Rom, Sinti, Caminanti: oltre i luoghi comuni, alla ricerca di nuovi immaginari Approfondimento tematico a cura del Centro di Documentazione Yalla La "questione Rom" e l'Europa. Povertà, esclusione sociale e razzismo sono tre fenomeni che dominano la quotidianità dei rom europei e determinano aspettative e possibilità per il futuro. Secondo l'Agenzia dell'Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA), negli Stati membri dell’UE la situazione socioeconomica dei Rom, valutata a partire da quattro dimensioni chiave (l'accesso all'istruzione, l'inclusione lavorativa, le condizioni abitative e l'accesso al sistema sanitario) non è soddisfacente e in media peggiore di quella dei non-Rom abitanti nelle stesse zone. I Rom continuano a subire discriminazioni e non hanno una conoscenza adeguata dei diritti garantiti dalla legislazione dell’Unione europea, ad esempio la Direttiva sull’Uguaglianza Razziale (2000/43/CE). Ciò conferma quanto indicato della Commissione Europea, nel report Un quadro dell’UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020, ovvero l’esigenza di “un’azione decisa, intrapresa sulla base di un dialogo attivo con i Rom, a livello sia nazionale che europeo”. Tuttavia, nell’immaginario collettivo, italiano ed europeo, la presenza dei rom continua ad essere percepita come ingombrante, fastidiosa, perturbante e attentatrice alla pubblica sicurezza. A rendere ancor più vulnerabile la condizione dei Rom, Sinti e Camminanti ha contribuito, peraltro, il diffondersi di una cultura securitaria che assimila i Rom ad una minaccia sociale permanente. In tutto il mondo i popoli rom o zingari sarebbero circa dodici milioni di persone; di queste, la maggior parte risiederebbe in Europa (dai 7.200.000 ai 8.700.000) ed in particolare nell’Europa dell’Est (circa il 60‐70%), in Spagna e Francia (15‐20%) (Spinelli, 2003; Piasere 2009). La Romania è il paese con la maggiore presenza di membri delle comunità rom (circa 2 milioni). Numeri importanti li fa registrare la Spagna, dove si contano circa 800 mila rom, l'Ungheria e la Bulgaria dove vivono rispettivamente circa 700 mila e 550 mila rom. Tuttavia, le stime sulla consistenza numerica dei gruppi che definiamo Rom sono molto complicate, dal momento che in molti casi le persone di etnia rom, risultando cittadini a pieno titolo di paesi membri dell'Ue, preferiscono non dichiarare la propria identità, onde evitare pregiudizi e stereotipi. Sino agli anni ‘90 i principali paesi da cui provenivano i migranti rom erano stati Macedonia, BosniaErzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo e Romania; successivamente ritroviamo come principali paesi di emigrazione la Romania, la Bulgaria e la Slovacchia. Invece, la Germania, la Francia e l’Italia sono storicamente le destinazioni principali della migrazione dei rom, mentre consistenti flussi hanno toccato anche Gran Bretagna, Austria e Spagna negli ultimi anni. La minaccia rappresentata dall'invasione di massa dei rom è stata la principale motivazione dell’interessamento dell’Unione Europea e delle altre principali organizzazioni europee verso questa popolazione fino a partire dagli anni ‘90. La realtà dei fatti dimostra che la migrazione dei rom non si discosta da quella del resto della popolazione dei rispettivi paesi d’origine1. Nonostante ciò, le scelte di numerosi governi si sono indirizzate verso misure drastiche per fermare “gli zingari”. Successivamente, con l’allargamento dell'UE del 2004 e del 2007, circa due milioni di rom sono diventati cittadini europei, venendo a costituire la più grande minoranza etnica europea; questa circostanza, in base al principio cardine della libertà di circolazione che informava il sistema comunitario fin dalla sua nascita, ha reso impossibile bloccare la mobilità dei rom comunitari nei territori dell’UE – nonostante i tentativi recenti compiuti da paesi come Francia, Italia, Gran Bretagna e Belgio. Per converso, i rom non comunitari incontrano ostacoli sempre maggiori per accedere all’UE attraverso canali legali, sia per la rigidità e selettività delle politiche migratorie comunitarie verso i cittadini di paesi terzi, sia per il generale restringimento del diritto di asilo politico. Rom, Sinti e popolazioni "viaggianti" costituiscono l’insieme più numeroso di gruppi minoritari presenti in Europa e fanno parte della storia del nostro continente come "stranieri interni"; contemporaneamente, gli episodi di discriminazione che interessano queste popolazioni e l'antiziganismo risultano profondamente radicati in Europa, tanto che nessun paese europeo può vantare precedenti del tutto positivi nella tutela dei diritti umani dei membri di queste minoranze. La discriminazione delle comunità rom ha quindi acquisito toni ancor più violenti del sentimento antiimmigrazione che serpeggia in alcune frange della nostra società. Numerose ricerche sull'argomento dimostrano la tendenza diffusa tra gli intervistati ad offrire spontaneamente descrizioni dettagliate e cariche di stereotipi comportamento di circa questi l’aspetto e il gruppi etnici. Un'atteggiamento che si presenta ancor più diffuso tra coloro che dichiarano di non avere mai avuto relazioni con rom, sinti ed altri gruppi affini. Come si evince dal grafico a lato, secondo il Pew Resarch Center, l’Italia è il paese europeo dove l’intolleranza verso i rom e i sinti è più diffusa. L’istituto di ricerca 1 N.Sigona, 2009, I rom nell’Europa neoliberale: antiziganismo, povertà e i limiti dell’etnopolitica, in Razzismo Democratico statunitense ha esaminato l’ostilità nei confronti dei rom in sette paesi d’Europa nel 2014; in Italia l’85 per cento degli intervistati ha espresso sentimenti negativi verso questa popolazione. Inoltre, importanti personaggi pubblici, funzionari eletti e altre organizzazioni politiche che influenzano l’opinione pubblica hanno adottato apertamente atteggiamenti diffamatori verso rom, sinti e popolazioni viaggianti facendo uso di una retorica razzista e stigmatizzante. Risulta utile a tal proposito richiamare i risultati del monitoraggio realizzato nel 2014 dall'Associazione 21 Luglio che ha registrato 443 episodi di violenza verbale contro i rom, di cui 204 ritenuti di particolare gravità: l’87 per cento di questi episodi è riconducibile a esponenti politici2. Il mosaico rom. I gruppi e le popolazioni oggetto di questo approfondimento rappresentano una "galassia di minoranze" tutt’altro che omogenea dal punto di vista storico, culturale e religioso. La parola "Rom" (com’è noto, “Rom” in romanì significa “uomo” in contrapposizione a “Gagé” che indica i “non Rom”) è dunque un termine che rimanda ad una miriade di gruppi e sottogruppi caratterizzati da una serie di somiglianze che includono la lingua, le modalità di vita, le tradizioni culturali e l’organizzazione familiare. Ma secondo Leonardo Piasere, uno dei principali studiosi in materia nel nostro Paese, storicamente la categoria in oggetto ha incluso una varietà abbastanza composita di persone con diversità culturali anche notevoli, il cui unico tratto comune è rappresentato, forse, da una secolare stigmatizzazione negativa. Inoltre, nel corso del tempo le singole specificità culturali di questi gruppi si sono contaminate e fuse con elementi delle altre popolazioni con cui sono entrati in contatto, complicando ulteriormente il quadro3: “I nomi, più o meno volatili, dei gruppi rom richiamano una tavolozza in cui i colori sfumano l’uno nell’altro e mutano fondendosi e distinguendosi da una generazione all’altra” [Piasere, 2009]. Illustrazione tratta da Crossover. Per un'agenda di diritti condivisa tra società civile e istituzioni. Parsec, 2015 2 3 Associazione 21 Luglio, Antiziganismo 2.0, Rapporto 2013-2014 Leonardo Piasere, 2009, I rom d'Europa, una storia moderna, Ed.Laterza. I rom rappresentano circa l’88% del totale mentre i sinti il 3% e si trovano soprattutto nelle regioni germanofone, nel nord Italia e nel sud della Francia (manouches). I travellers sono invece comunità autoctone dell’Irlanda e del Regno Unito. I kalé (i gitani) vivono nella Penisola Iberica e nel Galles del nord. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un mosaico di gruppi dai nomi differenti (Rom, Sinti, Caminanti, Manus, Kale, Romanichals, Travellers….), in altre parole una «minoranza diffusa», dispersa e transnazionale. Emblematica da questo punto di vista appare la tradizione linguistica di questi popoli; i vari gruppi sparsi per l’Europa parlano differenti dialetti romanè, che, seppure influenzati dalle lingue locali e comprendenti una grande quantità di vocaboli stranieri, presentano una notevole unità lessicale. Ma al di là dei recenti tentativi di trascrizione, la moltitudine di linguaggi in cui si è frantumato il romanè ha tradizione sostanzialmente orale, per cui ogni gruppo ricorda solo la propria storia e non la condivide con gli altri. E la storia dei gruppi che definiamo rom è la storia delle relazioni differenziate, di incontro e di scontro, che i diversi gruppi hanno storicamente attivato con la società maggioritaria dei “gagé” nella quale hanno trovato collocazione. Piasere ci offre un'originale rilettura della suddivisione del territorio europeo ricorrendo a tre parametri: la densità di popolazione rom, la lingua e la dimensione relativa alla sedentarietà-nomadismo praticato. Questa scelta consente un'analisi del territorio europeo in un'ottica romané superando, così, i rigidi confini nazionali con i quali siamo abituati a confrontarci. Sulla base dei tre paramenti individuati da Piasere, possiamo parlare di tre Europe rom4: Europa carpato-balcanica, che vede una percentuale di presenza rom che va dal 60% al 70% del totale dei rom che vivono in Europa. In questa parte d'Europa troviamo paesi come la Romania con il 26% della popolazione rom d'Europa e la Macedonia che presenta il rapporto più alto tra popolazione rom e non rom. I gruppi in oggetto prevalentemente si auto-qualificano come rom, parlano dialetti romané e praticano una vita prevalentemente sedentaria. Europa sud-occidentale (penisola Iberica e Francia) dove abbiamo tra il 15% e il 20% dei rom presenti in Europa. In questa zona troviamo: in Francia, gruppi sinti e manush che praticano prevalentemente il nomadismo, in Spagna calòs, i quali sono prevalentemente sedentari. Tutti questi gruppi sono accomunati dal parlare dialetti provenienti dal romané. Nel resto di Europa, risiede il rimanente 10-15% del totale dei rom. In questa parte, che ricomprende anche l'Italia, la situazione si presenta molto variegata: abbiamo sinti in Italia meridionale, Austria e Germania, romanicel in Inghilterra, kalè in Finlandia, questi gruppi sono accomunati dal parlare dialetti provenienti dal romanè. In questa terza Europa rom, incontriamo anche gruppi che, seppur qualificati come 'zingari', non parlano il romané, ne costituiscono un esempio i travaller in Irlanda e Scozia e i camminanti siciliani in Italia. 4 L.Piasere, 2003, Breve storia dei rapporti tra rom e gagè in europa, in Alla periferia del mondo. Il popolo dei rom e dei sinti escluso dalla storia, Fondazione Roberto Franceschi. I rom in Italia. Sul nostro territorio nazionale si stima una presenza fra le 120mila e le 150mila unità, pari a circa lo 0,25% della popolazione totale5. L’Italia è uno dei paesi europei dove abitano meno rom e sinti, al contrario di quanto percepito dalla popolazione e dei messaggi, veicolati da politici e mezzi d’informazione, che suggeriscono l'esistenza di una continua emergenza. Facendo un confronto con altri Paesi, notiamo che in Spagna i rom rappresentano l’ 1,7% della popolazione, mentre in Macedonia e in Bulgaria si raggiungono picchi del 10-12%. Inoltre, osservando la seguente tabella, risulta in maniera evidente e paradossale che il grado di ostilità verso le popolazioni rom sia inversamente proporzionale al peso percentuale che la stima numerica dei gruppi rom assume sul totale della popolazione dei singoli stati nazionali; quindi, minore è la presenza percentuale delle popolazioni rom sul totale della popolazione, maggiore è l'ostilità rilevata nei loro confronti. Un dato significativo circa la composizione delle popolazioni definite rom presenti sul nostro territorio, tratto dalle elaborazioni statistiche a cura del Senato della Repubblica Italiana, conferma che siamo in presenza di una popolazione molto giovane; infatti, solo lo 0,3% della popolazione rom ha più di 60 anni, mentre il 60% dei rom e sinti che vivono nel nostro Paese ha meno di 18 anni. Di questi, il 30% ha un'età compresa tra gli 0 e i 5 anni, il 47% tra i 6 e i 14 anni, il 23% tra i 15 e i 18 anni. Si noti che la percentuale dei minori rom e sinti al di sotto dei 16 anni (45%) risulterebbe essere tre volte superiore alla media nazionale (15%) per lo stesso gruppo di età. Complessivamente, il numero dei bambini e dei ragazzi minorenni appartenenti a queste diverse comunità si aggirerebbe intorno alle 70.000 unità6. 5 6 Associazione 21 Luglio, 2014, Rapporto annuale 2014; Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Istituto degli Innocenti, 2015, Quaderno del progetto nazionale per l'inclusione e l'integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti. Illustrazione tratta da Crossover. Per un'agenda di diritti condivisa tra società civile e istituzioni. Parsec, 2015 Le regioni d’Italia dove la presenza rom è più significativa sono il Lazio, la Campania, la Lombardia e la Calabria7. Nella tabella che segue vengono riportati i dati relativi alle presenze suddivise per regione, nel merito delle 11 regioni in cui vivono più di 2000 soggetti appartenenti alle comunità in oggetto: * il dato relativo alla Puglia riporta solo rom non italiani 7 Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, 2011, Rapporto conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia I dati disponibili circa le presenze nelle grani città italiane forniscono altre informazioni esemplificative quanto parziali. Nel marzo 2013 il Comune di Roma ospitava circa 7.000 rom e sinti in vari campi: 4.000 in 8 campi attrezzati, 800 in campi tollerati e 2.200 in 200 insediamenti informali sparsi sull’intero territorio del Comune. Il percorso di ricerca-azione Progetto Star: Strategie per l’advocacy e l’integrazione della popolazione rom in Italia, realizzato dal Comune di Napoli insieme alle Open Society Foundations e alle associazioni OsservAzione e Compare, ci offre una fotografia più dettagliata e puntuale della presenza della popolazione rom nel capoluogo campano, dove si stima risiedano circa 2.500 persone frazionate in 8 insediamenti spontanei. I dati raccolti all’interno delle Linee guida di proposta del Comune di Milano riguardanti il “Progetto Rom, Sinti e Camminanti 2012–2015”, realizzato con l’intento di inserirsi all’interno del quadro nazionale SNIR, ci dicono che i Rom presenti in aree comunale sono circa 2.500, di cui 650 nei 7 campi autorizzati e 1.650 negli insediamenti non autorizzati di diverse dimensioni, di cui la grande maggioranza esiste da più di 5 anni e si è consolidata; in 200 sono invece stimati i Caminanti sinti. A Torino (Regione Piemonte) 850 rom e sinti risiedono nei campi formali e circa 1.400 negli insediamenti informali8. L'italia tra rom sedentarizzati e rom immigrati. In generale, si può sostenere che i Rom siano più diffusi al Centro e al Sud Italia, mentre i Sinti vivano per lo più al Nord. I "Caminanti", piccoli venditori ambulanti, stimabili intorno alle 6 mila unità, vivono prevalentemente in Sicilia. I gruppi rom presenti in Italia possono essere suddivisi in prima battuta tra rom storici sedentarizzati e rom immigrati, provenienti per lo più dall'Est Europa. Attualmente, il gruppo dei rom storici più numeroso, coeso, economicamente attivo e socialmente integrato è costituito dai Rom abruzzesi, seguiti dai Rom calabresi. Volgendo l'attenzione ai flussi che hanno riguardato nelle diverse epoche l'arrivo di popolazioni rom nel nostro paese, oltre alle presenze che si attestano già a partire dal XV secolo, nel primo Dopoguerra si hanno riscontri dell'attivazione di un importante flusso di persone provenienti dall’Europa orientale (circa 7 mila Rom harvati, kalderasha, istriani e sloveni); un altro gruppo ben più consistente di circa 40mila persone composto da Rom xoraxanè (musulmani provenienti dalla ex-Jugoslavia meridionale), Rom dasikhanè (cristiano-ortodossi di origine serba) e Rom rumeni - è arrivato in Italia negli anni ’60 e ’70. Un'ultimo rilevante flusso migratorio è tutt’ora in corso, seppure con fasi alterne, a seguito del crollo dei regimi comunisti nei Paesi dell’Europa dell’Est e alla guerra nei Balcani. Nei primi anni Novanta tali flussi hanno riguardato soprattutto Rom provenienti dalla Serbia, Kosovo e Montenegro. Complessivamente si stima che dal 1992 al 2000 siano giunti in Italia dalla ex Jugoslavia, dall’Albania e della Romania circa16 mila Rom, disseminati su tutto il territorio nazionale. In assenza di politiche di intervento, il loro arrivo ha comportato una passiva implementazione dei campi nomadi esistenti. Oggi la mobilità di gruppi rom verso il nostro 8 Dati tratti da: Decade of Roma Inclusion, Open Society Foundation, 2014, Monitoraggio sull'attuazione della strategia nazionale di inclusione dei rom, sinti e caminanti in Italia paese interessa prevalentemente popolazioni che vivono tra la Romania e la Bulgaria. Complessivamente, si stima che circa il 50% dei rom presenti sia stanziale nel nostro paese da oltre 15 anni. Per quanto riguarda lo status giuridico, i rom e i sinti aventi cittadinanza italiana sarebbero circa la metà dei presenti sul territorio. Secondo i dati diffusi dal Senato della Repubblica, degli stranieri, circa il 50% risulta proveniente dall'Ex Jugoslavia e il restante dalla Romania, con presenze minori da Bulgaria e Polonia. Si tratta quindi di tre categorie di soggetti dotati di differenti status: cittadini italiani, cittadini di Stati membri dell'Unione Europea, extracomunitari. A questi vanno aggiunti gli apolidi e i rifugiati. Va sottolineato e aggiunto che molti giovani e giovanissimi, pur avendo nazionalità straniera, sono nati e cresciuti in Italia. Per molti di questi, si riscontra anche il mancato riconoscimento dello status giuridico, un grave ostacolo per il godimento di diritti fondamentali: si stima che almeno 15.000 minori rom nati e cresciuti in Italia sono apolidi de facto o a rischio apolidia, in quanto non hanno alcun documento di identità italiano né del loro Paese d’origine, che molti di loro non hanno mai neppure visto. Nel contesto italiano ed europeo l’impiego in ambito istituzionale di categorie stereotipate che omogeneizzano la complessità dell'universo rom, trascurando le differenti provenienze nazionali, consuetudini abitative, appartenenze religiose, credenze, pratiche culturali e mestieri tradizionalmente praticati, ha implicazioni di rilievo in termini di policy. Ad esempio, in Italia, l’etichetta generica di “nomadi”, caratteristica propria di una parte piccolissima della galassia dei gruppi "rom", ha profondamente influenzato le politiche abitative per la maggior parte di queste popolazioni. Infatti, la stragrande maggioranza degli “zingari” residenti in Italia è stanziale, non avendo mai praticato, a dispetto dello stereotipo ricorrente, alcuna forma di nomadismo. L’idea che i rom amino vivere nei campi perché sono nomadi per cultura e indole è priva di fondamento. In Italia, secondo un’indagine del Senato, solo il 3% di essi ha uno stile di vita nomade (Caminanti). Tutti gli altri sono stanziali. I rom giunti dalla ex Jugoslavia o dalla Romania, del resto, nei loro Paesi vivevano in casa ed hanno conosciuto la vita dei “campi” solo con il loro arrivo in Italia. Ma anche volgendo il nostro sguardo all'intera galassia dei gruppi rom che vivono nel nostro paese, si evince che 4 rom su 5 (circa 130 mila persone) vivono in regolari abitazioni, studiano, lavorano e non praticano alcuna forma di nomadismo (in molti di questi casi, purtroppo, preferiscono non rivelare la propria identità di rom, a causa del pregiudizio e della discriminazione diffusi). Invece, circa 35 mila persone (solo 1/5 dei rom presenti) vivono in “campi” “formali” e e “informali”, condizioni abitativa. insediamenti di in emergenza Complessivamente, questa popolazione corrisponde in termini percentuali allo 0,06% della popolazione Inoltre, come italiana. dimostrato da molte ricerche sull'argomento, la maggioranza di coloro che vive nei campi vorrebbe uscirne e vivere in un campo rom non significa adottare uno stile di vita nomade. Illustrazione tratta da Crossover. Per un'agenda di diritti condivisa tra società civile e istituzioni. Parsec, 2015 La situazione abitativa della popolazione Rom, Sinti, Caminanti, spesso viene superficialmente associata alla sola realtà dei campi abusivi. I dati disponibili, invece, mostrano una realtà diversa, dove sembra piuttosto prevalere la legalità, fatta di case, insediamenti regolari, centri di accoglienza e strutture assistenziali di varia natura, mentre la percentuale di coloro che sono alloggiati in insediamenti effettivamente abusivi è sicuramente minoritaria. Alla luce di queste constatazioni, non bisogna però essere indotti a trarre facili equazioni, infatti, la legalità della condizione abitativa non costituisce di per sé una garanzia rispetto al grado di inclusione sociale, dal momento che il vero salto qualitativo avviene per coloro che abitano nelle case. La variabile territoriale sembra esercitare un’influenza importante nella scelta abitativa, dal momento che la percentuale più elevata di coloro che abitano in abitazioni convenzionali si registra nei centri abitati con meno di 25.000 abitanti; al tempo stesso, è proprio nei comuni che si registra il dato minimo relativo agli insediamenti abusivi. Contrariamente a quanto si possa essere indotti a pensare, questi ultimi non sono una prerogativa esclusiva delle periferie delle grandi città, ma risultano presenti anche nei centri di medie dimensioni. Diverso il caso degli insediamenti regolari, che risultano prevalere nettamente nelle grandi città. La segregazione abitativa, l'esclusione sociale e la discriminazione, anche istituzionale, hanno un effetto devastante sulla condizione di vita dei minori rom. Una delle conseguenza più evidenti è quella legata alle "malattie della povertà" che si declina, nella vita del minore rom nelle cosiddette "patologie da ghetto". La collocazione degli insediamenti formali e dei centri di accoglienza per soli rom in aree insalubri e poco sicure, specialmente per i bambini, spesso lontane dai servizi sanitari, espone le persone che vi abitano a situazioni potenzialmente nocive per la salute. La mancanza o l’inadeguatezza dei servizi di base, quali servizi igienici, impianti fognari funzionanti, connessione all’elettricità e acqua potabile, aumentano il rischio di contrarre malattie, patologie acute, croniche e da stress, ma anche di incendi ed altri incidenti. Il disagio abitativo si traduce spesso in disturbi di tipo psicologico tra i minori, come ansie, fobie e disturbi del sonno. I minori rom. La scolarizzazione come indicatore dell'esclusione delle popolazioni rom, sinti e caminanti. Come si è detto, i minori rappresentano il 60% del totale delle popolazioni rom presenti nel nostro paese. Le condizioni in cui vivono questi minori, prima ancora delle criticità segnalate dai percorsi di scolarizzazione che vedremo a breve, rappresentano degli importanti indicatori per valutare la dimensione dell'esclusione relativa alle popolazioni rom, sinti, caminanti. Infatti, stando alle elaborazioni fornite dall'Associazione 21 Luglio, i tassi di mortalità tra i bambini rom risultano molto elevati così come l'aspettativa di vita di un minore rom risulterà mediamente più bassa di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione. Soprattutto in tenera età avrà fino a 60 volte la probabilità - rispetto ad un suo coetaneo non rom - di essere segnalato dal Servizio Sociale e di entrare a contatto con il sistema italiano di protezione dei minori, mentre da maggiorenne avrà 7 possibilità su 10 di sentirsi discriminato a causa della propria etnia. Il 20% dei minori rom (un caso su 5) non inizieranno mai un percorso scolastico regolare; inoltre, avrà l'1% di possibilità di frequentare le scuole superiori e possibilità prossime allo 0 di accedere ad un percorso universitario. Nell’anno scolastico 2013-2014 nel sistema scolastico italiano sono stati registrati 11.657 minori rom (è un dato in costante diminuzione negli ultimi anni, basti riportare che nell'anno scolastico 2008/2009 i minori rom iscritti nel sistema scolastico italiano risultavano 12.342)9. Il tasso di abbandono scolastico nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria è del 50 per cento e di circa il 95 per cento nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. Si segnala che la quota di bambine e ragazze rom diminuisce progressivamente con il crescere dell'ordine di scuola, in misura maggiore rispetto ai maschi rom (+ 5,5%). 9 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Istituto degli Innocenti, 2015, Quaderno del progetto nazionale per l'inclusione e l'integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti. Le cinque regioni con il numero più alto di alunni rom sono il Lazio (2227), la Lombardia (1727), il Piemonte (1316), il Veneto (1067) e la Calabria (954). Mentre i Comuni con il maggior numero di alunni rom, in valori assoluti, sono Roma, Milano, Torino, Napoli e Reggio Calabria; se si considera invece l'incidenza percentuale ai primi posti troviamo Reggio Calabria, Pescara, Roma, Reggio Emilia e Firenze. La condizione di vita di un minore rom che nel nostro Paese vive in un insediamento formale o informale è fortemente condizionata dal contesto abitativo che segna profondamente il suo presente e che orienta il corso del suo futuro. Inoltre, come ammesso anche da alcuni operatori scolastici, i bambini rom si trovano a subire un trattamento differenziale rispetto ai loro compagni di scuola, spesso anche a causa della presenza radicata di pregiudizi e stereotipi, che si concretizza per esempio nell’essere chiamati a svolgere durante l’orario scolastico attività diverse rispetto agli altri alunni. Risulta evidente che la precarietà e l’inadeguatezza dell’alloggio hanno evidenti conseguenze sulla possibilità dei minori di dedicarsi proficuamente allo studio e, in alcuni casi, di curare la propria igiene personale, incidendo negativamente sul loro rendimento e sulle loro relazioni sociali. L’ubicazione degli insediamenti formali in luoghi al di fuori del tessuto urbano e distanti dagli istituti scolastici, rappresenta inoltre un ostacolo importante per l’accesso effettivo all’istruzione per gli alunni rom. Nonostante nella retorica delle autorità spesso gli sgomberi forzati vengano realizzati anche nell’interesse dei minori, in realtà gli sgomberi forzati dagli insediamenti informali hanno un impatto sproporzionato sui minori, soprattutto in termini di interruzione dei percorsi scolastici e di ulteriore esacerbazione della precarietà abitativa. Se l’alfabetizzazione rappresenta la precondizione per l’inclusione sociale, come sottolinea la ricerca EUInclusive10, il dato relativo alla popolazione Rom, Sinti, Caminanti appare impietoso. A fronte di una percentuale di analfabeti che a livello nazionale si attesta al 1,5%, ben il 19,2% degli intervistati RSC ha dichiarato di non essere in grado di leggere e di scrivere. Sebbene un simile risultato faccia evidentemente emergere una condizione di marginalità molto grave, i sottogruppi in cui è stato suddiviso il campione hanno, però, permesso di evidenziare degli importanti elementi di differenziazione. In particolare, l’analfabetismo è risultato superiore tra le donne (24,8%), tra chi ha più di 50 anni (52,1%) e tra coloro che vivono al Sud (25,7%), mostrando di essere evidentemente correlato a variabili quali il genere, l’età e la localizzazione geografica. L’analfabetismo, inoltre, risulta associato anche alla condizione occupazionale. La percentuale di occupati che non sa né leggere né scrivere si attesta, infatti, al 11,4%, per poi salire sino a quota 18,7% tra gli inattivi disponibili al lavoro, raggiungendo un picco del 46,4% tra gli inattivi non disponibili al lavoro. I dati relativi al titolo di studio mostrano di conformarsi alle stesse variazioni socio-demografiche considerate sinora. In altre parole, il 40,2% delle donne, il 66% di chi ha più di cinquant’anni, il 58,4% degli inattivi non disponibili al lavoro e il 44% di chi abita al Sud non possiede alcun titolo di studio. Sebbene 10 Soros Foundation, EU INLUSIVE, 2012, Rapporto Nazionale sulle Buone Pratiche di Inclusione Sociale e Lavorativa dei Rom in Italia queste percentuali scendano qualora si consideri la totalità del campione, rimane comunque un preoccupante 34% degli intervistati che non ha mai acquisito alcun titolo di studio, contro il 5% dei residenti in Italia. D’altra parte, come già sottolineato, solo il 5% di RSC consegue un titolo di studio superiore, con valori prossimi allo zero per quanto concerne la laurea, mentre questo valore arriva al 46% per la popolazione residente. Il paese dei campi. Il termine «nomadi» è spesso il termine usato a livello istituzionale per giustificare la politica dei campi. L’Italia è l’unico Paese in Europa dove esistono «campi» istituzionali, creati e gestiti dalle istituzioni, riservati esclusivamente a persone rom. Nel 2000, lo European Roma Rights Centre ha intitolato un suo celebre rapporto dedicato all’Italia «Il Paese dei campi»; le politiche di segregazione su base etnica dei rom messe in pratica attraverso un sistema abitativo al di sotto degli standard di sicurezza internazionali sono state condannate da numerose istituzioni europee e internazionali. Per essere precisi, l’Italia non è l’unico paese europeo nel quale i rom vivono nei campi, ma è l’unico paese europeo che ha istituzionalizzato il sistema dei “campi nomadi” scegliendolo come modalità ordinaria di intervento per gestire la presenza dei rom e dei sinti nelle nostre città e coinvolgendo nel sistema economico che attorno ai campi si è generato molte organizzazioni della società civile. Le risorse pubbliche destinate a “favorire l’inclusione abitativa e sociale” dei rom sono infatti per lo più investite nell’allestimento e nella gestione dei “campi” e nel finanziamento di interventi sociali che hanno i “campi” come loro baricentro. Come sottolineato nel rapporto Segregare costa, a cura delle associazioni Lunaria, Osservazione e Compare, il modello del “campo” richiama contemporaneamente due ordini di significati. Da un lato, in quanto proposto sempre come soluzione temporanea, il “campo” sottintende l’idea di una accoglienza tollerata e provvisoria dei rom che vi vengono “ospitati”. Dall’altro lato, la concezione del “campo” come area dedicata ad accogliere in una situazione emergenziale solo ed esclusivamente i rom e i sinti, in uno spazio periferico, recintato e sorvegliato, rinvia a pratiche di controllo e di segregazione “etnica” che contribuiscono a sancire e legittimare l’esclusione e il rifiuto delle popolazioni rom e sinte da parte della società maggioritaria (in aggiunta, più i “campi” sono grandi, maggiori sono le proteste e l’ostilità dei cittadini che abitano nelle zone limitrofe). Il sistema dei campi comporta una sistematica violazione dei diritti delle persone che ci abitano e non favorisce alcuna forma di integrazione. I campi, infatti, si trovano spesso al di fuori del tessuto urbano e distanti dai servizi primari, in aree dove spesso sono assenti o carenti i trasporti e i collegamenti. Questo isolamento comporta anche la difficoltà di frequentare le scuole per i bambini e di raggiungere il posto di lavoro per gli adulti. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie nei campi sono critiche, a causa di infrastrutture precarie e della scarsa manutenzione. La nascita dei “campi nomadi” risale alla fine degli anni Ottanta, quando, sotto la spinta dell’emergenza causata dai flussi migratori provenienti dall’ex Jugoslavia, le regioni decisero di realizzare programmi di intervento nel settore della tutela e della promozione dei Rom, regolando le modalità di allestimento di “aree attrezzate” di sosta all’interno del territorio. Le leggi regionali hanno riguardato soprattutto la localizzazione dei campi, i servizi di base che devono essere forniti, le condizioni di ingresso e di permanenza. Ai campi “ufficiali” vanno poi aggiunti gli insediamenti abusivi, impossibili da calcolare con esattezza per i continui sgomberi operati dalle forze dell’ordine, i quali versano in condizioni ancora peggiori. Studiosi ed esperti della questione Rom come Claudio Marta e Leonardo Piasere condividono l’idea che l’intervento legislativo più importante per la definizione della condizione dei Rom nelle principali città italiane sia individuabile in quel ciclo di leggi promulgate da nove regioni italiane a partire dal 198511. Questi provvedimenti sono stati pensati per una popolazione che si voleva “nomade”, per la quale non si doveva quindi ragionare nei termini di diritto e possibilità dell’abitare, ma soltanto regolando, ovvero limitando, il diritto a sostare. Da questa concezione derivano quindi le iniziative delle amministrazioni comunali che hanno creato “aree di transito” oppure di sosta solo temporanea. Queste aree sono divenute i “campi nomadi” che ancora oggi dominano nel dibattito politico sulla questione Rom: luoghi pensati per un abitare transitorio, che invece, a causa della mancata revisione di questi provvedimenti legislativi, hanno funzionato come la casa per diverse generazioni di Rom. Fino alla recente promulgazione dello stato di emergenza da parte del governo Berlusconi e all’elaborazione della Strategia Nazionale per i Rom, queste misure hanno rappresentato l’unico intervento legislativo esplicitamente destinato ai gruppi Rom presenti sul territorio nazionale. Tali politiche hanno comportato voci di spesa elevatissime senza far registrare alcun miglioramento nelle condizioni di vita di rom e sinti, ma ne hanno sistematicamente violato i diritti umani. La spesa pubblica per i campi nomadi. Da tempo si evidenzia lo spreco di risorse pubbliche che il mantenimento del sistema dei campi comporta. Per giustificare il mantenimento dei “campi nomadi” nell'ottica dell’impossibilità di immaginare percorsi di inserimento abitativo e sociale alternativi dei rom e dei sinti, si afferma spesso che “non ci sono risorse pubbliche sufficienti”. Il messaggio veicolato da questo approccio sostiene che “i campi” costituiscono la soluzione abitativa meno costosa che le amministrazioni pubbliche possono adottare. È sufficiente il già citato rapporto di Lunaria sui costi della segregazione per dimostrare l’infondatezza di questa tesi: tra il 2005 e il 2011 per allestire, gestire e mantenere i campi sono stati spesi a Napoli almeno 24,4 milioni di euro, a Roma circa 69,8 milioni, ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro stanziati per i progetti di scolarizzazione, e a Milano sono stati stanziati circa 2,7 milioni di euro, ma monitoraggio effettuato nel corso della ricerca è sicuramente parziale. Inoltre, gli interventi sociali, di formazione e di inserimento lavorativo a questi collegati non hanno raggiunto risultati 11 Claudio Marta, 2005, Relazioni interetniche. Prospettive antropologiche, Guida editore significativi nella direzione di una reale autonomia delle persone coinvolte. Anche se il sistema dei campi è stato definito più volte dispendioso e inefficace, nel 2012 sono stati costruiti nuovi insediamenti nei comuni di Roma, Giugliano, Carpi, Milano; queste operazioni hanno interessato 1.600 rom e sinti e hanno comportato una spesa totale di 13 milioni di euro (escluse le spese di gestione). Ancora nel 2013 a Roma sono stati spesi più di 22 milioni di euro per mantenere in piedi il sistema dei campi e dei centri di accoglienza per soli rom12. Una tematica strettamente connessa alla questione dei “campi” è quella relativa agli sgomberi forzati. Rispetto al 2013, nel 2014 il numero di sgomberi forzati in Italia è aumentato. A Roma ne sono stati documentati 34, che hanno coinvolto circa 1.135 persone per una spesa di 1,3 milioni di euro. A Milano, da gennaio a settembre del 2014, sono stati eseguiti 191 sgomberi che hanno coinvolto 2.276 persone. In molti casi gli sgomberi sono stati ordinati per l’apertura di cantieri legati all’Expo. Più recentemente, invece, sono aumentati in maniera vertiginosa gli sgomberi a Roma, per via dei lavori per il Giubileo che hanno interessato la città (nel 2015, già a marzo si contavano 64 sgomberi, circa 975 persone coinvolte per una spesa stimata di 1,2 milioni di euro)13. Secondo il diritto internazionale, le persone sgomberate dovrebbero ricevere un’alternativa valida e lo sgombero dovrebbe essere notificato in maniera scritta, ma queste garanzie non state quasi mai fornite a Roma e Milano. Inoltre le comunità vittime di sgombero forzato spesso si riorganizzano in nuovi insediamenti informali e ciò comporta solo uno spostamento del problema, a fronte di denaro pubblico speso male, diritti continuamente violati e crescente sentimento di sfiducia e diffidenza da parte dei gruppi rom verso le istituzioni italiane. Come ribadito anche dalla Commissione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli sgomberi forzati costituiscono «una evidente violazione dei diritti umani, in particolare del diritto a un alloggio adeguato» e sono definiti come «la rimozione permanente o temporanea di persone, famiglie o comunità contro la loro volontà dagli alloggi e/o dai terreni che occupano, senza che vengano fornite e che vi sia accesso a forme appropriate di tutela legale o di altre salvaguardie». Tali protezioni vanno poste in essere a prescindere dal fatto che l’alloggio o il terreno in questione sia di proprietà, in affitto o occupato. Il Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite ha specificato come gli sgomberi possano essere effettuati esclusivamente come ultima risorsa, dopo aver esaurito tutte le altre possibili alternative, e solamente quando vengano predisposte delle appropriate garanzie procedurali, quali: una genuina ed effettiva consultazione con gli interessati; la previsione e l’accesso a vie di ricorso legale e la possibilità di ottenere una compensazione adeguata per la perdita di beni privati; un preavviso congruo e ragionevole riguardo l’operazione e informazioni adeguate sulle modalità dell’operazione; la presenza di rappresentanti 12 Lunaria, Osservazione, Compare, 2012, Segregare costa. La spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma Milano; si veda anche Associazione 21 Luglio, Rapporto annuale 2014. 13 Associazione 21 Luglio, 2015, Peccato capitale. Briefing sugli sgomberi forzati di comunità rom a Roma in prossimità del Giubileo della Misericordia. istituzionali; il divieto di condurre lo sgombero durante le ore notturne o in condizioni meteorologiche avverse; la predisposizione di soluzioni alternative abitative adeguate per coloro che non sono in grado di provvedere a loro stessi; il divieto di rendere senza tetto le persone interessate dallo sgombero né di renderle vulnerabili a ulteriori violazioni dei diritti umani. Anche operazioni di sgombero che non prevedono l’utilizzo della forza, ma effettuate in assenza delle appropriate salvaguardie procedurali, costituiscono a tutti gli effetti degli sgomberi forzati. Dallo “stato di emergenza nomadi” alla popolazioni rom, sinti e caminanti. strategia nazionale per l'inclusione delle Nonostante i numeri molto contenuti nel nostro Paese, nel 2008 il Governo italiano, presieduto dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ha dichiarato lo «stato di emergenza nomadi» nelle regioni di Lazio, Campania e Lombardia. Sebbene le prime politiche segreganti nei confronti di rom e sinti siano databili agli anni ’60 e la loro successiva istituzionalizzazione, attraverso l’emanazione di Leggi Regionali ad hoc, risalga agli anni ’80, il periodo dell’”emergenza nomadi” varato nel 2008 ha rappresentato l’apice di un approccio improntato alla sicurezza e al controllo che si è tradotto in politiche discriminatorie e sistematiche violazioni dei diritti umani. L’”emergenza nomadi”, inizialmente di durata annuale, viene nuovamente rinnovata nel maggio del 2009 ed estesa alle Regioni Veneto e Piemonte, e nel dicembre 2010 viene ulteriormente rinnovata fino al 31 dicembre 2011. La dichiarazione dello stato di emergenza e le seguenti ordinanze di protezione civile per affrontare il problema delle presenze di nomadi rappresentano una novità nella legislazione italiana perché questi strumenti sono normalmente utilizzati in caso di calamità naturali. Tale scelta segnala uno slittamento di segmenti rilevanti delle politiche sociali, ed in particolare degli interventi sull’immigrazione, in quello spazio dell’architettura istituzionale pensato per fronteggiare le situazioni di crisi. Se ad aprile 2013, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità della cosiddetta emergenza nomadi», non rilevando il nesso di causalità tra la presenza di rom e una straordinaria turbativa dell’ordine e della sicurezza pubblica, già nelle prime settimane del 2012, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) ha presentato la Strategia Nazionale d’Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti; non un intervento legislativo, ma un atto d’impegno approvato dal Governo ed elaborato da un Ufficio direttamente dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che delinea un’ampia serie di mutamenti istituzionali e di interventi legislativi sulla questione Rom. La Strategia Nazionale deve essere considerata come un punto di rottura radicale nelle politiche per i Rom, anche se la sua implementazione risultata tuttora problematica e lontana dal produrre risultati tangibili. Valutandone i buoni propositi, occorre evidenziare innanzitutto che il documento è il frutto di un ampio percorso consultivo, lungo il quale sono state ascoltate numerose realtà dell’associazionismo sia Rom che italiano. Inoltre, la Strategia prospetta una gamma di iniziative e mutamenti che per ampiezza e profondità non possono essere paragonate ai precedenti interventi, fino a delineare una logica complessiva delle misure per i Rom. Anche se tale mutamento di approccio alle politiche per i Rom può essere valutato soltanto a livello di documenti d’indirizzo delle politiche, perché ancora critica appare l'implementazione, esso segna un’importante discontinuità rispetto al passato per due motivi. Il primo riguarda la scelta per il superamento della prospettiva emergenziale, della soluzione dei “campi” e dell’approccio assistenzialista, per l’adozione di un approccio fondato sui diritti, l’abbandono della concezione del nomadismo e per un uso maggiore e più efficace delle opportunità di finanziamento europeo. Il secondo motivo riguarda il fatto che per la prima volta si adotta un quadro strategico nazionale univoco per l’“integrazione” dei rom, volto a fornire unitarietà di intenti alla programmazione delle politiche sul territorio, nel rispetto delle competenze delle autonomie locali. Attraverso un approccio integrato e fondato sui principi della concertazione e del coinvolgimento di tutte le parti interessate, sono state definite quattro azioni di sistema per: aumentare il capacity building istituzionale e della società civile per l’integrazione dei rom; promuovere un sistema integrato permanente di reti e centri territoriali contro le discriminazioni; programmare una strategia integrata di informazione, comunicazione e mediazione allo scopo di abbattere pregiudizi e stereotipi; elaborare e sperimentare un modello di partecipazione delle comunità rom ai processi decisionali nazionali e locali. Queste azioni di sistema hanno lo scopo di sostenere azioni specifiche all’interno di quattro linee di intervento settoriali riguardanti l’istruzione, il lavoro, la salute e l’alloggio. La strategia nazionale di inclusione e il superamento dei “campi nomadi”. Per il superamento dei campi rom, così come previsto nella Strategia Nazionale per l'Inclusione RSC, è necessario che le istituzioni locali cambino del tutto l’approccio culturale, politico e amministrativo con il quale sino ad oggi hanno gestito la presenza dei rom e dei sinti nel nostro paese. Come da più parti sostenuto, non servono soluzioni “speciali”, “temporanee” e “ghettizzanti”, servono progetti di inclusione abitativa, sociale e lavorativa finalizzati all’autonomia. Naturalmente lo smantellamento di un sistema così radicato nel tempo richiede una pianificazione, una programmazione, una precisa strategia di intervento, il coinvolgimento diretto delle popolazioni rom e sinte nella sua progettazione, risorse dedicate, tempi certi e l’adozione di percorsi differenziati che tengano conto della diversità delle situazioni familiari dal punto di vista giuridico, economico e sociale. Pianificare la chiusura dei campi rom significa innanzitutto prefigurare e costruire materialmente soluzioni abitative alternative ai “campi”, sostituendo al modello del campo quello dell’abitazione non ghettizzante prima di chiudere i “campi” e concordando con i residenti i tempi e le modalità del cambiamento abitativo. Inoltre, prendere le distanze dal “modello campo” significa immaginare una strategia plurale, se si considera l'eterogeneità del mondo rom e la pluralità dei percorsi e dei progetti che si manifestano al suo interno. In assenza di un modello omogeneo che possa semplicemente sostituire il “campo nomadi”, allora lavorare al superamento dei campi significa assumere la questione della diversificazione dei gruppi rom, dei loro percorsi di insediamento e dei contesti locali, come variabile essenziale per l'efficacia degli interventi. Le alternative possibili sono molte: dal sostegno all’inserimento abitativo autonomo in abitazioni ordinarie, all’inserimento in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate. Ciò che è certo è che senza il diretto coinvolgimento dei rom e dei sinti nessuno dei percorsi scelti può avere successo. Se il cammino verso il superamento dei campi rom è tortuoso e solo all'inizio, risulta interessante valutare la vicenda relativa al "villaggio attrezzato" la Barbuta di Roma, realizzato nel 2012 dall'Amministrazione capitolina. Nel merito, nell’aprile dello stesso anno l’Associazione 21 luglio e l’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) avevano promosso un’azione legale contro il Comune di Roma attraverso il sostegno dell’Open Society Foundations e il supporto di Amnesty International e del Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC). Il 30 maggio 2015, la seconda sezione del Tribunale Civile di Roma ha emesso una sentenza dal carattere storico che riconosce «il carattere discriminatorio di natura indiretta della complessiva condotta di Roma Capitale […] che si concretizza nell’assegnazione degli alloggi del villaggio attrezzato La Barbuta», ordinando di conseguenza al Comune di Roma «la cessazione della suddetta condotta nel suo complesso, quale descritta in motivazione, e la rimozione dei relativi effetti». Dunque, è stata accolta pienamente la tesi espressa nel ricorso dalle due organizzazioni che hanno sostenuto come il “villaggio” La Barbuta debba considerarsi discriminatorio – e quindi illegittimo – già per il solo fatto di rappresentare una soluzione abitativa di grandi dimensioni rivolta a un gruppo etnico specifico e comunque priva dei caratteri tipici di un’azione positiva. «Deve infatti intendersi discriminatoria qualsiasi soluzione abitativa di grandi dimensioni diretta esclusivamente a persone appartenenti a una stessa etnia, tanto più se realizzata, come nel caso dell’insediamento sito in località La Barbuta, in modo da ostacolare l’effettiva convivenza con la popolazione locale, l’accesso in condizione di reale parità ai servizi scolastici e sociosanitari e situato in uno spazio dove è posta a serio rischio la salute delle persone ospitate al suo interno». Questa sentenza ha confermato, per la prima volta in Europa, il carattere discriminatorio di un “campo nomadi”, luogo ormai riconosciuto, anche a livello internazionale, come spazio di segregazione e di discriminazione su base etnica. I principi dell'inclusione rom nelle politiche pubbliche. Riportiamo sinteticamente, a conclusione di questo approfondimento, i principi recepiti a livello europeo e presentati per la prima volta nell'ambito della piattaforma europea per l'inclusione dei Rom14, ritenendoli molto utili alla definizione di un nuovo immaginario per le politiche pubbliche rivolte alle popolazioni rom che vivono sul territorio comunitario. Politiche costruttive, pragmatiche e non discriminatorie. Politiche adatte alla situazione esistente: la progettazione, l’attuazione e la valutazione di politiche e progetti non dovrebbero essere basate su 14 Unione Europea, 2010, Vademecum: I 10 principi di base comuni sull'inclusione dei Rom preconcetti, ma sulla situazione reale dei Rom. Per soddisfare tale requisito, si dovrebbe prestare attenzione a studi e altre fonti d’informazione, dovrebbero essere effettuate visite in loco e, idealmente, si dovrebbero coinvolgere i Rom nel processo di progettazione, attuazione o valutazione di politiche e progetti. Approccio mirato esplicito ma non esclusivo. Nel dibattito in corso sulle modalità più efficaci per rispondere ai bisogni delle minoranze etniche si scontrano due approcci: uno specifico (rivolto ad una particolare minoranza) ed uno generale (rivolto a tutti). Il secondo principio ci consente di superare tale sistema dualistico, con l’introduzione di un «approccio mirato esplicito ma non esclusivo». Tale approccio implica che ci si concentri sui Rom come gruppo target senza escludere altri soggetti che vivano in condizioni socio-economiche simili, sviluppando politiche per quartieri socialmente svantaggiati e non per determinati gruppi (etnici), prestando attenzione al possibile impatto negativo di politiche di più ampio respiro nell’affrontare i problemi specifici dei Rom. L’approccio mirato esplicitamente, ma non esclusivamente, ai Rom è fondamentale per le iniziative politiche di inclusione e non separa dunque gli interventi incentrati sui Rom da altre iniziative politiche più ampie. Approccio interculturale. Vi è la necessità di un approccio interculturale che coinvolga i Rom congiuntamente a persone provenienti da contesti etnici diversi. Essenziali per l’efficacia della comunicazione e delle politiche, l’apprendimento e le competenze interculturali meritano di essere sostenuti quanto la lotta ai pregiudizi e agli stereotipi. L’adozione di misure intese a promuovere l’inclusione di una minoranza etnica solleva spesso il timore che l’integrazione si traduca in un’assimilazione culturale. Anziché riferirsi a identità culturali, politiche e progetti debbano concentrarsi sulla promozione di apprendimento e competenze interculturali. Tramite questo approccio, la società nel suo complesso viene dotata di strumenti e competenze che le permettono di comprendere la cultura Rom, mentre i Rom possono acquisire strumenti e competenze che consentono loro di comprendere la cultura della maggioranza della popolazione. Di conseguenza, promuovere la comprensione reciproca aiuta ad affrontare il pregiudizio da ambo le parti. Questo metodo comunque deve essere attuato senza derogare ai diritti umani fondamentali. Mirare all’integrazione generale. Tutte le politiche di inclusione mirano ad inserire i Rom nella società generale (istituti di istruzione, lavori e alloggi non riservati). Laddove esistano ancora forme di istruzione o alloggi separati, le politiche per l’inclusione dei Rom devono mirare a superare questo retaggio. E’ assolutamente da evitare lo sviluppo di mercati del lavoro dei Rom artificiali e separati. Questo principio attira l’attenzione sull’impatto a lungo termine di politiche e progetti dal momento che essi talvolta, nonostante siano intesi a sostenere l’integrazione dei Rom, possono finire con il rafforzarne la segregazione. Ad esempio, sostenere il rinnovo degli alloggi per i Rom potrebbe, a prima vista, contribuire a combatterne l’esclusione sociale. Tuttavia, se le abitazioni in questione sono geograficamente isolate (se lontane ad esempio, dai collegamenti dei trasporti pubblici), esse nella realtà contribuiscono a mantenere i Rom segregati rispetto al resto della società. Analogamente, promuovere l’artigianato Rom come fonte di reddito contribuisce a sostenere la partecipazione di questa minoranza al mercato del lavoro, ma rischia anche di creare mercati del lavoro artificiali e separati. Consapevolezza della dimensione di genere. Le iniziative politiche per l’inclusione dei Rom devono tener conto delle necessità e della situazione delle donne Rom, occupandosi di questioni quali la discriminazione multipla e i problemi di accesso alle cure sanitarie e al sostegno all’infanzia, ma anche di violenza domestica e sfruttamento. Le donne Rom hanno più probabilità di scontrarsi con l’esclusione sociale rispetto sia agli uomini Rom che alle altre donne. Le donne Rom, infatti, sono particolarmente vulnerabili e sono svantaggiate nell’accesso all’occupazione, all’educazione ed ai servizi sociali e sanitari. Spesso sono oggetto di una doppia discriminazione, sulla base sia del genere che dell’origine etnica. Inoltre, corrono un rischio superiore di essere vittime di violenza domestica, tratta e sfruttamento. Occorre dunque incentivare la partecipazione delle donne rom negli organi consultivi o nei comitati di monitoraggio oltre che nella promozione dell’inclusione sociale (ad esempio in qualità di mediatrici per l’integrazione dei bambini nel sistema educativo). Divulgazione di politiche basate su dati comprovati. È essenziale che gli Stati membri apprendano dalle proprie esperienze di sviluppo di iniziative per l’inclusione dei Rom e che condividano tali insegnamenti con altri Stati membri. Laddove opportuno, si deve anche tener conto degli esempi e delle esperienze di politiche di inclusione sociale riguardanti altri gruppi vulnerabili provenienti sia dall’UE che da paesi extraeuropei. Per beneficiare dell’esperienza, le buone prassi devono essere messe in risalto e divulgate, utilizzando e coniugando le informazioni esistenti e, ove opportuno, raccogliendo dati (in linea con la normativa per la tutela dei dati personali) al fine di monitorare gli sviluppi dei progetti e delle politiche. Uso di strumenti dell’Unione europea. Nello sviluppo e nell’attuazione delle loro politiche finalizzate all’inclusione dei Rom, è essenziale che gli Stati membri utilizzino al meglio gli strumenti offerti dall’Unione europea, siano essi giuridici (direttiva sull’uguaglianza razziale, decisione quadro sul razzismo e sulla xenofobia), finanziari (Fondo sociale europeo, Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, strumento di assistenza preadesione) o di coordinamento (metodo aperto di coordinamento). Coinvolgimento degli enti regionali e locali. Gli Stati membri devono progettare, sviluppare, attuare e valutare le iniziative politiche per l’inclusione dei Rom in stretta collaborazione con gli enti locali e regionali, che svolgono un ruolo chiave nell’attuazione pratica delle politiche. Coinvolgimento della società civile. Gli Stati membri devono inoltre progettare, sviluppare, attuare e valutare le iniziative politiche per l’inclusione dei Rom in stretta collaborazione con attori della società civile, quali organizzazioni non governative, parti sociali ed accademici/ricercatori. Il coinvolgimento della società civile è considerato vitale sia per la mobilitazione delle competenze sia per la diffusione delle conoscenze necessarie per sviluppare il dibattito pubblico e la responsabilità democratica nel corso dell’intero processo politico. Partecipazione attiva dei Rom. L’efficacia delle politiche è rafforzata con il coinvolgimento dei Rom in ogni fase del processo. Tale coinvolgimento deve prodursi sia a livello nazionale sia a livello europeo tramite i suggerimenti di esperti e funzionari Rom e tramite la consultazione di una rosa di parti interessate nel processo di progettazione, attuazione e valutazione delle iniziative politiche. Sono altresì fondamentali il sostegno alla piena partecipazione dei Rom alla vita pubblica, la promozione della loro cittadinanza attiva e lo sviluppo delle loro risorse umane. Bibliografia di riferimento - Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Istituto degli Innocenti, 2015, Quaderno del progetto nazionale per l'inclusione e l'integrazione dei bambini rom, sinti e caminanti; - Associazione 21 Luglio, 2015, Antiziganismo 2.0, Rapporto Osservatorio (2013-2014); - Associazione 21 Luglio, 2015, Peccato capitale. Briefing sugli sgomberi forzati di comunità rom a Roma in prossimità del Giubileo della Misericordia; - Associazione 21 Luglio, 2014, Rapporto annuale 2014; - Decade of Roma Inclusion, Open Society Foundation, 2014, La tela di Penelope. Monitoraggio della società civile sull'attuazione della Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti in Italia; - Associazione 21 Luglio, 2013, Figli dei campi. Libro bianco sulla condizione dell'infanzia rom in emergenza abitativa in Italia; - Lunaria, Osservazione, Compare, 2012, Segregare costa. La spesa per i campi nomadi a Napoli, Roma Milano; - Soros Foundation, EU INLUSIVE, 2012, Rapporto Nazionale sulle Buone Pratiche di Inclusione Sociale e Lavorativa dei Rom in Italia; - L.Piasere, 2012, Scenari dell'antiziganismo. Tra Europa e Italia, tra antropologia e politica, Seid Editori - Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, 2011, Rapporto conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia; - Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, 2011, Strategia nazionale di inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti; - Iref, 2011, Rom, Sinti, Caminanti e comunitò locali. Studio sulle popolazioni Rom, Sinte e Camminanti presenti nelle Regioni Convergenza; - Aa.Vv., 2011, Il circuito del separatismo. Buone pratiche e linee guida per la questione Rom nelle regioni Obiettivo Convergenza, Armando Editore; - Iref, Unar, 2010, Oltre il separatismo socio-abitativo. Studio volto alla promozione della governance delle politiche e degli strumenti di inclusione sociale e di contrasto alla discriminazione nei confronti delle comunità Rom, Sinti e Camminanti; - Unione Europea, 2010, Vademecum: I 10 principi di base comuni sull'inclusione dei Rom; - L. Piasere, 2009, I rom d'Europa, una storia moderna, Ed.Laterza; - N.Sigona, 2009, I rom nell’Europa neoliberale: antiziganismo, povertà e i limiti dell’etnopolitica, in Razzismo Democratico; - C. Marta, 2005, Relazioni interetniche. Prospettive antropologiche, Guida editore; - L.Piasere, 2003, Breve storia dei rapporti tra rom e gagè in europa, in Alla periferia del mondo. Il popolo dei rom e dei sinti escluso dalla storia, Fondazione Roberto Franceschi; - A.S.Spinelli, 2003, Baro romano drom. La lunga strada dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals, Meltemi, Roma; - N.Sigona, 2002, Figli del ghetto. Gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari, Nonluoghi Libere Edizioni