Donne e lavoro in Italia: scenari critici A dispetto della vasta e ultra-decennale stratificazione di norme frutto sia dell’autonoma maturazione culturale e politica del nostro paese, sia dell’intervento comunitario, la condizione delle donne italiane rimane ancora molto lontano dall’aver conseguito quegli obiettivi di parità che pure ci si è ripromessi di conseguire. 30 anni di crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro non sono bastati a ridurre in modo davvero significativo una persistenza dei divari di genere (gender gap) nel lavoro che, su vari e cruciali indicatori, ha poche analogie in Europa. Le ragioni di questo scaturiscono, da un mix di fattori: - questioni strutturali - abitudini familiari (es. mancanza di una vera e diffusa cultura di condivisione ) - inadeguatezza dei servizi sociali per infanzia e anziani - un certo modo di concepire ancora i tempi e i metodi di lavoro Il risultato è che il tasso di occupazione femminile – pari al 47% - costituisce, se si esclude Malta, il più basso dell’UE-27, dove la media è oggi pari al 58,5%1. Restiamo lontani dagli obiettivi europei fissati dalla strategia di Lisbona, che per l’occupazione femminile era del 60% entro il 2010. Il tasso di inattività delle donne è del 48,5%, a fronte del 27% fra gli uomini e di una media Ue del 35,1%. Due redditi in famiglia sono protettivi del rischio di povertà, e anche per questo occorre diffondere il modello delle famiglie bi-reddito. In ogni caso, una donna su due in età da lavoro (15–64 anni) non svolge alcuna attività remunerata e non cerca un impiego. Nel pieno della maturità professionale (35-54 anni) lavorano solo sei donne su dieci. Solo il 10% di quelle non occupate cercano lavoro. Al sud l’occupazione femminile ha i contorni del tracollo. Solo il 16.9% delle giovani fra i 15 e i 29 anni ha un lavoro, con un divario gravissimo rispetto al Nord del paese. Nel 2011, oltre il 40% delle donne disoccupate del Mezzogiorno sono diventate inattive. L’IRES ha di recente stimato in circa 4 milioni i lavoratori intrappolati nell’area del disagio. La stragrande maggioranza delle nuove assunzioni è a termine o comunque precaria. Oltre la metà dei soggetti che ricadono in un’area di precarietà è di genere femminile, sebbene le donne costituiscano poco più del 39% dell’occupazione totale. Le giovani donne sono sovra rappresentate in tutte le forme di contratti atipici a cui è associato un elevato livello di precarietà. Tali forme non si limitano purtroppo a costituire il canale per entrare nel mercato del lavoro, in vista di una rapida transizione verso forme occupazionali più stabili, ma tendono a divenire per le donne l’unico modo per restarvi, o per rientrarvi dopo la nascita di un figlio. • La presenza delle donne nei contratti a tempo parziale è del 20%, contro il 2,7% degli uomini. Oggi oltre la metà della nuova occupazione femminile è a tempo parziale, per lo più involontaria e in settori a basso tasso di innovazione. • La quota di parasubordinati è nettamente superiore fra le donne • Il reddito percepito per chi ha questo tipo di contratto è quasi della metà della media del settore di riferimento, con pesanti ripercussioni in termini di prospettive assistenziali e pensionistiche. • Sono sempre di più le realtà nelle quali si rileva un preoccupante mutamento di status occupazionale di tante lavoratrici, in cui la deindustrializzazione da un lato (si pensi al tessile, meccanico, ecc.) e l’impoverimento di vaste realtà territoriali dall’altro (non solo al sud), si traducono in un sostanziale declassamento occupazionale in ambiti come quelli della cura alla persona (badanti, lavoro domestico, estetista), o nel campo dell’intrattenimento (bariste, cameriere, ragazze immagine nei locali notturni), che apparivano ormai a esclusivo appannaggio delle lavoratrici immigrate, e che ora vedono una netta crescita fra le donne italiane. I salari delle donne lavoratrici in Italia sono mediamente inferiori a quelle dei loro colleghi maschi per una quota stimata intorno al 20%6, contro una media europea del 17%. Un differenziale che riflette vari fattori, come la tipologia dei settori e delle forme di impiego, ma anche per l’incidenza penalizzante dei parametri retributivi correlati alla presenza più assidua e allo straordinario da parte degli uomini, alle maggiorazioni indotte dalla collocazione turnistica in fasce disagiate e “asociali”. Ma differenze si registrano anche a parità di titolo di studio, o addirittura quando le donne dispongono di un maggiore accreditamento formativo, dovuto a un sistematico sotto-inquadramento e ad una sostanziale svalutazione, nell’attribuzione delle mansioni, delle capacità professionali delle donne in una organizzazione del lavoro generalmente arretrata e scarsamente incline all’innovazione e alla valorizzazione delle competenze. La discriminazione di genere nelle condizioni di accesso al lavoro (tipo di contratto, inquadramento, mansione) pregiudica a monte le possibilità di una reale parità di trattamento economico col lavoratore comparabile. “A parità di caratteristiche economiche (come il livello di istruzione, il tipo di percorso scolastico, le scelte professionali, l’anzianità, ecc.) le donne sono fortemente svantaggiate in termini di accesso all’occupazione, inserimento lavorativo con contratti standard, livello retributivo e prospettive di carriera” Secondo il recente Global Gender Gap Report (2012), nell’arco dell’ultimo anno il nostro paese ha perso ben sei posizioni nella graduatoria internazionale relativa alle diseguaglianze di genere, piazzandosi all’86° posto su 135 paesi presi in esame. Un dato che si aggrava ulteriormente in relazione alla partecipazione all’economia e alle opportunità delle donne nel lavoro, dove scendiamo alla 101sima posizione. La durata breve dei contratti, la diffusione di ogni tipo di contratto precario non consente quel minimo di pianificazione e rispetto di qualsiasi impegno o investimento personale, professionale e affettivo, impedendo il consolidarsi di relazioni di lavoro che favoriscano una maturazione di competenze e di adeguate prospettive di carriera. Tutto ciò ha fra l’altro effetti cumulativi sugli assegni pensionistici: le donne – che rappresentano il 47% dei pensionati – percepiscono solo il 34% dell’importo complessivo e l’80% delle pensioni integrate al minimo. Una pensionata su tre prende meno di mille euro al mese. La media delle pensioni di vecchiaia delle donne è di 630 euro al mese, contro i 1.219 euro degli uomini. Dall’ultima riforma pensionistica le donne sono le più colpite. L’aumento vistoso dell’occupazione delle over-55, registrato nel corso dell’ultimo anno (2012) a causa del prolungamento imposto dall’ultima riforma delle pensioni, determina sulle donne un doppio effetto negativo: Alle più giovani pregiudica le opportunità di ingresso al lavoro; Alle più anziane riduce il tempo per sé e di cura che – da nonne, madri e al contempo figlie (la c.d. “generazione sandwich”) – debbono dedicare alla famiglia in mancanza di un welfare pubblico soddisfacente. L’ISTAT calcola in oltre il 23% il numero delle nonne che ancora è al lavoro. Discontinuità del lavoro, redditi bassi e assenza di strutture adeguate di welfare, determinano una “flex-insecurity”, peculiarmente italiana, che spinge molte donne fuori dal mercato del lavoro, deprimendo il tasso di occupazione e di natalità nazionale, fra i più bassi del mondo occidentale. Fra le madri in età compresa fra 25 e 54 anni, la quota di occupate è pari al 55%, mentre tra i padri della stessa fascia d’età raggiunge il 90% Le donne italiane hanno sempre più spesso un solo figlio e lo hanno tardi (oltre 30 anni). Solo il 27% delle donne ha mantenuto il posto dopo l’arrivo del primo figlio. L’uscita, anche temporanea dalla vita attiva, a ridosso della maternità e della cura dei figli piccoli, rischia in molti casi di divenire definitiva, risultando insuperabili gli ostacoli che di fatto si frappongono al ritorno al lavoro, specie delle donne meno giovani e istruite. L’arrivo del secondo o eventualmente del terzo figlio determina una caduta fino al 30% del tasso di occupazione, con forme di vero e proprio mobbing “strategico”, una volta che si è tentato di tornare al lavoro dopo l’assenza dovuta a maternità e accudimento di figli piccoli. Si è stimato che soltanto fra il 2008 e il 2009 siano state ben 800.000 le mamme licenziate o indotte a dimettersi. Un’autentica emergenza sociale. Le differenze di genere nelle opportunità di lavoro e di guadagno rafforzano la tradizionale divisione del lavoro nella famiglia. Per questa via si innestano circoli viziosi che frenano lo sviluppo ulteriore dell’occupazione femminile. La relativa “marginalità” dell’occupazione femminile, connessa alle forme di lavoro non standard, mette le donne in una condizione che rafforza la dipendenza dal partner, in termini di garanzie di reddito e di copertura assicurativa, e impedisce il superamento dei ruoli tradizionali nella distribuzione del lavoro tra i generi: • Il 76% del lavoro familiare e di cura ricade sulle donne; qualcosa come 9-11 ore di differenza alla settimana. • Il 6,9% dei padri scelgono di usufruire del congedo parentale nei primi due anni di vita del bambino. Dati inquietanti li rileviamo anche sul versante delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Secondo i dati ISTAT del 2012, in Italia 488 mila donne hanno ricevuto richieste di disponibilità sessuale. 247 mila hanno subito un ricatto sessuale esplicito al momento dell’assunzione. Per 234 mila il ricatto è stato subìto “per mantenere il posto di lavoro e fare carriera”. I settori più colpiti sarebbero quelli del trasporto, della pubblica amministrazione e della comunicazione, specie nelle sedi medio-piccole. Crisi, precarietà e tagli del welfare stanno dunque aggravando un quadro di carenze strutturali, producendo tra le donne un aumento dei rischi di marginalizzazione nel lavoro, se non anche un vero e proprio “ritorno al focolare”, causati da una partecipazione lavorativa discontinua e atipica, caratterizzata da redditi parziali e da un restringimento degli spazi – già inadeguati – destinati a conciliazione e pari opportunità sul lavoro. I dati occupazionali in Lombardia Le donne occupate in Lombardia raggiungono circa il 57%; la crisi ha interrotto il trend positivo dell’ultimo decennio nel quale l’obiettivo europeo del 60% di donne che lavorano sembrava a portata di mano. La disoccupazione giovanile ha raggiunto nel 2012 il 27%, mentre nel 2008 si attestava al 12%. Rimane purtroppo inalterato il divario tra i generi perché la distanza tra occupazione maschile e femminile si attesta intorno ai 17/18 punti quando la media europea è di 12 punti. Il lavoro delle donne è particolarmente importante per far ripartire l’economia perché possiede intrinsecamente una caratteristica anticiclica: le economiste stimano che, per 100 posti di lavoro femminili, si creino altri 15 posti di lavoro per l’aumentata domanda di servizi. La maternità rappresenta sempre un grosso scoglio: dal 2006 al 2012 circa 30.000 donne in Lombardia hanno lasciato il lavoro nel primo anno di vita del bambino. Inoltre per le donne la maternità genera una battuta d’arresto nell’avanzamento professionale che spesso non riescono più a recuperare, aggravando il differenziale salariale che supera il 22%. Le donne lombarde hanno un tasso di fecondità pari a circa 1,2 figli per donna, tra i più bassi nel panorama europeo; solo le donne migranti mantengono, per ora, tassi di fertilità più alti che consentono di far registrare positivamente il saldo tra nascite e morti. Anche le famiglie si sono trasformate: ad esempio a Milano il 75% dei nuclei familiari è composto al massimo da 2 persone e più del 50% sono famiglie monocomponente, spesso si tratta di donne sole, cresce anche il peso delle donne capofamiglia con figli minori a carico. Una nota positiva per le donne lombarde, così come a livello nazionale, è la propensione a studiare conseguendo titoli di studio di tutti i livelli e grado fino a quelli più alti come lauree, master e dottorati. Di solito le ragazze si laureano prima e in modo più brillante rispetto ai loro coetanei ma le differenze sono in agguato da subito perché ad un anno dal conseguimento della laurea lavora il 59% degli uomini e solo il 53% delle donne. IL LAVORO FEMMINILE IN PROVINCIA La forza lavoro femminile nelle due province di Milano e Monza Brianza è costituita da 870mila donne di 15 anni e oltre (48,3% del totale), mentre la stessa percentuale, riferita alla componente maschile della popolazione, sale al 63,3% (1 milione di unità). Anche rispetto alle condizioni interne del mercato del lavoro sono state riscontrate numerose differenze di genere: il lavoro dipendente assorbe l’84,4% della donne occupate (72,4% degli uomini); solo il 6,1% delle donne dipendenti ha un ruolo dirigenziale/quadro (11,2% degli uomini); la retribuzione media giornaliera delle donne con un lavoro dipendente è del 30% inferiore rispetto agli uomini. Si segnala, inoltre, il dato relativo alle imprese femminili: oltre 82mila quelle attive nel 2012 (19,2% del totale). IMPRENDITORIA FEMMINILE Le Banche italiane non credono abbastanza nelle capacità dell'imprenditoria femminile, tanto che le concedono meno credito e liquidità rispetto alle imprese guidate dagli uomini. Questo è il resoconto dello studio di R.ETE. Imprese Italia, e nel caso specifico di questa analisi, da Rete Imprese Italia Imprenditoria Femminile: organizzazione che raccoglie le sigle Casartigiani Donne Artigiane, CNA Impresa Donna, Confartigianato Donne Impresa, Terziario Donna Confcommercio, Imprenditoria Femminile Confesercenti. Gli esempi di imprenditoria rosa continuano a confermare le proprie caratteristiche migliori, una su tutte l'affidabilità: ma le donne che hanno scelto di aprire un'impresa continuano a godere di meno fiducia. Tra loro, ne soffrono soprattutto le piccole realtà e quelle presenti nelle regioni del Sud. Pensate che le imprese femminili chiedono meno finanziamenti: il 10,5% rispetto al totale degli imprenditori che arriva al 12%, e nonostante questo riescono a vedere accettata la loro richiesta solo nel 17% dei casi, rispetto al totale degli imprenditori, che si attesta al 25%. Inoltre le donne devono rispettare delle garanzie più severe, perciò tassi e durata del finanziamento meno convenienti. Una strana strategia, quella delle Banche, se pensiamo al momento difficile che sta vivendo il mercato italiano. I CASI DI DISCRIMINAZIONE PIU’ FREQUENTI CENTRO DONNA E UFFICI VERTENZE DELLA CAMERA DEL LAVORO • Mobbing e discriminazioni legate all’età • Molestie morali - mobbing di genere • Molestie sessuali nel luogo di lavoro • Dimissioni imposte dal datore di lavoro MOBBING E DISCRIMINAZIONI LEGATE ALL’ETÀ I dati registrati dai nostri uffici, già nei primi mesi del 2013, segnano una frequenza maggiore di richieste di consulenza e assistenza legale di donne non più giovani che hanno subito azioni vessatorie di vario tipo volte a indurle all’abbandono del posto di lavoro. C’è poi tutta la categoria di donne non più giovani penalizzate dalla recente riforma pensionistica e dall’innalzamento dell’età pensionabile, che vengono licenziate per motivi economici (ma delle quali evidentemente l’azienda non vedeva l’ora di liberarsi perché ritenute troppo anziane) in cui il profilo discriminatorio, per le difficoltà probatorie sottese, non sempre è agevole da far emergere; sovente si è dunque indotti a muovere la trattativa solo su basi economiche, comunque insoddisfacenti in rapporto agli anni che mancano alla pensione. Si può dunque ritenere che le discriminazioni legate all’età, specialmente in seguito l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, costituiscono un fenomeno sempre più preoccupante ed in aumento. MOLESTIE MORALI - MOBBING DI GENERE Le donne hanno chiesto assistenza con particolare incidenza numerica al rientro dalla maternità e in relazione a due situazioni tipiche: a) il licenziamento al termine del periodo di tutela dell’anno di età del bambino b) il demansionamento sempre conseguente alla maternità. Si è potuto anche nel corso di quest’anno constatare come il fenomeno delle discriminazioni incida maggiormente sulle alte professionalità (lavoratrici divenute madri all’età di circa 40 anni) che purtroppo subiscono - oltre alla drammatica estromissione dal posto di lavoro la conseguenza ulteriore di restare prive di occupazione in una “zona grigia”, anagraficamente e “socialmente” parlando. Questo fenomeno si è registrato sia con riferimento alle aziende di più grandi dimensioni, che nelle realtà più piccole. MOLESTIE MORALI - MOBBING DI GENERE Ciò che accomuna queste esperienze è la gravità del demansionamento al momento del rientro sul posto di lavoro dopo l’astensione per maternità: la totalità delle lavoratrici racconta infatti di “non avere più le proprie mansioni”, situazione generalmente accompagnata da una diversa e marginale collocazione fisica all’interno degli spazi aziendali: cambiamento di ufficio, privazione o limitazione degli strumenti di lavoro, estromissione dai flussi comunicativi effettuata anche tramite “rimozione” del relativo contatto da elenchi telefonici e/o mail, ecc. I casi più eclatanti riguardano lavoratrici che, al rientro, si sono viste assegnare scrivanie piccole e scomode, senza telefono né materiale di lavoro, relegate a fare fotocopie o scansioni di documenti laddove prima rivestivano mansioni di coordinamento di altro personale o comunque mansioni di elevata responsabilità e complessità. MOLESTIE MORALI - MOBBING DI GENERE A fianco del demansionamento, e in genere prima del licenziamento (quindi nell’arco di tempo che va dal rientro in azienda, intorno al 9° mese di età del bambino o poco prima, sino all’anno di età del figlio) si è registrato un incremento dell’accanimento disciplinare, ovvero del potere disciplinare utilizzato come strumento volto a precostituire una “giusta causa” di licenziamento; in altre parole, improvvisamente, al rientro dalla maternità “si scopre” che la lavoratrice non svolge più correttamente il proprio lavoro ed ogni pretesto diventa valido per bersagliarla di contestazioni a distanza di tempo molto ravvicinata e per fatti inesistenti o marginali, con l’obiettivo di fiaccarne la resistenza e indurla alle dimissioni. MOLESTIE SESSUALI NEL LUOGO DI LAVORO Queste situazioni si sono riscontrate maggiormente nelle ipotesi di debolezza contrattuale delle lavoratrici legate a condizioni personali (per esempio lavoratrici straniere, donne single con figli a carico, ecc.) o soggette a una condizione di precarietà contrattuale: ipotesi cioè in cui la lavoratrice è “ricattabile” in ragione del contratto “atipico” (contratto a progetto, somministrazione, ecc.) o a termine. In questi casi sono soggette a molestie e approcci sessuali da parte dei superiori con la promessa di conferma o la minaccia di non conferma del contratto di lavoro MOLESTIE SESSUALI NEL LUOGO DI LAVORO Diversi sono stati anche i casi in cui si è registrato il cosiddetto stalking occupazionale, ovvero una vera e propria persecuzione che si esplicita anche al di fuori del luogo di lavoro. Detti casi hanno normalmente riguardato situazioni in cui colleghi di lavoro hanno avuto una relazione successivamente conclusasi e tuttavia l’ex compagno (normalmente dirigente/superiore gerarchico) non si è rassegnato alla conclusione del rapporto ed ha cominciato a perseguitare sia al lavoro che al di fuori la lavoratrice. Come per gli altri casi di discriminazioni, le denunce scontano poi l’ambiente culturale nel quale le molestie si sviluppano, nel senso che più facilmente vengono ancora negate (o peggio, vengono sorrette le posizioni dell’autore) in contesti piccoli e “familiari”. DIMISSIONI IMPOSTE DAL DATORE DI LAVORO La Legge Fornero è intervenuta introducendo maggiori forme di tutela in questi ambiti. Spesso, infatti, le dimissioni o le risoluzioni consensuali non erano una manifestazione libera della volontà, ma erano estorte sotto violenza o minaccia. Abbiamo seguito un caso di dimissioni estorte (purtroppo rassegnate prima dell’entrata in vigore della Legge Fornero). La lavoratrice, madre di due bambini, è stata “chiusa” in uno stanzino con i responsabili e direttori del personale che le hanno prospettato due soluzioni. La lettera di dimissioni, con una modesta “buonuscita”, o il licenziamento per crisi aziendale. La lavoratrice, impossibilitata a chiedere aiuto, o consiglio, o assistenza, ha scritto sotto dettatura le dimissioni, senza sapere peraltro che così avrebbe perso il diritto alla indennità di disoccupazione. LE PROPOSTE PER IL LAVORO E L’OCCUPAZIONE - Investire nell’orientamento dei giovani attraverso una stretta collaborazione tra le istituzioni scolastiche, le università e il sistema delle imprese e dei servizi per indirizzare verso le migliori opportunità di lavoro. Incentivare le giovani a intraprendere corsi di studi non tradizionali e in particolare le professioni a carattere tecnico e scientifico attraverso borse di studio dedicate - Contrattare la formazione continua e farvi accedere le donne in misura maggiore di quanto non avvenga oggi, favorire la certificazione delle competenze acquisite come elemento qualitativo per migliorare l’occupabilità e per ridurre potenzialmente il differenziale retributivo - Contrattare corsi di formazione e aggiornamento al rientro da periodi di assenza e in particolare al rientro dalla maternità. LE PROPOSTE PER IL LAVORO E L’OCCUPAZIONE - - - - Eliminare ogni forma di discriminazione indiretta e/o di riduzione del salario di produttività legata ai congedi per maternità/paternità Contrattare una maggior flessibilità nell’organizzazione del lavoro e dell’orario, incentivando l’introduzione del part/time, flessibilizzando la fruizione dei congedi e l’utilizzo della banca a ore Agire maggiormente sulla defiscalizzazione di tutti gli interventi che favoriscono la presenza e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro Rafforzare le politiche territoriali volte a favorire la conciliazione del tempo di vita e di lavoro, rendere accessibile la formazione continua in particolare alle lavoratrici delle piccole imprese che maggiormente ne risultano escluse. I fondi andranno utilizzati anche per la formazione su tutto l’arco della vita ai fini di favorire l’invecchiamento attivo LE PROPOSTE PER IL WELFARE E LA RETE DI SERVIZI - Mappare in tutti i territori la rete dei servizi esistenti, valutando carenze, bisogni e specificità ai fini della programmazione e dell’accessibilità degli stessi - Investire nei nidi d’infanzia, nel caso di costruzione di nidi aziendali o interaziendali, favorire l’apertura degli stessi verso il territorio attraverso accordi con gli enti locali - Pubblicizzare, utilizzare e contrattare tutti gli strumenti di sostegno al reddito finalizzati alla conciliazione tra vita e lavoro - Contrattare forme di welfare integrativo aziendale, finalizzato a condivisione e conciliazione - Favorire, attraverso al contrattazione aziendale, l’utilizzo del congedo di paternità - Investire anche a livello territoriale su strumenti di contrasto alla povertà che colpisce soprattutto le donne capofamiglia e le donne anziane UNO SGUARDO SUL FUTURO Il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro in Italia è sempre più difficile, questo provoca l’innalzamento delle tensioni sociali e amplia il conflitto tra le parti sindacali (Sindacato dei lavoratori – Associazioni imprenditoriali). La rinascita del nostro Paese deve essere fondata sul lavoro. Un lavoro sicuro, di qualità, che investa su professionalità e benessere, consolidando diritti e doveri a partire dal contratto nazionale di lavoro che deve tornare ad essere lo strumento centrale su cui lavoratori, lavoratrici ed imprenditori sigillino un patto di reciproco impegno nella ricostruzione sociale ed economica del nostro Paese. LE FONTI: • • • • • Ires CGIL Nazionale Dipartimento Mercato del Lavoro CGIL Lombardia Centro Studi Socio-Economici Pragma per EbiTer Centro Donna e Uffici Vertenze della Camera del Lavoro di Milano Studio Legale Rosiello