )i rappresenta la quantità di rischio relativo assorbita dal fattore iesimo. Vale la pena osservare che: 2 Σ( p − b) dA _ Re VaR 1 H = -1.645 k r d ( p − b) 2 ( p − b)T Σ( p − b) 1/ 2 [ ] Valgono dunque le seguenti proprietà: i) Additività: (p - b ) T dA _ Re VaR d ( p − b) = A_ReVaR ii) (MargA_ReVaR/A_ReVaR) non dipende da kr ma soltanto da S e da (p-b). Questo dunque deve ricordarci che per ottenere buone misure di decomposizione del rischio bisogna ben stimare S. Un altro indicatore molto importante è l’IncrementalReVaR; esso consente di capire come varierà il ReVaR al variare del vettore pesi (p-b). Un modo veloce e preciso per determinarlo è: • pinew = pi + 1% • IncrA_ReVaRi = IncrA_ReVaR(newi)-IncrA_ReVaR(old) • ripeto il calcolo per ogni fattore di rischio i Questo consente di ordinare i fattori di rischio rispetto al loro IncrA_ReVaR e di avere dunque una graduatoria di efficacia (e velocità) volendo modificare la rischiosità del portafoglio. Vale la pena 64 Q U A D E R N I notare che a differenza del MargA_ReVaR, l’IncrA_ReVaR non è indipendente da kr. Con le ovvie modifiche del caso, i due indicatori appena introdotti sono ottenibili anche nel contesto rischio assoluto, nel qual caso parleremo di MargA_VaR ed IncrA_VaR. Altre analisi molto utili e connesse alle precedenti sono rappresentate dalle cosiddette Pre Trade Analysis. Supponiamo che ad ogni portafoglio sia associato un universo investibile, questo consente di stimare ogni giorno una matrice S previsiva che descrive volatilità e correlazioni a cui il portafoglio sarà esposto. Se accompagnamo questo al fatto che ogni giorno sono noti i pesi b del benchmark e viene ristimato il parametro kr associato al portafoglio, siamo in grado di ricalcolare l’A_ReVaR al variare del vettore pesi p del portafoglio prima che il trade venga effettivamente realizzato. Questo è possibile nella misura in cui il portafoglio non venga stravolto dal momento che come si ricorderà dalla (5) kr = f ((p-b), H, T, X, a ). È anche vero peraltro che è piuttosto raro che un portafoglio venga stravolto in una sola giornata. È stata presentata una nuova metodologia per il calcolo del rischio relativo ed assoluto che trae spunto dall’approccio parametrico standard cercando di superarne i maggiori limiti ma continuando a beneficiare dei suoi tradizionali punti di forza. La strada adottata è quella della calibrazione attraverso una procedura di backtesting. Sono state condotte diverse verifiche empiriche per testare il comportamento del modello per vari livelli di rischio (relativo ed assoluto), diverse frequenze dati ed holding period anche piuttosto elevati. I risultati ottenuti sono più che confortanti garantendo valori di a out of sample molto vicini a quelli teorici. I buoni risultati ottenuti anche nel caso di uso di dati giornalieri, consentono l’applicazione della tecnica proposta anche in assenza di serie storiche molto lunghe. Un futuro fronte di studio sarà rappresentato da approfondite analisi di significatività degli a ottenuti out of sample attraverso il test di Christoffersen et al. (1998, 2001). Altri due interessanti campi di analisi potrebbero essere lo studio combinato della coda sinistra e destra della distribuzione dei rendimenti relativi ed assoluti e l’applicazione in altri contesti della tecnica di calibrazione presentata. 6. Conclusioni Alexander C. et al., “Risk Management & Analysis”, Wiley (1998) Alexander C., “Market Models”, Wiley (2001) Christoffersen P.F., “Evaluating Interval Forecast”, International Economic Review (1998) Christoffersen P.F., J. Hahn, A. Inoue, “Testing and Comparing Value-at-Risk Measures”, CIRANO Working Papers, 2001 s-03 (2001) Dowd K., “Beyond Value at Risk”, Wiley (1998) Engle R.F., Manganelli S., “Value at Risk Models in Finance”, European Central Bank Working Paper n. 75 (2001) Jorion P., “Value at Risk”, McGrawHill (2000) RiskMetrics Group, “Technical Document” (1996) RiskMetrics Group, “Return to RiskMetrics Technical Document” (1996) Stephens M.A., “EDF Statistics for Goodness of Fit and Some Comparisons”, Journal of the American Statistical Association, vol. 69 (1974) Riferimenti bibliografici 65 Massimiliano Burgio Eptafund Michele De Sario Eptafund Maria Luisa Gota Eptafund L’attività di risk management e le peculiarità dei diversi prodotti gestiti: uno o più modelli di misurazione e analisi del rischio? Q U A D E R N I 68 Q U A D E R N I L’obiettivo del lavoro è approfondire, alla luce dell’esperienza maturata in Eptafund, alcuni temi di attualità inerenti all’attività di risk management nelle società di gestione del risparmio. La prima parte del saggio si sviluppa attraverso alcune considerazioni introduttive (par. 1), qualche riflessione sul tema dello sviluppo di sistemi in contrapposizione all’acquisto degli stessi (par. 2) e un’analisi delle ragioni che hanno condotto Eptafund a dotarsi di una pluralità di sistemi per la misurazione del rischio (par. 3). La seconda parte (par. 4), più tecnica, fornisce una panoramica di alcune delle soluzioni adottate in Eptafund: un modello proprietario per il calcolo del rischio di portafogli azionari europei (par. 4.1), un approccio alla misurazione del rischio di portafogli di fondi (par. 4.2) e un sistema proprietario di attribuzione della performance per portafogli obbligazionari(par. 4.3). Il notevole sviluppo dell’industria del risparmio gestito in Italia nella seconda metà degli anni ’90 (le attività gestite sono cresciute del 340% tra il 1995 e il 2000) ha avuto inevitabilmente forti implicazioni sulla struttura organizzativa delle società di gestione del risparmio. Il potenziamento delle aree chiave del ciclo di produzione (Front-Office, Back-Office, Organizzazione e Sistemi), spinto dalla crescita delle masse, è stato affiancato dalla strutturazione di nuovi presidi nell’area dei controlli. Alcune disposizioni emanate dalle autorità di vigilanza vanno eplicitamente o implicitamente in questa direzione: l’articolo 57 della Delibera Consob 11522 1/7/98 impone alle società di gestione di dotarsi di una struttura di controllo interno, mentre, per quanto riguarda l’unità di risk management, sebbene non esista una fonte normativa che esplicitamente ne indichi l’obbligo di costituzione, il Provvedimento Banca d’Italia 1/7/98, attribuendo la definizione delle scelte strategiche aziendali al massimo organo amministrativo della Sgr e prevedendo la declinazione di tale responsabilità attraverso il conferimento di deleghe operative, apre la strada alla creazione di un’area indipendente rispetto alla Direzione Operativa preposta a verificare l’aderenza dell’attività gestoria alle delibere in materia di strategia d’investimento assunte dal Consiglio d’Amministrazione. Si può ritenere questo il passaggio normativo che ha catalizzato la domanda di controlli di linea rimasta latente fino agli anni ’97-’98 nella maggioranza delle società di gestione. Si assiste così, proprio in questo biennio, alla nascita della figura professionale del risk manager, nuova nel panorama delle Sgr, e alla delimitazione del suo perimetro di azione, che include principalmente due attività: la misurazione e gestione del rischio dei portafogli e il calcolo e l’attribuzione delle performance. Se questi sono riconosciuti unanimamente all’interno dell’industria come gli obiettivi del servizio di risk management, non vi è altrettanta condivisione di vedute su quali siano le metodologie da impiegare. L’as- 1. Introduzione 69 Q U A D E R N I senza di uno standard metodologico e il dibattito che ne consegue rappresentano senza dubbio una peculiarità dell’attività di risk management nell’industria del risparmio gestito, che non trova riscontro all’interno del mondo bancario o delle società di intermediazione. Sarebbe però superficiale attribuire questo aspetto esclusivamente alla recente nascita del servizio. Andando un po’ più a fondo, si osserva quanto la ricerca di nuovi metodi, caratterizzati da un maggiore potere esplicativo, sia riconducibile alla duplice natura del servizio stesso: da un lato assolvere alla funzione di controllo per conto dell’alta direzione, dall’altro sfruttare la produzione orientata al controllo per ottenere maggiori informazioni a supporto dell’attività di gestione. Se quindi la misurazione del rischio per l’alta direzione sarebbe teoricamente compatibile con una metodologia standard, avallata magari dagli organi di vigilanza, nel momento in cui se ne vuole trarre un vantaggio competitivo l’opportunità di avere uno standard svanisce e diviene cruciale disporre delle migliori competenze e dei più aggiornati sistemi informativi per sviluppare strumenti di analisi personalizzati. I temi sui quali è aperto il confronto sono numerosi e molto stimolanti; vanno dalla scelta delle metodologie di cui si è fatto cenno sopra, all’univocità delle stesse per tutti i portafogli gestiti, all’opportunità di acquistare prodotti esistenti sul mercato rispetto allo sviluppo di sistemi proprietari, alle modalità di integrazione della funzione di risk management nel processo di investimento, alla valutazione delle prestazioni di un servizio di risk management. Il presente lavoro si propone di analizzare i primi tre aspetti. In particolare, il par. 2 contiene alcune riflessioni sul tema dello sviluppo in house di sistemi per la misurazione e l’analisi del rischio in contrapposizione all’acquisto di software sul mercato. Oggetto del par. 3 è analizzare gli argomenti che hanno indotto Eptafund a dotarsi di una pluralità di sistemi anziché orientarsi verso un unico strumento. Nel par. 4 sono illustrate alcune soluzioni sviluppate da Eptafund: nel par. 4.1 è descritto un modello di analisi del rischio per portafogli europei basato su fattori macroeconomici; nel par. 4.2 è introdotto un indicatore di rischiosità per portafogli di fondi; il par. 4.3 raccoglie le caratteristiche di un modello di attribuzione delle perfomance per portafogli obbligazionari. 2. Modelli di misura e analisi del rischio: acquisto o sviluppo in house? 70 La prima fondamentale riflessione da cui parte il progetto di un sistema di risk management riguarda la scelta tra sviluppo in house e acquisto di software disponibile sul mercato. Sono numerose e valide le ragioni a favore di entrambe le opzioni. Eptafund ha realizzato una soluzione mista: per alcuni prodotti è stato acquistato un sistema in via definitiva, per altri è previsto l’utilizzo del sistema acquistato provvisoriamente e lo sviluppo proprietario in un secondo tempo, per una terza tipologia di prodotti è stato preventivato solo lo sviluppo proprietario. Le ragioni di questa scelta nascono dalla nostra convinzione della maggiore efficacia dei sistemi proprietari se le attività di risk management sono ben integrate nel processo di investimento (risk management on-line); in caso contrario, e per fare un esempio concreto basta pensare ai portafogli gestiti in delega da gestori esterni per conto della Sgr, per assolvere ai compiti di controllo off-line, è sufficiente disporre di un buon sistema che permetta di monitorare i rischi attivi senza avere la pretesa di farne Q U A D E R N I uno strumento di supporto decisionale di linea. Questo è il motivo che ci ha spinti a pianificare soluzioni proprietarie solo per i prodotti gestiti internamente, mantenendo il controllo su quelli gestiti in delega attraverso strumenti disponibili sul mercato. È invece riconducibile a considerazioni di timing la decisione di passare solo in un secondo tempo e per i prodotti gestiti internamente a modelli sviluppati in house. Infatti i tempi richiesti dallo sviluppo di questi modelli non sono facilmente quantificabili e questa è una caratteristica incompatibile con la pianificazione ex novo di un sistema di risk management. Pertanto per i prodotti gestiti per i quali una software selection ha individuato uno strumento soddisfacente, lo strumento è stato acquistato. È chiaro che anche la messa a punto di sistemi di terzi non è esente da spiacevoli sorprese e non si deve commettere l’errore di pensare che disporre del software equivalga ad avere le analisi desiderate, in quanto ottenere quei numeri è spesso una strada irta di ostacoli e avara di soddisfazioni. Sulla base della nostra esperienza, i problemi più grossi sono l’alimentazione del sistema attraverso una procedura automatica e la gestione delle anagrafiche, che, soprattutto nel caso di portafogli obbligazionari, risultano incomplete e approssimative. In conclusione, sebbene orientarsi verso l’acquisto di sistemi sia indubbiamente la soluzione più veloce per fornire risultati, anche in questo caso la messa a punto può comportare tempi più lunghi del previsto. L’impegno di tempo non è sicuramente l’unico limite dell’opzione sviluppo in house: avere risorse di livello con una preparazione multi-disciplinare è infatti altrettanto fondamentale quanto l’avere tempo. La preparazione multi-disciplinare alla quale ci riferiamo deve abbracciare materie quali la Statistica, l’Econometria, la Teoria della Finanza e, inevitabilmente, una buona dose di skill informatici, indispensabili anche solo per arrivare ad un semplice prototipo. Crediamo molto nel valore aggiunto della multi-disciplinarietà rispetto ad una segmentazione del lavoro tra, per esempio, statistici e programmatori, almeno nella fase di analisi e prima implementazione; dovendo poi passare alla realizzazione di un’applicazione più professionale la segmentazione risulta altrettanto importante. Oltre all’investimento in tempo e risorse umane di livello, non occorre un grande budget per poter sviluppare i propri sistemi; di solito queste soluzioni sono di gran lunga più economiche di quelle acquistate. Passiamo ora agli aspetti che rendono desiderabile avere strumenti proprietari. a) Conoscenza approfondita dei modelli sottostanti. Per quanto i software in commercio siano accompagnati da documentazione metodologica, il che permette di conoscere discretamente bene i modelli utilizzati, il livello di comprensione che si guadagna sviluppando direttamente il prodotto è ineguagliabile. La conoscenza più approfondita non rimane un plus intangibile; ci sono importanti risvolti concreti: da una migliore comprensione delle ipotesi ad una più accurata interpretazione degli output, ad una maggior consapevolezza dell’affidabilità del modello ottenibile grazie a tutta l’attività di backtesting. b) Controllo del database. Il disegno e l’alimentazione del database sono oneri di cui è inevitabile farsi carico 71 Q U A D E R N I quando si sviluppa internamente. A fronte di questa fatica si ha però il controllo dei dati in input dalla cui qualità dipende un buon risultato. La qualità dei dati in input è a nostro avviso proprio uno dei punti di debolezza di molti dei software in commercio. c) Condivisione della metodologia. Il risk manangement fornisce un servizio a diverse aree dell’azienda; i clienti, dall’alta direzione fino ai responsabili di team, devono credere nella bontà del servizio. Questo si realizza se la metodologia è condivisa. Poter lavorare insieme ai clienti interni per arrivare ad un sistema condiviso nelle sue fondamenta è il presupposto per costruire strumenti che aggiungano valore. d) Flessibilità. Un’idea non nasce perfetta; ci sono sempre margini di miglioramento. Un sistema sviluppato in house può essere sottoposto a revisione tutte le volte che lo si ritiene necessario. È inoltre semplice rispondere a richieste di personalizzazione. Il fatto che dai clienti interni arrivino richieste di personalizzazione è conseguenza della condivisione e un indicatore di buona salute del servizio: è importante poter rispondere in tempi ragionevoli. e) Semilavorati. Alcune elaborazioni intermedie possono essere valorizzate aldilà del fatto che conducono al risultato finale. Nei software acquistati non è previsto l’accesso a questi semilavorati. Nei sistemi sviluppati internamente possono al contrario essere alla base di nuove elaborazioni. Un esempio sarà dato nel par. 4.1.4. f) Motivazione delle risorse. Le procedure di messa a punto e, in generale, l’utilizzo ordinario di un sistema acquistato risultano spesso demotivanti per le persone addette. Una volta acquisito il know-how sullo strumento, il lavoro resta caratterizzato da una forte componente di routine, interrotta da inefficienze operative che bisogna cercare di mettere a posto interloquendo con il fornitore. Questa attività crea frustrazione in quanto si instaura una dipendenza molto forte nei confronti di terze parti, si lavora molto accrescendo solo marginalmente la propria conoscenza e non si riesce a garantire la tempestività delle risposte. Sul fronte make c’è invece l’entusiasmo della ricerca e la soddisfazione di vedere girare il programma... Che dire di più? 3. La misura del rischio secondo un approccio differenziato in base al prodotto 72 Non c’è dubbio che la prospettiva di avere un unico strumento per misurare i rischi di tutti i prodotti gestiti eserciti un grande fascino. Pur non essendone immuni, riteniamo che le peculiarità presentate dai diversi prodotti richiedano una differenziazione dei metodi di analisi adottati. L’obiettivo di fondo al quale un sistema di risk management deve rispondere è quantificare il rischio che il risultato dell’attività di gestione diverga dalle aspettative. Questo obiettivo è comune a tutti i prodotti gestiti. Nell’ambito poi delle gestioni a rendimento relativo il rischio di non soddisfare le aspettative è sostanzialmente il rischio di produrre un rendimento inferiore a quello del benchmark sull’orizzonte periodale di riferimento. Per le gestioni a rendimento assoluto il rischio che si vuole misurare è quello di ottenere un rendimento negativo o inferiore ad un determinato target. Nel paragrafo 3.1 Q U A D E R N I si argomenta perché l’obiettivo della gestione (a rendimento relativo o a rendimento assoluto) costituisca già una primo fattore di diversità. Un secondo elemento di differenziazione che preclude l’utilizzo di una sola metodologia è dato dalle leve gestionali permesse dal prodotto: nel paragrafo 3.2 si spiega perché un portafoglio di fondi richieda uno strumento di analisi ad hoc rispetto ad un portafoglio di titoli. La terza discriminante che si prende in considerazione è la classe di attività in cui il portafoglio investe: nel paragrafo 3.3 si espone la scelta effettuata per misurare il rischio di portafogli azionari e perché tale scelta non possa essere adattata tout court a quelli obbligazionari. In base all’interpretazione usuale, che accredita la tracking error volatility (nel seguito, brevemente, tracking error) quale indicatore di rischio, se un portafoglio presenta un tracking error del 5%, ci si aspetta che con una probabilità di circa 2/3 il rendimento si discosti da quello del benchmark per non più del 5%. Questa lettura vale sotto due ipotesi molto forti formulate sulla distribuzione di probabilità degli excess return: che sia normale e a media nulla. Se questa non è la sede per disquisire sulla normalità dei rendimenti (assoluti o in eccesso), sulla seconda assunzione (che la media sia nulla) qualcosa si può dire; se quest’ultima fosse vera, infatti, verrebbe meno la ragione di essere della gestione attiva; trattandosi comunque di excess return è forte ma non del tutto fuorviante assumere che mediamente sia prossimo a zero. Consapevoli quindi che si tratta di un’assunzione forte, possiamo “sopportare” la lettura standard del tracking error come indicatore di rischio; ben diverso è il caso delle gestioni a rendimento assoluto dove l’indicatore equivalente al tracking error è la deviazione standard e un’interpretazione analoga condurrebbe a sostenere che con probabilità 2/3 i rendimenti del portafoglio cadono tra meno una deviazione standard e più una deviazione standard. In sostanza l’ipotesi di media nulla della distribuzione, nel caso di gestioni a rendimento assoluto, è inaccettabile. Ecco quindi che nel caso delle gestioni a rendimento assoluto non è possibile evitare di affrontare il problema della generazione dei rendimenti. Va da sé che questa considerazione sbarra di fatto la strada all’utilizzo per le gestioni a rendimento assoluto dei modelli multi-fattoriali, categoria piuttosto consolidata soprattutto per i por1 tafogli azionari . 3.1 Gestioni a rendimento relativo e gestioni a rendimento assoluto Portafogli di fondi e portafogli di titoli: questo è un altro elemento di differenziazione che richiede uno strumento di analisi ad hoc per i primi. Sebbene i portafogli di fondi (gestioni patrimoniali in fondi e fondi di fondi) siano in ultima analisi panieri di titoli, la politica di investimento di questi prodotti si basa su un numero ridotto di leve gestionali: se l’allocazione per classi di attività, geografica, settoriale, per segmento di curva e per merito di credito rappresentano variabili su cui il gestore di portafogli di fondi ha il controllo (a condizione che la gamma di fondi di cui dispone sia ben diversificata), lo stock picking esula dalle sue responsabilità; i suoi rischi attivi devono quindi essere misurati sterilizzando l’effetto dello stock picking. Lo Strategy Tracking Error (STE) illustrato nel paragrafo 4.2 è stato concepito per questo scopo. 3.2 Portafogli di fondi 1 In realtà si può usare la classe di modelli multi-fattoriali, ma solo dopo aver stimato i rendimenti attesi. Questa procedura introduce un margine a nostro avviso eccessivo di discrezionalità nei dati in input. 73 Q U A D E R N I 3.3 74 Portafogli azionari Per analizzare il rischio dei portafogli azionari Eptafund ha scelto l’approccio APT o multi-fattoriale. Questo approccio prevede l’identificazione di un numero ridotto di fattori rispetto ai quali viene scomposta la parte sistematica del rischio di portafoglio; la porzione residuale viene attribuita a elementi idiosincratici. La letteratura di riferimento è copiosa e negli ultimi due decenni si è assistito ad una proliferazione di lavori accademici volti ad identificare i fattori col più elevato potere esplicativo. Su alcuni di essi, relativamente ai titoli azionari, vi è un consenso pressoché unanime. Essi sono: il mercato di appartenenza del titolo, la capitalizzazione di mercato, il rendimento (nell’accezione di yield), il settore merceologico e il momentum. I modelli che hanno introdotto i precedenti fattori sono brevemente indicati nel seguito: • Modello I: CAPM, considera il premio al rischio una ricompensa per la detenzione di titoli correlati al portafoglio di mercato. • Modello II: introdotto da Fama e French (1993) e (1995), considera il premio al rischio una ricompensa per la detenzione di titoli correlati ai fattori di mercato, di capitalizzazione (fattore rappresentato attraverso la differenza di rendimento tra un portafoglio small cap e uno large cap) e di value (attraverso la differenza di rendimento tra due portafogli di titoli uno a elevato e uno a basso book-to-market-value). • Modello III: Carhart (1997) aggiunge al modello precedente il rischio di momentum. • Modello IV: Daniel e Titman (1997) aggiungono al modello precedente la sensibilità ai rendimenti dei settori. Questi sono in linea di massima i fattori adottati da sistemi leader di mercato quali Barra, Northfield e Wilshire. Stimate le covarianze tra i fattori e la sensitività di ogni titolo, nota la composizione del portafoglio e del benchmark, si calcola la deviazione standard del rendimento relativo (tracking error) e come i fattori e la parte specifica contribuiscano a tale deviazione standard. Questo approccio conduce quindi al momento secondo della distribuzione di probabilità del rendimento relativo, all’attribuzione di tale momento, ma non all’intera distribuzione. Un ulteriore passo, possibile solo conoscendo bene la specificazione dei fattori impiegati, è la generazione di scenari sui fattori per sondare come portafoglio e benchmark reagiscano. Questo utilizzo non è previsto dai più trattati software in commercio, ma, quand’anche lo fosse, sarebbe difficile generare scenari sull’andamento del fattore legato alla capitalizzazione di mercato, oppure di quello legato al “value/growth”. Tale doppio limite può essere superato attraverso una diversa scelta dei fattori unitamente ad uno sviluppo in house che garantisca totale trasparenza dei dati. Questa è la strada seguita da Eptafund e sviluppata mediante l’individuazione di un insieme di fattori macro-economici caratterizzati da un buon potere esplicativo. Un siffatto approccio permette di attribuire il rischio dei portafogli a variabili che entrano nelle decisioni di investimento e consente, attraverso l’analisi per scenari, di verificare le risposte dei portafogli a movimenti in queste variabili; in definitiva, traduce la rischiosità del portafoglio in un linguaggio noto al team di gestione, facendo dello strumento un utile supporto all’attività di gestione oltre che un mezzo di controllo del rischio. Per Q U A D E R N I quanto attiene ai limiti di questi modelli, vale la pena sottolineare ancora che non forniscono la distribuzione di probabilità del rendimento; lo svantaggio maggiore è però la non adattabilità tout court ai portafogli obbligazionari. Per questi ultimi infatti, sono diversi sia i fattori in grado di catturare la parte sistematica, sia i metodi di calcolo delle sensitività, che sono determinate analiticamente e non attraverso un’analisi di regressione. Concludendo, in virtù delle potenzialità che offre, riteniamo l’approccio multi-fattoriale un ottimo strumento di analisi e controllo dei portafogli azionari. Per questa ragione abbiamo sviluppato SMART, un’applicazione proprietaria basata su fattori macro-economici per l’analisi e il controllo dei portafogli azionari. Si rimanda al paragrafo 4.2 per una trattazione più approfondita dell’argomento. L’obiettivo del presente paragrafo è illustrare tre strumenti sviluppati in house da Eptafund. Il primo (par. 4.1) è un modello di analisi del rischio per portafogli azionari europei. L’estensione ad altri universi è in fase progettuale. Lo spirito di questa applicazione è di rappresentare qualcosa di più di un mezzo di controllo: la scelta di basare l’attribuzione della parte di rischio sistematica su variabili macro-economiche è stata dettata dalla volontà di fornire uno strumento di supporto all’attività di gestione impiegando variabili che direzionano le decisioni di investimento. Il secondo (par. 4.2) è un indicatore di rischio costruito per quantificare le scelte attive rinvenienti dall’attività di gestione dei portafogli di fondi: poiché la selezione dei titoli esula dal controllo del gestore di portafogli di fondi, è necessario uno strumento che isoli questo aspetto dalle leve gestionali che effettivamente sono controllabili. Il terzo (par. 4.3) è un modello di attribuzione delle performance concepito per portafogli obbligazionari. Scompone i rendimenti sulla base di una gerarchia che riflette l’ordine secondo cui vengono prese le decisioni di investimento. È coerente con il tema di questa nota in quanto rappresenta sul fronte performance anziché sul fronte rischio in quale modo le peculiarità di un prodotto (o di una classe di prodotti) condizionino il modello di attribuzione. 4. Le soluzioni adottate da Eptafund SMART è costruito su un modello APT che utilizza alcune variabili macroeconomiche per spiegare i rendimenti delle azioni; lo strumento è stato sviluppato per analizzare portafogli azionari investiti nei sedici mercati europei ricompresi nell’indice MSCI Europe. In considerazione del recente processo di unificazione monetaria ed economica dei principali paesi europei e della progressiva convergenza dei mercati finanziari, il modello è costruito su dimensione europea, escludendo il Regno Unito, per il quale abbiamo peraltro selezionato fattori simili ma su scala nazionale. I fattori impiegati sono cinque di carattere macroeconomico e 2 tre che riflettono le variazioni residuali dei mercati azionari a livello pan-europeo, settoriale e di singolo paese. La spaccatura per settore e per paese ricalca la classificazione MSCI, considerando pertanto i seguenti dieci settori: Consumer Discretionary, Consumer Staples, 4.1 2 Systematic MAcroeconomic Risk Tool (SMART) Le variazioni cioé che non sono spiegate dalle variabili macroeconomiche. 75 Q U A D E R N I Energy, Financials, Health Care, Industrials, Information Technology, Materials, Telecommunication Services e Utilities; e i seguenti paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito. Per quanto riguarda le variabili economiche, un’indicazione di massima è venuta dalla fiorente letteratura relativa ai modelli multi3 fattoriali ; i fattori ritenuti teoricamente significativi sono: • il tasso di cambio dollaro/euro (il tasso di cambio dollaro/LST nel caso del modello UK); • il prezzo del petrolio al barile in dollari; • le aspettative sulla crescita economica; • i tassi d’interesse, • l’inflazione inattesa. Nel paragrafo seguente sarà affrontato in dettaglio il tema della selezione dei fattori. 4.1.1 Selezione dei fattori Inizialmente abbiamo concentrato la nostra attenzione su quegli indici e su quegli indicatori che il mondo finanziario europeo considera come leading indicator o rilevanti nelle decisioni di asset allocation. Successivamente abbiamo controllato che le serie storiche delle variabili selezionate fossero sufficientemente estese (circa dieci anni di rilevazioni) e che non presentassero interruzioni, buchi o outlier. La significatività statistica dei fattori macroeconomici è stata verificata con riferimento ad un universo di 556 titoli azionari che componevano l’indice MSCI Europe nel settembre 2001; i titoli ExUK sono 440 mentre quelli UK sono 156. Ogni serie storica dei prezzi tiene conto degli eventi intervenuti nella storia del titolo (spin-off, merge...), ed è stata analizzata graficamente e statisticamente per individuare eventuali outlier. Le serie storiche sono considerate in rendimenti mensili, come rapporto tra valori meno uno; in alcuni casi, vedi i tassi, abbiamo usato le differenze prime tra valori. La selezione dei fattori è avvenuta in base a due test particolari e in base alla verifica di assenza di correlazione tra le variabili impiegate. Nel primo test di significatività, regrediamo ciascun titolo sul singolo fattore macroeconomico utilizzando 60 osservazioni mensili; stimati l’alpha e il beta, determiniamo il valore previsto per il rendimento mensile del singolo titolo, in relazione ai tre mesi che vanno dall’ultimo mese incluso nel periodo utilizzato per la regressione ai due immediatamente successivi; si ha così una previsione mensile in sample e due out of sample. La stima degli alpha e dei beta viene effettuata ogni trimestre su 60 osservazioni mensili rolling generando 46 previsioni mensili per il periodo compreso tra dicembre 1997 e settembre 2001. Il metodo di stima consiste in una weighted robust regression, che impiega un algoritmo iterativo dei minimi quadrati, ripesati mediante funzione biquadratica; tale metodo differisce dai minimi quadrati ordinari dato che attribuisce minore impor4 tanza agli outlier . 3 Cfr. Nai-Fu Chen, Richard Roll and Stephen A. Ross (1986), i primi a proporre l’approccio fondato su variabili macroeconomiche. 4 76 Un algoritmo per il calcolo di tale stima è disponibile in Matlab. Q U A D E R N I La selezione è avvenuta considerando la percentuale di successo riscontrata nella suddetta previsione, dove il successo si realizza quando la previsione e il rendimento attuale si collocano entrambi sopra o entrambi sotto la propria mediana di periodo; questa è calcolata sul periodo dicembre 1997- settembre 2001 con riferimento a ciascuna delle due serie storiche di rendimenti effettivi e previsti. Il confronto con la mediana intende catturare la capacità previsiva del singolo fattore eliminando in un certo senso l’effetto scala. A titolo di esempio, se la mediana dei rendimenti previsti è 3% e quella degli effettivi 5%, ottenere sullo stesso mese un rendimento previsto pari a 1% e uno effettivo pari a 4% è considerato già un successo in quanto in entrambi i casi la probabilità sul campione di avere rendimenti minori è minore del 50%. Il livello critico considerato nel test di selezione è circa del 50-51%. Il test ha indotto a selezionare le seguenti variabili macroeconomiche: • il tasso di cambio USD/Euro nel modello Ex-UK (EUR) e il tasso di cambio USD/Lst nel modello UK (LST); • il Brent (Brent); • l’indice IFO (West German Business Climate Index) nel modello Ex-UK (IFO) e l’indice CBLI (Conference Board UK Leading Economic Indicator) nel modello UK (CBLI); • il German Long Rate (10yr) nel modello Ex-UK (GBund) e lo UK Long Rate (10yr) nel modello UK (UKBond), entrambi in differenze prime. Il test ha spinto ad escludere altre variabili quali i differenziali tra tassi tedeschi 10yr e 2yr, generici tassi d’interesse europei (peraltro ben replicati dai tassi tedeschi), i tassi USA. Nonostante la letteratura proponga metodi banali per calcolare l’inflazione inattesa, abbiamo preferito costruire la serie storica utilizzando gli errori di previsione derivanti da un modello di stima dei tassi d’inflazione Emu15 e UK. Il modello utilizzato è di tipo AR con trend e stagionalità e viene ristimato alla fine di ogni trimestre, generando la previsione del tasso d’inflazione nei tre mesi successivi. Di seguito riportiamo i risultati del test di significatività dei singoli fattori macroeconomici per i due modelli. Tabella 1 Tab 1 Fattore Percentuale di successo Modello Ex-UK Percentuale di successo Modello UK EUR 52% - LST - 52% Brent 51% 53% IFO 53% - CBLI - 53% GBund 52% - UKBond - 53% UNCPI 54% - UKUNCPI - 52% Il secondo test di significatività, più classico rispetto al precedente, è il cosiddetto t-test, dove andiamo a verificare che la statistica t presenti un valore assoluto uguale o superiore a due, in altri ter77 Q U A D E R N I mini che la sensitivity, o beta, del singolo titolo a quel determinato fattore risulti statisticamente diverso da zero. Di seguito riportiamo la distribuzione dei t-stat per ciascun fattore; la percentuale indica il numero di titoli sull’universo stimato che supera il t-test. Le prime due colonne di risultati si riferiscono alle percentuali medie sul periodo (da dicembre 1997 a settembre 2001, 46 mesi), mentre le seconde due colonne si riferiscono all’ultima data del test (settembre 2001). Tabella 2 Tab 2 Fattore % T-TEST Modello Ex-UK % T-TEST Modello UK % T-TEST (ultima) Modello Ex-UK % T-TEST (ultima) Modello UK EUR 18,2% - 17,9% - LST - 15,3% - 9,4% Brent 12,0% 11,7% 8,4% 8,4% IFO 8,8% - 38,8% - CBLI - 17,2% - 19,6% GBund 14,1% - 9,1% - UKBond - 17,0% - 15,0% UNCPI 4,5% - 4,0% - UKUNCPI - 3,4% - 3,74% La teoria dei modelli APT richiede altresì che i fattori utilizzati non siano tra loro correlati; in tale maniera si escludono problemi di multicollinearità nella stima congiunta del modello. Nella tabella successiva, calcoliamo la matrice dei coefficienti di correlazione tra le serie storiche. Nel trattare le serie storiche di variabili macroeconomiche è molto probabile avere a che fare con correlazioni; i dati riportati evidenziano dei livelli di correlazione comunque mai superiore a 0,30. Tabella 3 Tab 3 Modello Ex-UK Tabella 4 EUR 1.00 Brent 0.05 1.00 IFO 0.01 0.08 1.00 GBund 0.08 0.10 0.13 1.00 UNCPI -0.01 0.28 -0.17 0.15 1.00 Tab 4 Modello UK LST 4.1.2 Stima del modello 78 1.00 Brent 0.03 1.00 CBLI 0.13 -0.01 1.00 UKBond -0.18 0.11 -0.13 1.00 UKUNCPI -0.12 0.13 -0.22 -0.04 1.00 La stima dei beta dei due modelli viene effettuata regredendo la serie dei rendimenti di ciascun titolo sui cinque fattori macroeconomici e sui tre/due fattori di mercato. Il fattore di mercato pan-eu- Q U A D E R N I ropeo è determinato come residuo della regressione della variabile di mercato europeo sulle variabili economiche; gli indici di mercato settoriali e di paese vengono a loro volta regrediti sui fattori macroeconomici e sul fattore di mercato pan-europeo. In questo modo le variabili di mercato vengono depurate dagli effetti economici e finanziari sistematici, escludendo altresì problemi di multicollinearità tra fattori. Il metodo di stima consiste nell’anzidetta weighted robust regression. I modelli vengono ristimati ogni trimestre utilizzando 120 dati (dieci anni di storia) con un limite minimo di 30 osservazioni (due anni e mezzo). Le sensitivity dei titoli con storia insufficiente vengono determinate utilizzando la media semplice dei beta dei titoli appartenenti allo stesso settore e allo stesso paese; qualora nemmeno questa fosse disponibile, consideriamo la media dei beta a livello settoriale (con riferimento ai beta dei cinque fattori macroeconomici, dei fattori di mercato pan-europeo e settoriale) e la media dei beta a livello di Paese (con riferimento al beta del fattore di mercato a livello di Paese). Abbiamo verificato che nella stima congiunta del modello i singoli fattori precedentemente selezionati non perdano significatività statistica a favore di altri; il test utilizzato è come al solito il t-test con valore critico posto a 2. Nella tabella successiva inseriamo la distribuzione dei t-stat per ogni fattore; nella prime due colonne sono indicate le percentuali medie di periodo (da dicembre 1998 a settembre 2001, 34 stime) di titoli sull’universo stimato che presentano relativamente a quel fattore un beta statisticamente significativo, mentre nelle seconde due colonne sono indicate le percentuali relative all’ultima stima condotta nella fase di test (settembre 2001). Significatività dei fattori Tab 5 Tabella 5 Fattore % T-TEST Modello Ex-UK % T-TEST Modello UK % T-TEST (ultima) Modello Ex-UK % T-TEST (ultima) Modello UK Alpha 45,6% 14,9% 34,2% 11,2% EUR 23,4% - 23,5% - LST - 11,7% - 14,0% Brent 27,5% 12,5% 18,8% 11,2% IFO 21,0% - 30,2% - CBLI - 33,2% - 40,2% GBund 49,4% - 35,7% - UKBond - 36,3% - 30,8% UNCPI 20,6% - 11,4% - UKUNCPI - 5,3% - 8,4% PanEuro* 94,8% 91,3% 95,6% 92,6% Settore 56,5% 79,6 61,0% Paese 62,5% 59,2% * Nel Modello UK coincide con il fattore country United Kingdom 81,3% - Il confronto dei diversi test (primo e secondo test di significatività sui singoli fattori, test congiunto di significatività, correlazione tra i fattori), tenuto conto dell’evoluzione nel tempo della significatività delle stime, induce a ritenere che i fattori selezionati 79 Q U A D E R N I siano in grado di spiegare buona parte del comportamento sistematico dell’universo di titoli azionari di riferimento. Tale considerazione è anche giustificata dalle seguenti percentuali di titoli sul2 l’universo stimato che presentano un R aggiustato uguale o superiore al 0,50; come al solito, le prime due colonne sono medie di periodo, mentre le ultime due sono le statistiche relative alla stima di settembre 2001. Tabella 6 Tab 6 2 2 2 2 % media R Modello Ex-UK % media R Modello UK % R (ultimo) Modello Ex-UK % R (ultimo) Modello UK 34,7% 19,52% 31,6% 23,4% Nei grafici seguenti, evidenziamo alcuni risultati e statistiche della stima del modello effettuata nel giugno di quest’anno. Il numero di titoli appartenenti all’universo è stato allargato a 707 per motivi di analisi di portafoglio; la stima è condotta su 678 ti2 toli e la percentuale di azioni con R aggiustato uguale o superiore a 0,50 è pari al 20,21%. Nei due grafici seguenti mostriamo come l’universo dei titoli (conprendente quindi sia l’universo Ex-UK sia quello UK) si distri2 buisca per classi di R ed evidenziamo la percentuale di titoli che presentano per ogni fattore un beta statisticamente significativo; da no2 tare che circa l’80% dei titoli presenta un R aggiustato superiore 2 allo 0,30 e che la percentuale di titoli con R maggiore di 0.50 si alza significativamente al crescere della capitalizzazione. Figura 1 Distribuzione degli R-quadro Percentuale di società 25,00% 20,00% 15,00% 10,00% 5,00% 0,00% 0,00 0,10 0,20 0,30 0,40 0,50 0,60 0,70 0,80 0,90 1,00 R-quadro aggiustato Fattori Macroeconomici - Percentuale di tstat >+- 2 Fattori macro-economici Figura 2 UNCPI UKUNCPI UKBOND LST IFO GBUND EUR CBLI Brent 0% 5% 10% 15% 20% % campionaria significativa 80 25% 30% 35% Q U A D E R N I Ai fini del backtest, la nostra attenzione è stata posta sulla capacità previsiva di SMART in termini di tracking error (TE). Nelle solite ipotesi di normalità degli extra-rendimenti, data una stima ex-ante del TE annualizzato di un portafoglio, ci attendiamo, con una probabilità di circa due terzi (68%), che l’extra-rendimento effettivo a un anno del nostro portafoglio non superi in valore assoluto il TE; se il TE attuale di un portafoglio è pari al 3,5%, ci aspettiamo quindi nel prossimo anno una sovra/sotto performance rispetto al benchmark in valore assoluto inferiore al 3,5%, con una probabilità del 68%. Data tale considerazione, il backtest è consistito nel calcolare i TE di portafogli simulati rispetto al benchmark MSCI Europe e nel confrontare tali valori con l’extra-rendimento effettivo a un anno, andando a verificare la probabilità empirica della nostra considerazione. Il backtest copre un periodo di tempo che va da settembre 1998 a luglio 2001; alla fine di ogni trimestre stimiamo SMART e determiniamo i beta dei titoli del MSCI Europe. Data la composizione dell’indice, ad esempio a fine ottobre, simuliamo 2.500 portafogli composti da 25, 50, 75 e 100 titoli dell’indice, per un ammontare complessivo di 10.000 portafogli. All’interno di ciascuna classe di portafogli, i titoli vengono estratti casualmente data la distribuzione empirica dei loro pesi nel benchmark, in modo che gli asset con peso più elevato abbiano una probabilità maggiore di essere estratti. Dati i titoli, creiamo due portafogli: il primo è equally weighted, in altri termini, ad esempio, il peso dei titoli di un portafoglio di classe 50 è pari al 2%; il secondo portafoglio è generato sulla base della composizione del primo. Estraiamo casualmente dal suddetto portafoglio due titoli e stabiliamo che il peso del primo di essi deve essere incrementato di una variazione marginale prefissata mentre il peso del secondo dev’essere diminuito per il medesimo ammontare; le estrazioni con reimbussolamento vengono ripetute un numero elevato di volte. In questo modo generiamo un portafoglio i cui pesi sono sufficientemente casuali, all’interno di un limite minimo e massimo (0.01% e 8%) e ci garantiamo che la somma degli stessi ammonti sempre ad 1 ad ogni passaggio. Dati i 10.000 portafogli, determiniamo il TE rispetto al MSCI Europe, sulla base dell’ultimo modello stimato; andiamo a calcolare l’extra-rendimento effettivo a un anno dei suddetti portafogli e verifichiamo per quanti di essi si realizza l’evento che l’extra-rendimento sia in valore assoluto inferiore o uguale al TE ex-ante. Ci aspettiamo che la percentuale empirica dei successi si attesti intorno al 60-70%. L’analisi è condotta con cadenza trimestrale (ad ogni nuovo modello) per un numero di dodici periodi analizzati. Nel grafico di Figura 3 relativo al modello stimato a fine giugno 2001, evidenziamo la distribuzione delle coppie tracking error - extra-rendimento dei 10.000 portafogli generati a fine luglio 2001; i rendimenti si riferiscono al periodo luglio 2001- luglio 2002. Nel successivo grafico di Figura 4 riportiamo il dato di sintesi relativo alla percentuale di portafogli con un extra-rendimento realizzato compreso nei due intervalli [-TE, +TE] e [-2TE, +2TE]; la probabilità teorica che il tracking error cada nel secondo intervallo è circa il 95%. Come anzidetto il periodo temporale va da settembre 1998 a luglio 2001. 4.1.3 Backtesting 81 Q U A D E R N I Figura 3 25,00% Distribuzione Alpha - 10.000 Portafogli 20,00% Alpha ex post 15,00% 10,00% 5,00% 0,00% -5,00% -10,00% -15,00% -20,00% -25,00% 0,00% 5,00% 10,00% 15,00% Tracking Error ex Ante Figura 4 Percentuale di portafogli con excess return realizzato in [-TE,+TE] e in [-2 TE, +2 TE] 100,00% 90,00% 80,00% 70,00% 60,00% 50,00% 40,00% 30,00% 20,00% 10,00% 0,00% Oct Jan Apr Jul Oct Jan Apr Jul Oct Jan Apr Jul 98/99 99/00 99/00 99/00 99/00 00/01 00/01 00/01 00/01 01/02 01/02 01/02 TE 2 * TE Le percentuali più basse si presentano a cavallo del periodo che abbraccia il 1999 e i primi mesi del 2000, in cui abbiamo assistito a un forte incremento dei mercati azionari e altresì ad un innalzamento nella volatilità dei rendimenti. Le stime successive del modello hanno teso ad incorporare questa “novità” nel comportamento dei mercati, producendo dei risultati migliori in termini di capacità previsiva di SMART. 4.1.4 I tool Calcolo del Tracking Error Nelle pagine successive mostriamo alcuni report relativi al calcolo del tracking error di un portafoglio rispetto al benchmark MSCI Europe, e alla sua scomposizione nelle diverse fonti di rischio. Il calcolo del tracking error è fatto sulla base della composizione alla data indicata del portafoglio in esame, tenuto conto dei beta rispetto ai fattori del portafoglio e del benchmark, della volatilità idiosincratica di ciascun titolo e della matrice di varianze-covarianze dei fattori. Tabella 7 Data Analisi 30-set-02 Fondo:xxxx Benchmark: MSCI Europe Factor Risk 8,5016 Stock Specific Risk 5,8308 TOTAL RISK 14,3324 TOTAL TRACKING ERROR 3,7858% 82 Assets: 58 551 Q U A D E R N I Nella tabella precedente, il Total Tracking Error è dato dalla radice quadrata del Total Risk, che rappresenta il rischio o la varianza del portafoglio rispetto al benchmark, generata dalla scelta dei sovra/sottopesi sui singoli titoli. La varianza è spaccata in Factor Risk e Stock Specific Risk, dove il primo rappresenta la parte di rischio spiegata dai fattori del modello (detto anche rischio sistematico), mentre il secondo costituisce il rischio legato ai singoli asset (detto anche rischio idiosincratico). In questo caso SMART spiega circa il 60% del Total Risk. Nella tabella successiva il Factor Risk è scomposto nel contributo al rischio fornito dai diversi fattori del modello. Le Exposure rappresentano i beta del portafoglio e del benchmark rispetto ai singoli fattori, con indicazione delle esposizioni nette; nell’ultima colonna è riportata la percentuale del rischio sistematico spiegata da ciascun fattore. Nel grafico di Figura 5 invece rappresentiamo il contributo al rischio sistematico per classi di fattori. ASSET RISK DECOMPOSITION Data:30-set-02 FactorName Tabella 8 Fondo: xxxx Benchmark: MSCI Europe Portfolio Benchmark Net Exposure Exposure Exposure Factor Risk 8,5016 Factor Factor Factor Variance Contribution Contribution Weight Brent -0,0049 -0,0073 0,0025 1648,2457 0,0022 0,026% CBLI -0,0869 -0,1426 0,0557 3,0043 0,0473 0,556% EUR -0,3443 -0,3144 -0,0299 70,8261 -0,2038 -2,397% GBUND -2,6614 -2,2860 -0,3754 0,5407 -0,0118 -0,139% IFO 0,5294 0,4239 0,1055 25,3916 0,2134 2,510% LST -0,6670 -1,0040 0,3370 49,8981 5,1422 60,486% UKBOND 0,5740 0,7396 -0,1656 0,7353 -0,0188 -0,221% UKUNCPI -0,4533 -0,0339 -0,4195 0,5038 0,0075 0,089% UNCPI 1,3514 0,9654 0,3860 0,2412 -0,0206 -0,242% Ex-United Kingdom 0,6438 0,5571 0,0867 244,0476 1,2454 14,649% United Kingdom 0,2924 0,3500 -0,0577 142,6317 -0,1945 -2,287% Austria 0,0000 0,0012 -0,0012 215,7029 0,0003 0,004% Belgium 0,0063 0,0095 -0,0032 114,9395 0,0012 0,014% Denmark 0,0000 0,0089 -0,0089 141,9582 0,0113 0,132% Finland 0,0367 0,0239 0,0128 812,3819 0,1333 1,568% France 0,1556 0,0957 0,0599 49,0641 0,1763 2,073% Germany 0,0216 0,0638 -0,0422 66,2556 0,1178 1,385% Figura 5 Factor Contributo al rischio sistematico per classi di fattori Sector UK Sector Ex Country PanEuroMarket Macro 0% 5% 10% 15% 20% 25% 30% 35% 40% 45% 50% 55% 60% 65% 83 Q U A D E R N I Prezzi impliciti La stima dei beta dei titoli fornisce la possibilità di conoscere quali rendimenti dei fattori il mercato stia scontando in un determinato periodo; in altri termini i rendimenti dei titoli contengono un’informazione implicita, in relazione ai fattori del nostro modello. Tale informazione può essere estrapolata effettuando una regressione di tipo cross-section, dati i rendimenti dei titoli e dati i beta. All’inizio di ogni settimana calcoliamo i rendimenti della settimana trascorsa dei T titoli del nostro universo di riferimento; dati i beta di tali titoli, determiniamo i rendimenti settimanali impliciti dei fattori, in base alla seguente equazione: Rt = at + FtB + et dove: t R è il vettore dei rendimenti settimanali dei T asset al tempo t; Ft è il vettore dei rendimenti impliciti dei K fattori al tempo t; B è la matrice dei beta dei T titoli rispetto ai K fattori. La variazione su un determinato periodo del valore implicito dei fattori può essere raffrontata con la variazione effettiva sullo stesso arco temporale: disallineamenti rilevanti rappresentano un segnale di mispricing e spesso preludono ad un movimento correttivo. Il grafico successivo illustra l’andamento della differenza tra le variazioni mensili rolling tra valore di mercato e valore implicito del tasso Bund a 10 anni (scala di sinistra) e il livello del tasso stesso (scala di destra): si osserva, ad esempio, che ai minimi relativi della differenza rilevati a novembre ‘99, maggio 2000 e novembre 2001, ha fatto seguito un rialzo consistente del tasso considerato. Figura 6 0,60% Differenza tra valore di mercato e valore implicito come leading indicator 0,40% 5,4 0,20% 5,2 5,6 5 0,00% 4,8 -0,20% 4,6 Differenza 4.2 84 Strategy Tracking Error (STE) 28 giu - 02 19 apr - 02 8 feb - 02 30 nov - 01 21 set - 01 13 lug - 01 4 mag - 01 23 feb - 01 15 dic - 00 8 ott - 00 28 lug - 00 19 mag - 00 10 mar - 00 4,2 31 dic - 99 -0,60% 22 ott - 99 4,4 13 ago - 99 -0,40% GBUND Lo STE è un indicatore di rischio concepito per quantificare la perdita potenziale insita nelle scelte attive di portafoglio in termini di classi di attività (comparto azionario, obbligazionario e monetario), aree geografiche e valutarie, settori merceologici e settori di curva, merito di credito. L’ambito di applicazione è circoscritto ai portafogli di fondi (fondi di fondi e gestioni patrimoniali in fondi): è infatti estremamente importante per questa categoria di prodotti riuscire a isolare il contributo al rischio dovuto alla strategia da quello imputabile alla selezione dei titoli, in quanto la selezione dei titoli non è sotto il controllo diretto del gestore di portafogli di fondi, mentre la strategia può essere calibrata in modo anche articolato dal gestore stesso. L’applicazione puntuale di questo strumento ai portafogli di fondi gestiti da Eptafund è resa possibile dal fatto che tutti i fondi a Q U A D E R N I disposizione del gestore appartengono alla scuderia Epta e pertanto se ne conosce giornalmente la composizione. Vale la pena precisare che anche i fondi multi-manager gestiti da Epta Global Investments presentano lo stesso livello di trasparenza. Non è pertanto necessario fare alcun esercizio di style analysis per l’identificazione dell’indice che meglio approssima la politica gestionale del fondo. Per definire puntualmente cosa si intende qui per strategia, occorre prima delimitare l’universo investibile di un portafoglio di fondi. I driver che conducono all’identificazione degli elementi che compongono l’universo investibile sono i seguenti: Azioni Classe di attività Obbligazioni Strumenti monetari Area valutaria Settore merceologico Area valutaria Merito di credito 4.2.1 Universo investibile e strategia Settore di curva Area valutaria Le aree valutarie considerate sono: Euro, Sterlina inglese, Franco svizzero, Corona svedese (come proxy dell’area Paesi Nordici), Dollaro americano (come proxy dell’area Nord America), Yen, Dollaro australiano, Dollaro di Hong Kong (come proxy delle valute asiatiche), Rand sudafricano (come proxy dell’area Mercati Emergenti ex Asia). Dato il peso contenuto che rivestono i Mercati Emergenti all’interno delle nostre politiche di investimento, non si è ritenuto che valesse la pena frammentare ulteriormente tale area dal punto di vista valutario. I settori merceologici sono i dieci settori della classificazione MSCI: Consumer Discretionary, Consumer Staples, Energy, Financials, Healthcare, Industrials, Information Technology, Materials, Telecommunication Services, Utilities. Il merito di credito distingue solo tra titoli governativi e titoli corporate investment grade, senza scendere a livello di classe di rating di questi ultimi. I settori di curva sono tre: ST (1-3 anni), MT (3-7 anni) e LT (più di 7 anni). Gli indici rappresentativi degli incroci risultanti sono sottoinsiemi dei benchmark di riferimento (i benchmark cioé inclusi nei prospetti o nei contratti) più altri indici per rappresentare segmenti non inclusi nei benchmark. Così, per esempio, l’indice rappresentativo del “mattoncino” Obbligazionario/EMU/Governativo/ST è l’indice JP Morgan Emu 1-3 anni (sottoinsieme del benchmark dei prodotti analizzati), mentre l’equivalente sul segmento Corporate è l’indice Merrill Lynch EMU Corporates 1-3 anni (indice non appartenente ai benchmark utilizzati). Un altro esempio: l’indice rappresentatitivo dell’incrocio Azionario/Dollaro/Consumer Discretionary è l’indice MSCI North America Consumer Discretionary. L’universo investibile viene così ad essere composto da “mattoncini” rappresentati da indici di riferimento secondo i criteri sopra esposti. Una strategia è definita attraverso i pesi attribuiti a ciascun indice. Le scelte attive rinvenienti da una certa strategia derivano dalla 85 Q U A D E R N I differenza di peso sugli indici che compongono l’universo investibile; quantificare la perdita connessa a queste scelte attive è l’obiettivo dello STE. 4.2.2 Calcolo e attribuzione dello STE Una volta individuati gli indici, si calcola la matrice V di varianze e covarianze dei rendimenti settimanali. Se Dw è il vettore che raccoglie le differenze di peso tra strategia e benchmark, la tracking variance è data da: T tracking variance = ∆w V∆w e il tracking error è pari a: STE = ∆w T V∆w Lo STE, essendo una deviazione standard, acquisisce significato come indicatore di rischio sotto l’ipotesi forte di normalità nella distribuzione degli strategy excess return. Va però sottolineato come questa impostazione si presti a fornire anche agevolmente una valutazione di rischiosità sulla base della simulazione storica. È infatti sufficiente congelare i pesi della strategia e del benchmark e calcolare i percentili della distribuzione dei rendimenti in eccesso che il portafoglio congelato avrebbe avuto in passato. Il vantaggio del metodo parametrico rispetto alla simulazione storica è nella possibilità del primo di fornire facilmente anche un’attribuzione dell’indicatore di rischio sui diversi driver. Il contributo del driver i allo STE è dato da: STEi = ∆wi ∑ Vij ∆w j j con Vij elemento di posto ij della matrice di varianze e covarianze. 4.2.3 Esempio di report 86 L’esempio di report accluso in Figura 7 evidenzia lo STE per sei portafogli di fondi. Per facilitare l’interpretazione dell’attribuzione nella riga sotto lo STE è stato evidenziato il VaR al 98%; il passaggio da un indicatore all’altro è stato fatto sotto l’ipotesi di normalità e media nulla degli strategy excess return. L’attribuzione è riferita poi al VaR. Prendiamo a titolo di esempio il portafoglio FoF 6. Lo STE è pari allo 0.99% e corrisponde (sotto le due menzionate ipotesi) ad un VaR del 2.05%. Questo significa che la perdita massima al 98% rinveniente dalla strategia è pari a 2.05%. L’attribuzione riportata nelle righe sottostanti fotografa il contributo al VaR dei driver di rischio considerati. Abbiamo così che il 2.4% deriva dalla parte azionaria nel suo complesso, mentre le parti obbligazionaria e monetaria riducono la perdita. Nell’ambito del comparto azionario, a livello di area geografica, il Nord America presenta poi il contributo maggiore (+1.9%), mentre a livello di settore il maggiore contributore è il settore Industrials. Nei comparti obbligazionario e monetario, lo scenario peggiore non sconta alcun contributo dalla presenza di corporate; dalla lettura congiunta dei dati relativi alle aree valutarie e alla curva si trae invece che non sono le scelte di curva, ma piuttosto le valute a contribuire in misura significativa al rischio della strategia. Q U A D E R N I Portafoglio STE VaR yearly 98% FoF 1 FoF 2 FoF 3 FoF 4 FoF 5 FoF 6 0,59% 0,39% 0,56% 0,73% 0,86% 0,99% 1,21% 0,80% 1,16% 1,51% 1,78% 2,05% Figura 7 Esempio di report Contributi al Var Asset Class Azionario Azionario Obb + Mon 0,0% 0,1% 1,0% 1,1% 1,9% 2,4% Obbligazionario 0,3% 0,7% 0,1% 0,1% 0,0% -0,1% Monetario 0,9% 0,0% 0,0% 0,3% -0,2% -0,3% Emu 0,0% 0,0% 0,0% -0,1% -0,2% -0,2% Eur X-Emu 0,0% 0,0% 0,2% 0,1% North America 0,0% 0,1% 0,8% 1,0% 1,6% 1,9% Japan 0,0% 0,0% 0,1% 0,1% 0,3% 0,4% 0,0% 0,0% 0,1% 0,1% 0,3% 0,4% Pacific X-Japan 0,0% 0,0% Emerging Markets 0,0% 0,0% -0,1% -0,1% -0,2% -0,2% Totale 0,0% 0,1% CONSUMER DISCRETIONARY 0,0% 0,0% -0,1% -0,1% -0,2% -0,3% 1,0% CONSUMER STAPLES 0,0% 0,0% 0,2% 0,2% ENERGY 0,0% 0,0% 0,2% 0,2% 0,4% 0,5% FINANCIALS 0,0% 0,0% 0,1% 0,0% 0,0% 0,0% HEALTH CARE 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% INDUSTRIALS 0,0% 0,0% 0,3% 0,4% 0,7% 0,9% INFORMATION TECHNOLOGY 0,0% 0,0% 0,2% 0,2% 0,3% 0,4% MATERIALS 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% TELECOMUNICATION SERVICES 0,0% 0,0% 0,1% 0,1% 0,2% 0,3% UTILITIES 0,0% 0,0% 0,1% 0,1% 0,2% 0,2% Totale 0,0% 0,1% 1,0% 1,1% 1,9% 2,4% Governativi 1,1% 1,0% -0,1% Corporate 0,1% -0,3% 0,2% 1,1% 1,9% 2,4% 0,3% 0,5% 0,1% -0,3% -0,3% 0,3% 0,1% 0,0% Totale 1,2% 0,7% 0,1% 0,4% -0,1% -0,3% EUR 0,1% 0,6% 0,1% 0,0% USD 0,7% 0,0% 0,0% 0,3% -0,1% -0,2% YEN 0,4% 0,0% 0,0% 0,1% 0,0% -0,1% GBP 0,1% 0,0% 0,1% 0,0% 0,0% 0,0% CHF 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% Altri X-EMU 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% AUD 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% Altre X-PAC 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% EM Mkts 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% 0,0% Altre -0,1% 0,0% 0,0% -0,1% 0,0% 0,0% Totale 1,2% 0,7% 0,1% 0,4% -0,1% -0,3% ST 0,2% 0,1% 0,0% 0,0% -0,1% 0,0% MT 0,2% 0,3% 0,1% 0,0% 0,0% 0,0% LT 0,0% 0,2% 0,0% 0,1% 0,1% 0,0% Monetario (Floaters e Cash) 0,9% 0,0% 0,0% 0,3% -0,2% -0,3% Totale 1,2% 0,7% 0,1% 0,4% -0,1% -0,3% 0,0% 0,0% L’analisi delle performance si pone come obiettivo l’attribuzione del contributo fornito da ciascuna decisione attiva del gestore al risultato complessivo, cioè al valore aggiunto dato dalla differenza tra la performance lorda, di commissioni e di fiscalità, del fondo e quella dell’indice di riferimento, o benchmark. In questo paragrafo viene presentato un modello di analisi delle performance da utilizzare per fondi obbligazionari multicur- 4.3 Performance Attribution for Fixed Income Portfolios (PAFIP) 87 Q U A D E R N I rency, che investono sia in titoli governativi sia in titoli del mercato corporate, seppure limitatamente al settore investment grade (rating non inferiore alla BBB). In tale tipo di portafoglio sono a disposizione del gestore diverse leve decisionali (divise, Paesi, posizionamento sulla curva dei rendimenti, allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi, ... ), di conseguenza il processo decisionale stesso può essere diverso a seconda dell’impostazione data dal team di gestione, ed è importante che l’analisi delle performance rifletta esattamente tale processo. Nella descrizione del modello si suppone che il processo decisionale sia il seguente: in una prima fase viene determinato l’assetto valutario del fondo rispetto al benchmark, quindi si determina l’allocazione dei titoli corporate rispetto ai governativi, che può non rispettare le proporzioni presenti nel benchmark. All’interno dei due segmenti, corporate e governativo, viene quindi determinata l’allocazione per Paese, ed all’interno di ciascun Paese il posizionamento sulla curva dei rendimenti. Il segmento corporate offre inoltre altri livelli di scelta: all’interno di ciascun settore di curva è infatti possibile decidere l’allocazione per rating e per settore; anche in questo caso si suppone che le scelte di settore avvengano all’interno di ciascuna classe di rating, seguendo un’impostazione gerarchica su più livelli che caratterizza l’intero processo decisionale. Nello sviluppo di un modello di analisi delle performance di questo tipo, è cruciale l’interazione tra la funzione di risk management e l’area di gestione obbligazionaria: i risultati dell’analisi delle performance vengono presentati alla direzione per consentirle di valutare l’attività di gestione, ma vengono altresì utilizzati dagli stessi gestori, quale efficace strumento per verificare se le differenti scelte operate nelle diverse aree hanno prodotto un contributo positivo o negativo. Un processo decisionale diverso da quello descritto comporterà la necessità di adeguare il modello di analisi delle performance, mantenendo però lo stesso approccio basato su una gerarchia su più livelli. L’approccio utilizzato suddivide il valore aggiunto in una componente di currency selection, una di security selection ed una di market timing, e rappresenta un’estensione rispetto a quello tradizionalmente utilizzato nei modelli di analisi delle performance dei portafogli azionari. Nelle sezioni seguenti verranno trattate in modo analitico le componenti sopra indicate. Nell’Appendice sono riportati alcuni esempi di report prodotti dal modello. 4.3.1 Currency Selection La currency selection misura l’impatto delle differenze nell’esposizione valutaria tra il fondo ed il benchmark. Data la valuta di base di denominazione del fondo e del benchmark, che nel caso dei fondi comuni di investimento italiani è solitamente l’Euro, si vuole con questo effetto misurare la capacità di gestire attivamente le posizioni in valuta (dollari, yen, sterline, ...). Per ogni valuta infatti il fondo può presentare un differenziale di peso rispetto alla posizione del benchmark; tale differenza viene moltiplicata per la differenza tra il rendimento di quella valuta rispetto alla valuta di base, come detto l’Euro, ed il rendimento valutario complessivo del benchmark. La currency selection viene definita come: Currency Selection = ∑ (Wi F − Wi B ) ⋅ ( FXi − FX B ) I i =1 88 Q U A D E R N I dove: • Wi F = peso degli investimenti nella divisa i nel portafoglio I del fondo, con ∑ Wi F = 1 ; i =1 • WiB= peso degli investimenti nella divisa i nel benchmark, I con ∑ Wi B = 1 ; i =1 • FXi = rendimento (%) del cambio della divisa i nei confronti dell’Euro; I • FXB=∑ Wi B ⋅ FXi = impatto complessivo dell’effetto divisa i =1 sul rendimento del benchmark. Per ogni divisa il contributo fornito dalla currency selection sarà positivo se il gestore ha sovrappesato (sottopesato) tale divisa ed essa ha ottenuto un rendimento superiore (inferiore) rispetto al rendimento valutario complessivo del benchmark; l’effetto currency sarà invece negativo negli altri casi. Benchmark Crncy Country Weight LC Return Tabella 9 Fund Crncy Weight LC Return Crncy Delta Delta Crncy DWeight Weight Return *DCrncy YEN Japan 25.00% 0.241% -3.000% 16.00% 0.197% -3.000% -9.00% -3.250% 0.292% LST UK 10.00% 0.305% 1.000% USD US 30.00% -0.414% 3.000% 24.00% -0.261% 3.000% -6.00% 2.750% -0.165% 8.50% 0.289% 1.000% -1.50% 0.750% -0.011% EUR Euro 35.00% 0.290% 0.000% 51.50% 0.193% 0.000% 16.50% -0.250% -0.041% 100.0% 0.068% 0.250% 100.0% 0.093% 0.250% 0.075% Come si può notare il contributo dato dalla singola valuta alla currency selection complessiva, pari nell’esempio sopra riportato a 0.075%, è il prodotto di due componenti: il differenziale di peso tra fondo e benchmark, indicato come Delta Weight, ed il differenziale tra il rendimento della singola valuta e quello valutario complessivo del benchmark, indicato come Delta Crncy Return. Si nota quindi come il sottopeso dello yen (-9.00%) abbia fornito un contributo positivo, in quanto lo yen ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto a quello complessivo del benchmark (-3.000% contro +0.250%); il sottopeso del dollaro (-6.00%) ha invece fornito un contributo negativo, in quanto il dollaro ha ottenuto un rendimento superiore rispetto a quello complessivo del benchmark (+3.000% contro +0.250%). Nella tabella relativa all’esempio sono riportati anche i rendimenti in valuta locale (LC = Local Currency) relativi alle singole aree geografiche: infatti, dopo aver calcolato il contributo dato dalla currency selection, il contributo complessivo della security selection sarà calcolato in valuta locale. La security selection misura la differenza tra il rendimento in valuta locale del fondo e quello del benchmark, e lo scompone negli effetti relativi all’allocazione, sui vari livelli decisionali presenti, e nella scelta dei singoli titoli obbligazionari. F B Security Selection = RLC − RLC 4.3.2 Security Selection dove: F • RLC = rendimento in valuta locale del fondo; B • RLC = rendimento in valuta locale del benchmark. 89 Q U A D E R N I La security selection viene scomposta in due effetti principali: effetto di allocazione, che a sua volta è dato dalla somma dei contributi dell’allocazione sui vari livelli decisionali disponibili, ed effetto di scelta dei titoli. Dal punto di vista analitico è importante sottolineare come nel computo degli effetti di allocazione vengano considerati solo i rendimenti del benchmark, mentre nel calcolare l’effetto relativo alla scelta dei titoli si considerino anche i rendimenti del fondo. Effetto di allocazione L’effetto di allocazione misura l’impatto delle decisioni di pesare i diversi segmenti del mercato di investimento in modo differente rispetto alle posizioni del benchmark. Come già indicato, i segmenti di mercato fanno riferimento alle diverse aree di scelta attiva a disposizione del gestore; l’effetto di allocazione è calcolato su differenti livelli, che rappresentano una sorta di gerarchia che riflette il processo decisionale seguito dal team di gestione. Supponiamo di avere le seguenti scelte attive a disposizione: derivati, allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi, Paese, posizionamento sulla curva dei rendimenti, rating, settore dei titoli corporate, industria dei titoli del settore industriale. Queste rappresentano i livelli di decisioni attive sui quali il gestore può agire per aggiungere valore al fondo. Dopo aver valutato l’effetto di allocazione di una componente, per calcolare quello della componente immediatamente successiva nella scala gerarchica è necessario effettuare un ribilanciamento dei pesi per neutralizzare l’effetto della decisione al livello precedente. Effetto di allocazione dei derivati Misura la capacità del gestore di utilizzare strumenti derivati, siano essi opzioni o futures, per aumentare o ridurre l’esposizione del fondo rispetto al mercato. Viene calcolato come differenza tra il peso del portafoglio ed il peso del benchmark, che sarà sempre pari a 100%, moltiplicato per il rendimento in valuta locale del benchmark. B Allocazione derivati = (W F − W B ) ⋅ RLC dove: • WF = peso totale degli investimenti nel fondo, comprensivo dell’effetto dei derivati; • W B = peso totale degli investimenti nel benchmark (= 100% per definizione). Il contributo di tale effetto sarà positivo se il gestore ha aumentato (ridotto) l’esposizione al mercato mediante strumenti derivati, in presenza di un rendimento positivo (negativo) del mercato stesso in valuta locale. Tabella 10 Effetto di allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi 90 Benchmark Weight LC Return Weight Fund LC Return Delta Weight Derivatives Effect 100.00% 0.241% 105.00% 0.197% 5.00% 0.012% Misura l’impatto delle differenze nell’esposizione sul mercato obbligazionario corporate rispetto a quello governativo tra il fondo ed il benchmark. Un portafoglio obbligazionario può infatti essere scomposto a livello di classi di asset in titoli corporate e titoli obbligazionari: un titolo corporate presenta normalmente un rendimento superiore rispetto ad un titolo governativo avente la stessa scadenza; Q U A D E R N I questo maggiore rendimento costituisce un premio per il rischio legato all’emittente del titolo obbligazionario. L’andamento in termini di prezzo dei titoli corporate può risultare tuttavia più variabile rispetto a quello dei titoli governativi, risentendo spesso degli effetti derivanti dall’andamento del mercato azionario in cui sono quotati gli emittenti. Il gestore può decidere di allocare una quota di portafoglio ai titoli corporate superiore o inferiore rispetto alla posizione del benchmark: il risultato di tale decisione dipenderà dall’andamento del benchmark corporate rispetto a quello governativo. ( )( ) F B B F B B Allocazione Corp vs Govt = WCorp − WCorp ⋅ RCorp − R B + (WGovt − WGovt − RB ) ) ⋅ ( RGovt dove: • W FCorp e W FGovt sono rispettivamento il peso dei titoli corporate e governativi sul fondo; • W BCorp e W BGovt sono rispettivamento il peso dei titoli corporate e governativi sul benchmark; • RBCorp è il rendimento dei titoli corporate del benchmark; • RBGovt è il rendimento dei titoli governativi del benchmark; • RB è il rendimento complessivo del benchmark. Tutti i rendimenti sono in valuta locale, tuttavia da questo momento ne viene omessa l’indicazione nelle formule per non appesantire la notazione. Per quanto riguarda i pesi delle componenti nel portafoglio, questi sono ribilanciati al 100% per neutralizzare l’effetto dei derivati, il cui contributo viene già misurato dall’allocazione in derivati. Il contributo dell’effetto di allocazione dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi sarà positivo se il gestore ha sovrappesato (sottopesato) la componente corporate rispetto a quella governativa, ed il benchmark corporate ha ottenuto un rendimento superiore (inferiore) rispetto al rendimento del benchmark complessivo. Benchmark Weight Corporate LC Return Tabella 11 Fund Weight LC Return Rebalanced Weight Delta Delta Bmk DWeight * Weight Return DBmk 40.00% 0.153% 55.00% 0.150% 52.38% 12.38% -0.088% -0.011% Governativi 60.00% 0.300% 50.00% 0.229% 47.62% -12.38% -0.007% 100.00% 0.241% 105.00% 0.197% 100.00% 0.059% -0.018% Come si può notare nell’esempio sopra riportato, il contributo derivante dal sovrappeso dei titoli corporate rispetto ai titoli governativi è stato negativo: ciò è dovuto al fatto che il segmento corporate è stato sovrappesato rispetto a quello governativo (+12.38%), ed il rendimento del segmento corporate del benchmark è risultato inferiore rispetto a quello del benchmark complessivo (0.153% vs 0.241%). Misura l’impatto delle differenze nell’esposizione sui singoli mercati obbligazionari geografici tra il fondo ed il benchmark. In ognuno dei due segmenti presenti, corporate e governativi, il gestore può infatti decidere di sovra o sottopesare un Paese rispetto ad un altro; il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento dei singoli mercati obbligazionari rispetto al rendimento del benchmark complessivo, sia esso corporate o governativo. Effetto di allocazione per Paese 91 Q U A D E R N I Allocazione Paese = I I F B B B F F B B B F = ∑ (WGovt , i − WGovt , i ) ⋅ ( RGovt , i − RGovt ) ⋅ WGovt + ∑ WCorp , i − WCorp , i ⋅ RCorp , i − RCorp ⋅ WCorp i =1 i =1 ( )( ) dove: • W FGovt,i è il peso del Paese i nel segmento governativo del I F fondo, con ∑ WGovt ; ,i = 1 i =1 • W FCorp,i è • W BGovt,i è il peso del Paese i nel segmento governativo del il peso del Paese i nel segmento corporate del I F fondo, con ∑ WCorp ; ,i = 1 i =1 I B benchmark, con ∑ WGovt , i = 1; i =1 • W BCorp,i è il peso del Paese i nel segmento corporate del I B benchmark, con ∑ WCorp ,i = 1 ; i =1 • RBGovt,i è il rendimento, in valuta del locale, del Paese i del segmento governativo del benchmark; • RBCorp,i è il rendimento, in valuta del locale, del Paese i del segmento corporate del benchmark. Come si può notare dalle formule sopra indicate, il peso del segmento governativo viene ribilanciato a 100%, ed analogamente viene fatto per il segmento corporate. Tale operazione è necessaria per neutralizzare gli effetti dei derivati e dell’allocazione dei titoli corporate rispetto ai governativi, già misurati in precedenza. Tabella 12 Benchmark Fund Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return Weight Weight Delta Weight Delta Country Return Allocation Govt EMU 15.00% 25.00% 0.250% 25.00% 50.00% 0.175% 25.00% -0.050% -0.0062% Govt Japan 20.00% 33.33% 0.200% Govt US Govt UK 5.00% 10.00% 0.185% -23.33% -0.100% 0.0117% 20.00% 33.33% 0.450% 15.00% 30.00% 0.350% 5.00% 8.33% 0.250% -3.33% 0.150% -0.0025% 5.00% 10.00% 0.180% 1.67% -0.050% -0.0004% 60.00% 100.0% 0.300% 50.00% 100.0% 0.229% 0.0025% Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare l’area EMU (50% vs 25% sui pesi ribilanciati) contribuisce negativamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto il segmento governativo EMU ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto al segmento governativo nel suo complesso (0.250% vs 0.300%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso del segmento governativo sul fondo: Govt EMU Country Allocation=(50.00%-25.00%)*(0.250%-0.300%)*50.00%=-0.0062% Al contrario, la scelta di sottopesare il Giappone (10% vs 33.33%) contribuisce positivamente, in quanto il segmento governativo del Giappone ha ottenuto un rendimento inferiore rispetto al segmento governativo nel suo complesso (0.200% vs 0.300%). Govt Japan Country Allocation=(10.00%-33.33%)*(0.200%- 0.300%)*50.00%= +0.0117% La somma dei contributi dei singoli Paesi fornisce l’effetto di allocazione per Paese relativo al segmento governativo (0.0025%), cui andrà aggiunto il contributo dei singoli Paesi del segmento corporate che sarà calcolato in modo analogo. 92 Q U A D E R N I Misura l’impatto del differente posizionamento sulla curva dei rendimenti, all’interno di ogni singolo Paese, del fondo rispetto al benchmark. In ciascun Paese il gestore può infatti scegliere una strategia di curva differente rispetto a quella del benchmark, sovra o sottopesando alcuni settori di curva rispetto ad altri; il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento del singolo settore di curva rispetto al rendimento del benchmark complessivo del paese di riferimento. Effetto di posizionamento sulla curva dei rendimenti Allocation Curva = I J ( )( ) I J ( )( ) F B B B F F B B B F = ∑ ∑ WGovt , i , j − WGovt , i , j ⋅ RGovt , i , j − RGovt , i ⋅ WGovt , i + ∑ ∑ WCorp, i , j − WCorp, i , j ⋅ RCorp, i , j − RCorp, i ⋅ WCorp, i i =1 j =1 i =1 j =1 dove: • W FGovt,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ F mento governativo del fondo, con ∑ WGovt ,i, j = 1 ; j =1 • W FCorp,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ F mento corporate del fondo, con ∑ WCorp ,i, j = 1 ; j =1 • W BGovt,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ B mento governativo del benchmark, con ∑ WGovt ,i, j = 1 ; j =1 • W BCorp,i,j è il peso del settore di curva j del paese i del segJ B mento corporate del benchmark, con ∑ WCorp ,i, j = 1 ; j =1 RBGovt,i,j è il rendimento del settore di curva j del paese i del segmento governativo del benchmark; • RBCorp,i,j è il rendimento del settore di curva j del paese i del segmento corporate del benchmark. Anche in questo caso, come già fatto in precedenza nella misurazione del contributo dato dall’allocazione per Paese, il peso dei singoli Paesi all’interno dei due segmenti, corporate e governativo, viene ribilanciato a 100%, in linea con l’impostazione gerarchica su più livelli del modello. • Benchmark Tabella 13 Fund Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return Weight Weight Delta Weight Delta TimetoMty Return Allocation Govt EMU 1-3 yrs 2.00% 13.33% 0.150% 2.50% 10.00% 0.100% -3.33% -0.100% 0.0008% Govt EMU 3-5 yrs 2.00% 13.33% 0.175% 2.50% 10.00% 0.150% -3.33% -0.075% 0.0006% Govt EMU 5-7 yrs 3.00% 20.00% 0.220% 5.00% 20.00% 0.170% 0.00% -0.030% 0.0000% Govt EMU7-10 yrs 4.00% 26.67% 0.270% 5.00% 20.00% 0.190% -6.67% 0.020% -0.0003% Govt EMU 10+ yrs 4.00% 26.67% 0.340% 10.00% 40.00% 0.195% 13.33% 0.090% 0.0030% 15.00% 100.00% 0.250% 25.00% 100.00% 0.175% 0.0041% Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il settore di curva superiore ai 10 anni (40% vs 26.67% sui pesi ribilanciati) contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto il settore di curva sopra i 10 anni ha ottenuto un rendimento superiore rispetto al rendimento dell’area EMU governativa complessiva (0.340% vs 0.250%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso dell’area EMU governativa sul fondo: Govt EMU 10+ yrs Allocation=(40.00%-26.67%)*(0.340%-0.250%)* 25.00%=0.0030% Qualora il peso del settore di curva sul paese sia esattamente uguale a quello del benchmark, il contributo all’effetto complessivo 93 Q U A D E R N I generato dal posizionamento di curva sarà naturalmente nullo, come avviene per il settore da 5 a 7 anni nell’esempio. La somma dei contributi dei singoli settori di curva fornisce l’effetto di posizionamento sulla curva relativo all’area EMU del segmento governativo (0.0041%), cui andrà aggiunto il contributo degli altri Paesi del segmento governativo e di tutti quelli del segmento corporate, che saranno calcolati in modo analogo. Per quanto riguarda la scelta dei settori di curva (1-3, 3-5, 5-7, 710, 10+ yrs), quella indicata rappresenta la scomposizione normalmente utilizzata dai principali contributori di indici obbligazionari, quali JP Morgan, Merrill Lynch, … È comunque possibile effettuare un altro tipo di scomposizione della curva dei rendimenti, aumentando o diminuendo il livello di dettaglio rispetto all’esempio presentato. Effetto di allocazione per rating Misura l’impatto della differente scelta delle classi dei rating del fondo rispetto al benchmark, all’interno di ciascun settore di curva di ciascun paese. Tale effetto è valido solo per i titoli corporate: per i titoli governativi avendo già misurato l’effetto Paese, non si può avere un effetto rating in quanto per definizione tutte le emissioni obbligazionarie governative di uno stesso paese presentano lo stesso rating. Nel segmento corporate invece all’interno di uno stesso Paese possono essere presenti società emittenti con rating differenti. In ciascun settore di curva, il gestore può quindi scegliere di sovra o sottopesare alcuni rating rispetto ad altri; il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento del singolo rating rispetto al rendimento complessivo del settore di curva di riferimento. I J K ( )( ) F F B B F Allocazione Rating = ∑ ∑ ∑ WCorp , i , j , k − WCorp , i , j , k ⋅ RCorp , i , j , k − RCorp , i , j ⋅ WCorp , i , j i =1 j =1 k =1 dove: • WFCorp,i,j,k è il peso del rating k del settore curva j del Paese K F i dei corporate del fondo, con ∑ WCorp ,i, j , k = 1 ; k =1 • WBCorp,i,j,k è il peso del rating k del settore curva j del Paese K B i dei corporate del benchmark, con ∑ WCorp , i , j , k = 1; k =1 • RBCorp,i,j,k è il rendimento del rating k del settore curva j del Paese i dei corporate del benchmark. Tabella 14 Benchmark Corp Fund Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return Weight Weight Delta Weight Delta Rating Return Allocation EMU 1-3 yrs AAA 0.75% 23.08% 0.120% 0.75% 9.38% 0.100% -13.70% -0.157% 0.0017% EMU 1-3 yrs AA 1.00% 30.77% 0.240% 1.25% 15.63% 0.260% -15.14% -0.037% 0.0004% EMU 1-3 yrs A 1.25% 38.46% 0.360% 2.50% 31.25% 0.400% EMU 1-3 yrs BBB 0.25% 7.69% 0.480% 3.50% 43.75% 0.550% 36.06% 0.203% 0.0059% 3.25% 100.00% 0.277% 8.00% 100.00% 0.416% -7.21% 0.083% -0.0005% 0.0075% Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il rating BBB (43.75% vs 7.69% sui pesi ribilanciati) contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto tale rating ha ottenuto un rendimento superiore rispetto a quello del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate (0.480% vs 0.277%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del 94 Q U A D E R N I peso del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate sul totale del fondo: Corp EMU 1-3 yrs BBB Allocation=(43.75%-7.69%)* (0.480%-0.277%)*8.00%= 0.0059% Per quanto riguarda la scelta dei rating, quella indicata rappresenta una scomposizione su quattro classi di rating principali: rispetto al maggior dettaglio presente nelle scomposizione delle principali agenzie di rating, quali S&P e Moody, si preferisce infatti raggruppare tra loro classi ritenute comunque omogenee (ad esempio le classi AA1, AA2, AA3 confluiscono tutte nella classe AA). Anche in questo caso è possibile effettuare un altro tipo di scomposizione delle classi di rating, aumentandone eventualmente il livello di dettaglio. Misura l’impatto della differente scelta dei settori di investimento dei titoli corporate rispetto al benchmark, all’interno di ciascuna classe di rating di ciascun settore di curva di ciascun paese. All’interno di ogni classe di rating, possono infatti essere presenti società emittenti appartenenti a settori differenti. Il gestore può quindi scegliere di sovra o sottopesare alcuni settori rispetto ad altri; il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento del singolo settore rispetto al rendimento complessivo del rating di riferimento. N J K S ( )( Effetto di allocazione per settore ) F B B B F Allocazione Settore = ∑ ∑ ∑ ∑ WCorp , i , j , k , s − WCorp , i , j , k , s ⋅ RCorp , i , j , k , s − RCorp , i , j , k ⋅ WCorp , i , j , k i =1 j =1 k =1 s =1 dove: • WFCorp,i,j,k,s è il peso del settore s, del rating k, del settore di S F curva j, del Paese i dei corporate del fondo, con ∑ WCorp , i , j , k , s = 1; s =1 • WBCorp,i,j,k,s è il peso del settore s, del rating k, del settore di cur va j, del Paese i dei corporate del benchmark, S B con ∑ WCorp ,i, j , k , s = 1 ; s =1 • RBCorp,i,j,k,s è il rendimento del settore s, del rating k, del set- tore di curva j, del Paese i dei corporate del benchmark. Il peso di ogni classe di rating all’interno di ogni settore di curva di ogni paese viene ribilanciato a 100%, come già abbiamo visto nella misurazione degli altri effetti di allocazione ai punti precedenti. Benchmark Corp EMU 1-3 yrs BBB Financial Tabella 15 Fund Weight Rebalanced LC Return Weight Rebalanced LC Return Delta Weight Weight Weight 0.10% 32.00% 0.350% 1.00% 28.57% 0.400% 1-3 yrs BBB Utility 20.00% 0.450% 0.50% 14.29% 0.450% 0.05% Sector Allocation 40.00% 0.600% 2.00% 57.14% 0.650% 17.14% 0.120% 0.0007% 1-3 yrs BBB Industrial 0.08% 1-3 yrs BBB Collateral 0.02% Delta Return 8.00% 0.475% 0.00% -3.43% -0.130% 0.0002% -5.71% -0.030% 0.0001% 0.00% 0.000% -8.00% -0.005% 0.0000% 0.25% 100.00% 0.480% 3.50% 100.00% 0.550% 0.0010% Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare il settore finanziario (57.14% vs 40.00% sui pesi ribilanciati) contribuisce positivamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto tale settore ha ottenuto un rendimento superiore a quello del rating BBB del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate (0.600% vs 0.480%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso del rating BBB del settore di curva 1-3 anni dell’area EMU del segmento corporate sul totale del fondo: Corp EMU 1-3 yrs BBB Financial Alloc=(57.14% -40.00%)*(0.600%-0.480%)*3.50%=0.0007% 95 Q U A D E R N I La scelta dei settori dipende dalla classificazione dei titoli corporate che si è deciso di adottare internamente, e che deve essere naturalmente condivisa dal risk management e dal team di gestione. Effetto di allocazione per industria Misura l’impatto della differente scelta dei tipi di industria del fondo rispetto al benchmark, all’interno di ciascun settore. Tale effetto è valido solo per il settore degli industriali: questo settore si compone infatti al suo interno di una variegata tipologia di industrie; il gestore dopo aver deciso la quota da allocare al settore industriale nel suo complesso, può al suo interno decidere una ripartizione diversa rispetto a quella del benchmark. Il risultato di tali decisioni dipenderà dall’andamento della singola industria rispetto al rendimento complessivo del settore degli industriali. I J K S D ( )( ) F B B B F Allocazione Industria = ∑ ∑ ∑ ∑ ∑ WCorp , i , j , k , s , d − WCorp , i , j , k , s , d ⋅ RCorp , i , j , k , s , d − RCorp , i , j , k , s ⋅ WCorp , i , j , k , s i =1 j =1 k =1 s =1 d =1 dove: • WFCorp,i,j,k,s,d è il peso dell’industria d, del settore s, del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate del D F fondo, con ∑ WCorp ,i, j , k , s, d = 1 ; d =1 WBCorp,i,j,k,s,d • è il peso dell’industria d, del settore s, del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate del D B benchmark, con ∑ WCorp , i , j , k , s , d = 1; • RBCorp,i,j,k,s,d d =1 è il rendimento dell’industria d, del settore s, del rating k, del settore di curva j, del Paese i dei corporate del benchmark. Tabella 16 Benchmark Corp EMU 1-3 yrs BBB Fund Weight Rebalanced LC Weight Rebalanced LC Delta Weight Return Weight Return Weight Delta Industry Return Allocation Industrial Consumer Cycl 0.031% 12.50% 0.450% 0.225% 22.50% 0.650% 10.00% 0.100% 0.0001% Industrial Energy 0.031% 12.50% 0.550% 0.238% 23.75% 0.400% 11.25% 0.200% 0.0002% Industrial Technology 0.031% 12.50% 0.100% 0.375% 37.50% 0.275% 25.00% -0.250%-0.0006% Industrial Tobacco 0.031% 12.50% 0.200% 0.000% 0.00% 0.000% -12.50% -0.150% 0.0002% Industrial Retailers 0.031% 12.50% 0.300% 0.013% 1.25% 0.216% -11.25% -0.050% 0.0001% Industrial Communication 0.031% 12.50% 0.450% 0.025% 2.50% 0.200% -10.00% 0.100%-0.0001% Industrial Basic Industry 0.031% 12.50% 0.150% 0.000% 0.00% 0.000% -12.50% -0.200% 0.0003% Industrial Services 0.031% 12.50% 0.600% 0.125% 12.50% 0.383% 0.00% 0.250% 0.0000% 0.250% 100.0% 0.350% 1.000% 100.0% 0.400% 0.0001% Nell’esempio sopra riportato, la scelta di sovrappesare l’industria relativa ai tecnologici (37.50% vs 12.50% sui pesi ribilanciati) contribuisce negativamente al valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, in quanto tale industria ha ottenuto un rendimento inferiore a quello del settore degli industriali BBB 1-3 anni EMU (0.100% vs 0.350%). L’effetto complessivo tiene inoltre conto del peso del settore degli industriali BBB 1-3 anni EMU sul totale del fondo: Corp EMU 1-3 yrs BBB Technology Allocation=(37.50%-12.50%)*(0.100%-0.350%)*1.00%=-0.0006% Effetto di scelta dei titoli 96 L’effetto di scelta dei titoli misura l’impatto della selezione dei singoli titoli obbligazionari corporate e governativi all’interno delle diverse aree di investimento disponibili. A differenza di quanto avviene nel calcolo degli effetti di allocazione, in cui si misurano le dif- Q U A D E R N I ferenze di peso tra fondo e benchmark per le differenze di rendimento tra i diversi comparti del benchmark, nel calcolo del contributo dato dalla selezione dei titoli è necessario comparare le differenze tra i rendimenti in valuta locale tra il fondo ed il benchmark nelle singole aree di investimento. Tali aree sono differenti per il segmento governativo rispetto a quello corporate: nel primo caso, infatti, il livello minimo è dato dal posizionamento sul settore di curva all’interno del Paese; per i titoli corporate, invece, è necessario considerare i singoli settori all’interno delle classi di rating dei diversi settori di curva di ogni paese, oltre che le diverse industrie per il settore industriale. Le differenze di rendimento in valuta locale tra le aree dei livelli più bassi così definite vanno moltiplicate per il peso sul fondo di tali aree. I J ( ) F B F Scelta dei titoli governativi = ∑ ∑ RGovt , i , j − RGovt , i , j ⋅ WGovt , i , j i =1 j =1 I J K S ( ) F B F Scelta dei titoli corporate = ∑ ∑ ∑ ∑ RCorp , i , j , k , s − RCorp , i , j , k , s ⋅ WCorp , i , j , k , s s ≠ Industrial + i =1 j =1 k =1 s =1 ∑ ∑ ∑ ∑ ∑(R I J K S D F Corp , i , j , k , s , d i =1 j =1 k =1 s =1 d =1 ) B F − RCorp , i , j , k , s , d ⋅ WCorp , i , j , k , s , d s = Industrial Benchmark Fund Weight Rebalanced LC Weight Rebalanced LC Delta Weight Return Weight Return Return Tabella 17 Bond Selection Govt EMU 1-3 yrs 2.00% 13.33% 0.150% 2.50% 10.00% 0.100% -0.050% -0.0013% Govt EMU 3-5 yrs 2.00% 13.33% 0.175% 2.50% 10.00% 0.150% -0.025% -0.0006% Govt EMU 5-7 yrs 3.00% 20.00% 0.220% 5.00% 20.00% 0.170% -0.050% -0.0025% Govt EMU 7-10 yrs 4.00% 26.67% 0.270% 5.00% 20.00% 0.190% -0.080% -0.0040% Govt EMU 10+ yrs 4.00% 26.67% 0.340% 10.00% 40.00% 0.195% -0.145% -0.0145% 15.00% 100.00% 0.250% 25.00% 100.00% 0.175% -0.0229% Nell’esempio sopra riportato, la selezione dei titoli nel settore di curva superiore ai 10 anni dell’area EMU governativa è stata negativa, e tale effetto è dato dalla differenza tra i rendimenti in valuta locale del fondo rispetto al benchmark (0.195% vs 0.340%) moltiplicata per il peso del settore di curva superiore ai 10 anni dell’area EMU governativa sul fondo (10.00%): Govt EMU 10+ yrs Selection = (0.195% - 0.340%) * 10.00% = -0.0145% La somma dei contributi dei singoli settori di curva fornisce l’effetto di selezione titoli relativo all’area EMU del segmento governativo (-0.0229%), cui andrà aggiunto il contributo degli altri Paesi del segmento governativo e quello relativo al segmento corporate. Il market timing misura l’impatto di tutte le operazioni effettuate dal gestore del fondo nel corso della giornata, o del periodo, oggetto di analisi. Nella misurazione della currency selection e della security selection si ipotizza infatti che il portafoglio investito al tempo t rimanga tale anche al tempo t+1; le operazioni di acquisto e/o vendita di titoli avvenute tra t e t+1, come pure l’eventuale operatività intraday su titoli e/o valute, vengono quindi misurate dalla componente di market timing. Nelle operazioni di acquisto e vendita si confronta il prezzo al quale è stata eseguita l’operazione con il prezzo del titolo al tempo t+1: se il gestore ha acquistato (venduto) un titolo ad un prezzo inferiore (superiore) rispetto al prezzo di valorizzazione 4.3.3 Market timing 97 Q U A D E R N I del titolo stesso al tempo t+1, il contributo dato dal market timing sarà positivo; tale effetto sarà invece negativo negli altri casi. A differenza della currency selection e della security selection, che vengono calcolate in modo analitico, il market timing viene determinato in modo residuale: Valore Aggiunto=Performance Lorda del Fondo-Performance del Benchmark Market Timing=Valore Aggiunto-Currency Selection-Security Selection. Il market timing può anche essere determinato in via analitica, ma in tal caso è necessario utilizzare anche tutte le informazioni relative alle operazioni in titoli avvenute tra t e t+1, mentre nella determinazione in via residuale è possibile utilizzare soltanto le informazioni relative alla composizione del portafoglio del fondo alla fine della giornata. Data la metodologia di gestione di un fondo comune obbligazionario, in cui la componente di trading assume un peso poco rilevante, e data anche la dinamica dei prezzi del mercato obbligazionario, soprattutto quello governativo, la componente di market timing avrà generalmente un peso ridotto nella scomposizione del valore aggiunto. 4.3.4 La duration nel modello di analisi delle performance 98 Nell’analisi di un portafoglio obbligazionario un indicatore che viene spesso utilizzato è quello relativo alla duration (Macauley) o alla modified duration. Come si è potuto notare dalla descrizione del modello, la duration non viene in alcun modo tenuta in considerazione in tale tipo di analisi. Infatti, le scelte relative al posizionamento sulla curva dei rendimenti sono misurate dalla componente di allocazione relativa: vengono comparati tra loro i diversi segmenti della curva e si valuta la capacità del gestore di investire in quelli che rendono relativamente di più. Vi è tuttavia un effetto residuale di duration, che ricade sull’effetto dato dalla selezione dei titoli: quando si analizza il posizionamento sul settore superiore ai 10 anni si suppone che il rendimento di tutti i titoli di tale settore sia omogeneo, a meno di differenze specifiche legate alla peculiarità dei singoli emittenti. In realtà in quel settore di curva si trovano titoli che possono avere scadenze, e quindi duration, differenti tra loro: si pensi al confronto di un long bond con un T-note a 10 anni. Tali effetti ricadono quindi nella selezione dei titoli, in quanto in tal caso si confrontano i differenziali di rendimento tra portafoglio e benchmark sul singolo settore di curva, mettendo assieme titoli che possono avere duration differenti, seppur trovandosi nello stesso settore di curva. Per fare un esempio, se nel settore di curva superiore ai 10 anni del portafoglio sono presenti titoli aventi una maggiore duration rispetto all’analogo settore del benchmark, ad esempio un sovrappeso sul long bond, ne risulterà un effetto di selezione di titoli positivo in un mercato che sale, ma tale effetto non è ponderato per il differenziale di duration all’interno del bucket stesso. Inserire la duration nello schema di analisi delle performance sopra delineato non risulta tuttavia immediato; piuttosto un modo semplice per ovviare all’inconveniente sopra indicato, consiste nell’aumentare il livello di dettaglio dei settori di curva. Se anzichè considerare un unico settore superiore ai 10 anni, lo si suddivide in 10-15 anni, 15-20 anni, 20-25 anni, sopra i 25 anni, l’effetto della componente duration all’interno dei singoli settori verrà notevolmente diluito. Q U A D E R N I Il modello di analisi delle performance descritto finora viene elaborato su base giornaliera: per ogni giornata lavorativa si determina il valore aggiunto del fondo rispetto al benchmark, e si misurano i contributi forniti dalle componenti sopra indicate. La verifica dei risultati avviene tuttavia su periodi di tempo più lunghi, quali un mese o un anno; è quindi necessario aggregare i risultati delle singole elaborazioni giornaliere su tali orizzonti temporali. A differenza dei tassi di rendimento, che vengono capitalizzati nel tempo, non esiste un metodo condiviso per combinare gli effetti di attribuzione nel tempo. Tale problema può essere meglio chiarito con un esempio. Supponiamo che il valore aggiunto tra il rendimento di un fondo, RtF, e quello del benchmark, RtB, su un determinato giorno t sia scomposto in un certo numero di effetti. Considerando un periodo di più giorni, il metodo utilizzato per combinare i rendimenti è quello di capitalizzarli tra loro. Il rendimento del fondo su T giorni è: 4.3.5 Aggregazione temporale dei risultati dell’analisi delle performance R F = (1 + R1F ) ⋅ (1 + R2F ) ⋅ L ⋅ (1 + RTF ) − 1 e quello del benchmark, R B = (1 + R1B ) ⋅ (1 + R2B ) ⋅ L ⋅ (1 + RTB ) − 1 Se la scomposizione del valore aggiunto su un giorno è la differenza RtF- RtB, allora su un orizzonte periodale più lungo è necessario valutare la differenza RF- RB. Tuttavia, non è possibile sommare semplicemente tra loro gli effetti giornalieri, poichè la somma delle differenze di rendimento non è uguale alla differenza tra i rendimenti composti: R F − R B ≠ ( R1F − R1B ) + ( R2F − R2B ) + L + ( RTF − RTB ) Non è neppure possibile capitalizzare le differenze di rendimento giornaliere, in quanto il risultato non è ancora uguale alla differenza tra i rendimenti composti: R F − R B ≠ (1 + R1F − R1B ) ⋅ (1 + R2F − R2B ) ⋅ L ⋅ (1 + RTF − RTB ) − 1 Come detto, non esiste un metodo univocamente condiviso per aggregare le differenze nel tempo. Dato il non elevato livello in valore assoluto dei rendimenti giornalieri di un fondo obbligazionario, come pure di un benchmark dello stessa categoria, si può affermare che il valore aggiunto di un fondo con un tracking error non eccessivamente elevato, sia normalmente molto basso in valore assoluto, se considerato su base giornaliera. La capitalizzazione del valore aggiunto, su un periodo più lungo di tempo, genera quindi dei valori residuali relativamente bassi rispetto alla semplice somma degli effetti in cui viene scomposto il valore aggiunto giornalmente. La soluzione che è stata scelta, quindi, consiste nell’individuare tale valore residuale e attribuirlo alle singole componenti (currency selection, security selection, market timing) in base al peso relativo delle stesse sul valore aggiunto totale. Tale soluzione, seppur non formalmente corretta dal punto di vista matematico, ha il pregio di risultare di facile applicabilità, oltre a non generare particolari distorsioni, come risulta dalle verifiche empiriche di applicazione del modello. Il tema centrale attorno al quale è costruito il presente capitolo è costituito dall’approccio pluralistico alla misurazione e analisi del rischio adottato da Eptafund, in contrapposizione alla scelta di avere un 5 Conclusioni 99 Q U A D E R N I unico strumento. La stessa filosofia è alla base dei sistemi di analisi delle performance impiegati e, sebbene non si sia voluto affrontare estensivamente anche questo argomento, un assaggio è fornito dal modello PAFIP presentato nel par. 4.3. La pluralità di sistemi (par. 3) rispecchia le differenti caratteristiche dei prodotti gestiti e la convinzione che strumenti di analisi ad hoc siano capaci di catturare le dinamiche di tali prodotti più approfonditamente. Quest’ultimo aspetto acquisisce valore giacché si ritiene che il risk management in una società di gestione del risparmio non debba essere solo una funzione di controllo, ma anche un importante supporto alla struttura di gestione. Il gestore deve avere la possibilità di svolgere ex-ante il controllo e lo farà quanto più il sistema è condiviso. Da qui discende un altro tema affrontato (par. 2), vale a dire la preferenza accordata allo sviluppo di sistemi proprietari rispetto all’acquisto sul mercato: si arriva alla condivisione naturalmente se lo strumento è costruito e pensato attraverso il confronto con chi lo deve poi utilizzare. Sono state poi presentate nel par. 4 tre soluzioni sviluppate da Eptafund: le prime due rispondono all’esigenza di misurazione e attribuzione del rischio per portafogli azionari e portafogli di fondi rispettivamente, la terza consiste in un modello di scomposizione delle performance per portafogli obbligazionari. Il livello di dettaglio col quale sono state illustrate queste soluzioni intende chiarire con esempi concreti cosa si può fare lavorando per singolo prodotto, con l’obiettivo di supportare la tesi dell’intero capitolo. Altri aspetti collegati all’attività di risk management nel risparmio gestito meriterebbero di essere affrontati. Penso, per fare solo qualche esempio, ai molti e molto discussi modelli di analisi del rischio per portafogli obbligazionari contenenti crediti, all’attività di risk budgeting, alla valutazione delle prestazioni di una struttura di risk management. L’interesse sorto intorno a quest’area e la percezione sempre più marcata da parte dell’alta direzione che si tratti di un’area strategica, faciliterà il dibattito e quindi l’approfondimento di diversi punti e contribuirà a far maturare il settore instradandone l’operatività su linee guide in una certa misura standardizzate. Riteniamo però che a tendere, tanto maggiore sarà il livello di standardizzazione tanto più forte sarà l’esigenza di andare oltre agli standard, proprio in virtù del valore aggiunto che questa attività può dare. Riferimenti bibliografici 100 Fama, Eugene, and Kenneth Frech, 1993, Common Risk Factors in the Returns on Stocks and Bonds, Journal of Financial Economics 33, 3-56 Fama, Eugene, and Kenneth Frech, 1995, Size and Book-to-Market Factors in Earnings and Returns, Journal of Finance 50, 131-155 Carahart, Mark M., 1997, On Persistence in Mutual Fund Performance, Journal of Finance 52, N.1 Daniel, Kent D., and Sheridan Titman, 1997, Evidence on the Characteristics of Cross-Sectional Variation in Stock Returns, Journal of Finance 52, 1-33 Nai-Fu Chen, Richard Roll and Stephen A. Ross, Economic Forces and The Stock Market, Journal of Business, 1986, v59(3), 383-404 Brinson G., Hood R., Beebower G., 1986, Determinants of Portfolio Performance, Financial Analysts Journal 42-4, 39-44 Ibbotson R., Kaplan P., 2000, Does Asset Allocation Policy Explain 40, 90, or 100 Percent of Performance?, Financial Analysts Journal 56-1, 26-33 Q U A D E R N I Appendice: esempi di report prodotti da PAFIP Tabella 18 Valori Cumulati Net fund return Gross fund return Benchmark return 0,849% 1,095% 1,531% Difference (Gross fund - Bmk) -0,437% Residual -0,004% Total value added -0,433% Residual Security selection -0,003% Corporate vs Government Effect (b.1) -0,772% Country Allocation (b.2) Govt Time-to-Maturity Allocation Corp / Govt Time-toMaturity Allocation 0,009% (b.3.1) -0,111% (b.3.2) 0,246% Time-to-Maturity -0,115% Currency activity -0,001% -0,001% (a) Corporate Rating Allocation (b.4) -0,272% Security selection -0,427% -0,430% (b) Corporate Sector Allocation (b.5) 0,117% Market timing -0,003% -0,003% (c) Corporate Industry Allocation (b.6) 0,154% Delta Currency Effect -0,002% -0,002% (d) Country 0,009% Corporate (All) -0,378% Govt Bond Picking Corp Bond Picking (b.7.1) 0,052% Gov Bond Picking (b.7.2) 0,149% 0,052% Derivatives Effect (b.8) -0,430% -0,435% (a)+(b)+(c) AUS Currency Effect CAN DKK YEN SKR LST -0,004% USD Tabella 19 EUR 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,001% 0,000% 0,000% -0,001% (a) Govt Country Allocation 0,000% 0,000% -0,005% 0,000% -0,005% 0,016% 0,000% 0,004% Corp Country Allocation 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,009% (b.2) Govt Time-to-Maturity Allocation under 1 year 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,006% -0,017% 0,000% -0,169% years 1-3 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,003% -0,008% 0,000% 0,058% years 3-5 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,018% years 5-7 0,000% 0,000% 0,001% 0,000% 0,000% 0,003% 0,000% -0,001% years 7-10 0,000% 0,000% -0,001% 0,000% 0,001% 0,004% 0,000% -0,001% years 10+ 0,000% 0,000% -0,002% 0,000% -0,002% 0,010% 0,000% -0,007% 0,000% 0,000% 0,001% 0,000% -0,004% -0,005% 0,000% -0,103% -0,110% (b.3.1) Govt/Corp Time-to-Maturity Allocation under 1 year 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,002% 0,000% 0,118% years 1-3 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,007% 0,000% -0,026% years 3-5 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,004% 0,000% 0,010% years 5-7 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,005% 0,000% 0,001% years 7-10 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% -0,004% 0,000% 0,010% years 10+ 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,018% 0,000% 0,117% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,000% 0,014% 0,000% 0,231% 0,244% (b.3.2) Corporate Rating AAA AA A BBB High Yield Bond Picking 0,000% -0,013% 0,029% 0,132% 0,000% 0,148% Allocation effect -0,077% -0,045% 0,020% -0,168% 0,000% -0,270% Security selection -0,077% -0,058% 0,049% -0,037% 0,000% -0,122% Tabella 20 Corporate Sector Collateral Industrial Financial Utility Bond Picking 0,010% 0,178% -0,018% -0,022% 0,148% Allocation effect 0,050% 0,000% 0,016% 0,049% 0,116% Security selection 0,061% 0,178% -0,002% 0,028% 0,264% Tabella 21 101 Francesco Betti Aletti Gestielle Sgr Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara Valentina Dall’Aglio Aletti Gestielle Sgr Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara Rischio e performance attribution nel processo di investimento di una Sgr Q U A D E R N I 104 Q U A D E R N I “As far as the laws of mathematics refer to reality, they are not certain; and as far as they are certain, they do not refer to reality” (Albert Einstein) In questo capitolo presentiamo le basi teoriche per la costruzione di un modello di performance e risk attribution. Nel paragrafo 2 accenniamo alle criticità organizzative del sistema. Nel paragrafo 3 illustriamo il modello base di performance attribution monoperiodale (3.1) e multiperiodale (3.2). Nel paragrafo 4 integriamo le analisi di performance attribution con quelle di risk 1 attribution. 1. Introduzione Nell’implementazione di un modello di performance e risk attribution, il principale problema è rappresentato dal reperimento di dati anagrafici e di mercato relativi ai componenti dei benchmark di riferimento. I benchmark hanno la natura di “portafogli effettivi” (per i quali cioè si calcolano in maniera differenziale il rischio e la performance) ma le cui informazioni di dettaglio non sono presenti sui sistemi informativi interni all’azienda. Si rende quindi necessaria una rilevante operazione di reperimento, organizzazione, verifica e manutenzione dei dati anagrafici, di mercato e di ogni loro modifica in corso d’opera (corporate actions, conversioni, tassi cedolari, ecc...). La seconda criticità riguarda l’armonizzazione delle informazioni di mercato, prima fra tutte quella riguardante i settori economici. Affinché i confronti e le successive aggregazioni di portafoglio risultino coerenti, è necessario che ciascun titolo venga classificato in maniera omogenea e continuativa utilizzando una stabile modalità di classificazione e recependo nel tempo le successive modificazioni (a seguito, ad esempio, di eventi societari, il core business di un’azienda può mutare e di conseguenza anche la sua classificazione industriale). La terza criticità riguarda infine la flessibilità dell’insieme informativo associato a ciascun titolo (azionario e/o obbligazionario). Infatti, non solo la priorità dei fattori di investimento si modifica nel tempo, ma spesso anche la loro stessa natura. È quindi necessario prevedere a livello organizzativo la possibilità di inserire e/o variare la stessa struttura delle informazioni presenti nel database (obiettivo, quest’ultimo, spesso in contraddizione con le dimensioni e la complessità dei flussi informativi). Nello schema che segue intendiamo sintetizzare i diversi processi organizzativi e le criticità sopra accennate: 2. Le criticità organizzative di un modello di performance e risk attribution 1 Gli autori ringraziano i colleghi Andrea Grossi, Francesca Ambrosetti, Alex Poli, Daniele Beretta e Ilaria Iodice per aver letto e criticato questo capitolo e per il supporto dato alle successive revisioni. 105 Q U A D E R N I Figura 1 Datastream Bloomberg Web Reuters Back Office Bench 2 Bench 3 Composite benchmark Riconciliazione performance Mapping Riconciliazione performance Engine Output Performance Attribution UTILIZZI Asset class Area geografica Country Currency Industry Sector Industry Group Industry Subgroup Duration band Maturity band Rating ... Bench 1 ORGANIZZAZIONE Portfolio CALCOLO I processi organizzativi Risk Attribution Abbiamo quindi una prima fase di “organizzazione” cui spetta l’alimentazione del datawarehouse con i dati dei titoli del netted portfolio (dove con netted portfolio si intende un vettore di pesi a somma nulla espresso come differenziali rispetto al benchmark) e delle serie storiche di mercato necessarie per le analisi di Performance e Risk Attribution. Come già anticipato si tratta di una parte propedeutica molto delicata in cui bisogna prevedere delle batterie di test per la verifica della correttezza delle serie storiche al fine di ottenere analisi consistenti. Nella fase di calcolo bisogna invece prevedere procedure flessibili per poter modificare nel tempo la gerarchia dei fattori della performance in funzione delle esigenze interne e dell’evoluzione dei mercati e prevedere la possibilità di soluzioni metodologiche diverse a seconda del processo d’investimento associato a ciascun portafoglio da analizzare. Gli output di Risk e Performance Attribution rappresentano invece il dato quantitativo da utilizzare nell’ambito di un processo dinamico di asset allocation. 3. Performance Attribution: il modello di base 106 Con il termine “performance attribution” si intende il confronto della performance di un portafoglio rispetto a quella di un benchmark (intese entrambe come rendimenti assoluti periodali) e la scomposizione del delta (excess return) negli effetti di diversi fattori dipendenti dalle decisioni degli asset manager. I contributi teorici fondamentali sono Fama (1972) che propone una metodologia di comparazione basata sul rischio, Brinson e Fachler (1985) il cui modello consente di scomporre la performance differenziale in diversi effetti quali la selezione dei titoli e dei singoli settori, Ankrim (1992) che integra le conclusioni di Brinson e Fachler con la metodologia risk-based di Fama, e infine, Allen (1991) e Ankrim e Hensel (1994) che generalizzano i precedenti modelli per tener conto delle fluttuazioni valutarie. Nel prossimo paragrafo presenteremo un modello di scomposizione della performance in cui per i fattori presi in considerazione Q U A D E R N I (ad esempio il paese all’interno del quale il settore, e ancora al suo interno l’industria, ecc...) si evidenzia il contributo attribuibile alle scelte di allocazione e di selezione. In generale si danno due approcci possibili: nel primo (di tipo Top-down) il processo di investimento procede da analisi di tipo macroeconomico e consiste nel determinare - per scelte successive - il livello di investito azionario rispetto al benchmark, la sua successiva scomposizione settoriale, al suo interno la scomposizione per industrie e così via. In questo caso, ciascun livello di scelta contiene un obiettivo a sé stante, vale a dire overperformare il benchmark in ciascuna partizione di portafoglio considerata. Nell’approccio opposto di tipo Bottom-up, invece, la costruzione del portafoglio avviene dal basso secondo logiche di tipo microeconomico e fondamentale (si scelgono le securities più performanti, da ciò consegue un peso per le industrie di cui fanno parte, dei settori e - infine - del totale investito azionario). In questo caso, l’obiettivo ad ogni livello è unico, ed è overperformare il benchmark globale, indipendentemente dal livello di scelta considerato. Nella realtà, ovviamente, nessun processo di investimento è puro (soltanto top-down o soltanto bottom-up): i due approcci presentati, quindi, rappresentano i mattoni di base che dovranno essere opportunamente combinati per adattarsi nella concretezza del processo di investimento di ciascuna Sgr (la combinazione dovrà corrispondere al diverso livello di rilevanza tra le scelte di tipo macro e quelle di tipo microeconomico). È questa, in fondo, la principale sfida procedurale di un modello di performance attribution, rispetto alla quale non si danno, purtroppo, soluzioni definitive. Al di là del tipo di approccio prescelto, esistono in generale due metodologie di calcolo della performance attribution in un singolo periodo: quella aritmetica e quella geometrica. Nell’approccio aritmetico la performance relativa di ciascun periodo è definita come la differenza prima tra la performance del fondo e quella del benchmark (PF - PB). Nell’approccio geometrico, invece, la performance relativa è definita tramite un rapporto tra fattori di montante. Tra le due metodologie esiste un trade-off: l’approccio aritmetico è maggiormente intuitivo ma la sua estensione a calcoli periodali più complessa; l’approccio geometrico, viceversa, è meno intuitivo ma di più facile integrazione in analisi multiperiodo. Il problema a cui ci indirizziamo in queste pagine è come estendere all’analisi multiperiodale l’approccio aritmetico, che si dimostra essere - nella pratica - il più utilizzato in quanto a trasparenza e immediatezza di risultati. Rimandiamo alla letteratura esistente per gli approcci geometrici multiperiodale (ad esempio, Menchero, 2001). Per attribuire le performance e i rischi occorre anzitutto scomporle negli elementi di aggregazione prescelti (ad esempio il settore economico, il paese, l’industria, le classi di rating, ecc...). Supponiamo che a ciascun titolo presente in un portafoglio (Tji, con i = 1, ...., n) sia associata la caratteristica j, che può assumere valori nello spazio (j1, j2, ...., jm) (ad esempio, la caratteristica j può essere rappresentata dall’insieme dei settori economici prima incontrati: Energy, Utilities, Health Care, Industrials, ecc...). Ciascun titolo è caratterizzato da una performance (per ora 3.1 La performance attribution single-period 107 Q U A D E R N I giornaliera) Pi e da un peso Wi. Con queste informazioni possiamo semplicemente determinare il peso e la performance di ciascuna caratteristica (il peso sarà pari alla somma dei pesi dei titoli appartenenti a quella categoria, mentre la performance sarà pari alla somma dei prodotti peso x performance di ciascun titolo ponderato sul peso della categoria). Ripetendo la stessa operazione per il benchmark associato al portafoglio, disporremo di due vettori di pari dimensione (in quanto ogni eventuale categoria non presente nel benchmark assumerà peso nullo nel fondo e viceversa nel caso in cui sia presente nel fondo e non nel benchmark), uno per il portafoglio e l’altro per il benchmark del tipo: Categoria j1: Categoria j2: Categoria j3: ..... Categoria jm: peso Wj1 peso Wj2 peso Wj3 ..... peso Wjm performance Pj1 performance Pj2 performance Pj3 ...... performance Pjm Avendo così scomposto (riaggregando) le performance del portafoglio e del benchmark possiamo passare all’attribuzione del delta aggregato. Il differenziale di performance tra il fondo e il benchmark è legato a differenze di peso (cioè di allocazione di capitale in asset appartenenti alla categoria j) oppure di performance (cioè di redditività degli asset appartenenti a quella categoria). Nel fondo, una determinata categoria j, presenta un’allocazione - un peso - pari a WF e una performance pari a PF. Il benchmark evidenzia invece un peso (WB) e una performance (PB). Il delta di performance che dobbiamo attribuire è: (1) ∆P ≡ PF − PB = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj j j Il nostro obiettivo è quindi quello di attribuire, all’interno di ciascun settore, il precedente delta di rendimento a due fattori: • un fattore di allocazione (allocation), legato alla scelta di sotto/sovrappesare il settore i rispetto all’analogo del benchmark; • un fattore di selezione (selection), legato alla scelta di composizione del settore (ad esempio, al modo in cui sono stati scelti i titoli di quel comparto). Nell’approccio aritmetico di tipo Top-down il termine allocationTD è quindi pari al prodotto tra la differenza di peso fondobenchmark del comparto j e la differenza tra la performance che il comparto j-esimo ha avuto nel benchmark rispetto alla performance globale del benchmark. In questo modo, l’allocation misura la capacità del responsabile settoriale di sovrappesare settori con performance superiore a quella del benchmark (overperforming) e di sottopesare settori con performance inferiore (underperforming): allocationTD = ∑ (WFj − WBj ) ⋅ ( PBj − PB ) (2) j Definiamo con il termine selection il prodotto tra il peso del fondo del comparto j e la differenza tra le performance fondobenchmark di tale comparto (cioè manteniamo costante la scelta di 108 Q U A D E R N I allocazione e valutiamo l’effetto della decisione di composizione del portafoglio): (3) selection = ∑ WFj ⋅ ( PFj − PBj ) j Effettivamente nell’approccio top down avremo: ∆P = ∑ allocationTD j + ∑ selection j = ∑ (WFj − WBj )( PBj − PB ) + ∑ WFj ( PFj − PBj ) = j j j j = ∑ WFj PBj − ∑ WBj PBj − PB + PB + ∑ WFj PFj − ∑ WFi PBj = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj j j j j j (4) j Passando ora all’approccio di tipo Bottom-up, dobbiamo rinunciare ad un confronto in termini relativi e assumere come obiettivo fondamentale di ogni livello l’overperformance rispetto al benchmark globale (non considerando più, quindi, il differenziale di performance tra la partizione del benchmark considerata e il benchmark totale). Anche in questo approccio, il delta di performance ad un determinato livello è espresso dall’equazione (1). Indichiamo con il termine allocationBU il prodotto tra la differenza di peso fondo-benchmark del comparto j e la performance che tale comparto ha evidenziato nel benchmark (cioè manteniamo costante la scelta di composizione e valutiamo l’effetto della decisione di sovra/sotto pesare il comparto): (5) allocation BU = ∑ (WFj − WBj ) * PBj j la formula di selection è invece la medesima in entrambi gli approcci e quindi possiamo agevolmente dimostrare che: ∆P = ∑ ( allocation jBU + selection j ) = ∑ (WFj − WBj ) PBj + WFj ( PFj − PBj ) = j j ∑ (WFj PBj − WBj PBj + WFj PFj − WFj PBj ) = ∑ WFj PFj − ∑ WBj PBj (6) allocation BU = ∑ (WFj − WBj ) * PBj (7) j j j j Graficamente, l’allocation è pari all’area indicata in Figura 2: Figura 2 performance P Allocation PB PF 0 WF WB peso W Con il termine selection indichiamo invece il seguente contributo : (8) selection j = WFj ⋅ ( PFj − PBj ) Graficamente, essa è pari all’area indicata in Figura 3: 109 Q U A D E R N I Figura 3 performance P Selection PB PF 0 WF WB peso W Effettivamente, come illustrato nell’equazione (6) abbiamo: ∆P = ∑ ( allocation jBU + selection j ) (9) j Nell’equazione (6), l’effetto congiunto (differenza di peso / differenza di performance) non può essere isolato. Tale effetto (che graficamente è rappresentato dall’area del quadrato in alto a destra: vedi Figura 4) è il risultato della combinazione contemporanea tra le scelte di allocazione (ad esempio il sovrappeso di un certo settore) e delle scelte di selezione (ad esempio l’aver costruito un settore di portafoglio con un rendimento superiore a quello del benchmark). L’effetto congiunto (derivante dal fatto di aver sovrappesato un settore che nel portafoglio ha poi prodotto anche un rendimento superiore) può essere isolato semplicemente calcolando: (10) effetto congiunto = ∑ (WFj − WBj ) ⋅ ( PFj − PBj ) j Graficamente: Figura 4 performance P Interaction Effect PB PF 0 WF WB peso W Come si evince dalle formule sino ad ora presentate, l’effetto allocation dei singoli comparti nell’approccio bottom-up dipende dal segno dei pesi relativi. In altre parole, un comparto sovrappesato produrrà un “allocation” positiva anche se ha performato peggio del benchmark, ed è per questo che il metodo può fornire informazioni utili a comprendere e ad attribuire lo scostamento di performance rispetto al mercato di riferimento per i fondi in cui l’attenzione è ri110 Q U A D E R N I volta alla scelta dei singoli titoli (per cui in pratica si evidenzia l’impatto di stock selection) e non è invece idoneo per fondi in cui l’approccio di gestione è appunto di tipo top down. In entrambi gli approcci - e nelle loro diverse combinazioni di livello - è possibile impostare una visione “a cascata” delle scelte di asset allocation. Ad esempio, un processo di investimento potrebbe essere il seguente: Figura 5 Delta Performance Asset Allocation Esempio di scomposizione del delta di performance Asset Selection Sector Allocation Sector Selection Industry Allocation Industry Selection Stock Picking Ovviamente, deve essere possibile - ad ogni stadio o per particolari prodotti - modificare il processo di analisi. Per un fondo internazionale, ad esempio, lo schema potrebbe essere: Figura 6 Delta Performance Asset Allocation Esempio di scomposizione del delta di performance Asset Selection Geografic Area Geografic Area Selection Allocation Country Allocation Country Selection Sector Allocation Sector Selection Stock Picking e così via. Supponiamo ora di aver scelto per le nostre analisi una gerar111 Q U A D E R N I chia di aggregazioni come la seguente (dall’alto al basso): 1) asset type (equity, bond, cash) 2) industry sector 3) industry group 4) single stock Ad ogni livello, la metodologia di calcolo risulta costante. In altre parole, dovremo calcolare - per il portafoglio e per il benchmark - il peso e la performance della categoria analizzata a partire dal peso e dalla performance dei singoli titoli che la compongono (si ricordi che ad ogni titolo è associato un vettore con tutte le informazioni per la successiva aggregazione). A puro titolo di esempio, riportiamo nella tabella che segue un’analisi di attribuzione delle performance per i settori economici da cui è composto un portafoglio azionario utilizzando l’approccio bottom-up: Tabella 1 Tab 1: Esempio di performance attribution nell’approccio bottom-up: settori WF Consumer Discretionary PF WB PB Allocation Selection Delta P 11,768% 1,776% 12,059% 1,749% -0,005% 0,003% -0,002% Consumer Staples 9,491% 0,641% 8,790% 0,934% 0,007% -0,028% -0,021% Energy 6,289% 2,813% 5,193% 2,799% 0,031% 0,001% 0,032% Financials 19,635% 1,742% 18,504% 1,865% 0,021% -0,024% -0,003% Health Care 13,328% 3,450% 12,943% 3,362% 0,013% 0,012% 0,025% Industrials 10,167% 1,795% 10,910% 1,721% -0,013% 0,008% -0,005% Information Technology 13,532% 1,896% 13,020% 1,839% Materials 2,423% 1,630% 0,009% 0,008% 0,017% 2,498% 1,853% -0,001% -0,005% -0,007% Telecommunication Services 3,774% 0,803% 3,466% 1,335% 0,004% -0,020% -0,016% Utilities 2,615% 2,196% 0,009% -0,035% -0,026% 3,004% 1,044% Ad esempio, il settore Financials apporta in totale un delta di performance (Delta P) pari a -0.003%, di cui +0.021% per allocation (il gestore ha sovrainvestito un settore con performance positiva) e 0.024% per selection (il gestore ha composto il portafoglio in modo tale da realizzare un rendimento di 1.742% mentre l’analogo portafoglio del benchmark rende 1.865%). La stessa logica vale per l’analisi degli altri settori. Procediamo allora nella nostra analisi spostandoci ad un livello inferiore (industry group). Questo “spostamento verso il basso” dell’analisi ci consente di precisare il significato del termine “selection”. Come abbiamo detto in precedenza, con il termine selection intendiamo quella parte di delta di performance spiegata dal rendimento differenziale della porzione di portafoglio analizzata rispetto alla omologa presente nel benchmark. Se il livello successivo di analisi fossero i singoli titoli, la selection sarebbe per definizione nulla e lo stock picking coinciderebbe con l’indicatore di allocation. Quando invece, come nel caso qui analizzato, il livello successivo è una ulteriore suddivisione dei fattori di performance del portafoglio, la selection ci consente di analizzare il contributo offerto da queste ulteriori scelte. Per chiarire, consideriamo il caso del settore Financials. La selection del settore è pari -0,024%. Ad un livello inferiore, gli “in112 Q U A D E R N I dustry group” che costituiscono il settore Financials sono i seguenti, con i relativi pesi e le relative performance: Tab 2: Tabella 2 Esempio di performance attribution nell’approccio bottom-up: industry group WF Banks PF 7,657% 1,510% WB PB Allocation Selection Delta P 6,796% 1,600% 0,014% -0,007% 0,007% 0,010% -0,012% -0,002% Diversified Financials 7,425% 1,620% 6,847% 1,784% Insurance 4,553% 2,331% 4,604% 2,434% -0,001% -0,005% -0,006% Real Estate 0,000% 0,000% 0,258% 0,817% -0,002% 0,000% -0,002% Visto in questo modo, il settore Financials ci è un po’ più chiaro. Ora sappiamo che le scelte di allocation e selection prima viste in aggregato possono essere così analizzate: le migliori scelte in termini di allocazione del capitale sono derivate dai sovrappesi sia delle banche (+0.014%) che dei Diversified Financials (+0.010%), mentre il peggior contributo in termini di selection è rappresentato dalla composizione del sotto-portafoglio Diversified Financials (0.012%), con un rendimento finale di 1.620% contro l’1.784% del benchmark. Per analizzare ulteriormente questa selection dobbiamo spingerci al livello immediatamente inferiore che è questa volta rappresentato dai singoli titoli. In questo caso, quindi, la selection di 0.012% è effettivamente pari a una inefficienza nello stock picking, cioè nella composizione del sotto-portafoglio Diversified Financials con scelte di sovrappeso/sottopesi di alcune società rispetto ad altre. A puro titolo di esempio, si veda nella Figura che segue la situazione del titolo American Express Company: Tab 3: Tabella 3 Esempio di performance attribution nell’approccio bottom-up: stock picking WF American Express Co PF 0,000% 0,000% WB PB Allocation Selection Delta P 0,506% 3,520% -0,018% 0,000% -0,018% In questo caso, la scelta di gestione è stata di non comprare il titolo pur presente nel benchmark (cioè di sotto-investire rispetto al benchmark). Questo ha comportato una allocazione negativa per 0.018%, qui da intendersi come stock picking. A livello di singolo titolo, la selection può essere rappresentata come differenze di rendimento giustificate da differenti fonti di valorizzazione (mispricing) oppure da costituzione e/o alleggerimento della posizione avvenute durante la giornata (e dunque a prezzi di carico diversi rispetto a quelli utilizzati per la valutazione a mark-to-market del benchmark). Il problema che dobbiamo affrontare è concatenare nel tempo i risultati della performance attribution con approccio aritmetico. Come detto, se nell’approccio geometrico questa operazione è straightforward e non comporta particolari complessità, nell’approccio aritmetico (che tradizionalmente è preferito per la sua semplicità di lettura e di interpretazione) si introducono numerosi aspetti che richiedono alcune delucidazioni. A questo problema tentiamo di offrire alcune soluzioni facilmente praticabili. 3.2 La performance attribution multiperiodale 113 Q U A D E R N I In un orizzonte multiperiodale, il rendimento del fondo e del benchmark capitalizzati sono pari a: N R F = ∏ (1 + RtF ) − 1 N R B = ∏ (1 + RtB ) − 1 e t =1 (11) t =1 dove RF e RB sono i rendimenti multiperiodali del fondo e del 2 benchmark ed N il numero di periodi considerati . Mentre nel caso single-period il delta di performance è semplicemente pari alla differenza tra il rendimento del fondo e quello del benchmark, ciò non avviene nel caso multiperiodale in cui il delta di performance è diverso dalla somma semplice dei delta di ciascun periodo: N (12) R F − R B ≠ ∑ ( RtF − RtB ) t =1 Un primo approccio consiste nel moltiplicare il fattore di destra per un termine costante a che tenga conto dei rapporti di scala presenti nella capitalizzazione dei rendimenti: N R F − R B = α ⋅ ∑ ( RtF − RtB ) (13) t =1 Il problema si sposta quindi alla determinazione di un fattore costante a che risulti non-distorsivo (Menchero, 2000). Per fare questo esistono diverse soluzioni. La prima è risolvere - ex-post - l’equazione precedente: α= RF − RB N ∑(R (14) − RtB ) F t t =1 Questa prima soluzione è tuttavia insoddisfacente perché il fattore a non tiene conto delle effettive caratteristiche di scaling della capitalizzazione composta. Ad esempio può accadere che il numeratore e il denominatore della precedente formula abbiano segno opposto, rendendo l’interpretazione dei risultati distorsiva: in questo caso, infatti, potrebbe ad esempio accadere che una performance positiva nel periodo t contribuisca negativamente alla performance dell’intero periodo. Una seconda soluzione consiste nel determinare il fattore di scala a rapportando i rendimenti di ogni singolo periodo alla differenza tra le loro medie geometriche nel seguente modo: α= 1 ( RF − RB ) 1 1 N F N B N 1 1 ( ) ( ) + − + R R (15) Se i valori dei rendimenti periodali sono vicini allo zero, allora media aritmetica e media geometrica sono simili, e così anche i loro differenziali: N 1+ R − 1+ R ≈ F N B ∑(R F t − RtB ) (16) t N Quindi, moltiplicando entrambi i membri per (RF-RB) si ha che: RF − RB ≈ 1 RF − RB N N 1 + RF − N 1 + RB ∑(R F t t − RtB ) (17) e dunque: 2 114 N N i =1 i =1 Dove RF = ∑ WFi ⋅ PFi e RB = ∑ WBi ⋅ PBi con i =1....n rappresenta la i-esima security. Q U A D E R N I α= 1 RF − RB N N 1 + RF − N 1 + RB (18) cioè il parametro alfa che consente di garantire che: R F − R B ≈ α ∑ ( RtF − RtB ) (19) t In questo modo, la condizione di positività dei parametri a è rispettata, ma permangono dei fattori residuali di distorsione. Indichiamo questi fattori con il vettore dei termini et. Il nostro problema si risolve ora nel determinare i valori associati ai parametri et, noto il parametro a: N (20) R F − R B = ∑ (α + ε t ) ⋅ ( RtF − RtB ) t =1 Un modo per determinare i parametri et è cercare lo scalare di valori per i quali la somma a+ et risulti il più possibile uniformemente distribuita. In termini matematici, questo significa minimizzare la somma dei quadrati dei termini residuali et sotto il vincolo della funzione precedentemente scritta (si parla infatti anche di soluzione dell’ottimizzazione): N Min ∑ ε t2 N t =1 s.t. R − R = ∑ (α + ε t ) ⋅ ( RtF − RtB ) F B (21) t =1 Risolvendo il problema con il metodo di Lagrange otteniamo: N F B F B R − R − α ⋅ ∑ ( Rj − Rj ) j =1 ⋅ ( RtF − RtB ) εt = N F B ( Rj − Rj ) ∑ j =1 (22) Un approccio alternativo a quello dei parametri ottimizzati è quello dei coefficienti logaritmici proposto da Carino (1999) in base al quale per il periodo t si definisce un fattore kt nel seguente modo: (1 + RtF ) = exp kt ( RtF − RtB ) (1 + RtB ) [ ] (23) ln(1 + RtF ) − ln(1 + RtB ) ( RtF − RtB ) (24) da cui si ottiene kt: kt = dall’equazione (23), discende quindi: n n 1 + RF (1 + RtF ) =∏ = exp ∑ Kt ( RtF − RtB ) B B 1+ R ( 1 + R ) t =1 t =1 t (25) da cui: n ln(1 + R F ) − ln(1 + R B ) = ∑ kt ( RtF − RtB ) (26) t =1 Risolvendo otteniamo un fattore k che ci consente di concatenare i rendimenti periodali: ln(1 + R F ) − ln(1 + R B ) (27) k= F B (R − R ) Utilizzando l’equazione (27) e l’equazione (26) possiamo facilmente ottenere: n k R F − R B = ∑ t ( RtF − RtB ) (28) t =1 k Sostituendo e semplificando dalle espressioni di kt e k, otte115 Q U A D E R N I niamo i seguenti coefficienti logaritmici btlog: ln(1 + RtF ) − ln(1 + RtB ) RF − RB βtlog = ⋅ F B RtF − RtB ln(1 + R ) − ln(1 + R ) (29) I valori btlog tendono tuttavia a sovrappesare i periodi con rendimenti inferiori alla media e a sottopesare i periodi con rendimenti superiori alla media. I coefficienti et del procedimento con ottimizzazione, invece, pesano ogni periodo imparzialmente. 4. Risk Attribution La pura analisi di performance attribution non può essere considerata esaustiva nell’ambito di un processo di investimento in quanto non permette di gestire l’eventuale assunzione di rischi rispetto al benchmark. Concentrandoci sui rischi di mercato possiamo affermare che una esauriente gestione di portafoglio richiede un’analisi di scomposizione del rischio complementare a quella della performance. Tale analisi deve consentire di associare - per ogni livello del processo di allocazione del portafoglio - una misura di rischio/rendimento che indichi quale elemento di gestione abbia creato valore aggiunto rispetto agli obiettivi. Il primo esempio di integrazione tra performance e risk attribution si ha in Fama (1972). Il modello di Fama si basa sulla teoria classica del CAPM (Capital Asset Pricing Model) e confronta la performance del fondo con quella dell’attività priva di rischio, utilizzando però il concetto di benchmark per effettuare la scomposizione della performance e del rischio. Partendo dall’ipotesi che gli investitori abbiano aspettative omogenee sulla distribuzione dei rendimenti, il rendimento del benchmark può essere così definito: ex-ante: E( Rm ) − Rrf Cov( RB Rm ) E( R B ) = Rrf + × σ (R ) m σ ( Rm ) (30) ex-post: R − Rrf R B = Rrf + m σ ( Rm ) Cov( RB Rm ) × σ (R ) m (31) Il rischio del benchmark viene definito attraverso il coefficiente b, cioè dal rapporto tra la covarianza tra i rendimenti del benchmark (RB) e quelli del mercato (Rm), rapportata alla varianza dei rendimenti di mercato: Cov( R B , Rm ) (32) β= 2 σ ( Rm ) Per i portafogli gestiti, il rischio di mercato è misurato dal coefficiente bF. Il modello scompone l’extrarendimento del fondo rispetto a quello del benchmark in base al seguente schema: Figura 7 Scomposizione del Risk Premium Total Risk Premium Risk Premium Due to Risk Manager’s Risk 116 Investor’s Risk Risk Premium Due to Selectivity Diversification Net Selectivity Q U A D E R N I Possiamo quindi individuare una componente di rendimento denominata “Risk Premium Due to Risk” che rappresenta l’extrarendimento del portafoglio che dipende dal coefficiente b e dal premio per il rischio: RP = bF(Rm - Rrf) (33) Questa componente può a sua volta essere scomposta in Manager’s Risk e in Investor’s Risk se l’investitore stabilisce un livello prefissato di rischio (bT). In questo caso l’Investor’s Risk rappresenta il risk premium che si otterrebbe se il b di portafoglio coincidesse con il target prefissato: RPInvestor Risk = bT (Rm - Rrf) (34) Il Manager’s Risk si ottiene invece quando il gestore, in base alle proprie aspettative di mercato, assume un livello di rischio diverso rispetto al target prefissato dall’investitore. È quindi possibile individuare quella componente di Risk Premium che è propriamente legata alle sue scelte: RPManager Risk = (bi - bT) (Rm - Rrf) (35) Passiamo ora alla componente denominata “Risk Premium due to Selectivity” che misura il rendimento dovuto all’abilità del gestore nella selezione dei titoli, a sua volta scomponibile in Diversification e Net Selectivity. Per chiarire meglio questa suddivisione consideriamo due portafogli P e P’, caratterizzati entrambi dallo stesso rischio di mercato ma con un rischio di diversificazione differente in quanto il portafoglio P non è sufficientemente diversificato mentre il portafoglio P’ giace sulla Security Market Line (quindi un portafoglio totalmente diversificato). Questo perché il gestore del portafoglio P ha fatto delle scelte di security selection che hanno prodotto un extrarendimento a fronte dell’assunzione di extra rischio. Supponiamo ora di avere un terzo portafoglio P” con lo stesso rischio totale del portafoglio P, ma rappresentato esclusivamente dal rischio non diversificabile. Il rischio totale del portafoglio P” sarà quindi pari a (bP” s2m) e dato il livello di rischio bP”, possiamo calcolare il livello di extrarendimento imputabile alla pura diversificazione. Il rendimento imputabile alla “net selectivity” si otterrà quindi per differenza. In formule: (36) RPSelectivity = RPTotal − RPRisk = RPTotal − β F ( Rm − Rrf ) σ RPDiversification = Rrf + i Rm − Rrf − Rrf + βi Rm − Rrf σm ( ) [ ( )] (37) σ RPDiversification = Rm − R fr i − βi σm (38) RPNetSelectivity = RPSelectivity − RPDiversification (39) ( ) Graficamente: 117 Q U A D E R N I Figura 8 La scomposizione della performance nel modello di Fama P rp r3 P’’ Return from selectivity (rp-r2) P’ Return from market timing (r2-r1) r2 r1 Return from client risk (r1-rf) rf Return from riskless rate rf ß1 ßp ßp’’ Questo modello non consente però di stabilire qual è stata la posizione del fund manager in termini di asset allocation e pertanto le analisi successive si sono concentrate sull’elaborazione di modelli per la scomposizione del rischio integrati con le analisi di performance attribution (Risk Adjusted Performance Attribution), introducendo così nei processi di allocazione la consapevolezza dei rischi assunti. Il problema si traduce quindi nella determinazione del livello atteso di remunerazione a livello di allocation e selection in grado di compensare l’eventuale assunzione di rischi rispetto al benchmark di riferimento. Per il mercato azionario possiamo utilizzare il coefficiente b della Teoria CAPM come una adeguata proxy della rischiosità di un portafoglio. È quindi sufficiente stimare i coefficienti b del fondo e del benchmark in relazione alla partizione di portafoglio presa in considerazione (settoriale, area geografica, ecc...) per avere una scomposizione della performance aggiustata per il rischio. Riprendiamo le formule di Allocation e di Selection (a titolo esemplificativo presentiamo una scomposizione settoriale in base al modello bottom up) proposte nel precedente paragrafo ed integriamole con la teoria del CAPM in base alla quale il rendimento della iesima security è pari alla somma dei tre fattori: a) il rendimento risk-free; b) il differenziale tra il risk-free e il rendimento totale del benchmark moltiplicato per il beta dell’i-esima security rispetto al benchmark nel suo complesso; c) il rischio non-sistematico della security i-esima. In formule: (40) Pi = Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi dove: Rrf = rendimento dell’attività priva di rischio Rm = RB = rendimento del benchmark bi = coefficiente b per catturare il rischio sistematico della iesima security xi = coefficiente x per il rischio non sistematico della i-esima security Risk Allocation per il settore j allocation = ∑ (WFj − WBj ) × ∑ WBji Pi j (41) i sostituiamo Pi con quanto evidenziato dall’equazione 40 del 118 Q U A D E R N I CAPM ed otteniamo: allocation = ∑ (WFj − WBj ) × (∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) j (42) i Se supponiamo che i pesi del benchmark siano indipendenti dalla componente x e da bi(Rm-Rrf) allora il valore atteso dell’ef2 fetto di allocazione sarà dato da: ( (43) E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × (( Rrf + β Bj ( Rm − Rrf )) j dove: ( β Bj = ∑ i WBji × βi (44) rappresenta il b medio ponderato per il j-esimo settore. Poiché la somma dei pesi ∑ WFj = ∑ WBj = 1 j j l’equazione relativa all’allocation attesa diventa: ( E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × (( β Bj ( Rm − Rrf )) (45) j Il gestore ha quindi la possibilità di modificare il peso settoriale in base alle sue aspettative di mercato (in particolare aumenterà il peso dei titoli con elevato b in presenza di un trend crescente e farà il contrario in presenza di un trend decrescente, fornendo così va3 lore aggiunto alla gestione ) per cui i termini WFj e b dell’equazione sopra presentata non sono indipendenti e pertanto avremo: E( allocation) = ∑ (WFj − WBj ) × ( β Bj ( Rm − Rrf ) + COV (WFJ , β˜ ( Rm − Rrf )) (46) j Il secondo termine dell’equazione (46) rappresenta il valore delle decisioni di timing del gestore. Se tale termine è positivo il gestore è stato in grado di creare valore aggiunto con le sue scelte di timing, in caso contrario - in media - la sua attività ha distrutto valore. Il primo termine dell’equazione non riguarda il timing ma implica che il valore atteso dell’allocation aumenta quanto più il gestore sovrappesa settori a più elevato beta. Assumendo che nel lungo periodo la media dei rendimenti sia positiva, il gestore potrà generare un valore atteso di allocation sistematicamente più elevato assumendo maggiore rischio. Per questo motivo, possiamo utilizzare questo termine per “depurare” dalla formula di allocation il rendimento atteso dovuto all’assunzione di maggiori rischi. Chiamiamo questo termine correttivo Allocation Adjustment Factor. Allocation Adjustment Factor= ∑ (WFj − WBj ) × β Bj ( Rm − Rrf ) (47) j dove la barra indica il calcolo dei valori medi. La stessa logica può essere applicata ai calcoli di selection per il settore j-esimo. Partendo dalla formula generica per individuare il contributo della selection all’interno di un processo di investimento abbiamo: (48) TotalSelection = ∑ W ⋅ ( P − P ) j Fj Fj Risk Selection per il settore j Bj la stessa formula può essere scomposta nelle seguenti parti: 2 Questo significa che il valore atteso E(x)=0. 3 Il trend crescente deve ovviamente offrire un rendimento superiore al tasso riskfree affinché si possa parlare di valore aggiunto. 119 Q U A D E R N I TotalSelection = ∑ j WBj ⋅ ( PFj − PBj ) + ∑ j ( PFj − PBj ) ⋅ (WFj − WBj ) (49) dove la prima parte rappresenta il puro indicatore di selection mentre la seconda parte rappresenta l’effetto congiunto illustrato nell’equazione (10) e in Figura 4 del precedente paragrafo. Per semplicità scomponiamo la formula della selection nelle due componenti di pura selection e di interaction effect (IE) e sostituiamo a PFj e PBj la formula del CAPM dell’equazione (40). Otteniamo così: Selection= ∑ j WBj ∑ WFji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) (50) i i IE= ∑ ∑ WFji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( Rrf + βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) ⋅ (WFj − WBj ) (51) j i i semplificando e ricordando che la somma dei pesi è uguale ad 1, avremo che la pura selection attesa è pari a: E( selection) = E ∑ ∑ WFji ( βi ( Rm − Rrf ) + ξi ) − ∑ WBji ( βi ( Rm − Rrf )) ⋅ WBj i j i (52) E( selection) = E ∑ ∑ WFjiξ + ∑ WBji β Fj − β Bj Rm − Rrf j i j (53) ( )( ) Il primo termine dell’equazione (52) evidenzia la capacità da parte del gestore di selezionare titoli con un rendimento diverso rispetto al mercato: in particolar modo questo termine sarà positivo quando è stato in grado di sovraperfomare il mercato e sarà negativo nel caso opposto. In un mercato efficiente in media, non dovrebbero verificarsi effetti di security selection. Il secondo termine dell’equazione (52) evidenzia invece che l’impatto di pura selection può risultare positivo anche se il gestore sceglie titoli a più elevato rischio rispetto al benchmark all’interno dei settori con maggior peso all’interno del benchmark. L’indicatore di performance attribution quindi evidenzia come “valore aggiunto della gestione” l’extra rendimento medio legato all’assunzione di maggiori rischi. È quindi opportuno depurare l’indicatore di pura Selection dell’equazione (50) da questa componente che definiremo Selection Adjustment Factor in modo tale da evidenziare solamente l’impatto legato alla scelta di titoli, premiando la capacità di generare overperformance e penalizzando invece le cosiddette decisioni di stock picking che distruggono valore. Selection Adjustment Factor = ∑ WBji (β Fj − β Bj )( Rm − Rrf ) (54) j Concentriamoci ora sulla Interaction Effect (IE) dell’equazione (50) in cui si evidenzia quella componente di extraperformance rispetto al benchmark dovuta alle scelte di sovrappesare i settori per i quali il gestore ha maggiori doti di stock picker. Calcoliamo il valore atteso dell’equazione (50), semplificando e assumendo che WBji sia indipendente da bi(Rm - Rrf) e da xi e che ∑ WFij = ∑ WBij = 1 . Otteniamo: i i ( E( IE ) = E ∑ WFj − WBj + E WFjiξi + ∑ WFji − WBji COV WFj , β˜ Rm − Rrf j j ( ( ) )( )( [ + ∑ WFj − WBj β Fj − β Bj Rm − Rrf j 120 ] ) ( ) ( )) (55) Q U A D E R N I Il primo termine dell’equazione (55) misura il peso assegnato ai settori in cui il gestore ha generato performance imputabile alla stock selection; la seconda componente evidenzia il peso che il gestore ha assegnato ai settori in cui sono state effettuate scelte di timing rilevanti ed è quindi riconducibile ad una scelta di allocation: entrambi questi indicatori evidenziano effettivamente la capacità del gestore e pertanto non richiedono un fattore di aggiustamento per il rischio. La terza componente rappresenta invece l’extrarendimento atteso in funzione dei rischi assunti rispetto al benchmark e coincide pertanto con l’importo da sottrarre all’equazione (51) per depurare il premio per il rischio, evidenziando quindi esclusivamente la capacità del gestore di scegliere securities con rendimenti più elevati: )( ( )( InteractionAdjustmentFactor = WFj − WBj β Fj − β Bj Rm − Rrf ) (56) Combinando l’equazione (54) e l’equazione (56) è facile determinare il fattore di aggiustamento riferito alla selection totale: Total Selection Adjustment Factor = WFj * ( β Fj − β Bj )( Rm − Rrf ) (57) Abbiamo quindi visto come è possibile calcolare indicatori di Performance Attribution aggiustati per il rischio, in grado quindi di evidenziare il livello atteso di performance associato al profilo di rischio assunto rispetto al mercato di riferimento. Presentiamo ora un semplice esempio di Risk Adjusted Performance. In particolare prendiamo un tasso risk free periodale pari all’1.2%, con un periodo di riferimento in cui il fondo ha reso l’1.371% e il benchmark ha reso l’1.569%. Rendimento Fondo Rendimento Benchmark 1.371% 1.569% Delta Rendimento -0.198% Risk Free Rate 1.20% Nella Tabella 4 scomponiamo, sia per il fondo che per il benchmark, il rendimento complessivo nei diversi settori, evidenziando la colonna dei pesi e dei rendimenti (sia assoluti che relativi). Tab 4: Esempio di risk attribution - dati di partenza Settori Consumer Discretionary Consumer Staples Fondo Ddaily 12,156% 15,219% 3,063% 1,943% 1,830% 0,236% 0,279% 0,042% WB 9,111% WF DW PB PF Bench 6,200% -2,911% 0,705% 0,609% 0,064% 0,038% -0,026% Energy 15,298% 15,441% 0,144% 0,654% 0,553% 0,100% 0,085% -0,015% Financials 18,665% 18,500% -0,165% 1,833% 1,724% 0,342% 0,319% -0,023% Health Care 13,127% 13,134% 0,007% 2,594% 2,641% 0,340% 0,347% Industrials 10,886% 10,886% 0,000% 2,558% 1,576% 0,278% 0,172% -0,107% Information Technology 12,207% 12,220% 0,013% 2,409% 2,313% 0,294% 0,283% -0,011% Materials 2,602% 0,006% 2,698% 0,097% 0,825% -0,157% 0,021% -0,004% -0,026% Telecommunication Services 3,288% 3,046% -0,242% -3,335% -5,000% -0,110% -0,152% -0,043% Utilities 2,655% -0,006% 0,054% 0,204% 0,001% 0,005% Totale 2,661% Tabella 4 100,00% 100,00% 0,00% 0,004% 1,569% 1,371% -0,198% Dopo aver calcolato sia per il fondo sia per il benchmark i coefficienti b dei singoli settori, introduciamo i fattori di Risk Adjusted 121 Q U A D E R N I Performance per calcolare la componente di rischio degli indicatori di allocation e total selection. In particolare moltiplichiamo il vettore dei pesi differenziali per i corrispondenti b settoriali del benchmark per evidenziare se il gestore ha allocato il portafoglio nei settori più rischiosi. Calcoliamo poi il fattore di aggiustamento per l’indicatore di allocation moltiplicando il precedente prodotto per il differenziale di rendimento tra il benchmark (da noi assunto come rendimento di mercato nel modello CAPM) e il tasso risk free. Sommando il dato che si ottiene per ogni settore, otteniamo il contributo di allocation che ci si attende in base ai rischi assunti dal gestore. Nel nostro esempio ci aspettiamo un contributo pari a +0.005%, che va sottratto al contributo di pura allocation (pari a +0.046%), portando ad un risultato ancora positivo pari a +0.041%. Per individuare il fattore di aggiustamento relativo al contributo di total selection bisogna calcolare per ogni settore la differenza tra il b del fondo e quello del benchmark. Il vettore dei delta beta va quindi moltiplicato per i pesi di ciascun settore all’interno del fondo: la somma di questi valori indica (a seconda del segno) se il gestore in media ha selezionato titoli più rischiosi rispetto a quelli del benchmark. Moltiplicando questo importo per il differenziale di rendimento tra il benchmark e il tasso risk free si ottiene il contributo di total selection atteso in base ai rischi assunti dal gestore. Nel nostro esempio otteniamo un importo pari a +0.044% che, sottratto al puro contributo di total selection (pari a -0.2450%) dà un valore pari a -0.289%. Tabella 5 Tab 5: Esempio di risk attribution I fattori di aggiustamento Settori WB Consumer Discretionary Consumer Staples bFj bBj Db Sel. Adj All. Adj Sector All Sector Sel 12,156% 3,063% 1,50 1,05 0,45 0,025% 0,012% 0,060% -0,017% 9,111% -2,911% 0,54 0,55 -0,02 0,000% -0,006% -0,021% -0,006% Energy 15,298% 0,144% 0,59 0,56 0,03 0,002% 0,000% 0,001% -0,016% Financials 18,665% -0,165% 1,24 1,12 0,12 0,008% -0,001% -0,003% -0,020% Health Care 13,127% 0,007% 0,70 0,71 -0,01 -0,001% 0,000% 0,000% Industrials 10,886% 0,000% 1,50 1,03 0,47 0,019% 0,000% 0,000% -0,107% Information Technology 12,207% 0,013% 1,60 1,70 -0,10 -0,005% 0,000% 0,000% -0,012% 2,602% 0,097% 0,81 0,90 -0,09 -0,001% 0,000% 0,001% -0,027% Materials 0,006% Telecommunication Services 3,288% -0,242% 0,90 1,20 -0,30 -0,003% -0,001% 0,008% -0,051% Utilities 2,661% -0,006% 0,31 0,35 -0,04 0,000% 0,000% 0,000% Totale Tabella 6 DW Tab 6: 100,00% 0,00% 0,044% 0,005% 0,046% -0,245% Esempio di risk attribution - sintesi dei risultati Attribution Effect 0,046% Risk Adjustment 0,005% Selection -0,245% 0,044% Totale -0,198% Allocation 0,004% Delta 0,041% -0,289% -0,247% È evidente quindi che il contributo del gestore non ha prodotto valore aggiunto nel suo complesso: le scelte di allocazione hanno fornito un contributo in grado di compensare i rischi assunti mentre 122 Q U A D E R N I le scelte di selection si sono rivelate errate: il gestore ha scelto dei titoli più rischiosi di quelli del benchmark senza essere in grado di fornire un extrarendimento. Il modello è piuttosto semplice ma fornisce un’indicazione importante per un’opportuna gestione del rischio all’interno del processo dinamico d’investimento in cui ipotizziamo che le scelte di allocazione abbiano come obiettivo quello di battere il benchmark. L’obiettivo di un ufficio di risk management è quindi duplice: da un lato determinare i fattori che generano rischi e dall’altro individuare all’interno del processo d’investimento i soggetti cui attribuire tale rischio in modo da evidenziare se l’assunzione dei rischi è coerente con il rendimento prodotto proponendo, in caso contrario, le opportune modifiche al profilo di rischio del fondo. In termini operativi, questo concetto si traduce nell’effettuare una scomposizione ex-ante del rischio (per country, sector, duration, ecc...) che risulti complementare all’analisi ex-post di performance attribution, al fine di contribuire attivamente al processo d’investimento, e non - come spesso avviene - di svolgere un mero controllo dei limiti di rischio presenti nel mandato di gestione o fissati dal Consiglio di Amministrazione. Questo capitolo ha voluto fornire un’introduzione alla modellistica di base di cui un ufficio di risk management dovrebbe dotarsi per svolgere questo importante ruolo. 5. Conclusioni Allen, Gregory C., “Performance Attribution for Global Equity Portfolios”, Journal of Portfolio Management, Autunno 1991, pp. 159-165 Ankrim, Ernest M., “Risk-Adjusted Performance Attribution”, Financial Analysts Journal, Marzo-Aprile 1992, pp. 75-82 Ankrim, Ernest M., Hensel Chris R., “Multicurrency Performance Attribution”, Financial Analysts Journal, Marzo-Aprile 1994, pp. 29-35 Brinson, Gary P., Fachler, Nimrod, “Measuring Non-U.S. Equity Portfolio Performance”, Journal of Portfolio Management, Primavera 1985, pp. 73-76 Carino, David, “Combining Attribution Effects Over Time”, The Journal of Performance Measurement, Estate 1999, pp. 5-14 Fama, Eugene F., “Components of Investment Performance”, Journal of Finance, Giugno 1972, pp. 551-567 Menchero, Jose G., “An Optimized Approach to Linking Attribution Effects Over Time”, The Journal of Performance Measurement, Autunno 2000, pp. 36-42 Menchero, Jose G., “A Fully Geometric Approach to Performance Attribution”, The Journal of Performance Measurement, Inverno 2001, pp. 22-30 Riferimenti bibliografici 123 Domenico Mignacca Sanpaolo IMI Asset Management Sgr Valeria Aiudi Sanpaolo IMI Asset Management Sgr Michele Ruvolato Sanpaolo IMI Asset Management Sgr Processo di investimento e risk management Q U A D E R N I 126 Q U A D E R N I In questo lavoro illustreremo lo stretto legame esistente tra il processo di investimento e l’attività di risk management. In particolare, dopo una breve discussione delle problematiche proprie del processo di investimento, sarà approfondito il ruolo del risk management evidenziando, tramite l’utilizzo di un approccio parametrico, la sua funzionalità per: (a)il controllo dei limiti di rischiosità attiva dei prodotti (risk budgeting), (b) la valutazione della coerenza tra attività di gestione e stile definito per il prodotto, (c) la valutazione della coerenza tra prodotti gestiti e strategia dichiarata dal Co1 mitato Investimenti. L’andamento negativo dei mercati finanziari, ormai in corso dal marzo 2000, ha messo in evidenza alcuni problemi dell’industria del risparmio gestito che in precedenza non erano considerati o percepiti. Per questo le Società di gestione del rispamio (Sgr) hanno dato maggiore impulso alle attività di risk management cercando di utilizzare la funzione non solo a fini passivi, cioè di controllo del rispetto dei limiti di rischio, ma come soggetto in grado di supportare l’attività di gestione e di controllo della coerenza delle politiche di investimento attuate. La prima parte del lavoro è dedicata alla descrizione del processo produttivo tipico delle Società di gestione del risparmio: il processo di investimento. Sarà illustrata la relazione tra processo di investimento e stili di gestione. Passeremo a descrivere le varie componenti del processo di investimento; tra queste compaiono sia l’attività di asset allocation che l’attività di risk management. In particolare vedremo che quest’ultima deve essere organizzata in modo che risulti coerente con l’impostazione data al processo di investimento. La piattaforma di risk management risulta, inoltre, utile nel valutare la rispondenza dei portafogli ai limiti di rischio definito, laddove si intendano implementare politiche di risk budgeting. A tal proposito la parte centrale del lavoro è dedicata alla descrizione di un approccio in grado di illustrare come la suddetta piattaforma di risk management possa essere utilizzata per: controllo dei limiti di rischiosità attiva dei portafogli, supporto ad eventuali politiche di risk budgeting, valutazione della coerenza dello stile di gestione del prodotto, verifica della coerenza delle “view implicite” nei portafogli con le “view esplicite” del Comitato Investimenti. Nell’ultima parte del lavoro si intende valutare sia gli strumenti che possono essere utilizzati per il backtesting sia i limiti che le verifiche possono incontrare (mispricing, trading ecc.). Introduzione 1 Gli autori desiderano ringraziare Mario Noera, Pierpaolo Rizzi, Paolo Sartor di Sanpaolo IMI Asset Management Sgr SpA e Andrea Resti per avere direttamente e indirettamente contribuito ad alcune riflessioni esplicitate nel lavoro. Ovviamente ogni opinione espressa deve considerarsi di esclusiva responsabilità degli autori. 127 Q U A D E R N I 1. Il processo di investimento Uno dei problemi fondamentali per le Società di asset management è definire il proprio processo di investimento. La definizione di tale processo non ha come obiettivo esclusivo quello di soddisfare esigenze di tipo normativo, dato che consente alla Società di monitorare l’efficienza della gestione nel suo complesso e di individuare le aree dove questa può essere ulteriormente migliorata. In periodi come l’attuale in cui i mercati e i prodotti offerti evidenziano perdite significative, l’esistenza di un processo di investimento strutturato consente di individuare e spiegare l’eventuale andamento difforme rispetto alle attese. L’evidenza “empirica” ci suggerisce che il mercato dell’asset management è stato colto impreparato e ha riscoperto l’importanza di dotarsi di un processo di produzione strutturato; a riprova di quanto detto, si nota da almeno un anno un appiattimento dei prodotti verso uno stile di gestione sostanzialmente passivo che si può giustificare solo in due modi: (a) assenza di “idee” relativamente al benchmark, (b) assenza di un processo di investimento necessario presupposto all’assunzione di posizioni “attive” sul mercato. Proviamo a dare una definizione di processo di investimento: se prendiamo in considerazione un generico portafoglio (prodotto), il processo di investimento consiste nell’insieme delle attività poste in essere per la creazione del portafoglio “reale” e per le sue successive modifiche. Il processo di investimento può essere: a) esplicito (PIE); b) implicito (PII). Il processo di investimento (di seguito PI) viene definito esplicito se è descritto e dichiarato dalla Società, in caso contrario viene definito implicito. Ovviamente nel momento stesso in cui vengono gestiti dei portafogli questi sono il risultato di un PI implicito. È bene inoltre sottolinerare la non unicità dei PIE e PII, infatti possono esistere tanti processi quanti sono i prodotti gestiti. Logicamente l’obiettivo di ogni Società di asset management non è solo quello di avere un PI esplicito, ma soprattutto che questo coincida con quello implicito. 1.1 In linea generale un processo di investimento viene identificato con uno stile di gestione, in particolare: i) ad ogni PI corrisponde uno stile di gestione; ii) un determinato stile di gestione può essere implementato tramite diversi PI. Descriviamo i vari stili di gestione prendendo spunto da un quadrante che permette di distinguere gli stili a seconda dell’alloca2 zione del rischio tra Asset Allocation (AA) e Security Selection (SS). Processo di investimento e stile di gestione Figura 1 Il quadrante degli stili di gestione Alto Tactical Asset Allocation Active Blend (TAA) (AB) Index, Index+ Active Stock Picking Quantitative Enhanced (ASP) Risk on AA Basso (QE) Basso 2 Risk on SS Alto In questo lavoro vengono considerate decisioni di asset allocation, quelle relative alla composizione del portafoglio che riguardano le obbligazioni, le azioni e le decisioni valutarie. 128 Q U A D E R N I Nei quadranti della Figura 1 sono rappresentati i quattro classici macro stili di gestione identificati in funzione della attribuzione di rischiosità attiva nei confronti del benchmark di riferimento della gestione; tale rischiosità viene valutata con la Tracking Error Volatility (TEV). Dalla Figura risulta inoltre evidente come lo stile di gestione sia funzione dell’allocazione di rischio tra attività di scelta degli asset e attività di selezione titoli. Le varie allocazioni di rischio possono essere suddivise tra diversi attori del PI. Occorre precisare che, in questo contesto, l’Asset Allocation Risk comprende tutto ciò che non è Security Selection Risk. In realtà i livelli di attività sono sostanzialmente quattro: (a) Asset Allocation, (b) Country/Area Allocation (CA), (c) Sector Allocation (SA) e (d) Security Selection. La rappresentazione contenuta nella Figura 1 passa per una riattribuzione di CA e SA ad AA oppure a SS. Dopo questa doverosa precisazione descriviamo gli elementi caratterizzanti gli stili di gestione considerati: 1) Tactical Asset Allocation Lo stile si caratterizza per il fatto che il budget di rischio attivo è speso, in modo preponderante, per decisioni di asset allocation. I prodotti generalmente associabili allo stile sono: bilanciati, flessibili, “total return” (i prodotti con obiettivo total return si differenziano dai flessibili per avere come benchmark non dichiarato il rendimento dell’attività priva di rischio), azionari internazionali e obbligazionari. 2) Active Stock Picking Lo stile di gestione è caratterizzato dalla prevalenza del rischio attivo per decisioni di selezione titoli, quindi le decisioni di asset allocation attive, anche quelle valutarie, devono avere dimensione marginale. I prodotti che possono essere associati allo stile sono: azionari paese/settore e azionari settoriali. 3) Index/Index plus L’obiettivo dello stile è di replicare la performance del benchmark di riferimento (index) o replicarlo con un TEV molto limitato (index plus). La gestione viene prevalentemente effettuata, specialmente per gli index, tramite metodologie quantitative quali: (a) full replication, (b) stratified sampling, (c) analisi fattoriale e (d) analisi delle componenti principali. In generale i prodotti associati allo stile in questione sono quelli la cui vocazione fondamentale è quella di costituire i mattoncini elementari per ge3 stioni ad asset allocation come GPF, fondi di fondi e GPM. 4) Active Blend Come indica lo stesso nome, lo stile combina in misura significativa decisioni attive di asset allocation e security selection. È sicuramente lo stile di più difficile implementazione perchè la logica da seguire dovrebbe essere di tipo “full information” piuttosto che “2-step” ossia bottom-up e top-down applicati indipendentemente e contemporaneamente. In generale possono essere associati allo stile prodotti bilanciati, “total return” e flessibili. 3 Il mercato evidenzia una tendenza a spostarsi da prodotti ad indice verso prodotti index plus sia a causa della naturale concorrenza rappresentata dagli ETF (Exchanged Traded Funds) che per la maggior remunerazione degli index plus. 129 Q U A D E R N I 1.2 Prerequisiti e attività fondamentali del processo di investimento 2 L’asset allocation 130 In generale per poter esplicitare un processo di investimento per un determinato prodotto occorrono alcuni presupposti fondamentali. Occorre, innanzitutto, definire il benchmark della gestione. Il benchmark costituisce quella che da più parti viene definita come l’asset allocation strategica, differente da quella tattica che è più di pertinenza dell’area gestionale. In secondo luogo occorre esplicitare lo stile di gestione e quindi definire coerentemente quali sono i limiti alla politica di investimento del prodotto: TEV, universo investibile ed eventuali vincoli normativi. Nell’ottica di una gestione dinamica, infine, occorre adottare una politica di risk budgeting che consiste nel quantificare la ripartizione del TEV per tipologia di attività e nel definire strategie di stop-loss/take-profit. Le fonti da cui attingere possono essere diverse e tra esse annoveriamo: la normativa, il CdA e il Comitato investimenti che può eventualmente rendere più stringenti e/o definire in modo più particolareggiato i vincoli disposti dal CdA. La struttura del processo di investimento può essere suddivisa in diverse attività fondamentali. Come abbiamo visto in precedenza nella medesima struttura possono convivere contemporaneamente diversi processi in funzione degli stili di gestione di cui si è dotata la società. Quindi le attività che costituiscono il processo di investimento, sebbene possano essere svolte dalla medesima funzione, devono avere delle peculiarità specifiche. Le attività che si distinguono nel processo di investimento, in generale, sono: a) asset allocation tattica (Comitato tattico/Comitato investimenti ecc.); b) security selection (team di gestione); c) portfolio building; d) trading ed execution; e) risk management (ex-ante); f) analisi e attribuzione della performance (ovviamente expost). In estrema sintesi, possiamo definire il processo di investimento come l’attività di “return and risk management”. Dalla descrizione appena fatta appare chiaro che l’attività di risk management rientra a pieno titolo all’interno del processo di investimento; questa, quindi, non viene considerata come un’attività di mero controllo (risk controlling), ma come un’attività strumentale all’ottimizzazione del rapporto rischio-rendimento (risk management); in particolare il processo di risk management e attribuzione della performance consente di ottenere dei feed-back sulle attività precedenti (a)/(d). In un periodo come l’attuale, nel quale si manifesta un giustificato aumento dell’avversione al rischio, diventa più pressante l’enfasi che viene posta sull’attività di gestione del rischio e appare più evidente il ruolo che deve essere dato a tale attività. Procediamo per gradi descrivendo alcune delle attività specifiche del processo di investimento. Generalmente l’asset allocation viene confusa con il processo di investimento. L’attività è, nell’impostazione che le abbiamo dato, solo una parte del processo anche se risulta nella maggior parte dei casi quella più facilmente comunicabile all’esterno. Come ribadito nel paragrafo precedente, l’attività di asset allocation deve essere contestualizzata rispetto allo stile di gestione, per stili di tipo index/index Q U A D E R N I plus, per esempio, essa sarà necessariamente passiva rispetto al benchmark, mentre avrà un ruolo determinante nel caratterizzare stili di gestione di tipo tattico (stile Tactical Asset Allocation). Il problema dell’asset allocation può essere risolto utilizzando diversi approcci, nel presente paragrafo utilizzeremo un approc4 cio “a la” Black e Litterman . Le problematiche principali per risolvere il problema dell’asset allocation possono essere riassunte nei seguenti punti: i) modelli per la determinazione dei rendimenti attesi; ii) processo di generazione e validazione delle “view” sui mercati; iii) generazione dei rendimenti attesi per l’ottimizzazione mediante “blending” di (i) e (ii); iv) determinazione dei vincoli per l’ottimizzazione; v) scelta della funzione di utilità da massimizzare; vi) validazione dell’asset allocation tattica mediante attribuzione del rischio sulle singole “bet”; vii) verifica dinamica, mediante attribuzione del rischio, della coerenza tra portafogli reali e portafoglio “tattico”. Schematicamente possiamo aiutarci nella descrizione dell’approccio Black e Litterman (B&L) facendo ricorso alla Figura 2. Si parte da una considerazione che possiamo definire di equilibrio: essendo il problema dell’asset allocation strettamente connesso alla scelta di un benchmark per la gestione, si ipotizza che il benchmark sia un portafoglio di equilibrio, ossia il portafoglio ottimo in termini di rischio rendimento. A questo punto, attraverso una procedura di reverse engineering (di seguito illustrata) possiamo ricavare, data l’avversione al rischio, i rendimenti impliciti relativi al benchmark ossia quei rendimenti che, se utilizzati per l’ottimizzazione, restituiscono come risultato esattamente il benchmark. In parallelo la Research della Società esprime le sue opinioni sui mercati (view), siano esse qualitative o quantitative, che utilizzate congiuntamente ai rendimenti impliciti nel benchmark consentono di ottenere i rendiModello Econometrico sui rendimenti Rendimenti impliciti del Benchmark Figura 2 L’approccio Black e Litterman View della Research Blending delle view con rendimenti impliciti (Bayes’ Theorem) Rendimenti attesi Matrice Varianze & Covarianze Funzione di utilità da massimizzare (es. Markowitz) Risk Management Vincoli di Mandato Limite di Track Err. View della Research Asset Allocation Tattica 4 Black-Litterman(1992), vedi anche Bevan-Winkelmann(1998). 131 Q U A D E R N I menti attesi da utilizzare per l’ottimizzazione, attraverso il cosiddetto “blending”. Questo altro non è che l’applicazione del teorema di Bayes. La distribuzione a priori è centrata sui rendimenti impliciti che insieme al set informativo aggiuntivo (le “view” della Research) generano la distribuzione a posteriori con i rendimenti per l’ottimizzazione vera e propria. L’approccio B&L è molto intuitivo e semplice da implementare e risulta evidente che nel caso non ci siano opinioni sui mercati l’ottimizzatore restituisce il benchmark (se non si hanno delle opinioni perché si deve deviare dal benchmark della gestione?). A questo punto, prima di validare i rendimenti per l’ottimizzazione, è possibile fare uno screening attento delle view, valutando sia la significatività/probabilità dello scenario complessivo, sia l’importanza delle singole opinioni espresse. Tale attività riveste una notevole importanza all’interno dello schema disegnato da B&L; infatti, solo dopo 5 un’attenta analisi e validazione dello scenario si può passare sia alla definizione dell’asset allocation tattica sia all’ottimizzazione il cui output deve essere valutato rispetto allo scenario e il cui profilo di rischio deve rispettare eventuali politiche di risk budgeting. A questo punto descriveremo più dettagliatamente l’approccio partendo dal problema del reverse engineering. 2.1 Il reverse engineering L’ipotesi sottostante al modello B&L è che il benchmark sia un portafoglio di equilibrio (nella tradizionale rappresentazione della frontiera efficiente è quel portafoglio individuato dalla tangenza tra la frontiera e la retta di bilancio). L’unica variabile esogena del problema è rappresentata dallo Sharpe ratio: Sh = q' r − rf σq (1) dove: q è il vettore dei pesi degli asset che compongono il benchmark, r è il vettore dei rendimenti attesi degli asset, rf è il tasso risk-free e sq è la volatilità del benchmark. Definito a priori lo Sharpe ratio, dobbiamo identificare la funzione di utilità da massimizzare; ad esempio, possiamo utilizzare la tradizionale funzione di utilità quadratica: (2) U = q' r − λ q' Σ q − γ ( q' u − c ) 6 dove: g = rf , c è generalmente pari a 1 , “u” è un vettore unità che è utilizzato per calcolare l’esposizione complessiva del portafoglio è quindi il costo dell’eventuale indebitamento, g è l’avversione al rischio e S è la matrice di varianze-covarianze delle attività finanziarie. Massimizziamo la (2) rispetto a q: ∂U (3) = 0 ⇒ r − 2λΣq − r u = 0 ∂q f Se per semplicità espositiva poniamo 2l=j, dall’equazione (3) possiamo ricavare che: 5 L’appendice A del lavoro contiene un insieme di strumenti per la valutazione dello scenario. 6 c > 1 quando il portafoglio non è monovaluta e la valuta viene trattata, quasi sempre, come un asset a parte, cfr. Mignacca (1999) e Mignacca-Meucci (2002). Anche per un portafoglio multi valuta e con la valuta trattata come un asset a parte, “c” può essere pari ad 1 nel caso in cui ci sia completa copertura del rischio di cambio. 132 Q U A D E R N I ϕ= q' r − rf q' u σ q2 (4) dove: (5) σ q2 = q' Σ q è la varianza del benchmark. Risolvendo la (3) per r, otteniamo: r= q' r − rf q' u (1 − q' u)rf Σq + rf u = Sh + 2 σq σq Σq + rf u σ q (6) Dalla (6) si evince che, definito il livello esogeno relativo allo Sharpe ratio (Sh), è immediato ricavare il vettore dei rendimenti impliciti. + Σ+q + r = f rf , , Sh σq (7) L’equazione (7) ci chiarisce quali sono i fattori che influenzano i rendimenti impliciti (o di equilibrio). È abbastanza logico che la relazione tra rendimenti di equilibrio, Sharpe ratio e risk-free rate sia positiva, mentre per il secondo termine del funzionale occorre soffermarsi più attentamente; come vedremo in seguito nella parte relativa al risk management, il secondo termine identifica un vettore di sensitività; esso rappresenta la derivata della volatilità del benchmark rispetto a movimenti nel vettore dei pesi del benchmark stesso. In conclusione, con Sh fissato esogenamente >0, si ha che tanto più è sensibile la volatilità del benchmark rispetto ad una delle attività che lo costituiscono, tanto più il rendimento di equilibrio dell’attività stessa ne sarà influenzata positivamente. Abbiamo visto come ricavare i rendimenti impliciti nel benchmark sotto l’ipotesi che questo sia il portafoglio di equilibrio del mercato. A questo punto possiamo affrontare la questione del “blending”, ossia della modifica dei rendimenti impliciti per tenere conto delle opinioni della Research sui mercati. Ipotizziamo quanto segue: r~ N(r e, S) (8) ossia che il vettore dei rendimenti sia distribuito normalmente, con valore atteso pari al vettore dei rendimenti di equilibrio e matrice di varianze e covarianze pari a S. Inoltre supponiamo di avere delle view sui mercati e che le rappresentiamo nel seguente modo: g= Sr+z, con z~ N(0,W) e Cov(z,e)=0 (9) dove: g è il vettore che contiene le view espresse, S è la matrice che identifica le combinazioni lineari tra le attività finanziarie sulle quali sono state espresse le view, z identifica l’incertezza sulle view (se si ipotizza assenza di incertezza nelle view, allora g=Sr), e è il “noise” del processo che genera i rendimenti e l’ipotesi che Cov(z,e)=0 sta ad indicare che l’incertezza sulle view è indipendente rispetto al “noise” dei rendimenti. Le ipotesi contenute nelle equazioni (8) e (9) ci consentono di ricavare la distribuzione congiunta dei rendimenti e delle view: r g ~ re Σ ΣS' N e , ' Sr SΣ SΣS + Ω 2.2 Il blending delle view con i rendimenti di equilibrio (10) utilizzando le proprietà della normale multivariata, possiamo ottenere il vettore dei rendimenti attesi per l’ottimizzazione utilizzando 133 Q U A D E R N I il valore atteso condizionale di “r” dato il vettore delle view “g”: −1 (11) E(r g) = r e + ΣS' ( SΣS' + Ω) ( g − Sr e ) 2.3 La funzione di utilità da massimizzare 3. Risk management 134 La scelta della funzione di utilità deve ovviamente essere coerente con la funzione obiettivo del “massimizzante”. È il caso di sottolineare che non sempre gli interessi del “massimizzante” (società di gestione) coincidono poi con quelli del soggetto che beneficia/subisce i risultati della massimizzazione (sottoscrittore di un fondo comune di investimento). Possiamo dire che in linea generale le funzioni utilizzate nella pratica possono essere ricondotte all’approccio classico alla Markowitz. L’introduzione del benchmark nel panorama del risparmio gestito italiano ha sicuramente contribuito a modificare la funzione obiettivo delle Società. Innanzitutto i prodotti non vengono valutati esclusivamente per il loro posizionamento in classifica, ma al posizionamento in questione si aggiunge una componente collegata al differenziale di performance relativo al proprio benchmark. Altro obiettivo che si cerca di perseguire è quello di ricercare persistenza di comportamento dei prodotti. Una delle modifiche che possono essere fatte all’approccio standard consiste nel massimizzare la funzione di rendimento del portafoglio tenendo in considerazione però i risultati che sono stati conseguiti; quello che si vuole dire è che l’asset allocation tattica sarà anche funzione del risultato conseguito dalla gestione nel periodo precedente per cui, se il gestore avrà accumulato un’overperformance rilevante nel periodo precedente, sarà incentivato a non correre eccessivi rischi e ovviamente può avvenire il contrario se nel periodo precedente si è accumulata una sotto performance di rilievo; il tutto deve avvenire rispettando lo stile di gestione (attivo/passivo) associato al prodotto; ad esempio, in caso questo fosse in una situazione di forte overperformance e si applicasse la logica precedente senza vincoli, il gestore avrebbe convenienza ad utilizzare uno stile di gestione fortemente passivo; è auspicabile che i prodotti gestiti con questa metodologia siano soggetti a regole di stop/loss che ne impediscano effetti perversi di “moral hazard” rispettando quindi lo stile di gestione stabilito. Decisa la funzione da utilizzare per la massimizzazione, e individuati i vincoli, prima di implementare l’asset allocation tattica, si deve verificare se essa sia coerente con lo scenario definito e se è coerente rispetto all’eventuale politica di risk budgeting. A questo punto introduciamo il tema del risk management e facciamo notare come questo sia parte integrante del processo di investimento. Già in precedenza abbiamo definito il ruolo del risk management nel processo di investimento. In questo paragrafo cercheremo di dettagliare meglio i contorni e le problematiche dell’attività concentrandoci sulla componente rischio di mercato attiva, ossia rischiosità relativa al benchmark o Tracking Error Volatility (TEV). Descriveremo un approccio coerente con l’implementazione di un sistema di risk budgeting che consiste nel dettagliare i limiti posti alla gestione per macro categorie di rischio come: asset allocation risk, security selection risk, fx risk ecc.. In generale le problematiche fondamentali nell’implementazione di un sistema di risk management sono le seguenti: (a) make vs Q U A D E R N I buy; (b) mapping (è la problematica relativa alla rappresentazione del portafoglio e del benchmark), (c) costruzione di una banca dati dei prezzi e (d) scelta del modello per la valutazione e la quantificazione dei rischi attivi. La variabile principale di interesse in ogni applicazione di risk management è il TEV; le modalità di calcolo di questa variabile, ovviamente, dipendono strettamente dal modello utilizzato. In un approccio parametrico, e sotto ipotesi standard, il TEV può essere stimato utilizzando la seguente equazione: ' (12) TEV = (q − b) Σ(q − b) dove: q è il vettore dei pesi delle attività in portafoglio, b è il vettore dei pesi delle attività nel benchmark e S è la matrice delle covarianze tra le attività. L’equazione (12) presuppone l’adozione di un modello di riferimento particolare. Generalizziamo la (12) nel seguente modo: (13) TEV = f (q, b, Σ(r ), ε ) dove e è la componente stocastica del processo. Dalla (13) osserviamo che il TEV è funzione di q, b e, indirettamente, dei rendimenti delle attività finanziare r. L’attenzione dell’accademia e dei practitioners è quasi interamente dedicata allo studio dei funzionali f(.) e S(.). Esistono però altre fonti di incertezza che possono dare luogo a non marginali errori nella stima del TEV, per esempio il vettore q non è univocamente determinato ma dipende dal tipo di mappatura delle “posizioni grezze” x in portafoglio; per questo motivo sarebbe meglio riscrivere la (13) nel seguente modo: (14) TEV = f [q( x ), b, Σ(r( P))] La dipendenza di S dal vettore dei prezzi costituisce un’altra fonte di incertezza, infatti esistono diverse scelte che devono essere prese in considerazione per la determinazione dei rendimenti; tra queste ricordiamo la frequenza delle osservazioni e la scelta di come trattare il problema dei “missing value”. Per quanto riguarda la frequenza dei dati citiamo il problema dell’asincronia dei mercati; ad esempio, se utilizziamo una frequenza di dati giornaliera, la correlazione tra mercato giapponese e nord americano risulta essere inficiata dal fatto che i dati si riferiscono a mercati che non sono aperti contemporaneamente. Il lavoro di Burns et al. (1998) tratta il problema in modo approfondito suggerendo dei possibili rimedi all’inconveniente. Per quanto riguarda invece il secondo problema sui valori mancanti dei prezzi, esistono diverse tecniche utilizzabili, ad esempio la replica del prezzo mancante con il valore precedente o l’interpolazione del dato mancante con i dati precedenti e successivi. È intuitivo concludere che con entrambi i metodi non si tiene in considerazione della relazione esistente tra il mercato non “osservato” e i mercati per cui invece si dispongono le osservazioni; la solu7 zione che suggeriamo è quella di utilizzare l’algoritmo EM che consiste nell’implementare la seguente procedura: (1) si inizializza la procedura stimando una matrice di covarianze con le osservazioni a disposizione; (2) si stimano i dati mancanti utilizzando il valore at7 Expectation-Maximization. Cfr. J.P. Morgan (1996). 135 Q U A D E R N I teso di questi condizionato al set di osservazioni disponibili; (3) si ristima la matrice di covarianze con le osservazioni stimate in (2); (4) si valuta la distanza tra una stima e la successiva del set di osservazioni mancanti: se si raggiunge convergenza si termina l’algoritmo se invece non viene raggiunto il criterio di convergenza si ritorna al punto (2). Nei paragrafi precedenti abbiamo discusso del processo di investimento e di come l’attività di risk management ne sia parte integrante. Quest’ultima deve essere disegnata secondo criteri di coerenza rispetto al processo di investimento di cui la Società di gestione si vuole dotare; a tal fine ipotizziamo una Sgr che si è dotata di differenti stili di gestione e che intende adottare, oltre ad un attento monitoraggio dei limiti, una politica di risk budgeting e di verifica della coerenza delle decisioni prese in Comitato Investimenti avallate dal CdA. L’approccio che andremo a descrivere ci consente di soddisfare le esigenze sopra riportate. Tratteremo, in particolare, due argomenti: uno relativo alla scomposizione del rischio e l’altro focalizzato sull’attribuzione dello stesso. 3.1 La scomposizione del TEV In generale quando si vuole adottare una politica di risk budgeting e controllare il rispetto delle view strategiche dei vari comitati nei portafogli reali, si tende a ricercare la risposta alle seguenti domande: a) quali attività/paesi/settori/titoli generano rischio attivo rispetto al benchmark, in questo caso parleremo di scomposizione del rischio b) tra quali funzioni/soggetti è ripartito il rischio di cui sopra, in questo caso invece parleremo di attribuzione del rischio. Sia “q” il vettore dei pesi del portafoglio, “b” il vettore dei pesi relativi al benchmark, “h” il vettore delle scommesse (h=q-b) e T l’orizzonte temporale prescelto, il TEV annualizzato sa del portafoglio può essere ricavato utilizzando l’usuale equazione: σ a = h' ΣhT (15) L’assunzione di log-normalità dei prezzi delle attività finanziarie e l’ipotesi che i (log) rendimenti siano congiuntamente distribuiti normalmente ci permette di “scalare” opportunamente la grandezza h’Sh mediante T; ad esempio se S è ottenuta a partire da rendimenti settimanali, per ottenere una misura annualizzata T sarà posto pari a 52, ovvero il numero di settimane in un anno. Un’ulteriore precisazione è necessaria: anche sotto queste ipotesi semplificatrici il TEV calcolato con la (15) è una misura di volatilità “locale” valida nel momento in cui il portafoglio e il benchmark sono osservati, a meno che il portafoglio e il benchmark non siano ribilanciati in tempo continuo: se il coefficiente di rischio viene riparametrizzato su un orizzonte temporale relativamente ampio, anche sotto l’ipotesi di log-normalità dei prezzi, la stima che ne deriva deve essere considerata un’approssimazione. Dalla stima sintetica di rischio attivo possiamo derivare un vettore di parametri di notevole interesse: ∂σ Σh 8 (16) ∆= = ∂h 8 136 σ Notare il collegamento con la (7). Q U A D E R N I D è un vettore di dimensione pari alla dimensione del vettore delle scommesse. Il vettore D contiene le sensitivity del TEV rispetto a variazioni marginali delle scommesse. L’interpretazione da dare al parametro è analoga all’interpretazione del delta di un’opzione. Il parametro in questione può assumere valori positivi o negativi; generalmente se la bet è negativa, quindi è presente un sottopeso del portafoglio rispetto al benchmark, il valore del delta è negativo il che ci dice che se aumentiamo il peso nel portafoglio del titolo in questione possiamo ottenere una riduzione 9 della rischiosità relativa ; analogamente delta positivi sono generalmente legati a bet positive rispetto al benchmark. Le situazioni più interessanti si verificano per bet positive con sensitivity negative; questo in teoria ci permetterebbe, sempre che l’opinione sul titolo sia positiva, di aumentare la scommessa positiva e contemporaneamente ridurre il TEV. Oltre al delta è utile avere anche a disposizione la stima del gamma del TEV: Σhh' Σ σΣ − σ ∂ 2σ Γ= = 2 ' σ ∂h∂h (17) il gamma ci dà indicazioni sulla curvatura del TEV rispetto a movimenti nel vettore delle scommesse h. Il delta e il gamma possono essere utilizzati congiuntamente per avere delle approssimazioni dell’impatto sul TEV di modifiche nella struttura del portafoglio. Questa approssimazione ci consente di evitare di dover ogni volta ristimare il TEV e quindi di risparmiare tempo per l’elaborazione del risultato. Se indichiamo con h0 l’attuale struttura delle scommesse del portafoglio e con h1 la “nuova” struttura che indentiamo verificare, l’impatto sul TEV può essere approssimato utilizzando la seguente scomposizione di Taylor: σ (h1 ) − σ (h2 ) ≅ (h1 − h2 ) ' ∂σ ∂h + h = h0 2 1 ' ∂ σ h1 − h0 ) ( 2 ∂h∂h' (h1 − h0 ) h = h0 (18) La (18) ci consente di approssimare meglio l’impatto sul TEV di modifiche nella struttura delle scommesse. Nella pratica l’importanza del gamma è molto rilevante per portafogli con basso TEV avendo questi notevoli problematiche legate alla convessità. Dopo avere introdotto il concetto di delta del TEV possiamo descrivere la quantità che indica la concentrazione del rischio attivo per singola posizione: chiameremo questa quantità “Component 10 TEV”(CTEV) . Indichiamo con <h> la matrice quadrata che ha sulla diagonale principale le scommesse h e al di fuori di essa tutti zero. Il vettore dei CTEV potrà essere ottenuto nel seguente modo: Σh (19) CTEV =< h > σ in pratica ogni elemento del CTEV è ottenuto moltiplicando scommessa i-esima per la sensitivity i-esima; anche in questo caso è da notare la similitudine tra quanto appena descritto e il delta equivalent che viene calcolato per un portafoglio di opzioni. È inoltre facil9 Ovviamente l’estrapolazione dell'impatto sul TEV dal delta è solo un’approssimazione. 10 Esistono nella pratica diverse denominazioni per questa quantità, quella che utilizziamo in questo lavoro ci sembra quella di più immediata percezione. 137 Q U A D E R N I mente verificabile che la somma dei CTEV è uguale al TEV; infatti, se poniamo pari ad u il vettore somma, ossia il vettore contenente tutti uno e di dimensione conforme ad h, abbiamo: ∑ CTEV =u CTEV = u ' ' i <h> i Σh Σh = h' =σ σ σ (20) Come abbiamo dimostrato con la (20) il CTEV è sommabile per cui siamo anche in grado di verificare la concentrazione del rischio oltre che su singole scommesse, anche su aggregati di ordine superiore come ad esempio settori o paesi. Questa possibilità consente di poter dettagliare meglio e monitorare eventuali policy di risk budgeting; in particolare le variabili di rischio descritte ci consentono di impiantare dei limiti di risk budgeting quali, ad esempio: la concentrazione del rischio su una singola scommessa e il grado di polarizzazione del rischio di portafoglio. Gli indicatori descritti consentono di valutare la rischiosità del portafoglio da diversi punti di vista; per valutare invece la coerenza della composizione del portafoglio con la “view” strategica della Società, si può fare ricorso ad un concetto sviluppato da Goldman 11 Sachs e che in questo lavoro viene applicato in un contesto in cui la gestione si confronta con un benchmark e che denomineremo Active Market Exposure (AMEX); si noti, infatti, che nel lavoro di Litterman si fa uso del termine Market Exposure ed il termine “Active” viene tralasciato in quanto non viene fatto un confronto con il benchmark. Il vettore contenente l’Amex delle singole posizioni in portafoglio si ottiene con la seguente formula: Σq Σb q' Σb <q> ' −<b> ' b' Σb q Σq b Σb Amex = (21) dove: q' Σb b' Σb è il beta del portafoglio nei confronti del benchmark, Σq q' Σq è il vettore dei beta delle attività presenti in portafoglio rispetto allo stesso portafoglio e Σb è il vettore dei beta delle attività presenti nel benchmark ' b Σb rispetto al benchmark. L’Amex è un vettore il cui elemento generico i-esimo indica quale è il contributo “probabile” alla performance differenziale del portafoglio rispetto al benchmark dato un determinato shock al benchmark; passando ad una notazione scalare ed indicando con bq,b il beta complessivo del fondo, con bi,q il beta della iesima attività rispetto al portafoglio, con bi,b il beta della i-esima attività rispetto al benchmark e con qi e bi rispettivamente il peso nel portafoglio e nel benchmark della i-esima attività possiamo riscrivere la formula dell’Amex nel seguente modo: Amexi = bq,bbi,q qi -bi,b bi (22) La somma delle Amex di tutte le attività è pari al beta di portafoglio - 1, infatti: ∑ Amex i i = β q , b ∑ βi, q qi − ∑ βi , b bi = β q , b i i ∑q σ i, i σ q2 2 i, q − ∑b σ i, i σ b2 2 i, b = βq, b − 1 (23) L’Amex può essere considerata un’ottima proxy della “view” implicita nel portafoglio; essendo sommabile, infatti, possiamo rica11 138 Litterman-Winkelmann(1996). Q U A D E R N I vare informazioni su security selection, sector allocation, country allocation ed asset allocation. La scomposizione del TEV, come abbiamo visto, permette di analizzare l’utilizzo attivo del budget di rischio; il problema che affrontiamo in questa sezione è relativo all’individuazione dei soggetti/attività che generano tale rischio attivo. In particolare quantificheremo i seguenti rischi: a) asset allocation risk; b) country allocation risk; c) sector allocation risk; d) security selection risk. Prima di entrare nel dettaglio dell’attribuzione del rischio occorre introdurre alcuni concetti; consideriamo per prima cosa il peso nel portafoglio della generica i-esima attività: qi ; tale peso dipende da una serie di decisioni (non importa se esplicite o implicite): (i) il peso deciso per l’asset cui appartiene l’attività i-esima (qAA,i), (ii) quanto è il peso assegnato, fatto 100% qAA,i, al paese di appartenenza dell’attività i-esima (qCA,i), (iii) quanto pesa all’interno del paese il settore di “i” (qSA,i) ed infine (iv) quanto pesa l’attività iesima all’interno del suo settore (qSS,i). Vale la pena ricordare che la gerarchia (a), (b), (c), (d) è contemporaneamente una scelta di comodo e di “buon senso”, ma nulla vieterebbe ad esempio utilizzare un livello decisionale gerarchico di questo tipo: (a), (c), (b), (d). A questo punto risulta abbastanza agevole ricavare che: qi = q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i (24) analogamente, per il benchmark abbiamo che: bi = bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i (25) Sempre considerando l’attività i-esima, il suo contributo differenziale alla performance del portafoglio nei confronti del benchmark è ottenibile semplicemente come: ∆Perfi = (qi − bi )π i = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i 3.2 L’attribuzione del TEV (26) dove piè la performance assoluta dell’attività i-esima. Con semplici passaggi algebrici, dalla(26) possiamo ottenere l’attribuzione 12 della performance per tipologia di attività : ∆Perfi = (q AA, i − bAA, i )bCA, i bSA, i bSS , iπ i + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , iπ i + AA CA + (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , iπ i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, iπ i SA (27) SS Se consideriamo il nostro vettore di scommesse h=q-b, marginalizzando l’analisi rispetto a pi possiamo ottenere che: hi = (q AA, i − bAA, i )bCA, i bSA, i bSS , i + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , i + AA CA + (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, i = SA (28) SS = hAA, i + hCA, i + hSA, i + hSS , i e quindi, in forma compatta: h = hAA + hCA + hSA + hSS (29) se consideriamo: 12 Asset Allocation, Country Allocation, Sector Allocation e Security Selection. Cfr. Appendice B per i passaggi che portano alla (27). 139 Q U A D E R N I hAA In 1 h I 1 CA n hv = , U = = ⊗ In hSA In 1 h I n 1 SS 13 dove n è pari alla dimensione di h, possiamo facilmente ricavare che: h = U ' hv (30) Ricordando che σ = h' Σh , abbiamo tutti gli elementi per ricavare il contributo al rischio attivo del portafoglio determinato dalle diverse attività/soggetti che intervengono su questo. Innanzitutto, utilizzando la (30), riscriviamo l’equazione del TEV in modo equivalente nel seguente modo: σ = hv' UΣU ' hv = hv' Ωhv (31) dove: 1 1 Ω= 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 ⊗Σ 1 1 Come abbiamo visto in precedenza l’equazione (19) ci consente di scomporre il contributo delle varie attività finanziarie al TEV. Per quanto riguarda la sua attribuzione, possiamo fare uso del suo equivalente: CTEVv =< hv > Ωhv σ (32) dove: CTEVv ha dimensione (4n, 1) e si può quindi scomporre il coefficiente di rischio nelle sue componenti di asset allocation, country allocation, sector allocation e security selection. L’utilizzo di questa tecnica di attribuzione del TEV per tipologia di attività di investimento, risulta fondamentale per la valutazione di politiche di risk budgeting (in quanto ci permette di valutare dettagliatamente la ripartizione del rischio per attività e funzione) e di monitoraggio circa la coerenza tra il prodotto gestito e lo stile di gestione che questo dichiara. 4. TEV, TE ed Expected 14 Shortfall È abbastanza comune che si senta utilizzare indifferentemente il termine tracking error volatility e tracking error. In questo paragrafo cercheremo di illustrare quali sono le differenze tra alcuni indicatori utilizzati di frequente. Partiamo per comodità dalla seguente ipotesi: rt = µ + ε t , ε t ~ N(0,se) (33) dove r rappresenta l’extra-rendimento di una determinata gestione rispetto al proprio benchmark. Dalla (33) possiamo ricavare le seguenti statistiche: TEV = se (34) 15 tracking error volatility, rischio non sistematico TE = µ 2 + σ ε2 tracking error (radice quadrata del momento secondo) 13 14 15 140 ƒ è il simbolo che rappresenta il prodotto di Kronecker. Cfr. Leibowitz et al. (1996), pp.128-131. Cfr. Lee (2000). (35) Q U A D E R N I Expected Shortfall (ES)= m-as (36) dove a è funzione dell’intervallo di confidenza prescelto. Ciò che differenzia fondamentalmente il TEV dagli altri due indicatori è che il TEV “rimuove” il problema del trend. Questo lo rende molto “attraente” per un risk management che debba confrontarsi quotidianamente con l’area gestione. Il trend è una questione di pertinenza gestionale e difficilmente può trovare cittadinanza all’interno del risk management. In sintesi la variabile di interesse del gestore è il momento primo della distribuzione (rendimento, trend, ...) mentre il risk manager si occupa del momento secondo della distribuzione, più precisamente la radice del momento secondo dalla media o TEV. Questo problema vale anche per altre aree della finanza, come ad esempio il settore bancario per il quale viene calcolato il VaR; a maggior ragione, nel caso della valutazione della rischiosità assoluta di un portafoglio, il problema del “trend” acquista un’importanza maggiore che però viene risolta dai “practitioners” utilizzando dei brevi orizzonti temporali. Il VaR è molto simile al concetto di Expected Shortfall con l’unica differenza che non tiene in considerazione il trend. Questo problema causa delle marginali distorsioni se l’holding period è relativamente breve mentre risulta non marginale per orizzonti temporali non brevi, si consideri ad esempio il caso di un Bond per il quale viene calcolato un VaR che non tiene conto del cost-of-carry. Un problema rilevante per il risk management è rappresentato dal backtesting. Il risk manager, infatti, deve provare che il modello che utilizza per il calcolo del TEV (il problema è ovviamente analogo per il VaR) sia corretto, e laddove possibile la sua efficienza, in sostanza non solo il modello è adatto allo scopo ma è anche il migliore. Da un punto di vista analitico, l’inferenza statistica ci viene incontro con una discreta batteria di test che possono essere implementati. Nella pratica però esistono diversi problemi tali da rendere di difficile interpretazione l’output degli stessi. Proveremo ad illustrare alcuni test che ci consentono di avere delle risposte dalla funzionalità del modello utilizzato per poi elencare tutta una serie di problemi che influenzano profondamente l’affidabilità dei dati utilizzati. Il primo indicatore utile alla valutazione del modello di rischio è la cosiddetta “bias statistic”: BS = 1 T rt2 2 ∑ T t =1 TEVt 5. Backtesting (37) dove: BS è appunto la bias statistic e rt rappresenta l’excess performance del portafoglio rispetto al benchmark. È abbastanza intuitivo ricavare che: a) BS =1, la stima del TEV è corretta; b) BS<1, il TEV è sovrastimato; c) BS>1, il TEV è sottostimato. Il vero problema a questo punto è di ricavare l’intervallo di confidenza intorno a 1 per poter dare delle indicazioni sull’eventuale correttezza della stima del TEV. A questo proposito, si propone di utilizzare il seguente intervallo di confidenza se si ipotizza normalità dei residui: 141 Q U A D E R N I 1± 2T (38) mentre se si vuole tenere in considerazione il problema della Kurtosis della distribuzione, si può utilizzare il seguente intervallo: κ − 1) 1± ( T (39) dove k rappresenta la Kurtosis della serie storica considerata. Oltre a valutare la bontà del modello utilizzato per la stima del TEV, è opportuno anche sottolineare che il TEV è una misura a cui è associato un intervallo di confidenza. Prendendo un qualsiasi ma16 nuale di statistica , possiamo ricavare che l’intervallo di confidenza del TEV è ottenibile utilizzando la seguente equazione: ˆ 2 ˆ 2 TEV TEV , (T − 1) TEV 2 ∈ (T − 1) q1 q2 (40) dove: q1 e q2 sono i valori della distribuzione Chi-quadro in corrispondenza dei valori critici nelle code e TÊV è la stima del TEV. Per concludere questo paragrafo sul backtesting, evidenziamo alcuni problemi che sicuramente ne limitano le conclusioni. Quello che si intende sottolineare è che sebbene l’inferenza statistica ci venga incontro con tutta una serie di statistiche, esistono dei problemi che inficiano l’affidabilità dei risultati. Alcuni dei problemi sono: a) mispricing (portafoglio vs benchmark); b) trading; c) commissioni di gestione ed altri costi che gravano sul prodotto; d) il TEV è una misura di volatilità locale; e) errori nel mapping. I fattori (c) e (e) sono intuitivi, per quanto riguarda invece il fattore (a), è un problema che tutte le Società di asset management si trovano ad affrontare da diversi punti di vista; nel nostro caso specifico, il problema consiste, ad esempio, nel fatto che non sempre il portafoglio e il benchmark adottano lo stesso sistema di pricing. Il problema è particolarmente evidente per prodotti obbligazionari che per vincoli normativi adottano dei prezzi non allineati con quelli dei benchmark 17 sia per i titoli in portafoglio che per i valori dei tassi di cambio . Per quanto riguarda invece (b), è evidente che l’impatto del trading non viene registrato dal sistema di risk management specialmente se le posizioni vengono aperte e chiuse tra una rilevazione e l’altra della piattaforma di risk management. Infine, per ciò che concerne il punto (d), il fatto che il TEV costituisca una misura di volatilità locale impedisce di fare previsioni a “lunga scadenza” sul delta di performance atteso, in quanto il dato disponibile, seppure annualizzato per comodità, è valido per un “piccolo” intervallo di tempo (fino a quando non cambia la posizione del portafoglio relativamente al benchmark). Conclusioni In questo lavoro abbiamo cercato di affrontare le tematiche principali relative al processo di investimento. Questo è stato descritto come composto da diverse attività di cui due sono state illu16 17 Cfr. W.H.Greene (1993) “Econometric Analysis”. A volte le attività finanziarie vengono controvalutate dal back office ai fixing BCE che differiscono dai valori utilizzati dai benchmark. 142 Q U A D E R N I strate in modo approfondito: l’asset allocation e il risk management. È tesi fondamentale del presente lavoro che l’attività di risk management sia una attività propria del processo di investimento descritto sinteticamente come “return-risk management”. Non esiste un unico approccio al risk management, la piattaforma di rischio deve essere tarata su misura rispetto al ciclo produttivo (processo di investimento). Abbiamo descritto un approccio parametrico al risk management che, oltre a misurare il rispetto dei limiti di rischiosità attiva, consenta anche di avere gli strumenti adatti per la valutazione di eventuali politiche di risk budgeting e di verificare la coerenza dei portafogli con lo stile dichiarato e con le “view” tattiche della casa. Nell’introduzione al risk management una menzione particolare merita il discorso fatto circa l’importanza di attività a cui generalmente viene riservato poco spazio: il mapping e la stima dei rendimenti. Queste due attività possono risultare non marginali nel determinare l’alea a cui è sottoposta la stima del TEV. Infine si è cercato di descrivere la differenza esistente tra vari indicatori di rischio e tecniche e limiti per l’attività di backtesting. È opinione di chi scrive che l’attività di risk management svolga un ruolo fondamentale nell’attività tradizionale di generazione delle performance; di questo si è accorto il mercato del risparmio gestito negli ultimi due anni. Per quanto riguarda il problema delle metodologie di calcolo del TEV, siamo convinti che sacrificare qualcosa alla precisione del calcolo, ma ottenere una disaggregazione puntuale dei valori, consente di arricchire gli strumenti di chi deve prendere decisioni a qualsiasi livello nel processo di asset allocation. In questa appendice proponiamo un insieme di strumenti per la valutazione dello scenario nel suo complesso e rispetto a singole view. Per semplicità ipotizziamo che lo scenario delineato non sia 18 “incerto”, ossia ipotizziamo che W = 0 : −1 E(r g) = r e + ΣS' ( SΣS' ) ( g − Sr e ) (A.1) il vettore dei log-rendimenti è distribuito per ipotesi secondo una normale: Sr ~ N(Sre, SSS') (A.2) Inoltre poniamo: SSS' = M = G L G' (A.3) dove: G è la matrice contenente per colonna gli autovettori e L è la matrice diagonale degli autovalori. Utilizzando congiuntamente la (A.2) e la (A.3) ricaviamo che: 2 y = Λ−1/ 2 Γ' ( g − Sr e ) ~ N(0,I) ⇒ y' y ∼ χ (k ) (A.4) Appendice A Valutazione della coerenza dello scenario dove k è il numero di vincoli indipendenti (g). Il test che viene proposto per la valutazione complessiva dello scenario è un chi-quadro: (g − Sr ) ΓΛ Γ' (g − Sr ) ∼ χ e ' −1 e 2 (k ) (A.5) In aggiunta al test sullo scenario, è interessante anche valutare la relativa importanza delle diverse view sullo scenario. Ad esempio potrebbe rivelarsi utile quantificare quale view ha maggior impatto sullo scenario ed eventualmente fare degli approfondimenti sulla sua natura. È abbastanza chiaro quindi che siamo interessati a fare analisi di sensitività sulla chi-quadro. È utile prendere in considera18 Cfr. paragrafo 2.2. 143 Q U A D E R N I zione il delta (derivata prima della chi-quadro rispetto al vettore g) e il gamma della chi-quadro (derivata seconda) rispetto alle singole view per poter costruire un’approssimazione di Taylor del secondo ordine: k 1 k / 2 − 12 y' y ( y' y) 2 −1 e ∂χ 2 ( g − Sr e ) ' ΓΛ−1Γ ' = −2 ∂g γ (k / 2) 2 (k) (delta della chi-quadro) (A.6) k 1 k / 2 − 12 y' y ( y' y) 2 −1 2 e ∂ 2 χ (k) 2 ΓΛ−1Γ ' + = −2 ∂ g ∂ g' γ (k / 2) k/2 1 1 k − y' y −1 −1 +2 2 e 2 ( y' y) 2 1 + (k − 2) ( y' y) × γ (k / 2) [ [ ] (gamma della chi-quadro) (A.7) ] × ΓΛ−1Γ ' ( g − Sr e ) ( g − Sr e )' ΓΛ−1Γ ' Dove: yi = λ−i 1/ 2γ i' ( g − Sr e ) (li è l’autovalore i-esimo e gi è l’autovettore i-esimo) ∞ γ (k / 2) = ∫ e − t t ( k / 2 −1) dt (è la funzione gamma con parametro k/2). 0 Appendice B Derivazione dell'attribuzione della performance Partendo dall’equazione (26): ∆Perfi = (qi − bi )π i = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i aggiungiamo e togliamo la quantità : q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , iπ i ∆Perfi = (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − bAA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i = (q AA, i − bAA, i )bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , iπ i + (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i (B.1) AA Indichiamo, per comodità, il primo termine della (B.1) con AAi. Il secondo passo consiste nell’effettuare una simile operazione aggiungendo e togliendo la quantità : qAA,i ⋅ qCA,i ⋅ bSA,i ⋅ bSS,iπ i ∆Perfi = AAi + +(q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ bCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i = = AAi + (qCA, i − bCA, i )q AA, i bSA, i bSS , iπ i + (q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i )π i (B.2) CA Analogamente a quanto visto in precedenza, il secondo termine della (B.2) verrà indicato con CAi . Di nuovo, aggiungiamo e togliamo alla (B.2) : qAA,i ⋅ qCA,i ⋅ qSA,i ⋅ bSS,iπ i ∆Perfi = AAi + CAi + +(q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ qSS , i − q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ bSA, i ⋅ bSS , i ± q AA, i ⋅ qCA, i ⋅ qSA, i ⋅ bSS , i )π i = = AAi + CAi + (qSA, i − bSA, i )q AA, i qCA, i bSS , iπ i + (qSS , i − bSS , i )q AA, i qCA, i qSA, iπ i = SA = AAi + CAi + SAi + SSi 144 SS (B.3) Q U A D E R N I Bevan, A., K. Winkelmann(1998), “Using the Black-Litterman Global Asset Allocation Model: Three Years of Practical Experience”, Fixed Income Research, Goldman Sachs, New York. Black, F., R. Litterman(1992), “Global Portfolio Optimization”, Financial Analyst Journal, pp. 28-43. Burns, P., R.F. Engle, J. Mezrich(1998), “Correlation and Volatilities of Asynchronous Data”, Journal of Derivatives, Summer, pp.1-12. W.H.Greene (1993), “Econometric Analysis”, seconda edizione. J.P. Morgan, (1996), “RiskMetrics Manual”, quarta edizione. Lee, W. (2000), “Advanced Theory and Methodology of Tactical Asset Allocation”, Fabozzi and Associates. Litterman, R., K. Winkelmann, (1996), “Managing Market Exposure”, Goldman Sachs, Risk Management Series. Leibowitz, M. L., L. N. Bader, S. Kogelman, (1996), “Return Targets and Shortfall Risks”, Irwin Professional Publishing. Mignacca, D.(1999), “Asset Allocation Dinamica in Presenza di un Benchmark”, AIFIRM working paper n. 09/03/99. Mignacca, D., A. Meucci(2002), “Multi-period Optimal Asset Allocation for a Multi-Currency Hedged Portoflio”, in E.J. Kontoghiorghes, B. Rustem e S. Siokos(eds.), Computational Methods in Decision-Making, Economics and Finance, Kluwer Academic Publishers, pp.3-14. Riferimenti bibliografici 145 Carlo Appetiti Nextra Investment Management Sgr SpA Patrizia Bilardo Nextra Investment Management Sgr SpA Massimiliano Forte Nextra Investment Management Sgr SpA Rischi di credito e rischi operativi in una Asset management company Q U A D E R N I 148 Q U A D E R N I L’evoluzione del risparmio gestito ha portato ad analizzare con sempre maggiore approfondimento tutti i fattori che influenzano la produzione di questo segmento di business. A questi approfondimenti si è affiancato il crescente interesse da parte delle Autorità di Vigilanza nei confronti di un settore la cui operatività influenza sensibilmente la stabilità finanziaria del sistema sociale. Le aziende che offrono servizi di risparmio gestito stanno assumendo caratteristiche organizzative e strutturali sempre più articolate e complesse senza perdere di vista la necessità di mantenere processi operativi snelli e veloci in maniera da adattare velocemente, anche in senso tattico, le scelte strategiche in relazione ai repentini movimenti del mercato sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta. Si assiste quindi ad un crescente sviluppo all’interno dell’industry, di attività e professionalità, quali quelle legate all’analisi del merito di credito che non erano del tutto od erano solo parzialmente presenti nell’industria e che in alcuni casi sono state mutuate dall’esperienza bancaria ovvero dell’investment banking. Altre funzioni sono del tutto innovative nel panorama osservato e nascono per permettere l’analisi e la gestione di problematiche legate ai rischi operativi che fino a tempi molto recenti erano affrontate nell’industria in generale con modalità molto de-strutturate. L’obiettivo del presente lavoro è fornire un quadro di riferimento di come una Sgr complessa ed articolata approccia gli aspetti legati al rischio di credito ed ai rischi operativi e come progressivamente i processi legati a queste attività si sono integrati nell’azienda. Nella prima parte di questo lavoro esamineremo le problematiche legate al rischio di credito. Nella seconda parte analizzeremo invece le principali definizioni del rischio operativo e come questa tipologia di rischi, insieme a quelli direttamente conseguenti ovvero i rischi reputazionali, debbano essere individuati nei processi aziendali per poter essere gestiti e controllati. Premessa A I rischi di credito: le controparti, i titoli “critici”, i sistemi di rating interno Innanzitutto definiamo il rischio di credito come il rischio legato alla possibilità che una controparte “latu sensu” (emittente, broker, ecc.) possa non adempiere ai propri obblighi contrattuali nei confronti di un veicolo di investimento (Fondo, Sicav, ecc.). Tale inadempimento genera in capo al veicolo due ordini di problemi: A.1 Alcune definizioni 149 Q U A D E R N I a) nel caso si tratti di una controparte intesa come emittente di un asset presente nel veicolo, si verifica un caso di “default” ovvero di mancato pagamento di cedole o capitale relativi all’asset e questo genera perdite ovvero problemi legati alla liquidabilità dell’investimento nel veicolo all’interno del quale si trova lo strumento osservato; b) nel caso invece la controparte sia da intendersi come intermediario il quale avrebbe dovuto vendere od acquistare i titoli per i quali si è data apposita istruzione si corrono i seguenti rischi: 1. nel caso di vendita si rischia di aver già consegnato i titoli senza aver però avuto la liquidità derivante dalla cessione degli stessi. Nel caso invece i titoli non siano stati ancora consegnati alla controparte inadempiente si rischia di dover vendere un titolo ad un prezzo meno favorevole del prezzo stabilito per la vendita iniziale in caso di discesa dei corsi; 2. nel caso dell’acquisto oltre al caso in cui la liquidità sia già stata consegnata ma non si ottengano i titoli oggetto della richiesta di acquisto, può anche presentarsi il caso in cui pur mantenendo la liquidità, si incorre in un esborso maggiore per l’acquisto del medesimo asset attraverso una controparte differente, a causa di movimenti di mercato sopraggiunti tra quando la controparte non ha adempiuto e quando si è identificata una controparte alternativa cui si è dato ordine di eseguire l’acquisto cui non era inizialmente stato dato seguito dalla controparte inadempiente. A seguito di quanto detto si rende necessario seguire puntualmente tutti gli eventi legati all’insolvenza od all’inadempimento della controparte. In questo intervento ci interesseremo di tutte le attività legate ai due punti sopra specificati e forniremo specifici approfondimenti sugli strumenti che possono essere definiti ed adottati all’interno della Sgr (ad es. sistemi di “rating interno”) per mitigare soprattutto i rischi insiti nei primi due punti precedenti. In questa sede non intendiamo approfondire le tematiche relative al rischio di credito legato al possibile “downgrading” di emittente, che però costituisce un altro degli aspetti integranti della gestione del rischio di credito. Nel caso invece di “downgrading” della controparte si può prevedere una revisione degli affidamenti concessi ovvero una momentanea limitazione dell’operatività con la controparte. È nostra opinione che le controparti da analizzare/valutare e monitorare siano tutte, comprese le controparti utilizzate per operatività di acquisto/vendita titoli su base di delivery-versus-payment. Questa clausola prevede tecnicamente che la consegna dei titoli debba avvenire contestualmente al pagamento degli stessi, ma vi sono alcuni mercati all’interno dei quali non accade esattamente questo e quindi possono verificarsi dei “salti” temporali tra i momenti di adempimento delle controprestazioni. In tal caso, il rischio di credito derivante dalle fluttuazioni di mercato è principalmente costituito dalla differenza fra il valore della prestazione 150 Q U A D E R N I che la Sgr è obbligata a pagare e il valore corrente della controprestazione che la controparte è obbligata a pagare. Questa differenza determina pertanto un rischio di credito, rendendo necessario valutare e monitorare anche le controparti utilizzate per tale attività. Infatti, come si anticipava, il principio della simultaneità nell’operatività su base di delivery-versus-payment non è assicurato in tutti i sistemi di clearing, (per es. mercati russi fino a due mesi a sfavore del venditore e mercato cipriota tre giorni a sfavore del venditore) e i differimenti temporali producono una componente addizionale di rischio di credito, propria dell’attività su base free-of-payment. Figura 1 Dopo aver identificato le principali tipologie di rischio di credito che si intende monitorare ed alcune modalità tecniche che regolano l’operatività, esaminiamo velocemente i riferimenti normativi che rendono necessario il monitoraggio delle controparti e quindi innanzitutto del rischio di credito. La società di gestione risponde (anche giuridicamente) per la scelta delle controparti, in relazione ai fondi gestiti direttamente oppure la cui gestione è stata conferita in sub-delega a gestori terzi; tale scelta deve essere effettuata con la c.d. diligenza professionale. La Banca d’Italia, nel regolamento sui Fondi Comuni di Investimento emanato il 20.9.99, richiede che le controparti siano in possesso di determinati requisiti quali per esempio l’elevato standing e siano sottoposte alla vigilanza di autorità pubblica. Ciò è espressamente richiamato, con riferimento all’operatività in strumenti finanziari derivati ed altre operazioni a termini Nella Sezione II, Paragrafo 4.1.2. La stessa Banca d’Italia nella Circolare n. 155 del 18 Dicembre 1991 e successivi aggiornamenti fino al IX del 12 Aprile 2000, relativi alle “Istruzioni per la compilazione delle segnalazioni sul patrimonio di vigilanza e sui coefficienti prudenziali” per le banche, affronta il tema del rischio di controparte imponendo nella sezione 7, sottosezione 1, capitolo 1.3., paragrafo 1.3.1.3, requisiti patrimoniali ben precisi da determinarsi in relazione alla natura della controparti. In sintesi: A.2 Riferimenti normativi 151 Q U A D E R N I Figura 2 A.3 I processi di analisi e controllo Tenuto conto di queste definizioni, il processo che è stato definito all’interno di Nextra Investment Management Sgr prevede l’assegnazione in capo ad uno specifico Settore interno all’Area risk management, dell’analisi delle controparti (in particolare “brokers” nell’accezione comune e più in generale controparti di mercato). Questo settore ha il compito di approfondire le caratteristiche strutturali ed operative delle controparti di mercato (mediante analisi della compagine societaria, analisi finanziaria, analisi del posizionamento strategico - ossia quota di mercato, competitors ecc., ecc.) con l’obiettivo di giungere alla definizione di una proposta di operatività con la controparte analizzata con delle specifiche quantificazioni numeriche suddivise per tipologia di strumento finanziario (c.d. “soglie operative massime”). Tali limiti vengono condivisi mediante appositi flussi all’interno dei luoghi aziendali (Risk Management, Comitati) deputati dal punto di vista organizzativo a fare le necessarie proposte al CdA della Società il quale è l’unico organo decisionale in grado di poter concedere alle aree gestorie di operare o meno con determinate controparti di mercato. L’analisi delle controparti ai fini di un possibile affidamento delle stesse non avviene soltanto con questo obiettivo e quindi con periodicità legate alle esigenze che si manifestano, ma viene ripetuta annualmente, ed ove necessario periodicamente per verificare che le condizioni che hanno portato all’affidamento siano ancora presenti ovvero non siano mutate a seguito di accadimenti intercorsi. L’affidamento alle controparti può anche essere ridotto od addirittura ritirato qualora si verifichino modifiche ad esempio in ordine alla catena di controllo di una delle controparti affidate che facciano temere che in caso di inadempimento legato a qualsiasi motivazione, possa non esservi sufficiente garanzia per riparare all’inadempimento. A.4 Il processo di valutazione ed i sistemi di Rating Interno Il processo di valutazione avviene tenendo conto principalmente dei seguenti elementi messi a disposizione dalla controparte di mercato (la lista non è da considerarsi esaustiva): • qualità delle risultanze economico finanziarie e dei relativi indicatori di performance economico finanziaria e di 152 Q U A D E R N I struttura finanziario patrimoniale; • chiarezza e completezza dell’informativa di bilancio, reputazione e disponibilità del management, struttura organizzativa; • informazioni sui paesi di appartenenza e sui mercati in cui le controparti sono coinvolte; • eventuali garanzie o lettere di supporto emesse da società garanti su richiesta; • pegni (“Collaterals”) a garanzia di specifiche operazioni emesse su richiesta. Uno degli aspetti che qualificano il processo di valutazione è la definizione di requisiti minimi della controparte di mercato: ciò consente di raggiungere una notevole rapidità con cui, una volta impiantato, può essere condotto un primo livello di indagine che “scremi” in brevissimo tempo uno “strato” di controparti che non possiedono neanche i requisiti minimali per cui valga la pena approfondire le loro caratteristiche finanziarie ed operative. Il processo di assegnazione del rating (che si basa sulla definizione di un sistema di rating interno), segue la fase del completamento dell’analisi e della valutazione della controparte. In sintesi, il Sistema di Rating Interno: • costituisce l’elaborazione finale e sintetica dell’insieme dei processi di valutazione delle controparti; • permette di determinare la soglia operativa massima (l’affidamento complessivo) di ciascuna controparte di mercato sulla base del rating interno assegnato e del patrimonio della controparte di mercato. Tale “soglia” è suddivisa per tipologia di linea di trading (l’affidamento per strumento finanziario tiene conto delle caratteristiche della controparte - a titolo di esempio la controparte deve essere in possesso delle caratteristiche minime richieste dalle procedure interne ma anche da Banca d’Italia per operare in determinati strumenti finanziari); • permette una più razionale ed efficiente allocazione delle linee di credito (limitando quindi il rischio di concentrazione dell’operatività con poche controparti). Questo processo può essere utilizzato, mutatis mutandis, non soltanto per le controparti di mercato, ma anche per le controparti da intendersi come emittenti, ancorché questo compito sia attribuibile più facilmente all’Area che ha la responsabilità della gestione. Il principio che Nextra Investment Management Sgr ha seguito nella definizione dell’esposizione creditizia per gli strumenti finanziari contenuti e negoziati all’interno dei veicoli di investimento gestiti, si basa sulla determinazione delle due seguenti componenti: i) il costo di sostituzione, ii) un “Add On” (=Esposizione potenziale) che approssima il time value, ossia la probabilità che l’esposizione creditizia corrente possa nel tempo aumentare e se negativa, possa trasformarsi in una posizione creditoria (Esposizione Corrente = Costo di Sostituzione + Esposizione potenziale). • L’esposizione creditizia è monitorata giornalmente per verificare che le soglie operative massime, suddivise per tipologia di linea di trading e stabilite a seguito del processo di assegnazione del rating interno, non siano superate. A.5 Misurazione del Rischio - Esposizione e ponderazioni di strumenti finanziari 153 Q U A D E R N I Sono stati definiti ed applicati dei sistemi che permettono in tempo semi-reale, con brevissimi sfasamenti di aggiornamento nell’arco della giornata, il monitoraggio dei limiti di esposizione con le controparti definiti. I gestori di portafoglio sin dalla fase di pre-imputazione dell’ordine NON possono utilizzare controparti di mercato che non siano state preventivamente autorizzate dal CDA della Società. Inoltre vengono assegnati dei limiti all’operatività (appunto le sopra richiamate “soglie operative massime”) che sono maggiormente stringenti rispetto a quelli approvati dal CDA. Nel seguito sono riepilogate, nelle figure 3, 4 e 5 della pagina successiva, le principali considerazioni effettuate all’interno di questo paragrafo. A.6 La contrattualistica finanziaria Il rischio di credito relativo all’operatività di investimento/disinvestimento in strumenti finanziari con le controparti di mercato viene mitigato anche con il perfezionamento di contratti finanziari che hanno anche come scopo accessorio la riduzione dei rischi operativi e che in estrema sintesi mirano a: i) definire puntualmente i flussi operativi spettanti alle diverse parti contrattuali, ii) prevedere le “azioni da intraprendere” in caso di occorrenza di anomalie; e iii) in taluni casi ottenere, a corredo del contratto, garanzie. La struttura organizzativa di Nextra Investment Management Sgr prevede l’assegnazione in capo al risk management della negoziazione della contrattualistica finanziaria quale i contratti ISDA (a copertura dei rischi relativi all’operatività in derivati ed in valuta), ISMA (a copertura dei rischi relativi per l’operatività in titoli e principalmente pronti contro termine e sell/buy back of securities), Give-up (per l’attività sui futures), ecc. Per arrivare a quantificare il volume di operatività attribuibile alle singole controparti, la Società ha definito internamente uno specifico sistema c.d. di “Rating Interno” di cui si è detto al paragrafo A.4). A.7 Gestione degli “investimenti critici” Gli “investimenti critici” sono investimenti per i quali le condizioni di particolare criticità di mercato ovvero dell’emittente stesso possono riflettersi in misura assai più pronunciata rispetto alle generali proprietà finanziarie degli investimenti. Tale pronunciata caratterizzazione produce una necessità di gestione ad hoc degli investimenti, focalizzata sulle richiamate condizioni di criticità piuttosto che sulle interazioni con gli altri investimenti del portafoglio in cui gli investimenti indicati sono allocati. In altre parole, gli investimenti critici sono investimenti per i quali risulta più proficua una gestione individuale (risk position management) rispetto ad una gestione di portafoglio. Una elevata concentrazione di questi investimenti si verifica all’interno di veicoli dedicati, quali ad esempio i prodotti cosiddetti “high yield” od ancora, soprattutto nel recente periodo, nelle asset classes cosiddette “corporate”. Sia per gli emittenti “High Yielders” che per gli emittenti corporate (che non sempre coincidono) il contributo offerto dalle Agenzie di Rating indipendenti (ove presente), potrebbe non essere sufficientemente tempestivo nell’individuare il 154 Q U A D E R N I Figura 3 Figura 4 Figura 5 155 Q U A D E R N I rapido deterioramento delle condizioni economico-patrimoniali dell’emittente. Nel caso dei veicoli di gestione del risparmio, per questa tipologia di strumenti si rende necessario un livello di attenzione addirittura maggiore rispetto a quello riservato agli altri strumenti (quali ad esempio i titoli governativi di Aree consolidate) anche in ordine alla loro valorizzazione all’interno dei patrimoni. Deve pertanto essere assicurato un processo decisionale estremamente veloce nel caso di tali titoli che anche qualora si verifichino forti ed improvvise oscillazioni di mercato ovvero accadimenti imprevisti permetta di definire per gli stessi un prezzo di valorizzazione congruo. Questa tipologia di titoli deve essere sottoposta ad un attento processo di analisi e valutazione continuo e ad hoc. In particolare il Settore preposto ad occuparsi di questa tipologia di titoli ha la capacità di concentrarsi sulla “gestione” del singolo titolo in possesso di caratteristiche critiche che risultano particolarmente accentuate rispetto alle caratteristiche degli altri titoli presenti nel portafoglio. Tale processo però deve vedere coinvolti anche i gestori con i quali il risk management deve instaurare una comunicazione costante. A nostro avviso è opportuno che la gestione di tali posizioni spetti ad un Settore indipendente dall’Area Investimenti con un duplice obiettivo: 1) da un lato l’eliminazione di possibili conflitti di interesse che potrebbero presentarsi qualora il gestore si trovasse in difficoltà a gestire ad esempio il default di un asset da lui/lei stesso acquistato; 2) dall’altro la maggiore concentrazione che per singole posizioni può avere un Settore esterno che si dedicherebbe anche ad affrontare questioni di natura legale per le quali il team dedicato alla gestione potrebbe non avere competenze specifiche. Sinteticamente si espone di seguito una prima ipotesi che delinea il processo di analisi e valutazione dei titoli critici che potrebbe essere implementato all’interno di una Sgr: a) innanzitutto viene raccolta la popolazione di tutti i titoli presenti nei portafogli gestiti all’interno dei vari prodotti (Gestioni collettive, gestioni individuali, ecc.). b) Ad ognuno di questi titoli, che ancora non sono quindi annoverati come “critici”, vengono associati i principali indicatori finanziari economico patrimoniali dell’emittente in oggetto. A questi sono affiancati anche indicatori specificamente riferibili al prodotto all’interno del quale si trovano (ad es.: nome e caratteristiche sintetiche del prodotto, caratteristiche del benchmark, peso del titolo analizzato all’interno del prodotto) e ove presenti i rating assegnati dalle principale Agenzie di rating. c) Dopodiché si procede con l’effettuazione di uno screening delle grandezze economico finanziarie che sono state associate (e.s. utile/perdita operativa, utile/perdita netta, patrimonio netto, ROE, ecc) anche per comprendere le specifiche situazioni in cui le società emittenti possano trovarsi (es: Chapter 11, default, situazione contabile critica ecc). Ciò costituisce un primo tentativo di identificare, sulla base di tali risultanze, quanto possa essere distante il momento 156 Q U A D E R N I in cui ad esempio per una Società può essere dichiarato il fallimento ovvero se vi è la probabilità che il debito della Società possa non essere onorato dalla stessa od ancora se l’eventuale difficile situazione contabile possa negativamente influire sull’andamento della società. d) Nel contempo sono analizzate ed approfondite le situazioni che riguardano gli investimenti di maggiore interesse e rilevanza all’interno dei prodotti gestiti. e) Dopo aver identificato le situazioni maggiormente critiche, mediante un processo che non è statico ma bensì iterativo, si perviene ad identificare tre macro-categorie di prodotti che vengono osservati. Una prima categoria contiene i cosiddetti “titoli critici gravi” ovvero quei titoli per i quali o ci sono già situazioni di insolvenza dichiarate e verificatesi ovvero titoli per i quali vi sono procedure concorsuali/fallimentari già cominciate e si rende pertanto necessario seguire puntualmente l’evoluzione delle soluzioni giudiziali ed extra-giudiziali nel rispetto della tutela dei sottoscrittori dei prodotti all’interno dei quali tali asset si trovano. Una seconda categoria è costituita dai “titoli critici” che pur non integrando le fattispecie di cui alla prima categoria stanno presentando nella loro “vita finanziaria” i primi segnali di possibile insolvenza (ad esempio, nel caso dei prestiti obbligazionari, il mancato pagamento di alcune cedole) oppure appartengono a gruppi in fase di ristrutturazione a causa delle condizioni precarie di solvibilità ovvero appartengono ad aree operative sottoposte a particolari stress di mercato. Una terza categoria contiene quei titoli che presentano, allo stato delle cose, un peso rilevante all’interno dei prodotti gestiti e nel contempo evidenziano indicatori reddituali/patrimoniali non eccellenti che possono far ritenere altamente probabile il verificarsi di situazioni di difficoltà per la Società emittente. L’iter che porta un titolo ad essere giudicato “critico” è composito e non standard, ma si basa sull’utilizzo di tutte le infos disponibili in qualsiasi momento quali, a puro titolo esemplificativo, “warnings” di rating agencies, analisi dell’andamento degli scambi e dei prezzi, ecc. f) Dopo aver effettuato l’identificazione dei titoli ed aver quantificato la rischiosità connessa alle posizioni medesime, viene diffusa l’informativa correlata che evidenzia le caratteristiche salienti degli stessi titoli indicando i prodotti all’interno dei quali tali asset si trovano. Nel contempo, come anticipato, nel caso di titoli in default o prossimi allo stesso, la gestione viene virtualmente “spossessata” da queste posizioni in quanto per questi è necessaria una “osservazione/monitoraggio” individuale e come già accennato, potrebbero crearsi potenziali situazioni di conflitto di interesse. g) Da questo momento le decisioni relative alla gestione di tali titoli passano in carico ad uno dei Comitati presenti in azienda che, con il supporto di uno dei Settori del risk management dedicato, ha il compito di porre in essere tutti gli interventi necessari alla gestione di queste posizioni (alienazione dei titoli ove possibile; negoziazione con l’e157 Q U A D E R N I mittente in ordine alle possibilità di rientro o ridefinizione delle caratteristiche del debito che potrebbero permettere il rientro delle somme secondo un determinato piano finanziario; negoziazione con gli altri “holders” del titolo in ordine a possibili condizioni di alienazione contestuale ovvero uscita comune dalla posizione). Uno dei momenti più importanti, in presenza di tali posizioni critiche, è la definizione della valutazione della posizione stessa che deve essere comunicata ai Settori aziendali che si occupano della valorizzazione delle posizioni. A.8 Ulteriori fattori di potenziale mitigazione del rischio di controparte e di alcuni rischi operativi Tra i possibili fattori mitiganti il rischio di credito che possono essere definiti all’interno della Sgr possiamo identificare la presenza del c.d. “trading desk” ovvero di uno specifico settore aziendale con il compito di dare esecuzione sul mercato alle indicazioni di investimento/disinvestimento che provengono dall’area dedicata alla gestione. A questo desk viene tipicamente affidato il compito di scegliere le condizioni di mercato maggiormente favorevoli all’esecuzione degli ordini ed in alcuni casi possono addirittura essere affidate le scelte di “stock picking” ove le indicazioni provenienti dall’Area di gestione siano guidate principalmente dalla necessità di sovrappesare/sottopesare un’area od un settore rispetto ad un’altra/altro. Tale desk potrebbe fornire un ulteriore contributo alla riduzione del rischio di controparte e di alcuni rischi operativi dal momento che la costante presenza sul mercato può permettere di raffinare quotidianamente la conoscenza delle controparti che offrono il servizio migliore e quindi di perseguire obiettivi quali quello della “best execution”, della completezza e rapidità nell’esecuzione dell’ordine. B Il rischio operativo e i rischi reputazionali: i processi maggiormente coinvolti B.1 Alcune definizioni e lo stato dell’arte sul rischio operativo I rischi operativi: una definizione 158 È ormai chiaro a tutti gli addetti ai lavori il forte interesse ed il diretto coinvolgimento della Vigilanza su tale argomento. È chiaro inoltre come i modelli organizzativi delle aree di risk management si stiano evolvendo verso l’individuazione di una figura specifica, facente capo al responsabile ultimo del risk management, che si occupi di operational risk management e di tecniche e metodologie di misurazione (risk mapping, definizione dei key risk indicators, quantificazione delle perdite e conseguente definizione di modelli previsionali per l’identificazione del rischio operativo potenziale al fine della revisione ed aggiustamento dei processi più critici ovvero dell’eventuale sottoscrizione di apposita polizza assicurativa). “The most important types of operational risk involve breakdowns in internal control and corporate governance. Such breakdowns can lead to financial losses through error, fraud or failure to perform in a timely manner or cause the interest of the bank to be compromised in some other way, for example, by its dealer, lending officers or other staff exceeding their authority or conducting business in an unethical or risky manner. Other aspects of operatio- Q U A D E R N I nal risk include major failure of information technology systems or events such as major fires or other disaster”. Basel Committee - Operational Risk Management - September 1998 Il Comitato di Basilea ha approfondito le tematiche afferenti il rischio operativo con specifico riferimento alle Istituzioni Finanziarie considerate nel loro complesso. All’interno dei documenti del Comitato si fanno brevi cenni anche all’approccio che si dovrebbe tenere con riferimento alla quantificazione del Rischio Operativo per l’Asset Management. A monte di tutto sta la concezione del business dell’Asset Management come strettamente controllato dalla Capogruppo di emanazione bancaria, il che è particolarmente vero nell’industria italiana. Quindi anche l’Asset Management, ancorché attività considerata storicamente “low capital intensive” assorbe capitale. Questo assorbimento può aumentare sia a causa dell’aumento 1 dei prodotti a rendimento garantito , sia a causa dell’insorgere di rischi operativi come di seguito descritti che possono causare danni economici per ripianare i quali la Sgr stessa può essere chiamata ad intervenire con il proprio patrimonio. Il Rischio operativo è, in estrema sintesi, la possibilità che si manifestino perdite finanziarie in capo alla Sgr derivanti da: • fattori interni (breakdown o inadeguatezza dei processi, errori umani o frodi, breakdown dei sistemi informativi, mancato rispetto di leggi e regolamenti, ecc.); • fattori esterni all’azienda (nuovi competitors, cambiamenti regolamentari, eventi naturali, ecc,). Non esiste peraltro una allocazione unica e delineata staticamente di questo tipo di rischio, dal momento che questo è presente a tutti i livelli aziendali. Si sottolinea che questa classificazione ricomprende fattori di rischio non univocamente delineati dal Comitato di Basilea. Nextra Investment Management Sgr ha costituito all’interno della propria Area di Risk management un Settore che si occupa specificamente di Operational Risks oltre che di attività di Compliance. Con il termine Compliance si identificano, in estrema sintesi, tutte quelle attività volte a verificare che all’interno dell’Azienda vengano osservate le regole deontologiche, comportamentali e tecniche dettate sia da Authorities esterne che da regolamenti interni. Si badi che il Compliance Officer non è il responsabile della Funzione di Controllo Interno: infatti la caratteristica fondamentale che distingue le due figure è la sistematicità e quotidianità con cui il Compliance Officer svolge le proprie attività di verifica e controllo rispetto a tempistiche periodiche tipiche del ruolo del Controllo Interno, oltre a quanto la normativa stessa prevede per quest’ultima funzione. Compito del Compliance Officer, quindi, dedicando parte del suo tempo anche all’Operational Risk Management, è quello di individuare le fonti di Rischio operativo e di governare il processo di gestione di tale rischio, interagendo con l’Organizzazione aziendale in maniera tale da definire un insieme di attività e di controlli a presidio. 1 B.2 L’Operational Risk Management e la Compliance Innovazioni di prodotto recentemente ammesse dalla normativa di Settore. 159 Q U A D E R N I Figura 6 Cosa si intende per Operational risk management Op er at ivi Insieme di attività volte alla: isc hi Mediante de iR - individuazione ga iti M - monitoraggio di tali rischi tio n - valutazione B.3 Perché è importante l’Operational Risk Management nell’Asset Management: la valutazione dei rischi e la gestione del rischio operativo Questo tipo di attività deve assumere sempre maggiore rilievo all’interno dell’ Asset Management per un insieme di ragioni che proviamo ad esporre sinteticamente di seguito: a) la sempre più elevata interconnessione dei processi di front/back; b) il principio della tutela del risparmio ribalta sulla Sgr gran parte degli errori operativi (errori nel calcolo del Net Asset Value, errata valorizzazione dei titoli etc.); c) la velocità di creazione di nuovi prodotti/servizi in un’industria come quella dell’asset management, alla ricerca di fattori di stabilità contro la ciclicità dei mercati per i sottoscrittori e per l’azionista, può essere una fonte di rischio non immediatamente percepibile (c.d. “hidden risk”). La gestione del rischio operativo deve essere effettuata mediante modelli organizzativi che rispecchino l’enfasi data dal Comitato di Basilea ai principi e criteri di controllo del rischio. In particolare tre sono le linee di controllo e difesa del rischio: a) ogni Linea di Business è responsabile della gestione dei propri rischi; b) è indispensabile una funzione indipendente che garantisca la gestione integrata delle differenti tipologie di rischio (risk management); c) è necessaria una funzione che raccolga e consolidi informazioni oggettive sul livello di rischio assunto (Risk Controlling). Figura 7 La valutazione dei rischi deve essere fatta stimando gli impatti potenziali legati al verificarsi degli scenari sfavorevoli più probabili Tools: matrice decisionale del Rating di Probabilità Rischi da gestire identificati Identificazione/ generazione del worst case scenario (evento) per ogni rischio Valutazione frequenza/ probabilità di accadimento X Valutazione impatti potenziali Tools: matrice decisionale del Rating degli Impatti 160 Valutazione importanza dei rischi da gestire Q U A D E R N I La recente iniziativa del Comitato di Basilea che ha richiesto l’invio dei “Qis3” (Quantitative Impact Study Loss Data Collection n.3) ha richiamato l’interesse per un’analisi in profondità dei singoli eventi di perdita sulla base dei quali le aziende classificano le perdite operative. Sono quegli eventi/riferimento che raccolgono in categorie ogni possibile circostanza capace di procurare una perdita operativa all’azienda. Passandoli velocemente in rassegna è possibile qualificarli così tenendo a riferimento la figura che segue questa enunciazione: Eventi legati a comportamenti dolosi - anche di terzi - e all’ambiente di lavoro (Categorie 1-2-3) Sono eventi presenti in ogni azienda produttiva, ma nelle aziende che “curano” i risparmi dei cittadini e che prestano loro servizi sulla base di un rapporto “fiduciario” hanno sempre goduto del privilegio della massima riservatezza sotto la motivazione dei gravi riflessi sull’immagine aziendale e sulla percezione di “sicurezza” della clientela e degli stessi dipendenti. Soluzioni implementabili • Identificazione di limiti operativi; • separazione tra il momento della formazione della decisione e quello della sua esecuzione, ad esempio istituendo un execution desk, svincolando il gestore dal rapporto diretto con il broker; • reclusione dell’accesso dall’esterno ai server aziendali; • presidi oggettivi e non soggettivi (ad es. stesura e diffusione in azienda di codici etico/comportamentali riferibili ad ogni singolo dipendente per ogni ruolo aziendale; definizione di procedure il cui funzionamento non sia unicamente legato ai livelli di responsabilità/autorizzativi dei singoli, ma siano il più possibile “oggettive”). Eventi legati al rapporto con la clientela (Categoria 4) È la prima categoria per numero di sottocategorie, a dimostrazione della necessità di qualificare le fattispecie di eventi in stretta relazione con uno degli “asset” fondamentali di una impresa di Asset Management. Sono eventi legati anche a errori nelle fasi prodromiche all’instaurazione del rapporto (attività di consulenza, politiche di individuazione e affidamento). Soluzioni implementabili • Identificazione e definizione di procedure di contatto con la clientela; • introduzione di severi processi di classificazione della clientela; • customer relationship management. Eventi legati al grado di qualità dell’investimento IT (Categorie 5-6) Sono eventi che riflettono la qualità degli investimenti in infrastrutture tecnologiche (spesso sottovalutati nelle Sgr) e la loro capacità di assorbire e di proteggere gli asset aziendali. Soluzioni implementabili • “IT mission strategica”, ovvero interpretazione dell’IT non più come funzione meramente strumentale al business, ma come fulcro della veicolazione dei nuovi processi e come “collante” delle attività “front/middle/back” e di B.4 Le recenti iniziative del Comitato di Basilea 161 Q U A D E R N I parte dell’informativa verso l’esterno (Risk, rendicontazione, Vigilanza, ecc.); • flessibilità ed adattabilità delle soluzioni informatiche identificabili Eventi legati al funzionamento della filiera produttiva (Categoria 7) Sono quelli legati ai processi, alle fasi della produzione. Soluzioni implementabili • Ridefinizione del modello organizzativo; • ridefinizione od affinamento delle procedure; • sistemi informativi; • innalzamento del livello di comunicazione interaziendale (processi di knowledge management). Un punto fondamentale da considerare è che il rischio operativo, proprio per la sua natura, è un rischio che non può essere eliminato dal naturale svolgimento di un’azienda quale essa sia. Pertanto, nei suoi confronti si possono unicamente definire delle tecniche di mitigazione che devono vedere coinvolta “in primis” l’Alta Direzione e conseguentemente devono permeare tutti i processi aziendali nella loro definizione e nel loro svolgimento. Figura 8 Sommario e conclusioni 162 In questo lavoro abbiamo presentato un veloce excursus delle principali metodologie di gestione e monitoraggio del rischio di controparte evidenziandone gli elementi di processo distintivi nonché alcune peculiarità legate all’attività di controllo e gestione dei “titoli critici”. Abbiamo anche fornito un possibile indirizzo operativo per la definizione di un sistema di “Rating interno”. Nella seconda parte del lavoro abbiamo affrontato la problematica del Rischio operativo e di come questo vada considerato in una Società di Asset Management per poterlo definire e gestire in tutte le sue manifestazioni e quindi per poterlo quantificare in maniera il più possibile precisa. Le conclusioni cui possiamo giungere dopo questa breve disamina vogliono ribadire la necessità di investimenti in termini di strumenti di analisi e di risorse umane specializzate per la gestione delle tipologie di rischi osservate. Il nostro lavoro non intende essere esaustivo della ricchezza di attività e di idee presenti su questi argomenti, ma intende fornire alcuni spunti metodologici e di riflessione all’in- Q U A D E R N I dustria del risparmio gestito in relazione al rilievo che questa ed i suoi processi di gestione e controllo assumono all’interno del sistema economico. Rischi operativi ABI - Position paper del Settore Bancario Italiano sul documento “Sound Practice for the Management and Supervision of Operational risk”, Marzo 2002 ABI - Position paper del Settore Bancario Italiano sul documento “Working paper on the Regulatory Treatment of Operational risk”, Novembre 2001 AA.VV., Speciale Basilea 2001 - Rischio di credito e rischio operativo, n. 4 mensile “Bancaria” (Bancaria Ed.) Basel Committee Publications, Sound Practices for the Management and Supervision of Operational Risk, No. 91, July 2002 Basel Committee, Operational Risk Management, BIS -, September 1998 Amanat Hussain, Managing Operational Risk in Financial Markets, Butterworth Heinemann Gennaio 2002 Ges F. Metelli, Risk Management nel risparmio gestito, Milano, 5 giugno 2002 Convegno ASSIOM, La Gestione del Risparmio: dal Prodotto al Servizio Gerrit Van Den Brink, Operational risk. The new challenge for banks, Palgrave, Gennaio 2002 Il sito di IFCI Risk watch (http://risk.ifci.ch/index.htm). Raccolta di documenti Iosco, BIS, Comitato di Basilea Il sito Risk Publications (http://www.riskpublications.com/). Sito contenente una completa raccolta di riviste, giornali e libri inerenti la tematica del controllo e della gestione dei rischi finanziari Rischi di credito Altman, E.I., Financial ratios, discriminant analysis and the prediction of corporate bankruptcy, 1968 Amihud, Y. Christensen, B. e Mendelson H., Further evidence of the riskreturn relationship, 1992 Beaver, W., Financial ratios as predictors of failure, 1966 Chan, L. K. e Lakonishok, J., Are the reports of beta’s death premature?, 1993 Copeland, T.E., Koller, T. e Murrin, J., Valuation: Measuring and managing the value of companies, 1999 Damodoran, A., Estimating the equity risk premium, 1999 Fama, E.F. e French K.R., The cross-section of expected returns, 1992 Gordon, M., The investment, financing and valuation of the corporation, 1962 Guatri, L., Valore e “intangibles” nella misura della performance aziendale, 1997 Kothari, S.P. e Shaken, J., In defense of beta, 1995 Merton, R.C., On the pricing of corporate debt: the risk structure of interest rates, 1994 Micalizzi A., Trigeorgis, L., Real options applications. Proceedings of the first Milan international workshop on Real Options, 1999 Modigliani, F. e Miller, M. The cost of capital, corporation finance and the theory of investment, 1958 Porter, M. E., Capital disadvantage. America’s Failing Capital Investment System, 1992 Stewart, G.B., The quest for value, 1991 UEC (Union Européenne des Experts Comptables Economiques et Financiers), Recommandations sûr les procédures à suivre par les experts comptables en matière d’évaluation d’entreprise, 1980 Riferimenti bibliografici 163 Carlo Appetiti Nextra Investment Management Sgr SpA Il Risk management in una Asset management company: la diffusione della cultura e la nuova informativa direzionale Q U A D E R N I 166 Q U A D E R N I I modelli organizzativi delle società di Asset Management sono diventati progressivamente più complessi. Nei casi di società di matrice internazionale si assiste anche alla differente localizzazione di diverse unità operative che fanno parte della medesima “fabbrica” 1 che può a sua volta trovarsi in un altro Paese . Ciò impone la creazione e la gestione di meccanismi di governo e di controllo sempre più articolati ed in grado di permettere una operatività snella a tutti i livelli. Uno dei “fattori della produzione” di ogni industria e quindi anche dell’industria dell’Asset Management è appunto la gestione del rischio. Questa attività è da intendersi non tanto come mera attività di controllo, ma come attività gestoria vera e propria. Nel prosieguo del lavoro esamineremo alcune metodologie di analisi della rischiosità in uso presso una società di Asset management unitamente alla tipologia di reportistica che può essere diffusa. Va detto che buona parte di queste metodologie sono state mutuate dalle realtà dedicate all’investment banking, dove storicamente l’attività di risk management ha preso piede in periodi precedenti. Ciò ha permesso quindi il progressivo sviluppo di tecniche e modalità di gestione del rischio soprattutto legate al rischio di mercato ed al rischio di credito. Illustreremo inoltre alcune metodologie di scomposizione di uno dei rischi sottoposti ad analisi ovvero il Market Risk e forniremo alcuni esempi sintetici di reporting direzionale/operativo per comprenderne l’importanza soprattutto all’interno di un’organizzazione articolata. Premessa Caratteristica propria del business di Asset Management è rappresentata dal fatto che il prenditore di rischio di prima istanza (“risk taker”) è il sottoscrittore. Questo soggetto decide come allocare il proprio capitale in maniera autonoma e spesso con il contributo di consulenti, promotori, addetti di filiale, ecc. In linea teorica il sottoscrittore dovrebbe manifestare le proprie preferenze in funzione dei propri obiettivi di investimento anche se la pratica ha dimostrato come non sempre questo accada. Il concetto che sta alla base dell’attività di gestione del rischio all’interno dell’Asset management è la consapevolezza che proprio perché il patrimonio gestito non è di proprietà della società ma del sottoscrittore è quindi prioritario adottare tutte quelle tecniche e quei comportamenti atti a ridurre l’insorgere di rischi non gestiti che possano depauperare il patrimonio dei sottoscrittori stessi. È proprio questo l’elemento che qualifica la presenza del Risk Management nelle compagnie di Asset Management ovvero la necessità di proteggere risorse finanziarie non di proprietà. A La diffusione della cultura del rischio in una Asset management company 1 L’autore desidera ringraziare i colleghi di Nextra Dottoressa Elena Montagna e Dottor Carlo De Franco per il prezioso contributo dato alla stesura di questo saggio. 167 Q U A D E R N I Paradossalmente negli anni passati questa argomentazione è stata utilizzata al contrario ovvero si è data ridotta importanza alle tecniche di risk management nelle compagnie di gestione del risparmio privilegiando le aree dedicate alla gestione e garantendo che i presidi di back office fossero in grado di adempiere velocemente ad un insieme di obblighi sia verso i sottoscrittori (ad es.: pubblicazione della quota, amministrazione della posizione dei clienti) che verso le differenti Autorità di Vigilanza. A.1 168 Dalla logica dell’investment bank... L’investment bank, in estrema sintesi, basa il proprio operato su due macro-ordini di attività: le attività c.d. “fee based” e le attività di trading. Tipicamente le attività “fee based” generano un rischio legato alla possibilità che un determinato “deal” possa non concretizzarsi perché le controparti non si accordano, ovvero, ad esempio, che un’operazione di m&a possa non dare il risultato finanziario che era stato stimato nel momento in cui la partecipazione nella società era stata acquisita (attività, questa, non solo “fee based” ma che potrebbe dare un risultato positivo nel caso di apprezzamento nel tempo della partecipazione acquisita). Le attività di trading puro generano invece un insieme di rischi che sono in capo alla banca dal momento stesso in cui la posizione viene acquisita e possono manifestare effetti finanziari potenzialmente negativi in brevissimo tempo ovvero anche nell’arco della stessa giornata in cui le posizioni sono state costituite. I rischi correlati a tali posizioni sono quelli di mercato e di credito (pre e post regolamento). Nell’attività di trading, quindi, le banche di investimento investono il proprio capitale di proprietà con l’obiettivo di massimizzare in un arco di tempo tendenzialmente limitato il ritorno delle singole operazioni. Tali istituti inoltre non sono sottoposti a vincoli stringenti per l’operatività quali quelli previsti per le società di asset management per le quali le Autorità di Vigilanza hanno istituito un insieme di limiti “in primis” a tutela dei sottoscrittori dei prodotti offerti. Le sale operative delle investment banks hanno progressivamente adottato sistemi di risk management proprietari od acquistati da fornitori esterni, con l’obiettivo di gestire e minimizzare i rischi finanziari cui il capitale di proprietà della banca stessa viene esposto a seguito delle attività di trading. Questi sistemi prevedono l’utilizzo di indicatori sempre più sofisticati ed adattabili alle esigenze dei singoli istituti, ma di solito prevedono tutti la possibilità di imporre un sistema di limiti basato sui medesimi indicatori che possa essere opportunamente diversificato per tenere conto del maggiore/minore grado di rischiosità della tipologia di trading osservata, della maggiore o minore esperienza del trader, del tempo per cui una posizione può essere tenuta “aperta” e, nel caso dei sistemi maggiormente sofisticati, di quanto patrimonio assorbe ogni operazione/posizione. Vi sono infatti alcuni sistemi impostati per catturare la rischiosità “intra-day” delle posizioni prese e di quantificare se le stesse rispettano i limiti definiti o meno. Alcuni tra i limiti richiamati sono anche definiti in termini di massima perdita accettabile per un desk/prodotto/singolo trader, ecc. Tipicamente si parla di limiti di “stop/loss” ovvero di limiti che possono avere una profondità temporale anche superiore ad un giorno e che prevedono un calcolo in tempo reale degli utili/per- Q U A D E R N I dite sulla posizione analizzata sia realizzati che ancora da valutazione. Se viene raggiunto un importo troppo alto di perdite (tipicamente l’indicatore è tarato sulla massima perdita), si genera un obbligo in capo al trader di chiudere in quell’istante la posizione realizzando completamente anche la perdita che fino a quel momento era maturata solo virtualmente, oltre a quella già iscritta nei libri. Quindi le posizioni all’interno di una sala operativa devono tendenzialmente avere caratteristiche tali da poter essere “chiuse” velocemente senza incorrere in ulteriori costi/perdite legati alla difficoltà di liquidazione di una posizione. Da questo segue che nell’investment bank, una volta definiti gli indicatori di sintesi che possono essere modellati ed utilizzati per monitorare la rischiosità delle posizioni ed i correlati corretti presidi operativi e di processo, su questi indicatori viene impostato un sistema di limiti. Volendo quindi riassumere le caratteristiche di un sistema di gestione del rischio di una investment bank con riferimento a posizioni di trading abbiamo che: a) esistono posizioni fortemente speculative da monitorare; b) la banca sta rischiando parte del proprio capitale con l’obiettivo di concludere operazioni che permettano dei guadagni in conto capitale ma anche in conto interessi (al netto del cost of carry); c) vi sono indicatori di sintesi per monitorare con riferimento alla posizione osservata sia i rischi di mercato che i rischi di credito; d) solitamente all’interno di una sala operativa si parla di “rischio massimo” e di limiti correlati, a significare il livello di perdita finanziaria massima sul capitale che l’Istituto è disposto ad accettare dalla Sala Operativa; e) in caso di perdite superiori a un certo livello di limite (“trigger level”) le posizioni vanno chiuse; f) possono essere previste delle soglie di attenzione che sollecitino l’attenzione o l’intervento di personale maggiormente senior su determinate posizioni e sull’evoluzione dell’andamento della rischiosità e della redditività connessa a queste; g) il risultato di una singola operazione o di un singolo desk viene monitorato ponderandolo per la rischiosità che si è sopportata per conseguirlo; h) il risultato opportunamente aggiustato per il rischio entra con questa chiave interpretativa nel più articolato meccanismo di determinazione del “quantum” assegnabile ai singoli operatori in funzione di un sistema incentivante pre-definito. Nelle case di Asset management i meccanismi di gestione sia delle posizioni sia del rischio erano inizialmente piuttosto diversi da quelli presenti nelle Investment banks. Ma con l’aumentare dei prodotti ovvero delle caratteristiche degli stessi che in alcuni casi ne aumentano il contenuto di trading (ad es. i prodotti c.d. “flessibili” ovvero i prodotti altamente speculativi quali gli hedge funds) le tecniche di gestione e le modalità di misurazione dei rischi sono andate A.2 ... alla gestione dei portafogli 169 Q U A D E R N I 2 sempre più avvicinandosi a quanto avviene nelle Investment banks . Nelle società di Asset management altri livelli di difficoltà nella gestione dei portafogli e dei rischi correlati sono ravvisabili a causa della presenza di alcuni parametri di riferimento (benchmark) che non sempre sono proposti ai sottoscrittori in maniera univoca e che vengono facilmente intesi come il “nemico da battere” di un prodotto, generando a volte anche atteggiamenti distorsivi nella gestione di alcuni tipi di prodotti ad opera dei gestori stessi. Molto spesso infatti l’operato dei gestori è giudicato anche in funzione dell’avvenuto superamento meno del livello del benchmark corrispondente al prodotto per un dato periodo di tempo osservato. A.3 Il concetto di “limite” nella gestione di un portafoglio Il fatto che il patrimonio di un fondo o di un mandato non sia di proprietà della società di gestione ha spesso fatto ritenere che, come richiamato in precedenza, la gestione del rischio non dovesse essere preponderante, ma che fosse invece di assoluta importanza la forza vendita in grado di collocare i prodotti a qualunque costo. In realtà in caso di risultati negativi da parte di uno o più prodotti, l’effetto degli stessi può abbattersi velocemente sulla società di gestione stessa sotto forma di richieste di rimborso dei prodotti e quindi di progressiva erosione del margine commissionale. Anche nell’asset management ha quindi senso parlare di limiti di rischiosità: questo è tanto più necessario quanto più da vicino si intende monitorare la rischiosità intrinseca nei prodotti/portafogli e nel contempo, quanto più si intende fornire alle reti distributive una conoscenza più approfondita dei prodotti che le metta in grado di esplicare tutta la capacità di vendita che è loro propria. In alcuni casi i limiti di rischio vengono direttamente richiesti dalla clientela (ciò è soprattutto vero nel caso della gestione di patrimoni istituzionali) che li identifica a seconda delle proprie esigenze ovvero della propria avversione al rischio (ad es.: divieti di investimento in specifiche categorie di asset od in particolari tipologie di azioni, ecc..). Questa eventualità rende più complesso un processo efficiente di asset allocation in quanto ne vincola i gradi di libertà: ciononostante si rende necessario creare dei portafogli modello che pur con i dovuti vincoli permettano al gestore di operare nel rispetto dei “desiderata” del cliente. Un punto su cui riflettere è che una delle forme in cui le necessità ed i “desiderata” finanziari del cliente prendono forma si esplicita, soprattutto nel caso dei prodotti “retail”, nell’acquisto di un prodotto al posto di un altro. Comprendere questo concetto è fondamentale per capire come sia importante riuscire a costruire dei limiti di rischiosità che siano coerenti con il messaggio trasferito al cliente dal prospetto del fondo stesso. Pian piano prende quindi forma un diverso concetto di limite di rischio applicabile ad alcuni dei prodotti del risparmio gestito ovvero il concetto di “soglia minima di rischio”. Questo può suonare 2 Sia nelle strutture di Asset Management che nelle Investment Banks va considerata la presenza anche di rischi operativi (quali ad esempio rischi legali o di errore umano che possono implicare risarcimenti o sanzioni in capo alla società) che devono essere monitorati, quantificati e gestiti. Lo stesso Comitato di Basilea, pur in maniera ancora abbastanza sfumata, prevede che debba essere appositamente allocata una quota parte delle riserve della Capogruppo a fronte appunto di questa tipologia di rischi. Sui rischi operativi cfr. anche l’altro saggio di Appetiti in questo volume. 170 Q U A D E R N I come una contraddizione ove si dia per assunto che un rischio va reso minimo e non massimo, nella ricerca di un alto rendimento. Il concetto che sta alla base di questa affermazione è la consapevolezza che i sottoscrittori di un prodotto possono averlo voluto comprare proprio per le sue caratteristiche di dinamicità ovvero di rischiosità e sono quindi disposti a pagare una commissione di gestione maggiore (ed addirittura una commissione di incentivo) nella consapevolezza del rischio che si sta correndo. A livello aziendale, la fissazione di una soglia minima di rischio può anche permettere un monitoraggio più stringente dell’operatività del singolo gestore. Infatti il gestore di patrimoni tendenzialmente non è un “trader” e quindi attua all’interno del portafoglio o del settore di portafoglio di cui è responsabile, delle scelte di investimento con un’ottica che non è quella del trader ma solitamente è un’ottica di più lungo periodo. Pertanto un gestore che prende pochi rischi ma nel contempo anche poche scommesse all’interno del portafoglio di cui è responsabile, potrebbe portare il rendimento del prodotto a discostarsi significativamente da un rendimento obiettivo teorico che il sottoscrittore potrebbe aver desiderato al momento dell’acquisto del prodotto. Inoltre la fissazione di un sistema di limiti che preveda dei valori minimi e massimi può contribuire, con le opportune attenzioni, anche a misurare la capacità del gestore di assumersi dei rischi con una “view” chiara di indirizzo degli investimenti rispettosa delle policy definite a livello aziendale, ma nel contempo tatticamente adeguata ai propri convincimenti sul mercato. A fronte di quanto esposto, sono andati progressivamente sviluppandosi modelli e metodologie di gestione e monitoraggio dei rischi. In parallelo si è evidenziata anche la crescente quantificazione di limiti di rischio che sono stati assegnati ai singoli prodotti od alle aree di gestione con l’avallo dei massimi organi decisionali dell’azienda (CdA, ecc.). In questo paragrafo ci soffermeremo sulle tipologie di analisi di rischio che possono essere condotte con particolare riferimento al market risk rimandando ad altra parte di questa raccolta di monografie la disamina delle metodologie e delle analisi legate ai rischi di credito ed ai rischi operativi. B La scomposizione del rischio di mercato ex ante ed ex post: alcuni esempi di scomposizione di market-risk analysis pesata per la performance attribution In prima battuta richiamiamo velocemente la dicotomia delle forme di analisi dei rischi presente in molte organizzazioni di asset management ovvero la distinzione tra analisi “ex ante” e monitoraggio “ex post”. A nostro avviso questa distinzione ha senso se applicata confrontando i processi di asset allocation con i processi di analisi e monitoraggio del rischio. In effetti un processo di asset allocation, indipendentemente dalla maggiore o minore complessità dell’organizzazione aziendale, dovrebbe mirare ad allocare in maniera efficiente le risorse finanziarie disponibili all’interno di uno o più portafogli nel rispetto di obiettivi di rischio/rendimento dati: ciò avviene “ex ante”. Pertanto nell’istante immediatamente successivo a quello in cui la decisione di asset allocation (“ex ante”) è stata presa e debitamente formalizzata nelle opportune sedi aziendali, questa deve essere calata all’interno dei portafogli con maggiori o minori gradi di libertà ed ade- B.1 Le forme di monitoraggio 171 Q U A D E R N I guamento tattico, ma sempre in coerenza con le macro-indicazioni presenti. A questo punto gli strumenti di risk management disponibili devono permettere di svolgere almeno le seguenti attività che ormai sono tutte “ex post” ovvero successive alle decisioni di investimento: 1) verificare il rispetto all’interno dei portafogli delle indicazioni di asset allocation; 2) monitorare nei portafogli effettivi la rischiosità prospettica delle posizioni in essere (con gli indicatori giudicati per tempo opportuni) ed il necessario grado di scomposizione della rischiosità stessa confrontandolo al medesimo grado di rischiosità associabile alle indicazioni di asset allocation date (od in fase di implementazione: in tal caso si misura anche l’effetto del “timing” nell’implementazione delle indicazioni di Asset Allocation); 3) verificare il rendimento ottenuto dai singoli asset mediante opportune attività di analisi e scomposizione della performance (performance attribution) ed effettuare un confronto tra tali dati opportunamente “scomposti”, con la rischiosità attesa delle posizioni che hanno generato tali rendimenti. Questa attività permette anche il progressivo “fine tuning” degli strumenti di monitoraggio della rischiosità prospettica. La medesima attività di performance attribution può poi essere associata all’organizzazione della sala con l’ulteriore finalità di definire meccanismi di incentivazione del personale coerenti e quantitativamente affidabili; 4) monitorare il rispetto degli eventuali limiti di rischiosità assegnati ai diversi prodotti ed indicare le azioni correttive necessarie a permettere il rispetto di tali limiti. Rileviamo che in quest’ultimo caso il rientro di un indicatore di rischio associato ad un prodotto al di sotto del limite definito, può non essere altrettanto veloce come quanto accade su un desk di trading di una investment bank: possono infatti essere presenti particolari tipologie di asset insite in un portafoglio per posizioni estremamente rilevanti pur nel rispetto dei limiti assegnati dalla Vigilanza. Per tali tipologie la movimentazione sul mercato può richiedere un periodo di tempo ampio anche, più in generale, in relazione ai quantitativi che se immessi immediatamente ed integralmente sul mercato potrebbero causare turbative allo stesso. Quando si parla di limiti e del loro monitoraggio a nostro avviso è sempre opportuno fissare delle soglie di attenzione antecedenti il superamento del limite stesso che possano quindi permettere di focalizzare maggiormente l’attenzione sulle cause dell’approssimarsi del livello di limite e quindi sui possibili interventi correttivi che potrebbero essere immediatamente presi. Resta comunque fondamentale il monitoraggio quotidiano dell’andamento di certe grandezze di rischio finanziario, proprio alla stregua di quanto accade nella banche di investimento: questo permette di “calibrare” sempre meglio soprattutto i modelli di previsione del rischio che poggiano su basi non sempre valide a causa delle repentine oscillazioni dei fattori di mercato o del grado di solidità dei modelli utilizzati. I limiti fissati dovranno evidentemente essere sottoposti ad un meccanismo di revisione periodica legato ad una molteplicità di fattori quali ad esempio: 172 Q U A D E R N I • l’eventuale mutamento delle caratteristiche di base del prodotto e quindi il probabile correlato mutamento dello stile di gestione, • la necessità di riconsiderare in toto lo schema di limiti e degli indicatori con cui questi sono misurati per adottare indicatori maggiormente sofisticati. Non crediamo che esista una frequenza di revisione dei limiti standard, ma reputiamo utile attuare, unitamente al consueto monitoraggio quotidiano ed ad un’attenta analisi degli scostamenti, una revisione dei limiti almeno annuale che comunque non necessariamente deve comportare una modifica degli stessi. Nel seguito esponiamo alcuni esempi delle analisi che possono essere effettuate con particolare riferimento ad uno degli indicatori di rischiosità utilizzati all’interno del mondo del risparmio gestito ovvero la “Tracking Error Volatility” (sia calcolata “ex ante” che “ex post”). A causa degli evidenti limiti di tale grandezza a questa si possono affiancare anche altri indicatori come ad esempio il “Value At Risk” (assoluto o “relativo” rispetto al Benchmark) il cui uso è consolidato da tempo in molte banche di investimento. B.2 Alcuni esempi di “Market Risk Analysis” Tabella 1 Tabella 2 Il livello di dettaglio della scomposizione del T.E del portafoglio vs il benchmark e del policy benchmark (ovvero l’obiettivo di asset allocation) vs il benchmark è funzione della tipologia del prodotto, con espansione maggiore per le categorie di investimento caratterizzanti il prodotto analizzato. L’esempio riportato mostra la scomposizione applicata ad un prodotto Bilanciato, ai Fondi di Fondi ed ai prodotti Flessibili. Per i prodotti azionari vengono riportati in aggiunta gli indici di “style” (size, success,variability in the marker, value). 173 Q U A D E R N I Nella Tabella che segue si presenta un esempio di analisi che dettaglia, ove ve ne siano, le cause degli “esuberi” rispetto a dei possibili limiti di tracking Error che potrebbero essere fissati, fornendo indicazione di quali sono i Settori/Aree geografiche o bucket di curva che hanno maggiormente contribuito. Tabella 3 Tabella 4 Tabella 5 Il livello di dettaglio della scomposizione del Tracking Error e dell’Excess Return del portafoglio vs il benchmark e del policy benchmark vs il benchmark è in funzione della tipologia del prodotto, con espansione maggiore per le categorie di investimenti caratterizzanti il prodotto stesso. 174 Q U A D E R N I La Tabella 6 che segue riepiloga i controlli di Tracking Error calcolato “ex post” e quindi sul valore delle quote. Si possono definire delle soglie di osservazione differenti ovvero delle profondità temporali diverse per cogliere più o meno immediatamente fenomeni che si manifestano più costantemente nel prodotto osservato oppure l’insorgere di mutamenti improvvisi non verificatisi in precedenza. Tabella 6 C L’impatto del risk management sull’informativa direzionale e gestionale: altri esempi di reporting Nel capitolo precedente abbiamo discusso degli approcci al monitoraggio del rischio in una casa di asset management e di alcune forme di market risk analysis che possono essere costruite ed analizzate nel tempo unendo a queste anche analisi di performance attribution. Ora intendiamo focalizzare l’attenzione sul livello di informativa che una funzione di risk management deve essere in grado di produrre. In primis dobbiamo considerare che nell’ipotesi (auspicabile) in cui la funzione di risk management sia organizzativamente collocata in maniera indipendente rispetto alle funzioni che si occupano di gestione dei patrimoni, questa avrà quattro livelli di informazione e di analisi da predisporre. a) Un primo livello per l’Alta Direzione intesa sia come riporto diretto, ovvero Amministratore Delegato o Direttore Generale, che come riporto mediato (Consiglio di Amministrazione, Comitato Esecutivo, Comitato di Direzione, ecc.). b) Un secondo livello per le aree aziendali più operative e che si occupano della gestione dei portafogli, ma anche per eventuali soggetti terzi (Vigilanza, Auditing, Revisori) che tipicamente per l’ottenimento di alcune informazioni nello svolgimento dei compiti di loro pertinenza interfacciano molto con funzioni indipendenti dalle funzioni di gestione. C.1 I “clienti” del Risk Management 175 Q U A D E R N I c) Un terzo livello rappresentato dalla clientela istituzionale ove presente. d) Un quarto livello costituito dalla forza di vendita della rete e che si rivolge alla clientela “retail”. In questo caso lo sforzo informativo assume caratteristiche profondamente diverse a seconda del grado di competenza della rete medesima ovvero della disponibilità di adeguati strumenti informativi a supporto di tale attività. C.2 176 Le tipologie e le tempistiche di analisi per i diversi “clienti” Ciò posto vi saranno evidentemente analisi che a parità di contenuti potranno essere più o meno sintetiche e che andranno indirizzate sia all’Alta Direzione che alle aree più operative ovvero ad alcuni degli altri soggetti cui si è fatto cenno. Il tutto deve essere fatto considerando attentamente che un eccesso di reporting e di analisi invece che creare informazione può creare confusione e senz’altro genera disinformazione. Infatti si rischia di far perdere attenzione a chi legge i report se non si è in grado di far distinguere immediatamente le informazioni che indicano criticità e quindi decisioni da prendere velocemente da quelle per cui una decisione può essere presa in tempi meno brevi. Le analisi devono essere presentate con cadenze differenti a seconda del contenuto. Alcune analisi verranno presentate a cadenze molto ravvicinate (ad es.: quotidiane) quando riguardano posizioni di portafoglio di dettaglio o portafogli specifici. Potranno invece esservi cadenze ad esempio settimanali per le analisi che riguardano portafogli con stili di gestione meno aggressivi e con asset al loro interno che difficilmente potrebbero andare in default o manifestare problemi in capo all’emittente. Il reporting “ordinario” per il CdA potrebbe avere cadenza mensile o trimestrale, salvo avere cadenze ben più ravvicinate qualora, a titolo esemplificativo, si ravvisassero deviazioni importanti all’interno dei portafogli rispetto alle strategie di investimento deliberate allo stesso CdA. È però fondamentale “educare” i diversi livelli di lettori dei report alle grandezze che vengono presentate. Tipicamente gli utenti “front” devono poter utilizzare il reporting prodotto percependolo come un vero e proprio “cruscotto operativo” contenente le grandezze di loro competenza (ad es. indicatori di rischiosità finanziaria, volumi di operatività registrati con le diverse controparti utilizzate, commissioni medie pagate alle controparti da confrontare con quanto concordato con le stesse inizialmente, “warning di avvicinamento” ai limiti indicati dalla Vigilanza od ai limiti di rischiosità fissati internamente, ecc.). L’Alta Direzione ha bisogno di un cruscotto molto più sintetico che permetta di avere in breve tempo tutti i punti di attenzione per i quali è suggerito un approfondimento. Ad esempio l’Alta Direzione deve avere a disposizione uno strumento che, nell’esemplificazione dei prodotti di risparmio gestito e del connesso rischio di mercato, possa metterla in grado di comprendere, a parità di masse, quanto “rischio performance” sia insito nelle posizioni e quindi potenzialmente a quanto potrebbe ammontare la correlata probabilistica diminuzione delle masse e la conseguente riduzione del margine commissionale. L’Alta Direzione, inoltre, deve sapere immediatamente se in Q U A D E R N I qualche luogo aziendale vengono attuati comportamenti non conformi od a regole che arrivano dall’esterno (Vigilanza, ecc.) o dall’interno (regolamenti o circolari interne, codici deontologici, ecc.). Si rende quindi necessaria la predisposizione periodica di reportistica di “compliance” ovvero che attesti “in toto” l’aderenza dell’azienda alle diverse fonti regolamentari applicabili all’operato della struttura. Pertanto non solo la sala operativa ma anche il management deve essere “educato” alla lettura delle grandezze di rischio. Anche l’informativa per la clientela può essere arricchita dalle analisi del risk management. Il “cliente interno” immediato dell’Area risk management è solitamente il settore che si occupa di comunicazione alle reti. Ma in taluni casi il “cliente diretto” del risk manager è proprio il cliente finale; questo accade tipicamente con la clientela di matrice istituzionale presso la quale solitamente il livello di competenza e di sofisticazione finanziaria è elevato. Questa clientela richiede alle case di asset management alti livelli di personalizzazione per la gestione dei propri patrimoni e l’esperienza ha dimostrato come la presenza evidente e proattiva del risk management per l’effettuazione di un insieme di analisi e per la predisposizione di reportistica correlata per tale clientela, abbia permesso di avere successo nell’ottenimento di alcuni mandati ovvero abbia permesso di arricchire intellettualmente il rapporto con la clientela stessa proprio grazie alla possibilità di offrire un livello di analisi e di profondità “su misura” che facilita la comprensione puntuale dei fabbisogni di chi ha affidato in gestione il patrimonio. Di seguito riepiloghiamo in alcune tabelle degli esempi di reporting ed alcune ipotesi per la tempistica della loro predisposizione e susseguente presentazione. Gli esempi riportati riguardano analisi di coerenza delle asset classes rispetto alle indicazioni di investimento (Tabella 7), Peer Analysis ed analisi di performance “compatta” (Tabella 8), dettagli sulla performance attribution e della sua suddivisione a seconda dei prodotti osservati (Tabella 9). C.3 Alcuni esempi di “reporting” Tabella 7 177 Q U A D E R N I Tabella 8 Tabella 9 Tabella 10 178 Q U A D E R N I Nella Tabella 10 della pagina precedente si visualizza la scomposizione di un particolare tipo di analisi di performance attribution richiamata nella Tabella precedente ovvero l’analisi per le Gestioni Individuali in Fondi (GIFF). Questo esempio vuole dimostrare come a seconda del livello di dettaglio crescente che può essere raggiunto anche a livello organizzativo all’interno della Società, possano essere interessate le diverse aree gestionali della società (unitamente all’Alta Direzione) per il monitoraggio del rendimento delle stesse Aree. Le analisi come quella che segue (Tabella 11) permettono invece di scomporre alcuni indicatori di rischiosità prospettica nelle diverse componenti elementari e successivamente, mediante appositi meccanismi di storicizzazione, di evidenziare le componenti all’interno dei portafogli osservati che manifestano con maggiore o minore ricorrenza determinate caratteristiche di rischiosità. Tabella 11 Questo report si propone di individuare per ogni categoria le attività che, con maggior ricorrenza, contribuiscono in modo massimale o minimale al Tracking Error o all’Excess Return. Di seguito (Tabella 12) forniamo un altro esempio di reportistica utilizzabile per la clientela istituzionale e che permette di identificare velocemente gli indicatori chiave relativi ad un singolo mandato. Nella parte “alta” del prospetto (riportata in Tabella 12a) Tabella 12 a 179 Q U A D E R N I sono indicate le caratteristiche basilari del mandato (Patrimonio, conferimenti e prelievi nel periodo, Tracking Error) ed un confronto tra la Per formance del portafoglio e quella del benchmark con diverse metodologie di lordizzazione della stessa ed altri indicatori che arricchiscono l’analisi. Nella seconda parte (Tabella 12b) si forniscono indicazioni di scomposizione delle Asset class nel mandato, della performance ed analisi di Active Return. Tabella 12 b Conclusioni In questo lavoro abbiamo cercato di far capire come e perché il contributo del Risk management nell’industria dell’Asset management è diventato sempre più presente ed importante. Abbiamo voluto evidenziare come le esperienze maturate nel tempo nel mondo del’investment banking abbiano costituito un punto di partenza per le analisi sviluppate nell’Asset Management. Abbiamo presentato alcuni esempi di analisi di uno dei rischi che ogni funzione di Risk management deve monitorare ovvero il c.d. “market risk” ed abbiamo affiancato a questo un esempio di come si possa analizzare l’extra rendimento di un prodotto ponderando ogni componente per il rispettivo rischio. Nell’ultima parte di questo lavoro abbiamo portato alcune esemplificazioni di reportistica applicabili a prodotti commercializzati preso la clientela retail ed altri esempi di analisi presentabili alla clientela istituzionale. In tutti questi casi l’obiettivo del lavoro è la diffusione dell’informativa in maniera completa e tempestiva al management ed alla clientela della Società. Riferimenti bibliografici Chorafas, D. N., 1997, “The Market Risk Amendment”, McGraw-Hill Goldman Sachs, 2000, “The Green Zone... Assessing the Quality of Returns”, Investment Management Research Goldman Sachs, 2000, “Risk Budgeting: Managing Active Risk at the To- 180 Q U A D E R N I tal Fund Level”, Investment Management Research Grinold, R. C., e R. N. Kahn, 1995, “Active Portfolio Management”, Probus Publishing Jorion, P., 2000, “Value at Risk”, McGraw-Hill J.P. Morgan/Reuters, 1996, “RiskMetrics - Technical Document” Kupiec, P. H., 1998, “Stress Testing in a Value at Risk Framework”, The Journal of Derivatives 181 Officine Grafiche La Commerciale Milano Finito di stampare gennaio 2003 www. assogestioni.it