384-367: la giovinezza con il padre Nicomaco a Pella, alla corte di Aminta; 367-347: il ventennio in Accademia, discepolo di Platone; 347-335: gli anni di viaggio e l’incarico di precettore di Alessandro di Macedonia; 335-323: il ritorno ad Atene e l’insegnamento al Liceo; 322: la morte a Calcide Nei 12 anni in cui resse il Liceo, Aristotele sistemò le lezioni che servivano all’interno della scuola e che furono detti «scritti esoterici», distinti da quelli «essoterici» e giovanili. Nessuna delle opere destinate al pubblico ci è pervenuta, mentre il grosso delle lezioni si è conservato ed è pervenuto fino a noi. E’ giusta l’esigenza di Platone di trovare un oggetto stabile, al di là dell’instabilità degli individui, per costruire una scienza stabile e rigorosamente fondata; ma non è necessario (né utile) porre questo oggetto in un mondo intelligibile, separato dal sensibile: si può fondare la scienza anche senza ammettere la distinzione platonica tra mondo sensibile e mondo intelligibile La scienza che si occupa della realtà nella sua totalità è la Metafisica, definita da Aristotele filosofia prima e, più tardi, detta ontologia, cioè studio dell'essere), viene da lui definita in vari modi: scienza che studia le cause e i principi primi e l'essere in quanto essere scienza che studia la sostanza In altri termini: - la matematica studia l'essere come quantità - la fisica studia l'essere come movimento scienza che studia Dio e la sostanza soprasensibile Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale, cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta la realtà. solo la metafisica studia l'essere in quanto tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco perché è chiamata filosofia prima mentre la altre scienze sono filosofie seconde), ed è dunque il presupposto indispensabile di ogni ricerca. Vi è una scienza che considera l'essere in quanto essere e le condizioni che gli sono intrinseche per se stesso. Essa non si identifica con alcuna di quelle che hanno un oggetto particolare; perché nessuna delle altre guarda in universale all'essere in quanto essere, ma, ritagliandone una certa parte, di questa considera gli accidenti (Aristotele, Metafisica, 1003 a) La logica non è una scienza - nel senso che studia dei contenuti particolari - ma una disciplina preliminare alle scienze: infatti, fornisce gli strumenti necessari per l’indagine scientifica dato che si occupa della struttura del ragionamento e del linguaggio. La logica è definita da Aristotele Analitica: scompone il pensiero e il linguaggio nelle loro strutture formali così da poterne controllare la validità. Possiamo distinguere tre elementi costituenti il linguaggio: termini (o nomi), proposizioni (o discorsi), sillogismi (o ragionamenti). Ogni termine può essere • individuale, se può fungere solo da soggetto di un giudizio ed è passibile di predicazione (es., Socrate è un uomo; questo banco è rettangolare); • universale, se può fungere sia da soggetto che da predicato in un giudizio (es., l’uomo è razionale, Socrate è un uomo). Come è evidente, i termini universali sono i concetti (noémata), poiché si riferiscono a insiemi di cose. A livello ontologico, il termine individuale corrisponde alla sostanza, il concetto fondamentale di tutta l’ontologia aristotelica: la sostanza prima è ciò che funge sempre e solo da soggetto (hypokèimenon) e mai da predicato. La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo, cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo caratterizzano. La forma è ciò che rende l’ente quello che è e lo distingue dagli altri enti; è dunque la sua essenza, il suo significato fondamentale, il suo essere dell'essere. E' quindi un sinolo, unione inscindibile di due elementi che A. chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé). La materia è invece ciò di cui un ente è fatto, ciò di cui è composto (ad es. un uomo è fatto di carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un elemento passivo, che viene strutturato dalla forma, nel senso che è la forma che rende ad es. l’uomo animale razionale, mentre la materia è il corpo dell'uomo. Entrambe però, materia e forma, sono necessarie per costituire una sostanza: non può esistere un uomo senza il corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo Dalla forma, che è l’essenza necessaria, si distinguono gli accidenti: sono le varie qualità che una sostanza può avere o non avere senza che per questo cambi l’essenza della sostanza stessa. Ad es., Socrate non cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato, ecc. Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane la stessa, identica, pur nel mutare dei diversi accidenti. Tornando alla sostanza, possiamo notare che ogni ente è una sostanza, in quanto di ogni cosa - da Dio al più piccolo sasso - si può sempre e comunque chiedere che cos'è? Ciò significa che tutti gli esseri sono accomunati dal fatto di essere delle sostanze. Il che implica che tutte le scienze, in quanto tutte rivolte alla ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità. Prof.ssa MariaElena Auxilia Tornando all’Organon, Aristotele si sofferma, come Platone, sui generi sommi e universali della predicazione che egli definisce categorie. Si tratta dei predicati primi, fondamentali, più generali all’interno dei quali si collocano o rientrano tutti gli altri predicati possibili: Aristotele ne individua 10: Sostanza Qualità Quantità Relazione Agire Subire Luogo Tempo Avere Giacere Di un qualsiasi oggetto si predica infatti ciò che esprime o una qualità, o una quantità, o qualcosa di consimile, oppure gli elementi costitutivi della sostanza: orbene, queste determinazioni sono in numero limitato, come pure sono limitati i generi della predicazione, dato che si tratterà o di qualità, o di quantità, o di relazione, o di attività, o di passività, o di luogo, o di tempo. (Analitici secondi) Es.: - Platone (sostanza), basso di statura (qualità), vive (agire) ad Atene (luogo) tra quinto e quarto sec. a.C. (tempo) dove insegna filosofia (agire) ai suoi discepoli (relazione). Dovrebbe essere evidente, a questo punto, l’identità aristotelica tra logica e ontologia: le categorie, infatti, non sono solo i modi possibili con cui parliamo delle cose e le pensiamo (nell’esempio, il «soggetto» del discorso Platone) ma anche i modi di essere della realtà (nell’esempio, la «sostanza» reale Platone) ESSERE = PENSIERO La sintesi di nome e verbo dà origine al discorso (o giudizio), che sarà vero o falso se l’affermazione unisce o separa cose effettivamente unite o separate. I discorsi sono classificati da Aristotele sulla base delle loro caratteristiche - qualitative: affermativi o negativi; - quantitative: universali o particolari. Esempi: UA: tutti gli uomini sono mortali UN: nessun uomo è immortale PA: qualche uomo è grasso PN: qualche uomo non è calvo Più giudizi concatenati tra loro danno origine al sillogismo, cioè al ragionamento: poste alcune proposizioni che fungono da premesse, ne seguono necessariamente delle conclusioni. Posto che esistono diversi tipi di sillogismo, ci interessa prendere in considerazione il sillogismo scientifico o perfetto (di prima figura), che secondo Aristotele costituisce il procedere logico delle scienze: La correttezza formale del sillogismo NON garantisce anche la sua veridicità. Infatti: Una forchetta ha tre denti; Mia nonna ha tre denti; Mia nonna è una forchetta. I fiumi hanno un letto; Io ho un letto; Io sono un fiume. Tutte le capre hanno il pizzetto; Lucio ha il pizzetto; Lucio è una capra. Dunque, perché il sillogismo sia vero oltre che corretto formalmente, bisogna che la premessa maggiore sia vera, universale e necessaria. Il processo induttivo è il metodo che conduce dall’esperienza particolare al concetto universale: dall’osservazione che gli esseri umani di cui ho avuto esperienza sono bipedi e razionali, per intuizione giungo alla conclusione universale e necessaria che tutti gli esseri umani sono bipedi e razionali. N.B.: è’ totalmente assente in Aristotele la dimensione sperimentale dell’induzione, quella che permetterà a Galilei di fondare la scienza moderna… Ovviamente, nella dimensione quotidiana della comunicazione non abbiamo quasi mai bisogno di utilizzare sillogismi scientifici: possono essere sufficienti conclusioni solo probabili o condivise dai più. Il sillogismo dialettico è appunto il sillogismo che si basa su premesse non vere ma probabili o condivise dai più o garantite dall’opinione dei più sapienti: Dialettici sono i sillogismi che concludono a partire da elementi fondati sull’opinione. […] Fondati sull’opinione sono gli elementi che appaiono accettabili a tutti, oppure alla grande maggioranza , oppure ai sapienti, e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti e illustri. Se la dimostrazione, con la sua inevitabile necessità, costituisce il metodo specifico della scienza, l’argomentazione dialettica rappresenta invece il principale strumento che abbiamo a disposizione per offrire una qualche giustificazione razionale al nostro agire pratico e quotidiano. L’ambiente naturale in cui l’argomentazione si sviluppa non è, dunque, quello della ricerca solitaria ed astratta, ma la discussione pubblica e il dibattito, dove tesi e opinioni si scontrano e si confrontano, tentando ciascuna di far valere le proprie ragioni e di confutare al contempo le altre. A prescindere da quale tipo di ragionamento utilizziamo, la nostra mente si basa su tre principi logici evidenti e indimostrati che garantiscono la correttezza formale del pensare e del dire: - Principio di identità: A=A. Nello stesso contesto di discorso A permane nella propria identità; - Principio di non-contraddizione: A non è non-A. Nello stesso contesto di discorso non è possibile attribuire contemporaneamente ad A l’attributo B e l’attributo non-B; - Principio del terzo escluso: A o è B o è non-B. Date due proposizioni contraddittorie di cui una vera, l’altra è necessariamente falsa: non esiste una terza possibilità (tertium non datur) Si è detto all’inizio che la filosofia prima è presentata da Aristotele innanzitutto come ricerca delle cause prime. Per quanto riguarda il mondo del divenire, tutto ciò che accade è interpretabile attraverso quattro possibili cause. Le prime due (formale e materiale) non sono altro che l’essenza e la materia che costituiscono tutte le sostanze esistenti corruttibili (vedi sopra) Materia e forma bastano a spiegare la sostanza se la consideriamo staticamente. Se invece consideriamo la sostanza dinamicamente, cioè nel suo divenire e svolgersi, materia e forma non bastano più: se, ad esempio, nel caso di un uomo ci domandiamo «come è nato?», «chi lo ha generato?», «perché si sviluppa e cresce?», occorrono altre due ragioni o cause, quella efficiente (ad esempio, il padre che lo ha generato) e quella finale (il telos, lo scopo a cui tende il divenire dell’uomo, ad esempio la realizzazione della propria essenza). In altri termini, mentre Platone aveva introdotto le Idee come cause trascendenti delle cose, che dovrebbero spiegarne i caratteri, per Aristotele una causa o forma separata non può spiegare le cose né il loro divenire (vedi anche la dottrina della categorie). Per spiegare qualsiasi forma di movimento, cioè di divenire o di cambiamento, dobbiamo considerare che: Ogni mutamento è un moto per il raggiungimento di un certo modo di essere, cioè di una certa forma (causa formale) Ogni trasformazione presuppone una materia, che conseguirà quella certa forma (causa materiale) Ogni trasformazione richiede un ente già esistente che agisca nel processo (causa motrice o efficiente) Ogni trasformazione è verso uno stato finale che ne rappresenta il fine (causa finale, che può essere la stessa forma nel caso degli esseri viventi) Se la metafisica è lo studio dell'essere, che cosa è l'essere? 1. essere 2. essere 3. essere falso); 4. essere come accidente; come sostanza; come vero (e il non essere come Aristotele afferma che l’essere può essere detto in molti modi (noi diciamo ad es. che l'uomo è razionale, la neve è sui monti, Dio è...). Esso viene perciò diviso da A. in quattro gruppi principali: come potenza-atto. La prima delle categorie, la sostanza, è la più importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in qualche modo, la presuppongono (ogni categoria è sempre riferita a qualcosa che esiste già prima: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno, padre, cammina, ecc.). Conseguenze: - antiplatonismo di Aristotele; - se l'essere si identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla sostanza, la domanda che cos'è l'essere? si trasforma in che cos'è la sostanza? Esistono, per Aristotele, tre tipi di sostanza: Sostanza sensibile e corruttibile (tutti i corpi del mondo terreno o sublunare) Sostanza sensibile e incorruttibile (tutti i corpi del mondo celeste o sovralunare) Sostanza immobile (Dio) L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. Questa realtà è, evidentemente, la sostanza: «l’essere-inquanto-essere» significa allora «la sostanza» e tutto ciò che, in molteplici modi, si riferisce alla sostanza L’essere si dice, in un senso, come accidente, cioè come essere accidentale o casuale. Per esempio, quando diciamo «l’uomo è musico», indichiamo un caso di essere accidentale: infatti l’essere musico non esprime l’essenza dell’uomo ma solamente ciò che all’uomo può accadere di essere, un puro accadere, appunto, un accidente. Dell’essere come sostanza si è già detto in precedenza. L’essere come vero (contrapposto al non-essere come falso) indica l’essere del giudizio vero: è un significato dell’essere puramente logico, mentale. E’ l’essere che sussiste solo nella ragione e nella mente che pensa. L’essere come atto e potenza. Il rapporto potenza-atto consente a Aristotele di risolvere brillantemente il problema parmenideo del divenire: vediamo come. Come è noto, Parmenide esclude il divenire come oggetto dell’episteme, poiché privo delle caratteristiche proprie dell’essere. Per Aristotele, al contrario, l’essere-in-quanto-essere è costituito dalla realtà complessiva nel suo divenire: dunque, ogni cambiamento avviene nell’essere. In che modo? Il divenire è concepito da Aristotele come passaggio da uno stato dell’essere (potenza) ad un altro stato dell’essere (atto): un pezzo di legno è in potenza un banco (o una sedia, o un mobile…); il banco (o il mobile) è in atto ciò che nel pezzo di legno era solo in potenza; uno spermatozoo è in potenza un essere vivente; l’essere vivente che si genera è in atto ciò che nello spermatozoo era solo in potenza; più in generale, la materia di cui è costituita una sostanza è potenza (possibilità, potenzialità) di assumere una forma, la quale attualizza quella potenzialità. In altri termini: MATERIA : FORMA = POTENZA : ATTO Il legno è potenza dei vari oggetti che col legno si possono fare, perché è concreta capacità di assumere le forme (atto) dei vari oggetti. La dottrina della potenza e dell’atto è, dal punto di vista metafisico, importantissima. Aristotele risolve le aporie parmenidee del divenire e del movimento-cambiamento (dovute al fatto che quella parmenidea era una concezione univoca – e non plurivoca – dell’essere): divenire e movimento scorrono nell’essere, poiché NON sono un passaggio dall’essere al nonessere, ma dall’essere-in-potenza all’essere-in-atto, cioè da essere a essere In diversi passi, Aristotele definisce la filosofia prima «teologia»: infatti, se non ci fosse una sostanza soprasensibile, non ci sarebbe nemmeno una filosofia prima, e la fisica diventerebbe la scienza più alta: se non sussistesse altra sostanza oltre quelle sensibili, la fisica sarebbe la prima scienza. Come viene dimostrata da Aristotele l’esistenza del soprasensibile? Partendo dall’assunto della Fisica secondo il quale «tutto ciò che si muove è mosso da altro», cioè «ogni movimento ha una sua causa» : pertanto, se non si vuole risalire all’infinito nella concatenazione delle cause e degli effetti… …dobbiamo ammettere l’esistenza di un - principio o motore primo causa del movimento in atto. Tale principio (Dio) deve essere - motore immobile (dà il movimento ma non può essere a sua volta mosso da qualcos’altro), - atto puro (se fosse potenzialità potrebbe anche non muovere in atto le cose, il che è contrario all’evidenza), - causa finale (e non efficiente, altrimenti si muoverebbe anch’esso e necessiterebbe di qualcos’altro che lo muova): il primo motore muove come l’oggetto d’amore attrae l’amante, così come il bello e il buono attraggono l’uomo pur rimanendo essi stessi fermi, - vita contemplativa, puro pensiero, pensiero di pensiero: Da un tale principio, dunque, dipendono il cielo e la terra. Ed il suo [di Dio] modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato egli è sempre […] Ed egli è anche Vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna […] il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intellegibile […] e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. La Fisica, o «filosofia seconda», ha come oggetto di indagine la realtà sensibile, intrinsecamente caratterizzata dal movimento (così come la filosofia prima ha come oggetto la realtà soprasensibile priva di movimento). E’ opportuno chiarire che Aristotele quando parla genericamente di movimento intende il cambiamento: - secondo qualità (alterazione): le foglie diventano gialle, i capelli bianchi, etc; - secondo quantità (aumento o diminuzione): la statura aumenta, il peso aumenta o diminuisce, una quantità può cambiare, etc.; - secondo traslazione: lo spostamento da un punto all’altro dello spazio La distinzione tra metafisica e fisica comporta: - il definitivo superamento dell’orizzonte della filosofia presocratica; - il mutamento dell’antico significato di physis, non più intesa come totalità dell’essere, ma come essere sensibile; - una considerazione solo filosofica della natura (e non matematicoscientifica, come avverrà con Galilei) In quanto scienza che studia la sostanza sensibile, la fisica estende i suoi interessi anche agli esseri viventi (comprende quella che oggi chiameremmo biologia), e lo fa in stretta connessione con la metafisica, la quale è pensata come scienza che studia il fondamento di tutti gli esseri (sensibili e sovrasensibili) e i cui risultati pertanto sono da ritenersi vincolanti anche per lo studio della realtà naturale. A differenza delle scienze moderne, la fisica aristotelica utilizza un metodo osservativo e deduttivo ma non sperimentale, e non fondato sulla misurazione dei fenomeni secondo un’ottica matematica. Quindi, riassumendo: È molto più consistente del mondo platonico: è un mondo di sostanze, cioè enti sussistenti, che agiscono gli uni sugli altri come vere cause; È qualitativo: ciascuna sostanza è determinata dalla propria forma specifica, che la fa appartenere alla propria specie; Le specie viventi sono eterne: l’esistenza di individui attuali presuppone l’esistenza di genitori della stessa specie, e così via all’infinito La validità universale della scienza presuppone l’eternità delle forme immanenti, e quindi delle specie (così come in Platone richiedeva un mondo intelligibile eterno). Aristotele divide il cosmo in due realtà ben distinte: il mondo sublunare e quello sovralunare (o celeste) Il primo è costituito dai 4 elementi tradizionali: terra, acqua, aria, fuoco. Il secondo, quello celeste, è costituito da una quinta essenza: l’etere; non è soggetto a mutamento, quindi è ingenerabile, inalterabile, immutabile MONDO SUBLUNARE MONDO CELESTE 1. 4 elementi: 2 pesanti (terraacqua) + 2 leggeri (aria-fuoco); 1. 2. La mescolanza dei 4 elementi conferisce pesantezza o leggerezza ai corpi; 3. Vi è continuo mutamento (nascita-morte; generazione– corruzione); 2. L’ etere è una sostanza trasparente, imponderabile ed immutabile; 4. Moto rettilineo (che ha inizio e fine) per cause naturali o moto di un proiettile per cause violente; 5. Il moto rettilineo è un moto imperfetto, ha inizio (potenza) e fine (atto). quinto elemento: etere; 3. Eternamente immutabile, perché ingenerabile; 4. Moto circolare (che non ha né inizio né e fine, infatti ogni punto della circonferenza è inizio e fine allo stesso tempo); 5. Il moto circolare è perfetto quindi eterno. L’universo consiste in una serie di 55 sfere cristalline concentriche rotanti in moto uniforme ma a velocità diverse tra la terra e quella più esterna (il cielo delle stelle fisse): il loro combinarsi spiega il moto degli astri. La prima sfera, quella più esterna, comprende in sé ogni cosa: al di fuori di essa non può esserci né luogo, né spazio. Il luogo non viene inteso come una realtà assoluta, bensì come qualcosa di relativo ai corpi, cioè in relazione ad essi: di qui la teoria dei luoghi naturali secondo la quale i corpi formati da acqua e da terra tendono naturalmente verso il basso e quelli fatti di fuoco ed aria verso l’alto. • Il “basso” pertanto non può essere che il centro della terra e quindi anche centro di tutto l’universo; • incastonate sulla sfera estrema si trovano le cosiddette stelle fisse, dotate di un unico moto (che è in realtà il moto della sfera). • A questo modello si oppose Aristarco (III sec a.C.) che fu il primo a proporre il modello eliocentrico, ma fu tacciato di empietà e non ebbe seguito nella scienza greca. Questa immagine riprende l'idea dei commentatori medievali di Aristotele che si chiedevano cosa ci fosse “oltre” l'ultima sfera La fisica aristotelica non indaga solo la natura in generale, l’universo fisico e la sua struttura, ma anche gli esseri inanimati e animati e, tra questi ultimi, quelli senza ragione e quelli dotati di ragione (l’uomo). Gli esseri animati si differenziano da quelli inanimati perché possiedono un principio che dà loro la vita: l’anima. L’anima è l’atto primo di un corpo naturale munito di organi: ovvero, se anche un corpo vivente è sinolo di materia e forma, l’anima è la forma, l’atto rispetto alla materia-potenza. Rispetto a Platone: Mentre Platone concepiva l’anima come dualisticamente contrapposta al corpo, totalmente altra e incapace di armonica conciliazione col corpo - considerato come carcere e luogo di espiazione dell’anima -, Aristotele concepisce l’anima come quel principio che, strutturando il corpo, lo fa essere ciò che deve essere. In tal modo è salvata l’unità dell’essere vivente. Platone aveva tripartito l’anima su base etico-politica; Aristotele tripartisce l’anima sulla base dell’analisi generale dei viventi e delle loro funzioni (cioè su base biologica) o facoltà. La tripartizione è la seguente: VEGETATIVA SENSITIVA RAZIONALE Presiede alle funzioni riproduttive e nutritive Presiede alle funzioni sensibili (percezione e movimento) Presiede alle funzioni intellettuali Presente in tutti gli esseri viventi: vegetali e animali Presente solo negli animali Propria solo dell’uomo Il rapporto potenza-atto è la chiave di interpretazione sia del rapporto senso-sensibile (anima sensitiva) sia del rapporto intelletto-essenza. In che modo? Senso-sensibile: le nostre facoltà sensitive (i cinque sensi) sono in potenza in grado di ricevere i sensibili (colori, odori, sensazioni tattili, olfattive, di gusto); i sensibili, a loro volta, sono in potenza coglibili dai sensi. Quando la facoltà sensitiva da potenza diviene in atto si realizza la sensazione: La sensazione non è un’alterazione del tipo di una semplice sostituzione di uno stato con il suo opposto, ma del tipo di una realizzazione di una potenza, di un avanzamento di qualcosa verso se stessa e verso l’attualità. (W.D.Ross, Aristotele) Oltre ai sensibili propri, esistono anche i sensibili comuni,: movimento, quiete, numero, figura, grandezza , non sono oggetto di un solo senso ma di più sensi: ad esempio, il mutamento di un corpo può essere percepito simultaneamente con la vista e con il tatto. Ai sensibili comuni corrisponde un senso comune, un senso generale non specifico, che agisce in maniera non specifica. Questo senso comune, inoltre, è quello che permetterebbe il sentire di sentire, cioè la consapevolezza che accompagna la sensazione e la comparazione tra sensibili propri di sensi diversi (ad esempio il giallo e il dolce combinati insieme nel miele). Dalla sensazione inizia il processo della conoscenza: L’atto intellettivo è analogo all’atto percettivo: è un ricevere o assimilare le forme intellegibili (le essenze), ma differisce dalla percezione perché è un atto non mescolato al corpo e al corporeo L’intelletto è di per sé capacità e potenza di conoscere le forme delle sostanze; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle sensazioni. E’ necessario tradurre in atto questa doppia potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nella sensazione diventi concetto in atto, colto e posseduto. A tal fine, Aristotele distingue tra - intelletto in potenza, che ha la potenzialità di essere tutti gli oggetti; - intelletto attivo (o divino, che viene «dal di fuori»), che tutti [gli oggetti] produce, quasi sia uno stato simile alla luce, poiché […] la luce rende colori in atto i colori che lo sono in potenza. Questa «luce intellegibile» permette all’intelletto, dopo ripetute esperienze, di «separare» nell’immagine sensibile, ciò che è accidentale da ciò che è essenziale, e a giungere, quindi, a ciò che è comune nei diversi individui e perciò universale. Questa scoperta dell’universale nell’individuale è detta, come è noto, induzione o astrazione (perché capace di separare, astrarre l’essenziale dall’accidentale). Dunque, senza esperienza non è possibile alcuna conoscenza. L’esperienza sensibile non è ostacolo, ma condizione necessaria per la conoscenza. A differenza delle scienze teoretiche, quelle pratiche riguardano l’agire degli uomini e i fini che essi vogliono raggiungere. La scienza complessiva dell’agire umano, sia individuale che in comunità, è definita da Aristotele «filosofia delle cose dell’uomo» e si articola in etica e politica. Quando l’uomo agisce, lo fa per raggiungere un determinato fine, considerato, evidentemente, come un bene. I fini sono, di norma, relativi: li vogliamo in vista di ulteriori fini o beni. Poiché sarebbe impensabile un processo di questo tipo all’infinito, dobbiamo pensare che tutti i fini e i beni cui noi tendiamo… …siano in funzione di un fine ultimo e di un bene supremo. Tale fine o bene supremo è l’eudaimonia, ossia la felicità. Cos’è la felicità? Coerentemente con la concezione greca dell’areté, cioè della virtù, Aristotele afferma che il bene dell’uomo consiste nell’opera che gli è peculiare, cioè in quell’opera che egli ed egli solo sa svolgere: quest’ opera è, evidentemente, la ragione, l’attività dell’anima secondo ragione. Il vero bene dell’uomo, dunque, consiste nella perfetta esplicazione e attuazione dell’attività razionale: così, Aristotele aderisce alla dottrina socratico-platonica che indicava nell’anima l’essenza dell’uomo. La felicità è definita da Aristotele come attività dell’anima secondo virtù: come ogni parte dell’anima ha una sua attività peculiare, così deve avere una sua peculiare virtù. - L’anima vegetativa, non avendo alcun rapporto con la ragione, non è coinvolta nell’etica, che mette in gioco soltanto le due funzioni superiori dell’anima stessa. - Dall’anima sensitiva dipende la facoltà desiderativa, ovvero la capacità di provare desideri e passioni, di per sé smodati, che deve essere diretta dalla ragione. Ad essa si riferiscono quelle che Aristotele chiama virtù etiche. - Dell’anima razionale sono proprie delle virtù specifiche, quelle che Aristotele chiama virtù dianoetiche. Le virtù etiche, quelle che moderano gli impulsi e i sentimenti, si apprendono attraverso l’abitudine e l’esercizio: compiendo atti giusti diventiamo giusti, compiendo atti coraggiosi diventiamo coraggiosi, etc., Le virtù etiche sono «abiti», atteggiamenti che acquisiamo attraverso le azioni quotidiane. In cosa consistono? Aristotele afferma che non c’è virtù quando c’è eccesso o difetto, dunque la virtù implica la giusta proporzione, la via di mezzo tra due eccessi. La virtù etica è la medietà tra due estremi della passione, di cui l’uno è per eccesso, l’altro per difetto; il giusto mezzo segna il punto più alto dell’affermazione della ragione sull’irrazionale: […] secondo la sua essenza e secondo la sua natura, la virtù è una medietà, ma rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più elevato: In questo breve passo Aristotele condensa tutta la saggezza greca che si era espressa nella tradizione dei Sette Savi, che aveva additato nel «nulla di troppo» la regola suprema dell’agire morale. Aristotele illustra con un’ampia analisi quanto detto fin qui: - il coraggio è il giusto mezzo fra temerarietà e viltà; - la temperanza è il giusto mezzo fra dissolutezza e insensibilità; - la liberalità è il giusto mezzo tra avarizia e prodigalità; - la giustizia è, tra tutte le virtù etiche, la più alta e importante, non solo perché è il rispetto delle leggi dello stato, ma perché è essa stessa la caratteristica essenziale del giusto mezzo (laddove l’ingiustizia lo è degli estremi) A Homer manca la sola virtù intellettuale necessaria a un carattere etico: ovvero, la phronesis, la saggezza pratica […] la facoltà di organizzare la propria vita secondo scopi importanti e degni di perseguirli responsabilmente e moralmente. (Autori vari, I Simpson e la filosofia) Al di sopra delle virtù dell’anima sensitiva ci sono quelle dell’anima razionale o intellettiva, dette virtù dianoetiche. L’anima razionale svolge due funzioni: - conoscenza delle cose contingenti e variabili (ragione pratica o calcolativa); - conoscenza delle cose necessarie e immutabili (ragione teoretica o scientifica). A queste due funzioni corrispondono altrettante virtù dianoetiche: la saggezza (phronesis) e la sapienza (sophia) la phronesis ci aiuta a scegliere i mezzi adatti a conseguire i nostri fini: L’opera umana si compie attraverso la phronesis e la virtù etica: infatti la virtù rende retto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi. In altri termini, non è possibile essere saggi senza la virtù né essere virtuosi senza saggezza; la sophia riguarda ciò che è al di sopra dell’uomo, l’intuizione dei principi e la conoscenza dianoetica che da quei principi deriva: [rispetto alle cose dell’uomo] vi sono altre cose molto più divine, come, per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l’universo. Da ciò che si è detto è chiaro che la sapienza è insieme scienza e intelletto delle cose più eccelse per natura. …nell’attività della contemplazione intellettiva, con la quale l’uomo raggiunge il vertice delle sue possibilità e attualizza quanto di più alto è in lui: Se l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa ed essere autosufficiente e se sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all’uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della vita. Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino […] Così, la felicità della vita contemplativa realizza una sorta di «tangenza» con la divinità… Le scienze poietiche insegnano a fare e a produrre cose, oggetti, strumenti secondo regole e conoscenza precise. Si tratta delle «arti» o «tecniche». I Greci, rispetto a noi contemporanei, mettevano in evidenza soprattutto il momento conoscitivo che tali discipline implicano, anche se si tratta di una conoscenza né fine a se stessa (teoretiche) né volta all’agire morale (pratiche). Sono le sole, tra tutte le tecniche, a interessare la filosofia. Alcune cose che la natura non sa fare l’arte le fa; altre invece le imita. Alcune arti completano e integrano la natura; altre «imitano» la natura ricreandone alcuni aspetti con materiali plasmabili, colori, suoni o parole senza fini di utilità pragmatica: appunto, le «arti belle». Nella Poetica, Aristotele limita la trattazione alla poesia tragica e, più limitatamente, alla poesia epica; in un secondo libro, andato perduto, si soffermava sulla commedia. Tre sono i concetti su cui soffermarsi per comprendere la natura del «fatto artistico» secondo Aristotele: a) la mimesi; b) la catarsi; c) le unità. Platone aveva condannato l’arte imitativa come «mimesi di secondo grado»; Aristotele si oppone nettamente a questo modo di vedere e considera l’arte non come una passiva riproduzione della realtà ma, al contrario, come un’attività che «ricrea» le cose secondo una nuova prospettiva: […] ufficio del poeta non è di descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono in date condizioni accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità. Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scrive in versi e l’altro in prosa […] la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare. Il passo è particolarmente significativo: - la poesia non è poesia perché usa i versi ( se lo storico usasse i versi invece che la prosa NON farebbe poesia); in generale, non sono i mezzi usati a fare sì che l’arte sia arte; - non è la verità storica dei fatti o delle persone rappresentate che danno valore all’arte ma - la «trasfigurazione» dei fatti sotto l’aspetto della possibilità e della verosimiglianza che conferisce loro un significato più ampio e li universalizza; - proprio per questa sua universalità, l’arte ha un valoro conoscitivo. Aristotele tratta prevalentemente della tragedia, ma la questione della catarsi, cioè della purificazione, vale per l’arte in generale. Tragedia è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni. Questa «catarsi poetica» non è di tipo morale né di tipo fisiologico (come voleva Freud) ma una «liberazione» che ha qualcosa di analogo a ciò che noi definiamo piacere estetico. Perché una tragedia sia perfettamente compiuta e perfetta deve rispettare alcune «regole», passate alla storia della letteratura e del teatro come le unità aristoteliche di tempo, luogo, azione: - unità di tempo: l’azione deve svolgersi nell’arco di una giornata, dall’alba al tramonto; - unità di luogo: l’azione deve svolgersi in un luogo circoscritto dove i personaggi agiscono o raccontano; - unità d’azione: la vicenda deve essere unica, senza digressioni né trame secondarie. Questo «precetto» aristotelico verrà tenuto in considerazione e seguito da scrittori e drammaturghi fino all’800. Good bye, Aristotele!!!