CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 17 dicembre 2014, n. 26475 Svolgimento del processo 1. A seguito di verifica fiscale della G.d.F., a De. Li. era notificato avviso di accertamento a mezzo del quale l'amministrazione finanziaria, constatata l'irregolarità formale della documentazione fiscale, segnatamente in punto di vidimazione del registro unico tenuto ai fini IVA, portante un numero di repertorio notarile non corrispondente al vero, in quanto dalle dichiarazioni rese ai verbalizzanti dal notaio era emerso che il sigillo gli era stato sottratto e che il numero di repertorio identificava il trasferimento di un automezzo, rettificava la dichiarazione IVA di detto contribuente per l'anno 1999, liquidava le maggiori imposte dovute e irrogava le corrispondenti sanzioni tributarie. Accolto in primo grado il ricorso del contribuente sulla considerazione che l'asserita irregolarità della vidimazione non inficiava il contenuto del registro e che in ogni caso l'obbligo di vidimazione era stato abrogato a decorrere del 2001, l'appello dell'ufficio era accolto dalla CTR Sicilia con la sentenza qui impugnata, che ha confermato la legittimità dell'accertamento rilevando che, sulla base delle trascritte premesse di fatto, era stata dimostrata "con certezza che la vidimazione del registro IVA era irregolare e quindi era legittimo il ricorso all'accertamento induttivo" e che "nulla rilevavano le affermazioni della parte in merito alla circostanza che la vidimazione non era più obbligatoria dal 2001". La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dal De. in virtù di sette motivi di ricorso. L'ufficio resiste con controricorso. Motivi della decisione 2.1. Va esaminato preliminarmente in ragione della sua pregiudiziale assorbenza se fondato il quarto motivo di ricorso per mezzo del quale l'impugnante denunzia la violazione e/o falsa applicazione di legge per gli effetti dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. in relazione all'art. 2909 c.c. in cui sarebbe incorso il giudice territoriale per aver ignorato, "il giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito", posto che in relazione alle pregresse annualità 1997 e 1998, parimenti oggetto di accertamento a seguito della verifica a cui aveva dato luogo l'anno qui opposto, la stessa sezione della CTR rispettivamente con sentenze 95/35/07 e 93/35/07, passate in giudicato, aveva rilevato a conferma delle pronunce di primo grado già favorevoli al contribuente "che i registri IVA che l'ufficio ritiene di non essere vidimati per mancanza di riconoscimento della firma da parte del notaio, al contrario, risultano vidimati" riportando la firma ed il sigillo del pubblico ufficiale vidimante. 2.2. Il motivo è infondato. Risolvendo un contrasto tutto interno alla sezione tributaria di questa Corte, le Sezioni Unite con la sentenza 13916/2006 hanno affermato il principio, evidenziandone la coerenza non solo con l'oggetto del giudizio tributario, ma con la natura unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, secondo cui l'efficacia del giudicato, "riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell'autonomia dei periodi d'imposta, in quanto l'indifferenza della fattispecie costitutiva dell'obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d'imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all'applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente". A questo insegnamento, che dunque come ancora precisato di recente porta a riconoscere l'efficacia del giudicato esterno "anche con riferimento alle imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi solo per quanto attiene le qualificazioni giuridiche o altri elementi preliminari all'applicazione di una specifica disciplina tributaria, correlati ad un interesse protetto avente il carattere della durevolezza, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l'accertamento relativo ai diversi anni d'imposta debba fondarsi su dati e ricostruzioni contabili diversi" (Cass. n. 18907/2011; Cass. n. 18002/2012; Cass. n. 24001/2013, Cass. n. 4631/2014), si è affiancato con riguardo all'area dei tributi armonizzati un atteggiamento di maggior prudenza interpretativa (Cass. n. 12249/2010; Cass. n. 20029/2011; Cass. n. 16996/2012; Cass. n. 10781/2013), volto a ridisegnare il perimetro applicativo della cosa giudicata anche in relazione a quegli stessi elementi tendenzialmente permanenti o espressivi di un carattere di durevolezza che ne giustificano altrimenti il riconoscimento, allorché la vis expansiva che riguardo ad essi si è portati ad attribuire all'efficacia del giudicato risulti configgente con il diritto comunitario ed, in particolare, precluda la repressione dei fenomeni di abuso. Ciò in specie dopo che la Corte di Giustizia CE (Corte giust, 3.9.2009, C-2/08), sul rinvio pregiudiziale disposto nel caso Olimpiclub da questa Corte, che si era chiesta ed aveva chiesto in che misura l'autorità del giudicato fosse invocabile nelle controversie in materia IVA, si è sentita in obbligo di avvertire che "il diritto comunitario osta all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l'art. 2909 c.c. (il quale prevede che l'"accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa") in una causa vertente sull'IVA concernente un'annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva e su di una questione che, con riferimento allo stesso soggetto, sia già stata definita con autorità di cosa giudicata per un diverso periodo d'imposta, nella ipotesi in cui l'applicazione di tale giudicato esterno impedisca al giudice nazionale di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta". 2.3. Su queste premesse, l'eccezione di giudicato sollevata dal ricorrente, si presta ad un'agevole definizione nel senso già anticipato della sua infondatezza. Quando invero non si ritenesse assorbente la considerazione che estendere l'efficacia del giudicato discendente dalla duplice sentenza dei giudici siciliani all'odierna controversia, che si ricorda trae origine da una omessa registrazione di ricavi, equivale all'effetto di legittimare una condotta che, per quanto riguarda l'IVA, sostanziandosi nell'indebita sottrazione di materia imponibile, si colloca ex se in un ambito in cui la prevalenza del diritto comunitario è fuori discussione e con essa pure la conseguente indifferenza della fattispecie ad ogni precedente vincolante che ne precluda la concreta disamina, non si potrebbe in ogni caso fare a meno di osservare che la pretesa di veder regolata l'odierna vicenda processuale sulla base dei precedenti formatisi altrove in nome della superiore efficacia della cosa giudicata non è coerente rispetto al ricostruito quadro interpretativo. Le Sezioni Unite, all'atto di decretare con la vista determinazione l'efficacia del giudicato in relazione agli "elementi costitutivi della fattispecie a carattere tendenzialmente permanente" si sono infatti date anche cura di soccorrere l'interprete nel difficile compito di sceverare nella disamina della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, senza perseguire con ciò alcuna finalità esaustiva, questi elementi, soggetti alla naturale forza espansiva del giudicato, da "quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo" e che come tali, in ragione della loro ricorrente mutevolezza, risultano indifferenti all'accertamento che riguardo ad essi venga compiuto in un altro giudizio. E con un elencazione, certo esemplificativa, ma rappresentativa del carattere della stabilità o, come pure si è detto, "della durevolezza", almeno fino a quando non ne sia dimostrato il mutamento, che questi elementi debbono possedere, le Sezioni Unite hanno precisato che siffatta caratteristica è associabile ad es. alle "qualificazioni giuridiche (che individuano vere e proprie situazioni di fatto) - "ente commerciale", "ente non commerciale", "soggetto residente", "soggetto non residente", "bene di interesse storico-artistico", ecc. - assunte dal legislatore quali elementi "preliminari" per l'applicazione di una specifica disciplina tributaria e per la determinazione in concreto dell'obbligazione per una pluralità di periodi d'imposta (a valere, cioè, fino a quando quella qualificazione non sia venuta meno fattualmente - ad es. trasformazione dell'ente non commerciale in ente commerciale - o normativamente)", escludendo implicitamente che tali siano tutti quei diversi fatti che, in ragione della loro mutevolezza nel tempo o se si vuole della semplice loro incostanza, risultino privi di un carattere di tendenziale stabilità. I giudicati siciliani, diversamente da quanto auspicato, non solo hanno riguardato gli anni di imposta 1997 e 1998 e non l'anno 1999, di cui qui si discute, sicché la regolare vidimazioni del registro unico da essi constatata per quegli anni può al più precludere che di ciò si faccia nuovamente materia di giudizio e cioè che della regolarità della vidimazione per gli anni 1997 e 1998 non si discuta più né qui né altrove; ma neppure facendo tesoro del ricordato insegnamento delle S.U. è possibile pervenire ad una diversa conclusione, poiché l'accertamento operato dai giudici territoriali, del quale qui si invoca la pregiudiziale e preclusiva assorbenza rispetto alla pretesa esercitata, non è caduto su un elemento di tendenziale stabilità della fattispecie che permetta di superare vittoriosamente lo sbarramento costituito dall'autonomia di ciascun periodo di imposta, essendo del tutto evidente che in ragione dell'allora prevista periodicità ogni vidimazione è uguale solo a sé stessa e ciò che riguardo ad essa e si accerti per un anno, ancorché assistito dalla forza propria del giudicato, non vincola la pronuncia per un anno successivo o per un anno precedente. 3.1. Ciò detto, riprendendo l'esame delle doglianze secondo il loro ordine di esposizione, con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce per gli effetti dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 55 DPR 633/72 in quanto la CTR ha riconosciuto la legittimità dell'accertamento induttivo, operato nella specie dall'ufficio sul rilievo che la vidimazione del registro IVA fosse irregolare e che il registro non vidimato fosse perciò da considerarsi come non istituito, ancorché "dall'esame della disciplina dell'art. 55 del DPR 633/72 emerga con chiarezza che la vidimazione irregolare dei registri obbligatori ai fini IVA non costituisce affatto uno dei presupposti legittimanti l'esercizio del potere di accertamento induttivo" e "la vidimazione di un registro non abbia effetto costitutivo dello stesso" costituendo un mero adempimento formale. Violazione e/o falsa applicazione di legge sempre in relazione all'art. 55 anzidetto e vizio di motivazione sotto il profilo della sua insufficienza si denunciano congiuntamente, ai sensi rispettivamente dell'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p,c., con il secondo motivo di gravame, dolendosi invero il ricorrente che i giudici di appello, nonostante l'art. 55 autorizzi a farvi ricorso solo in presenza di irregolarità gravi, numerose e ripetute nella tenuta dei registri contabili, abbiano ritenuto che "sarebbe stato legittimamente esercitato il potere di accertamento induttivo ... sol perché è stata constatata una singola violazione formale, consistente nella vidimazione irregolare di un registro obbligatorio ai fini IVA" ed abbiano altresì omesso di giustificare tale loro convincimento "con particolare riguardo alla presenza di altre irregolarità, oltre quella inerente alla vidimazione del suddetto registro ed alla qualificazione di tutte le violazioni formali quali gravi, numerose e ripetute, sino a giustificare il necessario (nella fattispecie, invero, non formulato) giudizio di inattendibilità della contabilità tenuta dal ricorrente". 3.2. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi censurano, ancorché sotto diversi aspetti, l'applicazione che i giudici di appello hanno fatto nella specie dell'art. 55 DPR 633/72; ed entrambi si rivelano privi di fondamento. L'art. 55, comma secondo, DPR 633/72, sotto la rubrica "accertamento induttivo" nella parte che ci interessa recita che "le disposizioni stesse si applicano, in deroga alle disposizioni dell'art. 54, anche nelle seguenti ipotesi ... 3) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni o annotazioni accertate ai sensi dell'art. 54, ovvero le irregolarità formali dei registri e delle altre scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione, sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile la contabilità del contribuente". La CTR ha accertato, senza contrarietà sul punto, affermando che era stato dimostrato "con certezza che la vidimazione del registro IVA era irregolare", che nel caso di specie la vidimazione riscontrata dai verbalizzanti sul registro unico in uso al ricorrente per l'anno 1999 era affetta da falsità, in quanto il notaio che asseritamente n'era stato il certificatore apponendovi il proprio sigillo e la propria sottoscrizione, ai verbalizzanti medesimi aveva dichiarato che il sigillo gli era stato sottratto e che il numero di repertorio figurante a margine della formalità si riferiva in realtà ad un altro atto da esso autenticato. Si è cioè, su queste incontestate premesse di fatto, in presenza non già di una semplice irregolarità nella tenuta del registro, ma di una vera e propria falsità di esso, in quanto posto in uso mediante un'attestazione di regolarità non corrispondente al vero. E, poiché una vidimazione falsa equivale per principio ad una vidimazione omessa, ciò che la giurisprudenza di questa Corte stabilmente ritiene possibile, allorché ha giudicato legittimo l'accertamento induttivo effettuato dall'Amministrazione finanziaria in presenza di una irregolare tenuta delle scritture contabili, quale la mancata vidimazione del libro giornale (Cass. n. 27063/2007; Cass. n. 17407/2010), e ciò anche quando il sospetto di inattendibilità sia legittimato anche solo da questa circostanza (4174/88) ratione maiori è da credere che risulti tanto maggiormente possibile quando la vidimazione sia addirittura falsa. 4.1. Con il terzo motivo si lamenta la nullità della sentenza ex art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c. sotto il profilo dell'ultrapetizione in cui è incorsa la CTR ai sensi dell'art. 112 c.p.c. ritenendo che nella specie l'ufficio avrebbe operato un accertamento induttivo, malgrado dall'atto impositivo, che costituisce l'espressione della pretesa dell'attore sostanziale del processo tributario, dalle controdeduzioni nel giudizio di primo grado e dal ricorso in appello si apprenda che "la domanda che l'Agenzia delle Entrate ha rivolto al giudice tributario nella presente controversia è stata fondata sull'esercizio del potere di accertamento analitico". 4.2. Il motivo è infondato. Questa Corte ha reiteratamente affermato che "in materia di procedimento civile, sussiste vizio di "ultra" o "extra" petizione ex art. 112 cod. proc. civ. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio "iura novit curia" di cui all'art. 113, primo comma, cod. proc. civ., rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti" (Cass. n. 12943/2012; Cass. n. 25140/2010; Cass. n. 14468/2009). E a tanto si è rettamente attenuta la sentenza impugnata che nel qualificare come "induttivo" l'accertamento operato dall'ufficio come "analitico" ha semplicemente esercitato il potere di dare alla fattispecie, nel rispetto dei fatti portati al suo esame, il suo corretto inquadramento giuridico senza essere in questo vincolata alle iniziali prospettazioni delle parti e senza tanto meno eccedere i limiti di quanto da esse dedotto. 5.1. Con il quinto motivo di ricorso si eccepisce l'omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. sotto il profilo della sua omissione, avendo i giudici di appello omesso di pronunciarsi "sulla fondatezza o infondatezza nel merito delle rettifiche apportate dall'Agenzia delle Entrate alla dichiarazione annuale IVA presentata dal ricorrente per il 1999, nonostante quest'ultimo avesse espressamente contestato tali rettifiche." Analogamente con il sesto motivo, svolto subordinatamente al quinto, si denuncia la nullità dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., poiché la CTR, pronunciandosi nei riferiti termini di cui al precedente motivo di gravame e confermando la legittimità dell'atto impositivo oggetto di contestazione anche nel merito, è incorsa nel vizio di omessa pronuncia, "omettendo invero di pronunciarsi sull'infondatezza nel merito di tale atto in aperta violazione dell'art. 112 c.p.c. che fissa il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato". 5.2. Entrambi i motivi, che si possono esaminare congiuntamente in quanto si imputa alla sentenza di non aver preso in considerazione, anche solo per rigettarle, le contestazioni che il ricorrente aveva sollevato in ordine alle operate rettifiche dell'ufficio, sono anche accomunati dalla medesima sorte, entrambi dovendo giudicarsi inammissibili per difetto di autosufficienza del ricorso. Questa Corte ha ripetutamente rilevato, proprio con riferimento al giudizio tributario, sul filo della considerazione, ancora di recente espressa, che è precipuo onere del ricorrente "di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione" (S.U. Cass. n. 2399/2014; Cass. n. 6230/2014; Cass. n. 5679/2014), che ai fin della deduzione in sede di legittimità dei vizi qui denunciati, "è necessario, da un lato, che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un'eccezione autonomamente apprezzabili e, dall'altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell'autosufficienza, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività" (Cass. n. 5344/2013), con la conseguenza che diversamente risultando violato l'art. 366 c.p.c. il ricorso è inammissibile. E ciò è quanto occorre constatare nel caso di specie, poiché, pur deducendo che il giudice di appello avrebbe omesso di prendere posizione in ordine alle contestazioni da lui mosse alla rettifica operata dall'amministrazione, il ricorrente, venendo meno all'onere anzidetto, non ha tuttavia rinnovato in questa sede la rappresentazione di dette contestazioni, con il conclusivo effetto che le doglianze, con cui si imputa sotto questo profilo alla sentenza impugnata di aver omesso la motivazione riguardo ad esse o di non aver su di esse statuito, risultano prive di fondamento. 6.1. Il settimo e ultimo motivo di ricorso investe la sentenza impugnata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione di legge e segnatamente dell'art. 8 L. 18.10.2001, n. 383 e dell'art. 3 DLgs. 18.12.1997. n. 472. Venuta meno per effetto della norma prima richiamata l'obbligatorietà della vidimazione, il principio del favor rei desumibile in base alla seconda norma avrebbe imposto, diversamente da quanto ritenuto dal giudice d'appello, che "nessuna conseguenza negativa potesse derivare al contribuente dal non aver vidimato i registri IVA", e ciò sia con riguardo alle sanzioni proprie, rappresentate da quelle che la legge edittalmente prevede per simile inadempienza, sia con riguardo alle sanzioni improprie intese quali conseguenze sfavorevoli per il contribuente in dipendenza della violazione di un precetto, nella specie meglio legittimanti il ricorso all'accertamento induttivo operato dall'ufficio. 6.2. Nell'affrontare il tema di diritto posto dal settimo motivo di ricorso si impone una preliminare precisazione per non incorrere nel facile equivoco a cui potrebbe condurre una lettura del motivo di ricorso non esattamente coerente con i fatti di causa. Invero, allorché il ricorrente solleva il problema della compatibilità dell'atto impugnato con il principio del favor rei lo fa, come visto, sotto un duplice profilo, assumendone, cioè, la contrarietà sul piano sanzionatorio tanto con gli effetti che derivano ex lege dalla violazione degli obblighi in tema di vidimazione delle scritture contabili ovvero con le sanzioni a suo tempo previste dall'art. 9, primo comma, DLgs. 471/97, quanto nei confronti di quegli effetti riflessi o, come si dice in dottrina, di quelle "situazioni di svantaggio", che pur non essendo annoverabili tra le sanzioni propriamente dette, in quanto non edittalmente previste quale conseguenza della violazione di una norma tributaria, per il fatto di tradursi in una penalizzazione del contribuente comunque riconducibile ad una tale violazione, vengono comunemente denominate come sanzioni improprie. Ora erra la parte se pensa di invocare l'applicazione nel caso di specie del favor rei con riferimento alle c.d. sanzioni proprie perché quelle irrogategli con l'avviso qui impugnato sono conseguenza non già dell'inosservanza degli obblighi a suo tempo previsti dall'art. 39 DPR 633/72 in tema di tenuta di scritture contabili, bensì dell'infedele dichiarazione che l'ufficio ha potuto accertare in via induttiva, di talché se una relazione tra l'una e l'altra è statuibile lo è solo nel senso che la prima (l'inosservanza degli obblighi in tema di tenuta delle scritture contabili) è risultato lo strumento, rendendo inattendibile la contabilità nel suo complesso, per accertare la seconda (infedeltà della dichiarazione). Dunque invocare l'effetto salvifico dello ius superveniens, che, avendo abrogato l'obbligo di vidimazione delle scritture contabili, scagionerebbe il trasgressore da ogni riflesso addebito in applicazione del principio del favor rei, è nel nostro caso, per quanto attiene alle sanzioni proprie, un manifesto fuor d'opera. 6.3.1. Non lo è, o almeno non sembra esserlo ad un primo esame, con riguardo al tema delle sanzioni improprie. Si ricorda, circa queste ultime, con la dottrina che più ha approfondito l'argomento, che "... non è raro trovare nella legge tributaria italiana la previsione, oltre che delle sanzioni vere e proprie, di situazioni di svantaggio per il contribuente che abbia violato determinati obblighi, che possono essere di due tipi: di carattere procedimentale, nel senso che al trasgressore vengano preclusi mezzi di tutela che altrimenti avrebbe o nel senso che vengano potenziati i normali poteri di accertamento dell'amministrazione ... di carattere sostanziale, nel senso che viene maggiorata l'imposta, negando l'applicazione di deduzioni, di detrazioni, elevando l'imponibile o assumendo come fatti tassabili elementi che diversamente non lo sarebbero". 6.3.2. Con riguardo a queste ultime, con riguardo cioè a quelle forme di prelievo che si traducono in un mero aggravamento del carico tributario, questa Corte ha già preso posizione in senso favorevole all'applicazione della legge posteriore se più favorevole. Investita della questione con riferimento all'art. 41, sesto comma, DPR 633/72 che prevedeva a carico dell'acquirente di beni e servizi senza fattura che non provveda all'autofatturazione l'irrogazione delle pene pecuniarie previste dai primi tre commi "oltre al pagamento dell'imposta", si è ritenuto di poter affermare, sul presupposto della ravvisata natura sanzionatoria di tale ultima misura, che essa non si sottrae all'applicazione del principio del favor rei e che "pertanto, in virtù del principio di legalità stabilito dall'art. 3, comma terzo, DLgs. n. 472 del 1997, anche riguardo a detto prelievo, qualificato 'pagamento dell'imposta' dall'art. 41,cit., si applica la norma posteriore, più favorevole al contribuente" (Cass. n. 5268/2005). 6.3.3. Nel caso che ne occupa tuttavia non si è presenza di una norma sanzionataria impropria di carattere sostanziale, giacché dall'inosservanza degli obblighi in materia di tenuta delle scritture contabili, costatata inizialmente dall'amministrazione, è scaturito non già un appesantimento del carico tributario gravante sul contribuente, ma l'esposizione del contribuente, sul rilievo che l'inosservanza in parola rendeva inattendibili le registrazioni contabili nel loro complesso, alla procedura dell'accertamento induttivo. Siamo, cioè, nel campo delle sanzioni improprie di tipo procedimentale, di quelle sanzioni che si rendono altrimenti applicabili in quanto dirette a creare in capo al contribuente una situazione di svantaggio dipendente dall'inosservanza di obblighi a mezzo dei quali il contribuente è ammesso a provare l'esistenza di fatti a sé favorevoli. Per usare le parole della dottrina "se il contribuente non tiene le scritture contabili è giusto che non possa provare altrimenti i costi e se non esibisce la documentazione degli oneri è giusto che questi non vengano calcolati. Qui la situazione di svantaggio del contribuente - si dice - "è di tipo procedimentale". Anche con riguardo alle c.d. sanzioni improprie di questa natura questa Corte regolatrice, pur non prendendo funditus posizione sulla specifica questione, ha tuttavia avuto modo di esprimersi in termini favorevoli riguardo all'applicabilità della legge posteriore se più favorevole e lo ha fatto proprio occupandosi della legittimità dell'accertamento induttivo che sia avviato sulla base dell'inosservanza di un obbligo tributario successivamente abrogato. In merito agli effetti discendenti dall'abrogazione dell'obbligo di tenuta del repertorio della clientela si è infatti statuito che "lo 'ius superveniens' rappresentato dall'abrogazione della norma che prevedeva quell'illecito, infatti, trova applicazione, a partire dal 1° aprile 1998 (data di entrata in vigore del principio del "favor rei", sancito dall'art. 3 del DLgs. 18 dicembre 1997, n. 472 anche nel sistema sanzionatorio tributario, e della sua applicabilità retroattiva, anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo), all'unica condizione che il provvedimento impugnato non debba qualificarsi "definitivo", posto che, in materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, il detto art. 3 del DLgs. n. 472 del 1997 ha stabilito l'applicabilità del principio "ai procedimenti in corso" alla detta data, a condizione (sussistente nella specie) che il provvedimento irrogativo della sanzione non sia divenuto definitivo" (Cass. n. 12434/2007), traendo da ciò la conclusione che sia pertanto illegittimo l'accertamento induttivo operato sulla base dell'omessa tenuta del repertorio della clientela. 6.3.4. Approfondendo meglio il tema questo collegio crede che rispetto all'insegnamento impartito nell'occasione si rendano necessarie alcune puntualizzazioni che, illuminando più da vicino lo scenario sul quale quell'affermazione si staglia, consentano di rimeditarne in qualche misura la portata. Non si è intanto lontani dal vero se, riflettendo sulle implicazioni sistematiche del problema, si sia portati ad osservare, almeno inizialmente, che il principio del favor rei non è disgiungibile dal principio di legalità. In qualche pronuncia di questa Corte (Cass. n. 5241/2008), senza dover per questo scomodare la più accreditata dottrina, si è detto che esso ne costituisce più esattamente un corollario e l'affermazione invita a pensare al principio del favor rei come ad una sorta di effetto clemenziale dello stesso principio che, all'opposto, rende sanzionabile una condotta che l'ordinamento reputa illecita. E del resto la circostanza che la sua codificazione segua di regola quella del principio di legalità, attestata da diverse fonti (oltre all'art. 2 c.p., si veda, per restare nel nostro campo, l'art. 3 DLgs. 472/97) è un indice più che rassicurante in questa direzione. E' perciò del tutto conseguente ipotizzare che il principio del favor rei, non diversamente da quello di legalità ed anzi al pari di questo, operi solo in relazione a condotte tipologicamente predefinite, a condotte, per intenderci, che per essere sanzionate in guisa della loro ritenuta illiceità postulavano che la legge ne definisse previamente i caratteri identificativi. Se è così, non sembra allora appropriato invocarne l'applicazione a fronte di un fatto che, come l'esposizione del contribuente inattendibile alla procedura dell'accertamento induttivo, è privo di questa originaria connotazione di illiceità, che è sì conseguenza di una condotta contraria alla legge, ma è estranea alla previsione che un tempo qualificava come illecita quella condotta. E' poi ancora doveroso osservare, lungo questa linea di ragionamento, che per la stessa correlazione necessaria con il principio di legalità il concetto di sanzione, anche quando si parla delle sanzioni c.d. improprie, non sembra poter prescindere da una connotazione intrinsecamente afflittiva. E' sanzione in forma impropria, per restare ancora nel nostro campo, la perdita di un beneficio, la decadenza da un'agevolazione, la revoca di un privilegio, ecc. E' sanzione, come si è visto, il pagamento dell'imposta a suo tempo previsto dall'abrogato art. 41, sesto comma, DPR 633/73. Tutte situazioni di svantaggio che si determinano senz'altro quale conseguenza riflessa di una condotta inosservante di un obbligo di legge, ma che appaiono tuttavia accomunate anche sotto un altro diverso aspetto, quello di risolversi nell'immediata ed incondizionata penalizzazione del trasgressore. In questi casi non è effettivamente discutibile che trattandosi di rimuovere gli effetti indirettamente sanzionabili di una condotta illecita il principio del favor rei trovi la più ampia applicazione. Che ciò tuttavia, accada anche quando il contribuente inattendibile sia sottoposto ad accertamento induttivo non sembra realizzare esattamente la stessa ipotesi. Diversamente da quel che accade negli altri casi, dove il contenuto afflittivo in danno del contribuente inadempiente è univoco ed inequivocabile, sicché la legge posteriore che rimuove l'illiceità della condotta anteatta, nel mentre elimina ogni diretta sanzionabili futura di essa, pure comporta doverosamente per il passato la rimozione di ogni effetto sanzionatorio improprio, l'esposizione all'accertamento induttivo per il fatto di dar vita ad un procedimento valutativo nel corso del quale si innestano numerose varianti discrezionali ed il cui approdo in senso necessariamente pregiudizievole non è affatto obbligato o, almeno, non è questi termini delineato dalla legge, solo inizialmente potrebbe essere accostato a quelle situazioni di immediato e diretto svantaggio che appaiono connotate da un'afflittività intrinseca e rispetto alle quali l'applicazione del favor rei non si espone a riserve di sorta. L'accento sulla natura procedimentale dell'accertamento induttivo offre il destro anche per un'altra considerazione in senso dubitativo all'applicazione ad esso del principio del favor rei. Sembra infatti chiaro, quale indiretto riflesso del principio di legalità, che il concetto di sanzione racchiuda in sé anche il connotato della certezza. In breve, è noto che le sanzioni si correlino alla violazione di un precetto e, così come spetta alla legge delineare esattamente i connotati identificativi della condotta che viola il precetto, è altrettanto noto che è alla legge che spetta il compito di indicare esattamente la sanzione applicabile in quel caso. Ciò è quanto si osserva anche nel campo delle sanzioni c.d. improprie dove di regola la situazione di svantaggio, che si determina in capo al contribuente quale effetto riflesso dell'inosservanza di un obbligo o se si vuole, più generalmente, della violazione di un precetto, è puntualmente prevista dalla legge e si applica de plano quale diretta ed immediata conseguenza di una condotta inadempiente. E' perciò evidente, già solo per questo aspetto, la distanza che separa l'assoggettamento del contribuente inattendibile ad accertamento induttivo dal campo delle sanzioni c.d. improprie. Queste ultime sono assolutamente certe e certa ne è la loro applicazione, in quanto la mera violazione dell'obbligo che ne è il presupposto determina su questo piano l'applicazione di quella sanzione e solo di quella. Tutta diversa è invece la situazione di svantaggio che, dir si voglia, riconducibile all'ipotesi dell'accertamento induttivo. E ancora forse nel momento iniziale che si potrebbe essere indotti a ravvisare un qualche tratto di similitudine con le sanzioni ed improprie, ma diversamente da queste, che non deflettono dall'ordinario paradigma di ogni altro trattamento sanzionatorio che ricollega immediatamente l'irrogazione della sanzione alla violazione di un precetto, nel caso dell'avvio dell'accertamento induttivo quel carattere iniziale è frutto solo di apparenza, in quanto, per restare al nostro caso, l'assoggettamento del De. all'accertamento induttivo delle imposte da lui evase non è stato effetto diretto ed immediato della violazione dal medesimo consumata nella tenuta del registro unico IVA, ma è all'evidenza il riflesso di un apprezzamento discrezionale dell'ufficio, che già nel fatto di sottoporre il contribuente a quel procedimento valutativo esercita quella libertà di giudizio a geometria variabile di cui il legislatore l'ha voluto investire di fronte al contribuente inattendibile. La circostanza che l'accertamento induttivo possa essere disposto in presenza di irregolarità nella tenuta della contabilità "così gravi, numerose e ripetute" da renderla inattendibile, in altre parole, nel mentre affida all'autonomia decisionale dell'ufficio ogni ulteriore determinazione, priva nel contempo pure l'accertamento induttivo di ogni caratterizzazione in termini di certezza, non solo perché la natura procedimentale di esso e la discrezionalità con cui procede l'ufficio non ne segnano ab origine l'esito, ma perché neppure il suo input ubbidisce ad una siffatto connotato, giacché, essendo possibile solo a fronte di un giudizio che abbia ad oggetto l'attendibilità della contabilità commisurata alla gravità, al numero e alla ripetizione delle irregolarità riscontrate, esso mette necessariamente capo ad una valutazione che non ha fonte nella legge e che non ne permette dunque l'assimilazione al campo delle sanzioni sia pure improprie. Dunque vi è più di una ragione che induce questa Corte all'opinione che dare applicazione al principio del favor rei relativamente alla possibilità che il contribuente inattendibile sia sottoposto ad accertamento induttivo non è una conclusione debitamente coerente rispetto alla problematica riconducibilità di detta misura al campo delle sanzioni improprie. 7. Respingendosi il ricorso, le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida nella somma omnicomprensiva di euro 2.700,00.