L’avvento della Regione in Italia • E’ stato osservato che l’avvento dell’ordinamento regionale nel nostro Paese ebbe il significato di una rivoluzione destinata a segnare una nuova era nella storia dello Stato italiano. Ponendo mano alla redazione del progetto di costituzione i costituenti se ne mostrarono pienamente consapevoli fin dalle prime sedute plenarie della Commissione dei 75, quando la questione delle autonomie venne identificata, immediatamente con la questione stessa della struttura dello Stato, e pertanto, devoluta alla seconda sottocommissione. • Va ancora sottolineato come il dibattito preliminare, svoltosi fra il luglio e l’agosto del 1946, rivelasse la sostanziale coincidenza, nel pensiero dei costituenti, fra il problema delle autonomie e quello della Regione. Nell’approccio ai lavori della costituente occorre soffermarsi sul periodo di redazione del progetto di costituzione per capire come si arriva alla redazione del titolo V. • Va sottolineato, ancora, come la commissione dei 75 non si limitò a svolgere un’attività meramente tecnico-giuridica, ma fu un organo essenzialmente politico, che riproduceva la composizione partitica dell’ASSEMBLEA. • Fin dalle prime sedute lo schieramento politico che la questione regionale determina, risulta articolato sia fra i diversi partiti, sia all’interno degli stessi: sotto questo profilo si riproduce la situazione del periodo precostituente Formazione della II sottocommissione 13 componenti 3 Unione democra tica naz. 7 3 5 2 3 1 Blocco naz. Libertà 1 • Nella Dc, accanto alla maggioranza impersonata da Gaspare Ambrosini, orientata verso una regione dotata di potestà legislativa, esiste una minoranza che preferisce insistere sul concetto di decentramento amministrativo • Rimaneva isolato e inascoltato il costituzionalista Costantino Mortati che sollecitava un approfondimento del rapporto pianificazioneregioni • Il PCI sembra concorde nell’accettare la Regione ma nel rifiutarle sia la piena autonomia finanziaria, sia la potestà legislativa primaria. Non mancano, tuttavia,all’interno del partito, coloro che si schierano contro la regione, nella convinzione che il decentramento burocratico amministrativo sia sufficiente. • Dei 5 socialisti che fanno parte della sottocommissione, 2 sono per l’ampliamento delle autonomie amministrative, ma contrari all’istituzione della regione. • Fra i repubblicani l’idea di regione è condivisa ma c’è chi parte dalla considerazione della massima autonomia ai comuni per arrivare alla regione, c’è chi, come Tommaso Perassi, aderisce all’impostazione di Ambrosini • Nel Partito Liberale, confluito nell’Unione democratica nazionale, Luigi Einaudi è ragionalista, • Aldo Bozzi parla di regione facoltativa • L’azionista Emilio Lussu ribadisce il suo federalismo… • …mentre il leader del movimento indipendentista siciliano, Andrea Finocchiaro Aprile parla di una confederazione italiana • L’orientamento della maggioranza, si rivelò, in seno alla seconda sottocommissione, a favore del regionalismo. Ciò dipese dalla circostanza che nella Commissione dei 10 incaricata di redigere lo schema sull’ordinamento regionale, siciliani, sardi e valdostani fossero 4 su 10… • Se non esistevano dubbi sulla necessità della creazione dell’ente regionale, molte erano invece le incertezze circa i poteri del nuovo ente e il dibattito si polarizzava intorno ai temi del federalismo e del mero decentramento. • Emergeva in quel contesto, quale posizione capace di contemperare entrambe le esigenze, e dunque quale soluzione di compromesso, la proposta di Gaspare Ambrosini dello Stato regionale. Lo Stato regionale di Ambrosini • La tesi di Ambrosini comportava che l’ente regione fosse dotato di potestà legislativa primaria. Essendo corrente l’opinione che fra tale soluzione e il federalismo non vi fosse troppa differenza i federalisti, vistisi in minoranza, vi aderirono, seguiti dai repubblicani e dagli azionisti. • Comunisti e socialisti erano invece disposti ad ammettere esclusivamente una potestà legislativa delegata, sollevando il plauso dei liberali. I lavori del Comitato dei 10 • Sulle prime sembrò che si potesse giungere facilmente ad una soluzione condivisa, tuttavia, già nel Comitato le sinistre presentarono progetti che rilanciavano la tesi della propria parte politica. Nel Comitato l’impostazione di Ambrosini prevalse, ma nella seconda sottocommissione l’esame dell’argomento richiese ben 2 sedute, perché in alternativa al progetto del Comitato veniva proposto un emendamento contrario alla potestà esclusiva e favorevole soltanto a quella integrativa. L’iniziativa faceva perno su comunisti e socialisti, ma aveva accolto singole adesioni fra i liberali ed esponenti di altri gruppi. La Commissione dei 75 • Il 17 gennaio del 1947, nella seduta plenaria della Commissione dei 75, si constatò che il PCI era contrario anche all’ipotesi di una potestà legislativa integrativa. Fu lo stesso Togliatti a prendere la parola contro il testo votato dalla II sottocommissione, asserendo che, delle due concezioni possibili, il federalismo e il decentramento amministrativo, mentre del primo rimanevano nel progetto “profonde tracce”, del secondo non si faceva cenno, circostanza che lo rendeva inaccettabile…. • Togliatti presentava un ordine del giorno che prevedeva il decentramento amministrativo e un regime di ampia autonomia per le isole e le zone mistilingui, per il resto rifiutava l’introduzione, nella Costituzione, di elementi “anche indiretti ed attenuati di federalismo”. • Nonostante pochi fossero disponibili a seguire il leader comunista, in seno alla seconda sottocommissione la maggioranza più autonomista prevalse per soli due voti. La stessa sottocommissione ridusse il numero delle materie nelle quali la potestà legislativa poteva essere esercitata, eliminando settori importanti come agricoltura e foreste, turismo, caccia, antichità e belle arti. Per collocare tali materie, la sottocommissione fu costretta ad enucleare la potestà legislativa concorrente. Alcune considerazioni…. Un elemento che emerge chiaramente dall’analisi delle vicende che portarono all’introduzione del regionalismo nell’ordinamento italiano è il carattere politico della questione regionale. Nel periodo compreso tra la caduta del fascismo e la presentazione alla costituente del progetto costituzionale, la regione è politica, come idea e come fatto. Proprio per tale circostanza le vivcende dell’approvazione del titolo V non potevano non essere influenzate da fatti contingenti. In particolare la crisi politica del maggio-giugno 1947 e l’esclusione delle sinistre dal governo esercitò un’influenza determinante sulle sorti del titolo V. • Nella fase che va dalla fine di gennaio alla fine del maggio del 1947 DC e PRI assumono la difesa dell’ordinamento regionale previsto dal progetto, mentre le altre forze politiche, e in particolare le sinistre, manifestano tutto il loro malumore. • Nel momento in cui, fra maggio e giugno del 1947 vengono estromesse dal governo, le sinistre italiane trovano nelle regioni prospettive di nuova lotta politica assumendo come proprio quel garantismo che aveva caratterizzato la posizione della DC. Nel luglio del 1947 si affronta il problema di fondo, quello della potestà legislativa esclusiva, integrativa e concorrente. Si rinunciava alla legislazione esclusiva e si concentravano in una sola figura la legislazione concorrente e quella integrativa. In sostanza, la DC si era accordata con il PCI Costituzione della Repubblica italiana • Art. 5. • La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. • Art. 114. • La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni. Costituzione della Repubblica italiana • Art. 128. • Le Provincie e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni. • Art. 129. • Le Provincie e i Comuni sono anche circoscrizioni di decentramento statale e regionale. • Le circoscrizioni provinciali possono essere suddivise in circondari con funzioni esclusivamente amministrative per un ulteriore decentramento. Costituzione della Repubblica Italiana 1948 Disposizioni transitorie e finali VIII. Le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali sono indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione. Leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica amministrazione il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni. Fino a quando non sia provveduto al riordinamento e alla distribuzione delle funzioni amministrative fra gli enti locali restano alle province ed ai comuni le funzioni che esercitano attualmente e di cui le Regioni deleghino loro l’esercizio. Leggi della Repubblica regolano il passaggio alle Regioni di funzionari e dipendenti dello Stato anche delle amministrazioni centrali, che sia reso necessario dal nuovo ordinamento. Per la formazione dei loro uffici le Regioni devono, tranne che in casi di necessità, trarre il proprio personale da quello dello Stato e degli enti locali. IX. La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alla Regione Roberto Segatori Le debolezze identitarie del regionalismo italiano La traduzione operativa degli articoli costituzionali suddetti (a partire dall’art. 122 riguardante il sistema d’elezione degli organi elettivi) è rimessa ad apposite leggi di attuazione. Così, mentre prende progressivamente il via l’attività legislativa e amministrativa delle Regioni a statuto speciale, sulle Regioni a statuto ordinario si abbatte una specie di rimozione che durerà per circa un ventennio. Infatti, dopo due leggi di rinvio (la 1465/1948 e la 762/1949), la legge 63/1953 sulla costituzione e il funzionamento degli organi regionali rimane lettera morta per volontà della maggioranza di governo. A questo punto l’iniziale posizionamento ideologico dei partiti (per semplificare: la DC regionalista, il PCI centralista) muta, fi no a capovolgersi, per effetto di due eventi (relativamente) contingenti, che sono costituiti dall’estromissione delle sinistre dal governo nel maggio-giugno 1947 e dalle elezioni politiche dell’aprile 1948. La DC, verifi cato che l’esito elettorale attribuisce ad essa la maggioranza relativa nel paese, mette la sordina alle spinte autonomistiche. All’opposto, il PCI passa da “una posizione oscillante tra l’antiregionalismo e il regionalismo moderato” a “una posizione di regionalismo avanzato” che sembra doversi attribuire, più che ad alcune pregresse indicazioni filoautonomistiche sul regionalismo siciliano e sardo e ad un richiamato continuismo con alcuni testi di Antonio Gramsci, ad una valutazione più aggiornata dei nuovi equilibri di potere maturati in Italia tra il giugno 1947 e l’aprile 1948. La terza stagione del regionalismo si svolge tra il 1968 e il 1977 e consiste nell’attuazione delle previsioni del dettato costituzionale fi no ad allora ignorate. Formalmente la fase prende avvio da una serie di provvedimenti legislativi che si protrae per un decennio. Si inizia con la legge 108/1968 che detta norme per le elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario e con la legge 281/1970 che determina le assegnazioni finanziarie necessarie al funzionamento delle stesse. Si prosegue con le prime elezioni regionali del 1970 e la redazione degli statuti autonomi, la cui approvazione si conclude nel 1971. Si arriva infine abbastanza lentamente al trasferimento delle competenze: dopo i primi limitati decreti di delega del 1972, occorre arrivare al 1977 perché si realizzi con il d.P.R. 616 il trasferimento della maggior parte delle funzioni sulle materie previste dall’art. 117 e delle deleghe di cui all’art. 118 della Costituzione. Al di là del piano normativo – necessario per dare vita alle Regioni a statuto ordinario, ma farraginoso nei tempi e nei modi –, l’intera sequenza è preceduta dall’intenso dibattito sulla programmazione e sulla riforma dello Stato che segna i governi di centro-sinistra degli anni ’60 e si conclude con il nuovo clima sociale determinato dalle tumultuose dinamiche della popolazione e dalla stagione dei movimenti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, continuando a mantenere alcuni limiti di fondo. • Sul finire degli anni ’60 l’Italia è infatti interessata da un vasto e profondo processo di riassestamento societario dovuto ad una forte crescita della popolazione (che aumenta di 3,5 milioni di unità • tra il 1961 e il 1971), ad ondate di migrazione interna nella direzione SudNord (cambiano residenza ogni anno circa 1,45 milioni di individui) e ad un’urbanizzazione disordinata, specie nelle città del Nord- Ovest. • I movimenti di protesta che si originano da tali dinamiche (su • tutti quelli degli studenti e degli operai, ma anche quelli dei “cattolici del dissenso”, degli operatori delle “istituzioni totali”, delle femministe e dei residenti delle nuove aree abitative prive di servizi) provano a scaricare la loro tensione sulle istituzioni centrali dello Stato e, in primis, sul governo. • • • • • • • • • • • • • • Da qui nasce probabilmente il convincimento delle forze politiche di cercare di “frammentare” l’ondata di protesta e di dirottare e canalizzare il potenziale eversivo delle mobilitazioni verso i territori e i decisori locali. Le nascenti Regioni sono in qualche modo (e ambiguamente) favorite da tale strategia, proprio perché finiscono col diventare funzionali a dare risposte decentrate di welfare, specie quando si completano i trasferimenti del d.P.R. 616. La stagione del regionalismo degli anni ’70 non è però così lineare come potrebbe sembrare in riferimento ai suddetti fattori d’apertura. In maniera del tutto indipendente dal senso politico del processo in atto (centrato sulle parole d’ordine del decentramento, della partecipazione e delle riforme sociali da realizzare nelle Regioni), tra il 1971 e il 1973 viene a compimento l’iter normativo di una riforma dall’opposta valenza politica, vale a dire la centralizzazione del sistema tributario. Ciò che insomma lo Stato concede con una mano (l’autonomia su molte politiche sociali), viene strozzato sul fronte delle risorse (la negazione dell’autonomia impositiva). Infatti la legge 825/1971 delega al governo il riordino dell’intero sistema tributario italiano, che si completa attraverso una serie di decreti legislativi emanati nel 1972 (per le imposte indirette) e nel 1973 (per le imposte dirette). Le conseguenze di tali input ambivalenti sono doppiamente pesanti. In primo luogo scoppia una specie di guerra tra poveri tra Regioni ed enti locali subregionali (Province e Comuni). Infatti, di fronte alle resistenze con cui lo Stato procede al reale decentramento di uffi ci e risorse, le Regioni – venendo meno al rispetto di un criterio costituzionalmente sancito – non si limitano a svolgere un ruolo legislativo, ma si mettono anche ad esercitare molte funzioni amministrative che avrebbero dovute essere delegate agli enti locali. E ciò fa sì che per i Comuni le Regioni si rivelino frequentemente “un nemico più vicino e quindi più invadente dello stesso Stato”. In secondo luogo, almeno per i primi decenni (fino a quando cioè non arriverà l’“ossigeno” aggiuntivo dei fondi strutturali dell’Unione europea), stenta a nascere una vera e propria arena politica regionale con una classe politica forte ed autonoma. Chi scrive questa nota ha potuto peraltro verificare in una ricerca su un caso specifico (l’Umbria) lo stato di “asfissia del ceto politico regionale” ancora nel 1992. • Per le prime tre stagioni del dibattito sul decentramento in Italia non c’è dunque da fare un bilancio lusinghiero. In centocinquant’anni di storia nazionale si registra sì un progressivo avanzamento istituzionale del ruolo degli enti locali e delle Regioni. Ma dal punto di vista sostanziale, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, per le Regioni a statuto ordinario non solo ci si trova in presenza di un regionalismo debole, ma appare decisamente un’astrazione e una velleità fare riferimento • all’idea di federalismo. • Nel 1970 finalmente si poterono svolgere le prime elezioni per le regioni a statuto ordinario. Due anni più tardi venivano emanati i decreti per il trasferimento alle regioni delle competenze amministrative e legislative. • Il lungo e complesso processo di attuazione delle regioni a statuto ordinario si concludeva nel 1975, anno nel quale il Paese è attraversato da numerose polemiche sui caratteri e gli sviluppi che avrebbe dovuto avere in Italia il regionalismo. • Tali polemiche scoppiarono alla fine del 1975, in seguito di un’intervista a Guido Fanti, presidente della regione EmiliaRomagna, pubblicata sulla Stampa di Torino il 6 novembre di quell’anno. • • Bolognese il 27 maggio 1925. Si iscrive alla facoltà di Scienze biologiche ma abbandona gli studi a causa della Seconda Guerra mondiale. Chiamato alle armi nel novembre del 1943, abbandonerà l'esercito e poco dopo aderirà alla Resistenza partigiana. Il 21 aprile del 1945 si iscrive al Pci, del quale diventerà segretario provinciale e regionale. Consigliere comunale dal 1957, il 2 aprile 1966 viene eletto sindaco di Bologna. Nel 1970 si dimette dall'incarico di primo cittadino e si candida alle elezioni regionali, diventando il primo presidente della Regione Emilia-Romagna. Viene eletto presidente della Giunta regionale il 23 luglio 1970. Nel 1975 viene confermato presidente della Giunta. Si dimetterà l'8 maggio del 1976 e verrà eletto prima al Parlamento nazionale quindi a quello europeo, di cui diverrà vicepresidente. Muore nel 2012 Il 6 novembre del 1975 su La Stampa compare un articolo di Francesco Santini dal titolo “Ma nascerà davvero la super regione della Padania? Fanti spiega la sua proposta per una grande Lega del Po”. È una intervista esplosiva al comunista Guido Fanti, primo presidente della Regione Emilia Romagna, che descrive il suo progetto di aggregazione delle cinque regioni ordinarie della Valle padana, per coordinare e rendere più efficienti alcune funzioni e servizi che superano la dimensione regionale, ma in realtà anche per dare più forza al Nord nel confronto con lo Stato centrale e per rimediare ad alcuni degli squilibri con il Sud nella gestione e distribuzione complessiva delle risorse. La Padania di Fanti viene concepita come modello geopolitico funzionale, di organizzazione di interessi socio-economici rispetto a un centro politico governato dalla Dc, in coerenza con l’idea pluralista di Europa delle regioni tratteggiata in quegli anni da Denis de Rougemont. • “Alla vigilia dell’incontro Governo-Regioni fissato a Roma per metà novembre, Guido Fanti Presidente della Giunta dell’Emilia Romagna, rilancia con il tema Padania il ruolo dell’area del Po e giudica improcrastinabile un accordo tra Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia per superare la crisi che ha colpito il Paese. • C’è sul tavolo del governo Moro il piano di intervento a medio termine e Guido Fanti propone la partecipazione delle Regioni al dialogo per il rilancio economico. • Chiede perciò che al discorso con i Sindacati, il Governo affianchi in parallelo quello con le Regioni impegnate in queste settimane ad attuare i decreti anticongiunturali e a preparare i bilanci del prossimo anno. • “E’ un’occasione che il Paese non può perdere – dice – un appuntamento al quale gli Enti locali, proprio per le funzioni loro attribuite, non possono mancare”. • Inserisce su questo punto il progetto di un accordo tra le cinque Regioni dell’area del Po e subito aggiunge che la proposta non nasconde l’insidia di scaricare una nuova forza sul governo centrale: vuole al contrario, “convogliare l’apporto coordinato di un’area geografica che ha in comune un groviglio di problemi irrisolti, di scelte non fatte”. “ • Nessuno vuole indebolire il governo Moro – dice – anzi la nostra è una proposta di sostegno” e liquida i timori di una aggregazione tra Regioni forti, fatalmente contrapposte ad un Mezzogiorno debole, chiarendo: “Nel Centro-Nord la crisi economica non si è tradotta come al Sud, in crisi sociale: quindi in un discorso ampio di programmazione, la strategia di intervento non si deve risolvere sulla testa del Meridione d’Italia, anzi le cinque Regioni del Po sono chiamate a incidere come fattore di equilibrio”. • (..) Il Presidente della Giunta emiliana, individua nel superamento delle vecchie strutture dello Stato centralistico e nella rapida attuazione del nuovo Stato decentrato, “la via d’uscita per il Paese”. • “Le Regioni – dice Fanti – rifiutandosi di chiudersi in se stesse, sono chiamate a svolgere il ruolo di protagoniste della politica nazionale e il consolidarsi dei rapporti permanenti, nell’area padana, rappresenta un contributo decisivo”. • Le singole realtà regionali sono per Fanti limitate e i grandi temi, da quello dell’industrializzazione e dell’occupazione a quello degli investimenti “si estendono su aree geografiche ben più vaste; le risorse potenziali del Po sono disperse e inutilizzate, la crisi dell’agricoltura investe pesantemente anche le zone padane tradizionalmente più avanzate. Il patrimonio zootecnico si depaupera di giorno in giorno mentre il più grande fiume italiano è oggi una minaccia naturale, non una fonte di ricchezza”. • Il progetto di aggregazione per le Regioni della Valle Padana è in formazione e si annunciano i primi contatti tra i Presidenti delle Giunte regionali. Fanti individua i punti al primo posto e le Regioni padane, nel tentativo di collaborare debbono tenere presenti essenzialmente, con gli sbocchi professionali dei giovani, il lavoro nelle campagne. • (..) Dall’agricoltura passa all’industria: “C’è da tener conto della domanda sociale, ma è necessario individuare tutti insieme, gli sbocchi sui mercati interni e su quelli esteri, ecco la necessità del confronto fra le Regioni del Po. Non si può ignorare la politica delle localizzazioni industriali, per uno sviluppo equilibrato del territorio”. • (..) Questa della Padania, è per Fanti una proposta essenzialmente politica. Ne ha parlato a Bruxelles, la settimana scorsa in sede CEE con il Presidente Ortoli e dice: “E’ inutile andare a Bruxelles a chiedere soldi per le Regioni quando non ci sono: la nostra proposta è stata diversa: chiediamo piuttosto che siano le Regioni e non la Cassa per il Mezzogiorno a gestire i fondi riservati in sede comunitaria, alle aree depresse del nostro Paese”. • Il suo progetto per la nascita della Padania trova scarso favore; con l’eccezione del presidente della Liguria, tutto il mondo istituzionale manifesta forte opposizione: partono subito il coro dei patrioti e l’ostensione delle icone tricolori. Il repubblicano Francesco Compagna stigmatizza – con poca originalità - i pericoli per l’unità, vedendo nel “mito della Padania” la “premessa, se non di una scissione dell’Italia, certo di una erosione della sua unità”, oltre al pericolo che “si potesse innestare il separatismo del Nord, armato di interessi ben più consistenti di quelli che operavano nell’arcaico retroterra del separatismo siciliano”. • Negli stessi giorni, la Montedison organizza un convegno sul tema per discutere “la proposta, di particolare rilevanza sotto il profilo politico-istituzionale, di dar vita ad una forma di coordinamento tra le regioni padane”. É ancora Compagna che si incarica di contrastare l’iniziativa, attribuendo alla Montedison di Cefis (e a Miglio, che ne è il consigliere) l’intenzione di sganciarsi dal Sud. Gli argomenti che utilizza sono i soliti del piagnisteo meridionalista. • Ma sono anche gli stessi comunisti che osteggiano Fanti. Togliatti era infatti stato fin troppo chiaro quando in un discorso in preparazione dell’Assemblea costituente pubblicato su L’Unità del 30 dicembre 1945, aveva scritto: “Noi non siamo federalisti, noi siamo contro il federalismo, noi riteniamo che lo Stato italiano deve essere organizzato come uno stato unitario (..). Uno Stato federalistico sarebbe una Italia nella quale risorgerebbero tutti gli egoismi e particolarismi locali ostacolando la soluzione di tutti i problemi nazionali nell’interesse di tutta la collettività. Una Italia federalistica su base regionale sarebbe un’Italia nella quale in ogni regione finirebbero per trionfare delle forme di vita economica e politica arretrate, vecchi gruppi reazionari”. • Su questa iniziativa Fanti si gioca la sua carriera politica. E perde. Fra i pochissimi che comprendono la portata del progetto e che lo difendono c’è Gianfranco Miglio, che, con un articolo su Il Corriere della Sera del 28 dicembre 1975, ripropone il tema delle tre Italie: “Considerata la pietosa esperienza dello Stato “nazionale-unitario” (..) l’unica esperienza alternativa da tentare è quella costituita dalla consapevole integrazione tra grandi aggregazioni geoeconomicamente omogenee: il Nord, il Centro, il Sud (più le due isole autonome)”. Sia Fanti che Miglio hanno perfettamente compreso che le Regioni nascono vecchie e che devono essere superate da aggregazioni con ben diversa valenza socio-economica e identitaria: così come sono concepite, esse infatti riproducono tutti i mali dello Stato centrale, e rischiano di diventare la parte più conservatrice del vecchio e corrotto apparato unitario, e – per queste ragioni – di trovare nell’opinione pubblica o l’indifferenza o un giudizio francamente spregiativo. Decalogo federalista della Lega 1993 • Art.1. L’unione italiana è una libera associazione della Repubblica Padana, Repubblica di Etruria e della Repubblica del Sud. All’Unione aderiscono le regioni autonome di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. • Art. 2. Nessun vincolo è posto alla circolazione e all’attività dei cittadini delle Repubbliche sul territorio dell’Unione. Tale libertà può essere limitata soltanto per motivi di giustizia penale. • Art.3. Le Repubbliche sono costituite dalle relative Regioni a statuto ordinario. Plebisciti definiranno l’area rispettiva delle tre Repubbliche. • Art.4.Ogni Repubblica conserva il diritto di stabilire e modificare il proprio ordinamento interno, ma la funzione esecutiva deve spettare ad un governatore eletto direttamente dai cittadini della Repubblica stessa. • Art.5. La Dieta provvisoria di ogni Repubblica è composta da 100 membri, tratti a sorte tra i consiglieri regionali. Secondo la Costituzione definitiva la Dieta sarà eletta direttamente dai cittadini • Le Diete riunite e integrate dai rappresentanti delle Regioni autonome formano l’assemblea politica dell’Unione. La funzione legislativa spetta esclusivamente ad un altro collegio rappresentativo, formato da 200 membri, eletto dai cittadini dell’Unione. • Art.6. Il governo dell’Unione spetta a un primo ministro eletto direttamente dai cittadini. Egli esercita le sue funzioni coadiuvato e controllato da un Direttorio composto dai governatori delle tre Repubbliche Roberto Segatori Le debolezze identitarie del regionalismo italiano Il passaggio istituzionale che stanno attualmente attraversando le Regioni italiane è sicuramente il più importante nei 150 di storia nazionale. Due sollecitazioni normative hanno infatti costretto a ridefinire in senso sostanziale il ruolo e i poteri dell’istituto regionale: da un lato, la riforma del Titolo V della Costituzione e il federalismo fi scale; dall’altro, la progressiva spinta dell’UE (dai piani Delors 1 e 2, all’Agenda 2000, alla programmazione 2007-2013) per l’adozione di criteri sempre meno approssimativi e più rigorosi nella defi izione dei progetti regionali di coesione e di sviluppo/competitività. Le Regioni italiane sono oggi al centro di un gigantesco processo di verifica della consapevolezza del proprio ruolo da parte della relativa classe politica e del senso di appartenenza regionale dei cittadini, atteso che le ultime statistiche ne rivelano un peso inferiore al 15% nell’efficacia e nell’efficienza della stessa spesa pubblica regionale.