Krilling D
Manuale Uso Interno
D
OMEGA-3 + D3
Krill oil
D3
ITALCHIMICI
1
Krilling D
Manuale Uso Interno
Lipidi
I lipidi sono costituenti di tutti gli organismi viventi. Nella loro composizione chimica sono presenti carbonio,
idrogeno ed ossigeno (perciò sono detti Terziari). Sono caratterizzati da insolubilità in acqua e dalla capacità
di produrre almeno un acido grasso per idrolisi.
Sono distinti a livello biologico in lipidi di deposito (riserva energetica, funzione protettiva) e lipidi di struttura
(componenti delle membrane cellulari). I lipidi si trovano in grassi animali e olii vegetali.
Classificazione dei lipidi
I lipidi si dividono in Semplici e Complessi
LIPIDI
COMPOSIZIONE
SEMPLICI
Esteri di acidi grassi + un alcool
Gliceridi
Ceridi
Steridi
Glicerolo + acidi grassi
Alcool superiore + acido superiore
Sterolo + acido grasso
COMPLESSI
Esteri di acidi grassi
Fosfolipidi:
Glicerofosfolipidi
Sfingofosfolipidi
Glicerolo+acidi grassi+acido ortofosforico+base azotata
Aminoalcool+acido grasso+acido ortofosforico+base azotata
Glicolipidi:
Cerebrosidi
Solfatidi
Gangliosidi
Aminoalcool+acido grasso+galattosio
Aminoalcool+acido grasso+galattosio+solfato
Aminoalcool+acido grasso superiore,+esosi+acido neuraminico
Proteolipidi:
Proteine+lipidi
Gli Acidi Grassi
Sono i costituenti di tutti i lipidi e si distinguono in Saturi, poiché non hanno doppi legami e sono idrofobi, ed
Insaturi, che hanno doppi legami.
Gli acidi grassi Insaturi si dividono a loro volta in Monoinsaturi (un solo doppio legame) e Polinsaturi con due
o più doppi legami.
Gli acidi grassi sono considerati a catena corta fino a 10 atomi di carbonio, a catena media fino a 14 e a
catena lunga fino a 24.
La presenza del doppio legame conferisce alla catena carboniosa una forte reattività poiché può accettare
idrogeno con la trasformazione dell’acido grasso insaturo nel corrispondente saturo o assumere ossigeno
formando epossidi e idroperossidi.
Gli acidi grassi saturi si descrivono con Cx: y :n - Es. Acido butirrico C 4: n-0 ad indicare 0 doppi legami.
Gli acidi monoinsaturi con Cx: y :n - Es. Acido oleico C 18:1 :n-3 ad indicare 1 doppio legame sul 3° atomo
di Carbonio.
Gli acidi polinsaturi con Cx: y :n - Es. Acido linolenico C 18:3 :n-3 ad indicare 3 doppi legami ad iniziare dal
3° atomo di C.
Spesso per indicare il numero dei doppi legami s’inserisce nella formula la lettera greca
ITALCHIMICI
 (omega).
2
Krilling D
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EFA, EPA, DHA, PUFA, OMEGA-3, OMEGA-6
Vediamo di mettere ordine in tutte queste sigle che si trovano in letteratura.
Il punto di partenza per comprendere le sigle sono gli EFA (Essential Fatty Acids) detti anche Vitamine F.
Gli EFA sono acidi grassi polinsaturi che devono essere introdotti con la dieta nell’organismo poiché questi
non è in grado di sintetizzarli:
Acido cis-Linoleico
Acido -Linolenico
C 18:2 n-6
C 18:3 n-3
DIETA
Serie Omega-6
Serie Omega-3
Acido -Linolenico
C 18 : 3 n-3
Acido cis- linoleico
C 18 : 2 n-6
-6-desaturasi
Acido -Linoleico
C 18 : 3 n-6
C 18 : 4 n-3
Acido di-omo-Linolenico DGLA
C 20 : 3 n-6
Acido stearonico
C 20 : 4 n-3
-5-desaturasi
PGE1
Acido Arachidonico
C 20 : 4 n-6
Acido Eicosapentaenoico EPA
C 20 : 5 n-3
PGE2
PGE3
Acido Adreico
C 22 : 4 n-6
C 22 : 5 n-3
Serie Omega
C 22 : 5 n-6
C 22 : 6 n-3
Acido Decosaesaonoico DHA
Come accade per la maggior parte delle vitamine, l’acido cis-linoleico e l’acido -linolenico da soli non hanno
alcuna attività biologica, a parte la produzione di energia per ossidazione.
Per poter esseri attivi come EFA, devono essere trasformati in altri derivati da degli enzimi:
 Enolasi (che allunga la catena carboniosa)
 Desaturasi (che inserisce doppi legami nella catena carboniosa).
L’enzima che favorisce o inibisce la trasformazione dell’acido cis-linoleico ad acido -linoleico e dell’acido
-linolenico in acido stearonico è la desaturasi. La formazione delle PG1 e PG2 dipende quindi, in prima
fase, dalla formazione dell’acido -linoleico, che trasformandosi in acido di-omo--linolenico ed arachidonico
permeterà la biosintesi delle prostaglandine.
Gli acidi grassi di questa via sono detti acidi della serie Omega-6.
Dall’acido -Linolenico si hanno invece gli acidi della serie Omega-3 come l’acido eicosapemtaenoico
(EPA), la formazione delle PG3 e l’acido decosaesaenoico (DHA).
Dall’EPA si può comunque fornare l’acido arachidonico.
Il DHA può a sua volta riconvertirsi in EPA, si pensa che il DHA sia la riserva per la formazione di EPA.
ITALCHIMICI
3
Krilling D
Manuale Uso Interno
Abbiamo sino ad ora visto il significato dei termini EFA, EPA, DHA, Omega-3 ed Omega-6, non ci resta che
illustrare i PUFA e l’olio di pesce.
I PUFA (PolyUnsaturated Fatty Acids) sono generalmente identificati con gli acidi grassi della serie Omega-3
quando predominano nella dieta a base di olio di pesce e con gli acidi grassi della serie Omega-6 presenti
nella dieta a base di carne e vegetali.
Pertanto i PUFA Omega-3 avranno alti livelli di acido -Linolenico, di EPA ed DHA che sono considerati
particolarmente importanti biologicamente.
Questo tipo di PUFA sono stati molto studiati, partendo dalla ricerca degli effetti della dieta a base di pesce
negli Eschimesi della Groenlandia.
I PUFA introdotti con la dieta vengono incorporati nei fosfolipidi delle membrane cellulari.
Stimoli traumatici, tossinici, batterici e farmacologici, attivano una fosfolipasi che idrolizza i fosfolipidi di
membrana e libera gli acidi grassi menzionati, che divengono disponibili come substrati del sistema
enzimatico prostaglandina-sintetasi e di altri sistemi enzimatici.
Gli Eicosanoidi
Gli eicosanoidi sono sostanze (super-ormoni) che controllano i sistemi ormonali.
Sono rappresentati da diverse famiglie di sostanze (prostaglandine, tromboxani, leucotrieni, lipossine ecc.).
Dobbiamo ai ricercatori Bergstrom, Samuelson e Vane (premio Nobel 1982) un valido studio di questi
elementi che ci permette di comprenderne l'importanza.
Gli Eicosanoidi derivati dall'Acido arachidonico (AA) (Omega-6) hanno la capacità di aumentare le reazioni
allergiche, la proliferazione cellulare, la pressione sanguigna, le reazioni infiammatorie, l'aggregazione
piastrinica, la trombogenesi e il vasospasmo.
Quelli derivati dall'Acido eicosapentenoico (EPA) (Omega-3), hanno effetti opposti e quindi protettivi.
Le Prostaglandine
Le Prostaglandine fanno parte della famiglia degli Esonoidi e si propongono come sostanze di tipo ormonale.
Esse gestiscono importati funzioni quali: permeabilità cellulare, processi di coagulazione, funzionalità del
sistema nervoso, funzioni sessuali e riproduttive, mobilizzazione dei grassi, fragilità capillare vasocostrizione,
risposte immunitarie e infiammatorie.
Le Prostaglandine, a differenza degli ormoni sono sintetizzate ed operano nel luogo dove sono necessarie.
Vengono normalmente suddivise nei tre gruppi seguenti:
1. Serie 1 (PGE1), considerate "buone", derivano dall'Acido dihomo-gamma-linoleico (DGLA)
2. Serie 2 (PGH2), considerate "cattive", derivano dall'Acido arachidonico (AA)
3. Serie 3 (PGI2), considerate "buone", derivano dall'Acido eicosapentenoico (EPA).
ITALCHIMICI
4
Krilling D
Manuale Uso Interno
Le prostaglandine della Serie 1 e 3 (buone):





sono vasodilatatrici,
collaborano alla gestione dei processi coagulativi,
svolgono azione antinfiammatoria,
abbassano il Colesterolo LDL (Low density lipoproteins) (proteine di grasso a bassa densità che
trasportano, principalmente, i fosfolipidi e il colesterolo libero),
aumentano il Colesterolo HDL (High Density Lipoproteins) (proteine di grasso ad alta densità che
trasportano i fosfolipidi e il colesterolo esterificato fino al fegato da dove viene eliminato attraverso la
bile. L’esterificazione è una reazione tra un alcool e un acido.
Le prostaglandine della Serie 2 (cattive) hanno l'effetto opposto.
Giusto rapporto tra Omega-3 e Omega-6
Va precisato che gli AGE della serie Omega-6 e Omega-3 non sono intercambiabili; pertanto è necessario
che vengano entrambi assunti con l'alimentazione.
Non solo, ma va tenuto presente che gli Omega-6 e gli Omega-3 competono tra loro per l'utilizzo degli
enzimi coinvolti nella loro desaturazione. Per tale ragione il consumo eccessivo di cibi ricchi in acidi grassi
Omega-6 può compromettere la conversione dell'Acido Alfa-linolenico in Acido eicosapentenoico (EPA), e
creare dei presupposti per disfunzioni o malattie.
Le ricerche attuali suggeriscono che i livelli di AGE, e il loro equilibrio, possano giocare un ruolo
fondamentale nella crescita e nello sviluppo. Sembra anche che possano essere determinanti nella
prevenzione e nel trattamento di malattie croniche tra cui: patologie coronariche, ipertensione, diabete
mellito di tipo II, artrite, cancro e altri disordini immunitari ed infiammatori.
Gli Acidi grassi del Serie Omega-3, ed in particolare l'Acido eicosapentenoico (EPA) e l'Acido
decosaesaenoico (DHA), sono assai importanti per la salute. Purtroppo, però, negli alimenti comuni se ne
trovano delle quantità assai ridotte, gli unici alimenti che ne contengono sono il pesce e i suoi derivati.
Per questo fatto, nella dieta tradizionale si usano ben 10 parti di Omega-6 contro una sola parte di Omega-3
(rapporto Omega-6/Omega-3 = 10:1), mentre dovrebbe essere di circa 6:1.
Per correggere tale rapporto è necessario consumare più alimenti che contengono l'Acido Alfa-linolenico.
Funzioni degli acidi grassi polinsaturi (PUFA)
Sono i precursori di molecole segnale (eicosanoidi, endocannabinoidi). Hanno anche un'azione diretta
sull'espressione genica tramite l'attivazione di:


Peroxisome Proliferator-Activated Receptor (PPAR)
Sterol Responsive Element- Binding Protein (SREBP)
Gli acidi grassi Omega-3 hanno un'attività antiaterogena, antinfiammatoria, antitrombotica, ed aumentano le
HDL.
L'acido Decosaesaonoico o DHA e l'Acido Arachidonico (ARA) sono importanti componenti strutturali dei
lipidi di membrana, molto diffusi nel sistema nervoso centrale.
Infatti il 50% del peso secco del cervello è rappresentato da lipidi, soprattutto fosfolipidi contenenti acido
Arachidonico (ARA).
L'acido decosaesaenoico (DHA), svolge anche una funzione di rilievo nella retina, infatti l'80% dei PUFA
delle sue membrane sono costituite dall'acido decosaesaenoico (DHA), che permette a queste membrane la
rapida trasmissione della luce.
ITALCHIMICI
5
Krilling D
Manuale Uso Interno
L'acido eicosapentaenoico o EPA e l'acido decosaesaenoico (DHA) svolgono anche un'azione protettiva nei
confronti dell'aterosclerosi e proteggono dall'insorgenza di malattie cardio-vascolari.
L'acido eicosapentaenoico (EPA) è il principale precursore delle prostaglandine della serie 3, che svolgono
un'attività antiaggregante piastrinica.
L'acido α-linolenico (Omega-3) inoltre, in numerosi studi si è dimostrato utile alla riduzione della mortalità
cardio-vascolare.
Un'integrazione in acidi grassi Omega-3 può essere utile nelle situazioni infiammatorie.
Può essere consigliata un integrazione dietetica a tutti coloro che hanno processi infimmatori intensi,
funzione immunitaria compromessa e possono aiutare a tenere in remissione il morbo di Crohn e la
rettocolite ulcerosa
Abbreviazioni:
AA
Acido arachidonico
AGE
Acidi grassi essenziali (EPA in inglese)
DGLA
Acido di-omo-gammalinolenico
DHA
Acido decosaesaenoico
EPA
Acido eicosapentenoico
GLA
Acido gamma linolenico
LA
Acido linoleico (ruolo strutturale e funzionale)
LCT
Acidi grassi a catena lunga (ruolo energetico)
LDL
Colesterolo LDL (Low Density Lipoproteins).
Proteine di grasso a bassa densità che trasportano, principalmente, i fosfolipidi
ed il colesterolo libero.
LTB4
Eicosanoidi della serie 4 (cattivi)
LTB5
Eicosanoidi della serie 5 (buoni)
LNA
Acido alfa-linolenico (ruolo strutturale e funzionale)
HDL
Colesterolo (High Density Lipoproteins).
Proteine di grasso ad alta densità che trasportano i fosfolipidi ed il colesterolo
esterificato fino al fegato da dove viene eliminato attraverso la bile.
L’esterificazione è una reazione tra un alcool ed un acido.
MCT
Acidi grassi a catena media (ruolo energetico)
PGE1
Eicosanoidi della Serie 1 (buoni)
PGH2 e TXA2
Eicosanoidi della Serie 2 (cattivi)
PGE3 e TXA3
Eicosanoidi della Serie 3 (buoni)
PUFA
Polinsatured Fatty Acids (AGE in italiano)
.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Carenza acidi grassi essenziali
Una carenza in acidi grassi Omega-6 porta a:










lesioni cutanee
anemia
aumento dell'aggregazione piastrinica
trombocitopenia
danni epatici
ritardata cicatrizzazione delle ferite
aumentata suscettibilità alle infezioni
diarrea
ritardo di crescita nell'età evolutiva
diminuzione della fertilità
Una carenza in acidi grassi Omega-3 invece è caratterizzata da:






sintomi neurologici
ridotta funzionalità visiva
lesioni cutanee
ritardi di crescita
alterazioni delle capacità cognitive
alterazioni nel metabolismo dei neurotrasmettitori monoaminergici
Classificazione degli acidi grassi polinsaturi (Istituto Superiore di Sanità)
Atomi di Carbonio:
Doppi legami
Posizione doppio
legame
Nome
comune
Nome
IUPAC
Fonti
Alimentari
18:2
9, 12
acido
linoleico
acido 9,12ottadecadienoico
Olio di girasole
18:3
9, 12, 15
acido
alfa-linolenico
acido 9,12,15ottadecatrienoico
Sardine, salmone,
sgombro, olio di lino
18:4
6, 9, 12, 15
acido
stearidonico
acido 6,9,12,15ottadecatetraenoico
Semi di canapa, olio di
semi di ribes nero
20:4
5, 8, 11, 14
acido
arachidonico
acido 5,8,11,14eicosatetraenoico
Grassi animali,
Olio di pesce
20:5
4, 8, 12, 15, 18
acido
timnodonico
acido 4,8,12,15,18eicosapentaenoico
Olio di pesce
22:5
4, 8, 12, 15, 19
acido
clupanodonico
acido 4,8,12,15,19docosapentaenoico
Olio di pesce
22:6
4, 7, 10, 13,
16, 19
acido
cervonico
acido 4,7,10,13,16,19decosaesaenoico
Olio di pesce
ITALCHIMICI
7
Krilling D
Manuale Uso Interno
FABBISOGNI LARN
LIVELLI DI ASSUNZIONE GIORNALIERI RACCOMANDATI DI NUTRIENTI PER LA POPOLAZIONE ITALIANA (L.A.R.N.),
SOCIETÀ ITALIANA DI NUTRIZIONE UMANA
Categoria
Acidi
grassi
Peso Proteine essenziali
Età
(anni)
(1)
(kg)
(2)
(g)
(3)
(g)
(4)
Calcio
Fosforo Potassio Ferro Zinco Rame Selenio Iodio Tiamina Riboflavina
(mg)
(mg)
(6)
(mg)
(mg)
(mg)
(mg)
(mg)
(mg)
(9)
(mg)
(mg)
Niacina
(N.E.) Vit.B6 Vit.B12 Vit.C Folati
(mg)
(10)
(mg)
(11)
(mg)
(mg)
Vit.A
(R.E.)
Vit.D
(mg) (mg)(13) (mg)(15)
𝛚6 𝛚3
10-25*
Lattanti
0,5-1
7-10
15-19
4
0,5
600
500
800
7
4
0,3
8
50
0,4
0,4
5
0,4
0,5
35
50
350
Bambini
1-3
9-16
13-23
4
0,7
800
800
800
7
4
0,4
10
70
0,6
0,8
9
0,7
0,7
40
100
400
10
4-6
16-22
21-28
4
1
800
800
1100
9
6
0,6
15
90
0,7
1,0
11
0,9
1
45
130
400
0-10
Maschi
Femmine
*
7-10
23-33
29-42
4
1
1000
1000
2000
9
7
0,7
25
120
0,9
1,2
13
1,1
1,4
45
150
500
0-10
11-14
35-53
44-65
5
1
1200
1200
3100
12
9
0,8
35
150
1,1
1,4
15
1,3
2
50
180
600
0-15
15-17
55-66
64-72
6
1,5
1200
1200
3100
12
9
1
45
150
1,2
1,6
18
1,5
2
60
200
700
0-15
18-29
65
62
6
1,5
1000
1000
3100
10
10
1,2
55
150
1,2
1,6
18
1,5
2
60
200
700
0-10
30-59
65
62
6
1,5
800
800
3100
10
10
1,2
55
150
1,2
1,6
18
1,5
2
60
200
700
0-10
60+
65
62
6
1,5
1000
1000
3100
10
10
1,2
55
150
0,8
1,6
18
1,5
2
60
200
700
10
9
0,8
35
150
0,9
1,2
14
1,1
2
50
180
600
0-15
11-14
35-51
43-58
15-17
52-55
18-29
56
30-49
50+
(7)
1
1200
1200
3100
56-57
5
1
1200
1200
3100
18
7
1
45
150
0,9
1,3
14
1,1
2
60
200
600
0-15
53
4,5
1
1000
1000
3100
18
7
1,2
55
150
0,9
1,3
14
1,1
2
60
200
600
0-10
56
53
4,5
1
800
800
3100
18
7
1,2
55
150
0,9
1,3
14
1,1
2
60
200
600
0-10
56
53
4,5
1
1500- (5)*
1000
3100
10
7
1,2
55
150
0,8
1,3
14
1,1
2
60
200
600
10*
*
Gestanti
59
5
1
1200
1200
3100
Nutrici
70
5,5
1
1200
1200
3100
12/18
*
4
(8)*
30
18
7
1,2
55
175
1
1,6
14
1,3
2,2
70
12
1,5
70
200
1,1
1,7
16
1,4
2,6
90
(12)*
400
350
(14)
700
950
10*
10*
1
I limiti superiori dell’intervallo di età s’intendono fino al compimento del successivo compleanno (ad esempio con "1 - 3 anni" si
intende da 1 anno appena compiuto fino al compimento del 4° anno). L’ultima classe di età della donna è "50 e più" poichè con
la menopausa cambiano i fabbisogni di due importanti nutrienti: il calcio e il ferro. Nell’uomo l’ultima classe di età è "60 e più".
2
Nei lattanti, bambini e adolescenti, gli intervalli di peso sono i valori di riferimento: il limite inferiore dell’intervallo corrisponde al
peso delle femmine nella classe d’età più bassa, mentre il limite superiore corrisponde al peso dei maschi nella classe di età più
elevata. Nell’adulto è stato riportato il peso desiderabile medio dei maschi e delle femmine nella popolazione italiana.
3
Per stimare il fabbisogno in proteine, il Livello di Sicurezza (LS) è stato corretto per la qualità proteica della dieta e moltiplicato
per i pesi corporei riportati nella prima colonna. Sia nei bambini che negli adulti è comunque preferibile calcolare il fabbisogno
sulla base del peso dell’individuo o del gruppo di individui, utilizzando la tabella apposita. Il valore di peso da utilizzare è quello
osservato, con l’eccezione dei soggetti sottopeso ed obesi per i quali va utilizzato il peso desiderabile.
4
Il fabbisogno di acidi grassi ω6 aumenta dopo la 10a settimana di gravidanza.
5
Nelle donne in età post-menopausale si consiglia un apporto di calcio da 1200 a 1500 mg in assenza di terapia con estrogeni.
Nel caso di terapia con estrogeni, il fabbisogno è uguale a quello degli anziani maschi (1000 mg).
6
Con l’eccezione del lattante, il livello di assunzione raccomandato di fosforo è uguale in grammi a quello del calcio, il che
corrisponde ad un rapporto molare fosforo/calcio 1/1,3
7
Il livello di assunzione raccomandato di ferro è di 18 mg nelle adolescenti mestruate e di 12 mg nelle altre.
8
L’apporto di ferro in gravidanza che corrisponde alla minore morbosità e mortalità fetale e neonatale è tale da non potere
essere facilmente coperto con un’alimentazione equilibrata, per cui si consiglia una supplementazione.
9
Poichè la dieta è spesso carente di iodio, per la copertura dei fabbisogni si consiglia l’uso di sale arricchito con iodio.
10
La niacina è espressa come niacina equivalenti in quanto comprende anche la niacina di origine endogena sintetizzata a
partire dal triptofano (1 mg di niacina deriva da circa 60 mg di triptofano).
11
Il fabbisogno in vitamina B6 è stato calcolato sulla base di 15 mg/g di apporto proteico e considerando che circa il 15%
dell’apporto energetico è assicurato dalle proteine sia nel bambino che nell’adulto.
12
Un aumento dell’apporto di folati nel periodo periconcezionale costituisce un fattore di protezione dalla spina bifida nel
nascituro.
13
La vitamina A è espressa in mg di retinolo equivalenti (R.E.= 1mg di retinolo = 6mg di betacarotene = 12mg di altri carotenoidi
attivi)
14
In gravidanza, per i noti effetti teratogeni legati ad eventuali dosi eccessive, vanno assunti supplementi di vitamina A solo
dietro indicazione del medico, e comunque con dosi che non superino i 6 mg di R.E.
15
Per la vitamina D, gli intervalli comprendenti lo zero indicano che il gruppo di popolazione considerato dovrebbe essere in
grado di produrre un'adeguata quantità di vitamina D in seguito all'esposizione alla luce solare. Il valore più elevato
dell’intervallo è la stima dell’apporto raccomandato per gli individui con sintesi endogena minima. Il valore singolo indica che è
prudente, per tutti i soggetti della classe considerata, assumere (con la dieta o mediante supplementazione) la quantità indicata
di vitamina D.
*
Per coprire tali fabbisogni potrà talvolta essere conveniente consumare alimenti fortificati o
completare l’apporto dietetico con una supplementazione.
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Manuale Uso Interno
OMEGA-3 e OMEGA-6 “ESSENZIALI”
Cenni storici
La storia degli acidi grassi essenziali (AGE), ha avuto inizio nel 1929 quando G. Burr e M. Burr
scoprirono che l’acido linoleico (AL), capostipite della serie Omega-6, e l’acido alfa linolenico (ALA),
capostipite della serie Omega-3, erano indispensabili per la salute dell’uomo. A loro fu dato il nome di
acidi grassi “essenziali” in quanto l’organismo umano non è in grado di sintetizzarli per cui, per
mantenere lo stato di benessere, deve introdurli con gli alimenti.
Da tali acidi grassi essenziali, indicati come polinsaturi o PUFA derivano gli acidi grassi essenziali
polinsaturi i più importanti dei quali sono: derivati dall’acido linoleico (AL): acido gamma linolenico
(GLA), acido diomogammalinolenico (DGLA) ed acido arachidonico (AA) e, dall’acido alfa linoleico:
l’ALA l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido decosaesaenoico (DHA).
Dopo alcuni anni furono evidenziati i primi derivati di tali composti, denominati “prostaglandine”,
perché trovati per la prima volta in piccole quantità nel liquido prostatico e nella prostata, e,
successivamente, fu ottenuta la loro struttura. Nel 1979, furono identificati un insieme di acidi lipidici
bioattivi, diversi dalle prostaglandine, all’inizio identificati come “sostanza a lenta reazione” o “slow
reacting substance” (SRS) e poi denominati leucotrieni in quanto prodotti dai leucociti.
Evoluzione delle conoscenze
Nel 1982 S.K. Bergström, B.I. Samuelsson e J.R. Vane vinsero il premio Nobel per “le scoperte sulla
biochimica e fisiologia delle prostaglandine, e su altre molecole analoghe biologicamente attive”.
Successivamente furono scoperte le endoperossidasi, il trombossano A2, fu chiarita la biosintesi e la
struttura dei leucotrieni e, più recentemente, sono state scoperte le lipossine, le resolvine, le
protectine e le neuroprotectine.
Mentre evolvevano queste conoscenze, numerose indagini hanno evidenziato che gli AGE svolgono
due importanti funzioni fra loro strettamente collegate ed influenzate dall’apporto qualitativo e
quantitativo dei lipidi alimentari:


Funzione strutturale
Funzione di trasporto e metabolica
Funzione strutturale
Gli acidi grassi essenziali e i loro derivati sono importanti componenti dei lipidi strutturali, nella
costituzione dei fosfolipidi delle membrane delle cellule di tutto l’organismo ma, in particolare, dei
neuroni, dei nervi, delle guaine mieliniche, della retina, dei vasi, delle cellule della crasi ematica. Da
molti studi è emerso che l’AA è un componente essenziale di tutte le membrane cellulari: è deputato
alla crescita del feto e i tessuti nervosi sono particolarmente ricchi di LC-PUFA.
Per quanto riguarda il cervello, oltre il 60% del suo peso, è costituito da acidi grassi e la maggior parte
degli acidi grassi Omega-3, che è associato ad un ottimale sviluppo cerebrale nella vita fetale e nelle
varie fasi dell’infanzia, e concentrazioni molto elevate di tale LC-PUFA si trovano nella retina, dove è
indispensabile per ricevere gli stimoli visivi. E’ tenacemente conservato nelle sinapsi, dove svolge un
ruolo centrale per il loro funzionamento e la trasmissione dell’impulso nervoso.
L’85% dei fosfolipidi di membrana del SNC contiene DHA che rende più fluide le membrane neuronali,
favorendo le attività enzimatiche legate alle funzioni neurorecettoriali e modulando le attività dei
neurotrasmettitori.
L’integrità e la funzionalità dei neuroni, durante tutta la vita, dipende quindi dall’apporto alimentare
degli acidi grassi essenziali dai quali, attraverso conversioni metaboliche, si generano i LC-PUFA n 6
e ω3. L’importanza dei LC-PUFA è documentata anche dal fenomeno della biomagnificazione
dell’A.A. e del DHA dalla madre al feto per cui il livello materno degli AGE (AL ed ALA) rappresenta un
punto iniziale cruciale delle correlazioni lipidiche materno-fetali, in quanto da ciò dipende la possibilità
del loro passaggio al feto.
Durante la gravidanza la placenta ha pertanto un compito determinante visto il fabbisogno di acidi
grassi essenziali per la corretta nutrizione del feto, per l’espansione del volume ematico, per la
costruzione di nuove cellule nei vari parenchimi fetali ma, soprattutto, per la strutturazione della
sostanza grigia del cervello fetale che usa soltanto i LC-PUFA e non i precursori AGE. Nella crescita
del cervello, che si sviluppa massimamente durante la vita fetale acquisendo circa 67 mg/die di DHA
durante l’ultimo trimestre di gestazione, sono concentrate più del 50% delle energie totali spese in tale
epoca).
Da quanto ora esposto appare evidente che il neonato pretermine viene a trovarsi in una condizione
svantaggiata perché non ha potuto vivere nel grembo materno il tempo necessario per accumulare ed
utilizzare i suddetti elementi essenziali, in particolare la quantità adeguata di DHA dell’ultimo trimestre.
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Inoltre il pretermine non ha ancora maturato i meccanismi enzimatici di desaturazione ed
allungamento che permettono di ottenere, dai rispettivi precursori, quantità adeguate di AA e di DHA
per cui li deve assolutamente introdurre dall’esterno. A conferma di ciò, il rischio di danni per il sistema
nervoso centrale, per l’occhio e per l’orecchio aumenta dal 2 per 1000 nati vivi nel neonato a termine
ad oltre il 200 per 1000 nei pretermine di peso inferiore a 1500 g. Inoltre le complicazioni per i
pretermine e per i bambini di peso molto basso comprendono l’emorragia intraventricolare, la
leucomalacia periventricolare, la retinopatia della prematurità, ed anche la displasia broncopolmonare,
l’enterocolite necrotizzante ecc. quadri che hanno un comune denominatore: deficit nella componente
strutturale delle cellule dei vari parenchimi. Poiché con i sistemi e le abitudini alimentari di oggi
(carenza di pesce, ed eccessiva introduzione di grassi saturi, di acido linoleico, di grassi trans) il livello
materno di DHA è di solito basso e la gravidanza si associa ad una mobilizzazione di DHA dai
depositi, questi rischiano di non venire più rimpiazzati dopo il parto e di diminuire progressivamente
con l’allattamento e il ripetersi delle gravidanze per cui si possono presentare più facilmente delle
situazioni di una vera carenza con ripercussioni gravi nel prodotto del concepimento ed anche nella
madre (crisi depressive).
Funzione di trasporto e metabolica
L’interesse per gli AGE ed i loro derivati ha subito un notevole impulso negli anni settanta quando
alcuni ricercatori scoprirono che in Groenlandia gli Esquimesi, la cui dieta è molto ricca di pesce e olio
di pesce e quindi di Omega-3, presentavano raramente problemi coronarici e cardiovascolari, malattie
infiammatorie croniche ed autoimmuni, diabete, sclerosi multipla ecc. I numerosissimi studi che sono
seguiti hanno inoltre evidenziato che i PUFA e i LC-PUFA hanno importanti funzioni di trasporto
attraverso il sangue in quanto trasportano il colesterolo con le lipoproteine ad alta densità (HDL), a
bassa densità (LDL) e a densità molto bassa (VLDL), con cui si legano formando degli esteri,
portandolo nei vari parenchimi ed in particolare nel fegato e da questo all’intestino per essere
eliminato. E’ inoltre emerso che i LC-PUFA ω3 (EPA e DHA) sono in grado di abbassare la
concentrazione plasmatica di colesterolo, prevalentemente VLDL e LDL, e dei trigliceridi, fattori da
tempo noti come elementi di rischio cardiovascolare. I PUFA e i LC-PUFA incorporati nelle membrane
cellulari, regolano le connessioni nelle cellule e fra cellule lontane, ed interferiscono sui meccanismi di
regolazione del sistema immunitario ed infiammatorio, di tutte le cellule dell’organismo, comprese
quelle del sistema nervoso. I prodotti di derivazione ciclossigenasica e lipossigenasica quali
trombossani, leucotrieni, prostaglandine, lipossine, resolvine, protectine e quindi di citochine pro ed
antinfiammatorie, intervengono sul sistema immunitario e flogistico e, a cascata, sulla funzione
cardiovascolare, bronchiale, del sistema nervoso, delle mucose, della cute ecc. con possibili danni
non solo alle cellule sede del processo infiammatorio ma anche ai lipidi ematici.
Per azione degli enzimi cicloossigenasi (COX) e lipoossigenasi (LOX), dal GLA e dal DGL, si formano
i trombossani e le prostaglandine della serie-1 (TX1 e PG1) e i leucotrieni della serie-3 (LTA3, LTC3,
LTD3) che hanno un’azione moderatamente infiammatoria.
Dall’AA, che induce una risposta immune tipo Th2, si formano invece: trombossani della serie-2
(TXA2) con spiccata azione aggregante le piastrine; prostaglandine della serie-2 (PGG2) responsabili
della produzione delle citochine con potente azione pro infiammatoria quali: IL-1, IL-1 mRNA, IL-6,
interferon gamma (IFNgamma),TNFalfa; il fattore di attivazione delle piastrine (PAF), potente
aggregatore delle piastrine, attivatore dei leucociti e del metabolismo dell’AA che sembrano giocare un
ruolo di primo piano nella patogenesi dall’artrite reumatoide, all’asma, allo shock tossico, al rigetto del
trapianto renale ecc. e, per azione della 5-lipoxygenase (5-LO) si forma da un lato il 5-HPETE (acido
5S-idrossiperossieicosatetraenoico), leucotriene instabile dal quale deriva per deidratazione il 5-HETE
(acido 5-idrossieicosatetraenoico) che a sua volta favorisce la flogosi non allergica, e dall’altro il
leucotriene A4 (LTA4). Da quest’ultimo derivano tutti i leucotrieni della serie-4 (LTB4, LTC4, LTD4,
LTE4), con spiccata azione pro infiammatoria.
I LCPUFA Omega-6 svolgono pertanto un’importante attività pro-infiammatoria ma da alcuni anni è
stato evidenziato che, sempre dall’AA, per azione delle 15/12 lipossigenasi, si formano le lipossine A4
(LXA4) e le lipossine B4 (LXB4) con spiccata azione antinfiammatoria e immunomodulante.
Agendo su macrofagi, cellule dendritiche, linfociti Th1 e Th2, prevengono e/o favoriscono la
normalizzazione dei quadri allergici e le patologie croniche immunitarie. Riducono inoltre l’afflusso e il
numero dei PMN negli essudati, bloccano in vivo la migrazione delle cellule T, inibiscono la secrezione
di IL-1, IL-6, TNF-alfa e d’interferon gamma e promuovono l’apoptosi. L’idea che i LC-PUFA Omega-6
svolgano solo un’attività proinfiammatoria deve essere pertanto rivista.
I PUFA Omega-3, ed in particolare l’EPA, sono invece, fra gli acidi grassi, i più potenti
immunomodulatori e sopprimono la risposta immune cellulo mediata.
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Dall’EPA, per azione delle COX e delle 5-LO si formano i trombossani e le prostaglandine della serie-3
(TX3 e PG3) e i leucotrieni della serie-5 (LTA5, LTB5, LTC5, LTD5) meno attivi rispettivamente delle
PG-2 e LTA-4 e quindi con un’azione moderatamente aggregante e infiammatoria mentre le PGE3
hanno proprietà vasodilatatrici che contrastano la vasocostrizione causata dagli acidi grassi Omega-6
in eccesso.
I PUFA ω3 si associano anche ad un livello più elevato di citochine anti infiammatorie l’IL-6r, IL-10 e il
TGFbeta e ad un più basso livello di citochine proinfiammatorie, IL-6, IL-1ra, e TNFalpha, sopprimono
la capacità dei monociti di sintetizzare marker proinfiammatori IL-1, IL-1 mRNA, IL-2, IL-6, interferon
gamma (IFNgamma), TNFalfa e il fattore di attivazione delle piastrine, (PAF). Del tutto recentemente è
stato inoltre evidenziato che dall’EPA, per azione delle 5-lipossigenasi si formano le Resolvine E, e
per l’intervento dell’aspirina, i suoi epimeri che favoriscono la produzione di citochine antinfiammatorie,
IL-10 e TGFbeta1, riducono l’afflusso di neutrofili, la produzione di citochine proinfiammatorie e la
permeabilità vascolare, favoriscono l’infiltrazione di monociti e macrofagi che eliminano i neutrofili
apoptotici ripulendo la sede dell’infiammazione.
Un discorso a parte merita invece il DHA che non da luogo a prostaglandine e leucotrieni ma alle
Resolvine D, con azione antinfiammatoria simile alle Resolvine E, e alle Protectine (PD) e
Neuroprotectine (NPD), tutte con azione antinfiammatoria. Le PD e le NPD prodotte nella fase
risolutiva dell’infiammazione acuta, hanno un’azione immunoregolatoria e protettiva nei vari
parenchimi ed in particolare sulla retina e sul sistema nervoso.
Tutto questo porta alla conclusione che gli acidi grassi Omega-3 sono coinvolti in tutti i processi
infiammatori e per il loro potere antinfiammatorio potrebbero essere utili nelle patologie caratterizzate
da aumento della citochina proinfiammatoria, IL-1, quali le malattie cardiovascolari, la depressione
maggiore, le neoplasie, l’invecchiamento e nelle malattie autoimmuni, quali il morbo di Crohn, la colite
ulcerosa, l’artrite reumatoide, l’asma, il lupus eritematoso, la psoriasi, la sclerosi multipla ecc.
Supplementazione e prospettive terapeutiche
Il ruolo dei PUFA e dei LC-PUFA in età fetale, per la strutturazione del cervello e di tutti i parenchimi
sensibili, non richiede ulteriori conferme per cui deve essere tenuto sotto controllo il loro apporto
dietetico o l’eventuale loro supplementazione nella madre, che potremmo definire di tipo “funzionale”,
per impedire che, in caso di nascita pretermine o di una loro carenza anche pre gravidica, venga
compromessa la composizione delle strutture nervose e quindi la funzione cerebrale e visiva del
nuovo nato.
Una recente revisione della letteratura suggerisce nei prematuri una supplementazione di AA e DHA
che dovrebbe essere simile a quello fornito dal latte materno in un rapporto pari a 5-6 a 1 e in una
quantità per l’AA lievemente superiore allo 0.3% e per il DHA allo 0.2%.
Nei pretermine di età gestazionale inferiore a 33 settimane, i latti arricchiti con AA e DHA
favorirebbero anche una normale crescita e mineralizzazione ossea.
Oltre agli aspetti strutturali, il ruolo degli AGE e dei loro derivati nei processi infiammatori cronici ed
immunitari, ha spinto numerosi ricercatori ad intraprendere dei tentativi terapeutici.
Così, nel morbo di Crohn la somministrazione di olio di pesce contenente dosi adeguate di acidi grassi
ω3, ha evidenziato una riduzione della frequenza delle ricadute con miglioramento del decorso della
malattia sia in soggetti adulti sia in soggetti in età evolutiva.
In un recente studio in doppio cieco, randomizzato, controllato contro placebo in soggetti in età
pediatrica, la somministrazione di una miscela di acidi grassi Omega-3 e mesalazina (5-ASA), è
risultata efficace nel prolungare lo stato di remissione della malattia.
Uno studio in doppio cieco controllato e randomizzato in soggetti di età compresa fra 10 e15 anni
affetti da asma, che vivevano tutti in un ambiente di tipo ospedaliero, assumevano gli stessi alimenti, e
si trovavano quindi nelle stesse condizioni sperimentali, ha confermato che la somministrazione di olio
di pesce con dosi adeguate di acidi grassi ω3, riduce la sintomatologia e la risposta all’acetilcolina e
migliora il quadro clinico.
La cosa, secondo gli Autori, sarebbe dovuta, almeno in parte, ad un riequilibrio del rapporto ω6/ω3.
In soggetti con fibrosi cistica la somministrazione di acidi grassi Omega-3 PUFA, incorporandosi nelle
membrane dei neutrofili, determinano un effetto antinfiammatorio riducendo la produzione di LTB4 da
parte dell’AA dei neutrofili e molto verosimilmente attraverso altri meccanismi non del tutto noti.
Anche nei soggetti con artrite reumatoide la somministrazione per os di olio di pesce o la
soministrazione endovenosa di un’emulsione di pesce contenente PUFA Omega-3, ha portato ad un
miglioramento delle condizioni cliniche della malattia, dando luogo ad un netto miglioramento della
sintomatologia clinica (dolore, rigidità mattutina, stanchezza ecc.).
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Un importante studio italiano, il GISSI, ha evidenziato che somministrando 1 g/die di acidi grassi
Omega-3 è ridotto sia il rischio di aritmie sia di arresto cardiaco e quindi di morte, evenienze alquanto
frequenti nei post-infartuati (12). Inoltre in caso di bassi livelli dietetici di EPA+DHA vi è il rischio di
arresto cardiaco ma l’apporto di ALA più che essere elevato, dovrebbe essere bilanciato con l’AL e
rappresentare lo 0.6-1% del totale delle calorie (circa 2 g/die nell’adulto) mentre l’AL non dovrebbe
superare i 7 g/die.
Per tale motivo, a scopo preventivo, l’American Heart Association raccomanda consumi di pesce che
sono in rapporto al tipo di patologia, mentre per un’azione cardioprotettiva, volta a ridurre la morte
improvvisa o l’infarto miocardico, dovrebbe essere assunto almeno 1 g al giorno di EPA più DHA con
proporzioni di EPA e DHA pari a quelle che si trovano normalmente in natura (3 per 2 circa). Una
evidente correlazione è stata rilevata anche tra il consumo di pesce e depressione maggiore,
patologia molto rara nelle popolazioni che mangiano molto pesce, e anche il contenuto di DHA nel
tessuto adiposo dei depressi è inversamente proporzionato con la gravità della malattia. Inoltre nei
soggetti con depressione maggiore vi è un’aumentata produzione di prostaglandine e citochine,
proinfiammatorie IL-1, IL-2, IL-6, IFN-gamma e in corso di stress vengono prodotte citochine
infiammatorie IL-6, TNF-alfa ed IFN-gamma. Sembrerebbe pertanto che in caso di livelli degli acidi
grassi Omega-3 troppo bassi, le vie chimiche essenziali verrebero saturate dagli Omega-6 ed alterate,
concorrendo all’insorgere dei disturbi neuropsichiatrici.
Fin dai tempi più antichi, gli acidi grassi Omega-3 hanno fatto parte della dieta dei nostri progenitori
(paleo-dieta) e, come emerso da studi antropometrici, il genere umano è evoluto assumendo una
dieta con scarse quantità di grassi e un mix bilanciato di Omega-6/Omega-3 in un rapporto pari a 12:1 e molto ricca di antiossidanti naturali. Vi sono pertanto fondati motivi per ritenere che questo, nel
corso di molti millenni, ha condizionato la composizione strutturale di tutti i nostri parenchimi e la loro
funzione. Negli ultimi 150 anni, poiché gli Omega-6 sono più rappresentati nei vari alimenti, abbiamo
assistito ad una loro progressiva e rilevante aumentata assunzione, con lipidi animali, oli di semi ecc.,
ai quali si è associata una aumentata assunzione di grassi saturi e acidi grassi trans.
Contemporaneamente, il progressivo e notevolmente ridotto apporto con la dieta di acidi grassi
Omega-3 ha portato il rapporto ottimale Omega-6/Omega-3 di circa 5-6:1, con un apporto di energia
pari al 3% da acidi grassi Omega-6 e 0.5% da acidi grassi Omega-3, a superare il rapporto di 20:1 e
conseguente eccessiva produzione di prostaglandine e citochine proinfiammatorie. Dato che queste e
l’infiammazione, unitamente a fattori genetici, sono alla base di molte patologie, si deve ritenere che
l’elevato rapporto Omega-6/Omega-3 favorisca, a lungo andare, la patogenesi di malattie cronicodegenerative, cardiovascolari, autoimmuni, osteoporosi, tumori ecc.
L’importanza degli Omega-3 nella dieta, è pertanto oggi evidente a partire dalla donna in gravidanza e
nella prima infanzia per la funzione “strutturale”, come è evidente la necessità di ritornare ad un più
fisiologico rapporto Omega-6/Omega-3 della dieta per quella che viene indicata come funzione
“nutraceutica” degli alimenti.
Per tale motivo viene oggi consigliato un adeguato apporto con la dieta, 2-3 volte alla settimana, o
alimenti arricchiti di Omega-3 con diverse modalità, o adeguate assunzioni supplementari di EPA e
DHA a scopo preventivo e/o terapeutico in rapporto alle varie condizioni patologiche.
KRILL OIL - OMEGA-3 DI NUOVA GENERAZIONE
L’olio di Krill è un lipide di nuova generazione estratto dai Krill, dei minuscoli crostacei (gamberetti),
Euphausia Superba, che prosperano nelle acque gelide dell’Antartico. Questo estratto di acidi grassi
ha nel suo corredo già compresi: omega 3, omega 6 ed omega 9, vitamina E, vitamina A, fosfolipidi ed
astanxantina in proporzione umana.
La Enzimotec, nostra fornitrice di Krill, possiede un sistema unico brevettato di estrazione dell’olio che
permette di avere l'integrità della qualità e dell' intera struttura e l’assenza di prodotti di ossidazione e
di degradazione.
È il primo prodotto che apporta dei fosfolipidi integrati agli acidi grassi Omega-3.
I costituenti di base delle membrane cellulari presenti nel Krill sono nella stessa proporzione e con la
stessa struttura di quelli dell’organismo umano e sono quindi più biodisponibili dei soli fosfolipidi o
degli Omega-3 dell’olio di pesce di circa 47 volte.
Negli studi scientifici fatti sull'uomo, l’olio di Krill ha normalizzato o migliorato la funzione
cardiovascolare, i tassi ematici dei lipidi e del glucosio, la produzione di energia, la funzione
epatica e le performance neuronali e sportive.
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Krilling D
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In uno studio in doppio cieco, il Krill ha anche agito significativamente sugli sbalzi di umore ed i
crampi associati a sindromi premestruali.
I fosfolipidi integrati agli acidi grassi Omega-3 presenti in Krill riducono la produzione di
prostaglandine di tipo imfiammatorio che provocano l'irritazione e conducono all'acidificazione dei
grassi delle membrane cellulari.
Il Krill è notevolmente stabile in ragione del suo tenore naturalmente elevato di antiossidanti,
astaxantina e vitamina A .
L'olio di krill contiene uno degli antiossidanti naturali più potenti, l'Astaxantina, un carotenoide che
dà al crostaceo il caratteristico colore rossastro distintivo e lo protegge dalla radiazione solare.
L'Astaxantina è equilibrante per il sistema immunitario, è un anti-cancerogeno ed antinfiammatorio.
Previene malattie cardiache e protegge il derma. Secondo gli ultimi studi, l’astaxantina è molto più
efficace del beta-carotene contro i radicali liberi.
Tutela particolarmente bene le fragili membrane cellulari e mitocondriali: « L’astaxantina è molto più
attiva della vitamina E, beta-carotene e luteina bloccando il processo di perossidazione causato dai
radicali liberi ». Miki W. et al.
Altri studi in vitro e in vivo, negli animali e nell’uomo, dimostrano l’efficacia antiossidante della
astaxantina e la sua utilità nel prevenire le malattie neurovegetative derivate dallo stress ossidativo.
Prove di laboratorio hanno stabilito che l’olio di krill è 300 volte più potente come antiossidante
delle vitamine A ed E e 47 volte più potente dell'olio di pesce.
ORAC valutazione potere antiossidante olio Krill
ORAC è un test standardizzato di laboratorio usato per misurare il relativo
potenziale di diversi antiossidanti. Il numero più basso è il meno efficace.
Vitamina A
1,25
Vitamina E
1,25
Luteina
8
Olio di pesce
8
CoQ10
ORAC: Capacità di Assorbimento Radicale
dell’Ossigeno
11
Astaxantina
51
Lycopene
58
378
Olio di krill
0
50
100
150
200
250
300
350
400
Poiché il Krill è al 100% biodisponibile per l'organismo umano, viene assorbito prontamente nelle
nostre cellule ed il contenuto di antiossidanti, naturalmente presenti nel Krill, impedisce all'olio
d’irrancidirsi ed assicura la protezione cellulare verso i danni dai radicali liberi.
MODO D'USO
Poiché l'olio del krill è più biodisponibile, il dosaggio giornalmente suggerito è soltanto un quinto
rispetto all'olio di pesce.
1 solo softgel al mattino durante la colazione equivale a 12 softgel di Omega-3 di olio di pesce.
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Krilling D
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Krill: un rimedio per l'obesità
Gli acidi grassi Omega-3 (di tipo EPA e DHA) contenuti nell'olio di krill sono utili rimedi per l'obesità.
A dimostrarlo è una ricerca condotta da un team internazionale, composto da scienziati italiani,
statunitensi, norvegesi e finlandesi che hanno concluso lo studio affermando che:
«L’olio di Krill stabilizza il meccanismo metabolico dei soggetti obesi, contrastando anomalie e
imperfezioni che portano a tale status e potrebbe sostituire altre terapie nel controllo del sistema degli
endocannabinoidi contro la sindrome metabolica.»
Krill agisce sugli endocannabinoidi
Il krill è un insieme di piccoli organismi marini noti per il loro alto contenuto in Omega-3 ed
antiossidanti. Infatti, come già detto, questi ultimi sono presenti in livelli 48 volte più elevati rispetto a
quanto riscontrabile negli altri olii di pesce disponibili in commercio.
Secondo gli autori dello studio assumere quotidianamente l'olio di krill porta benefici al sistema
degli endocannabinoidi, costituito da molecole lipidiche e recettori cellulari che agiscono nel sistema
nervoso regolando l'appetito, la sensazione di dolore, l'umore e la memoria.
E sono gli stessi esperti del settore a sottolineare che aiutare a normalizzare i livelli di
endocannabinoidi nei pazienti obesi potrebbe aiutare a contrastare alcuni problemi di salute che si
evidenziano a lungo termine, come la sindrome metabolica.
Per arrivare a questa conclusione i ricercatori hanno reclutato 63 soggetti in sovrappeso od obesi di
età compresa tra i 35 e i 64 anni, cui è stato chiesto di assumere per quattro settimane due grammi al
giorno di olio di krill – corrispondente a 309 mg al giorno di EPA e DHA in rapporto 2:1 -, di olio di
pesce – il cosiddetto “menhaden oil”, corrispondente a 390 mg al giorno di EPA e DHA in rapporto 1:1
– o olio di oliva.
Solo nei soggetti obesi che hanno assunto olio di krill è stata osservata una riduzione significativa dei
livelli di 2-arachidonoilglicerolo (2-AG), un endocannabinoide che si accumula nel plasma delle
persone obese.
Secondo gli autori una possibile spiegazione del migliore effetto ottenuto con il krill in confronto all’olio
di pesce potrebbe essere spiegato con una maggiore incorporazione degli acidi grassi Omega-3
derivati dal Krill nei lipidi che costituiscono il tessuto adiposo associato ai visceri.
Questo porterebbe ad una diminuzione dell'acido arachidonico in seguito all'assunzione di olio di krill,
con conseguente modificazione della sintesi degli endocannabinoidi.
Conferme di una nota efficacia
Gli effetti benefici dell'olio di krill riscontrati in questo studio confermano quanto avevano osservato
i ricercatori dell'Università di Cagliari in studi condotti su ratti obesi.
In conclusione
Il krill è un piccolo crostaceo che compone lo zooplancton delle fredde acque antartiche, dove
dà luogo ad una delle più grandi biomasse esistente.
Conosciuto dalla popolazione scientifica come Euphausia superba, occupa il gradino più
basso della catena alimentare: per questo motivo non accumula inquinanti e garantisce
l’elevata purezza dei suoi derivati.
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Krilling D
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L’integrazione con Krilling D combina in un unico prodotto i benefici derivanti da 3 preziosi elementi:


gli acidi grassi Omega-3: EPA e DHA in forma di fosfolipidi (innanzitutto fosfatidilcolina);
il carotenoide Astaxantina, un pigmento rosso appartenente alla famiglia delle xantofille,
molecole prodotte dal fitoplancton ed assimilate come tali dal krill.


La vitamina D
In in particolare:

gli Omega-3 in forma di fosfolipidi svolgono un’importante azione antinfiammatoria;

la fosfatidilcolina è efficace per la corretta funzionalità del sistema nervoso centrale,
perché contribuisce a migliorare la memoria e l’acutezza mentale ed a contrastare i processi
di degenerazione neurocerebrale;

l’astaxantina esercita un potente effetto antiossidante. La sua azione contrasta l’aumentata
produzione di radicali liberi, che si verifica in caso di stress ed infiammazione e riduce il
deterioramento cellulare.


Per la Vitamina D si rimanda a pag.49.
Perché consigliamo l'omega 3 di krill e non il classico olio di pesce?
Krill contiene una proporzione tra ω3 e ω6 di 15 : 1
L’Olio di pesce contiene una proporzione tra ω3 ed ω6 di 3 : 1
Krill contiene 30% di ω3 di cui 29,4% sono bioattivi e combinati con fosfolipidi che ne
favoriscono l'assorbimento.
L’Olio di pesce contiene il 30% di omega-3 ma solo il 19,2% è bioattivo.
Krill contiene il 40% di fosfolipidi in Fosfatidilcolina fondamentale per le cellule celebrali.
L'olio di pesce ne è assente.
Krill è naturalmente privo di metalli pesanti ed altri contaminanti come il PCBs
(sostanze diossino-simili che gli organismi accumulano nell'arco della loro vita, fenomeno
definito 'body burden') infatti l'olio di pesce deve essere trattato e purificato prima di essere
immesso in commercio.
Krill è eccezionalmente stabile, 47 volte più dell'olio di pesce, questo ne permette la
conservazione per quasi 2 anni.
Krill ha potere antinfiammatorio, potentissime proprietà antiossidanti e protegge la pelle dai
danni provacati dalle onde ultraviolette.
Krill riduce il colesterolo ed i trigliceridi, eleva il livello di HDL (Lipoproteine ad Alta Densità) e
riduce gli zuccheri nel sangue.
N.B.: tutti gli studi scientifci inerenti sono disponibili nella rassegna della letteratura.
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Manuale Uso Interno
Studio sulla Qualità di Vita con Olio di Krill
Lo studio sulla qualità della vita è stato fatto all’interno dello studio di Fase II sull’iperlipidemia. 120 partecipanti hanno assunto
1.0 o 1,5 g/die di olio di Krill in base al loro indice di massa corporea (BMI) o 3 g/die di olio di pesce. Ai partecipanti sono state
somministrate 36 domande del questionario standardizzato sulla qualità di vita alla fine dei giorni: 30, 90 e 180. Questo
questionario ha misurato: la funzione fisica, la fatica, il dolore, la funzione sociale, il ruolo emozionale, la capacità mentale, la
salute generale e l'aspetto fisico. Il questionario, in uso dal 1998 e pubblicato in più di 4.000 diversi studi, è stato progettato per
fornire risultati statisticamente validi. L’olio di Krill ha significativamente migliorato tutti gli indicatori della qualità della vita.
Sampalis F, Bunea R, et.al. Altern Med Rev. 2003 May;8 (2):171-9.
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Riduzione dei grassi
% Riduzione dei grassi nel Cuore e nel Fegato
I topi Zucker sono un modello per l’obesità e le disfunzioni metaboliche correlate.Topi adulti sono stati alimentati per 4 settimane
con diete contenenti olio di krill, olio di pesce, o una dieta di controllo. Alla fine delle 4 settimane non sono state osservate
differenze per la crescita complessiva ed il peso tra il gruppo di controllo ed i gruppi alimentati con Krill o olio di pesce, tuttavia
c'era una significativa riduzione dell’ectopia del grasso epatico e del cuore. Nei topi nutriti con Krill o con olio di pesce, i
trigliceridi epatici erano significativamente ridotti, invece i trigliceridi presenti nel cuore erano notevolmente inferiori nei topi
nutriti con Krill ma non in quelli nutriti con olio di pesce.Tale riduzione è stata associata ad una minore concentrazione di
endocannabinoidi AEA e 2-AG, il chè può spiegare la risposta infiammatoria ed il riequilibrio della deposizione di grasso
corporeo nel cuore e nel fegato dei topi obesi.
Batetta B, Griinari M, et.al. Endocannabinoids May Mediate the Ability of (n-3) Fatty Acids to Reduce Ectopic Fat and Inflammatory Mediators in Obese Zucker Rats. J
Nutr, Vol 139, N 8, Aug 2009.
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Effetti dell’olio di krill sulla Proteina C Reattiva (PCR)
Uno studio prospettico randomizzato in doppio cieco di sperimentazione clinica di fase II è stato condotto per valutare gli effetti
dell’olio di Krill sulla proteina C-reattiva (PCR), un biomarker infiammatorio. L’olio di krill a 300 mg/die ha ridotto
significativamente la PCR del 19% dopo 7 giorni e del 30% dopo 14 giorni di trattamento. Confermando i benefici clinici di
riduzione della PCR, i pazienti affetti da artrite, hanno avuto una riduzione, dopo 7 e 14 giorni, del punteggio WOMAC relativo al
dolore del 24% e del 25%, una riduzione della rigidità articolare del 22% e del 28% e la riduzione del danno funzionale del 16%
e del 18%.
Deutsch L; Evaluation of the Effect of Krill Oil on Chronic Inflammation and Arthritic Symptoms; Journal of the American College of Nutrition,Vol.
26, No. 1, 39-48 (2007 Apr).
Effetti sul Rischio Cardiometabolico della supplementazione
con olio di krill, a tre diversi dosi, alla dieta grassa
Un’indagine sui fattori di rischio cardiometabolico è stata condotta in topi maschi C57BL/6 nutriti con una dieta ricca di grassi
per 8 settimane. Tutti i gruppi, incluso il controllo, hanno ricevuto una dieta ad alto contenuto di grassi, più 1,25%, 2,5% o 5% di
olio di Krill. La supplementazione dietetica con olio di Krill ha causato una significativa riduzione di peso del fegato
(epatomegalia) e del grasso totale epatico (steatosi epatica) a causa della riduzione, dose dipendente, dei trigliceridi e del
colesterolo epatico. Così pure una riduzione del colesterolo e del glucosio nel sangue. L’adiponectina sierica è aumentata negli
animali nutrirti con olio di Krill. Questi risultati suggeriscono che l’olio di Krill può essere d’utilità terapeutica nei pazienti con
sindrome metabolica e/o steatosi epatica non alcolica.
Tandy S, Chung R, et.al. Dietary Krill Oil Supplementation Reduces Hepatic Steatosis, Glycemia, and Hypercholestreolemia in High-Fat-Fed Mice.
J Agr Food Chem; 9/17/2009
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Manuale Uso Interno
Cenni di biochimica degli acidi grassi essenziali a catena lunga
Gli acidi grassi essenziali (Essential Fatty Acids = EFA) in rapporto alla loro catena lunga, possono essere
distinti in acidi grassi Omega-6 ed acidi grassi Omega-3. Le abbreviazioni Omega-6 ed Omega-3 fanno
riferimento alla posizione, nella loro molecola, del primo doppio legame, contando dalla fine della catena
opposta al gruppo carbossilico.
Questi acidi grassi sono definiti “essenziali” perché non possono essere sintetizzati dall’organismo
umano, ma devono essere ingeriti come tali, col cibo o come supplemento dietetico.
Gli acidi grassi essenziali a catena lunga Omega-6 ed Omega-3 non sono interconvertibili metabolicamente
nell’uomo. Queste due classi d’acidi grassi essenziali hanno distinte e spesso opposte funzioni fisiologiche.
La natura essenziale dell’acido grasso linoleico (LA, 18:2 ω6) e dell’acido grasso α-linolenico (LNA, 18:3 ω3)
è conosciuta dal 1929.
Questi acidi grassi con catena a 18 atomi di carbonio (18C) sono necessari per la sintesi di più lunghi acidi
grassi polinsaturi (Poly Unsatured Fatty Acids = PUFA) come l’acido arachidonico (AA, 20:4 ω6) e l’acido
eicosapentaenoico (EPA, 20:5 ω3). Gli acidi grassi 18C sono presenti nei semi di lino, mentre, gli acidi
grassi a catena più lunga come l’acido docosahexaenoico (DHA, 22:6 ω3) sono maggiormente presenti nei
pesci (salmone, sardina, tonno, etc.).
L’acido linoleico non è convertito, in modo metabolicamente significativo, in EPA e DHA, nell’uomo sano.
E’, quindi, probabile che la suscettibilità, a molte delle condizioni patologiche che verranno di seguito
descritte, possa essere legata, sul piano neurochimico, alla ridotta capacità di allungare e desaturare le
catene di acidi grassi a 18 atomi di carbonio. Si può ipotizzare che, sino alla rivoluzione industriale, gli uomini
hanno assunto, dalle fonti alimentari naturali, approssimativamente la stessa quantità di Omega-3 ed
Omega-6.
Le diete dei nostri predecessori erano sicuramente più povere di calorie e più ricche di fibre, frutta e vegetali,
con poca carne e pesce. Il loro apporto dietetico di PUFA, AA, EPA e DHA era verosimilmente alto ed
equilibrato.
Nel corso dell’ultimo secolo, si è passati da un rapporto 1/1 tra Omega-3 ed Omega-6 ad un rapporto 1/20,
nell’assunzione degli acidi grassi essenziali.
L’industria alimentare ha prodotto cibo a più alto contenuto di Omega-6, in rapporto al diffuso utilizzo, per
motivi economici, di olio di semi (mais, girasole, soia, etc.) che contengono molti Omega-6 e sono
relativamente poveri di Omega-3. La stessa alimentazione animale ha visto il prevalere di fonti alimentari ad
alto contenuto di Omega-6, con il risultato che anche le uova ed il pollame, prodotti industrialmente, hanno
scarsi contenuti di Omega-3.
La produzione industriale d’alimenti per l’uomo ha favorito l’uso di grassi difficilmente ossidabili e che hanno
garantito maggiore conservabilità. Le sostanze alimentari ad alto contenuto di Omega-3 sono state
scientemente evitate, perché più facilmente soggette ad irrancidimento, con conseguente riduzione della
palatabilità del cibo.
Nella produzione industriale, inoltre, gli acidi grassi polinsaturi naturali (PUFA) sono stati spesso sostituiti da
acidi grassi trans, che sono molto difficilmente ossidabili e che non diventano rancidi, neanche dopo molto
tempo.
Sebbene questi acidi grassi sembrino al gusto del tutto simili ai grassi naturali, essi vengono prodotti molto
differentemente dai grassi naturali e, soprattutto, inibiscono l’enzima coinvolto nella desaturazione ed
elongazione dei PUFA a 18 atomi di carbonio in PUFA a 20 e 22 atomi di carbonio.
Un eccesso d’Omega-6 può sopprimere la sintesi degli Omega-3 come EPA e DHA. L’eccesso di Omega-6
e l’assunzione d’acidi grassi trans riducono, così, fortemente la sintesi d’acidi grassi polinsaturi a lunga
catena (n-22).
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La conversione dell’acido linolenico, con 18 atomi di carbonio (LNA, 18:3 n-3) nell’EPA, a 20 atomi di
carbonio, è un processo non efficiente, con una conversione pari a circa lo 0,2%.
Entrambe le classi di acidi grassi (EFA) Omega-6 ed Omega-3 sono essenziali per la salute, ma lo è anche il
loro equilibrio reciproco.
Le diete che forniscono Omega-6, a danno degli Omega-3, possono facilitare, infatti, la produzione di
prostaglandine pro-infiammatorie, mentre, diete a prevalente apporto d’Omega-3 stimolano la sintesi di
prostaglandine anti-infiammatorie. Il rapporto tra Omega-6 ed Omega-3 influenza il metabolismo degli
eicosanoidi, l’espressione genica e la comunicazione intercellulare.
Gli eicosanoidi includono prostaglandine, citochine, mediatori delle citochine ed altri componenti della
risposta immunitaria. L’equilibrio tra Omega-6 ed Omega-3 è critico perché essi competono reciprocamente
per il sistema enzimatico ed hanno molte funzioni metaboliche opposte, mediate dai loro rispettivi
eicosanoidi. Una prevalenza d’Omega-6 può indurre una condizione fisiologica che promuove
l’infiammazione cronica, la formazione e diffusione neoplastica, le cardiopatie ischemiche, le cerebropatie
vascolari, il diabete, l’artrite, le patologie autoimmuni ed alcune alterazioni funzionali neuronali, che
includono diversi quadri neuropsichiatrici.
Alcuni studi indicano che un apporto eccessivo d’Omega-6 induce uno stato fisiologico pro-trombotico e proaggregante piastrinico, che si caratterizza per un aumento nella viscosità ematica con vasospasmo,
vasocostrizione e riduzione del tempo di sanguinamento. Gli Omega-3 hanno, al contrario, effetti antiinfiammatori, anti-trombotici, anti-aritmici, ipolipemizzanti e vasodilatatori.
Acidi grassi insaturi, soprattutto Omega-3, hanno proprietà anti-aterogene mediate dall’attivazione
endoteliale. Le funzioni fisiologiche degli EFA includono il controllo dell’infiammazione, le funzioni
cardiovascolari, la reattività allergica, la risposta immune, la modulazione ormonale, lo sviluppo mielinico,
nonché aspetti della cognitività e del comportamento.
Effetti benefici degli Omega-3 sono stati evidenziati nella prevenzione secondaria della malattia coronarica,
dell’ipertensione arteriosa, del diabete mellito di tipo 2, dell’artrite reumatoide, della rettocolite ulcerosa, della
malattia di Crohn e della broncopatia cronica ostruttiva.
Gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) giocano un ruolo critico nel determinare le interazioni lipidi/proteine nelle
membrane neuronali e sinaptiche, interferendo con la conformazione recettoriale, i canali ionici, gli enzimi ed
i movimenti delle sostanze attraverso le membrane cellulari. Le membrane neuronali contengono alte
concentrazioni di DHA ed AA. Entrambi questi EFA sono componenti cruciali della barriera fosfolipidica
neuronale.
I recettori neurotrasmettitoriali sono sostanze proteiche, immerse entro la matrice fosfolipidica delle
membrane neuronali. La loro tridimensionalità spaziale, la loro conformazione sterica funzionale e la loro
attività, dipende largamente dagli specifici acidi grassi, che danno struttura alla membrana.
La composizione delle membrane neuronali, per quanto attiene gli acidi grassi polinsaturi (PUFA), dipende
largamente dall’apporto dietetico.
L’equilibrio reciproco tra gli EFA sembra essere tanto importante quanto il loro apporto dietetico
complessivo, così che cambiamenti nell’ingestione dietetica di grassi può avere conseguenze dirette a livello
del sistema nervoso centrale. L’acido docosahexaenoico (DHA, 22: 6 n-3) è fortemente concentrato nel
sistema nervoso ed è essenziale per il suo corretto funzionamento.
Un deficit di DHA in epoca pre o post-natale sembra correlarsi a disturbi retinici, con difetti dell’acuità visiva,
disturbi cognitivi, disturbi comportamentali e psichiatrici.
Numerosi studi su primati e su neonati indicano che il DHA è essenziale per il normale sviluppo funzionale
della retina e del cervello. Il DHA non solo viene assunto selettivamente dal tessuto nervoso, ma presenta
nel cervello un turnover molto rapido.
Lo sviluppo pediatrico necessita di un sufficiente apporto dietetico di DHA, essendo la sua produzione a
partire dai precursori sostanzialmente insufficiente.
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Sebbene non esista una dose raccomandata quotidiana di assunzione dietetica di acidi grassi essenziali, un
gruppo scientifico internazionale ha proposto un apporto ottimale (Adeguate Intake = AI) di Omega-3 e di
Omega-6. Per le società occidentali, che producono e consumano cibo industriale, risulta opportuno
integrare, comunque, con attenzione specifica, la dieta con alimenti ad alto contenuto di Omega-3.
Gli acidi grassi non esterificati, rilasciati dai lipidi di membrana, appartengono ad un largo gruppo
d’eicosanoidi, in grado di agire sugli ormoni e sui fattori di crescita, che controllano lo shift tra moltiplicazione
e differenziazione cellulare.
Gli EFA interferiscono su questo shift agendo, come secondi messaggeri o modulatori, sugli effetti esercitati
da fattori di crescita e ormoni steroidei. Gli acidi grassi Omega-3 inibiscono la Protein-Kinasi-C AMPcdipendente (PKC) in cellule intatte. Gli Omega-3 inibiscono, in vitro, l’attività della PKC, della proteinkinasi II
Ca++/calmodulina dipendente ed inibiscono l’attivazione, indotta da 5HT, della proteinkinasi attivata da
mitogeno (MAPK).
L’inibizione della proteinkinasi, regolata dal secondo messaggero, potrebbe rappresentare il meccanismo
d’azione intra-neuronale degli acidi grassi Omega-3. Basti pensare che il litio e l’acido valproico sono
conosciuti come inibitori della PKC, dopo somministrazione subcronica, in cellule in coltura ed in vivo.
Entrambi DHA ed EPA, da soli o in combinazione, inibiscono l’attività della PKC a concentrazioni di
10 micromol/L, mentre l’acido arachidonico non ha alcun effetto.
Questa sola considerazione rende razionale l’utilizzo degli Omega-3 nel trattamento dei disturbi bipolari.
Gli Omega-3 sembrano essere utili, in tutte quelle condizioni in cui la patofisiologia include un’iperattività dei
sistemi del secondo messaggero. Per esempio, gli Omega-3 agiscono con effetti antinfiammatori in modelli
animali di lupus ed artrite reumatoide, inducendo un significativo miglioramento dei disordini autoimmuni.
Studi biochimici hanno dimostrato che una terapia ad alte dosi di Omega-3 induce l’incorporazione di questi
composti nei fosfolipidi di membrana, cruciale per la trasmissione dei segnali interneuronali, sopprimendo
l’attività di secondo messaggero associato al fosfatidil-inositolo. Anche valproato e litio sembrano produrre
effetti analoghi nel ratto. Una concentrazione di litio di 0.7 nM, a livello cerebrale, riduce il turnover di acido
arachidonico (AA) entro i fosfolipidi di membrana del 75%.
L’effetto sembra essere specifico, non essendo influenzato il turnover di DHA ed acido palmitico. Il turnover
di AA è anche ridotto dalla somministrazione, a lungo termine, di litio ed acido valproico. La riduzione del
turnover di AA indotta da litio corrisponde alla down-regulation della fosfolipasi A2 (PLA2), un enzima che
selettivamente agisce sull’ AA, ma non sul DHA, a livello dei fosfolipidi. Il litio riduce anche l’attività cerebrale
della ciclo-ossigenasi 2 e la concentrazione della prostaglandina E2, un metabolita dell’AA prodotto
dall’azione della ciclo-ossigenasi 2.
Le attività antimaniacali del litio e del valproato potrebbero essere conseguenza, di questo freno alla
“cascata dell’acido arachidonico”, probabilmente implicata nella fisiopatogenesi della mania. Gli Omega-3
agiscono in opposizione a molti effetti dell’acido arachidonico.
Ciò potrebbe confermarne ulteriormente l’efficacia potenziale degli n-3 come stabilizatori dell’umore.
Il DHA ha, inoltre, un ruolo protettivo sull’apoptosi in modelli su coltura cellulare, incrementando la
fasfatidilserina intracellulare (PS). Una riduzione di DHA porta ad una parallela riduzione di PS. Il DHA
potrebbe giocare un ruolo importante nella regolazione della proliferazione cellulare e nelle funzioni di cell
signaling, a livello neuronale, in rapporto agli effetti indotti sulla PS.
Il tipico e pungente odore di pesce guasto deriva, soprattutto, dalla perossidazione dei PUFA n-3 derivati dal
pesce mentre più stabile e quindi inodore è l’ ω3 derivato dal Krill.
A livello del sistema nervoso i radicali liberi sono prodotti, normalmente, durante il processo metabolico.
Sono particelle molto reattive sul piano chimico e potenzialmente destruenti le molecole neuronali più
complesse, quali proteine, lipidi ed acidi nucleici.
Le aree a più alto metabolismo ossidativo, ad alta concentrazione di PUFA e con presenza di metalli di
transizione, come le sinapsi neuronali, sono particolarmente vulnerabili alla loro azione dannosa.
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Complessi sistemi di difesa antiossidativa sono attivati per proteggere i neuroni dallo stress ossidativo.
I sistemi antiossidativi enzimatici includono la superossido-dismutasi, la glutatione-perossidasi e la catalasi.
I sistemi antiossidativi non enzimatici includono l’azione specifica svolta, tra l’altro, da: vitamina A e D,
vitamina C e Vitamina E, beta-carotene, glutatione, urati, zinco ed oligoelementi.
Alcuni studi hanno evidenziato una carenza funzionale di questi meccanismi antiossidativi in diversi disturbi
mentali inclusa la schizofrenia. La disregolazione del metabolismo ossidativo neuronale, si associa ad un
rilevante aumento dei markers metabolici di perossidazione lipidica, rilevati nel plasma, negli eritrociti e nel
fluido cerebro-spinale.
Queste anomalie metaboliche sono state associate ai sintomi negativi della schizofrenia, alle discinesie
tardive, ai segni neurologici minori e ad alcuni aspetti patologici particolari, evidenziati con tecniche di neuroimaging.
Il tessuto nervoso è costituito prevalentemente di sostanze lipidiche in cui prevalgono i grassi polinsaturi a
lunga catena. I grassi alimentari, oltre a svolgere un ruolo energetico, forniscono anche componenti
molecolari importanti e, talora indispensabili, sul piano morfo-funzionale per cervello e retina.
Per garantire uno sviluppo normale del sistema nervoso è indispensabile garantire un adeguato apporto
d’Omega-3, soprattutto nell’ultimo trimestre di gravidanza, ma anche nei sei mesi successivi al parto. Una
dieta esclusivamente vegetariana può essere insufficiente a garantire il necessario apporto di questi
nutrienti. Durante la vita intrauterina la placenta assorbe selettivamente AA e DHA dal sangue materno per
trasferire queste molecole essenziali al feto.
L’apporto di acidi grassi polinsaturi essenziali è dipendente dalla dieta per la madre e dalla fonte materna
per il feto. Per garantire il fabbisogno d’acidi grassi essenziali, per madre e bambino, è opportuno controllare
adeguatamente la dieta materna, tanto nel periodo gestazionale quanto durante l’allattamento al seno. La
supplementazione con PUFA n-3 durante la gravidanza sembra aumentare significativamente il contenuto di
fosfolipidi e d’Omega-3, nel plasma ombelicale durante la gravidanza, ma anche nel latte materno in fase
d’allattamento.
Un alto apporto di cibo ad alto contenuto d’Omega-3 potrebbe essere la causa del prolungarsi della
gestazione, in media per una settimana, nelle donne delle isole Faeroes. Il parto è, infatti, condizionato dalla
produzione di prostaglandine. Un supplementazione con olio di pesce, ad alto contenuto di Omega-3
(2,7 gr /die), dalla trentesima settimana di gestazione, ha indotto un maggior peso medio, alla nascita, di
circa 107 gr. ed un prolungarsi della gestazione, in media di 4.0 giorni con alta significatività statistica
(ANOVA P=.006) in un gruppo di 433 donne danesi, confrontate con un campione trattato con
supplementazione a base di olio di oliva (1,0 gr/die).
Una supplementazione d’Omega-3 sembra essere opportuna, nel terzo trimestre di gravidanza, poichè non
induce effetti negativi sul feto o sul parto e svolge specifici effetti protettivi. Questa protezione si concretizza
non tanto nel prolungarsi di pochi giorni della gravidanza, che di per sé può avere scarso significato clinico,
quanto nel prevenire eventuali nascite pretermine. Inoltre, la supplementazione dietetica con Omega-3
sembra ridurre anche l’incidenza di paralisi cerebrale.
In uno studio è stato valutato l’effetto di una dieta preventiva ricca di Omega-3 (2,7gr. di Omega-3/die contro
placebo con olio d’oliva) a partire dalla ventesima settimana di gestazione, in 232 donne con un’anamnesi
positiva per parto pretermine. L’assunzione di Omega-3 ha ridotto il rischio di parto pretermine, dal 33% al
21% (odds ratio 0.54).
In un altro studio di coorte, svolto in Danimarca, su 8.729 donne in gravidanza, è stata valutata l’incidenza
del parto pretermine, dividendo le donne in quattro gruppi, a seconda del consumo alimentare medio di
pesce per settimana.
L’incidenza di parto pretermine passava dal 7.1%, nel gruppo che non assumeva mai pesce, a 1.9% in
quello che assumeva pesce almeno una volta per settimana.
L’abilità a rispondere in senso adattivo agli stimoli ambientali sembra correlarsi direttamente, non solo
all’apporto d’acidi grassi essenziali n-3 e n-6, ma anche al loro reciproco equilibrio.
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Gli acidi grassi n-3 sono essenziali per un corretto sviluppo fetale e perinatale del sistema nervoso.
Alcuni studi hanno evidenziato effetti comportamentali della carenza di Omega-3.
Un apporto deficitario d’acidi grassi ω3 influenza i sistemi neurotrasmettitoriali, con effetti prevalenti sul tono
dopaminergico a livello della corteccia frontale, in diversi modelli sperimentali animali. La via dopaminergica
mesolimbica è meno attiva nei ratti con deficit di Omega-3, rispetto a ratti di controllo sani. Ciò potrebbe, tra
l’altro, correlarsi funzionalmente ad alterazioni dell’omeostasi edonica (disedonia). In ratti neonati, deprivati
dalla nascita di DHA ed AA, la loro successiva aggiunta alla dieta inverte gli effetti della carenza di Omega-3,
sulla composizione lipidica delle membrane neuronali cerebrali e sulla neurotrasmissione dopaminergica, ma
solo nella fase d’allattamento.
Il recupero, cioè, non è più completo, nella fase successiva allo svezzamento. Altre osservazioni
sperimentali, però, sostengono l’effetto terapeutico del DHA, nel ripristino dei livelli di catecolamine, anche
dopo lo svezzamento.
Numerosi studi confermano un’associazione positiva tra allattamento al seno materno e sviluppo cognitivo
del bambino. E’ noto che il latte materno ha un alto contenuto in DHA ed EPA.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato, da tempo, l’aggiunta di EPA e DHA al latte in
formula per neonati. Sebbene il latte materno contenga DHA ed AA, le formulazioni di latte per neonati, sono
state a lungo carenti di questi nutrienti, soprattutto negli USA. Solo nel 2001, infatti, la FDA statunitense ha
approvato l’aggiunta di questi nutrienti al latte in formula per poppanti. Lo sviluppo intellettivo di neonati
deprivati di questi nutrienti può risultare rallentato.
In uno studio è stato evidenziato che i bambini, allattati nei loro primi quattro mesi di vita, con una formula
che prevedeva l’aggiunta di PUFA, presentavano, a 10 mesi di vita, risultati migliori in un problem solving
test, rispetto a coetanei che non avevano ricevuto la supplementazione. Uno studio prospettico longitudinale
di coorte è stato svolto, in Danimarca, su soggetti nati a Copenaghen, dall’Ottobre 1959 al Dicembre 1961. Il
campione di 2.280 persone è stato diviso in cinque gruppi, in rapporto alla durata del loro allattamento al
seno materno.
La maggiore durata dell’allattamento al seno materno è risultata associarsi significativamente (P=.003) a più
alti livelli di Q.I. Verbale, Q.I. di Performance e Q.I. Totale, alla WAIS.
Gli autori hanno suggerito che il contenuto in acidi grassi n-3, presenti nel latte materno, potrebbe
giustificare, almeno in parte, quest’effetto lineare, per cui a più lungo allattamento corrisponde, in maniera
lineare, un più alto Q.I. totale.
Un altro studio ha evidenziato pattern di sonno più maturi, in bambini nati da madri, con più alti livelli
plasmatici di DHA.
Gli effetti di una dieta neonatale arricchita con DHA o AA, rispetto ad una dieta di controllo senza DHA o AA,
sullo sviluppo cognitivo successivo, sono stati valutati in uno studio clinico controllato e randomizzato.
Cinquantasei neonati (26 maschi, 30 femmine) sono stati arruolati nello studio, entro i primi cinque giorni di
vita, ed hanno assunto la dieta stabilita sino alla diciassettesima settimana di vita. All’età di 18 mesi sono
stati sottoposti a valutazione mediante Bayley Scales of Infant Development, 2nd edition (BSID-II).
La dieta, arricchita con DHA ed AA, si associava ad un incremento medio di 7 punti, sull’Indice di Sviluppo
Mentale (MDI) della BSID-II. I gruppi trattati con DHA, da solo o in associazione con AA, hanno mostrato un
vantaggio significativo, sul piano cognitivo e motorio, con un trend in miglioramento anche del linguaggio.
Una significativa correlazione è stata evidenziata tra livelli di DHA nelle emazie a 4 mesi d’età e l’Indice di
Sviluppo Mentale della BSID-II. Gli autori dello studio interpretano il dato come ulteriore conferma che è il
supplemento dietetico il fattore determinante gli effetti verificati sulla MDI della BSID-II.
Le loro conclusioni sostengono che gli acidi grassi essenziali ω3, in particolare il DHA, assunti dai neuroni
nella tarda gravidanza e nel primo periodo successivo alla nascita, sono prerequisiti essenziali per un
normale sviluppo cerebrale.
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Manuale Uso Interno
L’importanza degli acidi grassi Omega-3 nello sviluppo normale del sistema nervoso in prematuri era già
nota.
Questo studio conferma la loro importanza anche in bambini sani ed in epoca post-natale.
In un altro studio si è valutata l’acuità visiva e la stereoscopia a 17, 26 e 52 settimane dalla nascita, in
neonati con dieta priva o arricchita con acidi grassi polinsaturi a lunga catena (LCPUFA). A 17 settimane
l’acuità visiva risultava migliore nel gruppo trattato con supplementazione. Il dato correlava positivamente
con la concentrazione plasmatica di DHA. Una migliore acuità visiva a 52 settimane risultò correlata
positivamente a più alte concentrazioni di DHA, nel plasma e nelle emazie.
L’apporto dietetico di Omega-3 influisce su diverse e complesse funzioni cerebrali, in rapporto al loro diretto
effetto sui livelli di colesterolo, fosfolipidi e sfingomielina, nei sinaptosomi e nei microsomi neuronali cerebrali.
Il consumo di lipidi risulta velocemente e continuamente correlato alla composizione di queste importanti
strutture funzionali del neurone.
Gli Omega-3 sono essenziali anche nella modulazione funzionale dell’appetito, della digestione, della
termoregolazione e del sonno. Le carenze relative o assolute nell’apporto dietetico d’Omega-3 potrebbero
svolgere, in età pediatrica, perciò, un ruolo specifico nella fisio-patogenesi dei disturbi visivi, attentivi, motori
e neurolinguistici.
Un deficit d’apporto dietetico e/o un disequilibrio tra acidi grassi essenziali ω3 e ω6 può correlarsi a diversi
disturbi psicopatologici dello sviluppo, come deficit dell’apprendimento, disturbi neurolinguistici, deficit
dell’attenzione con iperattività (ADHD) ed autismo.
In soggetti, con bassi livelli d’acidi grassi ω3, sono stati descritti numerosi disturbi del comportamento e del
sonno, oltre che deficit cognitivi e d’apprendimento. In uno studio, su 97 bambini dislessici, furono valutati i
livelli plasmatici d’acidi grassi. I soggetti con più bassi livelli di Omega-3 presentavano peggiori capacità di
lettura, spelling, abilità generale e working memory uditiva, soprattutto tra i soggetti maschi. Il deficit d’acidi
grassi risultò significativamente elevato (p<.001) in soggetti dislessici, soprattutto nei maschi, rispetto ai
controlli. In particolare, in questo studio fu evidenziata una stretta correlazione tra deficit d’acidi grassi e
problemi neurolinguistici non solo visivi, ma anche uditivi e motori.
Un altro studio ha evidenziato una diretta correlazione tra bassi livelli di acidi grassi Omega-3 e disturbi
dell’apprendimento.
Lo studio di Burgess et al. (2000) ha confermato che i bambini, con queste deficienze lipidiche,
presentavano disturbi del comportamento, dell’apprendimento e del ritmo sonno-veglia, assenti nei bambini
di controllo sani.
In dislessici adulti, inoltre, uno studio di risonanza magnetica spettroscopica con fosforo-31 ha evidenziato
segni d’alterato turnover dei lipidi di membrana. In uno studio controllato e randomizzato, 41 bambini
dislessici, d’età compresa tra gli 8 ed i 12 anni, con difficoltà d’apprendimento e con punteggi sopra la media
per l’ADHD, hanno ricevuto una supplementazione con acidi grassi o placebo. Dopo12 settimane, si sono
evidenziati effetti favorevoli sui disturbi del comportamento e sull’apprendimento nei soggetti trattati con acidi
grassi ω3 e ω6.
Il deficit di PUFA si associa a sete eccessiva, frequenti minzioni, pelle secca e desquamata e disturbi
comportamentali.
Poiché questi segni clinici risultano frequenti nei soggetti con ADHD alcuni autori hanno ipotizzato una
carenza di PUFA nei soggetti con ADHD. Un altro tipico segno della ADHD è una sorta di pseudointolleranza all’acido salicilico.
Poiché i salicilati interferiscono con la ciclo-ossigenasi nel passaggio metabolico da PUFA a eicosanoidi,
essi potrebbero esacerbare le problematiche connesse a bassi livelli di EPA e AA.
Colquhoun & Bunday, già nel 1981, segnalarono, nei soggetti con ADHD, la frequente presenza di una
condizione atopica, nonché una relativa deficienza di zinco.
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Uno studio, su 53 pazienti affetti da ADHD e 43 soggetti di controllo, con età compresa tra 6 e 12 anni, ha
evidenziato bassi livelli plasmatici di DHA ed AA, con ridotti livelli plasmatici anche di EPA e bassi livelli di
AA nelle emazie.
Secondo Stordy (2000), i disturbi del comportamento, tipici dei soggetti con ADHD, potrebbero essere
l’espressione sintomatica di un inadeguato funzionamento delle membrane neuronali, per un deficit relativo
delle componenti ad alto contenuto d’acidi grassi polinsaturi.
I bambini con ADHD sembrano presentare un ridotto volume cerebrale. Questo ridotto sviluppo volumetrico
potrebbe essere relato al deficit di acidi grassi essenziali, sebbene non si abbia a tutt’oggi nessuna evidenza
scientifica in merito, non essendo stati effettuati studi specifici. Ciò nonostante garantire un adeguato
apporto di fosfolipidi ai bambini, in fase di sviluppo, sembra essere ragionevole al fine di prevenire deficienze
nutrizionali. I pochi studi di supplementazione dietetica a scopo terapeutico, riportano risultati deludenti,
dopo somministrazione di acido gamma-linolenico, in pazienti con ADHD. Sedici pazienti affetti da ADHD,
con età compresa tra 6 e 12 anni, in trattamento con psico-stimolanti sono stati trattati con
supplementazione di DHA, in uno studio randomizzato in doppio cieco vs placebo. Alla fine dello studio,
sebbene il livello plasmatico di DHA risultasse essere oltre due volte superiore, rispetto ai soggetti di
controllo, non è stata evidenziata alcuna significativa variazione di parametri obiettivi o soggettivi della
sintomatologia tipica del disturbo. Di recente sono stati evidenziati, al contrario, alcuni effetti terapeutici degli
Omega-3 sul disturbo dell’attenzione con iperattività negli adulti.
Nei soggetti con disturbi dello spettro autistico sono stati evidenziati bassi livelli di PUFA ω3 nelle membrane
cellulari dei globuli rossi. Evidenze preliminari sembrano confermare, in questi soggetti, un eccesso
dell’enzima PLA2 che rimuove gli acidi grassi polinsaturi dalle membrane fosfolipidiche. Alti livelli di
quest’enzima sono stati evidenziati anche in soggetti dislessici e schizofrenici. E’ probabilmente difficile
valutare l’efficacia clinica di un trattamento di supplementazione dietetica, se si considera la gran variabilità
sindromica, esistente tra pazienti diversi, portatori del cosiddetto disturbo autistico, in questa fase della vita.
Sicuramente la vita fetale e la prima infanzia sono periodi critici per lo sviluppo del tessuto nervoso. In
quest’ottica un adeguato apporto di nutrienti essenziali, in particolare, di acidi grassi polinsaturi Omega-3,
dovrebbe essere garantito durante la gravidanza, l’allattamento e l’infanzia, ma, verosimilmente, durante
tutta la vita.
Lo stress ossidativo può portare ad una perossidazione globale, con effetti più evidenti a livello neuronale,
per la maggiore rilevanza funzionale delle membrane fosfolipidiche, in queste cellule.
Lo stress ossidativo potrebbe essere uno dei principali fattori etio-patogenetici della malattia schizofrenica,
se si considera che l’alterazione ossidativa dei lipidi può modificare la conformazione e funzionalità
recettoriale, distorcendo la trasduzione dei messaggi, ed alterando, così, sostanzialmente le funzioni di
information processing cerebrale.
La perossidazione neuronale può alterare il trasporto di membrana, la produzione di energia a livello
mitocondriale, l’espressione genica, oltre alla trasduzione dei segnali, mediata dalle molecole a funzione
recettoriale, immerse nella matrice fosfolipidica delle membrane neuronali.
E’, ovviamente, difficile distinguere quanto il disturbo funzionale, presente nella schizofrenia, possa essere
secondario al danno ossidativo, da quanto consegua ad una deficitaria assunzione dietetica e da quanto
derivi da un alterato metabolismo degli acidi grassi di membrana. Alcuni autori hanno sostenuto che il deficit
d’Omega-3 evidenziato negli schizofrenici derivi da un alterato stress ossidativo, piuttosto che da deficit
alimentari o metabolici di sintesi.
Qualunque sia il meccanismo sotteso a questo deficit è evidente che alcune strategie terapeutiche possono
essere di relativo beneficio.
L’assunzione regolare di antiossidanti, per via dietetica, può prevenire o contrastare la ridotta incorporazione
d’Omega-3 nelle membrane neuronali, conseguente allo stress ossidativo.
A tal fine sono sicuramente utili supplementi alimentari a base di vitamina A, vitamina D, vitamina E, beta
carotene e, ovviamente, acidi grassi essenziali Omega-3.
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Ulteriori misure d’igiene possono essere diete a più basso apporto di calorie, con più bassi consumi di fumo
ed alcol, con maggiore attività motoria. Lo stile di vita dei pazienti schizofrenici è spesso orientato in senso
inverso, con pesanti consumi di sigarette e, talora, cibi calorici ed alcol, scarsa attività motoria ed assunzione
di sostanze e farmaci pro-ossidativi.
Sono stati evidenziati in schizofrenici cronici, ma anche in schizofrenici drug-naive, all’esordio dei sintomi,
elevate concentrazioni di prodotti della perossidazione associati ad alterati livelli di antiossidanti, sia nel
plasma che nel liquor. Queste evidenze suggeriscono che, nella schizofrenia, un ruolo etio-patogenetico
rilevante possa essere esercitato dallo stress ossidativo. Un aumento della perossidazione lipidica
plasmatica concorda con i bassi livelli d’acidi grassi polinsaturi, evidenziati a livello delle membrane
fosfolipidiche eritrocitarie e neuronali. I livelli d’acido arachidonico e di DHA nelle membrane delle emazie
sono relativamente bassi negli schizofrenici cronici, rispetto a soggetti normali di controllo.
Non manca la segnalazione di effetti clamorosamente terapeutici, del trattamento con E-EPA in un paziente
drug-naive, con miglioramenti clinici drammatici dei sintomi positivi e negativi, in una schizofrenia al suo
primo esordio. La sintomatologia clinica sembra essersi correlata, in questo paziente, ad una
normalizzazione della composizione dei fosfolipidi di membrana degli eritrociti, con riequilibrio delle
componenti ω3 e ω6, ma anche ad una normalizzazione del contenuto in AA, probabilmente per inibizione
della fosfolipasi A2 o per attivazione di una CoA-ligasi per gli acidi grassi. Il recupero di questo paziente si è
associato, inoltre, ad una riduzione del turnover dei fosfolipidi di membrana, come evidenziato da uno studio
seriale cerebrale alla MRI con fosforo-31.
In venti schizofrenici cronici, la supplementazione dietetica con 10 gr/die di olio di pesce, a maggior
contenuto di EPA, ha indotto un significativo miglioramento dei sintomi negativi (anedonia, affettività
appiattita, apatia, rallentamento motorio) ma non variazioni significative dei sintomi positivi, alla Positive and
Negative Syndrome Scale (PANSS). Il miglioramento sintomatologico si è associato ad un aumento dei livelli
d’acidi grassi Omega-3 negli eritrociti.
In uno studio su 19 giovani schizofrenici, alla loro ammissione, furono misurate le concentrazioni di PUFA a
livello eritrocitario. La composizione dei fosfolipidi di membrana a livello eritrocitario sembra riflettere
abbastanza fedelmente la stessa composizione a livello neuronale. Fu somministrata la scala di Montgomery
Asberg per la depressione e la PANSS. Vennero verificati, inoltre, aspetti dietetici, ormonali ed l’uso di
cannabinoidi, essendo questi fattori che possono interferire sul metabolismo degli acidi grassi. Il DHA e gli
acidi grassi C22:5 ω3 e tutti gli acidi grassi ω9 risultarono significativamente più bassi nei pazienti, rispetto a
soggetti sani di controllo. Non si trovarono, invece, significative differenze nel livello di AA. Le differenze di
concentrazione degli acidi grassi non risultarono dipendere da variabili dietetiche, ormonali o da uso di
cannabinoidi.
In uno studio, in doppio cieco contro placebo a gruppi paralleli, con dosi fisse e durata di 12 settimane, è
stata investigata l’efficacia e la tollerabilità dell’E-EPA come trattamento add on in pazienti schizofrenici
cronici gravi. Quaranta pazienti, con sintomi persistenti dopo almeno sei mesi di trattamento antipsicotico
stabile, assunsero E-EPA o placebo in aggiunta al loro precedente trattamento farmacologico.
A 12 settimane il gruppo trattato con E-EPA presentò una significativa riduzione del punteggio totale della
PANSS, ma anche del punteggio di discinesia, rispetto al gruppo placebo. Secondo gli autori, l’EPA
potrebbe essere considerato un trattamento aggiuntivo efficace e tollerato nella schizofrenia.
In uno studio simile sono stati valutati gli effetti dell’E-EPA sulla sintomatologia psicopatologica persistente in
pazienti che ricevevano diversi farmaci antipsicotici. 115 pazienti, affetti da schizofrenia, definita secondo i
criteri diagnostici del DSM IV, assumevano rispettivamente: 31 clozapina, 48 un antipsicotico atipico e 36 un
neurolettico.
Placebo oppure 1,2 o 4 gr / die di E-EPA furono dati in aggiunta alla terapia già in corso, per dodici
settimane consecutive. L’E-EPA ridusse significativamente il livello di trigliceridi plasmatici, già elevati,
soprattutto nei soggetti che assumevano clozapina.
Nei soggetti che assumevano 2 gr / die di E-EPA, si evidenziò un miglioramento della sintomatologia
esplorata mediante PANSS, con effetti più evidenti nei soggetti in trattamento con clozapina.
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Fu evidenziata, inoltre, una correlazione diretta tra miglioramento sintomatologico e aumento negli eritrociti
della concentrazione di AA.
Nell’ipotesi che lo stress ossidativo possa svolger un ruolo nell’etio-patogenesi della schizofrenia è
ragionevole supporre che l’assunzione dietetica di antiossidanti ed Omega-3 possa prevenire la malattia o
almeno attenuarne il decorso e la sintomatologia.
Probabilmente, un’opportuna supplementazione dietetica può svolgere un effetto parzialmente terapeutico,
anche nei pazienti più gravi, migliorando alcuni aspetti comportamentali e, soprattutto, riducendone il
deterioramento cognitivo.
Una recente review Cochrane conclude la revisione sistematica della letteratura scientifica internazionale
sull’argomento, sostenendo che l’uso degli acidi grassi polinsaturi Omega-3 resta ancora sperimentale.
Più ampi e ben disegnati studi di verifica sono in corso.
Nel tessuto cerebrale, di pazienti affetti da Morbo di Alzheimer, sono state evidenziate differenze quantitative
e qualitative nella composizione in acidi grassi, in particolare nella concentrazione di DHA, rispetto a soggetti
normali di controllo di pari età. (Conquer et al., 2000)
Questi valori sono stati comparati a quelli ottenuti da un campione di soggetti anziani di controllo con normali
livelli cognitivi. I livelli plasmatici di fosfolipidi, di PC, di DHA, degli acidi grassi ω3, ed il rapporto ω3/ω6 sono
risultati significativamente più bassi nei soggetti con SDAT, OD e CIND. I livelli di DHA e di LPC sono risultati
particolarmente ridotti nei soggetti con CIND. Bassi livelli serici di DHA sembrano rappresentare un fattore di
rischio per lo sviluppo di una demenza senile, presentandosi non solo nei pazienti affetti da SDAT, ma anche
nei soggetti con altre forme di demenza o con semplice impairment cognitivo senile.
In uno studio, randomizzato contro placebo, della durata di sei mesi, sono stati valutati gli effetti dell’E-EPA
in sette pazienti ospedalizzati, affetti da morbo di Huntington, in uno stadio (III°) avanzato di malattia.
Alla fine dello studio, tutti i pazienti trattati con E-EPA hanno presentato un miglioramento dei movimenti
patologici oro-faciali, valutati mediante Unified Huntington's Disease Rating Scale, mentre tutti quelli in
trattamento con placebo avevano presentato un netto peggioramento (p<.03).
Ad un follow up, con valutazione alla risonanza magnetica nucleare tridimensionale, è stata evidenziata una
progressiva atrofia, nel gruppo trattato con placebo, mentre il gruppo trattato con E-EPA sembrava
presentare, addirittura, un processo neuroplastico inverso. Ulteriori e più recenti evidenze cliniche
confermano gli effetti protettivi, esercitati dagli Omega-3, nel deterioramento cognitivo senile e demenziale.
La deplezione d’acidi grassi polinsaturi Omega-3, in particolare di DHA, interferisce significativamente su
numerosi e diversi parametri funzionali neuronali.
Numerosi studi hanno evidenziato un possibile ruolo di questa deplezione nell’etiopatogenesi di numerose
patologie nervose e mentali, e, soprattutto, della depressione.
Alcuni dati sembrano dimostrare che l’utilizzo d’Omega-3 può ridurre il rischio di depressione tanto quanto il
rischio di malattia coronarica.
Dati epidemiologici confermano il sovrapporsi delle aree del mondo, con minori consumi alimentari di pesce,
e quelle con maggiore incidenza della malattia depressiva.
La forte associazione tra malattia coronarica e depressione potrebbe trovare nella carenza di Omega-3 un
comune fattore patogenetico.
Numerose evidenze indirette sembrano suggerire una correlazione tra deficit d’Omega-3 e disturbi del
comportamento.
Il rapido ridursi dei lipidi circolanti, per effetto degli inibitori della HMG-CoA reduttasi, si associa a numerosi
disturbi psicopatologici.
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In un database norvegese il 15% degli effetti collaterali di tipo psichiatrico risulta essere indotto dalle statine.
Questi effetti collaterali includono ansietà, aggressività, depressione dell’umore, nervosismo e disturbi del
ritmo sonno-veglia.
Ulteriori dati sono stati raccolti rispetto alla relazione tra serotonina ed Omega-3.
In pazienti gravemente depressi sono stati evidenziati bassi livelli di 5HIAA, un metabolita della serotonina,
nel liquor, nonché bassi livelli di colesterolo circolante.
Le terapie che riducono il colesterolo, sembrano associarsi significativamente ad un più alto rischio di
suicidio. Alcuni studiosi hanno sostenuto che i bassi livelli di colesterolo possono interferire sul turnover della
serotonina. Le diete e le terapie che riducono i grassi circolanti, riducono anche i livelli d’acidi grassi
polinsaturi essenziali.
Sembra che i livelli d’acidi grassi essenziali circolanti correlino direttamente con i livelli di 5HIAA liquorali. Le
aree geografiche dove l’assunzione, col cibo, di Omega-3 è più alta presentano, di converso, minore
incidenza epidemiologica di depressione. L’alcolismo ed il periodo post-partum sono condizioni cliniche
caratterizzate da bassi livelli d’Omega-3, nell’organismo. Entrambe queste condizioni cliniche si correlano ad
una più alta incidenza di disturbi dell’umore.
In soggetti depressi sono stati evidenziati bassi livelli d’Omega-3, soprattutto DHA, nei fosfolipidi eritrocitari,
rispetto a soggetti sani di controllo. I pazienti depressi presentano, inoltre, un rapporto più alto tra AA ed EPA
nel loro plasma e nei loro eritrociti. Questi dati, nel loro insieme, suggeriscono un possibile coinvolgimento
dei livelli d’Omega-3 nella patogenesi della depressione. I dati in nostro possesso sull’efficacia terapeutica
degli Omega-3 nel trattamento del disturbo depressivo sono ancora scarsi. Ciò nonostante, l’ipotesi di una
loro efficacia è stata ripetutamente segnalata.
La depressione sembra associarsi ad un aumento relativo dei livelli d’acidi grassi ω6 rispetto a quelli ω3,
con incremento del rapporto ω6/ω3, ed una riduzione assoluta dei livelli plasmatici ed eritrocitari d’Omega-3.
Alcuni autori hanno evidenziato, in soggetti depressi, una significativa alterazione del metabolismo
ossidativo, con una correlazione diretta con i livelli serici e fosfolipidici dei PUFA ω6 ed una correlazione
inversa con i livelli serici e fosfolipidici di EPA e DHA.
I trattamenti antidepressivi non sembrano agire sugli acidi grassi essenziali. Nella depressione grave, a
livello fosfolipidico, la carenza di PUFA ω3 si associa ad un incremento compensatorio di altri acidi grassi e
di ω6 (c22:5 n-6).
L’alterazione del metabolismo fosfolipidico, evidenziato nella depressione, se non trattato specificamente,
persiste anche dopo un trattamento antidepressivo clinicamente efficace, mantenendo, comunque, un suo
potenziale patogenetico. In un campione di 3.204 finlandesi sono stati studiati i sintomi depressivi, mediante
Beck’s Depression Inventory, ed i consumi approssimativi d’Omega-3, con questionari strutturati specifici per
l’apporto dietetico di pesce. L’analisi statistica di regressione multipla, corretta per i potenziali fattori
confondenti, ha confermato che la probabilità di avere sintomi depressivi è significativamente più alta tra i
soggetti con basso consumo di pesce.
Alcuni Autori hanno suggerito una supplementazione di Omega-3, in senso terapeutico, nel trattamento delle
depressioni subcliniche, delle depressioni di lieve o media entità sindromica, nonché come integrazione
terapeutica nel trattamento delle depressioni più gravi.
Di recente, sono apparsi in Letteratura studi sugli effetti terapeutici della supplementazione con EPA, nel
miglioramento clinico del singolo paziente depresso.
L’EPA è stato aggiunto alla terapia antidepressiva di un paziente grave con una storia di oltre sette anni di
depressione, resistente ai trattamenti e con ripetuti episodi suicidari.
L’aggiunta, al trattamento antidepressivo già in atto, dell’EPA ha indotto un marcato miglioramento dei
sintomi depressivi, entro un mese dall’inizio.
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Durante i nove mesi successivi di trattamento e studio, in questo paziente, la concentrazione relativa dei
fosfo-mono-esteri cerebrali aumentò del 53%, il rapporto tra fosfo-mono-esteri e fosfo-di-esteri aumentò del
79%, confermando un riequilibrato turnover di fosfolipidi.
Uno studio di neuro-imaging ha dimostrato che il trattamento con EPA si è accompagnato a ristrutturazioni
morfologiche cerebrali con riduzione, in particolare, del volume dei ventricoli laterali.
L’efficacia dell’EPA purificato, come terapia aggiuntiva nel trattamento della depressione ricorrente
unipolare, è stata valutata da alcuni clinici. I risultati, ottenuti su un campione di venti pazienti, hanno
confermato un sensibile e rilevante effetto dell’associazione, già dalla terza settimana di trattamento.
In un altro studio sono stati trattati settanta pazienti affetti da depressione persistente e resistente alle
terapie. I pazienti ricevevano in doppio cieco EPA o placebo in aggiunta alla corrente terapia antidepressiva
già in atto. In questo studio, inoltre, gli effetti del trattamento aggiuntivo con EPA sono risultati più evidenti al
dosaggio di 1000 mg/die, che al dosaggio di 2000 o 4000 mg/die.
E’ stato ipotizzato, inoltre, uno specifico meccanismo d’azione degli Omega-3 nel trattamento della
depressione per effetti indotti direttamente nella modulazione della proteina c-AMP response element
binding (CREB) e del brain derived neurotrophic factor (BDNF).
L’associazione tra deficit d’Omega-3 e depressione potrebbe rappresentare la corretta base interpretativa
della robusta correlazione tra depressione e infarto miocardico. Molti dei quadri patologici, correlabili alla
carenza di Omega-3 presentano, infatti, tra i loro sintomi clinici, uno slivellamento depressivo dell’umore.
La depressione post-partum è stimata insorgere nelle donne in fase di puerperio con una prevalenza
superiore al 20%. Fattori di rischio riconosciuti sono sia un’anamnesi positiva per depressione post-partum
sia pregressi disturbi del tono dell’umore nella storia personale.
La depressione post-partum, come definita dal DSM IV, insorge con i sintomi di una depressione maggiore,
entro un mese dal parto. Nella letteratura psichiatrica siano riportati limiti temporali di insorgenza molto più
ampi, che talora arrivano sino ad un anno dal parto. Una percentuale, tra il 25 % ed il 50%, di puerpere ha
episodi di depressione, che durano oltre sei mesi.
Le donne con una depressione post-partum presentano più alti livelli d’ansia e rispondono più tardi e meno
bene alle terapie antidepressive, rispetto ai soggetti con depressione, non insorta nel puerperio. L’incidenza
e la gravità sintomatologica della depressione post-partum sembra essere in crescita nei paesi occidentali.
La fisiologia della gravidanza prevede la mobilizzazione degli acidi grassi polinsaturi, dai depositi materni al
feto.
Il DHA è trasportato attivamente, attraverso la placenta, mediante una proteina di legame, verso il feto, che
necessita di sufficienti livelli d’Omega-3 per poter avere un normale sviluppo neurologico. Il DHA si
accumula, nel nascituro, nei coni di accrescimento nervoso durante lo sviluppo prenatale, prevalentemente
esterificato sotto forma di fosfatidil-etanolamina, esercitando, così, effetti neuroprotettivi e di riduzione
dell’attività PLA2.
E’ stato dimostrato che gli acidi grassi essenziali, soprattutto il DHA, durante la gestazione, decrescono
progressivamente nella madre. I livelli di DHA nella madre possono ridursi di oltre il 50% e risultare ancora
insufficienti sino ad oltre sei mesi dal parto. I parti multipli possono aggravare tale condizione.
Una supplementazione dell’apporto dietetico di questi composti, in fase
conseguentemente, opportuna e necessaria, tanto per la madre quanto per il feto.
gravidica,
risulta,
Senza una supplementazione dietetica la madre tende ad una relativa insufficienza di Omega-3, soprattutto,
di DHA. L’allattamento può prolungare nel tempo la carenza relativa d’Omega-3.
La deplezione di DHA, nella tarda fase gestazionale, nel periodo immediatamente successivo al parto,
nonché nella successiva fase d’allattamento, potrebbe contribuire all’insorgere della depressione postpartum.
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La dieta materna influenza i livelli di DHA nel latte materno.
Sembra che l’apporto dietetico quotidiano di DHA nelle donne nord-americane sia di circa 40-50 mg, mentre
è stato calcolato in 200 mg nelle donne europee ed in 600 mg nelle donne giapponesi.
Il livello di DHA nel latte materno può essere considerato, in un certo senso, un marker biologico
dell’equilibrio metabolico, in acidi grassi polinsaturi Omega-3, della madre.
Il basso apporto dietetico di DHA sembra correlare direttamente con l’incidenza di depressione post-partum.
I dati di prevalenza della depressione post-partum sono stati valutati su 14.532 soggetti reclutati in 41 diversi
studi.
Questi dati sono stati comparati ai livelli di DHA, EPA e AA, nel latte materno, ed ai consumi dietetici medi di
pesce, riportati in 23 paesi.
Più alte concentrazioni di DHA nel latte materno (r = -0.84, p<.0001, n = 16 paesi) e più alti consumi di
pesce (r = -0.81, p<0.0001, n = 22 paesi) correlano con una più bassa prevalenza di depressione postpartum.
Il contenuto di AA ed EPA nel latte materno sembra, invece, non essere correlato alla prevalenza di
depressione. E’ evidente l’opportunità di valutare sperimentalmente l’efficacia degli acidi grassi polinsaturi
Omega-3, nella prevenzione e nel trattamento della depressione post-partum.
Disturbi bipolari dell’umore rappresentano una condizione psicopatologica relativamente frequente e
clinicamente rilevante. Diverse osservazioni cliniche ed alcuni studi epidemiologici hanno evidenziato una
correlazione diretta, fra maggior consumo di cibi d’origine marina (pesce, crostacei etc.) e ridotta prevalenza
di disturbo bipolare. Sono state messe a punto ricerche, allo scopo di valutare l’eventuale efficacia e
sicurezza di una supplementazione dietetica con Omega-3, nel trattamento di soggetti affetti da disturbo
bipolare.
Uno studio ha evidenziato marcati effetti di stabilizzazione dell’umore, dopo assunzione di DHA ed EPA, in
soggetti bipolari. Sono stati reclutati trenta pazienti, con età compresa tra 18 e 65 anni, di entrambi i sessi,
affetti da disturbo bipolare I o II, secondo i criteri diagnostici del DSM IV, con almeno un episodio maniacale
o ipomaniacale nell’ultimo anno. Circa il 40% dei pazienti arruolati in questo studio potevano essere
considerati rapid cyclers.
Tutti i pazienti hanno proseguito la terapia, farmacologia e/o psicoterapeutica, già in atto, con una
supplementazione dietetica media di 9.6 g / die d’olio di pesce, ricco in Omega-3, oppure con un’equivalente
quantità d’olio d’oliva, utilizzato come placebo di confronto. I quindici pazienti trattati con olio di pesce, oltre
che per qualche disturbo gastro-enterico (alitosi tipica, nausea, etc.) si sono differenziati dal gruppo di
controllo, per un significativo periodo di remissione della sintomatologia (P=0.002) valutata mediante
Hamilton Depression Scale, Global Assessment Scale e Clinical Global Impression.
Nel gruppo Omega-3 si sono registrate due ricadute cliniche, rispetto alle nove ricadute del gruppo di
controllo.
E’ stato evidenziato, perciò, nei pazienti bipolari trattati con Omega-3, un miglioramento della sintomatologia
psicopatologica, nel breve termine, ma anche un effetto preventivo sulle ricadute, soprattutto su quelle
depressive, piuttosto che sul recidivare di episodi ipomaniacali o maniacali.
Altre ricerche hanno evidenziato un significativo miglioramento clinico dei soggetti con depressione bipolare,
trattati con Omega-3 rispetto a quelli, appartenenti ad un gruppo di confronto, trattati con placebo.
Gli Autori di un altro studio hanno portato a termine un trial clinico “in aperto” su un campione di 10 pazienti
con depressione bipolare, trattati per un mese con Omega-3.
L’analisi dei risultati ha mostrato un miglioramento significativo della sintomatologia depressiva in 8 dei 10
pazienti trattati.
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Tuttavia, è difficile trarre conclusioni generali da un’osservazione clinica condizionata sia dall’esiguità del
campione (10 pazienti) sia dalla mancanza di un gruppo di controllo, trattato con placebo.
Un’elevata quota di pazienti, affetti da disturbo bipolare, presenta frequenti ricadute, nonostante l’efficacia
terapeutica dei trattamenti specifici con stabilizzatori dell’umore, come litio e valproato.
Tutti i farmaci, con effetto stabilizzatore sull’umore, sembrano inibire la traduzione del segnale, a livello del
primo o del secondo messaggero.
Ciò avvalora l’ipotesi che un aumento dei livelli d’attivazione neuronale svolge un importante ruolo nella fisiopatogenesi del disturbo.
Numerose evidenze biochimiche confermano sia l’incorporazione tra i fosfolipidi di membrana degli acidi
grassi essenziali Omega-3 sia un loro ruolo cruciale nella trasduzione dei segnali a livello neuronale.
L’azione degli Omega-3 sembra associata ad una soppressione dell’attività neuronale, come secondo
messaggero, del fosfatidil-inositolo, risultando in ciò sovrapponibile a quella esercitata da valproato e litio.
L’assunzione di grandi quantità di Omega-3 si correla, a livello neuronale, con una riduzione della
trasduzione di segnali, associati al fosfatidil-inositolo, all’acido arachidonico ed ad altri sistemi.
Ulteriori ricerche saranno indispensabili, in futuro, per precisarne meglio l’eventuale efficacia in acuto e nel
lungo termine, nella profilassi delle ricadute depressive ed espansive, e, soprattutto nella ricerca di specifici
predittori di risposta favorevole.
Diversi Autori, tuttavia, sulla base di numerosi e diversi studi clinici, considerano la supplementazione
dietetica con acidi grassi essenziali Omega-3 ben tollerata e clinicamente efficace, nel migliorare il decorso
dei disturbi dell’umore, in particolare della malattia bipolare, quanto meno nel breve termine.
In uno studio, su 41 studenti è stata valutata l’efficacia di un trattamento ad alto contenuto di DHA, con circa
1,5 gr / die di principio attivo, nei tre mesi prima degli esami, valutando con metodo psicometrico l’ostilità
espressa, all’inizio ed alla fine del trattamento, che coincideva all’incirca con gli esami stessi.
Il gruppo di controllo, che assumeva capsule oleose con olio di soia, alla fine dello studio, cioè, in fase di
stress da esame, presentava un incremento del 58% dell’ostilità espressa, mentre il gruppo trattato con DHA
presentava una riduzione degli stessi indici del 14%.
In uno studio, disegnato per valutare gli effetti del DHA sulla risposta allo stress, alcuni studenti (4 maschi e
3 femmine) hanno assunto 10 capsule al di, ad alto contenuto di DHA, per 9 settimane consecutive durante
le quali erano sottoposti a 20 esami didattici stressanti. Un gruppo di controllo (4 maschi e 3 femmine)
assunse capsule oleose analoghe non contenenti DHA.
All’inizio ed alla fine dello studio furono misurati i livelli plasmatici d’adrenalina, noradrenalina e cortisolo. Le
concentrazioni di noradrenalina risultarono significativamente ridotte (-31% p<.03) nel gruppo in trattamento
con DHA. Le altre catecolamine non differirono significativamente.
La frazione plasmatica d’adrenalina rispetto alla noradrenalina nei soggetti trattati con DHA aumentò
significativamente (+78% p<.02). Sawazaki et al. (1999), nelle loro conclusioni, hanno sostenuto
l’opportunità di supplementare la dieta dei soggetti sottoposti a stress di lunga durata, con elevati quantitativi
di DHA.
Uno studio, in doppio cieco, randomizzato contro placebo, effettuato su 231 giovani prigionieri, ha
evidenziato una riduzione espressiva (-26.3% p=0.03) degli atti d’aggressività, da parte dei soggetti che
ricevevano una dieta arricchita con vitamine, minerali ed acidi grassi essenziali, rispetto al gruppo di
controllo.
La presenza di una sindrome metabolica (SM) rappresenta un importante fattore di rischio per il diabete e
per le malattie cardio-vascolari. La prevalenza di questa sindrome tra i pazienti in trattamento con
antipsicotici atipici è stata di recente valutata, in maniera estensiva, su 430 pazienti schizofrenici che
afferivano all’ospedale psichiatrico universitario di Lovanio in Belgio.
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In accordo con i criteri del National Cholesterol Education Program (NCEP, Adult Treatment Protocol, ATPIII) presentavano questa sindrome il 28,4% dei pazienti.
Usando i criteri diagnostici dell’International Diabetes Federation (IDF) la percentuale raggiungeva il 36%.
La SM è stata studiata, di recente, in rapporto all’assetto metabolico lipidico. I risultati hanno confermato
l’influenza esercitata, sull’insorgenza della SM, da tre fattori: un basso livello ematico d’acido linoleico (LA),
un alto consumo dietetico di grassi saturi ed un insufficiente apporto di PUFA ω3.
In un recente studio, è stato evidenziato che l’insorgere della SM in pazienti trattati con antipsicotici atipici è
direttamente legato all’incremento ponderale, con effetti connessi tanto all’adiposità, quanto al metabolismo
glicidico. Gli antipsicotici che inducono maggiore incremento ponderale, come olanzapina e clozapina, si
associano ad un rischio nettamente più alto per l’insorgere di una SM.
Ventotto pazienti, in trattamento con clozapina, sono stati sottoposti ad un regime dietetico con
supplementazione di Omega-3 (1.8 g di EPA and 1.2 g di DHA / die). L’assetto lipidico è stato valutato, in
uno studio in aperto, prima e dopo quattro settimane di assunzione Omega-3.
Il trattamento in addizione con Omega-3 ha ridotto del 22% il livello di trigliceridi, inducendo un incremento
del colesterolo totale del 6,6% ed un incremento del colesterolo LDL di circa il 22%.
Un aumentato apporto di Omega-3 può migliorare alterazioni della trasduzione del segnale insulinico e
prevenire alterazioni dell’omeostasi glicidica evitando l’insorgere di un diabete mellito di tipo-2.
Questi effetti sono largamente mediati dalla riduzione degli acidi grassi polinsaturi ω3 (PUFA ω3) nel
muscolo e nel fegato. I PUFA ω3 riducono i triacil-gliceroli plasmatici e migliorano il profilo lipoproteico,
riducendo la frazione di piccoli, densi ed aterogeni LDL, ma non del colesterolo LDL.
Probabili meccanismi d’azione degli Omega-3 e limiti al loro uso
Le citochine sono importanti mediatori biologici. La loro produzione è, perciò, strettamente controllata.
Un’eccessiva produzione di citochine contribuisce alla patogenesi di malattie acute e croniche di tipo
infiammatorio, autoimmune, aterosclerotico e neoplastico.
Studi sperimentali e clinici hanno dimostrato che la produzione delle citochine può essere ridotta, dagli acidi
grassi polinsaturi essenziali a lunga catena ω3.
Gli Omega-3 sono efficaci nel ridurre la severità sintomatologica di diverse malattie autommuni,
infiammatorie, aterosclerotiche e dell’anoressia indotta da citochine. La riduzione delle citochine, se
eccessiva, può, però, inficiare un’opportuna risposta immunitaria.
Una tale condizione può associarsi ad una riduzione delle funzioni mediate dalle cellule T e dell’attività delle
cellule natural killer e della citotossicità macrofagica.
Ciò potrebbe anche spiegare alcuni effetti clinici, apparentemente paradossali, in cui dosi inferiori d’Omega-3
ottengono effetti migliori su alcuni parametri sintomatologici, in condizioni psichiatriche, rispetto a dosi più
alte.
Gli effetti negativi di un eccesso di Omega-3 sono equilibrati da un adeguato apporto di vitamina A, di
vitamina D e di vitamina E. In alcuni studi clinici, i soggetti con diete più ricche di PUFA ω3 e ω6, in ogni
modo, presentavano un’incidenza di patologie aterosclerotiche più bassa rispetto ai gruppi di controllo.
Ciò nonostante una dieta con un apporto calorico di lipidi superiore al 10% non è raccomandabile, per gli
effetti negativi su altri elementi dell’omeostasi metabolica.
Al di sotto di questa percentuale nessun’evidenza è stata trovata su eventuali effetti negativi dell’assunzione
dietetica di PUFA ω6 od ω3.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
L’utilizzo di medicine complementari e pseudo-alternative, nei pazienti affetti da disturbi mentali è, purtroppo,
una pratica diffusa e frequente. Questi rimedi complementari non sempre hanno un’evidenza scientifica che
ne giustifichi l’uso, mancando spesso evidenze, non solo della loro efficacia, ma, talora, anche della loro
innocuità.
Le evidenze scientifiche sin qui raccolte sull’efficacia clinica, come terapia aggiuntiva, degli acidi grassi
polinsaturi Omega-3, in diversi quadri psicopatologici e sul loro meccanismo d’azione, risulta molto
interessante, fornendoci l’occasione per approfondire le nostre conoscenze su aspetti neurobiologici
d’estrema rilevanza, relati al ruolo dei lipidi in un tessuto, quello nervoso, in cui la loro presenza anatomica e
funzionale è preponderante.
Probabilmente, la prossima ed imminente introduzione in terapia di farmaci, derivati dagli endocannabinoidi,
molecole lipidiche, con specifici effetti di modulazione neuronale, riporterà l’attenzione di molti clinici e
ricercatori, sul possibile ruolo svolto dalle membrane fosfolipidiche e dalla loro complessa fisiopatologia
nell’etiopatogenesi di molti e diversi quadri psicopatologici.
I fosfolipidi di membrana svolgono un ruolo essenziale, nel regolare il potenziale d’azione, la trasduzione dei
segnali a livello sinaptico ed i complessi meccanismi dell’eccitazione o dell’inibizione neuronale.
I canali di membrana, i recettori, i trasportatori e molte altre proteine di membrana sono, direttamente o
indirettamente, influenzati dalla membrana fosfolipidica, in cui sono funzionalmente immersi. L’attività
fisiologica di molte di queste molecole è regolata dalla fosforilazione proteica, per l’azione svolta da una
classe d’enzimi denominata proteinkinasi.
Gli effetti benefici, spesso sovrapponibili, d’alcuni antipsicotici atipici, d’alcuni antidepressivi e d’alcuni
anticonvulsivanti, ma anche degli acidi grassi Omega-3 e d’alcuni cannabinoidi, potrebbero avere un loro
importante e comune meccanismo d’azione negli effetti indotti sulle proteinchinasi, con conseguenti
adattamenti morfo-funzionali delle membrane neuronali.
Questi cambiamenti potrebbero aiutare la cellula a mantenere una condizione di relativa omeostasi
eccitatoria. Ciò renderebbe ragione, inoltre, degli effetti di tipo neuroprotettivo esercitati da queste diverse
sostanze.
Un meccanismo d’azione comune, di questo genere, potrebbe giustificare, inoltre, l’efficacia di queste
sostanze in condizioni cliniche e psicopatologiche relativamente distanti tra loro sul piano nosografico e
patologico, quali demenze, schizofrenia, disturbi dell’umore e malattie cerebrovascolari.
E’ verosimile che il vasto spettro dei disordini psichiatrici correlabili alla carenza di Omega-3 possa trovare,
in futuro, un’interpretazione meno dietetica e più correttamente genetica, in rapporto agli enzimi coinvolti nel
metabolismo degli acidi grassi, ma anche in rapporto ai complessi aspetti strutturali e funzionali propri da
questi composti, a livello neurobiologico, nelle varie strutture citoplasmatiche e di membrana del tessuto
nervoso.
Gli effetti degli Omega-3 nella prevenzione e nel controllo della sindrome metabolica, aggravata dall’uso
d’antipsicotici atipici, sono probabilmente mediati dall’attività di fattori di trascrizione e dall’espressione di
geni coinvolti nella sintesi e nell’ossidazione lipidica.
Numerosi altri effetti degli Omega-3 possono contribuire a ridurre la pericolosità clinica della sindrome
metabolica quali la modulazione dell’infiammazione, l’attività esercitata sull’aggregazione piastrinica e sulla
funzione endoteliale, nonché sulla pressione arteriosa.
Gli studi di comparazione degli effetti sulla SM dei due principali Omega-3 sono molto limitati. E', tuttavia,
ipotizzabile che il DHA sia efficace tanto quanto l’EPA nella correzione di numerosi fattori di rischio.
Alla luce di quanto detto si può concludere con la considerazione che a livello biologico e soprattutto a livello
biochimico e cellulare non esiste alcuna distanza tra psichiatria e neurologia e, ancor più, tra psichiatria e
medicina e che l’assunzione del DHA e EPA possa costituire un positivo approccio biologico a diverse
patologie.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
ADHD - Sindrome da deficit di attenzione e iperattività
ADHD (Attention/Deficit/HyperactivityDisorder), o più semplicemente ADD (Attention Deficit Disorder), è la
sigla della sindrome da deficit di attenzione e iperattività.
Il Disturbo da deficit d'attenzione ed iperattività (ADHD) è un disturbo neuropsichiatrico caratterizzato da
inattenzione, impulsività ed iperattività motoria che rende difficoltoso ed in taluni casi impedisce il normale
sviluppo e l’integrazione sociale dei bambini.
Si tratta di un disturbo eterogeneo, complesso e multifattoriale che nel 70-80% dei casi coesiste con un altro
o altri disturbi (fenomeno definito comorbilità).
La coesistenza di più disturbi aggrava la sintomatologia rendendo complessa sia la diagnosi sia la terapia.
Quelli più frequentemente associati sono il disturbo oppositivo-provocatorio ed i disturbi della condotta, i
disturbi specifici dell'apprendimento (dislessia, disgrafia, etc.), i disturbi d'ansia e, con minore frequenza, la
depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da tic, il disturbo bipolare.
Per il trattamento di alcuni pazienti iperattivi e con deficit d'attenzione si sono rivelate efficaci alcune
molecole psicoattive come il metilfenidato. Ma critiche sono piovute sull'uso di questi medicinali, i quali sono
stati ritenuti responsabili di diversi casi di morte (infarto, suicidio, ecc.).
Queste critiche hanno portato in Italia alla nascita di due campagne, una con funzioni di farmacovigilanza
denominata "giù le mani dai bambini", la seconda con funzioni d’informazione sul rischio farmaci è
denominata "perché non accada".
La tesi della malattia
Secondo la maggior parte dei ricercatori e sulla base degli studi degli ultimi quarant'anni il disturbo si ritiene
abbia una causa genetica e sia anche legato a fattori morfologici cerebrali, fattori prenatali e perinatali, fattori
traumatici. Tale tesi è contestata da chi sostiene che, ad oggi, nessun fenotipo (marcatore biologico) è stato
individuato per l'ADHD, ed alcuna prova definitiva è stata fornita circa la tesi dell'origine genetica della
sindrome. In molti casi si registra una remissione spontanea dei sintomi con l'avanzare dell'età del soggetto,
anche in pazienti non sottoposti a terapia farmacologica.
Sindrome
Secondo altri la sindrome da iperattività non è una malattia, secondo il dott. Fred Baughman, neurologo
infantile e membro dell'American Academy of Neurology: «… La "psichiatria biologica" in quarant’anni non
ha mai confermato l'esistenza di “anomalie”, "squilibri chimici" o disturbi "neurologici", "biologici" o "genetici"
in una sola delle sue diagnosi o delle condizioni di cui afferma l'esistenza ».
Tale tesi è sostenuta anche da una parte significativa della comunità scientifica italiana: la Prof. Emilia Costa
(1° Cattedra di Psichiatria dell'Università "La Sapienza" di Roma) afferma infatti che "tale diagnosi
(di ADHD,) è inconsistente e vaga, e così come viene proposta ad oggi non andrebbe fatta".
Tale posizioni sono confutate da molte società scientifiche.
Problemi relazionali
Per quanto riguarda i problemi relazionali, i genitori, gli insegnanti e gli stessi coetanei concordano che i
bambini con ADHD hanno anche problemi nelle relazioni interpersonali.
Vari studi di tipo sociometrico hanno confermato che bambini affetti da deficit di attenzione con o senza
iperattività:




ricevono minori apprezzamenti e maggiori rifiuti dai loro compagni di scuola o di gioco;
pronunciano un numero di frasi negative nei confronti dei loro compagni dieci volte superiori rispetto
agli altri;
presentano un comportamento aggressivo tre volte superiore;
non rispettano o non riescono a rispettare le regole di comportamento in gruppo e nel gioco;
laddove il bambino con ADHD assume un ruolo attivo riesce ad essere collaborante, cooperativo e volto al
mantenimento delle relazioni di amicizia, laddove, invece, il loro ruolo diventa passivo e non ben definito,
essi diventano più contestatori e incapaci di comunicare proficuamente con i coetanei.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Trattamento sintomatico e controversie alla cura farmacologica
Il trattamento sintomatico più impiegato per il trattamento dell'ADHD è il metilfenidato, un'anfetamina, ma
esiste un forte dibattito all'interno degli stessi psichiatri sull'uso di queste sostanze stimolanti in bambini che
sono iperattivi. In effetti, le linee-guida tendono a riconoscere l'utilità di integrare interventi educativi,
psicologici, di supporto famigliare e - solo se realmente necessario - anche farmacologico.
Il ricorso agli psicofarmaci deve «rappresentare l'extrema ratio e comunque una strada assolutamente da
evitare in età giovanile. Molto meglio può fare l'attenzione della famiglia ».
L'atteggiamento di esperti del settore, sottolinea l'utilità di approcciarsi ai farmaci in maniera corretta, senza
"idealizzarli" (e quindi abusarne inutilmente), ma senza nemmeno "demonizzarli" (e quindi usandoli, in
maniera consapevole e corretta, quando realmente necessari).
Un recente "warning" della Food and Drug Administration ha indicato come potenziali effetti collaterali per
l'assunzione a normale dosaggio terapeutico di questo tipo di psicofarmaci il leggero aumento di rischi
sanitari, quali il rischio di ictus, l'insorgenza di crisi maniaco-depressive, o, in casi eccezionali ed in presenza
di gravissimi fattori predisponenti, la morte improvvisa per arresto cardiaco.
Esistono campagne, dal nome eloquente, "Giù le Mani dai Bambini", che criticano l'uso del metilfenidato in
età evolutiva.
Il progetto è supportato da diversi anni da alcune associazioni dell'ambito antipsichiatrico, associazioni di
promozione sociale, cooperative, etc. ed ha goduto dell'appoggio di diversi "media" e di personalità del
mondo dello spettacolo e della cultura.
L’ Istituto Superiore di Sanità ha quindi costituito, per garantire una corretta informazione sanitaria ai genitori
ed agli insegnanti dei bambini affetti da ADHD, un ricco sito informativo, con sezioni di approfondimento su
tutti i temi relativi.
Anche le Associazioni dei genitori di bambini con ADHD hanno messo online materiale informativo di merito,
spesso in reazione alle informazioni imprecise fatte circolare dai gruppi antipsichiatrici.
L'associazione delle famiglie con figli ADHD, l'AIFA, si occupa di dare supporto alle famiglie. Si tratta di una
Onlus senza influenze religiose o economiche, composta da genitori che hanno come unico interesse quello
di curare i propri figli. AIDAI, Associazione Italiana Disturbi dell'Attenzione ed Iperattività:
La terapia dei bambini affetti da ADHD è quasi sempre figlia di un percorso interdisciplinare, che unisce le
figure del Neuropsichiatra Infantile, del Pediatra e dello Psicologo dello Sviluppo da un punto di vista clinico,
e di pedagogisti, educatori ed insegnanti da un punto di vista formativo.
Fondamentale è sempre il coinvolgimento attivo della famiglia.
Con un buon progetto di trattamento ed in presenza di un "buon gioco di squadra" tra queste figure, è molte
volte possibile ottenere buoni risultati terapeutici anche senza l'ausilio dei farmaci.
Il Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali
(Diagnostical and Statistical Manual) dell'Associazione Psichiatrica Americana (APA) è un riferimento
basilare, criticato per un conflitto d'interesse di alcuni autori che nello stesso tempo erano consulenti o
ricercatori alle dipendenze di case farmaceutiche.
L'ADHD, secondo i critici, sarebbe in questo senso una delle tante sindromi scoperte e introdotte nel
prontuario negli ultimi 50 anni.
Secondo questa critica sarebbe un disturbo senza una sintomatologia chiara e univoca, diagnosticabile a
"piacere", elaborata ad inizi del secolo scorso e ripresa negli anni '80 per creare un nuovo mercato di
farmaci.
Ormai nella classe medica si è sviluppata una sensibilità alla questione tale da portare a porre tali diagnosi
con molta attenzione, solo davanti a riscontri clinici evidenti.
Al tempo stesso, la differenza tra "uso" ed "abuso" degli psicofarmaci, soprattutto in età evolutiva, è ben nota
ai neuropsichiatri infantili, che sulla questione pongono ormai particolare attenzione.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Principali caratteristiche del problema
Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo.
Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività.
Questi problemi derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento
in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.
E’ bene precisare che l’ADHD non è una normale fase di crescita che ogni bambino deve superare, non è
nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, e tanto meno non è un problema dovuto alla
«cattiveria» del bambino.
L’ADHD è un vero problema, per l’individuo stesso, per la famiglia e per la scuola, e spesso rappresenta un
ostacolo nel conseguimento degli obiettivi personali.
E’ un problema che genera sconforto e stress nei genitori e negli insegnanti che si trovano impreparati nella
gestione del comportamento del bambino.
Sicuramente i genitori sono abituati a vedere come le altre persone reagiscono al comportamento del
bambino iperattivo: all’inizio, gli estranei tendono ad ignorare il comportamento irrequieto, le frequenti
interruzioni durante i discorsi degli adulti e l’infrazione alle comuni regoli sociali.
Di fronte alle ripetute manifestazioni dell’assenza di controllo comportamentale del bambino, queste persone
tentano di porre loro stesse un freno all’eccessiva “esuberanza”, non riuscendoci, concludono che il bambino
sia intenzionalmente maleducato e distruttivo.
Forse i genitori sono anche abituati alle conclusioni a cui gli estranei giungono, come ad esempio:
«I problemi di quel bambino sono dovuti al modo in cui è stato educato; sarebbe necessaria una maggiore
disciplina, maggiori limitazioni e anche qualche bella punizione. I suoi genitori sono incapaci, incuranti,
eccessivamente tolleranti e permissivi, e quel bambino è il frutto della loro inefficienza».
Se da un lato diventa necessario fare qualcosa per gestire il comportamento di questi bambini, è anche vero,
d’altro canto, che diventa urgente far capire agli altri adulti quale sia la reale natura del problema
dell’iperattività.
E’ necessario che tutte le persone, che interagiscono con i bambini con ADHD, sappiamo vedere e capire le
motivazioni delle manifestazioni comportamentali di questi ragazzini, mettendo da parte le assurde e
ingiustificate spiegazioni volte ad accusare e ferire i loro genitori, già tanto preoccupati e stressati per questa
situazione.
Innanzitutto è necessario scoprire se il bambino, abbia veramente un Disturbo da Deficit di
Attenzione/Iperattività (ADHD) oppure se sia semplicemente irrequieto e con la testa tra le nuvole.
Nessuna persona, che non sia uno, si deve sentire autorizzata a decidere se quel bambino presenta o meno
un ADHD.
Numerose recenti ricerche hanno dimostrato che gli acidi grassi essenziali offrono un valido aiuto
nei casi di ADHD, dislessia e disprassia.
Un’interessante rassegna di A. J. Richardson riassume la storia dell’impiego degli Omega-3 nel trattamento
delle difficoltà d’apprendimento nei bambini.
Oltre vent'anni fa, un gruppo di ricercatori inglesi di sostegno ai bambini iperattivi aveva notato un legame
diretto fra la carenza di acidi grassi essenziali e l'ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder ossia
disturbi da deficit di attenzione legati all'iperattività).
I primi studi effettuati prevedevano l’utilizzo di una fonte ricca di acido gamma-linolenico (Omega-6 GLA,
presente nell'olio di enagra o di borragine), ma, anche nel migliore dei casi, questo trattamento dimostrava
un’efficacia del tutto marginale.
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Anche il successivo impiego dell'acido decosaesaenoico (Omega-3 DHA) a basse dosi non rivelò effetti
particolarmente benefici.
Più di recente uno studio condotto da Stevens et al. alla Purdue University sui bambini iperattivi ha
ampiamente dimostrato che un’integrazione a base di una miscela di acido eicosapentaenoico (Omega-3
EPA), acido decosaesaenoico (Omega-3 DHA) e gamma linolenico (omega-6 GLA) porta a un graduale ma
significativo miglioramento dei problemi comportamentali e delle difficoltà di attenzione.
Un altro studio condotto da Puri e Richardson dell'università di Oxford ha preso in esame gli effetti di una
integrazione con EPA, DHA e GLA in bambini dislessici affetti da ADHD.
I ricercatori hanno trovato anche in tal caso un netto miglioramento delle problematiche connesse a questa
patologia con benefici cognitivi e comportamentali significativi.
Il ruolo dell'acido eicosapentaenoico (EPA)
Il successo ottenuto nel controllo dei sintomi di adulti depressi e schizofrenici con l'utilizzo di acido
eicosapentaenoico (EPA) (17) ha spronato diversi ricercatori ad esaminare il ruolo degli acidi grassi nei
disturbi comportamentali dei bambini utilizzando solo EPA come componente principale dei trattamenti
suppletivi.
Vi sono diverse evidenze sperimentali a favore dell'EPA come composto chiave nel trattamento di questa
condizione.
Questo è supportato dal fatto che un trattamento a base di DHA o DHA insieme ad altri Omega-6 non ha
provocato miglioramenti comportamentali paragonabili a quelli ottenuti dalle miscele contenenti anche EPA
Tuttavia l’associazione di acidi grassi essenziali EPA e DHA, con prevalenza di EPA, sembra offrire i migliori
risultati.
Uno studio in larga scala pubblicato nel 2005, l'Oxford Durham study, relativo a bambini affetti da disturbi
comportamentali diagnosticati, ha dimostrato un netto miglioramento delle capacità di lettura, di scrittura e
degli altri sintomi legati a stati di ADHD grazie alla integrazione della dieta con una miscela di acidi grassi
composti da EPA, DHA e GLA.
Conclusioni
In conclusione si può affermare che ulteriori ricerche sono necessarie per definire con precisione il
ruolo degli acidi grassi poli-insaturi sulle abilità cognitive dei bambini.
Di certo è che i risultati ottenuti finora, con specifiche formulazioni, sono molto incoraggianti.
ITALCHIMICI
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Manuale Uso Interno
ADHD: numeri e statistiche
- 1, il Registro Nazionale Italiano dove sono "schedati" i bimbi in terapia a base di psicofarmaci per la Sindrome da
Iperattività e Deficit di Attenzione.
- 8.103.000, i minori in età pediatrica in Italia, tra 0 e 14 anni (fonte: ISTAT)
- 9% (pari a 730.000 unità), la percentuale di minori italiani che soffrirebbero di disagi o turbe mentali secondo i risultati
del progetto di screening PRISMA 2004 (fonte: Ministero per la Salute)
- 2% (pari a 170.000 unità), la percentuale di minori italiani che soffrirebbero della Sindrome da Iperattività e Deficit di
Attenzione secondo i risultati del progetto di screening PRISMA 2004 (fonte: Ministero per la Salute)
- 4% (pari a 340.000 unità), la percentuale di minori italiani che soffrirebbero della Sindrome da Iperattività e Deficit di
Attenzione secondo le associazioni scientifiche (fonte: Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile, Kataweb)
- 11, le molecole antidepressive in uso in età pediatrica la cui somministrazione è stata recentemente interdetta in quanto
ispiravano idee suicidarie nei bambini (fonte: EMEA, Agenzia Europea per il Farmaco)
- 30.000, i bambini Italiani che ogni giorno assumono antidepressivi che inducono potenzialmente al suicidio, la cui
somministrazione è stata interdetta dall'Agenzia Europea del Farmaco (fonte: Istituto Mario Negri di Milano)
- 1 anno, il ritardo del Ministero della Salute Italiano nel dare riscontro ai primi "warning" sulla somministrazione di
molecole antidepressive ai minori
- 25%, il numero di giovani pazienti che hanno dimostrato difficoltà ad interrompere l'assunzione e dipendenza da
molecole antidepressive (fonte: Ufficio studi Glaxo)
- 173, il numero di autorevoli ricerche scientifiche universitarie già tradotte in italiano che mettono in allarme circa i rischi
della somministrazione di psicofarmaci ai minori
- 20, almeno uno per ogni regione, il numero dei Centri regionali per la somministrazione di psicofarmaci ai minori che
sono stati attivati sul territorio italiano (fonte: Istituto Superiore di Sanità, Ministero per la Salute)
- 12 il numero di Centri Regionali per la somministrazione di psicofarmaci ai minori attivati nella sola Regione Veneto
(fonte: delibera di Giunta Regione Veneto sezione Ricerca Scientifica, area Centri ADHD)
- 1.129 i bambini con ADHD seguiti nel 2011 nei 18 centri Lombardi. Di questi il 31% (350 bambini) è stato trattato con
psicofarmaci. Nei centri afferisce solo una parte dei bambini, i più complessi, altrettanti, se non il doppio, sono seguiti
nelle strutture di neuropsichiatria infantile nel territorio. (report Mario Negri 2012 dott. Bonati d.ssa Costantini)
- 73.043.500, il numero di bambini ed adolescenti (0-18 anni) negli Stati Uniti (fonte: U.S. Census Bureau)
- 11.000.000, i minori che ogni anno utilizzano psicofarmaci (per tutte le patologie) negli Stati Uniti (fonte: NIMH, Nexus,
Los Angeles Times)
- 20.000.000, il numero di ricette in USA ogni anno per soli psicofarmaci di tipo stimolante ai bambini (fonte: British
Medical Journal, Nexus)
- 10%, la percentuale della popolazione infantile USA che soffrirebbe dell'ADHD (fonte:International Narcotics Control
Board, OMS)
- 27% - 6%, la differente incidenza percentuale dei disturbi del comportamento in USA rispettivamente nei minori delle
classi sociali a basso reddito e nei minori delle classi sociali agiate (fonte: NIMH, USA)
- 2 miliardi di dollari, il giro d'affari per la vendita del solo metilfenidato, (Ritalin) negli Stati Uniti (fonte: DEA USA)
- 3 il numero di mesi dopo i quali sono state rilevate alterazioni genetiche (triplicate le anormalità cromosomiche) nei
bambini sottoposti a terapia con farmaci per l'ADHD (fonte: Università del Texas)
- 12% i bambini che ricevono psicofarmaci già alle scuole elementari in Francia (fonte: Ministere de la Santè)
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
La vitamina D
La vitamina D, notoriamente conosciuta come "vitamina del calcio e della luce” non è una vera vitamina, ma
un ormone, " l’ormone steroideo dell’omeostasi del calcio ", dal momento che la maggior parte di essa è
prodotta dal nostro organismo, in rapporto all’esposizione della pelle al sole.
E’ noto, infatti, che la carenza di vitamina D provoca rachitismo nei bambini e può provocare osteoporosi e
fratture ossee nei pazienti adulti.
Oltre al suo ruolo nel mantenimento della salute delle ossa, la vitamina D è coinvolta nella differenziazione di
tessuti durante lo sviluppo e nel corretto funzionamento del sistema immunitario.
Evidenze scientifiche, in costante e continuo incremento, suggeriscono un ruolo benefico della vitamina D
nella protezione contro le malattie autoimmuni, tra cui sclerosi multipla e diabete tipo I, così come verso
alcune forme di cancro, in particolare del colon-retto e della mammella.
Ad oggi vi è un incrementato interesse sul ruolo della vitamina D non solo per la sua azione sul metabolismo
osseo o sull’omeostasi del calcio, ma anche per i suoi effetti immunomodulatori.
Recentemente, infatti, è stato osservato sia un’alterazione a livello mondiale delle abitudini alimentari che ne
determinano un deficit nutrizionale, sia un aumentato interesse sugli effetti non ormonali della vitamina D e
sulla sua azione paracrina, oltre che la sua azione immunomodulatrice.
Una stima delle citazioni annuali sulle emergenti funzioni della vitamina D publicate su PubMed ha riportato un
numero di pubblicazioni pari approssimativamente a 4.800, se consideriamo il periodo tra Maggio 2008 e
Maggio 2009, con stime superiori nell’anno 2010-2011 e con un 15% circa d’incremento d’interesse rispetto
gli anni precedenti.
La recente letteratura ha evidenziato che il deficit di vitamina D nei primi anni di vita si associa ad aumentato
rischio di successivo sviluppo di malattie autoimmuni, atopiche ed infettive.
Anche il difetto di vitamina D durante la vita fetale può avere conseguenze persistenti per l’organismo, dato
che essa è responsabile del controllo dell’espressione genica di almeno 3% di tutto il nostro patrimonio
genetico.
Proprio per le sue proprietà immunomodulatrici emergenti, la vitamina D gioca un ruolo fondamentale sulle
funzioni dell’intero organismo che vanno ben oltre la semplice omeostasi scheletrica.
Vitamina D: sintesi
La maggior fonte di vitamina D negli uomini è l’epidermide. La vitamina D3 è prodotta dalla pelle mediante
reazioni UVB mediate, fotolitiche e non enzimatiche, che convertono il 7-deidrocolesterolo in provitamina D3.
Tale forma di vitamina D va incontro a successive reazioni non-enzimatiche e ad isomerizzazione termica e
conversione in vitamina D3, reazioni che avvengono anche a livello epidermico.
Dalla cute, la vitamina D viene immessa nel circolo generale.
A livello epatico, essa è convertita in 25-idrossi vitamina D (25OHD), detta anche 25(OH)colecalciferolo o
calcidiolo, da uno o più citocromi altamente specifici denominati citocromi P450s e dall’enzima 25-idrossilasi.
La 25OHD a livello renale, viene in seguito convertita dall’enzima 1,25 idrossilasi in D3, detta anche
1,25(OH)2 colecalciferolo o calcitriolo o D3, la forma biologicamente attiva della vitamina, che aumenta il
riassorbimento del calcio a livello intestinale e osseo.
La produzione di D3 nel rene è stimolata dal paratormone (PTH) e da bassi livelli di calcio e fosforo.
Inoltre, la D3 regola negativamente i suoi stessi livelli nel siero, inducendo l’enzima CYP24A (25-24
idrossilasi), che metabolizza sia la D3 che la 25OHD (Figura 1).
ITALCHIMICI
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Krilling D
Manuale Uso Interno
Figura 1: rappresentazione schematica della foto produzione e del metabolismo della vitamina D e dei vari effetti biologici
del metabolita attivo D3 sul metabolismo del calcio, del fosforo e dell’osso (Holick MF, Nutr Rev 2008).
Deficit di Vitamina D
Cambiamenti nel metabolismo ormonale della vitamina D e nella sua modalità d’azione avvengono
improvvisamente quando l’ospite di origine umana deve mantenere l’omeostasi calcemica a fronte di uno stato
di insufficienza o carenza di vitamina D ed una riduzione dell’assorbimento del calcio a livello intestinale.
Un insufficiente assorbimento di calcio a livello intestinale provoca un lieve ma reale decremento dei livelli di
calcemia. Tale decremento viene recepito dai recettori calcio-sensibili diffusi nelle membrane plasmatiche
delle cellule delle paratiroidi, stimolando quest’ ultime a rilasciare paratormone (PTH) e ad incrementare
l’espressione genica delle molecole coinvolte nella produzione di PTH.
L’interazione del PTH con i rispettivi recettori (PTH/PTHrP), siti nelle membrane plasmatiche delle cellule
epiteliali del tubulo renale prossimale, stimola l’incremento del gene per l’espressione dell’enzima CYP27B1 e
la conversione del substrato disponibile di 25OHD a D3, metabolita attivo della vitamina D.
Quest’ultimo viene immesso in circolo e trasportato da una proteina serica specifica, ed in seguito prende
contatto con i relativi recettori nelle regioni Vitamina D-responsive, stimolando l’espressione di geni sensibili
all’azione della vitamina stessa. L’eterodimero attivo, infatti, si lega a specifiche sequenze geniche
denominate “elementi di risposta alla Vitamina D” (VDREs) e tale legame si accompagna alla formazione di
complessi di grandi dimensioni che possono facilitare l’espressione del gene bersaglio (co-attivatori) o inibirne
l’espressione (co-espressori).
Tale interazione determina: incremento dell’assorbimento intestinale di calcio e fosforo; liberazione di calcio e
fosforo dalla fase minerale dell’osso, con immissione degli stessi elementi in circolo.
Quando il deficit di calcio sierico è corretto, l’asse D3 e PTH è in seguito down-regolato dal FGF 23 rilasciato
dal tessuto osseo.
A seguito di un’analisi dettagliata dei meccanismi fisiologici sopra descritti, Chapey e coll. per primi ed ulteriori
autori della letteratura internazionale hanno concordato che la definizione di insufficienza di vitamina D deve
tener conto del significativo incremento dei livelli sierici di PTH immunoreattivo (iPTH).
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Attualmente, vi è un consenso generale nel considerare che l’incremento significativo del iPTH inizia quando
le concentrazioni di D3 raggiungono livelli inferiori a 30 ng/ml o 75 nmol/lt; valori di 25(OH)2D tra i 30 ng/ml o
75 nmol/lt e 20 ng/ml o 50 nmol/lt sono considerati come espressione di insufficienza di vitamina D, mentre
valori inferiori a 20 ng/ml o 50 nmol/lt vengono considerati espressione di franco deficit di vitamina D.
In genere sono questi i valori di vitamina D sottoposti a valutazione clinica per effetti scheletrici apparenti
Tabella 1: concentrazioni di vitamina D ottimali e concentrazioni riferibili a deficit della stessa vitamina e ad intossicazione
Concentrazione di riferimento
Concentrazione desiderabile
Deficit di vitamina D
Concentrazioni da intossicazione
20-100 ng/ml
30-60 ng/ml
<20 ng/ml
>150 ng/ml
(Rovner, Arch Pediatr Adolesc Med. 2008;162:513-519; Bikle Trends Endocrinol Metab 2010;21(6):375-84).
Considerando tale definizione di deficit di vitamina D 3, secondo lo studio di Saintoge, la prevalenza del deficit
di D3 è aumentata dal 2 al 14%, con un rischio maggiore per i soggetti in sovrappeso ed un rischio doppio per
le femmine rispetto ai maschi.
Azione immunomodulatrice della Vitamina D
Vitamina D ed immunità innata
Nel 1986 Rook e coll. descrissero degli studi su macrofagi umani in coltura in cui dimostrarono che il
metabolita D3 inibiva la crescita di Mycobacterium tuberculosis.
Nonostante tale studio sia stato ampiamente citato, solo da circa due anni si ha una migliore comprensione
dell’attività antimicrobica della vitamina D3.
Nel primo di questi recenti studi, l’analisi genomica per identificare le cellule target del metabolita D3 dimostrò
la presenza di vitamine D response elements (VDREs) nel promotore dei geni per la catelicidina, proteina
appartenente alla classe degli agenti antimicrobici denominati “defensine”.
Ulteriori studi confermarono l’abilità della D3 nell’induzione dell’espressione delle catelicidine in cellule della
linea mieloide, della linea bronchiale epiteliale, ed in cheratinociti (Figura 2).
Figura 2: Metabolismo della vitamina D e del suo metabolita attivo,
D3, nell’azione di modulazione dell’immunità innata.
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Significativamente, anche il report di Weber et al. indicava una possibile induzione delle catelicidine da parte
della 25OHD, sottolineando il potenziale dell’induzione autocrina nella risposta antimicrobica delle cellule che
esprimono enzimi attivati dalla vitamina D, quali CYP27B.
Sebbene tale enzima possa essere identificato in diversi tipi cellulari, esso sembra svolgere una funzione
significativa dipendente da stimolazioni cellulo-specifiche.
Tale effetto è meglio illustrato da studi che hanno dimostrato un incremento del metabolismo della vitamina D
e della sensibilizzazione all’ D3 in cellule esposte a stimoli patogeni. Il riconoscimento e la risposta verso un
pattern di molecole associate a stimoli patogeni (pathogens activated molecule patterns- PAMPs), strutturate
nel patogeno medesimo e capaci di stimolare il sistema immune innato, sono mediate da un ampio spettro di
proteine di immunosorveglianaza quali i Toll-like Receptors (TLRs).
Per chiarire la risposta immune innata al M. tuberculosis, Liu e colleghi utilizzarono un’analisi di DNA array
che dimostrò dei cambiamenti nell’espressione genica a seguito di attivazione macrofagica del TLR2 causata
da uno dei recettori transmembana di riconoscimento del patogeno (trans membrane pathogen-recognition
receptors- PRRs) per il M. tuberculosis.
A tal proposito, macrofagi di origine umana trattati con lipoproteine micobatteriche di 19 kDa, interagenti con i
TLR2 sensibili ai pattern molecolari associati al patogeno, mostravano un incremento del CYP27B e dei
VDREs, confermando un’induzione autocrina delle catelicidine e dell’uccisione batterica in risposta alla
25OHD.
L’importanza di tale meccanismo come parte della risposta alle infezioni dell’immunità innata è stato
confermato da esperimenti che hanno dimostrato la modulazione D3 mediata dell’espressione di catelicidina
nei monociti esposti a M. tuberculosis.
Sebbene tale studio dimostrò che la D3 è anche capace di indurre altri fattori associati all’uccisione batterica,
quali l’ossido nitrico sintetasi (NOS), gli autori conclusero che l’attivazione di catelicidina è la via più
importante mediante la quale la vitamina D interagisce con il sistema immune innato.
Nonostante la crescente conoscenza del meccanismo d’interazione tra vitamina D ed immunità innata, negli
ultimi anni sono emerse delle domande ancora irrisolte. Il meccanismo molecolare sottostante l’induzione
TLR2-mediata dell’enzima CYP27B non è ancora chiaro.
Forse la domanda maggiormente pertinente che insorge da questi studi sull’immunità innata riguarda il
vantaggio biologico nell’uso di vie vitamina-D-mediate nell’uccisione batterica.
Una possibile spiegazione sta nel fatto che l’D3, sintetizzata localmente da cellule quali i macrofagi, supporta
l’immunità dell’ospite mediante l’incremento dell’espressione di defensine quali la catelicidina che sono
routinariamente soppresse da patogeni specifici.
Per esempio, le infezioni da Shigella di macrofagi e cellule epiteliali inibiscono l’espressione di catelicidine e di
defensine-beta-1 umane come parte di un meccanismo apparente per evadere l’azione antibatterica
dell’immunità innata. In queste circostanze, l’incremento della sintesi locale di D3 potrebbe agire come cursore
dell’espressione di catelicidina e quindi mantenere la sorveglianza antibatterica.
L’immunità vitamina-D mediata ha anche benefici nel potenziale feedback di controllo della stessa via di
mediazione, agendo come limite della stessa attività antibatterica, prevenendo così un potenziale danno
infiammatorio a seguito di un’attivazione eccessiva del sistema immune. Recenti studi hanno dimostrato che
l’D3 può indurre ipo-responsività alle PAMPs mediante down regolazione dei TLR2 e TLR4 nei monociti. In
parallelo con l’induzione di agenti antimicrobici, quali la catelicidina, la soppressione dell’espressione dei TLR
potrebbe agire come limite alla risposta infiammatoria dei T linfociti che altrimenti potrebbe promuovere
un’autoimmunità mediata dai linfociti T-helper 1 (Th1).
La via vitamina-D mediata è essa stessa oggetto di regolazione feedback come conseguenza dell’espressione
D3-mediata dell’enzima D3-24-idrossilasi (CYP24A), che catalizza la sintesi di metaboliti della vitamina D
meno attivi.
È interessante notare che l’attività dell’enzima CYP24A è virtualmente non dosabile nei macrofagi anche dopo
trattamento con D3, principale stimolatore enzimatico.
Invece, ulteriori studi hanno dimostrato che mentre la D3 prontamente stimola l’espressione di CYP24A nei
macrofagi, non vi è alcun concomitante incremento nell’attività di questo enzima.
Questo sembra essere dovuto all’induzione da parte della D3 di una forma variante dell’enzima (CYP24A-SV),
ottenuta a seguito di splicing, caratterizzata da una sequenza protidica amino-terminale tronca nella quale la
sequenza target mitocondriale è mancante.
Sebbene tale variante sia prontamente capace di legare la 25OHD e/o la D3, è anche confinata nel citoplasma
in uno stato metabolicamente inattivo e quindi sembrerebbe limitare l’eccessivo metabolismo della vitamina D,
agendo da “buffer” citosolico per i suddetti metaboliti che altrimenti agirebbero come substrati per il CYP27B
ed il CYP24A.
Sulla base delle osservazioni precedentemente sottolineate, è possibile integrare il metabolismo della 25OHD
con le risposte dei PRR ai PAMPS mediante meccanismo autocrino per incrementare l’uccisione batterica
fagocitica, che avviene nelle cellule ospiti.
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Tale meccanismo sembra avere un ruolo centrale nella risposta immune macrofago-mediata, ma non sembra
essere esclusiva di tali cellule. Studi su cheratinociti hanno anche dimostrato l’induzione di catelicidina in
risposta alla sintesi autocrina di D3.
Così come avviene nei macrofagi, l’espressione del CYP27B nei cheratinociti può essere stimolata mediante il
riconoscimento TLR2-mediato delle PAMPs, sebbene tale meccanismo richiede un’iniziale induzione
dell’espressione di TLR2 (differentemente dai cheratinociti e dai macrofagi che esprimono il TLR2
costitutivamente).
È interessante notare che la stessa D3 può svolgere l’azione suddetta, in contrasto alla soppressione
dell’espressione di TLR2 nei macrofagi. Tali dati, quindi, pongono la domanda di come l’espressione del
CYP27B nei cheratinociti possa essere presente anche in assenza di un segnale TLR2 costitutivo.
La risposta sta nel fatto che la produzione di D3 da parte dei cheratinociti è anche stimolata da citochine quali
il trasforming growth factor beta-1 e l’induzione di CYP27B mediante tale via alternativa sembra generare
quantità sufficienti di D3 per regolare l’espressione di TLR2 da parte dei cheratinociti, i quali amplificano la
produzione di catelicidina in modo simile a quello descritto per i macrofagi.
Sulla cute umana, l’espressione di trasforming growth factor beta1 è strettamente associata alla riparazione di
ferite, e quindi, la sua interazione vitamina D-mediata con la catelicidina sembra far parte di un meccanismo
legato a tale riparazione, con incremento della sorveglianza immune. L’ampia applicabilità di tale meccanismo
nell’incremento di D3 indotto dalla presenza di ferite, relativo alla presenza di siti barriera al di fuori della cute,
non è ancora conosciuta, ed è interessante notare come le cellule del colon non riescono ad indurre la
produzione di catelicidina in risposta all’incremento di D3.
Le basi per la regolazione vitamina-D indotta dell’immunità innata nei cheratinociti richiede ancora ulteriori
chiarimenti, soprattutto nell’induzione dell’espressione dei TLR mediata dalla D3.
Una possibile spiegazione per tale regolazione nei cheratinociti potrebbe essere ricondotta al fatto che in tali
cellule (a differenza di ciò che avviene nei macrofagi), si verifica una soppressione di CYP27B ed un’induzione
di CYP24A in risposta alla D3, rendendosi quindi capaci di una regolazione più sensibile alla risposta alla
vitamina D autocrina.
Vitamina D ed immunità acquisita
La presenza di VDREs nei linfociti umani è stata una delle prime osservazioni implicate nella risposta
noncalciotropica della vitamina D. Il fatto che l’espressione di questi recettori avviene nei linfociti T e B attivati
ha dato evidenza di un ruolo funzionale della vitamina D come modulatore del braccio dell’immunità acquisita.
Riguardo i linfociti B, la capacità della D3 di sopprimere la proliferazione e la produzione di immunoglobuline fu
inizialmente considerata un effetto indiretto della via mediata dai linfociti Th. Un report più recente ha, invece,
dimostrato che la D3 esercita un effetto diretto sull’omeostasi dei linfociti B.
Inoltre, a conferma dell’effetto diretto VDRE-mediato sulla proliferazione dei linfociti B e la produzione di
immunoglobuline, tale studio evidenziò la capacità della D3 di inibire la differenziazione dei B linfociti in
plasmacellule e linfociti B memoria, suggerendo un potenziale ruolo della vitamina D in patologie linfocita-B
correlate, quali lupus eritematoso sistemico (LES). Gli autori di tale studio dimostrarono che i pazienti affetti da
LES avevano livelli sierici di D3 significativamente più bassi rispetto ai controlli.
La primaria funzione riconosciuta alla vitamina D nell’interazione con il sistema immune adattivo riguarda
l’abilità della D3 di modulare la funzione e la proliferazione dei linfociti T.
A seguito della dimostrazione della presenza di VDREs in linfociti T attivati e proliferanti, alcuni autori
continuarono le ricerche dimostrando la presenza di una potente risposta antiproliferativa alla D3 in tali cellule.
Tra i vari sottogruppi di linfociti T, i target principali della D3 sembrano essere proprio i linfociti Th.
Studi iniziali dimostrarono che la D3 non solo agisce nella soppressione della proliferazione dei linfociti Th, ma
modula anche la loro produzione di citochine quali IL-2.
L’attivazione antigene-mediata di linfociti Th naive risulta nella genesi di linfociti Th0 pluripotenti che
sintetizzano un ampio spettro di citochine, incluse IL-2, IL-4, IL-10 ed IFγ.
I linfociti Th0 proliferanti sono inoltre capaci di differenziarsi in sottogruppi Th che esibiscono un profilo
citochinico distinto Th1 (IL2, IFγ, TNFα -tumor necrosis factor-) e Th2 (IL-3, IL-4, IL-5, IL-10)), che
rispettivamente supportano l’immunità cellulo-mediata ed umorale.
Una proprietà chiave immuno-modulatrice della D3 è la sua capacità di inibire l’espressione di citochine Th2,
aumentando l’espressione di citochine Th1, agendo sia direttamente sugli effetti dei linfociti T o indirettamente
sugli effetti delle cellule presentanti l’antigene (APC).
Il potente effetto della D3 nella promozione preferenziale dell’immunità cellulo-mediata di tipo Th1 piuttosto
che su quella anticorpo-mediata di tipo Th2 è stato proposto come uno dei meccanismi chiave con cui la
vitamina D può esercitare effetti benefici sulle patologie autoimmuni.
Recenti studi hanno, comunque, mostrato che gli effetti della D3 sui linfociti sono molto più complessi ed
includono la genesi di linfociti T regolatori CD4+ CD25+ (Treg).
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Precedentemente riconosciute come cellule T soppressorie, secernenti IL-10, i linfociti Treg promuovono la
tolleranza ad antigeni-self ed hanno quindi un ruolo chiave nelle patologie autoimmuni e nelle reazioni immuni
di rigetto di trapianto.
L’induzione dei Treg è pertanto un’azione benefica indotta dalla D3 tanto da essere proposta la sintesi di suoi
analoghi nella promozione della tolleranza immune a seguito di trapianto d’organo.
Sebbene l’abilità della D3 nel supportare la differenziazione delle cellule Treg potrebbe esercitare effetti diretti
sui linfociti T, dati attuali suggeriscono che il più verosimile target immunologico della D3 sono proprio le
cellule dendritiche (dendritic cells- DCs).
Mediante la soppressione della maturazione delle cellule dendritiche e l’incremento della loro espressione di
specifiche citochine quali IL-10, la D3 può migliorare la tolleranza attraverso la soppressione dello sviluppo dei
linfociti Th e l’induzione dei linfociti Treg.
Risposte DC simili potrebbero essere inoltre mediate dagli effetti della D3 sui fattori chemiotattici, quali il
ligando di chemochine-CC (CCL) 22, che è secreto dalle cellule dendritiche che, come l’IL-10, supporta la
genesi di Treg.
È interessante notare che tali effetti tolerogenici della D3 sulle cellule presentanti l’antigene sembrano essere
ristrette a specifiche classi di DCs riconosciute come DCs mieloidi.
Tale classe di DCs esibisce un repertoire di PRR e di citochine differente da altre classi di DCs, riconosciute
come DCs plasmacitoidi, e queste ultime sembrano non avere alcuna risposta tolerogenica alla D3.
Nelle cellule dendritiche della classe mieloide, ma non plasmacitoidi, la D3 inibisce la segnalazione
intracellulare di fattori nucleari quali il nuclear factor kB, suggerendo che tale via è cruciale per la funzione
della vitamina D sulle cellule dendritiche.
Il ruolo della vitamina D come coordinatore di altri fenotipi di linfociti T quali quelli secernenti l’IL-17 (linfociti
Th17) non è stato completamente delucidato, ma è interessante notare che i topi diabetici non obesi (NOD),
trattati con un analogo della D3, mostravano un decremento dell’espressione dell’IL-17.
Recenti dati hanno dimostrato che la D3 può contribuire al processo di stimolazione dell’espressione di
recettori delle chemochine-CC 10 da parte dei linfociti T (CCR), che riconoscono la chemochina CCL27
secreta dai cheratinociti. In tal modo, la D3 potrebbe supportare la traslocazione dei linfociti T sulla cute e/o la
ritenzione di tali cellule nello stesso sito.
In conclusione
E’ oggi chiaro che la vitamina D ed i suoi metaboliti attivi agiscono a vari livelli del sistema immune, sia innato
che adattivo, coinvolgendo le funzioni di plurimi gruppi cellulari appartenenti ai due sistemi, ed il suo ruolo
sembra essere fondamentale nella gestione e nel controllo di patologie immuno-mediate.
La vitamina D è cruciale per l'attivazione del nostro sistema immunitario: senza di essa, le cellule T non sono
in grado di reagire e combattere le infezioni più gravi che minacciano l'organismo. E' quanto hanno scoperto
alcuni ricercatori dell'Università di Copenhagen, in Danimarca. La maggior parte della vitamina D è prodotta
naturalmente dall'esposizione della pelle al sole. È contenuta anche nell'olio di pesce, nelle uova di pesci
grassi come salmone, aringhe e sgombro, nel Krill e può essere assunta consumando integratori dietetici. Non
esistono studi definitivi per stabilire il dosaggio ottimale di vitamina D, anche se le attuali linee guida
raccomandano di assumere una dose giornaliera compresa tra 25 e 50 microgrammi al giorno. Si stima inoltre
che gran parte della popolazione abbia una bassa concentrazione sanguigna di questo importante elemento.
Secondo il modello immunologico attuale, per poter proteggere il corpo dalla minaccia di virus e batteri le
cellule T del sistema immunitario devono in primo luogo essere esposte a tracce dell'agente patogeno.
Ciò avviene quando queste vengono "presentate" da altre cellule immunitarie dell'organismo, i macrofagi.
Le cellule T si possono cosi legare al frammento e dividersi continuamente dando luogo a centinaia di copie
identiche, tutte specializzate nel riconoscere e nel distruggere lo stesso agente esterno.
"Quando una cellula T è esposta a un agente patogeno, espone un dispositivo di segnalazione noto come
recettore per la vitamina D: ciò significa che la cellula T deve avere a disposizione la vitamina D, o l'attivazione
cesserà. Se le cellule T non riescono a trovare sufficiente vitamina D nel sangue, non inizieranno mai ad
attivarsi."
Nel corso della ricerca, i cui risultati sono apparsi sull'ultimo numero della rivista Nature Immunology, i
ricercatori danesi sono riusciti anche a tracciare la sequenza biochimica di trasformazione di una cellula T da
inattiva ad attiva: ciò apre la strada alla possibilità di intervenire in diversi punti di tale cammino per modulare
la risposta immunitaria.
I risultati potrebbero rivelarsi preziosi in tutti gli studi che riguardano il sistema immunitario, dalla messa a
punto di nuovi vaccini o di nuovi immunosoppressori per i trapiantati fino alla lotta alle malattie infettive e alle
epidemie globali.
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Vitamina D ed infezioni
Ad oggi è chiaro che l’induzione del metabolismo extrarenale della vitamina D è un componente integrale della
normale immunità TLR-mediata, e non semplicemente un fenomeno patologico associato a patologia
infiammatoria o granulomatosa.
La potente induzione della catelicidina antimicrobica e l’attività battericida associata in risposta alla 25OHD e
alla D3 danno luogo ad una risposta localizzata cellulo-specifica, differente dalle classiche funzioni endocrine
della vitamina D.
L’efficacia di questo meccanismo autocrino come modulatore della risposta immune innata dipende, pertanto,
da diversi fattori, inclusa la magnitudine della risposta al segnale PAMP-PRR.
La regolazione del CYP27B e dei VDREs in risposta a specifiche infezioni, viene influenzata, a sua volta, da
variazioni ereditate in uno o in entrambi tali geni.
Un’altra variabile significativa che coinvolge sia il sistema endocrino, che paracrino ed autocrino è la
disponibilità di substrato per la conversione enzimatica verso il prodotto attivo.
Nel caso della vitamina D, la 25OHD non è solo il substrato dell’enzima CYP27B ma anche la forma della
vitamina D maggiormente circolante.
A conferma dell’importanza funzionale del metabolismo localizzato della 25OHD come determinante della
normale immunità, gli studi di induzione della catelicidina hanno inoltre provveduto a dare il primo chiaro
esempio di come variazioni dello status della vitamina D influenzano le risposte fisiologiche.
A differenza delle concentrazioni sieriche di D3 che sono primariamente definite da regolatori endocrini
dell’attività renale del CYP27B, i livelli circolanti di 25OHD costituiscono una riflessione diretta dello stato della
vitamina D, che per ogni dato individuo dipende dall’assunzione di vitamina D sia tramite esposizione alla luce
solare sia mediante l’assunzione con la dieta.
Quindi, l’effetto diretto di tale metabolismo è che lo stato della vitamina D può variare significativamente nelle
popolazioni come conseguenza di fattori geografici, sociali o economici.
Ad oggi, il deficit di vitamina D è stato sempre considerato come l’unica conseguenza clinica significativa di
tale variabilità.
Le potenziali implicazioni di un deficit di vitamina D 3 fisiologica includono effetti sull’omeostati scheletrica,
forza muscolare, rischio cancerogeno, patologie autoimmuni e cardiovascolari e patologie in gravidanza.
Per ciò che concerne l’attività antibatterica innata della vitamina D, l’attenzione è stata focalizzata
primariamente sulla potenziale protezione esercitata contro patologie infettive quali la tubercolosi.
Studi clinici atti a determinare l’impatto dello stato di 25OHD e/o della terapia con vitamina D in soggetti affetti
da tubercolosi non sono stati ancora condotti.
Tuttavia, studi iniziali sugli effetti della 25OHD sulla funzionalità macrofagica in adulti sani hanno dimostrato
che la supplementazione orale di una singola dose di 2.5 mg di vitamina D 3, presa prima della rimozione dei
macrofagi dal test, potenzia l’attività dei macrofagi nel combattere l’infezione da bacillo di Calmette-Guérin
(BCG) in vitro.
In altri studi è stato proposto un ruolo fondamentale per la 25OHD nella diminuita contrazione d’infezioni delle
vie aeree superiori.
Tali osservazioni erano basate in parte su dati epidemiologici legati alle variazioni stagionali di vitamina D 3 ed
in parte sulla stessa stagionalità delle infezioni respiratorie e dell’influenza.
Studi clinici randomizzati hanno dimostrato gli effetti protettivi della vit. D3 contro raffreddore ed influenza.
A differenza del modello descritto per la tubercolosi, un meccanismo mediante il quale la vitamina D può
fronteggiare infezioni respiratorie dovute a virus influenzali non è stato ancora descritto.
Dunque è ampio campo di speculazione che la vitamina D potrebbe costituire una nuova strategia per
prevenire le infezioni respiratorie, anche se sono ancora necessari ulteriori studi per chiarirne la fisiopatologia
nella prevenzione di tali infezioni.
Vitamina D ed asma
La scoperta che le cellule della maggior parte dei tessuti hanno un recettore per la vitamina D e che gran
parte di esse possiede il complesso enzimatico per convertire la 25OHD circolante nella forma attiva, cioè
nella D3, ha fornito nuove acquisizioni per conoscere meglio l’attività di questa vitamina.
Di grande interesse è il suo ruolo nei processi di differenziazione cellulare e nelle patologie croniche,
scheletriche, tumorali (cancro del colon-retto), cardiovascolari, autoimmuni, infettive e neurologiche.
Numerose sono ormai anche le evidenze in letteratura che suggeriscono un suo possibile ruolo nella
patogenesi dell’asma e conseguentemente sui potenziali effetti della carenza della medesima vitamina.
È stato evidenziato recentemente come bassi livelli di vitamina D 3 siano associati ad un aumentato rischio di
sviluppare patologie allergiche, iperreattività bronchiale ed asma.
Le caratteristiche dell’infiammazione sono costituite da un aumentato numero di eosinofili, di mastociti, di
macrofagi, di linfociti (Th2 nella fase acuta e Th1 nella fase cronica dell’asma) attivati dalla mucosa delle vie
aeree e nel lume bronchiale.
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Alla luce del rapporto inversamente proporzionale tra livelli sierici di vitamina D e rischio di sviluppare asma,
alcuni autori suggeriscono il deficit di vitamina D come fattore predittivo fortemente significativo, insieme alla
familiarità ed agli alti livelli sierici di IgE, nello sviluppo di asma allergico.
D’altro canto esistono evidenze circa il ruolo benefico della vitamina D 3 sulla funzione polmonare e sulla
risposta agli steroidi nel trattamento dell’asma.
Uno studio ha dimostrato che l’aumento dei livelli ematici di vitamina D 3 si associa significativamente ad un
miglioramento del FEV1 e ad un aumento dell’espressione del recettore MPK-1 (MAP chinasi-fosfatasi),
enzima sfruttato dai glucocorticoidi, al fine di estrinsecare proprietà antiinfiammatorie.
Le cellule epiteliali del polmone esprimono elevati livelli di base di 1 alfa-idrossilasi.
Questo permette la conversione del calcidiolo inattivo al calcitriolo attivo localmente all’interno del polmone.
Il calcitriolo inibisce, a livello delle cellule muscolari lisce dei bronchi, la sintesi ed il rilascio di determinate
citochine, quali RANTES (una citochina che fa parte della superfamiglia della interleuchina-8), il fattore di
crescita piastrinico e le metalloproteasi, favorendo la flogosi bronchiale e la proliferazione delle cellule
muscolari lisce.
Alcuni studi mostrano il coinvolgimento della Vitamina D 3 nella regolazione dei livelli di ossido nitrico a livello
polmonare.
Quest’ultima avviene sia in maniera indiretta, attraverso l’inibizione dell’espressione dell’enzima ossido nitrico
sintetasi inducibile (iNOS) a livello del RNA-messaggero, sia in modo diretto, riducendo la produzione di NO
da parte delle mast-cellule, dimostrando in modelli murini di prevenire lo sviluppo di asma allergico.
D’altronde polimorfismi della vitamina D stanno guadagnando l’attenzione come causa d’insensibilità al
trattamento supplementativo con vitamina D.
VDR mappa sul cromosoma 12q, vicino alle regioni determinanti geneticamente l’asma.
Ben sette sono i loci incriminati, tra questi quello più indagato è Apal.
In conclusione si evince il ruolo regolatore della vitamina D sugli eventi che dominano la fase acuta e cronica
dell’asma.
Lavori recenti hanno evidenziato che, durante i processi di flogosi, il calcitriolo regola negativamente, con un
processo paracrino ed attraverso il reclutamento ligando-indotto di deacetilasi istonica, l’espressione del
fattore nucleare-kB, indispensabile sia per la differenziazione e maturazione di DC sia per innescare la
risposta infiammatoria.
Questo spiega l’effetto inibitorio dell’ormone attivo sulla maturazione di DC e sulla produzione di mediatori pro
infiammatori.
La vit. D3 ha effetti potenti e diretti anche sulla risposta cellulare B, determinando induzione di apoptosi ed
inibizione della proliferazione, generazioni di cellule B memoria, differenziazione in plasmacellule e produzione
di immunoglobuline.
Pertanto è comprensibile come una carenza di vitamina D potrebbe essere associata ad un’incapacità di
spegnere lo stato infiammatorio a seguito di un acuto insulto inalatorio, con sovra espressione di
prostaglandine, leucotrieni, macrofagi e cellule T. Il determinismo della vitamina D sull’insorgenza dell’asma
allergico sembrerebbe realizzarsi anche in epoca prenatale.
È ben noto che la ridotta assunzione materna di vitamina D 3 durante la gravidanza è associata ad
un’aumentata probabilità di asma ed eczema nel nascituro.
Altri studi hanno però dimostrato che alti livelli di vitamina D, durante la gestazione, hanno aumentato il rischio
nel nascituro, di sviluppare eczema ed asma.
Tali dati contrastanti suggeriscono, in realtà, come il periodo di supplementazione di vitamina D 3 sembri
influenzare la suscettibilità alle patologie atopiche e questo sembra avvenire per lo più nei soggetti di sesso
femminile.
Ciò trova giustificazione nel fatto che esiste una sinergia funzionale tra D3 e 17 beta-estradiolo.
Quest’ultimo, in seguito al legame recettoriale, induce una sovra regolazione del recettore della vitamina D,
inattiva il suo catabolismo (CYP24A1 madiato), ed aumenta i livelli sierici di vitamina D 3 binding-protein.
Inoltre i soggetti di sesso femminile presentano una maggiore percentuale di grasso corporeo rispetto agli
uomini, il che favorisce l’accumulo di vitamina D3, essendo quest’ultima di natura liposolubile.
In ambito pediatrico è stata descritta un’associazione tra i livelli sierici di vitamina D ed i marker di severità
della patologia asmatica, ed un’associazione fra i livelli di vitamina D e la capacità vitale forzata, in pazienti
con asma intermittente. Inoltre, pazienti pediatrici con asma da sforzo avevano anche livelli di vitamina D3 più
bassi rispetto ai soggetti negativi al test da sforzo.
Sono sempre più numerosi gli studi che evidenziano come trattamenti con la vitamina D 3 migliorino il decorso
di patologie determinate da uno squilibrio nella risposta immunitaria ed un suo possibile utilizzo è stato
ipotizzato anche per il trattamento dell’asma.
Diversi studi mostrano come la somministrazione della vitamina sia in grado, in modelli murini, di prevenire lo
sviluppo di asma e ridurne la progressione.
Inoltre, è stato dimostrato come in pazienti con asma cortico-resistente, la vitamina D3 sia in grado di
ripristinare la sensibilità alla terapia, stimolando la produzione di IL-10.
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Manuale Uso Interno
Infine, dalla recente letteratura emerge l’effetto benefico della somministrazione della vitamina D 3 quale
adiuvante nell’immunoterapia, in animali da laboratorio, e nella terapia corticosteroidea in studi clinici su
pazienti adulti affetti da asma.
In conclusione, occorrono ulteriori studi pediatrici al fine di valutare la possibilità di utilizzo della vitamina D 3
nel trattamento dell’asma e delle malattie allergiche, tuttavia i dati fin qui acquisiti appaiono molto promettenti.
Vitamina D e malattie autoimmuni
Un rapporto tra deficit di vitamina D e prevalenza di alcune malattie autoimmuni come il diabete mellito di tipo
1 (DM1), la sclerosi multipla (SM), l’artrite reumatoide (AR), il lupus eritematoso sistemico (LES) è stato già
ampiamente dimostrato.
Non solo la vitamina D ed i suoi analoghi possono prevenire lo sviluppo di malattie autoimmuni, ma possono
anche essere utilizzati nel loro trattamento.
La supplementazione di vitamina D3 infatti ha dimostrato di essere terapeuticamente efficace in diversi modelli
sperimentali animali, come l’encefalomielite allergica, l’artrite collagene-indotta, il DM1, la malattia
infiammatoria intestinale (IBD), la tiroidite autoimmune ed il LES.
I bassi livelli sierici di vitamina D3 presenti in pazienti affetti da patologie autoimmuni potrebbero essere
collegati ad altri fattori, oltre che nutrizionali, come la riduzione dell’attività fisica, la diminuita esposizione al
sole, l’aumento della frequenza dei polimorfismi dei geni VDREs e gli effetti collaterali di farmaci assunti.
Artrite reumatoide
L'AR è una malattia autoimmune in cui il processo infiammatorio è sostenuto da linfociti di tipo Th1, che
provocano l'attivazione e la proliferazione delle cellule endoteliali e sinoviali, il reclutamento e l'attivazione
delle cellule infiammatorie, la secrezione di citochine e proteasi da parte dei macrofagi e delle cellule sinoviali
fibroblasto-simili, e la produzione di autoanticorpi.
E’ noto che la carenza di vitamina D si associa ad un aggravamento della risposta immunitaria Th1 e il suo
possibile ruolo nella patogenesi dell’ AR si basa proprio su prove che mostrano un’aumentata espressione di
VDREs su macrofagi, condrociti e cellule sinoviali delle articolazioni dei pazienti.
La relazione tra i polimorfismi del gene VDR e l'inizio dell'attività AR e stata dimostrata in uno studio in cui
pazienti con genotipi autosomici dominanti omozigoti o autosomici dominanti eterozigoti per VDRE avevano
più elevati indici di qualità di vita (Health Assessment Questionary- HAQ), VES, dose di corticosteroidi e
numero di farmaci antireumatici assunti rispetto ai pazienti con il solo genotipo autosomico recessivo
omozigote.
Alcuni lavori hanno dimostrato che l'integrazione con la dieta e/o la somministrazione orale di vitamina D
impedisce lo sviluppo o il ritardo della progressione dell’artrite; il rischio di sviluppare AR sembra essere
inversamente correlato alla maggiore assunzione di vitamina D.
In realtà non vi è ampio consenso tra gli autori.
Infatti, in un ampio studio prospettico, che ha valutato 186.389 donne tra il 1980 ed il 2002, non è stata
evidenziata l’associazione tra maggiore assunzione di vitamina D ed il rischio di sviluppare AR o LES.
Tuttavia, in pazienti con AR trattati con farmaci tradizionali (Disease Modifying Antirheumatic Drugs, DMARD)
la supplementazione orale con dosi elevate di alfa-calcidolo per tre mesi ha ridotto la gravita dei sintomi
nell’ 89% dei pazienti, il 45% dei quali ha raggiunto la remissione completa.
Altri studi hanno riportato una relazione inversa tra attività di malattia e concentrazione di metaboliti della
vitamina D nei pazienti affetti da artriti infiammatorie ed in condizioni basali è stato osservato un rapporto di
proporzionalità inversa tra i livelli di vitamina D ed il numero di dolori articolari, indici di attività di malattia
(Disease Activity Score-DAS28) e PCR.
Per ogni aumento di 10 ng/ml di livelli sierici di vitamina D3 il DAS28 si è ridotto di 0,3 punti ed i livelli di PCR
del 25%.
Lupus eritematoso sistemico
Diversi autori hanno dimostrato una maggior prevalenza di carenza di vitamina D nei pazienti con LES rispetto
ai soggetti affetti da altre malattie autoimmuni e rispetto ai soggetti sani.
In uno studio trasversale, Muller et al. hanno evidenziato che i livelli di vitamina D sono risultati
significativamente inferiori nei pazienti con LES (in media 13 ng/mL) rispetto ai pazienti con AR (24 ng/mL),
osteoartrosi (32 ng/mL), e controlli sani (27 ng/mL).
Huisman et al. hanno osservato che il 50% dei pazienti con LES hanno carenza di vitamina D (< 20 ng/mL).
I pazienti con LES presentano fattori di rischio multipli per deficit di vitamina D. La caratteristica fotosensibilità
della malattia e la raccomandazione di applicare protezioni solari, sono responsabili di una più bassa
esposizione al sole e di una minore produzione di vitamina D nella pelle.
ITALCHIMICI
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Krilling D
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Il trattamento cronico con corticosteroidi e idrossiclorochina sembra influenzare il metabolismo della vitamina
D, anche se i dati non sono ancora così chiari.
Inoltre, il grave coinvolgimento renale nella nefrite lupica, può influenzare l’idrossilazione di 25OHD nel rene.
La più alta incidenza e la gravità del LES in individui di origine africana è stata ben documentata.
Si ritiene che questa sia una conseguenza non solo di fattori genetici ma anche del minore tasso di
conversione cutanea secondaria al colore della pelle.
E' stato osservato che i livelli critici di vitamina D (< 10 ng/mL) sono più comuni nei pazienti con
coinvolgimento renale e lesioni cutanee fotosensibili.
È inoltre documentata l'associazione tra livelli sierici di vitamina D ed il grado di attività di malattia secondo
SLEDAI (SLE Disease Activity Index) ed ECLAM (European Consensus Lupus Activity Measure).
Thudi et al. hanno dimostrato che la valutazione funzionale di malattia mediante HAQ modificato e VAS è
peggiore nei pazienti con diagnosi probabile o accertata di LES e carenza di vitamina D3.
Questo stesso studio tuttavia non ha dimostrato un'associazione tra carenza di vitamina D e livelli di
autoanticorpi anti-dsDNA.
L'associazione tra deficit di vitamina D ed attività di malattia è stata dimostrata in uno studio brasiliano,
condotto su 36 pazienti: i livelli di 25OHD erano più bassi (media 17,4± 12,5 ng/mL) nei pazienti con
un'elevata attività di malattia (SLEDAI > 12) rispetto a quelli con attività di malattia lieve (SLEDAI < 3) e nel
gruppo di controllo.
In uno studio spagnolo con 92 pazienti affetti da LES, gli autori hanno osservato bassi livelli di vitamina D 3
(< 30 ng/ml) nel 75% dei pazienti ed una vera carenza (< 10 ng/ml) nel 45% di essi.
Per spiegare la carenza di vitamina D nelle malattie autoimmuni, Carvalho et al. hanno indagato la presenza
di anticorpi anti-vitamina D3 nel siero di 171 pazienti con LES: il 4% aveva anticorpi anti-vitamina D3, ma i
livelli sierici di vitamina D3 erano simili nei pazienti con o senza tali autoanticorpi e tra le associazioni cliniche
laboratoristiche ricercate, la presenza di anticorpi anti-ds DNA è stata l'unica che ha mostrato un forte legame
con gli anticorpi anti-vitamina D.
Fibrosi cistica
Il ruolo anti-infiammatorio della vitamina D è già stato documentato, come visto, in diverse malattie, come la
sclerosi multipla, l'artrite reumatoide, il diabete mellito, il lupus eritematodes , la psoriasi e il cancro della
prostata. Nella fibrosi cistica gli studi sulla vitamina D si sono finora concentrati soprattutto sul ruolo di questa
vitamina nel prevenire e nel curare l'osteoporosi, anche se il tema dell'infiammazione in questa malattia è
cruciale alla sua evoluzione. Solo recentemente è stato dimostrato che l'aspergillosi broncopolmonare
allergica (ABPA), tipica complicanza infiammatoria polmonare nella FC, legata ad una speciale ipersensibilità
al fungo Aspergillus fumigatus , è correlata con bassi livelli di vitamina D nel sangue dei pazienti (2). In questo
studio si è anche visto, con esperimenti in vitro, che l'aggiunta di vitamina D alle cellule T oggetto di studio
riduce la risposta infiammatoria all'Aspergillus fumigatus, tanto da raccomandare trial clinici con vitamina D per
prevenire l'ABPA nei pazienti FC. Nella fibrosi cistica è abitualmente raccomandata una supplementazione
con vit.D. Infatti, in questa malattia vi è abituale carenza di vitamina D, dimostrata dai bassi o bassissimi livelli
nel siero di 25-idrossivitamina D (25-OHD), che è la forma attiva della vitamina D nell'organismo.
Si ritiene che i livelli utili di 25-OHD nel siero dovrebbero essere compresi tra 30 e 60 nanogrammi (ng) per ml.
Le cause della carenza vitaminica in FC sono molteplici. In primis, lo scarso assorbimento intestinale della vit.
D che assumiamo con i cibi, a causa dell'insufficienza pancreatica: la vit.D infatti è una vitamina liposolubile
(come E, A e K) e in assenza o quasi di digestione dei grassi non può essere assorbita. Ma anche pazienti FC
senza insufficienza pancreatica e pazienti regolarmente trattati con enzimi pancreatici non raggiungono in
genere livelli sierici sufficienti di 25-OHD. Si chiamano in causa altri fattori: lo scarso contenuto di grasso
dell'organismo dei malati (soprattutto quello sottocutaneo), abituale deposito di riserva della vit. D, il ridotto
legame della vitamina alla specifica proteina che lo lega e lo trasporta ai siti di utilizzo, la ridotta idrossilazione
della vitamina, necessaria per trasformarla nella sua forma attiva 25-OHD, ma anche la probabile scarsa
esposizione alla luce solare. Sulla base delle informazioni ricavate dagli studi finora condotti, un gruppo di
ricercatori di Chapel Hill dell'Università di North Carlina ha recentemente suggerito un interessante algoritmo
per trattare la carenza di vitamina D nei pazienti FC, che di seguito riassumiamo. Controllare annualmente il
livello sierico di 25-OHD. Se risulta superiore a 30 ng/ml continuare la supplementazione standard abituale (in
genere 800 UI per giorno). Se è inferiore a 30 ng/ml si somministri una dose media di 12.000 UI una volta per
settimana nei soggetti di età inferiore a 5 anni e di 50.000 UI per settimana nei pazienti oltre i 5 anni, per 12
settimane. Ricontrollare i livelli di 25-OHD e, se maggiori di 30 ng/ml , continuare con la dose media
aggiustandola per mantenere 25-OHD sotto gli 80 ng/ml, livello di sicurezza per evitare eventuali tossicità
della vitamina. Se al ri-controllo i livelli di 25-OHD sono inferiori a 30 ng/ml si passi alla dose alta, con 12.000
UI sotto i 5 anni e 50.000 UI sopra i 5 anni 2 volte la settimana.
Nuovo controllo: se 25-OHD maggiore di 30 ng/ml continuare con dose alta aggiustandola per mantenere i
livelli di sicurezza (sotto 80 ng/ml); se inferiore a 30 ng, considerare l'intervento controllato con fototerapia
(raggi UV di particolare lunghezza d'onda). E' preferibile somministrare vitamina D3.
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Diabete mellito di tipo I
Diversi meccanismi effettori che portano alla distruzione delle β-cellule sono coinvolti nella fisiopatologia del
DM1, inclusa la presenza di linfociti CD8+ e macrofagi che regolano la differenziazione delle cellule Th1
mediante secrezione di IL-12.
In modelli sperimentali su topi non diabetici obesi (topi NOD), il deficit di vitamina D 3 accelera l'insorgenza di
DM1; invece la supplementazione precoce di D3 in questo stesso modello, prima che l’infiltrazione di cellule T
nel pancreas produca l'insulite autoimmune, impedisce lo sviluppo di diabete.
Studi epidemiologici hanno dimostrato che l'integrazione alimentare di vitamina D 3 durante l'infanzia può
ridurre il rischio di sviluppare DM1.
Uno studio che ha effettuato un follow-up di 30 anni ha osservato una significativa riduzione nella prevalenza
di DM1 in bambini che avevano ricevuto supplementazione giornaliera di vitamina D 3.
Gastrite autoimmune
Si tratta di una malattia organo-specifica caratterizzata dalla presenza di anticorpi circolanti contro l’enzima
H+/K+ATPasi, pompa protonica delle cellule parietali (PC), e contro il fattore intrinseco (FI), prodotto di
secrezione delle cellule parietarie (PC).
La cronica autoaggressione contro questo enzima provoca perdita di cellule parietali e zimogeniche e risulta in
una diminuzione della secrezione acida gastrica, ipergastrinemia e anemia da carenza di ferro. In uno stadio
più tardivo della malattia insorge l’anemia perniciosa, causata dalla carenza di vitamina B12 che non viene più
assorbita dall’intestino per la presenza nel siero e/o nel succo gastrico dei pazienti di autoanticorpi contro il FI.
Questa malattia, spesso asintomatica, può causare atrofia della mucosa gastrica e nel 10% dei casi può
evolvere verso un adenocarcinoma o un tumore carcinoide.
Recentemente Antico et al. hanno studiato la concentrazione dell’ormone in un gruppo di pazienti affetti da
AIG diagnosticata istologicamente, per verificare se l’ipovitaminosi D si associ anche con questa patologia.
I livelli di vitamina D nei pazienti con gastrite autoimmune erano significativamente più bassi rispetto ai
pazienti con gastrite non specifica o al gruppo di controllo, supportando l’ipotesi che l’ipovitaminosi D potrebbe
costituire un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia autoimmune e agire come fattore favorente una più
severa aggressione da parte dei linfociti Th1 all’epitelio dello stomaco.
La vitamina D nel cervello
È noto che la vitamina D3 attraversa la barriera emato-encefalica e che i recettori per la vitamina D3 si trovano
in tutto il cervello. Alte concentrazioni di vitamina D 3 sono state osservate in alcuni neuroni nel nucleo
interstiziale della stria terminale e nel nucleo centrale dell'amigdala, che nel loro insieme costituiscono un
sistema di neuroni bersaglio collegati da una componente della stria terminale.
Concentrazioni nucleari di vitamina D3 sono state evidenziate anche nei neuroni del nucleo periventricolare
della regione preottico-ipotalamica, compresa la sua estensione, il nucleo arcuato e paraventricolare
parvocellulare, nel nucleo ventromediale del nucleo sovramammillare, nel nucleo reticolare del talamo,
nell’ippocampo ventrale, nel nucleo caudato, nel grigio centrale mesencefalo-pontino, nel rafe dorsale, nei
nuclei parabrachiali e nei nuclei motori dei nervi cranici, nella sostanza gelatinosa del nucleo sensoriale del
trigemino, nelle cellule del Golgi tipo II del cervelletto ed in altre strutture.
L’estesa distribuzione di neuroni bersaglio suggerisce che la vitamina D 3 regola la produzione di vari
messaggeri aminergici e peptidergici e che influenza l'attività endocrino-autonomica di alcuni sistemi sensoriali
e motori.
La presenza di recettori specifici per la vitamina D 3 in molte regioni del sistema nervoso centrale, nelle cellule
ipofisarie, in una moltitudine d’organi periferici, insieme agli effetti conosciuti o alle funzioni ipotizzate, richiede
una revisione dei concetti classici correnti circa il ruolo biologico della vitamina D 3.
La vitamina D3 è molto più che "l’ormone steroide dell’omeostasi del calcio".
Alla luce delle nuove e più ampie informazioni derivate soprattutto dai risultati degli studi autoradiografici e
istochimici, risulta che la vitamina D3 è un attivatore biologico completo, regolatore di diverse funzioni
organiche. L’attivazione mediata della vitamina D3 è volutamente collegata e in sintonia con l'esposizione
stagionale alla luce solare, con l’apparente obiettivo di ottimizzare e regolare all’ambiente lo sviluppo, la
conservazione e la propagazione della vita.
Ciò comporta la proliferazione e la maturazione di certi tessuti, l’omeostasi del calcio e il trofismo muscolare
scheletrico per migliorare resistenza e movimento, e, infine, per facilitare la riproduzione.
La regolazione del metabolismo del calcio è una, ma solo una componente dell’azione della vitamina D3.
Il "calci-triolo" potrebbe essere più appropriatamente chiamato "sol-triolo", l’ormone steroideo correlato alla
luce del sole, l'attivatore e il regolatore stagionale, il messaggero steroide somatotrofico stimolato dalla luce
solare.
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La vitamina D è importante per lo sviluppo e le funzioni del cervello
In una revisione critica definitiva, alcuni Autori hanno sostenuto che vi sono ampie prove biologiche a
sostegno dell’ipotesi che la vitamina D svolga un ruolo importante nello sviluppo del cervello e nelle sue
funzioni.
Ciò giustificherebbe la supplementazione nei soggetti che presentano cronicamente bassi apporti dietetici di
vitamina D. McCann e Ames hanno sostenuto che, mentre la vitamina D ha un ruolo importante nello sviluppo
e nella funzione del cervello, i suoi specifici effetti sul comportamento rimangono non del tutto conosciuti.
Pur sottolineando la necessità di ulteriori studi, gli autori sostengono la supplementazione di vitamina D nei
soggetti a rischio.
La vitamina D è nota da tempo promuovere la salute delle ossa, regolando i livelli di calcio nel corpo.
La carenza di vitamina D nei bambini molto piccoli può indurre rachitismo, che può essere facilmente
prevenuto con supplementi di vitamina D.
Solo recentemente la comunità scientifica è venuta a conoscenza di un ruolo più ampio per la vitamina D.
Ora sappiamo che, oltre al suo ruolo nel mantenimento della salute delle ossa, la vitamina D 3 è coinvolta nella
differenziazione dei tessuti durante lo sviluppo e nel corretto funzionamento del sistema immunitario. In realtà,
più di 900 geni diversi sono ormai noti per essere in grado di legare il recettore della vitamina D 3, attraverso il
quale la vitamina D3 media i suoi effetti.
Oltre a proteggere contro il rachitismo, ci sono prove evidenti che confermano che un’abbondante assunzione
di vitamina D3 aiuta a proteggere contro le fratture negli anziani.
La vitamina D è presente soltanto in alcuni alimenti (ad esempio i pesci grassi) ed è anche aggiunta nel latte
arricchito, ma la sua disponibilità biologicamente attiva è legata per lo più all’esposizione ai raggi ultravioletti
(UVB) del sole.
La radiazione UVB del sole nella pelle converte un precursore biochimico della vitamina D 3, nel calcitriolo, la
forma attiva che svolge importanti effetti ormonali.
La formazione di vitamina D attiva da parte della radiazione UVB può essere sei volte più efficiente in soggetti
con la pelle chiara rispetto a chi ha la pelle scura.
Fra gli afro-americani che vivono a latitudini settentrionali è, perciò, diffusa la carenza cronica di vitamina D.
La pelle scura è stata selezionata nel corso dell'evoluzione perché protegge contro l’intensa radiazione UVB
del sole ai tropici.
La pelle bianca è stata selezionata per consentire nelle latitudini più settentrionali un’esposizione ai raggi UVB
sufficiente alla sintesi di vitamina D.
Così, i settentrionali di carnagione chiara sono a rischio nelle zone tropicali per le patologie, anche
neoplastiche, della pelle indotte dai raggi UVB, mentre le persone di pelle scura nelle latitudini settentrionali
con scarsa esposizione al sole sono a rischio di rachitismo, fratture ossee ed eventualmente di altre malattie,
inclusi diversi tipi di cancro e di patologie neuro-psichiatriche a causa della mancanza di vitamina D.
Per fortuna gli schermi solari e gli integratori di vitamina D per riparare a questi problemi sono economici.
La vitamina D svolge importanti funzioni neurobiologiche in rapporto all'ampia distribuzione dei recettori della
vitamina D in tutto il sistema nervoso.
La vitamina D può influenzare la sintesi e l’espressione di alcune proteine nel cervello, di cui si conosce il
diretto coinvolgimento nell'apprendimento, nella memoria, nel controllo motorio e forse anche sul
comportamento materno e sociale.
Molti esperti evidenziano che il livello attualmente raccomandato di vitamina D è troppo basso e deve essere
incrementato per la protezione contro rachitismo, fratture ossee e forse contro alcune forme di cancro.
Molti soggetti a rischio sembrano avere, infatti, bassi livelli di vitamina D nel sangue.
Nonostante le attuali incertezze circa eventuali effetti deleteri di sovradosaggio della vitamina D, l'evidenza
indica che l'integrazione è, tutto sommato, economica e prudente.
Soprattutto nelle sottopopolazioni in cui i livelli di vitamina D possono essere eccezionalmente bassi, in
particolare nella cura dei bambini, degli anziani e degli afro-americani e dei soggetti con pelle più scura.
Vit. D e patologie del sistema nervoso
La Vitamina D sembra avere un ruolo nei processi che possono essere importanti per il rischio di demenza,
compresa la salute vascolare e la clearance dell’amiloide dal cervello.
Date queste associazioni sembra "biologicamente plausibile" che ci possa essere un'associazione di bassi
livelli di vitamina D con il rischio di demenza e di basse prestazioni cognitive nella popolazione generale.
I risultati di una nuova analisi utilizzando i dati del Terzo National Health and Nutrition Survey (NHANES III)
mostrano che la carenza di vitamina D è associata ad un aumentato rischio di declino cognitivo negli anziani
americani. Alcuni investigatori hanno individuato un legame tra vitamina D e morbo di Parkinson.
Utilizzando una coorte di oltre 3000 persone, i ricercatori hanno scoperto che bassi livelli di vitamina D
aumentano il rischio di Parkinson, mentre alti tassi sembravano avere un effetto protettivo.
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Altri studi hanno evidenziato il ruolo di 1,25 diidrossi-vitamina D3 nell’eziologia e terapia dei disturbi affettivi
stagionali e di altri disturbi mentali, come schizofrenia, depressione e alcolismo.
Esistono prove che la depressione maggiore è associata a bassi livelli di vitamina D e che la depressione è
aumentata nel corso del secolo scorso durante il quale i livelli di vitamina D sono sicuramente diminuiti.
Esistono prove che la depressione è associata a malattie cardiache, ipertensione, diabete, artrite reumatoide,
cancro e bassa densità minerale ossea, tutte malattie che si pensano essere causate, almeno in parte, dalla
carenza di vitamina D.
La vitamina D, inoltre, ha profondi effetti sul cervello e sui neurotrasmettitori coinvolti nella depressione
maggiore.
Vit. D e luce solare
Gli effetti della luce solare sui processi fisiologici e comportamentali sono mediati, in gran parte, attraverso il
sistema pelle>vitamina D>sistema endocrino.
Questi effetti sono probabilmente mediati attraverso azioni dirette della vitamina D3 sul cervello e sugli organi
endocrini, indipendentemente dagli effetti sui livelli di calcio.
Ciò appare rilevante per l'attivazione e la modulazione dei processi mentali e del sistema endocrino, relativi, in
particolare, al bioritmo circum-annuale (stagionale) e circum-diano (giornaliero).
Tali azioni sono dirette, cioè mediate da recettori specifici, e sembrano essere dose-dipendenti, in rapporto
all'intensità della luce ed alla durata dell'esposizione.
Ciò fa della luce (fotoni) un farmaco attivo sul sistema nervoso ed endocrino.
La vitamina D3 sembra svolgere un ruolo nell'eziologia dei disturbi affettivi con ciclico esordio stagionale
(disturbo affettivo stagionale). Incrementare false speranze di guarigione, da una devastante malattia mentale
come la depressione maggiore, utilizzando la sola vitamina D non è corretto.
Le evidenze suggeriscono che la vitamina D può migliorare il tono dell’umore, ma non abbiamo prove
conclusive in merito ad effetti propriamente terapeutici sulla depressione maggiore.
In quest’articolo di rassegna della vasta letteratura scientifica internazionale su questo tema, si evidenziano
alcuni fattori chiave di cui i medici dovrebbero essere consapevoli.
Vitamina D e Depressione
La psichiatria è quella branca della medicina che spiega tutto, ma non prevede nulla.
Questa è la definizione più in voga tra gli scienziati del National Institute of Mental Health (NIMH). “Cura la tua
depressione con la vitamina D, la vitamina del sole!” Nessun messaggio può essere più crudele di questo,
creando aspettative inevitabilmente deluse tra i tanti soggetti affetti da depressione maggiore.
La depressione maggiore non può essere curata semplicemente con quantità fisiologiche di vitamina D, così
come non può essere curata con la vasta gamma di rimedi “naturali”, d’integratori alimentari o di placebo.
Non esiste la panacea.
Indurre false speranze nella cura di una malattia devastante come la depressione maggiore non è, però, così
grave se si confronta con alcuni dei più grandi crimini della psichiatria-psicoterapeutica del passato, come
aver sostenuto che le madri degli schizofrenici avevano causato la malattia del loro bambino, oppure come
aver indotto il recupero di falsi ricordi d’abuso sessuale, che tante famiglie innocenti ha distrutto.
Ciò premesso, non è corretto e non è nostra intenzione indurre false speranze.
Fatte queste premesse, potremmo chiederci che cosa sappiamo circa il rapporto tra depressione maggiore e
vitamina D.
Luce e depressione
Nel 1989 W.E. Stumpf ha pubblicato un articolo pionieristico sul ruolo della 1, 25 diidrossi-vitamina D3
nell’eziologia e nella terapia dei disturbi affettivi stagionali e di altri processi mentali.
E’ noto da tempo che la luce intensa nello spettro visibile (senza la produzione di vitamina D attivata dagli
UVB) migliora nettamente l'umore, anche se è difficile condurre bene gli studi a causa della mancanza di una
condizione di controllo.
Ci si deve, quindi, porre il quesito: la vitamina D ha un effetto sull'umore che differisce dall’effetto della luce o
che è ad esso complementare?
Disturbo affettivo stagionale
Gli sbalzi d'umore tipici del disturbo affettivo stagionale possono essere gravi e sono legati oltre che alla
stagione, anche alla latitudine e all’esposizione al sole.
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Harris e Dawson-Hughes hanno evidenziato su 125 donne che, rispetto al placebo, il trattamento con 400 UI
d’ergocalciferolo (vitamina D2) al di non migliora le oscillazioni stagionali dell'umore.
Gli autori non hanno valutato i livelli di 25 (OH) vitamina D, indotti dal trattamento. Sappiamo, però, che la
dose di 400 UI d’ergocalciferolo utilizzata in questo studio è molto vicina a una dose omeopatica.
Infatti, l’ergocalciferolo è una forma meno potente della vitamina D che in natura è la vitamina D 3, il
colecalciferolo. Alcuni autori hanno sostenuto che la vitamina D non ha alcun effetto sul disordine affettivo
stagionale, misurando nel sangue il metabolita sbagliato della vitamina D, cioè il calcitriolo (1,25 diidrossi D3),
i cui livelli possono variare in diverse e varie condizioni.
Il solo test di laboratorio che dovrebbe essere utilizzato, per misurare le riserve di vitamina D, il suo deficit o i
suoi livelli adeguati è il dosaggio di vit. D3, che questi autori non hanno misurato.
Nel 1998 in un esperimento controllato, alcuni ricercatori australiani hanno rilevato che 400 e 800 UI di
colecalciferolo migliorano significativamente il tono affettivo, in soggetti sani.
In uno studio randomizzato in doppio cieco, 44 soggetti sani hanno ricevuto 400 UI di colecalciferolo, 800 UI di
colecalciferolo o placebo per 5 giorni, nel corso dell’inverno inoltrato.
I risultati con misure d’auto-valutazione hanno evidenziato che la vitamina D3 incrementa l’affettività positiva di
una piena deviazione standard con segni di riduzione dell’affettività negativa.
Gli autori hanno concluso che la carenza di vitamina D3 fornisce una spiegazione convincente e semplice
delle variazioni stagionali dell'umore.
In uno studio ancora più interessante nel 1999, su un piccolo gruppo di pazienti con disturbo affettivo
stagionale, 100.000 UI di vitamina D somministrate in singola dose orale hanno indotto miglioramenti delle
scale di valutazione della depressione superiori a quelli indotti dalla light-therapy.
Tutti i soggetti nel gruppo trattato con vitamina D miglioravano in tutte i sintomi valutati e, soprattutto, il grado
di miglioramento del nucleo depressivo era correlato significativamente ai livelli misurati di 25 (OH) vitamina D.
Alcuni autori tedeschi hanno trovato, in controlli sani, livelli medi nel siero di vit. D3 di 46 ng / L, mentre, i
soggetti depressi presentavano livelli medi serici di 37 ng / L.
Autori finlandesi non hanno trovato differenze stagionali tra pazienti con disturbo affettivo stagionale e controlli
normali, ma non hanno trovato neanche variazioni stagionali dei livelli di vit. D 3 negli stessi pazienti.
Nel 2003 è stata evidenziata una diretta correlazione tra i livelli di D 3 ed i punteggi di salute mentale in un
gruppo di soggetti sani, adulti, anziani.
Meno luce solare, più depressione
L’ipotesi che una carenza di vitamina D possa causare alcune forme di depressione, viene rafforzata da
alcune osservazioni epidemiologiche.
L'incidenza di depressione è aumentata nelle società industrializzate d’occidente nel corso del secolo scorso.
In quel periodo di tempo, infatti, si è progressivamente ridotta l’esposizione alla luce solare, per effetto
dell’urbanizzazione, con la costruzione di edifici sempre più verticali e con sempre minore esposizione alle
radiazioni ricche di ultravioletti.
L’industrializzazione ha ridotto i lavori effettuati in ambienti esterni con conseguente minore esposizione ai
raggi UVB.
Le automobili (i vetri bloccano totalmente i raggi UVB), l’abbigliamento sempre più coprente (blocca la luce
UVB), le creme solari e le sbagliate indicazioni mediche di non esporsi mai alla radiazione solare senza
protezione hanno ridotto la fisiologica produzione cutanea di vit. D attiva e circolante.
Tutti questi fattori contribuiscono a ridurre i livelli serici di vit. D.
La depressione maggiore è notevolmente aumentata negli ultimi 80 anni.
Questo è uno dei risultati più famosi e controversi degli studi in epidemiologia psichiatrica moderna.
Tra patologie organiche e depressione: chi è nato prima?
La depressione è associata ad altre condizioni che si pensa possano conseguire a una carenza di vitamina D,
come le malattie cardiache, il diabete, l’ipertensione, l’artrite reumatoide, il cancro o l'osteoporosi.
Ad esempio, vi è una forte associazione tra malattie cardiache e depressione, nonché numerose teorie per
spiegarla.
La più ovvia, cioè che la malattia cardiovascolare possa indurre in chiunque una depressione reattiva è l’unica
che si è dimostrata non vera.
La depressione, infatti, molto spesso precede la malattia di cuore, suggerendo l’esistenza di un terzo fattore
con effetti etio-patogenetici su entrambi. Inoltre, è confermata una maggiore mortalità nei soggetti affetti da
depressione, non solo per cardiopatie, ma anche per altre e diverse cause.
Quando la cardiopatia è associata alla depressione, le possibilità logiche sono: la depressione causa le
malattie cardiache, le cardiopatie causano depressione, oppure un fattore sconosciuto (x), forse la carenza di
vitamina D, causa, almeno in parte, sia la depressione sia la malattia di cuore.
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Krilling D
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Che dire delle altre malattie associate a deficit di vitamina D?
Cosa spiega la significativa associazione tra depressione e diabete, depressione e ipertensione arteriosa,
depressione e artrite reumatoide, depressione e neoplasie, depressione e densità minerale ossea nelle donne
in premenopausa? Alcuni recenti studi sull’associazione tra depressione maggiore e ridotta densità minerale
ossea nelle donne suggeriscono che un fattore terzo sia potenzialmente responsabile tanto della bassa massa
ossea quanto della depressione.
Una possibile spiegazione può essere fornita proprio dalla constatazione che una carenza di vitamina D
provoca, almeno in parte, tutte queste malattie.
E’ ovvio come tutte queste malattie siano per loro natura a etio-patogenesi multifattoriale.
Resta probabile, comunque che una parte della vulnerabilità possa conseguire a una carenza di vitamina D.
La vitamina D aumenta rapidamente, di tre volte, in vitro, l'espressione genetica di tiroxina-idrossilasi (l'enzima
limitante per la biosintesi delle catecolamine).
La luce del sole d’estate aumenta il turnover della serotonina cerebrale il doppio di quello che fa la luce del
sole d'inverno.
Uno studio recente presenta risultati positivi sul tono dell’umore interpretabili sia come effetti diretti della luce
nello spettro visibile sia come azione della vitamina D.
Le evidenze cliniche disponibili ad oggi suggeriscono che la vitamina D può migliorare il tono l'umore, anche
se le prove al riguardo non sono ancora del tutto conclusive.
Gli studi con risultati positivi, circa gli effetti antidepressivi della vitamina D, sono stati effettuati nel trattamento
del disturbo affettivo stagionale, non della depressione maggiore.
La vitamina D potrebbe essere utile nel trattamento della depressione maggiore, ma è ancora troppo presto
per dirlo con certezza.
Per saperlo con relativa sicurezza bisognerebbe studiare i pazienti con grave depressione maggiore, cui
dovrebbe essere valutato il livello serico di base della vit. D 3, che dovrebbero essere trattati per diversi mesi
con dosi adeguate di vitamina D per innalzare il livello ad almeno 35 ng/mL, paragonando i risultati con un
gruppo di controllo trattato con placebo.
Tuttavia, bisognerebbe seguire i seguenti consigli:



I pazienti depressi dovrebbero dosare i livelli serici di vit. D3.
Se presentano livelli inferiori a 35 ng/mL (87 nM/L) sono in carenza di vitamina D3 e dovrebbero
iniziare il trattamento.
In condizioni di bassi livelli ematici di 25 (OH) vit. D, si è, di fatto, in carenza di vitamina D 3 e si
dovrebbe comunque, iniziare il trattamento, considerata la possibilità di poter prevenire oltre alla
depressione molte altre gravi patologie non solo psichiatriche.
CONCLUSIONI
Numerose osservazioni suggeriscono che la carenza di vitamina D può svolgere un ruolo importante nella
regolazione del sistema immunitario e che la vitamina può essere utile nella prevenzione delle malattie
immunomediate.
Proprio per le sue proprietà non solo calcio-omeostatiche, ma immunoregolatrici, la vitamina D può essere
considerata come parte integrante di un più complesso follow-up terapeutico delle patologie immuno-mediate.
In atto, la recente letteratura, sta orientando gli sforzi per lo sviluppo di ulteriori studi per definire lo stato di
deficit/insufficienza in determinati gruppi di pazienti, determinare i rischi e i benefici della supplementazione di
vitamina D e stabilire frequenza e temporalizzazione del monitoraggio.
In conclusione, sicuramente gli effetti della vitamina D sono benefici proprio per la sua azione che esulano
dalla semplice omeostasi del calcio e che sono rivolte alla stimolazione del sistema immune, e tali effetti
possono essere utilizzati proprio come adiuvanti di terapie specifiche per la cura di patologie infettive o
atopiche.
Sta, inoltre, rapidamente diventando chiaro che la vitamina D svolge diversi ruoli nella regolazione della salute
ottimale del sistema nervoso centrale sia durante lo sviluppo del sistema nervoso sia durante tutta la vita.
La vitamina D aumenta di tre volte rapidamente in vitro l'espressione genetica della tiroxina-idrossilasi
(l'enzima limitante la biosintesi delle catecolamine).
La vitamina D è ampiamente coinvolta nella funzionalità cerebrale con recettori specifici per tale sostanza,
localizzati in neuroni e cellule gliali. I geni che codificano gli enzimi coinvolti nel suo metabolismo sono
espressi nelle cellule del cervello. Gli effetti biologici riportati della vitamina D nel sistema nervoso includono la
biosintesi di fattori neurotrofici, l'inibizione della sintesi dell’ossido-nitrico-sintasi inducibile ed aumento dei
livelli di glutatione, suggerendo un ruolo di disintossicazione cerebrale per l'ormone, vitamina D.
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Fibrosi cistica
La fibrosi cistica (FC), o mucoviscidosi, o malattia fibrocistica del pancreas, è una malattia genetica
autosomica recessiva, manifestandosi pienamente soltanto negli omozigoti e con nessuna sintomatologia
clinica negli eterozigoti, causata da una mutazione del gene CFTCR (Cystic Fibrosis Transmembrane
Conductance Regulator) che codifica una proteina di 1480 aminoacidi situata sulla membrana cellulare delle
cellule epiteliali, la cui funzione, normalmente, è quella di trasportare il cloro attraverso le membrane cellulari a
livello della membrana apicale delle cellule epiteliali di vie aeree, del pancreas, dell'intestino, delle ghiandole
sudoripare, delle ghiandole salivari e dei vasi deferenti. Lo squilibrio ionico è causato da un'alterazione della
secrezione da parte delle cellule epiteliali di ioni cloro e un conseguente maggior riassorbimento di sodio e
acqua.
È la malattia genetica ereditaria mortale più comune nella popolazione caucasica. Si conoscono più di 1000
diverse mutazioni del gene CFTR. La più frequente nella popolazione di origine caucasica è una delezione di
3 nucleotidi (CTT), che provoca la perdita dell'aminoacido fenilalanina codificato dal codone 508 (delta F508).
Questa patologia si caratterizza per un'anomalia nel trasporto del cloro nella membrana delle cellule delle
ghiandole a secrezione esterna. Di conseguenza queste ghiandole secernono un muco denso e vischioso e
quindi poco scorrevole. Negli organi interessati, le secrezioni mucose, essendo anormalmente viscide,
determinano un'ostruzione dei dotti principali, provocando l'insorgenza di gran parte delle manifestazioni
cliniche tipiche della malattia, come la comparsa di infezioni polmonari ricorrenti, di insufficienza pancreatica,
di steatorrea, di stati di malnutrizione, di cirrosi epatica, di ostruzione intestinale e di infertilità maschile; è una
malattia molto grave.
Epidemiologia ed eziologia
In Italia si manifesta in un caso ogni 2700 nati vivi; i portatori sani, con la presenza di un solo gene della FC,
sono circa il 4% della popolazione ed i nuovi bambini affetti da FC ogni anno sono circa 200.
Il gene responsabile è localizzato sul braccio lungo del cromosoma 7. Le oltre 1400 mutazioni finora
riconosciute sono legate alla proteina di canale al cloro CFTR e sono classificate in 6 classi:
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Classe I: non c'è produzione di proteina;
Classe II: si ha produzione di un corto peptide non funzionante;
Classe III: si produce un polipetide non funzionante;
Classe IV: si produce una proteina difettosa ma in minima parte funzionante;
Classe V: si produce una proteina normale ma in minime quantità;
Classe WT: la proteina normale è prodotta nelle giuste quantità (soggetto sano);
Più la classe ha un numero basso, più severa sarà la malattia. Le mutazioni di classe I, II e III danno anche
insufficienza pancreatica, mentre le classi IV e V permettono che il pancreas funzioni. Alla proteina CFTR
vengono riconosciute diverse funzioni:
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Canale del cloro AMP ciclico dipendente;
Regolazione della funzione di altri canali, in particolare per il sodio;
Regolazione dell'infiammazione.
Regolazione del pH;
Trasporto del glutatione;
Diagnosi
Prelievo dei villi coriali (nelle famiglie a rischio è possibile la diagnosi prenatale in questo modo).
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Screening neonatali.
Esame del sudore secondo il metodo di Gibson e Cooke - si misura la concentrazione di Cloro in
almeno 75 mg di sudore del paziente; se i valori sono superiori alla norma (60mEq/L) il test è
sicuramente positivo. Sotto i 30mEq/L è sicuramente negativo. Tra i 30 e i 60 il test viene definito
borderline e potrebbe essere necessario ripetere il test.
Analisi del DNA (centri specializzati).
Differenza dei potenziali nasali.
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Aspetti clinici
Manifestazioni cliniche della Fibrosi cistica.
A livello polmonare non è comunque ancora stato ben chiarito quale sia il rapporto tra il difetto di trasporto
ionico e la broncopneumopatia. Tutt'oggi esistono due diverse teorie: la prima implicherebbe un'attivazione del
sistema immune deputato al killing batterico da cui deriverebbe una maggiore predisposizione alla persistenza
degli agenti infettivi nel tratto respiratorio e l'evoluzione verso l'infezione cronica; la seconda deriverebbe dalla
contrazione del liquido periciliare, dovuta ad un eccessivo riassorbimento di sodio e acqua dall'epitelio
respiratorio, con conseguente formazione di placche di muco che occludono i bronchi. Esiste una grande
varietà di quadri clinici. Nei casi più gravi la FC si manifesta con un ileo da meconio (15%) entro le prime 24
ore di vita. Normalmente la malattia insorge più tardivamente con sintomi respiratori e/o digestivi.
Prime vie aeree
Le secrezioni che possono ristagnare nel naso e i seni paranasali possono essere causa di rinite e
pansinusite cronica. In un 7% dei casi è presentata poliposi nasale. Associata vi può essere una diminuzione
dell'olfatto con una conseguente diminuizione del gusto.
Polmone
Il quadro clinico è dominato da un lento processo distruttivo polmonare. Nella maggior parte dei casi si
manifesta nel primo anno di vita con tosse persistente, inizialmente secca di tipo pertussoide, associata a
tachipnea e broncospasmo. L'esame obiettivo può subito dimostrare segni indiretti di ostruzione bronchiale:
rientramenti intercostali, sovraclaveari, deformazione del torace con aumento del diametro antero - posteriore,
polipnea, gemiti e fischi. L'infezione bronchiale cronica determina una progressiva distruzione del parenchima
polmonare e la formazione di bronchiectasie. La tosse diventa quindi sempre più catarrale, con espettorato
muco purulento. La risposta immunitaria dell'ospite e i fattori propri dei patogeni contribuiscono quindi insieme
ad innescare un processo patogenetico che è alla base del processo distruttivo polmonare.
Pancreas
Il pancreas è colpito nell'80% dei casi con un ristagno dei succhi pancreatici nei dotti con formazione di cisti
con una fibrosi che si va a creare attorno a questi (da qui fibrosi cistica). La carenza di succhi pancreatici nel
canale intestinale porta a malassorbimento di grassi (con conseguente steatorrea), e di conseguenza delle
vitamine liposolubili, delle proteine e, in minima parte, degli zuccheri.
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Con il passare del tempo il pancreas, sempre più colpito, secerne una minor quantità d’insulina portando a
una forma di diabete di solito insulino-dipendente.
Un mancato assorbimento dei grassi comporta sequele anche gravi:
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Mancato assorbimento delle Vitamine liposolubili
Rachitismo da mancato assorbimento di calcio (la vitamina D è indispensabile a questo scopo)
Coagulazione alterata a causa del mancato assorbimento di vitamina K
Crescita ridotta: i grassi infatti sono i nutrienti che forniscono il maggior apporto calorico
Apparato riproduttivo
Nella FC tutte le secrezioni prodotte dal corpo sono di densità maggiore rispetto ad un individuo "normale",
infatti il 97-98% dei maschi adulti ha un liquido seminale più denso che non permette agli spermatozoi di
muoversi liberamente ed adempiere alla fecondazione dell'ovulo, conseguentemente si ha infertilità.
Le donne possono avere figli anche se la fertilità è comunque ridotta.
Fegato
La bile, più densa, ostruisce le vie biliari causando ittero (a bilirubina prevalentemente diretta) ed i processi
infiammatori del parenchima epatico possono portare fibrosi intorno ai canalicoli biliari (5-15% dei casi).
Possibile anche è la calcolosi biliare.
Ghiandole sudoripare
La quantità è normale ma la presenza di cloro e sodio è molto elevata. Il rischio di disidratazione,
specialmente nel periodo estivo, è molto elevato e di conseguenza vanno date al bambino apposite soluzioni
idro-saline.
Prognosi
Decisamente migliorata negli ultimi 50 anni; se fino al 1963 l'aspettativa di vita era inferiore ad un anno per la
maggior parte dei pazienti, attualmente l'età media di sopravvivenza è intorno ai 50 anni anche se la qualità di
vita di questi soggetti è in genere modesta.
Trattamento
Deve essere continua per tutto l'arco della vita e si basa su sei cardini fondamentali:
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Dieta
Trattamento digestivo-nutrizionale
Fisioterapia respiratoria e rimozione delle secrezioni bronchiali
Terapia antibiotica delle infezioni respiratorie
Trattamento delle patologie delle prime vie aeree
Terapia medico-chirurgica delle complicanze con trapianto dei polmoni
Dieta e trattamento digestivo nutrizionale
La dieta deve essere ipercalorica, molto ricca di sali (principalmente in estate e durante gli episodi febbrili) e
con aggiunta di vitamine fondamentali quali A,D,E e K. Devono essere somministrati durante i pasti gli enzimi
pancratici (capsule). Tali enzimi devono essere somministrati, se possibile 1/3 a inizio pasto, 1/3 a metà pasto
e 1/3 a fine pasto. Nei lattanti gli enzimi pancratici si estraggono dalla capsula e si miscelano con un po' di
latte: i granuli non vanno polverizzati, perché sono gastroprotetti e, se polverizzati, non funzionano bene.
Anche i neonati riescono a deglutirli, bisogna però controllare a fine pasto che non ne rimangano in bocca
dove potrebbero danneggiare la mucosa. Nei bambini piccoli che non sanno deglutire le capsule si aprono e
si miscelano con cibi aciduli. I ragazzi più grandi possono deglutire le capsule gastroresistenti.
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MALATTIE DEL FEGATO
FEGATO GRASSO
(Steatosi epatica) eccessivo accumulo di lipidi negli epatociti, che rappresenta la più comune risposta del
fegato ad un insulto lesivo.
Sommario:
Il fegato occupa una posizione centrale nel metabolismo dei lipidi. Un piccolo gruppo di acidi grassi liberi (Free
Fatty Acid, FFA) di rapido utilizzo, introdotti con gli alimenti o rilasciati nel sangue dai chilomicroni o dalle
cellule adipose, fornisce quasi tutta l'energia richiesta a digiuno.
Gli FFA sono captati dal fegato ed entrano a far parte del pool epatico, che è in parte sintetizzato dal fegato
stesso. Alcuni FFA sono ossidati a CO2 nel fegato a scopo energetico, ma la maggior parte viene rapidamente
incorporata in lipidi complessi (p. es., trigliceridi, fosfolipidi, glicolipidi, esteri del colesterolo).
Alcuni di questi lipidi complessi entrano a far parte di un pool, a lenta utilizzazione, che comprende i lipidi
strutturali delle cellule epatiche e dei loro depositi.
La maggior parte dei trigliceridi entra in un pool attivo, dove si combina con delle apoproteine specifiche
formando le lipoproteine che vengono secrete nel plasma (p. es., lipoproteine a bassissima densità (Very Low
Density Lipoproteins, [VLDL]). Il fegato è anche responsabile della degradazione dei lipidi (p. es., le
lipoproteine a bassa densità, i chilomicroni residui).
Una steatosi epatica si verifica quando l'accumulo dei lipidi supera il normale 5% del peso del fegato.
Nel tipo macrovescicolare, grosse gocce di grasso rigonfiano le cellule epatiche, spostando il nucleo alla
periferia della cellula, come negli adipociti. I trigliceridi sono i grassi che si accumulano più di frequente,
perché hanno l'indice di turnover più alto tra tutti gli esteri degli acidi grassi epatici. La captazione epatica degli
FFA dal tessuto adiposo e dalla dieta non ha limiti, mentre l'impiego degli FFA per l'ossidazione,
l'esterificazione e la secrezione delle VLDL è limitato.
Nel fegato grasso microvescicolare, si accumulano piccole gocce di grasso nelle cellule, che sembrano
schiumose e con nuclei centrali. I trigliceridi si raccolgono in organelli subcellulari (p. es., reticolo
endoplasmico), riflettendo un disturbo metabolico diffuso.
Il danno mitocondriale limita l'ossidazione degli FFA, mentre la sintesi delle apoproteine necessarie per la
secrezione delle VLDL è ridotta, causando un accumulo di trigliceridi.
Nella fosfolipidosi, sono i fosfolipidi che si accumulano in occasione dell'uso di certi farmaci (p. es.,
l'amiodarone). Le cellule epatiche sono grandi e schiumose.
Eziologia
La steatosi diffusa del fegato, spesso a distribuzione zonale, è associata a molte situazioni cliniche.
Nei paesi sviluppati, l'alcolismo, l'obesità e il diabete sono le più comuni cause di steatosi macrovescicolare.
Altre cause includono la malnutrizione (specialmente la dieta povera di proteine dei bambini affetti dal
kwashiorkor), i disordini metabolici congeniti (del glicogeno, del galattoso, della tirosina o dell'omocisteina), i
farmaci (p. es., i corticosteroidi) o le malattie sistemiche febbrili.
Il fegato grasso microvescicolare si verifica nella steatosi epatica della gravidanza, nella sindrome di Reye,
per la tossicità di alcuni farmaci (acido valproico, tetracicline, salicilato) o per dei difetti metabolici congeniti
(degli enzimi del ciclo dell'urea o che coinvolgono l'ossidazione mitocondriale degli FFA).
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La steatosi focale è molto meno frequente e di più difficile riconoscimento. I noduli, formati dagli epatociti
grassi, sono sottocapsulari.
Di solito, sono un reperto accidentale all'ecografia o alla TC, presentandosi come delle lesioni multiple,
occupanti spazio, del fegato. Possono formarsi nei pazienti apparentemente ad alto rischio per questa
condizione (p. es., pazienti obesi o alcolisti).
Patogenesi
I trigliceridi si accumulano nel fegato a causa di un aumentato input dovuto ad una maggiore sintesi da parte
dagli FFA o ad una ridotta secrezione, sotto forma di VLDL, da parte degli epatociti.
L'aumentata sintesi di trigliceridi può essere causata da un aumentato trasporto o disponibilità degli FFA (dalla
dieta o mobilizzati dal tessuto adiposo), da un incremento della sintesi di acetilcoenzima-A o da una riduzione
dell'ossidazione degli FFA nel fegato.
La ridotta eliminazione dei trigliceridi implica un ridotto legame con le apolipoproteine, i fosfolipidi e il
colesterolo e causa una ridotta secrezione di VLDL.
I numerosi, possibili meccanismi coinvolti nella patogenesi della steatosi epatica possono operare
isolatamente o insieme.
Nell'obesità, sono aumentate la distribuzione dei grassi alimentari o la mobilizzazione dal tessuto adiposo.
La ridotta ossidazione degli FFA può contribuire alla steatosi epatica indotta dal tetracloruro di carbonio, dal
fosforo giallo, dall'ipossia e da alcune carenze vitaminiche (niacina, riboflavina ed acido pantotenico).
Un blocco nella produzione e nella secrezione delle lipoproteine è spesso la causa principale dell'accumulo
dei trigliceridi nel fegato.
L'alterata sintesi delle apolipoproteine è il fattore patogenetico più importante in numerosi tipi di steatosi
epatica tossica o di quella indotta da un insufficiente apporto dietetico di proteine. L'inibizione tossica della
sintesi proteica può portare alla steatosi epatica attraverso l'inibizione della sintesi o della traduzione del
mRNA.
Nella steatosi microvescicolare, piccole gocce di trigliceridi, FFA, colesterolo e fosfolipidi si raccolgono negli
organelli subcellulari. Il difetto di base è sconosciuto, anche se i reperti anatomopatologici e clinici, prodotti da
cause diverse, sono in qualche modo simili. La base biochimica può essere rappresentata da un'interferenza
nella via ossidativa mitocondriale, che riduce l'ossidazione degli FFA e altera la sintesi delle apolipoproteine
per l'assemblaggio delle VLDL.
La steatosi epatica può risultare anche da un accumulo di altri lipidi neutri. Il grasso e il colesterolo (visti al
microscopio a luce polarizzata come cristalli romboidali birifrangenti) sono presenti nella malattia di Wolman e
nella malattia da accumulo degli esteri del colesterolo. La vacuolizzazione steatosica può essere moderata o
importante. Nella malattia di Niemann-Pick, la sfingomielina fosfolipidica si accumula negli epatociti e nelle
cellule del Kupffer. Le cellule appaiono schiumose.
Anatomia patologica
Quando l'accumulo dei grassi è rilevante, il fegato tende a essere grossolanamente aumentato di
superficie liscia e pallida. Microscopicamente, l'architettura generale può essere conservata. I
accumulano sotto forma di grosse gocce che si fondono e spingono il nucleo dell'epatocita
Nell'esempio tipico, la steatosi epatica alcolica, le cellule epatiche sono piene di vacuoli di
spingono il nucleo alla periferia, apparendo come grosse cellule adipose.
volume, con
trigliceridi si
in periferia.
grasso che
Nella steatosi epatica microvescicolare, le piccole gocce di grasso si raccolgono nel reticolo
endoplasmatico e nei lisosomi secondari che non si fondono. L'epatocita ha un citoplasma schiumoso e un
nucleo centrale.
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In caso di alterazione della sintesi proteica da epatotossine o da malnutrizione proteica, i lipidi tendono ad
accumularsi nella zona periportale. Il grasso microvescicolare tende a raccogliersi nella zona centrale.
Sintomi, segni e diagnosi
La steatosi epatica macrovescicolare viene scoperta più frequentemente all'esame obiettivo, per il riscontro di
un'epatomegalia non dolorabile, liscia e uniforme in un paziente diabetico, alcolista od obeso. Può causare
fastidio e dolore al quadrante superiore destro dell'addome e ittero o può essere l'unica alterazione fisica
riscontrata dopo una morte improvvisa, inaspettata e, presumibilmente, dovuta a cause metaboliche.
C'è una scarsa correlazione tra la steatosi epatica e le alterazioni dei test biochimici di funzionalità epatica
comunemente eseguiti. Si può verificare un lieve aumento a carico della fosfatasi alcalina o delle
transaminasi. L'ecografia e specialmente la TC possono mostrare il grasso in eccesso. La diagnosi di certezza
di steatosi epatica si fa solo con la biopsia epatica. Poiché questo accumulo di grasso nel fegato può costituire
l'unica spia di un danno da epatotossine, della presenza di una malattia non diagnosticata o di una malattia
metabolica, la diagnosi richiede un'ulteriore valutazione del paziente.
Il fegato grasso non alcolico (steatosi epatica non alcolica) è un accumulo, diagnosticato sempre più
frequentemente, di grassi nel fegato delle donne che tendono a essere obese o diabetiche. Si verifica anche
dopo un intervento di bypass digiunale, con la malnutrizione e in associazione a certi farmaci (p. es., i
glucocorticoidi, gli estrogeni sintetici, l'amiodarone, il tamossifene). Può essere presente un'epatomegalia.
La diagnosi istologica si basa sulla modificazione grassa macrovescicolare e sull'infiammazione lobulare, a
volte associata a fibrosi e ai corpi ialini di Mallory. La condizione è spesso identificata mediante una biopsia
epatica eseguita per altre ragioni, di solito in pazienti asintomatici che presentano un aumento
dell'aminotransferasi plasmatica di due o tre volte il valore normale. Per la diagnosi, deve essere evidente una
scarsa assunzione di alcol.
Il fegato grasso microvescicolare si manifesta con affaticamento, nausea e vomito presto seguiti dall'ittero,
dall'ipoglicemia, dal coma e da una Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID).
Prognosi e terapia
La steatosi epatica macrovescicolare è potenzialmente reversibile ed, in genere, non è pericolosa di per sé.
È reversibile anche in caso di patologie potenzialmente fatali (p. es., nella steatosi epatica della gravidanza, il
parto precoce può salvare la vita della paziente). La steatosi epatica alcolica può essere associata
all'infiammazione ed alla necrosi (epatite alcolica) ed ad un danno permanente sotto forma di cirrosi. Il fegato
grasso microvescicolare si manifesta in maniera acuta, ma è reversibile se il paziente sopravvive.
Non si dispone di alcuna terapia specifica, se non quella consistente nell'eliminazione delle cause o nel
trattamento delle anomalie che sostengono la steatosi epatica. Neanche l'obesità ed il diabete mellito
sembrano condurre alla cirrosi in presenza di una steatosi epatica. Sebbene le epatotossine come l'alcol o il
tetracloruro di carbonio (che provoca anche una necrosi) possano, alla fine, causare una cirrosi, non ci sono
prove certe che la steatosi epatica di per sé conduca alla cirrosi. Si devono verificare anche altri eventi.
Il fegato grasso non alcolico di solito ha una buona prognosi, senza un'evoluzione istologica o clinica. In alcuni
casi, può mostrare un'accentuata fibrosi e un'evoluzione verso la cirrosi. Il trattamento include il calo
ponderale per i pazienti obesi, anche se questo non si è dimostrato particolarmente vantaggioso.
Quando viene riscontrata la voce steatosi epatica su una ecografia dell'addome superiore, è bene sapere
che con questo termine si intende un aumento del contenuto di grasso all'interno delle cellule del tessuto
epatico, avvenuto in seguito a un processo infiltrativo o degenerativo.
Questa condizione viene anche definita più semplicemente fegato grasso. Il grasso epatico rappresenta il 5%
del peso dell'organo; si parla di steatosi quando questa percentuale è superata a causa di un accumulo di
grasso all'interno delle cellule epatiche. La formazione di steatosi è legata al ruolo che il fegato ha nel
metabolismo dei grassi ed in particolare dei trigliceridi.
La steatosi si verifica quando la cellula epatica accumula trigliceridi in conseguenza di una aumentata
captazione di acidi grassi come accade in corso di diabete o in presenza di obesità, oppure in conseguenza di
un aumento della sintesi endogena di acidi grassi come si verifica in corso di insulino-resistenza.
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Un terzo meccanismo alla base dello sviluppo di steatosi è rappresentato da una ridotta eliminazione dei lipidi
da parte del fegato come accade in corso di malnutrizione, by-pass digiuno-ileale e diabete.
Inoltre, la steatosi epatica, in una percentuale variabile dal 8 al 20%, può evolvere verso processi infiammatori
e/o necrotici (“steatoepatite non alcolica” o NASH da “nonalcoholic steatohepatitis”) con eventuale fibrosi
progressiva (nel 10-50% dei casi) del fegato.
Le due situazioni vanno pertanto distinte, in quanto la steatosi “non infiammatoria” è reversibile con la
correzione dei fattori che l’hanno indotta; la steatoepatite per definizione, è complicata da uno stato
infiammatorio e fibrotico, simile, come quadro clinico ed anatomo-patologico, a quello dell'epatopatia alcolica e
può progredire verso la cirrosi (in circa il 10% dei pazienti in dieci anni).
I meccanismi all’origine del danno epatico in questa condizione sarebbero un’alterazione del metabolismo
degli acidi grassi indotta dall'insulina, l’ossidazione dei grassi o ancora un’anomala produzione di citochine,
note molecole mediatrici dell’infiammazione.
Una volta esclusa l’origine alcolica (che richiederebbe una trattazione a sé per la particolare tipologia e storia
naturale della malattia), nei non bevitori la steatosi epatica è più frequentemente causata da: sovrappeso ed
obesità, alto tasso di colesterolo e, soprattutto, di trigliceridi, nel sangue, diabete ed altre malattie metaboliche,
malattie virali (in particolare l’epatite C) e numerosi farmaci (es. estrogeni, corticosteroidi).
Molti casi di steatosi che si osservano nella pratica clinica
quotidiana riconoscono, comunque, come causa o co-fattore
un’alimentazione sbagliata. Il fegato, infatti, è una delle prime
vittime dell'alimentazione scorretta, andando incontro alla
steatosi a causa dei troppi grassi che l’organismo produce o che
vengono introdotti con la dieta; il fegato, così, non riuscendo a
smaltirli e a trasformarli in energia, è costretto ad accumularli.
L’alta prevalenza nella popolazione dei fattori di rischio sopra
menzionati spiega come la steatosi epatica sia una patologia in
aumento o comunque di osservazione sempre più frequente:
l'alimentazione, infatti, tende sempre più a peggiorare in quanto
si riducono i cibi salutari come verdura, legumi e frutta per
privilegiare quelli ricchi di grassi, elaborati e superconditi.
Abitudini, peraltro, spesso aggravate da uno stile di vita poco attivo, che impedisce lo smaltimento delle
sostanze energetiche introdotte con la dieta.
Diagnosi
La steatosi epatica non presenta sintomi o, comunque, non è associata a disturbi specifici, se non a volte un
vago senso di dolore, “fastidio” o pesantezza al di sotto dell’arcata costale dx o all’emiaddome alto di destra;
pertanto, molto frequentemente, il riscontro è casuale, in seguito ad esami del sangue eseguiti di routine o per
altri motivi. La steatosi epatica si caratterizza, infatti, per un modesto rialzo delle transaminasi (ALT e AST),
espressione biochimica del danno epatico, spesso associato ad un aumento concomitante delle gammaGT.
Il fegato può mostrarsi ingrandito alla palpazione; l'ecografia, esame semplice ed immediato, mostra un fegato
“brillante”, facilitando così una rapida diagnosi.
Nel caso di steatosi epatica, tali dati, associati ai fattori predisponenti sopra descritti, sono già sufficienti per la
diagnosi e per il conseguente approccio terapeutico (per esempio, in caso di steatosi secondaria a
sovrappeso od obesità, il calo ponderale graduale favorirà la risoluzione della steatosi e la normalizzazione
dei livelli di transaminasi).
Nel sospetto che ci sia anche un’infiammazione e/o fibrosi (“steatoepatite non alcolica”), in assenza di altre
cause di malattia epatica che la possano giustificare (es. un’epatite cronica da virus C oppure un abuso
alcolico, magari sottovalutato), per i motivi sopra citati di rischio di progressione, si renderà necessaria la
biopsia epatica. Questa servirà sia per la conferma diagnostica che per la valutazione prognostica (grado di
infiammazione e di fibrosi) della malattia epatica.
Terapia
Per quanto abbiamo detto, non esiste una terapia specifica per curare la steatosi del fegato. Essendo, infatti,
questa l’espressione di numerose malattie e, spesso del sovrappeso, la terapia deve essere rivolta alle cause.
In particolare, le misure da adottare sono l'eliminazione dell'alcol, una corretta alimentazione (mista, non
incentrata su grassi e carboidrati, ricca di frutta e verdura) che porti ad una riduzione del peso corporeo,
integrata con l'attività fisica o sportiva, dove possibile. Nel caso di steatosi secondaria a diabete o ad altre
patologie, la terapia sarà quella del diabete stesso o delle patologie primitive.
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Il Dr. G.I. Shulman dellaYale University sul ruolo della resistenza insulinica ed il fegato, ha descritto il ruolo
cruciale dell’accumulo di grasso epatico e muscolare nella patogenesi dell’insulina resistenza, iperglicemia, e
diabete associati all’obesità e all’invecchiamento.
È stato discusso uno studio recente che dimostra come nei pazienti obesi, la perdita di peso di appena 8 kg
sia sufficiente a pulire il fegato dai grassi, migliorare la sensibilità all’insulina e normalizzare il glucosio a
digiuno.
Un ulteriore supporto a questa strategia viene da uno studio israeliano che riporta come la perdita di peso,
basata su una dieta di 25 kcal/kg di peso corporeo ideale/giorno per 6 mesi, dà una significativa riduzione
della steatosi epatica (dal 60% al 30%) e della fibrosi in 48 pazienti con NAFLD primaria.
Alcuni pazienti ricevevano anche un inibitore della lipasi pancreatica, sebbene non sembri ci fossero benefici
aggiuntivi dall’uso di questo farmaco.
Shulman ha anche fatto riferimento a studi su diabetici che mostrano una riduzione del grasso epatico
seguente al trattamento con tiazolidinedione, rosiglitazone, ed anche a studi pilota (non-randomizzati, noncontrollati) in pazienti con NASH sia con rosiglitazone e pioglitazone, che mostrano riduzione della steatosi
epatica, della necro-infiammazione, e fibrosi.
Chiaramente, dati di larghi studi randomizzati e controllati di questi farmaci in pazienti con NAFLD sono
necessari prima che essi possano essere raccomandati di routine per il trattamento di soggetti non-diabetici
con NAFLD.
Consigli pratici:
Ecco come si può tenere sotto controllo il "fegato grasso":
1. evitare gli alcolici ed i grassi animali (burro e grasso della carne);
2. ridurre l’apporto calorico nella dieta, fino a eliminare l’eventuale sovrappeso;
3. prevenire qualsiasi rischio di virus-epatite : vaccinazione contro l’epatite B ed evitare contagio da
conviventi malati o portatori-sani dell’epatite-C, anche eliminando l’uso promiscuo di rasoi e altri
oggetti di toilette;
4. attenzione ai farmaci, dei quali non si può mai prevedere la tolleranza in questi soggetti: meglio
limitarsi ai farmaci abituali, di cui si conosca l’innocuità nel caso specifico, e in dose minima efficace
soprattutto per gli antibiotici e perfino per alcuni fitofarmaci;
5. fare esercizio fisico ogni giorno (esempio 3-7 km a passo veloce);
6. curare le malattie metaboliche associate, specie il diabete e l’aumento dei trigliceridi;
La steatosi epatica (o fegato grasso) è una patologia cellulare legata all'accumulo intracellulare di trigliceridi
(steatosi) a livello del tessuto epatico che comporta una serie di danni fino alla necrosi della cellula.
Il fegato è particolarmente sensibile ai processi steatosici per essere un organo chiave nel metabolismo dei
lipidi, responsabile dell'inattivazione di numerose sostanze tossiche e la cui circolazione è prevalentemente
venosa (quindi costantemente vicino ad una situazione d’ipossia).
Tipologie
Le steatosi epatiche possono essere classificate in base all'eziologia in steatosi da aumentato apporto di
grassi, steatosi da ridotto smaltimento di grassi e steatosi da aumentata sintesi endogena di grassi.

Steatosi da aumentato apporto di grassi: steatosi la cui causa risiede in una dieta iperlipidica o in
un'aumentata mobilizzazione dei NEFA. Quest'ultima a sua volta può essere causata da molteplici
fattori tra cui stress, ormoni, caffeina e digiuno prolungato (in questo caso si ha un quadro reversibile)
o da altre patologie come diabete mellito e glicogenosi di tipo I (entrambe le patologie sono
caratterizzate da un deficit insulinico con conseguente aumento della lipolisi e quindi dei NEFA
circolanti; si tratta di un quadro irreversibile).
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
Steatosi da ridotto smaltimento di grassi: steatosi la cui causa può essere una dieta ipoproteica,
una diminuita sintesi di apolipoproteine (ad esempio per avvelenamento da tetracloruro di carbonio,
aflotossina B1 o puromicina), deficit di colina, deficit di vitamina B12, eccesso di vitamina PP o
ipossia.

Steatosi da aumentata sintesi: steatosi dovute ad un accumulo di lipidi di sintesi endogena a partire
da acetato. Esempi clinicamente importanti sono le steatosi provocate da barbiturici (in grado di
stimolare la sintesi di acidi grassi a partire da acetil-CoA) e quelle da abuso di alcool (l'etanolo viene
infatti metabolizzato ad acetaldeide prima e ad acetato poi).
Steatosi Epatica Alcolica
L'alcool (etanolo) ha svariati effetti sul nostro organismo (ad esempio a livello del sistema nervoso centrale
deprime i centri inibitori, mentre a livello gastrico ha un potente effetto infiammatorio), ma i peggiori sono quelli
a livello epatico. Nel fegato l'etanolo viene metabolizzato ad acetaldeide seguendo tre possibili vie:

Nei perossisomi viene metabolizzato dalle catalasi con produzione di una molecola di acqua. Si tratta
di una reazione dannosa in quanto comporta la produzione di specie reattive dell'ossigeno (radicali
liberi).

Nel citoplasma viene metabolizzato dall'enzima alcool deidrogenasi (ADH). Si tratta di una reazione di
ossidazione che comporta la riduzione di una molecola di NAD+ a NADH. Quest'aspetto non va
sottovalutato perché il NADH prodotto andrà a favorire la reazione che permette di passare dal
diossiacetone-3-fosfato (DOAP) al glicerolo-3-fosfato (G3P) che infine contribuirà alla sintesi di
trigliceridi andando indirettamente a favorire la steatosi.

In misura maggiore l'etanolo viene metabolizzato dal Drug Metabolysing System a livello
microsomiale: il citocromo P450 catalizza la reazione di ossidazione dell'etanolo riducendo il proprio
ione di ferro (che verrà poi riossidato per poter essere nuovamente riutilizzato). Occorre notare che
questo particolare meccanismo, noto anche come MEOS, è un sistema inducibile quindi il numero
degli enzimi presenti nel caso di un etilista cronico sarà molto elevato e l'etanolo verrà convertito ad
acetaldeide molto più velocemente.
L'acetaldeide è una molecola estremamente tossica per il nostro organismo e può seguire varie strade
metaboliche:

A livello mitocondriale può essere metabolizzata dall'enzima acetaldeidedeidrogenasi ad acetato.
Si tratta di un'altra reazione di ossidazione che comporta la produzione di un'altra molecola di NADH
con le conseguenze prima descritte.
L'acetato così prodotto è la causa primaria dello sviluppo della steatosi di origine alcolica.

L'acetaldeide non metabolizzata favorisce la lipoperossidazione, una reazione molto pericolosa in
quanto può provocare danni a livello di vari organelli cellulari (come mitocondri e RER) e alla
membrana cellulare (tra le cui componenti principali troviamo i fosfolipidi). Dal punto di vista della
steatosi i danni ai mitocondri possono rallentare la β-ossidazione contribuendo in questo modo
all'accumulo di lipidi intracellulare (e quindi alla steatosi), mentre i danni al RER provocano una
diminuzione della sintesi proteica, ivi compresa la sintesi delle apolipoproteine.

Un ulteriore effetto tossico dell'acetaldeide è quello di consumare gli antiossidanti a livello epatico,
causando la deplezione di glutatione e SAM (S-adenosil-metionina). L'acetaldeide inibisce MAT
(metionin-adenosin-transferasi) responsabile della sintesi di SAM a partire dalla metionina e
indirettamente del glutatione stesso (infatti il glutatione si ottiene a partire dalla metionina con una
lunga serie di reazioni).
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
Tutto questo ha principalmente due effetti:
1. La diminuzione del glutatione è sinonimo di minore difesa verso i radicali liberi e quindi un
maggior rischio di danno cellulare, di mutazione e indirettamente di insorgenza di un tumore.
2. La deplezione di SAM comporta un’ipometilazione degli acidi nucleici della cellula e questo
potrebbe essere correlabile con una maggiore probabilità di cancerogenesi.

Infine l'acetaldeide ha anche la capacità di formare addotti proteici e lipidici, cosa che stimola la
risposta linfocitaria e macrofagica del nostro organismo con conseguente produzione di citochine e
specie reattive dell'ossigeno e quindi flogosi.
Nel caso dell'etilista cronico si tratterà chiaramente di un'infiammazione cronica con conseguente
stimolazione di collagenosintesi e proliferazione di cellule stellate, primo passo verso l'evoluzione
cirrotica e la compromissione dell'organo.

Steatosi epatica non alcolica (NAS)
Presente negli obesi con un'incidenza del 57-74% e spesso associata al diabete di tipo II.
All'ecografia molti soggetti presentano segni di steatosi epatica senza manifestazioni cliniche evidenti. I
soggetti diabetici insulino-resistenti presentano una spiccata attività lipolitica, cui corrisponde un sovraccarico
della β-ossidazione e quindi un contributo alla steatosi.
L'eccesso di acidi grassi comporta la loro lipoperossidazione che può innescare un processo infiammatorio
cronico (steatoepatite) che termina con l'evoluzione cirrotica e la compromissione dell'organo.
In sintesi
Che cos’è il Fegato Grasso
Il fegato grasso è l’accumulazione di grasso nelle cellule del fegato. Il semplice Fegato Grasso, diagnosticato
di solito con l’ecografia epatica, non è una malattia, poiché non danneggia il fegato, ma è una condizione che
può essere identificata con l’ecografia epatica e, se necessario, attraverso il prelievo di un campione di
tessuto epatico (biopsia epatica) che viene esaminato al microscopio. Un altro termine usato per descrivere
questa condizione è infiltrazione grassa del fegato.
Quali sono le cause del fegato grasso ?
L’accumulo di grasso nel fegato è generalmente in connessione con l’uso eccessivo di alcool, con l’aumento
eccessivo di peso o malattie metaboliche, come il diabete mellito. Il fegato grasso puo’ anche insorgere in
seguito ad una dieta povera di nutrienti o alcune malattie, come la tubercolosi, l’operazione chirurgica di bypass intestinale per l’obesità, e certi farmaci come i farmaci anti-estrogeni utilizzati nelle donne operate di
tumore al seno (es. tamoxifene) o altri farmaci, tra cui anche i corticosteroidi.
Come viene identificato il fegato grasso ?
Un fegato grasso è in genere sospettato in un paziente con le malattie o le condizioni sopra descritte.
Il paziente può avere un fegato ingrossato o un minor innalzamento degli esami degli enzimi epatici (le famose
transaminasi). Diversi studi dimostrano che il fegato grasso è una delle cause più comuni di lieve
innalzamento degli enzimi epatici (ipertransaminasemia) riscontrabile durante i prelievi di sangue occasionali
fatti di routine.
L’ecografia epatica o la TAC o la risonanza magnetica sono in grado di fare diagnosi di steatosi epatica.
Con l’ecografia epatica è tipica l’immagine di un fegato iperriflettente, cioè piu’ grigio chiaro, sulla scala dei
grigi, denominato anche “fegato brillante”.
Nel caso in cui la steatosi permanga nonostante i tentativi di cura e gli enzimi epatici rimangano
persistentemente alterati, oggi si pone l’indicazione anche alla biopsia epatica, per dimostrare se esiste anche
un’infiammazione, oltre all’accumulo di grasso, cioè la steatoepatite, che nel 15% dei casi puo’ evolvere verso
la cirrosi ed il tumore del fegato.
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Come può il grasso entrare nel fegato ?
Non è ancora certo come avvenga l’accumulo di grasso nel fegato. Una recente teoria corredata da prove
sperimentali per lo piu’ sull’animale sembra aver dimostrato che il meccanismo per cui il grasso si accumula
nelle cellule del fegato passa, sia nel caso che la causa sia l’alcool (Steatosi epatica Alcolica o AFLD) che nel
caso in cui la causa sia l’alimentazione e l’obesità (Steatosi epatica Non-alcolica o NAFLD) o i farmaci,
sempre attraverso le stesse vie biochimiche-metaboliche.
Un paziente ha un fegato grasso quando il grasso supera il peso del fegato del 5%. Una possibile spiegazione
del fegato grasso include il trasferimento del grasso da altre parti del corpo, o un incremento dell’estrazione di
grasso presente nel fegato dall’intestino.
Altre spiegazioni sono che il fegato riduce la quota di grasso che esso degrada e rimuove. Mangiando del cibo
grasso in se stesso non si produce comunque un fegato grasso, occorrono altri fattori, tra cui anche una
predisposizione genetica.
Può il fegato grasso condurre ad altre malattie del fegato ?
Un semplice fegato grasso non è associato con una qualsiasi altra anomalia del fegato come la
cicatrizzazione o l’infiammazione. E’ un comune ritrovamento in pazienti che sono molto in sovrappeso o sono
affetti da diabete mellito. Pazienti che bevono troppo alcool per molti anni possono sviluppare un danno
alcolico al fegato che include il fegato grasso.
L’alcolismo può anche dare origine ad un’infiammazione del fegato (Epatite Alcoolica) e/o cicatrizzazione
(Cirrosi alcolica). Vari esperimenti suggeriscono che mentre il fegato grasso è generalmente presente in
pazienti con eccessiva assunzione di alcool, il fegato grasso non conduce di per sè a sviluppare un’Epatite
Alcolica o una Cirrosi Alcolica.
Un’infiammazione del fegato associata ad un’incremento del deposito di grasso può essere presente anche in
soggetti astemi, solitamente obesi, e spesso nei pazienti diabetici.
Questa malattia, che assomiglia all’Epatite Alcolica, è chiamata Steatoepatite-Non-alcoolica (NASH).
Questo tessuto grasso nel fegato può andare incontro a morte cellulare (Steatonecrosi) ed il paziente può
sviluppare la Cirrosi (Cicatrizzazione del fegato).
Alcuni studi hanno mostrato che dal 20% al 40% delle persone obese svilupperanno la NASH. Comunque,
solo perché un paziente è obeso non significa che svilupperà la NASH.
Alcuni ricercatori hanno messo in relazione lo sviluppo della NASH con uno scarso controllo del diabete
mellito, una rapida perdita di peso, o nelle donne, l’assunzione di ormoni (estrogeni).
Può essere curato il fegato grasso ?
Il trattamento del fegato grasso è in rapporto alla causa.
E’ importante ricordare che un semplice fegato grasso non richiede trattamento, poiché non risulta
danneggiare le cellule epatiche o portare ad una vera e propria malattia clinicamente evidente.
Pazienti obesi con fegato grasso avranno una riduzione o la perdita di eccesso di grasso nelle cellule
epatiche, cosi come in altre cellule del corpo, se dimagriscono e perdono peso.
Pazienti che bevono alcool in eccesso avranno anch’essi una perdita di grasso nel fegato quando cesseranno
di bere l’alcool.
Un buon controllo del diabete mellito con la dieta, con i farmaci, o con l’insulina fa calare il contenuto del
grasso nel fegato.
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STEATOEPATITE NON ALCOLICA (O NASH)
Che cos’è la Steatoepatite Non-alcoolica ?
La Steatoepatite Non-alcoolica (NASH) è descritta come un’infiammazione del fegato associata con
l’accumulazione del grasso nel fegato. Non è in relazione con altre cause di malattia cronica del fegato, che
includono l’Epatite da virus B e C, i disordini autoimmuni, l’alcool, tossicità da farmaci e l’accumulo di rame
(malattia di Wilson) o di ferro (emocromatosi). Differisce dal semplice accumulo di grasso nel fegato (chiamato
fegato grasso o Steatosi Epatica) per il fatto che la progressione della malattia causa un danno alle cellule del
fegato mentre il fegato grasso non lo fà. Poiché è stata riconosciuta in principio come un’entità specifica nel
1980, la NASH venne anche chiamata Epatite grassa del fegato, Malattia di Laennec nonalcoolica,
steatonecrosi, Epatite diabetica ed oggi giustamente NASH
Quali sono le cause della Steatoepatite Non-alcoolica ?
Non c’è una causa specifica nota di NASH. Nel passato, il tipico paziente NASH era descritto come una
persona di mezza età, preferenzialmente donna, obesa, con diabete mellito. In aggiunta il paziente può avere
avuto un eccesso di grassi nel sangue (iperlipoproteinemia, ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia), e può
avere avuto altri problemi correlati con quella che oggi viene chiamata “sindrome metabolica” (ipertensione
arteriosa, malattie cardiovascolari, etc.) Recentemente è stato riportato di pazienti con NASH che non sempre
corrispondono a questa descrizione. Uno studio includeva uomini come anche donne che non erano in
sovrappeso, non sofferenti di diabete mellito e che non hanno avuto un eccesso di lipidi nel loro sangue. Un
altro gruppo diagnosticato con NASH erano bambini tra i nove e i sedici anni di età. La maggior parte dei
bambini era sovrappeso, ma solo due su trenta aveva il diabete mellito.
Pure incerto è se l’accumulo di grasso nel fegato sia la causa dell’infiammazione o se ci siano altre ragioni che
causano l’epatite. Le ricerche in questo campo si stanno sviluppando moltissimo in questi ultimi anni.
Come viene diagnosticata la Steatoepatite Non-alcoolica ?
Molti pazienti con NASH sono inconsapevoli della loro condizione perché non mostrano nessun sintomo.
Nel diagnosticare la NASH, il medico eliminerà prima le altre possibili cause di una malattia cronica del fegato.
La diagnosi deve essere confermata da una biopsia epatica, una procedura dove il medico inserisce un ago
entro il fegato, solitamente sotto controllo ecografico, ed estrae un campione di tessuto che viene esaminato
sotto le lenti del microscopio.
Qual’è la storia naturale di NASH ?
Precedentemente, i medici credevano che la NASH fosse un disordine benigno che non progredisse o si
sviluppasse lentamente. Recenti studi e l’esperienza di epatologi in tutto il mondo indica invece che la NASH
può dare origine nel tempo alla presenza di tessuto fibroso del fegato nel 40% dei pazienti o addirittura a
Cirrosi nel 10-15% dei pazienti. Le ragioni non sono note e, a tutt’oggi, molti studi sono in corso per cercare di
capire perché alcuni pazienti affetti da NASH progrediscono in questa seria forma cronica di malattia del
fegato mentre altri no.
Come viene trattata la NASH ?
Attualmente uno specifico trattamento per la NASH, universalmente convenuto, non esiste. Comunque, ai
soggetti obesi, diabetici e con alte concentrazioni di grassi nel sangue, si raccomanda il calo ponderale ed il
controllo del loro diabete e delle elevate concentrazioni lipidiche.
Generalmente viene raccomandata una dieta ipocalorica, ipolipidica (cioè bassa in grassi e calorie) assieme a
farmaci in grado di abbassare lo zucchero del sangue (ipoglicemizzanti orali) o insulina. Per i pazienti con
NASH che non sono in soprappeso e non sono diabetici, una dieta leggera è spesso ugualmente
raccomandata.
Vari farmaci tra cui, alcuni probiotici, gli ipoglicemizzanti orali d’ultima generazione, gli acidi grassi
omega-3, sono in corso di sperimentazione, in studi clinici controllati in varie parti del mondo, per
poter sviluppare terapie sempre più efficaci.
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La Sindrome Metabolica
Per sindrome metabolica (detta anche sindrome X, sindrome da insulino-resistenza, CHAOS o sindrome di
Reaven) s’ intende, in ambito medico, una situazione clinica ad alto rischio cardiovascolare che comprende
una serie di fattori di rischio e di sintomi che si manifestano contemporaneamente nell'individuo. Questi sono
spesso correlati allo stile di vita della persona (peso eccessivo, vita sedentaria) o a situazioni patologiche
preesistenti (obesità, ipercolesterolemia - presenza di un elevato tasso di colesterolo nel sangue - ecc.).
Colpisce un'elevata percentuale della popolazione a livello mondiale, principalmente d'età avanzata.
Gli studi svolti confermano che gli individui colpiti dalla sindrome metabolica, che non cambiano drasticamente
il proprio stile di vita, hanno un elevato tasso di mortalità legato a problemi cardiovascolari.
Storia
Il termine sindrome metabolica sembra risalire agli anni cinquanta, ma è divenuto di uso comune a partire dal
1970; tuttavia già nei primi anni venti erano stati constatati i legami presenti tra i fattori di rischio ed il diabete.
Il medico marsigliese Jean Vague, nel 1947, aveva fatto un'interessante scoperta sulle persone affette da
obesità: aveva notato che esse erano predisposte al diabete, aterosclerosi, gozzo (ingrossamento della
tiroide) e calcolosi urinaria.
Nella seconda metà degli anni sessanta Avogaro e Crepaldi con i loro collaboratori descrissero sei pazienti
che presentavano moderati segni di obesità, ipercolesterolemia ed una marcata ipertriglicemia; tali segni
migliorarono con una dieta ipocalorica povera di carboidrati.
Nel 1977 Haller usò il termine "sindrome metabolica" per intendere un'associazione di obesità, diabete mellito
e steatosi epatica, descrivendo in aggiunta i fattori di rischio dell'arterosclerosi. Nello stesso anno Singer usò il
termine per indicare una concomitanza di sintomi quali: obesità, gozzo, diabete mellito, ipertensione arteriosa.
Nel 1977-78 Gerald B. Phillips mise in discussione la tesi secondo cui i fattori di rischio all'origine dell'infarto
del miocardio concorrano a formare una «costellazione di anormalità» e che questi non solo erano associate a
malattie del cuore ma anche con obesità de altri fattori clinici, la cui identificazione avrebbe potuto prevenire le
malattie cardiovascolari. Phillips ipotizzava che tale fattore avesse strette correlazioni con gli ormoni sessuali.
Il nome della sindrome
Nel 1988 Gerald M. Reaven ha definito sindrome X la manifestazione simultanea di: insulino-resistenza,
iperinsulinemia, stati pre-diabetici o diabete mellito di tipo 2 conclamato, dislipidemia, obesità centrale,
iperuricemia (una concentrazione alta di acido urico nel sangue), ed ipertensione arteriosa, considerandola
una condizione clinica che precede lo sviluppo di complicanze vascolari. Ad essa si associa un'aumentata
incidenza di cardiopatia ischemica, disfunzioni del ventricolo sinistro e scompenso cardiaco. Tutto ciò
comporta un forte incremento del rischio di mortalità per cause cardiovascolari.
Tale sindrome era conosciuta anche con il nome di Sindrome di Reaven, in suo onore.
Le stesse patologie cardiovascolari inducono, a loro volta, insulino-resistenza ed aumentano la probabilità che
si sviluppi nel tempo un diabete mellito di tipo 2.
La sindrome X è stata definita anche sindrome da insulino-resistenza e successivamente sindrome metabolica
cardiovascolare.
Attualmente la sindrome è stata rinominata plurimetabolica e comprende l'associazione di: insulino-resistenza,
iperinsulinemia, obesità centrale, intolleranza glucidica o diabete mellito di tipo 2, iperuricemia, dislipidemia e
ipertensione arteriosa.
Su quasi tutti i testi è ancora comune trovare la dicitura di sindrome metabolica, mentre in Australia tale
sindrome è conosciuta con il nome di CHAOS.
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Criteri per l'identificazione
Nel 2005 l' International Diabetes Federation ha rivisto i criteri diagnostici, proponendo come metodo per
identificare la patologia la presenza nello stesso paziente di 2 dei seguenti disordini:




Glicemia a digiuno: oltre 100 mg/dl stadio IFG;
Ipertensione arteriosa: oltre i 130/85 mm Hg o terapia ipotensivante;
Ipertrigliceridemia: oltre i 150 mg/dl;
Ridotto colesterolo HDL: 40 mg/dl nei maschi, 50 mg/dl nelle femmine o terapia ipolipemizzante,
associati a una circonferenza vita oltre i 94 cm nei maschi, 80 cm nelle femmine per i pazienti di etnia
Europide (i parametri variano in base al gruppo etnico d’appartenenza).
A questi si aggiunge un importante fattore di rischio, l'età, che è determinante a partire dai 45 anni negli
uomini e dai 55 nelle donne.
Epidemiologia
Le differenti definizioni della sindrome hanno determinato la rilevazione di una serie di valori di prevalenza
nella popolazione, variabili dallo 0,8 al 35,3%.
Molti studi epidemiologici infatti hanno valutato i vari aspetti della sindrome metabolica valutandoli
singolarmente, e solo alcuni di essi l'hanno considerata come un "cluster" (termine di derivazione inglese
usato in campo scientifico per indicare un gruppo) di fattori di rischio e, in quanto tale, ne hanno stimato la
prevalenza nella popolazione generale.
Ciò rende ragione dell'ampio range di prevalenza dei valori che vengono riportati nella letteratura medica.
Studi svolti
Secondo i dati di uno studio prospettico randomizzato di un campione tratto dalla popolazione di Brunico,
comune della Provincia di Bolzano, con età superiore a 40 anni, circa il 19% degli Italiani non diabetici di età
superiore ai 45 anni potrebbe essere affetto da sindrome metabolica. Inoltre risulta che il soggetto non
diabetico affetto da tale stato morboso non si differenzia in maniera sensibile da chi non ha la sindrome per
quel che riguarda sesso, colesterolo-LDL e fumo, cioè 3 dei 5 fattori classici di rischio cardiovascolare (gli altri
2 sono età e pressione arteriosa).
Chi invece è affetto da sindrome ha un indice di massa corporea, ovvero il rapporto tra massa e altezza di un
individuo con il quale si rileva il proprio peso forma, molto maggiore mentre minore è l'esercizio fisico svolto.
Ad oggi abbiamo risposte certe circa la corrispondenza di esiti clinici infausti con la sindrome metabolica così
individuata.
Nel primo studio prospettico, condotto in Finlandia, un campione di individui di sesso maschile di età media al
di sotto della quinta decade manifestava, nelle persone affette da tale patologia, secondo i criteri individuati in
accordo con un'organizzazione mondiale della salute (NCEP-ATP III) un rischio di mortalità totale e
cardiovascolare entro i 10 anni più di 3 volte superiore di chi non era affetto da tale malattia.
A questo primo studio sono seguiti almeno altre quattro ricerche su campioni della popolazione generale, in
cui erano rappresentati entrambi i sessi. Di comune accordo la comunità medica ha riportato che la sindrome
costituisce un fattore di rischio indipendente per quel che riguarda la morbilità e la mortalità cardiovascolare.
Sembra inoltre emergere che in termini proporzionali, ma non assoluti, la sindrome conferisca un rischio molto
maggiore alle donne che agli uomini.
In Italia
In Italia, la sindrome metabolica interessa circa il 25% degli uomini e addirittura il 27% delle donne.
Sono dei numeri altissimi, che equivalgono a circa 14 milioni di individui.
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Eziologia
Il circolo vizioso dell'insulino resistenza.
Secondo le ultime analisi l'insulino-resistenza riveste un ruolo centrale nella genesi della sindrome.
L'iperinsulinemia, suo derivato, è risultata un fattore di rischio indipendente per la cardiopatia ischemica;
contribuisce all'esordio precoce del diabete, nonché alla sua progressione, e concorre alla comparsa delle
numerose altre condizioni patologiche associate che si traducono in fattori di rischio cardiovascolare.
Definizione
Per insulino-resistenza si intende una condizione nella quale le quantità fisiologiche di insulina producono una
risposta biologica ridotta, cioè una riduzione dell'azione precoce dell'insulina sul controllo glucidico dopo il
pasto; ad esso è associata un'inadeguata soppressione insulinica durante il digiuno notturno, in presenza di
una sintesi conservata. Ne segue un'alternanza tra insulino-resistenza e iperinsulinemia, verificabile con il
riscontro di elevate concentrazioni insuliniche a digiuno e dopo i pasti.
Una ridotta soppressione dell'insulina durante il digiuno notturno si verifica anche in caso di iperinsulinemia e
non è necessariamente associata ad insulino-resistenza. L'insulino-resistenza, peraltro, non è sempre
associata all'iperglicemia e non è dunque prerogativa esclusiva dei pazienti diabetici. La dimostrazione del
ruolo fondamentale dell'insulino-resistenza e dell'iperinsulinemia nel determinare le patologie cardiovascolari è
documentata dagli studi clinici.
Studi effettuati
Nello studio di Despres sono stati valutati alcuni parametri dalle analisi del sangue relativi al profilo lipidico
(colesterolo totale, colesterolo HDL, trigliceridi, valori plasmatici di apolipoproteina B) e glucidico (valori
ematici di insulina a digiuno) di 2.103 soggetti di sesso maschile, di età compresa fra 45 e 76 anni, presi a
campione della popolazione del Québec.
L'analisi fu eseguita a partire dal1973, lungo un periodo di cinque anni, per determinare l'associazione tra
fattori di rischio cardiovascolare e cardiopatia ischemica nel corso di una lunga indagine.
Durante lo studio è stata osservata un'insulinemia a digiuno decisamente più elevata (p < 0,001) nei pazienti
in cui sono stati registrati eventi ischemici.
L'associazione iperinsulinemia-cardiopatia aterosclerotica ha mantenuto questo tasso elevato anche dopo una
correzione dei livelli di trigliceridi, apolipoproteina B, colesterolo LDL e colesterolo HDL.
Perciò le elevate concentrazioni plasmatiche d’insulina in soggetti non diabetici, e quindi classificabili come
"insulino-resistenti", erano associate a un incremento della cardiopatia ischemica indipendentemente dal
profilo lipidico (benché un'alterazione di quest'ultimo in senso pro-aterogeno abbia un effetto sinergico
l'iperinsulinemia).
Altri autori, fra cui Lehto et al., hanno valutato l'associazione tra i valori di insulinemia a digiuno, l'eventuale
presenza contemporanea di altri fattori di rischio cardiovascolare e il rischio di morte per cardiopatia ischemica
in 510 pazienti affetti da diabete di tipo 2 (253 uomini e 257 donne).
Nei soggetti di sesso maschile si è riscontrato un aumento significativo in termini statistici della mortalità per
cause cardiovascolari se i valori di insulinemia erano superiori ai 140 pmol/l (p = 0,006); la stessa
associazione non ha evidenziato però alcuna rilevanza statistica nelle donne (p = 0,090).
Il valore predittivo dell'iperinsulinemia riguardo alla morte per cardiopatia ischemica è risultato indipendente
dai convenzionali fattori di rischio cardiovascolare, ma non da quei fattori di rischio legati alla condizione
patologica di insulino-resistenza/iperinsulinemia (obesità centrale, ipertrigliceridemia, ipocolesterolemia HDL),
che sembrano piuttosto potenziarlo.
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Oltre al ruolo svolto nel metabolismo glucidico, l'insulina contribuisce alla regolazione del metabolismo lipidico
e proteico e della pressione arteriosa, interferendo con la funzione piastrinica e con l'equilibrio tra fattori
protrombotici e modulatori della fibrinolisi endogena.
Regola inoltre gli stimoli proliferativi sulle cellule muscolari lisce della parete vascolare e influenza la funzione
endoteliale: tutto ciò spiega il possibile ruolo che l'insulino-resistenza esercita nel determinismo della sindrome
metabolica.
Non sono ancora noti né i meccanismi con cui si instaura l'insulino-resistenza né i siti di interazione insulinasuperficie cellulare-comparto intracellulare, nei quali la catena di segnali prodotti dall'ormone si interrompe,
impedendo un adeguato utilizzo del glucosio circolante.
L'insulino-resistenza si sviluppa quasi sicuramente molto prima della sindrome metabolica e di altre patologie
cliniche più avanzate, come lo stesso diabete mellito di tipo 2 e l'arterosclerosi, apparendo in tutti i contesti
come una realtà multifattoriale sia in merito alla genesi che ai danni potenziali.
Stati pre-diabetici ed intolleranza glucidica
Gli stati pre-diabetici ed il diabete mellito di tipo 2 conclamato sono essi stessi fattori di rischio cardiovascolare
annoverati nell'ambito della sindrome metabolica. I pazienti con alterata tolleranza glucidica o con iperglicemia
a digiuno mostrano le caratteristiche cliniche della sindrome da insulino-resistenza, con un rischio relativo di
sviluppare complicanze macrovascolari (e in particolare cardiopatia ischemica) di due-tre volte superiore a
quello di soggetti sani di pari età.
Cause di morte
Nei pazienti diabetici la patologia cardiovascolare e cerebrovascolare è responsabile del 65% dei decessi e di
questo 65%, il 40% è imputabile a cardiopatia ischemica, il 15% ad altre forme di cardiopatia e il 10% ad
eventi cerebrovascolari.
Obesità
Si definisce obeso un individuo la cui massa di tessuto adiposo sia eccessiva per la sua struttura corporea,
costituisce, da solo, un fattore di rischio per la salute in genere.
L'ingrandimento della cellula adiposa vede attivare una complessa risposta cellulare. Un ruolo primario è
esercitato dalle adipochine (le molecole proteiche citochine, o molecole simil-citochiniche), la cui regolazione
nell'adipocita risente della dimensione delle riserve energetiche cellulari.
Fra esse, troviamo:


Leptina, questo ormone, secreto dagli adipociti ha la caratteristica di inviare un segnale di sazietà
all'ipotalamo, tale sensazione si diffonde a tutto l'individuo.
Viene prodotto in base alla dimensione della cellula adiposa allo scopo di scongiurare l'incremento di
volume cellulare. Esercita molteplici effetti favorevoli su dimensioni e distribuzione del tessuto
adiposo, sulla fertilità femminile e regola alcuni processi infiammatori;

TNF-alfa, (dove TNF è un acronimo di Tumour Necrosis Factor, fattore di necrosi tumorale) che viene
prodotto dagli adipociti nelle condizioni di insulino-resistenza e di ipertrofia della cellula adiposa,
provoca insulino-resistenza, questo perché altera la trasmissione del segnale insulinico mediante la
repressione dell'espressione del genere di IRS1, uno dei fattori post-recettoriali responsabili
dell'effetto intracellulare dell'insulina.

Interleuchina-6, una molecola che induce la sensazione di stanchezza, che viene prodotta e rilasciata
dal tessuto adiposo in quantità biologicamente significative; se ne riscontrano aumenti nell'obesità e
negli stati di insulino-resistenza epatica, provocando l'attivazione di processi infiammatori;
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
Adiponectina, che viene prodotta e rilasciata dal tessuto adiposo in quantità biologicamente
significative; l'espressione è inibita negli adipociti nelle condizioni di insulino-resistenza e di ipertrofia
della cellula adiposa; ha azione diretta insulino-sensibilizzante sul fegato, è inversamente correlata
all'insulino-sensibilità periferica e svolge azione anti-infiammatoria in antagonismo diretto rispetto a
TNF-alfa e interleuchina-6.

Le adipocitochine, sono delle proteine "messaggere" di segnali importanti per i meccanismi
dell'infiammazione.
Alterazioni del metabolismo lipidico
Le alterazioni del profilo lipidico che caratterizzano la sindrome metabolica sono verosimilmente secondarie
all'insulino-resistenza, che modifica la fisiologica soppressione del rilascio di acidi grassi da parte del tessuto
adiposo nella fase post-prandiale. La maggiore disponibilità di precursori condiziona un aumento della sintesi
di C-LDL da parte del fegato e una maggiore disponibilità di trigliceridi nella circolazione sistemica.
L'insulino-resistenza si associa ad una ridotta attività delle lipoproteinlipasi di origine endoteliale che, in
condizioni fisiologiche, contribuiscono alla sottrazione di trigliceridi dal flusso circolatorio e all'utilizzo dei
prodotti del loro catabolismo come fonte energetica da parte dell'apparato muscolo-scheletrico. Anche le LDL
sono più ricche di trigliceridi e assumono l'aspetto di particelle più piccole e dense di quelle presenti nei
soggetti con normale sensibilità all'insulina, manifestando una maggiore aterogenicità.

Con il termine catabolismo s'intende l'insieme dei processi di eliminazione che hanno come prodotti
finali sostanze più semplici e povere di energia, liberando quella in eccesso sotto forma di energia
chimica ed energia termica.
Le modificazioni indotte dall'insulino-resistenza sul metabolismo lipidico favoriscono lo sviluppo di obesità, che
nei pazienti con sindrome metabolica assume un aspetto centrale con distribuzione viscerale dell'adipe
soprattutto a carico dell'addome (Borsa omentale e sottocutaneo).
L'insulino-resistenza modifica l'equilibrio tra fattori protrombotici e regolatori della fibrinolisi endogena a favore
dei primi, contribuendo anche attraverso questo meccanismo all'aterosclerosi precoce e all'instabilità delle
placche ateromasiche.
L'iperinsulinemia e un'eventuale iperglicemia agiscono in modo sinergico con l'insulino-resistenza nel favorire
una generica condizione di "trombofilia". Tra le anomalie più comuni del sistema emocoagulativo si segnalano
l'iperattività piastrinica, l'incremento dei livelli plasmatici di alcuni precursori trombinici così come della stessa
trombina e del D-dimero, e infine l'aumento di alcuni inibitori fisiologici della fibrinolisi come l'inibitore
dell'attivatore del plasminogeno-1 e l'inibitore trombin-attivabile della fibrinolisi.

Per trombofilia si intende una malattia ematologica, dovuta ad una coagulazione eccessiva del
sangue, sviluppando di conseguenza trombosi ed embolie, sia venose che arteriose.
A tutto questo si associa un'importante disfunzione endoteliale che si esprime principalmente con una
riduzione dei vasodilatatori fisiologici (ossido nitrico, prostacicline) e con un aumento dei fattori ad azione proaggregante e vasocostrittrice (endotelina-1).
Ipertensione arteriosa
L'ipertensione arteriosa è una delle componenti cliniche costanti nella sindrome metabolica. Nel diabete
mellito può essere una condizione clinica associata che si comporta come un ulteriore fattore di rischio
cardiovascolare, o la conseguenza della nefropatia diabetica, la quale esordisce con la microalbuminuria e
progredisce successivamente verso la sindrome nefrosica e l'insufficienza renale cronica.

Si definisce nefropatia diabetica l'insieme di alterazioni che coinvolgono il rene.
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L'insulino-resistenza come causa dell'ipertensione arteriosa
Valori tensione arteriosa
Diastolica
< 80
Ottimale
< 85
Normale
85-89
Moderata
> 89
Primo stadio
d’ipertensione
Sistolica
< 120
Ottimale
< 130
Normale
130-139
Medio - Elevata
> 139
Primo stadio
d’ipertensione
Il ruolo dell'insulino-resistenza nella genesi dell'ipertensione arteriosa è documentato dall'osservazione che, in
assenza di diabete mellito noto o clinicamente evidente, un'insulino-resistenza e un'iperinsulinemia sono state
rilevate in oltre il 70% dei pazienti con ipertensione arteriosa essenziale, non necessariamente obesi. La
prevalenza dell'ipertensione arteriosa nei pazienti con diabete mellito è circa doppia rispetto a quella della
popolazione generale e tende ad aumentare in funzione dell'età, della durata della malattia diabetica, della
presenza di obesità e di complicanze macro e microvascolari. La condizione d’insulino-resistenza/iperinsulinemia si associa alla riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente.
L'aumento delle concentrazioni di insulina circolante favorisce il riassorbimento renale di sodio e di acqua, una
maggiore risposta vasocostrittrice all'aldosterone e all'angiotensina II, una ridotta azione dell'ormone
natriuretico atriale, la stimolazione dell'attività nervosa simpatica e la modificazione di fattori locali di
regolazione del tono vascolare, con inevitabili ripercussioni sulla pressione arteriosa sistemica. Inoltre la
stimolazione dei fattori di crescita mediata dall'iperinsulinemia, soprattutto di quelli che agiscono sulla
muscolatura liscia vasale come l'insulin-like growth factor-1, contribuisce alla vasocostrizione periferica e
quindi all'aumento delle resistenze vascolari periferiche totali.
L'ipertensione arteriosa accelera la progressione dei danni microvascolari e macrovascolari indotti dal diabete
e dagli altri fattori di rischio cardiovascolare e aumenta la probabilità di eventi clinici di tipo ischemico, come
dimostrato nello studio osservazionale UKPDS36 (UK Prospective Diabetes Study).
Esiste una correlazione positiva tra valori progressivamente più elevati di pressione sistolica e la maggiore
incidenza di infarto miocardico, che risulta peraltro di circa due volte più frequente per ciascun punto di
pressione sistolica media nei pazienti diabetici.
Oltre ad accelerare i processi di aterosclerosi vascolare, l'ipertensione arteriosa danneggia anche il miocardio
modificandone la struttura, la funzione diastolica e quella sistolica. Il risultato finale è il rimodellamento del
ventricolo sinistro, fenomeno progressivo ed evolutivo verso l'insufficienza cardiaca.
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È stata dimostrata una stretta associazione tra diabete mellito e ipertensione arteriosa con lo sviluppo
d’ipertrofia ventricolare sinistra, con un conseguente impatto maggiore del solo diabete sullo spessore della
parete e dell'associazione diabete/ipertensione sulla massa ventricolare totale.
La funzione ventricolare sinistra è compromessa sia nei pazienti affetti dalla sola ipertensione che in quelli
affetti dal solo diabete, anche se l'entità della compromissione è decisamente più rilevante in coloro che
presentano entrambe le patologie. Anche i fenomeni di morte cellulare programmata (apoptosi) vengono
facilitati dalla coesistenza di ipertensione arteriosa e di diabete mellito attraverso l'aumento delle
concentrazioni di angiotensina 2 secondario all'iperattivazione del sistema rennina-angiotensina.
D'altro canto l'aumento dello stress ossidativo secondario alla disfunzione endoteliale, associato all'insulinoresistenza, di per sé sembra facilitare il fenomeno dell'apoptosi a livello delle cellule miocardiche, che vanno
incontro a necrosi, e contribuire in tal modo allo sviluppo della cardiomiopatia descritta nei pazienti diabetici.
Conclusioni
In definitiva i pazienti con sindrome metabolica presentano un rischio elevato di sviluppare precocemente
l'aterosclerosi, una malattia cronica delle arterie, e le sue complicanze. Riconoscere tale condizione permette
di identificare i soggetti il cui profilo di rischio impone drastiche misure di correzione dello stile di vita. Volendo
raggiungere i normali valori del peso corporeo ideale, del profilo glico-lipidico e dei valori di pressione
arteriosa, bisogna sia fare attività fisica e seguire una dieta equilibrata sia vietare il fumo e comportamenti
scorretti e nocivi.
Relazioni con la cardiopatia ischemica
Il termine "fattore di rischio" apparve per la prima volta nel titolo di un articolo medico del 1963 e divenne
successivamente ampiamente accettato anche per caratterizzare altre conseguenze dell'aterosclerosi, quali
ictus e arteriopatia periferica. Il rischio cardiovascolare, così come definito da ampi studi osservazionali, non
risulta in rapporto ad un solo determinante, ma appare correlato ad un ampio spettro di fattori di rischio che si
manifestano in maniera diversa in ciascun individuo.
Se un soggetto può presentare alcune di queste condizioni singolarmente espresse ad un livello elevato (per
esempio grave ipercolesterolemia familiare, ovvero l'eccesso di colesterolo nel sangue o ipertensione
arteriosa di grado severo), altri soggetti possono vedere accresciuto il loro rischio in quanto presentano una
costellazione di caratteristiche solo lievemente alterate.
Se pure queste ultime non appaiono da sole capaci di influenzare l'incidenza di malattie cardiovascolari, esse
si potenziano reciprocamente e il rischio che ne deriva diventa clinicamente significativo. Si parla pertanto di
«rischio cardiovascolare globale»: è chiaro che questa globalità è in funzione del tipo e del numero, oltre che
del livello dei fattori di rischio considerati, e che potrà ulteriormente variare in funzione di condizioni non
incluse o per valori dei fattori di rischio non considerati.
Tutti i fattori implicati nella sindrome metabolica sono i principali fattori di rischio cardiovascolari.
Diabete e rischio cardiovascolare
Vari studi epidemiologici e patologici indicano il diabete come un fattore di rischio indipendente per le
cardiopatie sia negli uomini sia nelle donne. La percentuale di morte delle persone affette da diabete per colpa
di malattie cardiovascolari si attesta al 65%.
Il diabete mellito è inoltre un fattore prognostico negativo per tutti i pazienti con malattia coronarica e in
particolare per i pazienti sottoposti ad interventi coronarici percutanei (PCI).
La restenosi, anomalia che si verifica quando si riformano placche aterosclerotiche nelle coronarie, in
precedenza rimosse con un intervento chirurgico chiamato angioplastica, rappresenta il principale svantaggio
degli interventi coronarici per via transcutanea da quando sono state utilizzate per la prima volta.
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A seguito del danno causato dalla restenosi le cellule muscolari lisce vascolari (VSMCs, acronimo di Vascular
Smooth Muscle Cells) modificano il loro fenotipo, prima contrattile ora sintetico (dedifferenziazione),
proliferando nella tonaca media e formando così la neointima.
Altri studi hanno invece dimostrato che le cellule di midollo osseo circolanti originano la metà del tessuto neointimale.

Per fenotipo si intende la totale manifestazione fisica di un organismo, ottenuti da una combinazione
fra il patrimonio genetico e le condizioni ambientali in cui vive.

La neointima è una nuova struttura organica creata dall'accumulo di cellule muscolari lisce nella
tonaca intima, causata sempre da un qualche danno all'organismo provocato da un intervento sulla
persona (angioplastica, catetere a palloncino)
Per prevenire la restenosi si utilizzano farmaci antiaggreganti (come l'aspirina), ipolipemizzanti (come le
statine); si dovrebbe inoltre cessare il consumo di sigarette e similari e infine mantenere un corretto profilo
glucidico (ridurre l'assunzione di carboirdati). L'NO (ovvero l'ossido nitrico) sembra svolgere un lavoro di
"protezione" del sistema vascolare, inibendo l'attivazione delle piastrine, l'ispessimento della neointima, il
reclutamento dei leucociti e l'ossidazione delle LDL. Di fatto, la perdita della vasodilatazione NO-dipendente è
un aspetto importante nella disfunzione endoteliale caratterizzante il diabete, poiché inibisce l'attivazione delle
piastrine, l'ispessimento della neointima, il reclutamento dei leucociti e l'ossidazione delle LDL. Si pensa che
l'NO, con alcuni fattori di crescita, favorisca la proliferazione endoteliale, tanto nel corso del cambio endoteliale
che nella creazione di nuovi vasi.
Oltre al rischio concreto che corre una persona di sviluppare malattia aterosclerotica coronarica, esiste anche
una cardiomiopatia diabetica che non si associa agli altri fattori di rischio cardiovascolare ma che deriva
soltanto dalle alterazioni metaboliche della malattia diabetica.
Diverse alterazioni molecolari sono state riscontrate nel diabete mellito. Il tessuto muscolare diabetico, mostra
una riduzione dell'attivazione indotta dall'insulina di PI3 kinase e di AKT. Nel miocardio di persone diabetiche
è anche presente una alterazione della risposta angiogenetica in seguito ad ischemia, anomalia che si fonde
con la riduzione delle capacità riparative.
Dislipidemie e rischio cardiovascolare
Per dislipidemia si intende un qualsiasi difetto del metabolismo delle lipoproteine. Tra i fattori di rischio
cardiovascolare, un ruolo di primo piano è riconosciuto ai disordini del metabolismo lipidico. La maggior parte
dei pazienti che presentano aterosclerosi precoce non sono affetti da iperlipemie gravi, piuttosto manifestano
aumenti di grado moderato di colesterolo LDL e trigliceridi o una riduzione di colesterolo HDL.
Un aumento della colesterolemia, e in particolare dei livelli di LDL, rappresenta un determinante principale di
malattia coronarica, specialmente quando inserito nel contesto del profilo di rischio complessivo.
L'aumento del grasso viscerale, la cosiddetta obesità addominale, una pressione arteriosa elevata e l'insulinoresistenza sono tutti fattori spesso associati ad un incremento dei livelli plasmatici di trigliceridi e ad una
riduzione del colesterolo HDL.
La lipodistrofia di Dunnigan è un'anomalia genetica con caratteristiche che ricordano la sindrome metabolica.
Studi clinici
Studi clinici controllati hanno valutato l'effetto di varie strategie ipolipemizzanti, farmacologiche e non
farmacologiche, sul profilo dei lipidi plasmatici in questi stessi soggetti, correlandone le modificazioni
all'evolutività delle lesioni vascolari e alle caratteristiche degli eventi.
Le più recenti linee guida (in particolare USA e Europea) hanno indicato l'opportunità di privileggiare il
trattamento dei soggetti a maggior rischio cardiovascolare globale. In questo ambito il trattamento delle
dislipidemie, anche lievi, si è mostrato capace di ridurre l'incidenza di eventi e la mortalità cardiovascolare.
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Ipertensione e rischio cardiovascolare
Livelli pressori pre-ipertensivi (fra i 120/80 ed i 139/89 mmHg) sono associati ad aumento del rischio di
malattie cardiovascolari. Il rischio risulta comunque abbastanza eterogeneo: alcuni soggetti pre-ipertesi sono
infatti maggiormente a rischio, come ad esempio anziani, obesi, diabetici ed afro-americani.
Sembra che sia la pressione sistolica il fattore maggiormente predittivo di rischio cardiovascolare. Ciò è valido
in un ampio range di età. Rispetto alla pressione sistolica, quella differenziale e la pressione arteriosa media
non risultano altrettanto costantemente indicative come fattori predittivi del rischio cardiovascolare nelle varie
fasce d'età.
Un'eccessiva riduzione della pressione diastolica dovrebbe essere evitata nei pazienti con coronaropatie.
Bisogna comunque rimanere aggressivi nella riduzione della pressione, soprattutto di quella sistolica, ma
clinicamente non si deve dimenticare che se la pressione diastolica scende sotto i 70 mmHg è possibile
andare incontro a compromissione del flusso coronarico ed all'aumento del rischio di un evento negativo.
La perfusione coronarica avviene infatti prevalentemente durante la diastole, in contrasto con quanto avviene
in tutti gli altri settori della circolazione. Il minor rischio di esiti negativi si osserva per una pressione di 128/74
mmHg.

La sistole è una fase del ciclo cardiaco in cui il muscolo cardiaco si contrae, la pressione sistolica si
riferisce infatti al valore pressorio del sangue arterioso più alto raggiunto durante il battito cardiaco

La diastole è il periodo di rilassamento del muscolo cardiaco dopo la contrazione (ovvero la sistole), la
pressione diastolica si riferisce infatti al valore pressorio del sangue arterioso più basso raggiunto
durante il battito cardiaco
Obesità e rischio cardiovascolare
L'obesità è una situazione di accumulo anomalo o eccessivo di grasso nei tessuti adiposi del corpo che
comporta rischi per la salute. La causa di fondo è un'eccedenza energetica che determina un aumento di
peso; in altre parole le calorie introdotte sono superiori alle calorie bruciate.
L'IMC (un acronimo con il quale si indica l'indice di massa corporea) si calcola dividendo il peso espresso in
chilogrammi per altezza espressa in metri al quadrato (kg/m2).
Normalmente l'IMC si dovrebbe attestare ad un valore che oscilla fra i 18,5 e i 25 ,superando il valore di 25 si
entra nella fascia di rischio del soggetto, dove si possono riscontrare disturbi associati. Il rischio aumenta con
l'aumentare del valore, diventando dapprima moderato fino a trasformarsi in alto.


Una volta raggiunto il valore di 25 la persona viene definita come in soprappeso;
Superato il valore di 30 si rientra nel termine “obeso”
Sovrappeso e obesità sono influenzati da molti fattori tra cui la predisposizione ereditaria, fattori ambientali e
comportamentali, invecchiamento e gravidanze. Entrano in gioco anche fattori biologici come ormoni,
genetica, stress, farmaci e invecchiamento.
L'obesità predispone l'individuo ad una serie di fattori di rischio cardiovascolare tra cui il diabete, l'ipertensione
e l'aumento del tasso di colesterolo nel sangue. Il diabete di tipo 2 è quello maggiormente legato all'obesità e
al sovrappeso.
In effetti, il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 aumenta già con un IMC nettamente al di sotto della soglia
dell'obesità (IMC = 30).
Il rischio di diabete di tipo 2 aumenta parallelamente all'IMC, soprattutto nei soggetti con una predisposizione
genetica a questa malattia e cala parallelamente alla perdita di peso.
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Le persone definite obese possono più facilmente riscontrare valori alti di trigliceridi (ovvero un tipo di grassi
presenti nel sangue) e bassi valori di colesterolo HDL, il cosiddetto “colesterolo buono”, e di elevati valori di
colesterolo LDL, definito anche come "colesterolo cattivo".
Le persone obese con un forte accumulo di grasso endo addominale (la cosiddetta forma a “mela") sono più
facilmente soggette a tale situazione metabolica, ed hanno un elevato rischio di malattie coronariche.
Con strumenti quali esercizio fisico e dieta e con conseguente diminuzione del peso, è prevedibile che la
situazione lipidica nel sangue migliori
Sono stati effettuati molti studi approfonditi sullo stretto rapporto che lega l'ipertensione (ovvero la pressione
arteriosa elevata) e obesità, e nei paesi sviluppati l'ipertensione causata dall'obesità è calcolata sul 30-65% (a
seconda degli studi). Infatti all'aumento del valore dell'IMC si riscontra un aumento della pressione arteriosa, il
rapporto è stato calcolato che ad ogni 10 kg corrisponda un aumento della pressione di 2-3 mm.
Tale simbiosi la si riscontra anche quando il peso diminuisce, ed il rapporto in questo caso diventa che ad ogni
1% di peso complessivo perso corrisponda una diminuzione della pressione di 1-2 Hg
Vi è una predisposizione maggiore all'ipertensione nelle persone definite in soprappeso rispetto a quelle con
peso normale. Tre volte superiore in genere e sei volte superiore per la fascia di età cha va dai 20 ai 44 anni.
Esami da laboratorio
Mentre per quanto riguarda la pressione come esame basta una normale visita medica, servono esami da
laboratorio, possibili grazie ad un semplice prelievo di sangue dell'individuo, per l'indicazione degli altri fattori
che costituiscono la sindrome metabolica.
Tali esami sono:





Glicemia, la misura della concentrazione di glucosio nel sangue. Il suo valore può essere misurato in
mg/dl o in mmol/l: vengono considerati normali valori a digiuno compresi tra 70 mg/dl e 110 mg/dl,
valori superiori a digiuno potrebbe essere sintomo di diabete;
Colesterolo frazionato (HDL ed LDL) e totale;
Trigliceridemia, (presenza di trigliceridi nel sangue.Il valore considerato normale è 40-170mg/dl);
MicroAlbuminuria, misura della quota di Albumina escreta nelle urine, il cui valore non deve
superare i 20mg nelle urine raccolte nelle 24h;
Uricemia (presenza di acido urico nel sangue), il cui valore non deve essere superiore a 6,4 mg/dl
(>380 micromol/L).
Risonanza magnetica cardiovascolare
Grazie all'alta definizione della risonanza magnetica cardiovascolare di perfusione, si è compreso per la prima
volta che vi sono difetti di perfusione subendocardica. Raffrontando due risonanze, una di una persona
normale l'altra di una persona affetta da sindrome metabolica si nota come il rapporto di riserva di perfusione
miocardica fra endocardio ed epicardio è notevolmente inferiore mostrandone una ridotta riserva.
Ecocardiografia
L'ecocardiografia basale rappresenta un elemento insostituibile nella diagnosi delle cardiopatie. In particolare,
nel campo della cardiopatia ischemica essa costituisce un elemento diagnostico, valutativo e prognostico di
sempre crescente importanza.
Spesso sostituisce il test ergometrico, in cui l'esercizio fisico è spesso poco tollerato dai pazienti. Inoltre il test
ergometrico può presentare delle alterazioni patologiche elettro-cardiografiche di base che ne inficiano
l'interpretazione, e può mostrare numerosi artefatti dovuti al movimento durante il test.
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Numerosi studi hanno già messo in evidenza la maggiore specificità del test ecocardiografico al didipiridamolo
rispetto al test elettrocardiografico al cicloergometro; la differenza di sensibilità tra i due test non sembra
essere invece significativa.
La diagnosi della cardiopatia ischemica rappresentata nella sua espressione più classica della angina da
sforzo è legata alla possibilità di riprodurre in laboratorio l'ischemia miocardica.
L'aumento dei determinanti del consumo di ossigeno del miocardio in presenza di stenosi coronarica critica,
determina una cascata di eventi che vanno dalla riduzione del flusso fino all'angina.
Inizialmente si manifesta una riduzione del flusso diretto verso la zona sottostante la stenosi con conseguente
disparità di flusso tra zone normalmente irrorate e zone ischemiche. Seguono quindi nelle zone ischemiche
alterazioni metaboliche con passaggio al metabolismo anaerobico, riduzione della contrazione miocardica,
comparsa di alterazioni elettrocardiografiche ischemiche ed, eventualmente, angina.
L'ischemia miocardica determina notevoli alterazioni funzionali miocardiche. Nel soggetto normale durante la
sistole si determina una notevole riduzione concentrica delle dimensioni ventricolari, un progressivo
ispessimento del miocardio, dovuto principalmente allo strato sottoendocardico. In caso d’ischemia
l'ispessimento del miocardio si riduce fino a scomparire del tutto.
Si osservano, inoltre, zone più o meno estese di alterazioni cinetiche, che vanno dalla ipocinesia (riduzione
dei movimenti sistolici della parete) alla acinesia (assenza di movimenti sistolici) alla discinesia (movimento
paradosso della parete miocardica verso l'esterno). Per la diagnosi d’ischemia miocardica entrambi i fenomeni
vanno accuratamente osservati.
Alcune zone del muscolo cardiaco possono essere acinetiche anche in condizioni di riposo. Questo può
significare che quelle zone non sono più vive (necrotiche), ma si sono trasformate in cicatrice in seguito a un
troppo prolungato mancato apporto di sangue (infarto), o che la riduzione del flusso (ischemia) è così grave,
che le zone interessate possono sopravvivere solo evitando di contrarsi.
Quando vengono sottoposte a uno stimolo, le zone acinetiche, ma ancora vitali, possono riprendere a
contrarsi, differentemente da quelle necrotiche. L'ecocardiografia consente quindi di valutare se le zone che a
riposo non si contraggono sono vive e rimangono ferme per “non soffrire” o se sono irrimediabilmente
danneggiate (valutazione della vitalità miocardica).
L'ecocardiogramma è stato studiato nella cardiopatia ischemica dapprima come eco monodimensionale ed in
seguito come eco bidimensionale. Gli agenti stressanti sono rappresentati dall'esercizio fisico e dagli agenti
farmacologici: dipiridamolo, dobutamina-9, ladenosina. Durante lo stress, sia esso fisico o farmacologico,
vengono monitorati continuamente l'elettrocardiogramma e la pressione.
Lo scopo dell'esame è quello di valutare cosa succede al cuore quando la richiesta delle sue prestazioni viene
aumentata. La durata dello stress farmacologico dipende dal farmaco utilizzato, ma in genere non supera i
trenta minuti.
Valutazione dell'ischemia
L'ischemia inducibile con lo stress (ergometrico o farmacologico) si evidenzia, all'ecocardiogramma, con:


asinergie regionali transitorie;
riduzione della frazione di eiezione.
Criteri di gravità




basso dosaggio di farmaco necessario ad indurre ischemia (bassa soglia);
brevità del tempo dall'inizio dell'infusione al momento di comparsa dell'ischemia (bassa soglia);
estensione dell'asinergia indotta dal farmaco (coronaropatia estesa);
comparsa di segni di insufficienza cardiaca (coronaropatia estesa).
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Terapie nella sindrome metabolica
Trattamento specifico: prima di tutto occorre curare ogni singolo fattore di rischio, ovviamente non essendo
obbligatoriamente necessaria la presenza di tutti i fattori, si curano sono quelli accertati.
Obesità - Per ridurre l'ecessivo grasso spesso basta seguire una dieta equilibrata, effettuare esercizio fisico.
Diabete - Per la cura si utilizza l'insulina e gli ipoglicenizzanti orali.
Ipertrigliceridemia - Per ridurla si utilizzano gli omega, i fibrati e le statine.
Quando i trigliceridi superano 400 mg/dl la scelta del farmaco più appropriato ricade sulla niacina e gli Omega
Livello Trigliceridi
Concentrazione
Normale
minore di 150 mg/dl
Medio alto
150-199 mg/dl
Alto
200-499 mg/dl
Molto Alto
pari o superiore a 500 mg/dl
Trattamento specifico: Altri fattori

Colesterolo: per contrastare la presenza di eccessivo colesterolo nel sangue si somministra uno dei
farmaci della famiglia delle statine (atorvastatina, simvastatina, pravastatina, fluvastatina, ecc).
La Lipoproteina (a) trasporta il colesterolo dai tessuti periferici al fegato, abbassarne il livello
(solitamente alto nelle persone affette dalla sindrome metabolica) risulta difficile, per questo si
consiglia di effettuare una terapia aggressiva con i farmaci ipolipemizzanti.

Pressione: per ridurre la pressione si utilizzano farmaci specifici con vari meccanismi d’azione.
Trattamento generale - Nei pazienti affetti da sindrome metabolica con ischemia dimostrata agli esami non
invasivi, si è soliti trattare l'angina con i calcioantagonisti. In questi soggetti può essere anche efficace il
trattamento del reflusso esofageo e dell'alterata motilità correlata. Gli estrogeni somministrati alle donne dopo
la menopausa hanno migliorato il flusso coronarico e la vasodilatazione mediata dall'endotelio, tuttavia
l'efficacia clinica di questo trattamento deve essere ancora dimostrata.
Prevenzione - Molti fattori possono essere controllati o modificati dallo stile di vita di una persona. Un'attività
fisica regolare (circa 30 minuti al giorno) migliora la captazione di insulina da parte dei tessuti, migliora in
generale tutto il metabolismo dei carboidrati, nonché contribuisce alla diminuzione del peso corporeo che è
notoriamente associato ad una diminuzione dei valori pressori.
Una dieta povera di grassi e ricca di alimenti contenenti acidi grassi Omega-3, o con essi supplementata,
diminuisce il colesterolo totale ed i trigliceridi, aumentando le HDL e di conseguenza migliorando l'assetto
lipidico e l’indice di resistenza glicemico.
Critiche e controversie - Negli studi fatti finora si è dimostrato che esistono molti criteri per la definizione di
sindrome metabolica ma tutti strettamente connessi l'uno con l'altro.
Definizione di Sindrome - In un dizionario famoso di medicina la sindrome è definita come un aggregato di
sintomi e segni associati con un unico processo morboso che costituiscono insieme il disegno della malattia.
Valutando questa definizione, la sindrome metabolica non dovrebbe rientrare nella classificazione tipica della
parola “sindrome”, per questo è ultimamente definita sindrome plurimetabolica anche se più correttamente si
dovrebbe chiamare plurisindrome metabolica.
Nota: La sindrome metabolica è denominata CHAOS in Australia.
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