Scienze Umane:
la voce dei classici
Émile Durkheim
Le forme elementari
della vita religiosa
a cura di
Lino Rossi e Lorena Lanzoni
FONDAMENTI
DEL PENSIERO RELIGIOSO
TOTEM
DIO
RELIGIONE
rivela la trasfigurazione
della SOCIETÀ
l’umanità adora una
REALTÀ COLLETTIVA
importanza sociologica dello
studio del TOTEMISMO
ANALISI DEL FENOMENO RELIGIOSO
TOTEMISMO e
SISTEMI DEI
CLAN
↓
tribù australiane e
tribù dei nativi
americani
teoria su
ORIGINE ed
ESSENZA
DELLA
RELIGIONE
interpretazione
SOCIOLOGICA
del PENSIERO
SIMBOLICO
↓
sociologia della
conoscenza
significato profondo del
TOTEMISMO
teoria generale della
RELIGIONE
sua manifestazione nella
REALTÀ INDUSTRIALE
significato SOCIOLOGICO
dell’indagine
«La nostra ricerca non
interessa però solamente
la scienza delle religioni.
Ogni religione ha infatti un
aspetto per cui essa
esorbita dall’ambito delle
idee propriamente
religiose, e perciò lo
studio dei fenomeni
religiosi offre un mezzo
per riproporre problemi
che finora erano stati
dibattuti soltanto tra
filosofi» (p. 75).
LA RELIGIONE È COSA SOCIALE
«La conclusione generale di questo libro è che la
religione è cosa eminentemente sociale.
Le rappresentazioni religiose costituiscono
rappresentazioni collettive che esprimono realtà
collettive; i riti costituiscono modi di agire che sorgono in
mezzo a gruppi costituiti e sono destinati a suscitare, a
mantenere o a riprodurre certi stati mentali di questi
gruppi.
Ma allora, se le categorie sono di origine religiosa, esse
devono partecipare alla natura comune di tutti i fatti
religiosi: devono essere anch’esse cose sociali, cioè
prodotti del pensiero collettivo» (p. 75).
Rappresentazione religiosa sulle pareti della roccia di
Uluru (Ayers Rock), Northern Territory, Australia.
LA RELIGIONE È COSA SOCIALE
«Vi sono d’altronde casi in cui questo carattere sociale risulta
manifesto.
In Australia e nell’America settentrionale esistono società in cui lo
spazio è concepito sotto forma di un cerchio immenso, perché
l’accampamento ha anch’esso una forma circolare, e il cerchio
spaziale è esattamente diviso come il cerchio della tribù e ad
immagine di questo.
Vi sono tante regioni distinte quanti sono i clan nella tribù, ed il
posto occupato dai clan all’interno dell’accampamento determina
l’orientamento delle regioni.
Ogni regione si definisce secondo il totem del clan al quale è
assegnata» (p. 76).
IL SOPRANNATURALE
«Una nozione che viene considerata
generalmente caratteristica di tutto
ciò che è religioso, è quella del
soprannaturale. Con questo termine
si intende ogni ordine di cose che
superi la portata del nostro intelletto:
il soprannaturale è il mondo del
mistero, dell’inconoscibile,
dell’incomprensibile. La religione
sarebbe dunque una speculazione
concernente tutto ciò che sfugge alla
scienza, e più generalmente al
pensiero distinto» (p. 77).
Un Aborigeno dipinge immagini
sacre sulla roccia di Uluru.
IL SOPRANNATURALE
«Le concezioni religiose hanno come scopo anzitutto
quello di esprimere e di spiegare non già ciò che c’è di
eccezionale e di anormale nelle cose, ma ciò che esse
hanno di costante e di regolare. Il più delle volte gli dei
servono a rendere conto non tanto delle deformità, delle
bizzarrie, delle anomalie, quanto del cammino abituale
dell’universo; del movimento degli astri, del ritmo delle
stagioni, del germoglio annuale dei vegetali, delle
perpetuità delle specie» (p. 79).
«A partire dalle religioni più semplici a noi note, essi hanno
avuto per compito essenziale quello di mantenere in modo
positivo il corso normale della vita» (p. 80).
Il serpente arcobaleno, da cui secondo gli aborigeni
hanno avuto origine tutte le cose, è un simbolo
religioso ricorrente sulle rocce australiane.
SACRO E PROFANO
«Tutte le credenze religiose conosciute,
siano esse semplici o complesse, hanno
uno stesso carattere comune: esse
presuppongono una classificazione delle
cose reali o ideali che si rappresentano gli
uomini, in due classi o in due generi
opposti, definiti generalmente con due
termini distinti – tradotti abbastanza bene
dalle designazioni di profano e di sacro»
(p. 80).
«Esistono parole, espressioni, formule che
possono essere pronunciate soltanto dalla
bocca di persone consacrate; esistono
gesti e movimenti che non possono essere
eseguiti da chiunque» (p. 81).
CREDENZE RELIGIOSE E RITI
«La cosa sacra è per definizione quella che il profano non deve
e non può impunemente toccare. Senza dubbio questa
interdizione non potrebbe spingersi fino a rendere impossibile
ogni comunicazione tra i due mondi; se il profano non potesse
mai entrare in relazione col sacro, questo non servirebbe a
nulla».
«Le credenze religiose sono rappresentazioni che esprimono la
natura delle cose sacre e i rapporti che esse hanno tra loro e
con le cose profane. I riti sono infine regole di condotta che
prescrivono il modo in cui l’uomo deve comportarsi con le cose
sacre» (p. 82).
I riti consentono al profano di entrare in relazione con
il sacro, individuando le regole di condotta affinché ciò
si verifichi in modo adeguato.
MAGIA E RELIGIONE,
elementi in comune
«La magia è costituita anch’essa da
credenze e da riti. Come la
religione, essa ha i suoi miti e i suoi
dogmi, che sono soltanto più
rudimentali perché, perseguendo fini
tecnici e utilitari, essa non perde
tempo in pure speculazioni.
Anch’essa ha le sue cerimonie, i
suoi sacrifici, le sue lustrazioni, le
sue preghiere, i suoi canti e le sue
danze. Gli esseri che invoca il
mago, le forze che egli mette in
opera, non soltanto hanno la stessa
natura delle forze e degli esseri a
cui fa appello la religione, ma
spesso sono del tutto identici» (p.
83).
MAGIA E RELIGIONE,
elementi in comune
«Così, nelle società inferiori, le anime dei morti sono cose
essenzialmente sacre ed oggetto di riti religiosi; ma in pari
tempo hanno assolto una funzione importante nella
magia. Tanto in Australia quanto in Melanesia, tanto in
Grecia quanto presso i popoli cristiani le anime dei morti,
le loro ossa, i loro capelli figurano tra gli intermediari di cui
si serve spesso il mago. I demoni sono anch’essi uno
strumento abituale dell’azione magica; e i demoni sono
esseri circondati da interdizioni, che vivono separati in un
mondo a parte, cosicché spesso è difficile distinguerli
dagli dèi propriamente detti» (p. 83).
MAGIA E RELIGIONE,
differenze
«Le credenze propriamente religiose sono sempre comuni a una collettività
determinata, che fa professione di aderirvi e di praticare i riti ad esse solidali.
Esse non sono soltanto ammesse a titolo individuale da tutti i membri di
questa collettività, ma sono cosa del gruppo e ne costituiscono l’unità. Gli
individui che la compongono si sentono legati gli uni agli altri per il semplice
fatto di avere una fede comune» (p. 83).
«Le credenze magiche hanno sempre una certa generalità: esse sono spesso
diffuse tra larghi strati di popolazione, ed esistono anche parecchi popoli in cui
non hanno seguaci in numero minore della religione propriamente detta. Ma
esse non producono l’effetto di legare gli uni agli altri gli uomini che vi
aderiscono, e di unirli in un medesimo gruppo che viva una stessa vita. Non
esiste una chiesa magica. Tra il mago e gli individui che lo consultano, come
tra questi ultimi, non sussistono vincoli durevoli che ne facciano i membri di
uno stesso corpo morale, comparabile a quello che formano i fedeli di uno
stesso dio, o i seguaci di uno stesso culto» (p. 84).
MAGIA E RELIGIONE,
differenze
«Il mago non ha alcun bisogno, per
praticare la sua arte, di unirsi ai suoi
confratelli. Egli è piuttosto un isolato; in
genere, anziché cercar la società, egli la
fugge. Anche di fronte ai suoi colleghi
egli conserva sempre la sua parte» (p.
84).
«La religione è invece inseparabile
dall’idea di chiesa. … Una religione è un
sistema solidale di credenze e di
pratiche relative a cose sacre, cioè
separate e interdette, le quali uniscono
in un’unica comunità morale, chiamata
chiesa, tutti quelli che vi aderiscono» (p.
85).
L’ANIMISMO
«L’idea di anima sarebbe stata suggerita all’uomo dallo spettacolo
male interpretato della doppia esistenza che egli conduce
normalmente nello stato di veglia e durante il sonno».
«Questo duplicato riproduce naturalmente tutti i tratti essenziali
dell’essere sensibile che gli serve da involucro esteriore; ma in
pari tempo se ne distingue per diversi caratteri. Esso è più mobile,
perché può percorrere in un istante vaste distanze. È più
malleabile e più plastico, perché per uscire dal corpo bisogna che
possa passare per gli orifizi dell’organismo, specie il naso e la
bocca. Lo si rappresenta perciò come costituito di materia,
indubbiamente, ma di una materia molto più sottile e eterea di
quelle che conosciamo empiricamente. Questo duplicato è
l’anima» (p. 85).
«Ecco dunque spiriti staccati da ogni organismo, e lasciati in libertà attraverso lo
spazio. Aumentando col tempo il loro numero, si forma così intorno alla
popolazione vivente una popolazione di anime» (p. 86).
I Wandjina sono divinità primitive che seguendo un “sogno” di creazione, plasmarono
il mondo e tutti gli esseri viventi. I dipinti degli aborigeni australiani risalgono a un
periodo compreso tra i 50 mila e i 40 mila anni fa.
IL NATURISMO
Agni, il fuoco
«Ma quali sono le sensazioni generatrici del pensiero religioso?
Questa è la domanda che lo studio dei Veda doveva aiutarci a
risolvere.
Qui i nomi degli dèi sono generalmente o nomi comuni ancora
adoperati come tali, o antichi nomi comuni di cui è possibile
ritrovare il senso originario. Ma gli uni e gli altri designano i
principali fenomeni della natura. Così Agni, nome di una delle
principali divinità dell’India, significava all’inizio il fatto materiale del
fuoco come lo percepiscono i sensi, e senza alcuna aggiunta
mitologica. Anche nei Veda esso è ancora usato sotto questa
accezione; ad ogni modo, che questo significato fosse primitivo è
chiaramente mostrato dal fatto che esso si è conservato in altre
lingue indo-europee: il latino ignis, il lituano ugnis, l’antico slavo
ogny sono evidentemente parenti prossimi di Agni» (p. 91).
«Cercate di trasportarvi con il pensiero a questo stadio della vita primitiva, a cui
bisogna necessariamente riportare l’origine e anche le prime fasi della religione
della natura; voi potrete facilmente raffigurarvi l’impressione che dovette fare sullo
spirito umano la prima apparizione del fuoco» (p. 91).
Il rituale vedico del fuoco su una collina di granito nel sud dell’India: il polline
rimanda alla creazione, il riso è nutrimento, mentre il fuoco è il simbolo della
distruzione e della trasformazione del mondo.
IL TOTEMISMO
«Poiché né l’uomo né la natura hanno da soli carattere
sacro, vuol dire che lo ricevono da un’altra fonte. Al di fuori
dell’individuo umano e del mondo fisico deve dunque
esserci qualche altra realtà rispetto a cui questa specie di
delirio che è, in un certo senso, ogni religione, assume un
significato e un valore oggettivo.
In altri termini, oltre a ciò che si è chiamato naturismo e
animismo deve esserci un altro culto, più fondamentale e
primitivo, di cui i primi sono probabilmente soltanto forme
derivate o aspetti particolari.
Questo culto esiste, infatti, ed è quello a cui gli etnografi
hanno dato il nome di totemismo» (p. 93).
I LUOGHI DELLA RICERCA
Arunta
Warramunga
IL TOTEMISMO AUSTRALIANO
«Ecco perché, con la riserva che sarà ulteriormente indicata, ci
proponiamo di limitare la nostra ricerca alle società australiane. Esse
adempiono a tutte le condizioni che abbiamo enumerate. Esse sono
perfettamente omogenee; benché si possano distinguere tra loro certe
varietà, queste appartengono a un medesimo tipo. L’omogeneità è anzi
così grande che gli schemi dell’organizzazione sociale non soltanto sono
gli stessi, ma sono anche designati con nomi identici o equivalenti in
moltissime tribù, talvolta assai distanti le une dalle altre.
D’altra parte il totemismo australiano è quello su cui abbiamo i documenti
più completi. Infine, ciò che ci proponiamo anzitutto di studiare in questo
lavoro è la religione più primitiva e più semplice che sia possibile attingere.
Non esistono società che presentino questo carattere in un grado più alto
delle tribù australiane. … La loro organizzazione è la più primitiva e
semplice che si conosca; è quella che abbiamo chiamato altrove
organizzazione a base di clan» (p. 95).
I LUOGHI
DEI POPOLI
CLAN E TOTEM
«Ogni clan ha il suo totem, che gli appartiene in proprio;
due clan diversi di una stessa tribù non potrebbero avere
lo stesso. Infatti si fa parte di un clan, perché appunto si
porta un certo nome. Tutti quelli che portano questo nome
ne sono quindi membri allo stesso titolo: comunque siano
disposti sul territorio della tribù, essi hanno tutti, gli uni
con gli altri, i medesimi rapporti di parentela. Di
conseguenza due gruppi che abbiano lo stesso totem
possono essere soltanto due sezioni dello stesso clan.
Certamente accade spesso che un clan non risieda
interamente in un’unica località, ma abbia rappresentanti
in luoghi diversi» (p. 96).
TOTEM
«Gli oggetti che servono da totem appartengono, nella maggioranza
dei casi, al regno vegetale o al regno animale, ma soprattutto a
quest`ultimo: le cose inanimate sono impiegate molto più raramente.
Su oltre cinquecento nomi totemici rilevati da Howitt fra le tribù
dell’Australia sud-orientale ce n’è soltanto una quarantina che non
siano nomi di piante o di animali; e sono le nubi, la pioggia, la
grandine, la brina, la luna, il sole, il vento, l’autunno, l’estate, l’inverno,
certe stelle, il tuono, il fuoco, il fumo, l’acqua, l’ocra rossa, il mare. Si
osserverà il posto limitato fatto ai corpi celesti ed anche, in genere, ai
grandi fenomeni cosmici, che pure erano destinati a una così grande
fortuna nel successivo sviluppo religioso. Di tutti i clan di cui parla
Howitt, ve ne sono soltanto due che hanno per totem la luna, due il
sole, tre una stella, tre il tuono, due i lampi. Soltanto la pioggia fa
eccezione: essa è infatti molto frequente». (p. 97)
TOTEM
Tribù Warramunga,
totem del vento.
TOTEM
«Normalmente il totem non è un individuo, ma una specie o una
varietà; non è quel canguro, quel corvo, ma il canguro o l’emù in
generale» (p. 97).
CLAN E TOTEM
«Un altro clan Warramunga porta il nome di un serpente favoloso e
mostruoso, chiamato Wollunqua, e di cui il clan è ritenuto discendente.
In ogni caso è abbastanza
facile scorgere ciò che è
accaduto. Sotto l’influenza di
cause diverse, in virtù dello
sviluppo stesso del pensiero
mitologico, il totem collettivo
e impersonale è scomparso
dinanzi a certi personaggi
mitici, che sono passati al
primo posto e sono divenuti
essi stessi totem» (p. 97).
Warramunga del clan Wollunqua: i dipinti sui corpi riproducono le spire
striate del serpente e l’immagine sul terreno costituisce il totem, la
raffigurazione simbolica dell’animale di cui il clan ritiene di rappresentare la
discendenza.
TOTEM
trasmissione matrilineare o patrilineare
«In un gran numero, e si può anche dire nel maggior numero di società, il
figlio ha per totem quello della madre, per diritto di nascita: ciò accade tra i
Dieri e gli Urabunna del centro dell’Australia Meridionale; tra i Wotjobaluk e i
Gournditch-Mara di Victoria; tra i Kamilaroi, i Wiradjuri, i Wonghibon, gli
Euahlayi del Nuovo Galles del Sud; tra i Wakelbura, i Pitta-Pitta, i
Kurnandaburi del Queensland, per citare solamente i nomi più importanti.
Un gruppo di tribù in cui la religione totemica è ancora praticata ed in cui
tuttavia la trasmissione del totem avviene in linea paterna: sono i
Warramunga, gli Gnanji, gli Umbaia, i Binbinga, i Mara e gli Anula.
Una terza combinazione è quella che si osserva tra gli Arunta e i Loritjia. Qui il
totem del fanciullo non è necessariamente né quello della madre né quello del
padre; è quello dell’antenato mitico che, secondo procedimenti che gli
osservatori ci riferiscono in maniere diverse, è venuto a fecondare
misticamente la madre al momento della concezione» (p. 98).
IL MARCHIO TOTEMICO
«Ma il più delle volte è sul corpo medesimo che viene impresso il
marchio totemico: c’è qui un modo di rappresentazione che è
alla portata anche delle società meno progredite.
Presso gli Arunta l’estrazione dei denti è praticata soltanto nel
clan della pioggia e dell’acqua; e secondo la tradizione
quest’operazione avrebbe lo scopo di rendere le fisionomie simili
a certe nuvole nere, con i bordi chiari, che si ritiene annuncino
l’arrivo prossimo della pioggia e che perciò sono considerate
come cose della stessa famiglia. Ciò prova che l’indigeno stesso
è consapevole del fatto che queste trasformazioni intendono
conferirgli, almeno convenzionalmente, l’aspetto del suo totem»
(p. 100)
IL MARCHIO
TOTEMICO
Il marchio totemico viene
impresso sul corpo: presso gli
Arunta (clan della pioggia) il rito
d’iniziazione prevede la rottura
dell’incisivo superiore destro, per
somiglianza con le nuvole nere
che portano acqua.
SACRALITÀ DEL TOTEM
«Le figure di ogni specie che rappresentano il totem
sono circondate da un rispetto molto superiore a quello
ispirato dall’essere di cui queste raffigurazioni
riproducono la forma. I churinga, il nurtunja, il waninga
non debbono mai essere maneggiati dalle donne o dai
non-iniziati, che sono autorizzati a intravederli soltanto
eccezionalmente e a rispettosa distanza.
Invece la pianta o l’animale di cui il clan porta il nome
possono essere visti e toccati da tutti.
I churinga sono conservati in una specie di tempio, sulla
cui soglia tacciono tutte le voci della vita profana: esso è
il dominio delle cose sante.
Invece animali e piante totemiche vivono sul terreno
profano e sono mescolati alla vita comune» (p. 103).
ANIMALI TOTEMICI
«L’animale totemico è chiamato l’amico, il fratello maggiore dei
suoi congeneri umani. In definitiva, i legami che esistono tra essi
e lui assomigliano molto più a quelli che uniscono i membri di
una stessa famiglia: animali e uomini sono fatti della stessa
carne, come dicono i Buandik.
Per via di questa parentela, l’uomo considera gli animali della
specie totemica come benefattori associati, sulla cui assistenza
crede di poter contare. Egli li chiama in suo aiuto, ed essi
vengono a guidare i suoi colpi alla caccia, ad avvertirlo dei
pericoli che può correre.
In cambio egli li tratta con riguardo e non li maltratta; ma le cure
che ha per essi non assomigliano affatto ad un culto» (p. 105).
ANIMALI TOTEMICI
TOTEM, significato sociale
«La maniera migliore di attestare a se
stesso e agli altri l’appartenenza ad uno
stesso gruppo è quella di imprimersi sul
corpo uno stesso segno distintivo. Che
proprio questa sia la ragion d’essere
dell’immagine totemica è provato dal fatto
che – come abbiamo dimostrato – essa
non cerca di riprodurre l’aspetto della cosa
che si ritiene voglia rappresentare: essa è
costituita di linee e di punti a cui è attribuito
un significato del tutto convenzionale. Essa
ha il compito non già di raffigurare e di
ricordare un determinato oggetto, ma di
testimoniare che un certo numero di
individui partecipano ad una stessa vita
morale» (p. 109).
TOTEM, significato sociale
«Un clan è anzitutto una riunione di individui che portano lo
stesso nome e che si raccolgono intorno a uno stesso segno.
Togliendo il nome e il segno che lo materializza, il clan non è più
nemmeno rappresentabile. Poiché esso era possibile soltanto a
questa condizione, ci si spiega la istituzione dell’emblema e il
posto occupato da questo emblema nella vita del gruppo» (p.
110).
ANIMA E CORPO
La cerimonia del fuoco, o Nathagura, parte dei riti di iniziazione presso i
Warramunga e gli Aranda, associa l’anima al fuoco: gli iniziati siedono
all’interno del riparo di frasche (in primo piano), mentre altri uomini danzano
con grandi torce e al culmine del rito lasciano cadere frammenti
incandescenti sugli iniziati.
ANIMA E SACRO
«Quando l’Australiano esce da una cerimonia religiosa, le
rappresentazioni che la vita comune ha svegliate o risvegliate in lui non
si estinguono in un sol colpo.
Le figure dei grandi antenati, le imprese eroiche di cui i riti
commemorano il ricordo, le grandi cose di ogni specie a cui il culto l’ha
reso partecipe, insomma gli ideali diversi che egli ha elaborato
collettivamente, continuano a vivere nella sua coscienza e, in virtù delle
emozioni che vi sono connesse e dell’ascendente speciale che
esercitano, si distinguono nettamente dalle impressioni comuni
suscitate in lui dal rapporto quotidiano con le cose esterne.
Le idee morali hanno lo stesso carattere: è la società che le ha
impresse in noi, e dal momento che il rispetto che essa ispira si
comunica naturalmente a tutto ciò che ne deriva, le norme imperative
della condotta si trovano, per la loro origine, investite di un’autorità e di
una dignità che gli altri nostri stati interni non posseggono; così noi
assegniamo loro un posto a parte nell’insieme della nostra vita
psichica» (p. 117).
ANIMA E SACRO
I sentimenti collettivi prendono forza attraverso le azioni esteriori e
condivise che li simboleggiano: gli Aranda praticano la cerimonia AlkiraKiuma, un rito di iniziazione che prevede il lancio in aria dell’iniziato da
parte degli uomini della tribù.
RITI DI INIZIAZIONE
«Le feste dell’iniziazione comprendono alcune pratiche fondamentali
– come l’estrazione di denti, la circoncisione, la subincisione ecc. –
che nella stessa tribù non differiscono secondo i totem. L’uniformità
su questo punto è più facilmente stabilita in quanto l’iniziazione ha
sempre luogo alla presenza della tribù, o almeno davanti a
un’assemblea alla quale sono stati convocati clan differenti.
Infatti l’iniziazione ha lo scopo di introdurre il neofita nella vita
religiosa non soltanto del clan in cui è nato, ma di tutta la tribù; è
dunque necessario che gli aspetti diversi della religione della tribù
siano rappresentati davanti a lui, passando in qualche maniera sotto
i suoi occhi.
In questa occasione si afferma più fortemente l’unita morale e
religiosa della tribù» (p. 123).
RITI DI INIZIAZIONE
Il rito della subincisione presso i Warramunga
(Alice Springs, 1904).
LA VOCE DEGLI ANTENATI
«Quando si fa risuonare il bull-roarer, si
dice che si fa sentire la voce dell’antenato.
Ma precisamente perché ognuno di questi
eroi si confonde con il culto che si ritiene
abbia istituito, lo si crede attento al modo in
cui viene celebrato.
Egli è soddisfatto soltanto se i fedeli
adempiono esattamente ai loro doveri; e
punisce quelli che sono negligenti.
Egli è quindi considerato il custode del rito
oltre che il suo fondatore, e per questo
motivo si trova investito di un’autentica
funzione morale» (p. 124).
LA VOCE DEGLI
ANTENATI
Il bull-roarer è uno strumento
musicale sacro per gli aborigeni.
Insieme al dijiridoo, rappresenta
la base sonora delle cerimonie
religiose e dei riti: è costituito da
un pezzo di legno leggero a forma
romboidale od ovaloide, legato ad
una estremità con un filo, per
mezzo del quale viene fatto
roteare in aria. Il suono che se ne
ricava è un fruscio intenso e
modulabile, molto evocativo e
misterioso.
SACRALITÀ DEI SUONI
«La parola è un’altra maniera di entrare in relazione con le persone
o con le cose. Il fiato emesso determina la comunicazione; è
qualcosa di noi che si diffonde al di fuori: perciò ai profani è proibito
rivolgere la parola esseri sacri, o semplicemente parlare in loro
presenza.
In generale vi sono presso gli Arunta, durante le grandi cerimonie,
momenti in cui il silenzio è d’obbligo.
Si tace da quando i churinga sono esposti; oppure, se si parla, è a
bassa voce e a fior di labbra.
Oltre le cose sacre vi sono parole e suoni che hanno lo stesso
carattere; essi non debbono né trovarsi sulle labbra dei profani, né
colpire le loro orecchie. Vi sono canti rituali che le donne non
debbono ascoltare, sotto pena di morte.
Esse possono udire il rumore dei bull-roarers, ma soltanto a
distanza» (p. 127).
LA MAGIA SIMPATICA
«Diversamente accade per i riti che ci interessano: essi
presuppongono non soltanto lo spostamento di uno stato o di
una qualità dati che passano da un oggetto ad un altro, ma
anche la creazione di qualcosa di interamente nuovo.
Il solo fatto di rappresentare l’animale dà origine a questo
animale e lo crea; imitando il rumore del vento o dell’acqua
che cade, si inducono le nuvole a formarsi ed a sciogliersi in
pioggia, e così via.
Senza dubbio la somiglianza ha una funzione in entrambi i
casi, ma molto differente. Nel maleficio essa non fa che
imprimere una direzione determinata all’azione che si
esercita; essa orienta in un certo senso un’efficacia che non
proviene da essa. Nei riti di cui si è parlato essa agisce di per
sé, ed è direttamente efficace» (pp. 129-130).
LA MAGIA SIMPATICA
Gli aborigeni della tribù Kakadu ritengono che la malattia sia l’esito di un maleficio,
realizzato attraverso il contatto con un osso o un bastone avvelenato. Il trattamento
curativo prevede che lo stregone guardi fissamente il malato, proiettando attraverso i
suoi occhi i cristalli del suo potere; quindi rimuove il veleno succhiandolo a poco a poco
dal corpo del paziente.
I RITI MIMETICI
(simpatici o simpatetici)
«Gli uomini che si riuniscono in occasione di questi riti credono realmente
di essere animali o piante della specie di cui recano il nome. Essi si
sentono di una natura vegetale o animale, ed essa costituisce ai loro
occhi ciò che vi è di più essenziale e di più eccellente in loro.
Una volta riuniti, il loro primo movimento deve essere dunque di
proclamare gli uni agli altri questa qualità che essi si attribuiscono, e in
base alla quale si definiscono. Il totem è il loro segno di raccolta: per
questo motivo – come si è visto – essi se lo disegnano sul corpo; ma non
è meno naturale che cerchino di assomigliargli con i gesti, le grida,
l’atteggiamento. Essendo emù o canguri, essi si comporteranno come
animali dello stesso nome.
Con questo mezzo essi si testimoniano reciprocamente di appartenere
alla stessa comunità morale, ed assumono coscienza della parentela che
li unisce. Il rito non si limita ad esprimere questa parentela, ma la crea o la
ricrea» (pp. 129-130).
I RITI PIACULARI
IL LUTTO
«Il malato non morì che tardi nella serata. Appena ebbe reso
l’ultimo respiro, si ripeté la stessa scena; ma questa volta i gemiti
erano ancora più acuti. Uomini e donne, colti da una vera frenesia,
correvano, si agitavano, si ferivano con coltelli o con bastoni
acuminati; le donne si colpivano tra loro, senza che nessuna
cercasse di ripararsi dai colpi. Dopo un’ora, infine, si svolse una
processione alla luce delle torce, attraverso la pianura, fino
all’albero tra i cui rami fu deposto il corpo.
Quale che sia la violenza di queste manifestazioni, esse sono
strettamente regolate dall’etichetta. Gli individui che si fanno
incisioni sanguinose sono designati dalla consuetudine: essi
devono avere determinati rapporti di parentela con il morto» (p.
134).
CERIMONIA KULUNGARA
La cerimonia
Kulungara, presso
la tribù dei
Warramunga,
prevede che alcuni
parenti del defunto
– il nonno materno,
lo zio materno e il
cognato – si
producano ripetute
e profonde incisioni
sulle cosce.
I RITI PIACULARI
IL LUTTO
«La cerimonia descritta apre una lunga serie di riti, che si
susseguono per settimane e mesi. Essa si rinnova i giorni
seguenti, sotto forme diverse.
Gruppi di uomini e di donne stanno seduti per terra, piangendo,
lamentandosi, abbracciandosi in determinati momenti. Questi
abbracci rituali si ripetono frequentemente durante il lutto.
Gli individui provano, a quanto sembra, il bisogno di accostarsi
e di comunicare più strettamente; li si vede stretti gli uni contro
gli altri e avvinti al punto da formare una sola ed unica massa,
da cui partono gemiti profondi. Nel frattempo le donne
ricominciano a ferirsi il capo e, per esasperare le ferite che si
fanno, giungono perfino ad applicarvi punte di bastone
arroventate al fuoco» (p. 134).
I RITI PIACULARI
IL LUTTO
I riti relativi al lutto
accomunano le tribù
aborigene e si
succedono per mesi:
gruppi di donne sedute
a terra piangono e si
lamentano, colpendosi a
più riprese la testa con i
bastoni, a volte
arroventati. Il lutto
secondo Durkheim è un
dovere imposto dal
gruppo.
I RITI PIACULARI
IL LUTTO
«Il lutto non è l’espressione spontanea di emozioni individuali. Se i
parenti piangono, si lamentano, si colpiscono, non è perché si sentano
personalmente toccati dalla morte del loro prossimo. Certamente può
accadere, in casi particolari, che il dolore espresso sia realmente
provato.
Ma il più delle volte non c’è alcun rapporto tra i sentimenti provati ed i
gesti eseguiti dagli attori del rito.
Se nel momento in cui quelli che piangono sembrano più oppressi dal
dolore, si rivolge loro la parola per intrattenerli in merito a qualche
interesse temporale, accade spesso che essi mutino subito
espressione e tono, prendano un’aria allegra e discutano nella maniera
più gaia.
Il lutto non è un movimento naturale della sensibilità privata, scossa da
una perdita crudele; è un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta non
soltanto perché si è tristi, ma perché si è obbligati a lamentarsi» (p.
136).
I RITI PIACULARI
interpretazione sociologica
«Donde viene questo obbligo?
Etnografi e sociologi si sono generalmente accontentati della
risposta che gli indigeni stessi danno a questa domanda. Si
dice che il morto vuole essere pianto e che, rifiutandogli il
tributo di rimpianto a cui ha diritto, lo si offende: il solo mezzo
per prevenire la sua collera è di conformarsi alle sue volontà.
Da parte sua l’individuo, quando è fermamente attaccato alla
società di cui fa parte, si sente moralmente tenuto a
partecipare alle sue tristezze e alle sue gioie: il disinteresse
sarebbe la rottura dei vincoli che lo uniscono alla collettività,
la rinuncia a volerla e a contraddirsi» (p. 137).
I RITI PIACULARI
la vendetta
«Se ogni decesso è attribuito a qualche sortilegio magico, se
per questo motivo si crede che il morto debba essere
vendicato, ciò avviene perché si prova il bisogno di trovare
ad ogni costo una vittima su cui possano scaricarsi il dolore
e la collera collettivi.
Questa vittima si va naturalmente a cercarla al di fuori;
perché un estraneo è un soggetto minoris resistentiae; non
essendo protetto dai sentimenti di simpatia che si hanno
verso un parente o un vicino, non c’è nulla in lui che respinga
e neutralizzi i sentimenti cattivi e distruttivi che la morte ha
destato» (p. 137).
I RITI PIACULARI
la vendetta
Gli aborigeni non
ritengono la morte un
evento naturale, ma il
frutto di un sortilegio. Per
questo i Warramunga
ispezionano la “tomba”
di un parente, posta su
un albero, per trovarvi
tracce di qualche
animale, che
indicherebbe il totem di
chi ha provocato la
morte, verso il quale
potrebbe così scatenarsi
una violenta vendetta,
sentimento distruttivo
destato dalla morte del
congiunto.
RELIGIONE E SOCIETÀ
«Se la religione ha generato tutto ciò che c’è di essenziale
nella società, è perché l’idea della società è l’anima della
religione.
Le forze religiose sono quindi forze umane,
forze morali.
Senza dubbio, dato che i sentimenti collettivi possono
prendere coscienza di sé solamente fissandosi su oggetti
esterni, esse non hanno potuto costituirsi senza trarre dalle
cose qualcuno dei loro caratteri: esse hanno così acquisito
una specie di natura fisica»
(p. 140).
RELIGIONE E SCIENZA
«Ciò che la scienza contesta alla religione non è il diritto di
essere, ma è il diritto di dogmatizzare sulla natura delle
cose, è la specie di competenza particolare che essa si
attribuiva per conoscere l’uomo e il mondo.
Infatti essa non conosce neppure se stessa: essa non sa
né di che cosa è fatta, né a quali bisogni risponde. È essa
stessa oggetto di scienza; e perciò è ben lontana dal poter
imporre leggi alla scienza!
E dato che fuori del reale a cui si applica la riflessione
scientifica non esiste un oggetto proprio sul quale verta la
speculazione religiosa, è evidente che questa non
potrebbe esercitare in avvenire la stessa funzione che nel
passato» (p. 143).
IL RUOLO DELLA SOCIOLOGIA
riflessioni conclusive
«Perciò la sociologia sembra chiamata ad aprire una nuova via
alla scienza dell’uomo. Finora si era di fronte a questa
alternativa: o spiegare le facoltà superiori e specifiche dell’uomo
riconducendole alle forme inferiori dell’essere – la ragione ai
sensi, lo spirito alla materia – il che voleva dire negare la loro
specificità; oppure collegarli a qualche realtà soprasperimentale che veniva postulata, ma di cui nessuna
osservazione può stabilire l’esistenza.
Ma dal momento in cui si è riconosciuto che al di sopra
dell’individuo c’è la società, e che questa non è un essere
nominale e razionale, ma un sistema di forze operanti, diventa
possibile un nuovo modo di spiegare l’uomo. Per conservargli i
suoi attributi distintivi non è più necessario collocarli al di fuori
dell’esperienza» (p. 144).
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Durkheim: Le forme elementari della vita religiosa