Fedra era figlia di Minosse e di Pasifae, sorella
di Arianna, sposa di Teseo che l’ha portata con
sé nella fuga da Creta. Secondo l’elaborazione
del mito fatta da Euripide in due tragedie, presa
da folle amore per il figliastro Ippolito, casto
seguace di Artemide, e da lui respinta, si uccide
accusando Ippolito di aver tentato di sedurla, e
ne provoca la morte.
Ippolito era il mitico figlio
di Teseo e dell’amazzone Antiope.
Era bellissimo e casto, seguace
quindi di Artemide-Diana e
avverso ad Afrodite
I ppolito trascinato dai suoi
cavalli, opera dell'artista Sir
Lawrence Alma Tadena, 1860 circa
Il mito di Fedra e Ippolito è narrato nella tragedia Ippolito
di Euripide e, nel mondo latino, da Ovidio che, nelle
sue Heroides dedica un'epistola, la IV, a Fedra che scrive a
Ippolito (senza risposta). Del 1677 è il dramma di Jean
Racine, Phèdre.
D’Annunzio nel 1909 mise in scena una tragedia
intitolata Fedra, rifacendosi esplicitamente al mito classico, e
nel 1915 andò in scena un'opera di Ildebrando Pizzetti,
anch'essa col titolo di Fedra, basata sul testo dannunziano.
Il poeta greco Ghiannis Ritzos riscrive il mito di Fedra, che
pubblica all'interno del volume Quarta dimensione nel 1972,
durante la "pausa liberale" della dittatura di Papadopulos.
Del 1996 è l'opera Phaedra’s Love della drammaturga
inglese Sarah Kane
CANTO MONODICO DI IPPOLITO
Egli si professa seguace di Diana, “sovrana del
regno più segreto della terra, saettatrice
infallibile della fiera che si abbevera al gelido
Arasse e di quella che danza sulla crosta
ghiacciata dell’Istro. La tua mano raggiunge i
leoni di Libia e le cerve di Creta, o trafigge, più
lieve, le gazzelle in corsa. A te offrono il petto le
tigri maculate, a te offrono il dorso i bisonti
villosi e gli uri selvaggi dalle larghe corna. Ha
paura del tuo arco, Diana, tutta la fauna che vive
nelle solitudine, quella ben nota agli Arabi nei
boschi ricchi di aromi, o dai Garamanti […] Se il
tuo fedele ti è accetto e porta con sé la tua
benedizione, le reti tengono avvinte le fiere, le
zampe non strappano i lacci, la preda fa gemere
il carro; allora il muso dei cani è tutto rosso di
sangue e la schiera campagnola torna alle sue
capanne in un lungo trionfo. Eccoti, o dea;
latrano i cani, segno del tuo favore. Mi chiamano
i boschi.”
MONOLOGO DI FEDRA
“Ma sull’anima triste mi pesa un altro più grande
dolore. Non mi porta sollievo né la notte né il
sono: il mio male si alimenta, e cresce e brucia
come il fuoco che trabocca dal cratere dell’Etna.
[…] Vorrei scovare e inseguire di corsa le fiere e
scagliare i rudi giavellotti con la mano delicata.
Dove corri, mio cuore? Che delirio ti fa amare le
selve? La riconosco, la fatale passione di mia
madre infelice: il nostro amore si fa peccato nei
boschi. Madre, ho pietà di te: preda di una
furiosa passione, sei giunta ad amare il capo
feroce di bestie selvagge: era un bruto, il tuo
amante, insofferente del giogo, re di un branco
brado…Ma era capace di amore. Quale dio, quale
Dedalo, avrà rimedio per il mio rovente dolore?
[…]Per le figlie di Minosse non ci sono amori
normali, tutti hanno qualcosa di empio.”
LA VOCE DELLA NUTRICE
L’amore come divinità possente è
invenzione di una voglia immorale e
viziosa, che per essere più libera ha
dato alla passione il nome pretestuoso
di dio. Imputa alla ricchezza e all’agio
l’abbandonarsi più facilmente ai deliri
amorosi: l’amore onesto abita in
modeste dimore, la classe media ha
sentimenti sani mentre ricchi e regnanti
vogliono avere più del lecito, vogliono,
avendo già troppo, l’impossibile.
LA VOCE DEL CORO
Cupido imperversa su tutte le creature
con le sue frecce, facendo divampare
incendi nei cuori di tutti, giovani e
vecchi, dei e armenti; Amore è il dio
dal regno più vasto di tutti: dalla
terra, al cielo, agli abissi marini, non
risparmia nemmeno i mostri del
mare, ed è in grado di vincere l’odio
IPPOLITO TESSE L’ODE
DELLA PUREZZA ORIGINARIA
“…chi ha mantenuto la sua purezza nei boschi non arde di
folle cupidigia, non smania per una popolarità infida ai
buoni, non è avvelnato dalla gelosia né illuso dal fragile
favore dei potenti, […] è libero da speranza e da timore
[…]la sua proprietà non ha confini: si aggira senza danno
di alcuno per l’aperta campagna, sotto il cielo aperto
…vuole l’aria e la luce, e la sua vita ha testimonio il cielo.
Così si viveva, penso, mescolati agli dei nell’età più antica.
[…]Ruppero questo accordo l’empia frenesia di guadagno,
l’ira impaziente e le brame che non danno mai pace al
cuore …allora si cominciò a combattere … e poi il dio della
morte inventò sempre più efficaci forme per dare la morte
… e si moltiplicarono le empietà, dei fratelli contro i fratelli,
dei figli contro i padri, delle madri e delle matrigne: [il
discorso diviene misogino] il primo dei mali è la donna, è
lei la maestra di delitti, per i suoi adulteri vanno in fumo le
città, tanti popoli si fanno guerra, tante genti sono sepolte
sotto le rovine dei loro regni. Basti Medea come esempio.”
LA DICHIARAZIONE D’AMORE DI
FEDRA: UN AMORE NOSTALGICO
Fedra dichiara a Ippolito il suo amore
in una forma indiretta, parlando di
com’era suo padre da giovane, nel
labirinto, quando di lui si innamorò
sua sorella Arianna
IL RAMMARICO DEL CORO
Quanto sono lontani i celesti dagli uomini:
“perché non ti curi di aiutare i buoni e di
punire i malvagi?Le cose umane sono
in balia del Caso che sparge i suoi doni
con mano cieca, favorendo i peggiori;
l’innocenza è vinta dall’arbitrio, la falsità
regna nei palazzi regali. Il popolo gode
di affidare il potere a mani indegne, e la
stessa persona è segno di amore e di
odio. Il merito tristemente riceve non il
premio, ma il castigo della sua virtù: agli
onesti è compagna la miseria, e
l’adulterio trionfa grazie ai suoi vizi: o
moralità, nome vano, falsa apparenza!”
IL CORPO SMEMBRATO
Ippolito non appartiene all’ambito del logos (il
coro) e nemmeno a quello del furor (Fedra,
Teseo). Rappresenta uno stato di natura
che si appaga di sé, non necessita di
relazioni, si nutre di solitudine. Ha qualcosa
di disumano e di astratto, a dispetto del
radicamento nella condizione naturale.
Il suo smembramento rende atrocemente
evidente tale solitudine, in quanto gli
sottrae un’identità. Le ultime parole della
tragedia, in compenso, conferiscono peso
e sostanza al corpo di Fedra.
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