Il restauro dei centri storici quale
riconoscimento dell’identità e
sviluppo delle comunità
prof. ing. Aldo Aveta
Parlare dopo tanti illustri oratori che hanno affrontato con
importanti relazioni scientifiche i problemi specifici dei
marmi di Vitulano e Cautano impiegati nel corso della
storia da straordinari architetti e artisti mi spinge a
connotare il mio intervento con aspetti di natura diversa,
eppure molto importanti per il futuro delle comunità e in
particolare per il futuro dei centri storici.
Quest’anno si celebra il ventennale del Documento di
Nara (1994). Orbene con tale Documento sull’autenticità
viene posto l’accento sulla «diversità di cultura e
patrimonio del nostro mondo», che costituisce
«un’irreplicabile risorsa di ricchezza spirituale e
intellettuale per tutta l’umanità». L’approccio innovativo si
coglie, in particolare, al punto 7, laddove, si precisa che
«tutte le culture e le società sono radicate in particolari
forme e mezzi, tangibili e intangibili, espressioni che
costituiscono il loro patrimonio e queste devono essere
rispettate».
L’espressione «patrimonio culturale immateriale» è,
dunque, abbastanza recente, anche se va segnalato che
fin dal 1950 il Giappone elaborò un primo programma
nazionale in favore dei suoi tesori viventi, che mirava a
riconoscere i saperi dei maestri nelle arti tradizionali.
All’iniziativa di tale nazione seguirono quelle della Corea,
delle Filippine, della Tailandia, degli Stati Uniti, della
Francia: in questa nazione nel 1994 il Ministro della
cultura ha nominato 20 persone «maestri d’arte».
Nel 1970 la riflessione sul patrimonio immateriale e sulla
necessità della sua salvaguardia si arricchisce, attraverso
l’UNESCO, di un intenso dibattito, finalizzato al suo
inserimento nel patrimonio mondiale, che ha portato,
soltanto nel 2001, alla proclamazione dei primi 19
capolavori del patrimonio orale ed immateriale
dell’Umanità. Il lungo tempo trascorso è legato al fatto
che se la nozione di «cultura» è ampia, le parole
«patrimonio» e «immateriale» estendono ancora il
campo. Se a ciò si aggiungono le difficoltà di stabilire
quando una pratica culturale diventa tradizione e, ancora,
la stima del loro valore, e poi, le difficoltà legate alle
strategie di conservazione, si comprende la complessità di
pervenire a strategie comuni.
Dunque, a livello internazionale, risulta forte la sensibilità
verso la conservazione di una particolare tipologia di beni
culturali che non pongono problemi di restauro né di
materia, né di forma; atteggiamento che ancora non trova
adeguato riscontro nelle politiche nazionali, sia nel campo
della pianificazione urbanistica che della tutela dei beni
culturali.
Abbiamo avviato questa discussione per introdurre il
concetto che oggi dovrebbero essere oggetto di tutela e di
conservazione non solo i beni materiali, dotati di
consistenza fisica, ma anche quelli immateriali, intangibili.
In sostanza, se consideriamo i marmi che qui si celebrano
non dobbiamo riferirci solo ai manufatti, ovvero ai
rivestimenti, ai bassorilievi, ai gruppi scultorei, alle scale
ed a tanti altri componenti dell’architettura monumentale,
ma piuttosto anche ai valori che questi presentano come
espressione di arte, di gusto, di tendenze e di mode di un
certo periodo storico.
In tal senso vanno considerate non solo le opere in quanto
tali, ma anche gli artefici di tali opere (architetti, scultori,
decoratori, scalpellini, mosaicisti, ecc.) con il loro bagaglio
di conoscenze e di saperi.
Artefici che si sono avvalsi di tradizioni spesso trasmesse
oralmente o di padre in figlio o lavorando in botteghe
artigiane e che, dunque, hanno connotato e
caratterizzano la cultura materiale di un tempo.
Dunque, beni materiali e beni immateriali.
Nelle convenzioni internazionali l’espressione «bene
culturale» indica la trasposizione su piano giuridico
dell’interesse non limitato alle sole opere d’arte – e, come
tale, rispondente a un criterio di tipo eminentemente
estetico – ma esteso a tutti quei beni che rappresentano
l’estrinsecazione materiale della cultura individuale e
collettiva. A partire dalla Convenzione UNESCO, stipulata a
Parigi nel 1972, che ha per oggetto la tutela dei beni
culturali e dei siti naturali, si rafforza il concetto della tutela
integrata cioè della salvaguardia non più del singolo
monumento ma dell’intero ambiente urbano e paesistico,
capace di testimoniare i segni della civiltà passata; quindi,
emerge la considerazione del valore globale del bene
culturale e della sua interrelazione con l’ambiente e l’intero
assetto sociale.
Il termine «patrimonio immateriale» è ancora oggi
un’espressione tecnica riservata agli esperti. Designa gli
aspetti immateriali della cultura, come le tradizioni orali, le
lingue e i dialetti, gli eventi e le credenze, i valori ed i saperi
che danno vitalità alle culture. Comprende, per esempio, le
danze nuziali e i canti funebri, le tecniche artigianali e le
usanze agricole trasmesse oralmente, e ancora feste e luoghi
di incontro.
Rappresenta, dunque, tutta la tradizione orale e vivente di
un popolo, la cultura di una comunità e soprattutto le sue
radici spirituali. La cultura materiale, le tradizioni dialettali, i
riti e le feste, i modi di abitare e di produrre, di vivere delle
comunità urbane ed extraurbane presenti sul territorio
rappresentano un tesoro unico e irripetibile da conservare e
valorizzare.
Dunque, i modi di vita nella abitazione rurale e tradizionale,
la foto storica e familiare, le feste, gli ex voto pittorici, il
teatro di figura, il giocattolo, i mestieri tradizionali, la pesca
e la marineria, i racconti, le legende sono alcune delle aree
tematiche oggi indagate dagli studiosi universitari, in
particolare, delle cattedre di storia delle tradizioni popolari,
di etnografia, di antropologia; inoltre, nelle Università
italiane esistono corsi di laurea (Classe 13-Scienza dei Beni
Culturali) in beni demoetnoantropologici nelle facoltà di
lettere e sociologia, orientati alla formazione specifica di
operatori in grado di fornire un essenziale contributo nel
campo della Conservazione.
E allora, come coniugare, in una prospettiva di sviluppo per
il territorio e per i suoi abitanti, le attuali esigenze e
condizioni con la conservazione e la valorizzazione di un
articolato patrimonio demoetnoantropologico che si
compone sia di «beni» a rischio di scomparsa sia di «fatti» e
«manufatti» vitali e funzionali?
In attesa del dibattito appena avviato - nonostante le citate
sensibilità a livello internazionale - sul come conservare i
beni immateriali, si può avviare un’operazione di
conoscenza, in modo da individuare cosa conservare! Gli
esperti del settore sottolineano che occorre, avvalendosi
delle tecnologie più avanzate, operare un inventario
documentato di tale categoria di bene, utilizzando anche
strumentazioni audiovideo e schede catalografiche
specifiche per ogni tipo di bene al fine di costituire una
banca data da trasferire su un supporto informatico ed
acquisire una «memoria etnografica digitale» cui attingere
per la costruzione di percorsi tematici e per altre forme di
protezione/promozione.
Questa è solo la prima fase di una progettazione
complessiva che richiede l’individuazione e la formazione di
precise figure professionali che dovranno essere impegnate
nei processi di conservazione delle città storiche, a fianco
degli architetti-restauratori, degli urbanisti, degli esperti in
geo-risorse, degli economisti, dei giuristi, dei sociologi, degli
archeologici, ecc.
In conclusione, l’analisi compiuta sembra evidenziare alcune
esigenze e priorità, quali:
- La coscienza delle risorse culturali di tipo
demoetnoantropologico, materiali ed immateriali, negli
ambiti paesistici, territoriali e urbanistici e l’importanza
di considerare tali risorse nelle scelte di pianificazione
per le città storiche;
- La redazione di una Carta dei beni
demoetnoantropologici in ogni regione con
diversificazioni tipologiche, strategie di valorizzazione,
ecc.
- La necessità della presenza di etno-antropologi, a fianco
delle altre figure professionali impegnate nella
conservazione, negli uffici preposti ai beni culturali ed alla
pianificazione urbanistica degli assessorati regionali,
provinciali, comunali e nelle soprintendenze, al fine di
operare efficacemente per la conservazione delle specificità
culturali e dell’eredità socio-antropologica dei territori.
L’ausilio di tali operatori specialistici sarà fondamentale per
un approccio più adeguato alla comprensione dei valori
delle città storiche ed alla definizione delle strategie di
intervento finalizzate alla loro conservazione.
Dunque, nella nostra Nazione anche la conservazione del
patrimonio culturale immateriale deve, coerentemente con
gli indirizzi degli organismi internazionali, acquistare un suo
specifico significato strategico nella politica di conservazione
delle città storiche. Tutti gli elementi che si tramandano
dalle culture artistiche, interamente ancorate agli spazi e ai
tessuti costruiti storici, contribuiscono a soddisfare quelle
esigenze spirituali delle collettività, senza le quali le attività
di conservazione degli edifici di valore storico-artistico ed
ambientale e dei tessuti urbani stratificati non si
dimostreranno adeguate rispetto alla vita dei suoi abitanti
ed alla loro crescita culturale; attività che, dunque, non
possono più limitarsi a restauri, recuperi edilizi e
rifunzionalizzazioni di beni materiali.
Per concludere, auspico – così come credo tutti i presenti –
che si valorizzino le risorse locali e in particolare il marmo di
Cautano. Vorrei però interpretare il titolo del Convegno nel
quale sono indicati i termini «tradizione» e «innovazione» in
modo integrato.
Non si può pensare al recupero della tradizione (nel nostro
caso l’estrazione, le lavorazioni del marmo nell’impiego per
manufatti ex novo o per il restauro del patrimonio
architettonico) in modo seriale, ripetitivo evocando un
passato che non c’è più e riproponendo manufatti in stile
«falso antico».
Occorre, piuttosto, a mio avviso promuovere efficacemente
l’impiego di materiali lapidei di straordinaria valenza
estetica, tra i quali il marmo di Cautano, recuperare le buone
regole dell’arte attraverso un intenso programma di
formazione artigianale, avvalendosi delle poche maestranze
ancora in grado di trasmettere saperi e mestieri, incentivare
la conoscenza del significato del valore e delle potenzialità di
tali materiali naturali presso le comunità locali.
Forse, solo in tal modo si potrà evitare che le centinaia di
piccoli centri storici della nostra straordinaria regione –
devastata dai terremoti, dalle frane e dall’abusivismo edilizio
– perdano definitivamente la propria identità.
Al contrario le comunità locali devono tendere a conservare
quei valori materiali e immateriali ancora presenti e che se
opportunamente tutelati e valorizzati potranno contribuire
ad innescare lo sviluppo sociale ed economico delle stesse.
Non si tratta, dunque, di un problema di conservazione di
manufatti, quanto di un problema di tipo culturale. Senza un
diverso tipo di approccio nelle politiche per i beni culturali il
futuro dei centri storici e delle loro popolazioni si presenta
molto nebuloso.
Un futuro che non può prescindere dalla consapevolezza che
nei territori campani le maggiori risorse disponibili sono
quelle storico-artistiche e culturali, nonché quelle
paesaggistiche. La valorizzazione di tali risorse costituisce un
fondamentale volano per lo sviluppo sociale e per
l’occupazione, soprattutto delle giovani generazioni che,
altrimenti continueranno ad abbandonare i nostri territori.
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