Profughi e non Rifugiati ambientali: UN VIAGGIO SCONOSCIUTO UNA TUTELA ANCORA DEBOLE Don Gian Carlo Perego Direttore Fondazione Migrantes CREMONA 6.2.2015 I cambiamenti climatici sono destinati ad avere sempre più ripercussioni nel contesto delle migrazioni, costringendo singoli, nuclei ma anche intere popolazioni a lasciare i luoghi di origine, alla ricerca di spazi più idonei per vivere. Solitamente, la distinzione tra migrazioni volontarie e forzate ascrive, alle prime, gli spostamenti per motivi economici e, alle seconde, i movimenti legati a richiedenti asilo. In teoria, le migrazioni economiche dovrebbero avvenire nel rispetto delle normative dei paesi di destinazione, con passaporto e visto ove richiesto. Nel caso delle migrazioni forzate, esse avvengono sistematicamente in condizioni di irregolarità, non essendo ad oggi previste forme di ingresso protetto, se si escludono i casi limitati di reinsediamento. Ai richiedenti asilo che riescono in qualche modo a lasciare il proprio paese, attraverso la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951 e le più recenti direttive europee, possono essere riconosciute forme di protezione internazionale che consentono una permanenza regolare nel paese di destinazione. La Convenzione di Ginevra considera rifugiato colui che, “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. La persecuzione è quindi l’elemento fondante di questo istituto che, pertanto, non può applicarsi al caso dei c.d. rifugiati ambientali. Le direttive europee, recepite nel 2007 e nel 2008 nella normativa italiana, contemplano nel contesto della protezione internazionale, di cui lo status di rifugiato costituisce la forma più elevata, una categoria di protezione c.d. sussidiaria, riconoscibile in caso di danno grave. In questo ambito possono rientrare solitamente le vittime di guerra civile, violenza generalizzata etc. Diversamente da altri paesi che non la prevedono su base normativa, l’Italia garantisce anche la protezione temporanea in caso di “rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi no appartenenti all’UE” (art. 20 d.lgs. 286/1998). Tuttavia, diversamente dalla protezione internazionale che offre uno status stabile /permanente, l’attribuzione della protezione temporanea può essere attivata solo a seguito della pubblicazione di un decreto ad hoc del Presidente del Consiglio e dà diritto a un permesso di soggiorno temporaneo. Prima del 1998, forme di permesso temporaneo erano state garantite fin dal 1992 a cittadini somali, albanesi, ex jugoslavi, in occasione di particolari crisi interne. Tale protezione, pur non corrispondendo a uno status vero e proprio, porta al rilascio di un permesso di soggiorno di un anno rinnovabile con la possibilità di lavorare. E’ probabile che anche in questa situazione siano inseribili i rifugiati ambientali, ma i dati numerici e qualitativi in materia non consentono ancora una valutazione oggettiva. I rifugiati ambientali nel 2013 sono stati 22 milioni, quasi tre volte il numero di rifugiati causato da guerre e conflitti. Dagli anni ‘70 sono raddoppiati. Il Rapporto Global estimates 2014: people displaced by disasters redatto dal Norwegian refugees council (Nrc) insieme all’Internal displacement monitoring centre (Idmc) fa il punto su una delle più grandi sfide che la comunità internazionale dovrà affrontare nei prossimi anni: gestire un numero crescente di persone costrette ad abbandonare la propria casa in seguito al verificarsi di catastrofi naturali. L’85% dei Paesi colpiti sono Paesi poveri, con il 99% delle morti e il 90% delle perdite economiche, pur essendo responsabili dell’1% del le emissioni mondiali. Ogni anno si contano mediamente dalle 300 alle 350.000 vittime. Nel novembre 2013 il tifone Haiyan ha colpito le Filippine costringendo oltre 4 milioni di persone ad abbandonare le loro case, un milione in più di tutti gli altri rifugiati ambientali di Europa, Oceania, Africa e America. Un’altra causa di migrazioni forzate ambientali sono state le inondazioni che si sono avute nell’Africa sub sahariana, soprattutto in Niger, Ciad, Sudan e Sud Sudan. Con l’aumento della popolazione in Africa – del 100% nel 2050 – si prevedono da questo paese più profughi ambientali nei prossimi anni. Per quanto riguarda i Paesi industrializzati vanno citati il tifone Man-yi che a settembre 2013 ha colpito il Giappone e ha causato 260.000 rifugiati e la serie di tornado che a maggio ha colpito l’Oklaoma, negli Stati Uniti, costringendo 218.000 a cambiare casa. Il 23 settembre 2015 si terrà a New York il Climat summit organizzato dall’ONU – dove è previsto anche un intervento di Papa Francesco, alla luce anche dell’enciclica sull’ambiente e i cambiamenti climatici la cui uscita è prevista – come ha detto Papa Francesco ai giornalisti nel viaggio per Manila - per il giugno prossimo. Si tratta della prima enciclica dedicata esclusivamente ai temi ambientali. Le migrazioni ambientali possono derivare non solo da catastrofi naturali inaspettate e violente quali inondazioni, tsunami, terremoti, cicloni o incendi che costringono le persone ad abbandonare improvvisamente le proprie abitazioni, ma anche da disastri determinati da cambiamenti lenti e quasi impercettibili, come la degradazione del suolo, la deforestazione, la desertificazione, l’inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’aria, la salinizzazione delle terre irrigate, l’erosione delle coste e delle rive dei fiumi, l’innalzamento del livello del mare e simili. I disastri naturali, oltre al numero consistente di sfollati, favoriscono la nascita e la diffusione di epidemie, povertà, fame e di problemi sanitari. È importante infatti ricordare che non si possono studiare le questioni relative al degrado o alle catastrofi dell'ambiente senza considerare i legami con i temi sociali, politici ed economici. Per fare un esempio si pensi alla Somalia, paese in crisi che ogni anno produce molti profughi che possono definirsi contemporaneamente politici, economici ed ambientali. Lo stato africano presenta una situazione in cui i problemi ecologici, la sovrappopolazione e la desertificazione stanno devastando l’economia del paese, basata principalmente sulla pastorizia. Il deserto del Sahara, ad esempio, avanza prepotentemente ogni anno, spingendo sempre di più gli abitanti del Marocco , della Tunisia e dell’Algeria verso nord, verso il Mediterraneo. Dove andranno a chiedere aiuto? In Europa, in Italia e in Spagna probabilmente. La desertificazione, quindi, non è chiaramente un problema solo africano. Non dimentichiamo che tra le nazioni da cui provenivano i 170.000 che sono arrivati in Italia nel 2014 attraverso il Mediterraneo ci sono la Somalia (5756), il Bangladech (4386). Il fenomeno delle migrazioni ambientali, però, riguarderà anche la penisola italiana non solo come paese di destinazione per l’afflusso di profughi ma anche come probabile luogo di partenza. Il mare si alza e fa diminuire il territorio abitabile e coltivabile ma anche la desertificazione avanza, soprattutto nelle regioni meridionali, sottraendo terre all’agricoltura, fondamentale nelle economie del sud Italia. Studi in materia hanno calcolato che negli ultimi 20 anni il nostro Paese ha visto moltiplicare l’inaridimento del suolo, valutando che il 27 per cento del territorio nazionale corre il rischio di trasformarsi in deserto . Secondo il Rapporto di Legambiente del 2010 la regione più a rischio è la Puglia con il 60% della sua superficie, seguita da Basilicata (54%), Sicilia (47%) e Sardegna (31%) . Gli effetti del riscaldamento globale non conoscono, dunque, confini geografici ma quali sono le aree che maggiormente soffrono e soffriranno a causa del cambiamento climatico? Flussi abbondanti partono, ad esempio, da zone in cui le falde idriche sono già in diminuzione ed interesseranno fondamentalmente le regioni aride e semiaride, dove la popolazione sta superando la disponibilità locale d’acqua. L’India nord-occidentale, ad esempio, vede fin da ora lo svuotamento dei propri villaggi, abbandonati mano a mano che gli acquiferi si esauriscono e la popolazione diminuisce le proprie possibilità di accesso all’acqua. Lo stesso accade nel nord e nell’ovest della Cina, in Messico, in Iran, in Nigeria – da dove nel 2014 sono arrivate attraverso il Mediterraneo oltre 9000 persone, 4 volte in più rispetto al 2013 -ed in molte altre parti del globo terrestre. La desertificazione e la scarsità d’acqua sono due criticità molto importanti per capire la mobilità umana legata al fenomeno ambientale ma forse un nodo altrettanto importante da risolvere riguarderà ancora di più in futuro, l’innalzamento dei mari. Le popolazioni più a rischio sono quelle che vivono nelle isole, in particolare nei piccoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Basti pensare che in Papua Nuova Guinea gli abitanti delle isole Carteret hanno lottato ogni giorno da venti anni contro l’avanzare dell’oceano ma saranno obbligati tutti a lasciare le loro case . Queste popolazioni non avranno più un territorio nazionale in cui vivere e saranno costretti ad emigrare completamente . Il problema della migrazione causata da problemi ambientali è oramai noto alle potenze politiche internazionali ed stato esposto più volte nelle diverse conferenze delle Parti (COP) sia a Cancún nel 2010 che a Doha nel 2012, ma non si è mai arrivati a soluzioni definitive. Anche l’UE ha dovuto affrontare la questione. Nel 2008 Javier Solana, ex Alto Rappresentante per la politica estera, ha approvato un documento intitolato “Cambiamenti climatici e sicurezza internazionale” e nel 2012 il Consiglio dell’UE ha deciso di aumentare l’attenzione al problema implementando la ricerca per conoscere i legami tra cambiamenti climatici e migrazioni. Sono state elaborate delle stime e delle previsioni sul numero di quanti emigrano e emigreranno a seguito di problemi climatici ed ambientali. Secondo i calcoli dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni entro il 2050 si raggiungeranno i 200250 milioni di persone costrette a lasciare i propri territori. Stime ancor più negative provengono dall’organizzazione non governativa Christian Aid che porta il numero dei profughi ambientali circa un miliardo nel 2050, di cui 250 milioni a causa di inondazioni, uragani e 645 milioni a causa della costruzione di dighe o per la realizzazione di altri progetti . La questione è aperta e gli Stati che riceveranno un’immigrazione di massa provocata dal cambiamento climatico e dal degrado dell’ambiente dovranno organizzarsi per dare l’avvio a politiche concrete di accoglienza ed integrazione, difficili da attuare senza un previo riconoscimento giuridico dello status di profugo ambientale. È auspicabile quindi una definizione concreta che definisca chi rientra nella categoria. La storia dimostra che non si può impedire l’emigrazione né contenerla attraverso la costruzione di muri o controlli alle frontiere, il problema va affrontato alla radice: finché il clima costringerà la persone a fuggire, non ci sarà altra via che quella dell’accoglienza e dell’integrazione. «Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti “profughi ambientali”: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo?». . Le domande che papa Benedetto XVI poneva nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2010 interpellano la nostra responsabilità politica e sociale