CORTE DI CASSAZIONE
Sentenza 17 dicembre 2014, n. 26475
Svolgimento del processo
1. A seguito di verifica fiscale della G.d.F., a De. Li. era notificato avviso di
accertamento a mezzo del quale l'amministrazione finanziaria, constatata l'irregolarità
formale della documentazione fiscale, segnatamente in punto di vidimazione del
registro unico tenuto ai fini IVA, portante un numero di repertorio notarile non
corrispondente al vero, in quanto dalle dichiarazioni rese ai verbalizzanti dal notaio era
emerso che il sigillo gli era stato sottratto e che il numero di repertorio identificava il
trasferimento di un automezzo, rettificava la dichiarazione IVA di detto contribuente
per l'anno 1999, liquidava le maggiori imposte dovute e irrogava le corrispondenti
sanzioni tributarie.
Accolto in primo grado il ricorso del contribuente sulla considerazione che l'asserita
irregolarità della vidimazione non inficiava il contenuto del registro e che in ogni caso
l'obbligo di vidimazione era stato abrogato a decorrere del 2001, l'appello dell'ufficio era
accolto dalla CTR Sicilia con la sentenza qui impugnata, che ha confermato la legittimità
dell'accertamento rilevando che, sulla base delle trascritte premesse di fatto, era stata
dimostrata "con certezza che la vidimazione del registro IVA era irregolare e quindi era
legittimo il ricorso all'accertamento induttivo" e che "nulla rilevavano le affermazioni
della parte in merito alla circostanza che la vidimazione non era più obbligatoria dal
2001". La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dal De. in virtù di sette motivi di
ricorso.
L'ufficio resiste con controricorso.
Motivi della decisione
2.1. Va esaminato preliminarmente in ragione della sua pregiudiziale assorbenza se
fondato il quarto motivo di ricorso per mezzo del quale l'impugnante denunzia la
violazione e/o falsa applicazione di legge per gli effetti dell'art. 360, primo comma, n. 3
c.p.c. in relazione all'art. 2909 c.c. in cui sarebbe incorso il giudice territoriale per aver
ignorato, "il giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio
di merito", posto che in relazione alle pregresse annualità 1997 e 1998, parimenti oggetto
di accertamento a seguito della verifica a cui aveva dato luogo l'anno qui opposto, la
stessa sezione della CTR rispettivamente con sentenze 95/35/07 e 93/35/07, passate in
giudicato, aveva rilevato a conferma delle pronunce di primo grado già favorevoli al
contribuente "che i registri IVA che l'ufficio ritiene di non essere vidimati per mancanza
di riconoscimento della firma da parte del notaio, al contrario, risultano vidimati"
riportando la firma ed il sigillo del pubblico ufficiale vidimante.
2.2. Il motivo è infondato. Risolvendo un contrasto tutto interno alla sezione tributaria
di questa Corte, le Sezioni Unite con la sentenza 13916/2006 hanno affermato il
principio, evidenziandone la coerenza non solo con l'oggetto del giudizio tributario, ma
con la natura unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, secondo cui l'efficacia
del giudicato, "riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia
tributaria, nel principio dell'autonomia dei periodi d'imposta, in quanto l'indifferenza
della fattispecie costitutiva dell'obbligazione relativa ad un determinato periodo
rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le
imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica
soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da
periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non
anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una
pluralità di periodi d'imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari
all'applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere
tendenzialmente permanente". A questo insegnamento, che dunque come ancora
precisato di recente porta a riconoscere l'efficacia del giudicato esterno "anche con
riferimento alle imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi solo per quanto
attiene le qualificazioni giuridiche o altri elementi preliminari all'applicazione di una
specifica disciplina tributaria, correlati ad un interesse protetto avente il carattere della
durevolezza, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l'accertamento
relativo ai diversi anni d'imposta debba fondarsi su dati e ricostruzioni contabili
diversi" (Cass. n. 18907/2011; Cass. n. 18002/2012; Cass. n. 24001/2013, Cass. n.
4631/2014), si è affiancato con riguardo all'area dei tributi armonizzati un
atteggiamento di maggior prudenza interpretativa (Cass. n. 12249/2010; Cass. n.
20029/2011; Cass. n. 16996/2012; Cass. n. 10781/2013), volto a ridisegnare il perimetro
applicativo della cosa giudicata anche in relazione a quegli stessi elementi
tendenzialmente permanenti o espressivi di un carattere di durevolezza che ne
giustificano altrimenti il riconoscimento, allorché la vis expansiva che riguardo ad essi si
è portati ad attribuire all'efficacia del giudicato risulti configgente con il diritto
comunitario ed, in particolare, precluda la repressione dei fenomeni di abuso. Ciò in
specie dopo che la Corte di Giustizia CE (Corte giust, 3.9.2009, C-2/08), sul rinvio
pregiudiziale disposto nel caso Olimpiclub da questa Corte, che si era chiesta ed aveva
chiesto in che misura l'autorità del giudicato fosse invocabile nelle controversie in
materia IVA, si è sentita in obbligo di avvertire che "il diritto comunitario osta
all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l'art. 2909 c.c. (il quale
prevede che l'"accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a
ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa") in una causa vertente sull'IVA
concernente un'annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione
giurisdizionale definitiva e su di una questione che, con riferimento allo stesso soggetto,
sia già stata definita con autorità di cosa giudicata per un diverso periodo d'imposta,
nella ipotesi in cui l'applicazione di tale giudicato esterno impedisca al giudice
nazionale di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche
abusive legate a detta imposta".
2.3. Su queste premesse, l'eccezione di giudicato sollevata dal ricorrente, si presta ad
un'agevole definizione nel senso già anticipato della sua infondatezza.
Quando invero non si ritenesse assorbente la considerazione che estendere l'efficacia del
giudicato discendente dalla duplice sentenza dei giudici siciliani all'odierna
controversia, che si ricorda trae origine da una omessa registrazione di ricavi, equivale
all'effetto di legittimare una condotta che, per quanto riguarda l'IVA, sostanziandosi
nell'indebita sottrazione di materia imponibile, si colloca ex se in un ambito in cui la
prevalenza del diritto comunitario è fuori discussione e con essa pure la conseguente
indifferenza della fattispecie ad ogni precedente vincolante che ne precluda la concreta
disamina, non si potrebbe in ogni caso fare a meno di osservare che la pretesa di veder
regolata l'odierna vicenda processuale sulla base dei precedenti formatisi altrove in
nome della superiore efficacia della cosa giudicata non è coerente rispetto al ricostruito
quadro interpretativo. Le Sezioni Unite, all'atto di decretare con la vista determinazione
l'efficacia del giudicato in relazione agli "elementi costitutivi della fattispecie a carattere
tendenzialmente permanente" si sono infatti date anche cura di soccorrere l'interprete
nel difficile compito di sceverare nella disamina della fattispecie concreta sottoposta al
suo esame, senza perseguire con ciò alcuna finalità esaustiva, questi elementi, soggetti
alla naturale forza espansiva del giudicato, da "quei fatti che non abbiano caratteristica
di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo" e che come tali, in
ragione della loro ricorrente mutevolezza, risultano indifferenti all'accertamento che
riguardo ad essi venga compiuto in un altro giudizio. E con un elencazione, certo
esemplificativa, ma rappresentativa del carattere della stabilità o, come pure si è detto,
"della durevolezza", almeno fino a quando non ne sia dimostrato il mutamento, che
questi elementi debbono possedere, le Sezioni Unite hanno precisato che siffatta
caratteristica è associabile ad es. alle "qualificazioni giuridiche (che individuano vere e
proprie situazioni di fatto) - "ente commerciale", "ente non commerciale", "soggetto
residente", "soggetto non residente", "bene di interesse storico-artistico", ecc. - assunte
dal legislatore quali elementi "preliminari" per l'applicazione di una specifica disciplina
tributaria e per la determinazione in concreto dell'obbligazione per una pluralità di
periodi d'imposta (a valere, cioè, fino a quando quella qualificazione non sia venuta
meno fattualmente - ad es. trasformazione dell'ente non commerciale in ente
commerciale - o normativamente)", escludendo implicitamente che tali siano tutti quei
diversi fatti che, in ragione della loro mutevolezza nel tempo o se si vuole della
semplice loro incostanza, risultino privi di un carattere di tendenziale stabilità.
I giudicati siciliani, diversamente da quanto auspicato, non solo hanno riguardato gli
anni di imposta 1997 e 1998 e non l'anno 1999, di cui qui si discute, sicché la regolare
vidimazioni del registro unico da essi constatata per quegli anni può al più precludere
che di ciò si faccia nuovamente materia di giudizio e cioè che della regolarità della
vidimazione per gli anni 1997 e 1998 non si discuta più né qui né altrove; ma neppure
facendo tesoro del ricordato insegnamento delle S.U. è possibile pervenire ad una
diversa conclusione, poiché l'accertamento operato dai giudici territoriali, del quale qui
si invoca la pregiudiziale e preclusiva assorbenza rispetto alla pretesa esercitata, non è
caduto su un elemento di tendenziale stabilità della fattispecie che permetta di superare
vittoriosamente lo sbarramento costituito dall'autonomia di ciascun periodo di imposta,
essendo del tutto evidente che in ragione dell'allora prevista periodicità ogni
vidimazione è uguale solo a sé stessa e ciò che riguardo ad essa e si accerti per un anno,
ancorché assistito dalla forza propria del giudicato, non vincola la pronuncia per un
anno successivo o per un anno precedente.
3.1. Ciò detto, riprendendo l'esame delle doglianze secondo il loro ordine di
esposizione, con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce per gli effetti dell'art.
360, comma primo, n. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione
all'art. 55 DPR 633/72 in quanto la CTR ha riconosciuto la legittimità dell'accertamento
induttivo, operato nella specie dall'ufficio sul rilievo che la vidimazione del registro
IVA fosse irregolare e che il registro non vidimato fosse perciò da considerarsi come
non istituito, ancorché "dall'esame della disciplina dell'art. 55 del DPR 633/72 emerga
con chiarezza che la vidimazione irregolare dei registri obbligatori ai fini IVA non
costituisce affatto uno dei presupposti legittimanti l'esercizio del potere di accertamento
induttivo" e "la vidimazione di un registro non abbia effetto costitutivo dello stesso"
costituendo un mero adempimento formale.
Violazione e/o falsa applicazione di legge sempre in relazione all'art. 55 anzidetto e
vizio di motivazione sotto il profilo della sua insufficienza si denunciano
congiuntamente, ai sensi rispettivamente dell'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p,c.,
con il secondo motivo di gravame, dolendosi invero il ricorrente che i giudici di appello,
nonostante l'art. 55 autorizzi a farvi ricorso solo in presenza di irregolarità gravi,
numerose e ripetute nella tenuta dei registri contabili, abbiano ritenuto che "sarebbe
stato legittimamente esercitato il potere di accertamento induttivo ... sol perché è stata
constatata una singola violazione formale, consistente nella vidimazione irregolare di
un registro obbligatorio ai fini IVA" ed abbiano altresì omesso di giustificare tale loro
convincimento "con particolare riguardo alla presenza di altre irregolarità, oltre quella
inerente alla vidimazione del suddetto registro ed alla qualificazione di tutte le
violazioni formali quali gravi, numerose e ripetute, sino a giustificare il necessario (nella
fattispecie, invero, non formulato) giudizio di inattendibilità della contabilità tenuta dal
ricorrente".
3.2. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi censurano,
ancorché sotto diversi aspetti, l'applicazione che i giudici di appello hanno fatto nella
specie dell'art. 55 DPR 633/72; ed entrambi si rivelano privi di fondamento.
L'art. 55, comma secondo, DPR 633/72, sotto la rubrica "accertamento induttivo" nella
parte che ci interessa recita che "le disposizioni stesse si applicano, in deroga alle
disposizioni dell'art. 54, anche nelle seguenti ipotesi ... 3) quando le omissioni e le false
o inesatte indicazioni o annotazioni accertate ai sensi dell'art. 54, ovvero le irregolarità
formali dei registri e delle altre scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione,
sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile la contabilità del
contribuente". La CTR ha accertato, senza contrarietà sul punto, affermando che era
stato dimostrato "con certezza che la vidimazione del registro IVA era irregolare", che
nel caso di specie la vidimazione riscontrata dai verbalizzanti sul registro unico in uso
al ricorrente per l'anno 1999 era affetta da falsità, in quanto il notaio che asseritamente
n'era stato il certificatore apponendovi il proprio sigillo e la propria sottoscrizione, ai
verbalizzanti medesimi aveva dichiarato che il sigillo gli era stato sottratto e che il
numero di repertorio figurante a margine della formalità si riferiva in realtà ad un altro
atto da esso autenticato. Si è cioè, su queste incontestate premesse di fatto, in presenza
non già di una semplice irregolarità nella tenuta del registro, ma di una vera e propria
falsità di esso, in quanto posto in uso mediante un'attestazione di regolarità non
corrispondente al vero. E, poiché una vidimazione falsa equivale per principio ad una
vidimazione omessa, ciò che la giurisprudenza di questa Corte stabilmente ritiene
possibile, allorché ha giudicato legittimo l'accertamento induttivo effettuato
dall'Amministrazione finanziaria in presenza di una irregolare tenuta delle scritture
contabili, quale la mancata vidimazione del libro giornale (Cass. n. 27063/2007; Cass. n.
17407/2010), e ciò anche quando il sospetto di inattendibilità sia legittimato anche solo
da questa circostanza (4174/88) ratione maiori è da credere che risulti tanto
maggiormente possibile quando la vidimazione sia addirittura falsa.
4.1. Con il terzo motivo si lamenta la nullità della sentenza ex art. 360, comma primo, n.
4 c.p.c. sotto il profilo dell'ultrapetizione in cui è incorsa la CTR ai sensi dell'art.
112 c.p.c. ritenendo che nella specie l'ufficio avrebbe operato un accertamento induttivo,
malgrado dall'atto impositivo, che costituisce l'espressione della pretesa dell'attore
sostanziale del processo tributario, dalle controdeduzioni nel giudizio di primo grado e
dal ricorso in appello si apprenda che "la domanda che l'Agenzia delle Entrate ha
rivolto al giudice tributario nella presente controversia è stata fondata sull'esercizio del
potere di accertamento analitico".
4.2. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha reiteratamente affermato che "in materia di procedimento civile,
sussiste vizio di "ultra" o "extra" petizione ex art. 112 cod. proc. civ. quando il giudice
pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su
questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio attribuendo un
bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in
immediata correlazione con il principio "iura novit curia" di cui all'art. 113, primo
comma, cod. proc. civ., rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di
assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché
all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta
fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione
principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti" (Cass. n.
12943/2012; Cass. n. 25140/2010; Cass. n. 14468/2009). E a tanto si è rettamente attenuta
la sentenza impugnata che nel qualificare come "induttivo" l'accertamento operato
dall'ufficio come "analitico" ha semplicemente esercitato il potere di dare alla fattispecie,
nel rispetto dei fatti portati al suo esame, il suo corretto inquadramento giuridico senza
essere in questo vincolata alle iniziali prospettazioni delle parti e senza tanto meno
eccedere i limiti di quanto da esse dedotto.
5.1. Con il quinto motivo di ricorso si eccepisce l'omessa insufficiente e contraddittoria
motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
sotto il profilo della sua omissione, avendo i giudici di appello omesso di pronunciarsi
"sulla fondatezza o infondatezza nel merito delle rettifiche apportate dall'Agenzia delle
Entrate alla dichiarazione annuale IVA presentata dal ricorrente per il 1999, nonostante
quest'ultimo avesse espressamente contestato tali rettifiche." Analogamente con il sesto
motivo, svolto subordinatamente al quinto, si denuncia la nullità dell'impugnata
sentenza ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., poiché la CTR, pronunciandosi
nei riferiti termini di cui al precedente motivo di gravame e confermando la legittimità
dell'atto impositivo oggetto di contestazione anche nel merito, è incorsa nel vizio di
omessa pronuncia, "omettendo invero di pronunciarsi sull'infondatezza nel merito di
tale atto in aperta violazione dell'art. 112 c.p.c. che fissa il principio di corrispondenza
tra il chiesto ed il pronunciato".
5.2. Entrambi i motivi, che si possono esaminare congiuntamente in quanto si imputa
alla sentenza di non aver preso in considerazione, anche solo per rigettarle, le
contestazioni che il ricorrente aveva sollevato in ordine alle operate rettifiche
dell'ufficio, sono anche accomunati dalla medesima sorte, entrambi dovendo giudicarsi
inammissibili per difetto di autosufficienza del ricorso.
Questa Corte ha ripetutamente rilevato, proprio con riferimento al giudizio tributario,
sul filo della considerazione, ancora di recente espressa, che è precipuo onere del
ricorrente "di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto,
onde dar modo alla Suprema Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale
asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione" (S.U. Cass. n.
2399/2014; Cass. n. 6230/2014; Cass. n. 5679/2014), che ai fin della deduzione in sede di
legittimità dei vizi qui denunciati, "è necessario, da un lato, che al giudice di merito
fossero state rivolte una domanda o un'eccezione autonomamente apprezzabili e,
dall'altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro
esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell'autosufficienza, con
l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le
une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo
luogo, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività" (Cass. n.
5344/2013), con la conseguenza che diversamente risultando violato l'art. 366 c.p.c. il
ricorso è inammissibile. E ciò è quanto occorre constatare nel caso di specie, poiché, pur
deducendo che il giudice di appello avrebbe omesso di prendere posizione in ordine
alle contestazioni da lui mosse alla rettifica operata dall'amministrazione, il ricorrente,
venendo meno all'onere anzidetto, non ha tuttavia rinnovato in questa sede la
rappresentazione di dette contestazioni, con il conclusivo effetto che le doglianze, con
cui si imputa sotto questo profilo alla sentenza impugnata di aver omesso la
motivazione riguardo ad esse o di non aver su di esse statuito, risultano prive di
fondamento.
6.1. Il settimo e ultimo motivo di ricorso investe la sentenza impugnata sotto il profilo
della violazione e/o falsa applicazione di legge e segnatamente dell'art. 8 L. 18.10.2001,
n. 383 e dell'art. 3 DLgs. 18.12.1997. n. 472. Venuta meno per effetto della norma prima
richiamata l'obbligatorietà della vidimazione, il principio del favor rei desumibile in base
alla seconda norma avrebbe imposto, diversamente da quanto ritenuto dal giudice
d'appello, che "nessuna conseguenza negativa potesse derivare al contribuente dal non
aver vidimato i registri IVA", e ciò sia con riguardo alle sanzioni proprie, rappresentate
da quelle che la legge edittalmente prevede per simile inadempienza, sia con riguardo
alle sanzioni improprie intese quali conseguenze sfavorevoli per il contribuente in
dipendenza della violazione di un precetto, nella specie meglio legittimanti il ricorso
all'accertamento induttivo operato dall'ufficio.
6.2. Nell'affrontare il tema di diritto posto dal settimo motivo di ricorso si impone una
preliminare precisazione per non incorrere nel facile equivoco a cui potrebbe condurre
una lettura del motivo di ricorso non esattamente coerente con i fatti di causa.
Invero, allorché il ricorrente solleva il problema della compatibilità dell'atto impugnato
con il principio del favor rei lo fa, come visto, sotto un duplice profilo, assumendone,
cioè, la contrarietà sul piano sanzionatorio tanto con gli effetti che derivano ex lege dalla
violazione degli obblighi in tema di vidimazione delle scritture contabili ovvero con le
sanzioni a suo tempo previste dall'art. 9, primo comma, DLgs. 471/97, quanto nei
confronti di quegli effetti riflessi o, come si dice in dottrina, di quelle "situazioni di
svantaggio", che pur non essendo annoverabili tra le sanzioni propriamente dette, in
quanto non edittalmente previste quale conseguenza della violazione di una norma
tributaria, per il fatto di tradursi in una penalizzazione del contribuente comunque
riconducibile ad una tale violazione, vengono comunemente denominate come sanzioni
improprie.
Ora erra la parte se pensa di invocare l'applicazione nel caso di specie del favor rei con
riferimento alle c.d. sanzioni proprie perché quelle irrogategli con l'avviso qui
impugnato sono conseguenza non già dell'inosservanza degli obblighi a suo tempo
previsti dall'art. 39 DPR 633/72 in tema di tenuta di scritture contabili, bensì
dell'infedele dichiarazione che l'ufficio ha potuto accertare in via induttiva, di talché se
una relazione tra l'una e l'altra è statuibile lo è solo nel senso che la prima
(l'inosservanza degli obblighi in tema di tenuta delle scritture contabili) è risultato lo
strumento, rendendo inattendibile la contabilità nel suo complesso, per accertare la
seconda (infedeltà della dichiarazione). Dunque invocare l'effetto salvifico dello ius
superveniens, che, avendo abrogato l'obbligo di vidimazione delle scritture contabili,
scagionerebbe il trasgressore da ogni riflesso addebito in applicazione del principio
del favor rei, è nel nostro caso, per quanto attiene alle sanzioni proprie, un manifesto
fuor d'opera.
6.3.1. Non lo è, o almeno non sembra esserlo ad un primo esame, con riguardo al tema
delle sanzioni improprie. Si ricorda, circa queste ultime, con la dottrina che più ha
approfondito l'argomento, che "... non è raro trovare nella legge tributaria italiana la
previsione, oltre che delle sanzioni vere e proprie, di situazioni di svantaggio per il
contribuente che abbia violato determinati obblighi, che possono essere di due tipi: di
carattere procedimentale, nel senso che al trasgressore vengano preclusi mezzi di tutela
che altrimenti avrebbe o nel senso che vengano potenziati i normali poteri di
accertamento dell'amministrazione ... di carattere sostanziale, nel senso che viene
maggiorata l'imposta, negando l'applicazione di deduzioni, di detrazioni, elevando
l'imponibile o assumendo come fatti tassabili elementi che diversamente non lo
sarebbero".
6.3.2. Con riguardo a queste ultime, con riguardo cioè a quelle forme di prelievo che si
traducono in un mero aggravamento del carico tributario, questa Corte ha già preso
posizione in senso favorevole all'applicazione della legge posteriore se più favorevole.
Investita della questione con riferimento all'art. 41, sesto comma, DPR 633/72 che
prevedeva a carico dell'acquirente di beni e servizi senza fattura che non provveda
all'autofatturazione l'irrogazione delle pene pecuniarie previste dai primi tre commi
"oltre al pagamento dell'imposta", si è ritenuto di poter affermare, sul presupposto della
ravvisata natura sanzionatoria di tale ultima misura, che essa non si sottrae
all'applicazione del principio del favor rei e che "pertanto, in virtù del principio di
legalità stabilito dall'art. 3, comma terzo, DLgs. n. 472 del 1997, anche riguardo a detto
prelievo, qualificato 'pagamento dell'imposta' dall'art. 41,cit., si applica la norma
posteriore, più favorevole al contribuente" (Cass. n. 5268/2005).
6.3.3. Nel caso che ne occupa tuttavia non si è presenza di una norma sanzionataria
impropria di carattere sostanziale, giacché dall'inosservanza degli obblighi in materia di
tenuta delle scritture contabili, costatata inizialmente dall'amministrazione, è scaturito
non già un appesantimento del carico tributario gravante sul contribuente, ma
l'esposizione del contribuente, sul rilievo che l'inosservanza in parola rendeva
inattendibili le registrazioni contabili nel loro complesso, alla procedura
dell'accertamento induttivo. Siamo, cioè, nel campo delle sanzioni improprie di tipo
procedimentale, di quelle sanzioni che si rendono altrimenti applicabili in quanto
dirette a creare in capo al contribuente una situazione di svantaggio dipendente
dall'inosservanza di obblighi a mezzo dei quali il contribuente è ammesso a provare
l'esistenza di fatti a sé favorevoli. Per usare le parole della dottrina "se il contribuente
non tiene le scritture contabili è giusto che non possa provare altrimenti i costi e se non
esibisce la documentazione degli oneri è giusto che questi non vengano calcolati. Qui la
situazione di svantaggio del contribuente - si dice - "è di tipo procedimentale".
Anche con riguardo alle c.d. sanzioni improprie di questa natura questa Corte
regolatrice, pur non prendendo funditus posizione sulla specifica questione, ha tuttavia
avuto modo di esprimersi in termini favorevoli riguardo all'applicabilità della legge
posteriore se più favorevole e lo ha fatto proprio occupandosi della legittimità
dell'accertamento induttivo che sia avviato sulla base dell'inosservanza di un obbligo
tributario successivamente abrogato. In merito agli effetti discendenti dall'abrogazione
dell'obbligo di tenuta del repertorio della clientela si è infatti statuito che "lo 'ius
superveniens' rappresentato dall'abrogazione della norma che prevedeva quell'illecito,
infatti, trova applicazione, a partire dal 1° aprile 1998 (data di entrata in vigore del
principio del "favor rei", sancito dall'art. 3 del DLgs. 18 dicembre 1997, n. 472 anche nel
sistema sanzionatorio tributario, e della sua applicabilità retroattiva, anche di ufficio, in
ogni stato e grado del processo), all'unica condizione che il provvedimento impugnato
non debba qualificarsi "definitivo", posto che, in materia di sanzioni amministrative per
la violazione di norme tributarie, il detto art. 3 del DLgs. n. 472 del 1997 ha stabilito
l'applicabilità del principio "ai procedimenti in corso" alla detta data, a condizione
(sussistente nella specie) che il provvedimento irrogativo della sanzione non sia
divenuto definitivo" (Cass. n. 12434/2007), traendo da ciò la conclusione che sia
pertanto illegittimo l'accertamento induttivo operato sulla base dell'omessa tenuta del
repertorio della clientela.
6.3.4. Approfondendo meglio il tema questo collegio crede che rispetto
all'insegnamento impartito nell'occasione si rendano necessarie alcune puntualizzazioni
che, illuminando più da vicino lo scenario sul quale quell'affermazione si staglia,
consentano
di
rimeditarne
in
qualche
misura
la
portata.
Non si è intanto lontani dal vero se, riflettendo sulle implicazioni sistematiche del
problema, si sia portati ad osservare, almeno inizialmente, che il principio del favor
rei non è disgiungibile dal principio di legalità. In qualche pronuncia di questa Corte
(Cass. n. 5241/2008), senza dover per questo scomodare la più accreditata dottrina, si è
detto che esso ne costituisce più esattamente un corollario e l'affermazione invita a
pensare al principio del favor rei come ad una sorta di effetto clemenziale dello stesso
principio che, all'opposto, rende sanzionabile una condotta che l'ordinamento reputa
illecita. E del resto la circostanza che la sua codificazione segua di regola quella del
principio di legalità, attestata da diverse fonti (oltre all'art. 2 c.p., si veda, per restare nel
nostro campo, l'art. 3 DLgs. 472/97) è un indice più che rassicurante in questa
direzione. E' perciò del tutto conseguente ipotizzare che il principio del favor rei, non
diversamente da quello di legalità ed anzi al pari di questo, operi solo in relazione a
condotte tipologicamente predefinite, a condotte, per intenderci, che per essere
sanzionate in guisa della loro ritenuta illiceità postulavano che la legge ne definisse
previamente i caratteri identificativi. Se è così, non sembra allora appropriato invocarne
l'applicazione a fronte di un fatto che, come l'esposizione del contribuente inattendibile
alla procedura dell'accertamento induttivo, è privo di questa originaria connotazione di
illiceità, che è sì conseguenza di una condotta contraria alla legge, ma è estranea alla
previsione che un tempo qualificava come illecita quella condotta.
E' poi ancora doveroso osservare, lungo questa linea di ragionamento, che per la stessa
correlazione necessaria con il principio di legalità il concetto di sanzione, anche quando
si parla delle sanzioni c.d. improprie, non sembra poter prescindere da una
connotazione intrinsecamente afflittiva. E' sanzione in forma impropria, per restare
ancora nel nostro campo, la perdita di un beneficio, la decadenza da un'agevolazione, la
revoca di un privilegio, ecc. E' sanzione, come si è visto, il pagamento dell'imposta a suo
tempo previsto dall'abrogato art. 41, sesto comma, DPR 633/73. Tutte situazioni di
svantaggio che si determinano senz'altro quale conseguenza riflessa di una condotta
inosservante di un obbligo di legge, ma che appaiono tuttavia accomunate anche sotto
un altro diverso aspetto, quello di risolversi nell'immediata ed incondizionata
penalizzazione del trasgressore. In questi casi non è effettivamente discutibile che
trattandosi di rimuovere gli effetti indirettamente sanzionabili di una condotta illecita il
principio del favor rei trovi la più ampia applicazione. Che ciò tuttavia, accada anche
quando il contribuente inattendibile sia sottoposto ad accertamento induttivo non
sembra realizzare esattamente la stessa ipotesi. Diversamente da quel che accade negli
altri casi, dove il contenuto afflittivo in danno del contribuente inadempiente è univoco
ed inequivocabile, sicché la legge posteriore che rimuove l'illiceità della condotta
anteatta, nel mentre elimina ogni diretta sanzionabili futura di essa, pure comporta
doverosamente per il passato la rimozione di ogni effetto sanzionatorio improprio,
l'esposizione all'accertamento induttivo per il fatto di dar vita ad un procedimento
valutativo nel corso del quale si innestano numerose varianti discrezionali ed il cui
approdo in senso necessariamente pregiudizievole non è affatto obbligato o, almeno,
non è questi termini delineato dalla legge, solo inizialmente potrebbe essere accostato a
quelle situazioni di immediato e diretto svantaggio che appaiono connotate da
un'afflittività intrinseca e rispetto alle quali l'applicazione del favor rei non si espone a
riserve di sorta. L'accento sulla natura procedimentale dell'accertamento induttivo offre
il destro anche per un'altra considerazione in senso dubitativo all'applicazione ad esso
del principio del favor rei. Sembra infatti chiaro, quale indiretto riflesso del principio di
legalità, che il concetto di sanzione racchiuda in sé anche il connotato della certezza. In
breve, è noto che le sanzioni si correlino alla violazione di un precetto e, così come
spetta alla legge delineare esattamente i connotati identificativi della condotta che viola
il precetto, è altrettanto noto che è alla legge che spetta il compito di indicare
esattamente la sanzione applicabile in quel caso. Ciò è quanto si osserva anche nel
campo delle sanzioni c.d. improprie dove di regola la situazione di svantaggio, che si
determina in capo al contribuente quale effetto riflesso dell'inosservanza di un obbligo
o se si vuole, più generalmente, della violazione di un precetto, è puntualmente prevista
dalla legge e si applica de plano quale diretta ed immediata conseguenza di una condotta
inadempiente.
E' perciò evidente, già solo per questo aspetto, la distanza che separa l'assoggettamento
del contribuente inattendibile ad accertamento induttivo dal campo delle sanzioni c.d.
improprie. Queste ultime sono assolutamente certe e certa ne è la loro applicazione, in
quanto la mera violazione dell'obbligo che ne è il presupposto determina su questo
piano l'applicazione di quella sanzione e solo di quella. Tutta diversa è invece la
situazione di svantaggio che, dir si voglia, riconducibile all'ipotesi dell'accertamento
induttivo. E ancora forse nel momento iniziale che si potrebbe essere indotti a ravvisare
un qualche tratto di similitudine con le sanzioni ed improprie, ma diversamente da
queste, che non deflettono dall'ordinario paradigma di ogni altro trattamento
sanzionatorio che ricollega immediatamente l'irrogazione della sanzione alla violazione
di un precetto, nel caso dell'avvio dell'accertamento induttivo quel carattere iniziale è
frutto solo di apparenza, in quanto, per restare al nostro caso, l'assoggettamento del De.
all'accertamento induttivo delle imposte da lui evase non è stato effetto diretto ed
immediato della violazione dal medesimo consumata nella tenuta del registro unico
IVA, ma è all'evidenza il riflesso di un apprezzamento discrezionale dell'ufficio, che già
nel fatto di sottoporre il contribuente a quel procedimento valutativo esercita quella
libertà di giudizio a geometria variabile di cui il legislatore l'ha voluto investire di
fronte al contribuente inattendibile. La circostanza che l'accertamento induttivo possa
essere disposto in presenza di irregolarità nella tenuta della contabilità "così gravi,
numerose e ripetute" da renderla inattendibile, in altre parole, nel mentre affida
all'autonomia decisionale dell'ufficio ogni ulteriore determinazione, priva nel contempo
pure l'accertamento induttivo di ogni caratterizzazione in termini di certezza, non solo
perché la natura procedimentale di esso e la discrezionalità con cui procede l'ufficio non
ne segnano ab origine l'esito, ma perché neppure il suo input ubbidisce ad una siffatto
connotato, giacché, essendo possibile solo a fronte di un giudizio che abbia ad oggetto
l'attendibilità della contabilità commisurata alla gravità, al numero e alla ripetizione
delle irregolarità riscontrate, esso mette necessariamente capo ad una valutazione che
non ha fonte nella legge e che non ne permette dunque l'assimilazione al campo delle
sanzioni sia pure improprie.
Dunque vi è più di una ragione che induce questa Corte all'opinione che dare
applicazione al principio del favor rei relativamente alla possibilità che il contribuente
inattendibile sia sottoposto ad accertamento induttivo non è una conclusione
debitamente coerente rispetto alla problematica riconducibilità di detta misura al
campo delle sanzioni improprie.
7. Respingendosi il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite
che liquida nella somma omnicomprensiva di euro 2.700,00.
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17 dicembre 2014, n. 26475 dalla Corte di Cassazione