Anno XXXIV
n. 6 Giugno 2004
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2 - 20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
giornalisti
della
Lombardia
http://www.odg.mi.it
e-mail:[email protected]
Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
Elette le cariche dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia per il triennio 2004-2007
Il Consiglio all’unanimità
ha espresso stima e gratitudine
a Brunello Tanzi, vicepresidente
dell’OgL dal 1965 ad oggi
Milano, 10 giugno 2004. Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia si è riunito oggi per il rinnovo delle cariche alla luce
delle ultime votazioni svoltesi il 23/24 e il
30/31 maggio.
È stato confermato presidente Franco
Abruzzo. Vicepresidente pubblicista è
Cosma Damiano Nigro. Consigliere segreta-
rio è Sergio D’Asnasch. Consigliere tesoriere è Alberto Comuzzi. Abruzzo e D’Asnasch
hanno ottenuto 8 voti su 9; 7 voti Comuzzi e
6 Nigro. Il Collegio dei revisori ha nominato
presidente Giacinto Sarubbi. Il Consiglio
all’unanimità ha espresso stima e gratitudine
a Brunello Tanzi, vicepresidente dell’OgL dal
1965 ad oggi.
Abruzzo presidente, Nigro vicepresidente
D’Asnasch segretario e Comuzzi tesoriere
Sarubbi presidente del Collegio dei revisori
Dichiarazione di
Franco Abruzzo:
“Giornalisti nella
Costituzione”
Nel 2005
l’Ordine
di Milano
celebrerà i 40
anni di vita
dell’ente e, con
l'Associazione
lombarda dei
Giornalisti,
ricorderà
degnamente il
25° anniversario
del sacrificio di
Walter Tobagi.
Franco Abruzzo ha dichiarato: “Vogliamo, come nel
recente passato, valorizzare
il ruolo dell’Ordine come
giudice disciplinare e come
giudice delle iscrizioni; affermare la centralità della
deontologia, la dignità e la
libertà dei giornalisti; garantire trasparenza ed equità
nell’accesso agli Albi e al
Registro dei praticanti;
difendere i soggetti deboli e
in particolare i free lance;
sconfiggere il “lavoro nero”
e il mobbing nelle redazioni;
battere la commistione
pubblicità/informazione;
promuovere la formazione
continua dei giornalisti;
vincolare l’Inpgi a una
gestione improntata alla
solidarietà (verso i giornalisti pensionati) e al rispetto
I risultati
del ballottaggio
Milano, 1 giugno 2004. Franco Abruzzo è il primo degli eletti nel ballottaggio
conclusosi ieri e che riguardava il nuovo
Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia. Abruzzo, che ha espresso la
sua soddisfazione, ha ottenuto 598 voti,
pari al 52,8% (percentuale che sale al
55,4% una volta escluse schede nulle e
bianche).
Fra i pubblicisti il più votato è risultato
Cosma Damiano Nigro (Movimento Giornalisti Liberi) con 356 voti seguito da
Brunello Tanzi (Lista indipendente), vicepresidente uscente, con 348. Nel Collegio dei revisori dei conti sono stati eletti i
giornalisti professionisti Ezio Chiodini
(500 voti) e Marco Ventimiglia (455) della
lista indipendente e il giornalista pubblicista Giacinto Sarubbi (323) del Movimento Giornalisti Liberi.
Nel ballottaggio hanno votato 1.126 giornalisti professionisti lombardi, pari al
17,35% degli aventi diritto, e 787 pubblicisti, pari al 7,3%.
Le schede nulle nel “regionale” sono
risultate 29; 17 quelle bianche. Nel
“nazionale” professionisti, le schede bianche sono risultate 17 e le nulle 29; nel
“nazionale” pubblicisti rispettivamente 15
e 39. Questi i risultati del ballottaggio:S
Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
Professionisti eletti
Francesco Abruzzo, voti 598; Alberto Comuzzi, 495; Laura Mulassano, 479; Sergio
D'Asnasch, 468; Letizia Gonzales, 467, e Paola Pastacaldi, 467.
Hanno ottenuto voti: Maurizio Michelini, 453; Marco Cremonesi, 422; Laura Barsottini, 395; Maxia Zandonai, 394; Giovanna Calvenzi, 368; Francesco Facchini, 355.
Collegio dei revisori dei conti, professionisti eletti
Ezio Chiodini, 500 voti; Marco Ventimiglia, 455.
Hanno ottenuto voti: Rita Musa, 378; Aldo Soleri, 371.
Pubblicisti eletti
Cosma Damiano Nigro, 356 voti; Brunello Tanzi, 348; Michele D’Elia, 342.
Hanno ottenuto voti: Giuseppe Spatola, 340; Milena Pini, 326; Pietro Scardillo, 307.
Collegio dei revisori dei conti, pubblicisti eletti
Giacinto Sarubbi, 323 voti; ha ottenuto voti: Raffaele Pellino, 302.
Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti
Professionisti eletti
Marco Volpati, 490 voti; Sergio Borsi, 460; Bruno Ambrosi, 440; Costantino Muscau,
437; David Messina, 434; Daniela Stigliano, 420; Gianni De Felice, 420; Elena Golino, 414; Nicola D’Amico, 410; Ruben Razzante, 401; Romano Bracalini, 397; Davide Colombo, 393; Stefano Jesurum, 392; Pier Paolo Bollani, 391 (eletto per maggiore anzianità di Albo rispetto a Roberto Casalini).
Hanno preso voti: Roberto Casalini, 391; Antonio Massa, 383; Enrico Fedocci, 382;
Paolo Lepri, 381; Fabio Felicetti, 380; Mariella Bussolati, 378; Giuseppe (Beppe)
Ceccato, 376; Michele Urbano, 372; Anna Gennari, 372; Giulio Signori, 371; Mario
Lombardo, 363; Giuseppe Vigani, 362; Saverio Paffumi, 359; Emilio Pozzi, 355.
Pubblicisti eletti
Stefano Gallizzi, 372 voti; Domenico Tedeschi, 341; Sabrina Zotti, 323; Luigi E.Vigevano, 323; Giuseppe Alberti, 322; Rino Felappi, 317; Emilio Pastormerlo, 315; Giacomo Metta, 314; Jole Zangari, 311; Patrizia Zanardini, 310; Pasquale Salerno, 310.
Hanno preso voti: Dario Collio, 306; Camillo Albanese, 297 voti; Cecilia Sangiorgi,
288; Assunta Currà, 282; Alberto Arrigoni, 280; Felicia Pioggia, 276; Umberto Accomanno, 275; Salvatore Catalano, 274; Franco Marelli Coppola, 273; Franco Angelotti, 273; Paolo Apice, 272.
segue a pagina 2
DIFFAMAZIONE - Analisi delle sentenze civili (2001 e 2002) della Corte d’Appello di Milano
Il diritto di critica
è nel mirino
dei giudici d’appello
Quanto alle forme di critica sottoposte al
vaglio della Corte, queste hanno riguardato la
critica musicale, quella politica e quella giudiziaria.
Contro richieste medie singole di 18 miliardi
liquidati appena 30 milioni di vecchie lire
Su incarico del Consiglio regionale dell'Ordine dei giornalisti
della Lombardia, continua il lavoro di ricerca degli avvocati
Sabrina Peron ed Emilio Galbiati sulle sentenze rese dal Foro
ambrosiano in materia di diffamazione a mezzo mass-media.
In questo numero pubblichiamo i risultati della disamina delle
sentenze emesse in materia dalla Corte d'Appello Civile di
ORDINE
6
2004
Allegato a questo numero un inserto a cura
degli avvocati Sabrina Peron ed Emilio Galbiati
DIFFAMAZIONE
A MEZZO STAMPA
Milano nel biennio 2001-2002: prossimamente verranno
pubblicati quelli inerenti la Corte d'Appello Penale di Milano
(sempre con riferimento al biennio 2001-2002).
Dall’esame delle sentenze (46 in tutto), è emerso che le
pronunzie di primo grado - rese in larga maggioranza dal
Tribunale di Milano (86%) e riguardanti soprattutto i quotidiani
nazionali (45%), ed i settimanali (26%) - vengono confermate
nel 67,4% dei casi.
Tra le categorie professionali maggiormente coinvolte in fattispecie di diffamazione a mezzo mass-media spiccano i magistrati (nel 44% dei casi dei giudizi di appello contro il 18%
risultante dalla precedente analisi del giudizio di primo grado,
Segue a pagina 2
SOMMARIO
Ordine
I consiglieri e i revisori della Lombardia
non percepiscono indennità
pag. 2
Inpgi 2
Nulla è dovuto dai giornalisti per il 1966 pag. 4
Rapporto Le nuove professioni
della comunicazione digitale
pag. 6
Praticantato: rubinetto aperto,
ma troppe differenze
pag. 7
Sondaggio Etica dell'informazione
economico-finanziaria
pag. 8
Professioni La riforma guadagna il primo sì
pag. 9
Mobbing
Il "mal di redazione"
attende il risarcimento Inpgi
pag. 10
Memoria
Mario Missiroli,
don Abbondio in redazione
pag. 14
La libreria di Tabloid
pag. 18
All'interno: "IFG Tabloid", inserto a cura degli allievi dell'Istituto "Carlo De Martino" per la formazione al giornalismo
1
Comunicato del presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
Il presidente, i consiglieri
e i revisori dell’Ordine di Milano
non percepiscono indennità
Milano, 6 maggio 2004. Il presidente, i consiglieri e i revisori
dell’Ordine di Milano non percepiscono indennità a differenza
dei consiglieri nazionali. Gli incarichi, come si diceva nell’800,
vengono svolti a titolo onorifico e gratuito. Il presidente dell’Ogl
non gode dei vantaggi (ad esempio: auto, autista e carta di
credito) accordati legittimamente al presidente del Consiglio
nazionale dell’Ordine.
Il 30 giugno 1997 Franco Abruzzo ha chiesto ai ministri della
Giustizia e del Tesoro dell’epoca:
a) la determinazione dell’indennità di carica per presidente, vicepresidente, consigliere segretario, consigliere tesoriere e
presidente del collegio dei revisori dei Conti dell’OgL;
b) la determinazione del gettone di presenza per i consiglieri e i
revisori dei conti dell’OgL.
Il direttore dell’Ufficio VII del ministero della Giustizia ha
risposto, facendo presente che i problemi sollevati andavano
risolti “nell’ambito dei poteri di autodisciplina dell’Ordine
professionale. A tal fine il Consiglio nazionale potrà attivarsi
al fine di omogeneizzare la materia a livello nazionale,
evitando disparità di trattamento, comunicando a questo Ufficio le eventuali determinazioni assunte”. In sostanza il mini-
stero della Giustizia faceva sue le conclusioni del ministero
del Tesoro.
La materia è stata regolata conseguentemente con deliberazione del Comitato esecutivo del Cnog datata 27/28 marzo
2001 (Nuovo trattamento di indennità e rimborsi spese ai
consiglieri nazionali, ai componenti della Commissione
d’esame e agli altri collaboratori). La deliberazione disciplina
il rimborso delle spese di viaggio e delle spese per la permanenza. Il gettone giornaliero è stato fissato in £ 150mila lire.
Le spese di vitto e pernottamento sono contenute giornalmente entro le 320mila lire. Le spese non documentate in £
30mila al giorno. Il rimborso chilometro (per chi usa l’auto) è
pari a un quinto del prezzo della benzina verde. Il Consiglio
nazionale, in data 16 giugno 1995, ha stabilito che ai consiglieri residenti in Roma spettano £ 100mila per ogni giornata
di presenza nella sede dello stesso Cnog. Quella cifra oggigiorno è stata notevolmente aumentata.
Il regolamento contabile del Cnog, al quale gli Ordini regionali sono tenuti ad ispirare la loro condotta, introduce delle
novità anche per la nostra amministrazione, valorizza il ruolo
del direttore, autorizza spese fino a £ 5 milioni riguardanti le
segue dalla prima/
Dichiarazione di Franco Abruzzo
“GIORNALISTI
NELLA COSTITUZIONE”
dei diritti costituzionali degli iscritti (giovani e meno
giovani).
“Ormai è maturo il tempo perché i giornalisti, come i
magistrati, siano inseriti nella Costituzione. Nella carta
fondamentale c’è scritto che i magistrati sono soggetti
soltanto alla legge. Nella stessa carta fondamentale va
scritto che i giornalisti sono soggetti soltanto alla deontologia professionale. Si afferma da più parti che
soltanto gli avvocati e i medici sono nella Costituzione
(articoli 24 e 32 della Costituzione, che parlano del
diritto di difesa e del diritto alla salute). Va detto che il
comma 2 dell’articolo 21 della Costituzione afferma
che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. La stampa è scritta, fatta, alimentata,
progettata e creata dai giornalisti. L’esperienza dimostra – come ha scritto la Corte costituzionale nella
sentenza n. 11/1968 - che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si
dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso
l’opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà
si connette, in un unico destino, la libertà della stampa
periodica, che a sua volta è condizione essenziale
di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali. La Costituzione e la
Corte costituzionale disegnano, quindi, una professione giornalistica come professione della libertà. Quella
libertà che, come ha scritto Mario Borsa, prima di
essere un diritto è un dovere”.
“Le parole di Mario Borsa, - giornalista liberale, corrispondente per lunghi anni del “Secolo” da Londra,
combattente della libertà negli anni della dittatura
fascista e poi direttore del “Corriere della Sera” nel
1945/1946 - che per Walter Tobagi sono le più significative e che ripropose, con un saggio pubblicato nel
1976 (su “Problemi dell’informazione”), alla categoria
giornalistica sono: “Dite sempre quello che è bene e
che vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici: dite sempre quello che è
giusto, anche se ne va della vostra posizione, della
vostra quiete, della vostra vita. Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere”.
esigenze di funzionamento dell’ente, le spese non possono
essere impegnate ed ordinate oltre i limiti delle dotazioni di
bilancio. Le spese superiori a £ 50 milioni dovranno essere
assunte in forma di asta pubblica o di licitazione privata.
Il Consiglio dell’OgL, nella seduta del 12 settembre 2001, ha
recepito all’unanimità il Regolamento contabile del Cnog. Il
Consiglio, però, all’unanimità ha respinto quella parte del
Regolamento, che prevede indennità e gettoni di presenza.
In conclusione i consiglieri e i revisori costano ai colleghi le
spese relative ai pranzi, alle cene di lavoro e ai taxi. Attaccarsi a queste voci per muovere censure ai consiglieri significa
ripetere l’errore di 30 anni fa contro i consiglieri del Csm,
accusati di peculato per i caffè sorseggiati durante i lavori
dello stesso Csm, inchiesta finita miseramente nel nulla. I
consiglieri, ed è evidente, non rispondono degli errori dei
collaboratori; di questi errori eventualmente sono vittime e
non complici. Gli attacchi velenosi affiorati nelle prime battute
della campagna elettorale sono stati raccontati in una denuncia presentata oggi alla Procura di Milano per calunnia e
diffamazione. Franco Abruzzo ha dichiarato: “Invito i colleghi
a non raccogliere infamie e farneticazioni”.
Segue dalla prima/
Questi i risultati della votazione
del 23-24 maggio 2004
CONSIGLIO REGIONALE
CONSIGLIO NAZIONALE
Consiglieri professionisti
Franco Abruzzo, voti 478;
Letizia Gonzales, 425;
Laura Mulassano, 404;
Alberto Comuzzi, 400;
Marco Cremonesi, 398;
Paola
Pastacaldi, 382;
Sergio
D’Asnasch, 380;
Maurizio Michelini, 358;
Maxia Zandonai, 324; Laura
Barsottini, 308; Giovanna
Calvenzi, 303; Francesco
Facchini, 294.
Consiglieri professionisti
Marco Volpati, 397; Sergio
Borsi, 385; Davide Colombo,
370; Gianni De Felice, 365;
Davide Messina, 365; Stefano Jesurum, 362; Daniela
Stigliano, 360; Michele Urbano, 357; Elena Golino, 356;
Costantino Muscau, 354;
Giuseppe Ceccato, 352;
Anna Gennari, 351; Nicola
D’Amico, 349; Saverio Paffumi, 344; Mariella Bussolati,
341; Romano Bracalini, 339;
Mario
Lombardo,
338;
Giuseppe Vigani, 333; Bruno
Ambrosi, 332; Roberto
Casalini,
332;
Ruben
Razzante, 324; Antonio
Massa, 322; Enrico Fedocci,
317; Paolo Lepri, 297; Pier
Paolo Bollani, 292; Fabio
Felicetti, 285; Giulio Signori,
279; Emilio Pozzi, 273.
Revisori dei conti professionisti
Ezio Chiodini, 403; Marco
Ventimiglia, 360; Rita Musa,
324; Aldo Soleri, 316.
Consiglieri pubblicisti
Cosma Damiano Nigro, 321;
Giuseppe Spatola, 308;
Michele D’Elia, 302; Brunello Tanzi, 263; Milena Pini,
252; Pietro Scardillo, 236.
Revisori dei
conti pubblicisti
Giacinto Sarubbi,
Raffaele Pellino, 229.
291;
Nel 2005 l’Ordine di Milano celebrerà i 40 anni di
vita dell’ente e, con l'Associazione lombarda dei
Giornalisti, ricorderà degnamente il 25° anniversario del sacrificio di Walter Tobagi.
Consiglieri pubblicisti
Stefano Gallizzi, 331; Domenico Tedeschi, 299; Pasquale Salerno, 295; Dario Collio,
291; Luigi E. Vigevano, 291;
Rino Felappi, 290; Giacomo
Metta, 290; Sabrina Zotti,
290; Giuseppe Alberti, 289,
289; Patrizia Zanardini, 288;
Emilio Pastormerlo, 287;
Jole Zangari, 238; Camillo
Albanese, 230; Cecilia
Sangiorgi, 217; Assunta
Currà, 212; Alberto Arrigoni,
209; Umberto Accomanno,
208; Franco Angelotti, 207;
Paolo Apice, 207; Franco
Marelli Coppola, 207; Felicia
Pioggia, 206; Salvatore
Catalano, 205.
L’ECO DELLA STAMPA
ECO STAMPA MEDIA MONITOR S.R.L.
Via Compagnoni 28, 20129 Milano
Tel. 02 74 81 131
Fax. 02 76 11 03 46
2
Gli attacchi velenosi
affiorati nelle prime
battute della campagna
elettorale raccontati in
una denuncia
presentata
alla Procura di Milano
per calunnia
e diffamazione.
Abruzzo: “Invito i colleghi
a non raccogliere
infamie e farneticazioni”
DIFFAMAZIONE
A MEZZO STAMPA
cfr. Ordine Tabloid 12/2003), seguiti dai privati (11%) e dalle
persone giuridiche (11%).
Vi è una percentuale interessante (5%) di giornalisti coinvolti
nelle vesti di diffamato. La media dei danni liquidati a favore
del diffamato dalla Corte d'Appello Civile è di euro17.606,49
procapite.
Trova conferma anche in grado di appello l'orientamento, già
manifestato in primo grado, di ridurre ampiamente le pretese
risarcitorie avanzate dal diffamato: contro una media di richieste di risarcimento danni da parte del diffamato appellante
(attore in primo grado) pari a euro 9.563.089,50, sono stati in
media liquidati danni procapite per euro 15.862,60. Si noti
però che in caso di riforma di una sentenza di condanna in
primo grado, con una media risarcitoria di circa euro
10.501,29, la Corte d’Appello Civile ha considerevolmente
elevato la media risarcitoria, praticamente raddoppiandola a
euro 20.658,28.
I criteri di liquidazione del danno utilizzati sono stati la gravità
dell'illecito, la personalità dell'offeso, l'ambito di diffusione, le
modalità di pubblicazione della notizia (articolo di apertura in
prima pagina, richiamato da titolo e immagini). Si noti che la
campagna stampa ha un'efficacia aggravante e la pubblicazione di una smentita comunque non esclude il danno.
A differenza del giudizio di primo grado, dove la tipologia degli
articoli diffamatori concerneva prevalentemente la cronaca
(53%, cfr. Ordine Tabloid 12/2003), nel giudizio di appello investe, invece, il diritto di critica (52%), definita come un'attività di
commento ed interpretazione del fatto storico in cui l'articolista finisce per fondere la propria personalità, prestando la
propria identità culturale ed intellettuale al pubblico, chiamato
a valutare le sue osservazioni.
Quanto alle forme di critica sottoposte al vaglio della Corte,
queste hanno riguardato: la critica musicale (dove si è ritenuto pressocché inutilizzabile il criterio della verità, risultando
prevalente l'aspetto valutativo), quella politica (che giustifica
l'utilizzo di espressioni anche aspre e dure), quella giudiziaria
(la quale deve rigorosamente rispettare la verità del fatto
narrato) ed, infine, la satira alla quale viene riconosciuto un
più ampio margine di libertà e di guarentigie, a condizione
che sia immediatamente riconoscibile come tale (ossia il
pubblico deve percepire senza difficoltà che lo scopo dell'articolista è quello di mettere alla berlina un noto personaggio).
Quanto alla cronaca, invece, che si sostanzia nel potere/dovere attribuito al giornalista di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende della vita sociale, la Corte
ha precisato che ogni giornale sceglie tra le diverse notizie
quelle meritevoli di attenzione interpretando a suo modo i fatti
accaduti, giacché non esiste una verità assoluta per tutti i
quotidiani, ma solo quella verità che si ritiene meritevole di
attenzione. In ogni caso, la verità deve consistere in una
sostanziale corrispondenza dei fatti riferiti a quelli storici e
potrà avere a carattere putativo purché sia stato preventivamente svolto dal giornalista un serio ed accurato lavoro di
verifica e di ricerca. Tale attività di verifica è valutata in modo
più rigoroso nel caso in cui le esigenze di tempestività
dell'informazione sono inferiori, come può ad esempio accadere nel caso in cui la pubblicazione avvenga in un periodico.
Alcune sentenze hanno altresì riguardato la pubblicazione di
immagini. In questi casi, poiché la diffusione di immagini può
avvenire solo con il consenso dell'interessato la pubblicazione non autorizzata è lecita solo se giustificata da esigenze di
pubblica informazione.
ORDINE
6
2004
Elezioni: l’anzianità
decorre dall’iscrizione all’Albo
L’articolo 3 della legge 69/1963
stabilisce che i sei professionisti e i tre
pubblicisti che, a seguito dell’elezione,
compongono gli organi locali
dell’Ordine, sono “scelti tra gli iscritti
nei rispettivi elenchi…, che abbiano
almeno cinque anni di iscrizione…”.
Ma l’anzianità così stabilita, da quando
decorre?
Dalla prima data d’iscrizione all’Albo
(indifferentemente dagli elenchi:
pubblicisti e professionisti) o dalla data
d’iscrizione allo specifico elenco
nell’ambito del quale ci si vuole
candidare?
L’anzianità decorre dalla prima data
d’iscrizione all’Albo: in questo senso si
è espressa la Direzione generale del
ministero della Giustizia, trovando, poi,
conferma nell’articolo 8 del nuovo
Regolamento per la trattazione dei
ricorsi e degli affari di competenza del
Consiglio nazionale dell’Ordine dei
giornalisti.
Evidentemente, sono, quindi,
cumulabili le anzianità maturate nei
singoli elenchi.
Art. 8 del nuovo
Regolamento
“In caso di passaggio dall’elenco professionisti all’elenco pubblicisti, o viceversa, l’anzianità si calcola a partire dalla
data della prima iscrizione ad uno dei
due elenchi dell’Albo”.
Parere del ministero
della Giustizia
“L’art. 3 della legge 69\1963 stabilisce che i
sei professionisti ed i tre pubblicisti che, a
seguito dell’elezione, compongono gli organi locali dell’Ordine professionale, sono “...
scelti tra gli iscritti nei rispettivi elenchi...,
che abbiano almeno 5 anni di anzianità di
iscrizione....”.
La norma, così come formulata, in assenza
di altri disposizioni (anche regolamentari)
che consentano di interpretarla in modo
chiaro, si presta a due interpretazioni.
Si potrebbe ritenere che sia richiesta un’anzianità di cinque anni relativa all’iscrizione
nello specifico elenco che interessa (elenco
pubblicisti o elenco professionisti), ovvero si
potrebbe ritenere che l’anzianità debba
essere calcolata a decorrere dall’iscrizione
all’Albo, a prescindere dall’appartenenza
dell’interessato ad uno specifico elenco.
Anche quest’ultima ipotesi sembra sostenibile, poiché non pare fondato l’assunto
contenuto nella nota in data 25\5\98 a firma
Colmelet Manuela (allegata al quesito),
secondo il quale “... in considerazione della
normativa vigente... è illegittimo il cumulo
dei due tempi di iscrizione...”. La soluzione
va, quindi, fondata su principi di ragionevolezza, coerenza e logicità. A parere di
questo Ufficio, applicando i principi indicati,
l’anzianità va computata a decorrere dal
momento iniziale di iscrizione all’Albo, a
prescindere dal fatto che l’interessato, nel
corso della sua vita professionale sia stato
iscritto in diversi elenchi.
Questa soluzione va scelta, anzitutto,
perché, nel dubbio ed in assenza di particolari elementi ostativi, favorisce l’esercizio di
un diritto (di elettorato) degli appartenenti
all’Ordine professionale.
Inoltre, questa interpretazione consente di
evitare soluzioni illogiche, quale quella di
consentire l’elezione di un soggetto iscritto
all’albo da cinque anni, che nello stesso
periodo sia appartenuto allo stesso elenco,
ed impedire, invece, l’elezione di un altro
soggetto iscritto all’Albo da nove anni che
sia stato iscritto per quattro anni e mezzo
ad un elenco e per il restante periodo ad un
altro elenco. Sicché ad un soggetto iscritto
all’Albo dei giornalisti da nove anni darebbe
inibito essere eletto, mentre potrebbe risultare eletto un soggetto iscritto all’Albo da
soli cinque anni.
Va, infine, osservato che l’art. 3 in esame
sembra finalizzato ad ottenere una particolare composizione del Consiglio, garantendo ai giornalisti professionisti una presenza
numericamente più rilevante (doppia) rispetto a quella dei giornalisti pubblicisti. Sotto
questo profilo la norma raggiunge il suo
effetto a prescindere dall’elenco nel quale
risultava iscritto l’interessato negli anni
precedenti l’elezione.
Ciò che rileva, è soltanto che, nel momento
dell’elezione, l’interessato sia iscritto ad un
elenco piuttosto che ad un altro, perché
occorre rispettare le proporzioni indicate. A
ciò, presumibilmente per avere un minimo di
garanzie in merito alla professionalità ed alla
rappresentatività dell’eletto, l’art. 3 aggiunge
la richiesta di un periodo minimo di iscrizione.
Ma, per i motivi espressi, pare possibile ritenere che, ai fini che qui interessano, il periodo
di iscrizione debba considerarsi unico e
decorrente dal momento di iscrizione all’Albo
e non ad uno specifico elenco”.
(g.c.)
11 maggio 2004
Il premio Frajese
a Calabrese e Sposini.
Riconoscimento
speciale per
Sergio Zavoli
Siena, 22 maggio 2004. Il direttore della
“Gazzetta dello Sport” Pietro Calabrese e il
condirettore del Tg5 Lamberto Sposini sono i
vincitori dell’edizione 2004 del premio giornalistico “Paolo Frajese”, promosso dal “Corriere di
Siena”. La giuria, presieduta da Vittorio Stelo,
già prefetto di Siena, e formata da rappresentanti delle istituzioni della provincia, ha deciso
di assegnare un premio speciale a Sergio
Zavoli per “la sua straordinaria carriera giornalistica in Rai”. Menzioni per Giulio Pepi, giornalista senese, noto per le sue cronache del Palio,
e alla coppia Silvano Carletti-Franco Baldi che
cercano di tramandare la tradizione dei canti
popolari senesi. La cerimonia di consegna dei
premi si terrà il 26 novembre nella chiesa della
Santissima Annunziata nel complesso del
Santa Maria della Scala.
(ANSA)
Scandalo
a “Usa Today”,
si dimette
il direttore news
New York, 21 aprile 2004. Brusco annuncio
dai vertici del quotidiano americano a più vasta
tiratura (2,3 milioni di copie): Karen Jurgensen,
dal ‘99 direttore di “Usa Today”, ha rassegnato
le dimissioni dopo uno scandalo che ha coinvolto la sua testata a causa di Jack Kelley, una
delle sue grandi firme, accusato di essersi
inventato i dettagli di alcuni suoi articoli. Kelley
si è dimesso in gennaio dopo aver ammesso
di aver tentato di ingannare i colleghi che
controllavano l’accuratezza e l’ attendibilità dei
suoi servizi. “La lezione appresa da questo
terribile scandalo ci aiuterà a fare un giornale
migliore” ha dichiarato Jurgensen abbandonando il timone. Il terremoto al vertice di “Usa
Today” è il secondo del genere nei ranghi del
giornalismo americano: un anno fa la scoperta
che un cronista da prima pagina del “New York
Times”, Jayson Blair, aveva inventato di sana
pianta particolari di suoi articoli era costato la
poltrona all’allora direttore Howell Raines. La
Jurgenson era stata nominata 5 anni fa a “Usa
Today” facendo storia: per la prima volta una
donna era stata chiamata a dirigere un quotidiano nazionale.
(ANSA)
ORDINE
6
2004
3
Inpgi-2 e contributi per l’anno 1996
sui redditi da attività giornalistica
“Nulla è dovuto
dai giornalisti”
di Luisella Nicosia, avvocato in Milano
L’Inpgi ha inviato nel mese scorso ai giornalisti iscritti all’Albo professionale un
avviso di messa in mora, sotto forma di
lettera raccomandata, con il quale si
impone il pagamento di contributi previdenziali sui proventi, derivanti da attività
giornalistica, fiscalmente dichiarati nel
1997 e relativi al periodo d’imposta 1996.
Nelle comunicazioni recapitate ai giornalisti, al solo scopo di giustificare il preteso obbligo contributivo, si fa un generico
ed impreciso riferimento al D.Lgs n.
103/1996 ed al Regolamento della Gestione, e si asserisce che gli emolumenti
percepiti relativamente all’anno d’imposta 1996 che derivano dall’attività giornalistica sono da assoggettare a contribuzione, presso la Gestione separata
dell’Inpgi.
Si precisa che l’obbligo contributivo non
può considerarsi prescritto, pur trattandosi di versamenti a titolo previdenziale
riferibili all’anno 1996. A rafforzare tale
tesi si afferma addirittura che il termine di
prescrizione dei contributi ancora dovuti
deve intendersi decorrente dal momento
in cui l’Amministrazione finanziaria
comunica all’Istituto di previdenza l’ammontare dei compensi corrisposti al giornalista con riferimento all’annualità 1996,
che nel caso di specie sembrerebbe
essere il luglio 2001, in quanto solo allora
l’Agenzia delle Entrate avrebbe posto
l’Inpgi nella condizione di conoscere la
dichiarazione dei redditi del giornalista.
Nella sostanza la verità è che si impone a
carico degli iscritti all’Albo un obbligo
contributivo relativo ad un’annualità
ormai da reputarsi prescritta, subordinando i proventi derivanti da opere dell’ingegno ad una contribuzione non dovuta.
1
L’esatto computo
del termine di prescrizione
del contributo previdenziale
Secondo la tesi sostenuta dall’Inpgi, la
prescrizione decorrerebbe dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere, ossia dal
momento in cui l’Agenzia delle Entrate
comunica i compensi percepiti dal giornalista con riferimento all’anno 1996 (luglio
2001).
Una tale lettura del dettato normativo, in
realtà, non appare corretta giacché si finisce,
in tal modo, con il rendere il termine di decorrenza della prescrizione suscettibile di essere
subordinato al libero arbitrio delle parti. In
proposito, si deve rilevare come l’art. 2935 c.c.
(decorrenza della prescrizione) non è suscettibile di applicazioni “libere” e va interpretato,
senza ombra di dubbio, nel senso di ritenere
che il termine di prescrizione inizia a decorrere proprio dall’anno 1996, nel quale appunto
si è verificata l’omissione contributiva.
La norma, infatti, nel precisare che “la
prescrizione comincia a decorrere dal giorno
in cui il diritto può essere fatto valere”, sta
semplicemente a significare che, se a partire
dal giorno in cui il titolare poteva validamente esercitare il suo diritto, egli si è astenuto
per il tempo previsto dalla legge dal suo
esercizio, il diritto medesimo si estingue.
La possibilità di far valere il diritto, cui la
norma fa riferimento, è la sola possibilità
legale all’esercizio dello stesso: eventuali
ostacoli materiali che rendono di fatto impossibile l’esercizio del diritto medesimo sono
da reputarsi del tutto irrilevanti.
Come, infatti, è stato precisato in più di una
I dati dei contribuenti
sono pubblici
dal 1973: l’inerzia
dell’ente non
giustifica un aggravio
vessatorio
ai danni dei giornalisti
di Alberto Arrigoni
dottore commercialista in Milano
e giornalista pubblicista
Mai come in questo periodo
il trattamento della contribuzione previdenziale – e
appare per altro discutibile
questa connotazione in
quanto i versamenti minori,
dato il perverso meccanismo di funzionamento di
Inpgi/2, sono normalmente
a fondo perduto – per le attività tipicamente pubblicistiche appare quanto mai
occasione dalla Corte di Cassazione (Cass.
Civ., sez. I, 7 maggio 1996, n. 4235; Cass.
civ., sez. III, 23 luglio 2003, n. 11451), la citata disposizione normativa acquista particolare significato esclusivamente in relazione alle
ipotesi in cui esiste un ostacolo all’esercizio
utile e consapevole del diritto: il che equivale
a dire che deve necessariamente trattarsi di
un impedimento giuridico e non di mero fatto
all’esercizio dello stesso.
Pertanto, non sembra si possa limitare il
decorrere del termine quinquennale di
prescrizione in materia contributiva e addurre a giustificazione la sussistenza di impedimenti di mero fatto, come, nel caso di specie,
la difficoltà da parte dell’Inpgi di contabilizzare integralmente l’esatto importo del contributo previdenziale, al deliberato scopo di
posticipare illegittimamente l’inizio del termine prescrizionale alla data in cui l’Inpgi riceve le “necessarie informazioni” da parte
dell’Amministrazione finanziaria.
È sempre la Suprema Corte ad aver inequivocabilmente precisato che in tema di decorrenza del termine di prescrizione “l’impossibilità di far valere il diritto al quale l’art. 2935
c.c. attribuisce rilevanza di fatto impeditivo
della decorrenza della prescrizione, è solo
quella che deriva da cause giuridiche che
ostacolino l’esercizio del diritto e non
comprende anche gli impedimenti soggettivi
o gli ostacoli di mero fatto, come quelli che
trovino la loro causa nell’ignoranza, da parte
del titolare, dell’evento generatore del suo
diritto e nel ritardo con cui egli proceda ad
accertarlo per la mancata comunicazione…
di tale evento da parte del debitore….
”(Cass. civ., sez. lav., 11 dicembre 2001, n.
15622).
2
confuso e vessatorio. Sappiamo tutti che il lavoro del
giornalista pubblicista può
spaziare in una ampia gamma di prestazioni: la tipica
cucina redazionale con la
preparazione di pagine con
una scarsa attività di scrittura di testi, la segnalazione di
dati e notizie locali alla redazione situata nel grande
centro, la predisposizione e
La corretta delimitazione
di ciò che forma oggetto
dell’imponibile contributivo
Non minore importanza assume poi la delimitazione dell’ambito oggettivo del preteso
obbligo contributivo Inpgi.
Su tale specifico punto l’art. 1, comma 26,
della legge 08.08.1995, n. 335, nell’imporre
a carico dei soggetti che esercitano per
professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo e dei titolari di
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nonché degli incaricati alla vendita a
domicilio, l’obbligo di iscrizione ad apposita
Gestione separata presso l’Inps, esclude che
la cessione del diritto d’autore comporti
alcun obbligo contributivo a carico di coloro
che, in qualità di giornalisti iscritti all’Albo,
percepiscono compensi per la cessione di
opere dell’ingegno.
Infatti, il testo normativo se, da un lato include nell’imponibile contributivo solo i redditi di
lavoro autonomo e da collaborazioni (più i
compensi per vendite “porta a porta”), dall’altro esonera da obblighi contributivi i proventi
che derivano dalla cessione del diritto d’autore.
E dato che, per espressa disposizione di
legge (art. 76, comma 4, legge n.388/2000),
“le forme di previdenza gestite dall’Inpgi
devono essere coordinate con le norme che
regolano il regime delle prestazioni e dei
contributi delle forme di previdenza sociale
obbligatoria, sia generali che sostitutive”,
all’Inpgi non può far capo la titolarità di diversa potestà contributiva, mediante la predisposizione di propri regolamenti che si
Consuntivo Inpgi 2003: avanzo di
Il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha approvato il
consuntivo 2003, il quale chiude con un avanzo di 63,775
milioni di euro. Ulteriore elemento positivo, si legge in una nota
dell’istituto, è il rapporto percentuale fra entrate contributive
correnti e spesa previdenziale, che resta fissato al 90,2% (100
euro di contributi incassati, 90,2 spesi per pensioni, 9,8 destinati ad incrementare la riserva).
Si registra tuttavia, rileva la nota, un rallentamento nella crescita percentuale dei contributi correnti (dal 6,06 al 5,14%) mentre
si rafforza un aumento percentuale della spesa previdenziale
(dal 4,32% del 2002 al 5,12% del 2003).
Il risultato del bilancio, che dovrà ora passare alla ratifica del
Consiglio generale, è caratterizzato principalmente dai
seguenti capitoli: gli iscritti e i rapporti di lavoro. Anche nel
2003 è continuata la crescita degli iscritti attivi. Al 31 dicembre
il loro numero era pari a 14.837 giornalisti (+ 4,52% rispetto al
2002) così ripartiti: 12.551 professionisti, 1.241 pubblicisti,
1.045 praticanti.
Ne deriva quindi un ottimo rapporto, rileva la nota dell’Istituto,
tra iscritti attivi e pensionati: 2,80 giornalisti in attività per ogni
iscritto in quiescenza (2,72 nel 2002). Il numero medio dei
rapporti di lavoro è salito a 15.014 unità (+3,32%).
Permane però negativo il dettaglio riguardante i praticanti: in
tutto 1.123 rapporti di lavoro che hanno fatto segnare un
regresso (meno 174 rapporti di lavoro rispetto al 2002). Più
4
positivo l’esame dei rapporti di lavoro stabili e a tempo pieno
(articoli 1): un totale che nel 2003 ha riguardato 12.874 colleghi (crescita di 288 unità, pari al 2,29%) così ripartiti: 11.402
professionisti (+ 430 unità), 585 pubblicisti (+ 79), 887 praticanti (- 221).
Un aumento di particolare rilievo ha riguardato i contratti articolo 1 derivanti dal contratto differenziato stipulato dalla Fnsi
per il settore dell’emittenza locale. È stata infatti registrata una
crescita del 41,43% rispetto al 2002, con un totale di 447
rapporti di lavoro a tempo pieno.
I contributi correnti
Sono aumentati, ma in misura inferiore rispetto al 2002:
complessivamente 297,860 milioni, con una crescita di 14,559
milioni rispetto al 2002, pari al 5,14% (6,06% nell’anno precedente). La riserva tecnica Ivs prevista dalla legge 449/97 sale
comunque a 1.103,696 milioni, che garantiscono 7,396 annualità (6,987 nel 2002).
Le prestazioni previdenziali e i prepensionamenti
Anche il settore pensionistico continua a far rilevare la tendenza all’aumento: un impegno totale di spesa che nel 2003 è
stato di 245,980 milioni (+ 11,980 milioni, con un incremento
percentuale del 5,12% rispetto al 4,32 del precedente esercizio).
Il numero dei trattamenti pensionistici è stato nell’anno pari a
5.304 (+ 78 unità rispetto al 2002).
Sempre preoccupante l’onere dei prepensionamenti, il cui
costo è a completo carico dell’Inpgi. Tredici i nuovi prepensionamenti riferiti al 2003 che si sono aggiunti a quelli maturati
negli anni precedenti, determinando nell’anno un’uscita
complessiva aggiuntiva di 18,390 milioni. Senza questo onere
il rapporto percentuale fra entrate contributive correnti e spesa
pensionistica scenderebbe di oltre 6 punti, dal 90,02%
all’83,49%.
L’attività ispettiva e legale
Le ispezioni concluse in 76 aziende editoriali hanno comportato 67 verbali di addebito per un totale di 13,091 milioni, di cui
8,578 riferiti a contributi evasi od omessi e 4,513 riguardanti
sanzioni civili. Ben 450 sono state le contestazioni relative a
posizioni accertate nell’ambito del lavoro subordinato giornalistico e che le aziende consideravano in maniera difforme. Nel
2003 il Servizio legale ha ottenuto in Tribunale 51 giudizi favorevoli all’Istituto. Il credito complessivo riconosciuto dai giudici
(anche in questi casi sentenze provvisoriamente esecutive) è
stato di 7,651 milioni.
ORDINE
6
2004
stesura di articoli, saggi corrispondenze su temi di attualità o di cultura. Una pluralità di modalità di esplicare
l’attività di pubblicista, tutti di
buon contenuto giornalistico
ma solo le ultime accompagnate da quella caratteristica di creatività ed originalità
tale da poter essere collocata nel novero delle opere
suscettibili di protezione
come opera dell’ingegno, e
quindi in grado di produrre
un contenuto economico caratterizzato dalla qualifica di
compenso per lo sfruttamento del diritto d’autore.
Sappiamo tutti come questo
tema sia controverso e
sembra sia stato spesso
sfruttato per coprire situazioni che con la protezione
dell’opera dell’ingegno avevano poco a che fare, ma
miravano solamente a coprire vantaggi fiscali; pur tuttavia non si può certamente
arguire da un eventuale
comportamento discutibile
l’inesistenza di un diritto.
Inoltre non si comprende
come l’Inpgl/2 possa ritenersi
dotata di maggiore autonomia
anche rispetto al principale
istituto previdenziale italiano,
l’Inps, tanto da ritenere che
quelle leggi che si applicano
per tutti i cittadini non valgono
per i giornalisti: le prestazioni
occasionali, se capaci di
generare un reddito minore
non sono soggette a contribuzione di sorta, e questo sia
che riguardino un’attività artistica, sia di consulenza che
giornalistica.
L’occasionalità trova in se
stessa la propria situazione
di imposizione sia fiscale che
previdenziale e non si comprende come l’Inpgi 2, considerandosi legibus solutus
possa chiamarsi fuori dalla
interpretazione generale.
Infine deve essere affrontato
con attenzione il problema
della prescrizione della
eventuale pretesa contributiva. Il mondo attuale è costellato di termini precisi, che
condizionano con scadenze
tassative la vita del cittadino:
la dichiarazione dei redditi, la
patente, l’assicurazione auto, l’abbonamento TV e tanti
altri sono appuntamenti legati ad una data precisa e
superarla comporta pesanti
sanzioni.
vorrebbero applicare nei confronti di un’intera categoria professionale, tali da ergersi al
di sopra dello stesso dettato normativo in
materia previdenziale.
Alla luce delle suesposte considerazioni non
sembra pertanto possa riconoscersi alcuna
valenza al Regolamento della gestione, che
imporrebbe, come sopra accennato, un
ingiustificato differimento del termine di
prescrizione dei contributi alla data di ricevimento delle “informazioni “ relative ai singoli
contribuenti, né tantomeno sembra possa
assumere un qualche rilievo il D.Lgs. n.
103/1996 richiamato negli “avvisi bonari”
indirizzati ai professionisti e pubblicisti, in
quanto tale decreto, sebbene provveda ad
estendere la tutela previdenziale obbligatoria
anche ai soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione iscritti in albi o
elenchi, non per questo ci sembra idoneo ad
imporre alcuna legittima pretesa con riferimento a contributi che sono ormai da ritenersi prescritti per le ragioni di cui sopra.
3
Il codice civile espressamente prevede la tassitività del
termine di prescrizione entro
cui deve essere fatto valere
un diritto e fulmina con la
sanzione della decadenza
l’eventuale pretesa azionata
dopo lo spirare del termine
di prescrizione.
Termini precisi, quindi, per i
quali il presupposto formale
necessario è il c.d. die a quo,
il momento di partenza attraverso il quali si inizia a contare il decorso del tempo e
questo, come presupposto
necessario alla certezza del
diritto non può essere lasciato alla leggerezza della
sorte.
Il termine quinquennale per
la pretesa dei contributi sui
redditi giornalisti per l’anno
1996 decorre dalla data di
consegna della dichiarazione di parte all’autorità che
deve lavorarla; decorre quindi, generalmente dal maggio/giugno 1997 ed è irrimediabilmente prescritto.
Il fatto di avere eventualmente ricevuto in ritardo gli
elaborati non esime certamente Inpgi dal rispetto dei
termini e dai propri dirit-
ti/doveri, posto che in materia fiscale esiste da circa
trent’anni una norma specifica (art. 69 Dpr 600/73) che
dispone la pubblicità degli
elenchi dei contribuenti e la
segnalazione, comune per
comune, di tutti i dati utili
dei dichiaranti entro il 31
dicembre dell’anno successivo a quello della
dichiarazione.
Una colpevole inerzia non
può generare un aggravio
vessatorio sulle spalle dei
giornalisti che avendo a
suo tempo correttamente
dichiarato i redditi percepiti ritennero a ragione di
avere esaurito gli adempimenti richiesti.
Purtroppo l’esiguità degli
importi e la convinzione che
il contributo Inpgi/ 2 sia una
sorta di tributo tanto sgradito
quanto immanente farà
versare a qualche collega un
importo che nulla aggiunge
alla sua condizione contributiva e non è dovuto stante il
trascorrere del tempo.
Mai come in questo caso
una pluralità di dissensi
diviene un terremoto purificatore!
Irripetibilità
dei contributi relativi
all’annualità 1996
Infine, si ritiene utile dare atto del fatto che, trattandosi di contributi ormai non più dovuti, non
può in alcun modo essere riconosciuta l’esistenza di un eventuale obbligo del giornalista al
versamento di importi caduti in prescrizione.
Infatti, “nella materia previdenziale… il regime
della prescrizione già maturata è sottratto alla
disponibilità delle parti, ai sensi del comma 9
dell’art. 3 della legge n. 335 del 1995, che vale
per ogni forma di assicurazione obbligatoria…
Pertanto deve escludersi la sussistenza di un
diritto dell’assicurato a versare contributi previdenziali prescritti… Né tale disciplina si pone in
alcun modo in contrasto con gli art. 3 e 38 cost.,
avuto riguardo alla sua ragionevolezza, corrispondendo la stessa ad una esigenza di equilibrio finanziario degli enti previdenziali che impedisce agli assicurati di costituirsi benefici attraverso una contribuzione concentrata nel tempo
e ritardata…”
(Cass., civ., sez. lav., 27 giugno 2002, n. 9408).
In senso conforme anche le seguenti pronunce:
Cass. civ., sez. lav., 4 giugno 2003, n. 8888;
Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2002, n. 9525; Cass.
civ., sez. lav., 12 gennaio 2002, n. 330; Cass. civ.,
sez. lav., 16 agosto 2001, n. 11140; Corte Appello Milano, 30 maggio 2000.
Sembra si possa, dunque, ragionevolmente
concludere nel senso del riconoscimento che
nulla è ad oggi dovuto con riferimento all’anno
d’imposta 1996 all’Inpgi e che gli importi indicati
nella dichiarazione dei redditi dei giornalisti
(Mod. 760/97) sono da reputarsi esclusi da
contribuzione presso la Gestione separata Inpgi.
63,775 milioni di euro
La disoccupazione e la Cigs in leggera crescita, ma attenuata
rispetto al 2002, l’uscita per disoccupazione: 8,183 milioni (+
8,92% rispetto al 2002, allorchè l’aumento era stato del
36,90%).
I numeri dei giornalisti beneficiari dell’indennità è stato di 1354
unità, con una complessiva contribuzione figurativa accreditata di 5.060 mensilità.
Migliore la situazione del ricorso alla cassa integrazione.
Nell’anno i giornalisti in Cigs sono stati 92 (136 nell’anno
precedente). La spesa totale per l’indennità è ammontata a
589.600 euro.
I fondi svalutazione crediti
Sono stati ancora incrementati i fondi di svalutazione, il cui
totale assomma a 106,445 milioni di euro. Fra questi spicca il
fondo svalutazione crediti contributivi (99,012 milioni) il quale
consentirà a breve di poter decidere il varo di un condono
previdenziale senza alcuna ripercussione negativa sui bilanci
dell’Ente.
Il settore immobiliare
Nel 2003 è ulteriormente aumentato l’ avanzo netto di gestione: 13,665 milioni di euro, pari a + 8,66% rispetto al 2002.
ORDINE
6
2004
Questa rilevante crescita è tanto più significativa se si considera che l’ Inpgi ha comunque deciso di percorrere la strada dei
canoni agevolati (previsti dalla legge 431 del ‘98) applicando
tale condizione ai contratti in scadenza.
Il rendimento netto del patrimonio immobiliare, rapportato
al valore contabile (646.710.851 euro) è stato del 2,11 per
cento: 1,33% per l’abitativo (canoni per un totale di 14,778
milioni) e 4,13% per l’ uso diverso (canoni per 9,671 milioni). Queste in dettaglio le cifre relative al consuntivo 2003.
Proventi per canoni pari a 24,450 milioni di euro (+ 6,126
rispetto al 2002). Oneri complessivi netti per 10,785 milioni
(+ 3,08% rispetto all’ anno precedente). Ne risulta un avanzo di gestione di 13,665 milioni con un aumento percentuale del 8,66%.
Gli investimenti mobiliari
Nel 2003 l’andamento dei mercati finanziari è stato finalmente
positivo. Tale situazione si è riflessa sulla attività degli investimenti, che si è conclusa con un rendimento netto del 6,01%,
contro il 2,44% del 2002.
Al 31 dicembre 2003 il valore di mercato complessivo del
portafoglio era di 324,522 milioni (316,267 milioni il valore di
bilancio e plusvalenze implicite di 8,255 milioni).
(ANSA)
Dopo due sentenze
dei Tribunali di Roma e di Milano
La collaborazione è lavoro
autonomo: legittimo il
cumulo con la pensione
Abruzzo:
“Una sconfitta
per l’Inpgi”
Milano, 13 maggio 2004. La collaborazione è da considerare come lavoro autonomo non dipendente, quindi è legittimo
il cumulo con la pensione. Lo hanno stabilito, prendendo in
esame due aspetti collegati della vicenda, i tribunali di Roma
e Milano, ai quali si era rivolta una giornalista alla quale l’Inpgi aveva chiesto la restituzione di quasi 32 milioni di lire relativi al periodo di collaborazione.
“Una bruciante sconfitta per l’Inpgi”, l’ha definita il presidente
dell’Ordine lombardo dei giornalisti Franco Abruzzo che
sottolinea di aver sempre sostenuto la linea “del rispetto dei
diritti costituzionali nel rapporto tra iscritti e istituto di previdenza”.
La giornalista protagonista della vicenda nel 1997 aveva
rassegnato le dimissioni dal mensile “Rackam” di Rusconi
avendo raggiunto l’età pensionabile e gli oltre 240 contributi
mensili, come prevede il regolamento Inpgi. Quindi aveva
stipulato un contratto di collaborazione per un anno con lo
stesso periodico, per fornire un centinaio di articoli. Qualche
mese dopo, terminata la collaborazione, l’Inpgi aveva fatto
un’ispezione presso la casa editrice, la Rusconi Editore Spa,
comunicando alla giornalista di aver rilevato un rapporto di
lavoro subordinato, incompatibile con il trattamento pensionistico per lo stesso periodo, e chiedendo quindi il rimborso.
La giornalista si era rivolta ai giudici e il Tribunale di Roma ha
stabilito che il rapporto di collaborazione era stato un rapporto autonomo. Sulla stessa posizione anche il tribunale di
Milano, che ha ricordato che il divieto di cumulo è previsto
solo in misura del 50% con la retribuzione percepita alle
dipendenze di terzi e non per i redditi di lavoro autonomo.
(ANSA)
E Cescutti replica:
“Una sconfitta
per la giustizia”
Roma, 13 maggio 2004. Non una sconfitta per l’ Inpgi ma per
la giustizia: così il presidente dell’ ente, Gabriele Cescutti, replica al presidente dell’ Ordine dei giornalisti di Milano Franco
Abruzzo.
“Il presidente dell’ Ordine dei giornalisti di Lombardia ha oggi
diffuso la notizia di due sentenze, dei Tribunali di Roma e di
Milano, che a suo avviso rappresenterebbero “una sconfitta
bruciante e clamorosa per l’Inpgi” sul fronte del divieto di
cumulo tra pensione e redditi da lavoro, e sull’accertamento
del lavoro subordinato - dice Cescutti -. Invero il caso rappresenta piùche una sconfitta per l’ Ente previdenziale dei giornalisti, una sconfitta per la giustizia alla quale l’Inpgi si
opporrà in sede di appello, per tutelare i diritti di dodici giornalisti del gruppo Rusconi, e di tutti coloro che si trovino in
analoga condizione”.
La prima sentenza, sottolinea Cescutti, del Tribunale del Lavoro di Roma, “ha rigettato la richiesta dell’ Inpgi in merito al riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato nei confronti di
dodici giornalisti, considerati collaboratori autonomi dalla
Rusconi Editore, e per i quali invece un’ispezione dell’Inpgi
individuò, nel 1998, il diritto ad un rapporto di lavoro subordinato (tempo pieno o collaborazione fissa). Le prove documentali raccolte dagli ispettori dell’Inpgi, nonché le numerose testimonianze, non sono state ammesse dal Giudice del lavoro di
Roma - rileva Cescutti - il quale ha sbrigativamente affermato
che la presenza quotidiana in azienda e l’ inserimento nella
struttura organizzativa e produttiva aziendale, non bastano a
provare la subordinazione del rapporto di lavoro. Né basta che
i colleghi disponessero di scrivania e computer, che percepissero una retribuzione fissa mensile, che fossero sottoposti ad
un vincolo di esclusiva, né che alcuni di loro avessero persino
ottenuto proprio dall’Ordine lombardo, in tempi successivi, la
retrodatazione dell’ inizio del praticantato”.
La seconda sentenza, del Tribunale di Milano, continua
Cescutti, “si riferisce al caso di una collega del gruppo dei dodici, la quale al tempo dell’ ispezione era già pensionata Inpgi, e
cui di conseguenza l’ Istituto aveva comunicato l’applicazione
delle norme in vigore sul cumulo tra pensione e redditi da lavoro subordinato.
Caduta, per il momento, al Tribunale di Roma la richiesta di
riconoscere ai dodici giornalisti la caratteristica della subordinazione, il Tribunale di Milano, cui la collega si era rivolta, non
ha potuto che affermare la possibilità di cumulare pensione e
redditi ‘autonomi’, come la legge prevede”.
“Ma quest’ ultimo caso - sottolinea Cescutti - non è certo rilevante. Ciò che è significativo, e grave, è invece che i diritti dei
lavoratori vengano travolti in Tribunale senza che i Giudici
ammettano le prove che l’ Inpgi, a nome degli iscritti, chiede di
potere produrre. Sorprende non poco quindi - conclude
Cescutti - che Franco Abruzzo (il quale, tra le ragioni per la
sua riconferma alla presidenza dell’ Ordine lombardo, ha di
recente pubblicizzato la sua opera gratuita per il riconoscimento dei diritti e del lavoro subordinato dei giornalisti) questa volta
si compiaccia della sconfitta subita dall’ Inpgi e da un gruppo
di colleghi”.
(ANSA)
5
RAPPORTO
Un’analisi
dell’Istituto
di studi intermediali
di Francesca Romanelli
Nuova, infinita, indefinibile. Virtuale eppure reale.
Tanto da costituire l’ultima frontiera nello scambio di informazioni fra gli uomini e allo stesso
tempo il più recente sbocco professionale della
modernità.
È la madre di tutte le reti, Internet, quel fiume
informatico di dati, nomi, cifre, immagini capace
di affluire e attingere ai computer di tutto il
mondo creando un inesauribile giacimento di
saperi. Ma soprattutto ribattezzando la comunicazione con una nuova identità: quella digitale.
La stessa entrata di forza anche nell’ultimo
contratto nazionale dei giornalisti italiani 20012005, che ha aggiunto alle sei categorie di operatori dell’informazione già esistenti (carta stampata, radio, tv, grafica, fotocineoperatori e uffici
stampa delle pubbliche amministrazioni) anche
la nuova figura del giornalismo on line.
Una realtà che sta cambiando il presente e che il
testo “Comunicazione digitale e professioni”,
primo rapporto dell’Istituto di studi intermediali
“sull’offerta formativa italiana per l’area della
comunicazione” edito da Apogeo, ha scandagliato in modo minuzioso per restituire una carta
d’identità aggiornata del fenomeno.
Analizzando i presupposti socio-tecnologici della
nascita della rete, le normative nazionali ed europee in materia, le strade accademiche per diventare protagonisti del nuovo settore.
E allora vediamo, in dettaglio, i risultati di questa
indagine condotta in sinergia con l’università
Statale di Milano.
Comunicazione digitale:
come cambiano le professioni
L’universo
digitale
La comunicazione
digitale e l’Unione
Europea
La formazione
digitale nelle
relazioni pubbliche
Il silicio
non
ha cuore
“Negli anni Ottanta tutto era più semplice: il
telefono serviva per parlare, il televisore per
guardare, la radio per ascoltare, il computer
per lavorare. [...] Poi arrivarono due uragani:
la telefonia mobile e Internet”, esordisce
Fabrizio Vagliasindi, direttore dell’Isi.
Un’evoluzione molto simile a quella avvenuta a suo tempo per il cinema, che fra il 1907
e il 1917 passò dallo stile “primitivo” a quello
“classico”, nota Vagliasindi.
E l’analogia fra questi due mondi sta tutta nel
fatto che le tecnologie precedettero lo sviluppo di codici comunicativi comuni.
Tutti da elaborare ex post, su base pratica
più che teorica. Proprio come avviene per la
grande rete, per i telefonini che consentono
anche di guardare la tv e di inviare immagini.
Ma in questo universo avanguardistico, alcune definizioni abusate dalla gran parte degli
utenti sono già vecchie.
Meglio parlare di “intermedialità” piuttosto
che di “multimedialità”, avverte Vagliasindi,
perché l’antica pluralità dei media sta per
essere sostituita dall’interfungibilità di ogni
medium.
La legge, si sa, arriva sempre dopo che un
fenomeno ha già dispiegato i suoi effetti (o
manifestato la sua presenza) sulla collettività.
È stato così anche per la nascente Unione
Europea che nel 1992, “adottando il trattato di
Maastricht”, si prefiggeva di “liberalizzare il
settore delle telecomunicazione” dal 1998. Per
la prima normativa sul digitale, bisognerà
attendere altri quattro anni. È il 24 aprile 1996
quando la Commissione europea approva un
documento sulla necessità di regolamentare
la nuova struttura della comunicazione. Tre le
direttrici di intervento verso cui si è sviluppato
l’intervento legislativo comunitario: individuare
in una direttiva quadro “gli obiettivi politici” cui
potevano soddisfare le nuove tecnologie; “l’approvazione di quattro direttive specifiche relative a licenze, accesso e interconnessione,
servizio universale e tutela dei dati personali
e della vita privata”; “un richiamo più incisivo
alle regole di concorrenza generali del Trattato”. A tutto ciò segue, oggi, il piano d’azione
2005 per accelerare “l’istituzione dei servizi a
banda larga” e inaugurare l’epoca dell”amministrazione elettronica”, nonché il potenziamento dell’e-learning e della “salute in rete”.
Quest’ultima fase prevede che i governi Ue,
entro la fine del 2005, installino “reti di informazione sanitaria che colleghino ospedali,
laboratori e cittadini”.
Qualcuno, all’avvento di Internet, pronosticò
che il giornalismo classico sarebbe stato
spazzato via dalle nuove tecnologie. Con lui,
anche la figura del giornalista “segugio” delle
notizie, selezionatore dei contenuti e di uno
stile con cui proporre il proprio messaggio al
pubblico. Tutto questo non solo non si è avverato.
Ma, affermano gli autori di questo spicchio di
ricerca, il giornalista rimane l’unico baluardo
di seria sintesi informativa nell’inevitabile
“polverizzazione” contenutistica del web. In
rete, infatti, le informazioni assumono quattro forme: la presenza su un sito, il “formato
audiovisivo”, la newsletter, il motore di ricerca. Declinazioni virtuali cui si aggiungono
“newsgroup, forum, web log e chat” che
portano con sé una comunicazione “vivente”. Il ruolo del comunicatore, in questo
ambiente, si caratterizza per due atteggiamenti: “l’ascolto” dei segnali che pervengono
dal web; “il contributo” al web stesso. In un
oceano di dati, poi, il ritratto del giornalista
deve includere un segno particolare: la
“curiosità”.
La stessa che da due secoli (nel 1833 nasce
negli Usa il quotidiano moderno fondato sulla
cronaca) sostanzia la professione. E che
rimane requisito ineliminabile anche per il
futuro.
È frutto di un paradosso l’attuale funzionamento della rete. Che contraddice le più
assestate teorie economiche.
Dopo la “bolla speculativa” che a cavallo del
2000 fece espandere e assumere valore
all’universo Internet, la diffusione del nuovo
mezzo determinò un simultaneo crollo del
suo prezzo. Fin qui tutto normale.
Se non fosse che l’estrema proliferazione dei
punti d’accesso alla rete avrebbe dovuto
provocare una rivalutazione del contatto con
il cliente.
Nonostante “la crescente importanza concettuale che il mercato dà alla conoscenza del
singolo cliente/fruitore”, invece, “non ha fatto
riscontro alcuna rivalutazione del prezzo di
questo contatto”.
Di più. Raggiungere un individuo è una risorsa preziosa”. “Per raggiungerlo, però, nessuno vuol pagare”.
La ricetta per il comunicatore che voglia inserirsi in questo mondo contraddittorio, allora,
è una sola: la “specializzazione” del lavoro.
L’equilibrio
è
la morte
La rete che avvolge:
l’impatto sul mondo
del turismo
Videogame:
formazione per la
digital generation
Giornalista
o
enciclopedista?
Una volta, a rivoluzionare l’arte e la musica,
erano le “avanguardie”. Le uniche che si
sobbarcavano il costo dell’incomprensione
per sovvertire i linguaggi tradizionali della
loro forma preferita di espressione. Oggi,
invece, la compresenza di tutti i linguaggi su
un unico mezzo di espressione (come la
rete), rende l’avanguardia quotidiana. Una
rivoluzione giornaliera. Socialmente legittimata. E soprattutto a disposizione di tutti.
Con un’avvertenza però. Che la rivoluzionarietà del mezzo nelle mani di tutti deve spronare il vero comunicatore (o comunque
l’operatore del web) a innovare continuamente. In una parola: il fatto di trovarsi in un
fiume in piena, non deve esimere dal remare. Verso ancora nuove soluzioni.
Internet non ha cambiato solo il modo di
pensare e, per estensione, di comunicare.
Ha modificato anche il modo di agire. Lo
testimonia, nel concreto di un’esperienza
comune, il nuovo rapporto fra aziende che
operano nel turismo e utenti. Fra Internet e
turismo, segnala l’autore del saggio di
questo capitolo, è “un matrimonio ideale”. Sei
i motivi. In primis, il web soddisfa quel gran
numero di informazioni che sono necessarie
per scegliere una meta piuttosto che un’altra. Poi, l’istinto costante al risparmio sul
prezzo del viaggio fa della rete il mezzo più
completo e veloce per trovare l’offerta migliore. È inoltre, già di per sé, un primo passo
verso la delocalizzazione. E siccome il viaggio è un bene deperibile che richiede aggiornamento costante, il web consente di avere
le ultime informazioni e di evadere il last
minute. Semplifica poi la vendita del pacchetto. E infine, sostituendo i biglietti con videate
elettroniche, elimina anche i problemi logistici. Risultato: la rivoluzione del settore. Con il
20% del turismo americano che ormai viaggia on line. Il crollo dei costi, a vantaggio del
cliente. E il forte rischio delle tradizionali
agenzie di viaggio di sparire.
Sono forse stati i primi a nascere digitali. E
oggi informano di sé, dei loro colori e delle
loro tecnologie, tutto il mercato del web.
I videogiochi sono passati da prodotto di
nicchia a icona della modernità.
Ma molte differenze rispetto al passato si
abbattono anche su questo settore.
Se alle origini quello che contava era il designer dell’animazione, oggi prende rilievo la
figura del producer: l’uomo, la società o il
gruppo che stabilisce come il prodotto deve
essere e che investe nella sua commercializzazione.
Semplicemente divulgatore Web. “C’era una
volta il web editor, rapido elaboratore di testi
per la rete globale, esperto scout, abile a
scovare fonti e informazioni su qualsiasi argomento. Poi venne il content manager, progettista di siti e pagine Internet, capace di mettere
d’accordo ingegneri e redattori...”. Inizia così il
capitolo dedicato alle nuove figure incentrate
sul concetto, sempre vitale, di notizia. L’esempio del sito Sapere.it della De Agostini, conduce per mano il lettore alla comprensione di
quello che oggi serve alle aziende editoriali
che operino con iniziative digitali. Non tanto
un giornalista (se non per i notiziari web)
quanto un divulgatore dei saperi. Che concili
cultura e interesse nella nuova era.
6
I vari tipi di offerta:
classificazione e descrizione
Ma ora, definito il web con la sua natura e le sue esigenze, come si fa a diventare operatori dei nuovi media? Ci pensa questo nono capitolo dell’opera, che raccoglie e classifica l’offerta formativa italiana in materia. In tutto 98 schede su lauree, corsi, master e
specializzazioni che si trovano negli atenei e nelle accademie della penisola. Dal master
in Storia, didattica e comunicazione attivo alla facoltà di Scienze politiche della Statale di
Milano (gratuito e finanziato dal Fondo sociale europeo) al master in e-design del Politecnico ambrosiano. Passando per il master in giornalismo on line del campus di Firenze e in Informatica per umanisti della milanesissima Bicocca.
ORDINE
6
2004
R I C E R C A
Il Censis in
collaborazione con
l’Ordine e l’Ucsi
Roma, 17 maggio 2004. “Diventare giornalista”.
Sì, ma come? Negli ultimi anni il dibattito è stato
caratterizzato da una considerevole accelerazione. L’Ordine dei giornalisti ha messo a punto più
di una proposta. Ma, per ora, la riforma dell’accesso alla professione, da più parti invocata, si è
arenata in Parlamento. Ma c’è un punto fermo: la
strada universitaria, la formazione affidata alle
scuole e ai corsi di laurea riconosciuti dall’Ordine.
Su chi debba fare cosa e come, invece, il dibattito
è ancora aperto, nonostante un avvicinamento
sensibile tra mondo universitario e giornalistico.
Come obiettivo, comunque, il giornalista ideale:
libero, corretto e soprattutto qualificato. Questo è
il futuro e il presente? Il presente è davvero poco
confortante: l’accesso alla professione è vicino
al punto di rottura; la disoccupazione è preoccupante; i rapporti di lavoro sono sempre meno
stabili e la minore stabilità mette a rischio la
libertà dei giornalisti; e, poi, ci sono le questioni
più generali, ma non meno importanti.
Queste ultime, si muovono, essenzialmente tra la
necessità di una maggiore preparazione culturale
e l’urgenza di una maggiore pratica deontologica.
Ma come “Diventare giornalista”? Questo era il
tema di una ricerca condotta dal Censis, in collaborazione con l’Ordine nazionale dei giornalisti e
l’Ucsi, terzo passo di un percorso iniziato nel
2001, nell’ambito del Rapporto sulla Comunicazione.
Allora, furono fotografate le problematiche più
generali del mestiere. Nel 2002, l’istantanea del
Censis ha fermato, invece, pregi e difetti delle
Scuole di giornalismo, quelle riconosciute
dall’Ordine.
Nel 2003, l’attenzione si è spostata ancora: sotto
la lente d’ingrandimento le esperienze professionali e le aspirazioni dei candidati, impegnati in
due diverse sessioni di esami (aprile e ottobre
2003).
Praticantato: rubinetto aperto,
ma le differenze sono troppe
Un processo
al praticantato?
Dai dati del Censis
sull’avvicinamento
agli esami
No, solo il tentativo di mettere in numeri un
problema, per poi provare a risolverlo. I risultati, preziosi, vanno letti, però, considerando
che, nelle due sessioni prese in esame non
partecipavano o quasi i praticanti delle Scuole, e che hanno risposto al questionario 380
candidati su 1223. Una rappresentatività
statisticamente attendibile, ma soggetta ad
un dubbio lecito: che ci sia stata una risposta
elitaria al questionario del Censis? La sottolineatura, è stata fatta più volte, nel corso della
presentazione della ricerca, svoltasi nelle
sede dell’Ordine nazionale dei giornalisti, a
Roma.
Nel salone dell’Ordine nazionale i lavori si
sono aperti proprio con “Il chi fa che cosa”
del segretario dell’Ordine nazionale, Vittorio
Roidi: “La responsabilità è solo dei giornalisti
o di chi altro? Del mondo universitario, del
Parlamento”. Intanto, “il rubinetto dell’accesso alla professione è aperto e il flusso è grosso. È un fatto positivo che 1000-1200 persone vadano all’esame ogni anno, ma quale
praticantato hanno fatto? Che professionisti
saranno?”. Nessuna velatura restrittiva, ma
solo il tentativo di capire la direzione di
questo flusso, la sua capacità di dare nuova
linfa al giornalismo, contribuendo a quel salto
di qualità, ormai vitale.
Illustrato dal dottor Raffaele Pastore “sembrano emergere alcuni elementi di criticità
circa la tenuta dell’attuale processo di reclutamento professionale, irto di complicazioni,
difficoltà, esiti spesso imprevedibili che, nel
complesso, finiscono per depotenziare, in
parte, l’efficacia formativa di tale processo di
transizione verso l’attività professionale”.
Sulla base dei dati raccolti, lo studio
suddivide il campione in quattro gruppi
(per quanto riguarda il percorso di avvicinamento agli esami):
praticantato standard (39,1%), svolto in
una testata a stampa (quotidiano), contratto
Fnsi, iscrizione al relativo registro con la
dichiarazione del direttore;
praticantato difficile (17,11%), testata a
stampa, senza alcun contratto o come collaboratori, riconoscimento d’ufficio, sei su dieci
hanno più di 34 anni;
praticantato sul web (22,37), testata web,
contratti diversi da quello Fnsi, riconoscimento d’ufficio (50%), giovani;
praticantato radiotelevisivo (41,3%), televisione locale/regionale, cinque su dieci sono
donne, giovani.
Sostanzialmente, i praticanti di ciascun gruppo non hanno avuto esperienze in altri mezzi
di comunicazione.Poi, ancora altri numeri. Il
Tipo di praticantato
36,1%
21,8%
13,4%
Quotidiani
Tv locale
10,8%
9,2%
8,7%
Periodico
Settimanale
Web
Altro
Qualifica dei praticanti
Laureati
Diplomati
Media inferiore
Professionale
52.6%
41.2%
1.9%
0.8%
38% ha più di 35 anni e svolge da oltre otto
anni l’attività giornalistica, che rappresenta
nel 93,7% dei casi la fonte di reddito prevalente. Il 64,7% sono uomini, il 35,3% donne.
Poco più della metà, il 52,6%, sono laureati
e di questi il 7,2% può contare su una
specializzazione, un master o un dottorato.
L’altra metà ha conseguito, invece, nel 41,2%
dei casi, un diploma di scuola superiore, solo
l’1,9% possiede un diploma di scuola media
inferiore e lo 0,8% una qualifica professiona-
le. A metà fra i due gruppi c’è un 3,5% che
ha conseguito una laurea breve.
Relativamente al tipo di praticantato, il 36,1%
lo ha svolto in un quotidiano, il 13,4% in una
tv locale, il 10,8% in un periodico e il 9,2% in
un settimanale: il 70% dei futuri giornalisti,
quindi, ha fatto un’esperienza di tipo tradizionale. L’8,7% si è formato, invece, in una
testata web, ma solo il 2,7% aspira a lavorarci: in cima ai desideri, resta l’impiego in un
quotidiano nazionale (44,6%).
Gli interventi alla presentazione della ricerca nel salone dell’Ordine nazionale
Raffaele Pastore, che è responsabile del
settore comunicazione del Censis, ha sottolineato quattro diversi punti di criticità: la scarsa
apertura al web, la vischiosità del sistema e
l’imponderabilità dell’efficacia del praticantato.
Il quarto punto riguarda la deontologia o
meglio la scarsa conoscenza delle norme che
la regolano. Il 19,9% dei candidati ritiene
carente la formazione in questo campo e i
risultati della ricerca vanno in questo senso:
infatti, oscilla tra il 23,6 e il 34,7% la percentuale di quanti non hanno letto (“ne hanno
sentito parlare”) i 4 testi base relativi alla
deontologia (La Carta sui minori di Treviso, La
Carta dei Doveri, Il codice sulla Privacy e la
legge 69/1963, sull’ordinamento della professione giornalistica).
“Il nuovo giornalismo è sempre più fuori dalle
regole, esposto a qualunque ricatto e pressione e per questo è necessario aprire una grande vertenza sindacale, ordinistica e legislativa”, così l’allarme lanciato dal segretario della
Fnsi, Paolo Serventi Longhi. Un richiamo al
lavoro comune, all’individuazione di percorsi
formativi condivisi: “Il praticantato standard sta
scomparendo, lo dimostrano i bilanci dell’Inpgi 2003, in base ai quali i praticanti sono diminuiti del 50%. Dobbiamo fare, tutti, i conti con
un nuovo giornalismo e le scuole rappresentano l’unica strada percorribile, ma bisogna
rendere omogeneo il sistema di accesso al
praticantato”.
Un richiamo al lavoro comune, a regole certe:
ORDINE
6
2004
“È curioso, ma non siamo riusciti a portare a
un tavolo di lavoro gli editori”, il commento di
Vittorio Roidi.
A ruota l’intervento di Mario Morcellini, presidente del Coordinamento nazionale dei corsi
di Scienze della comunicazione: “La prima
criticità riguarda il cambiamento della domanda di formazione, in seguito alla modifica dei
centri di interesse: è un problema serio; la
seconda, soprattutto italiana, è relativa all’aumento delle testate, della produzione di comunicazione che, però, non si traduce in un
aumento del numero degli addetti, dei giornalisti occupati; la terza è legata all’analisi dei
paradigmi di formazione e, in questo contesto, le scuole devono essere un punto di riferimento”. Le scuole, le università come faro
formativo per i “nuovi” giornalisti, ma, anche,
per i “vecchi”: “L’università deve ridurre i fossati professionali, non allargarli, coinvolgendo
tutti”, secondo Morcellini.
Sulla necessità di unità di intenti, ma non solo
(e il riferimento è sia alla concessione del
praticantato d’ufficio, sia alla questione formazione), ha insistito il presidente dell’Ordine dei
giornalisti del Lazio, Bruno Tucci: “Nel prossimo triennio bisognerà lavorare per migliorare una realtà difficile: c’è bisogno di un indirizzo comune, altrimenti ci saranno praticanti di
serie A, B e C e quelli di C saranno in zona
retrocessione”.
Per Silvano Rizza, fondatore ed ex direttore
dell’Ifg di Urbino, le scuole, in una situazione
del genere, rappresentano una sorta di oasi:
“Sui 178 ex allievi di Urbino, 173 lavorano”.
Rizza ha, anche, espresso i suoi dubbi sul
campione preso in considerazione dal Censis:
“Lavoro prezioso, ma nelle due sessioni di
aprile e ottobre, la presenza degli allievi delle
scuole è inferiore all’1%”. Come dire, i risultati
potevano essere diversi.
Invece, Gigi Speroni, direttore dei corsi
dell’Ifg di Milano, sulla base della sua esperienza personale e professionale, ha evidenziato la “vera passione” che anima i tanti
aspiranti giornalisti (delle scuole, ndr): “Il
contratto è una conquista difficile, ma la
preparazione a tutto campo può essere
un’arma vincente”. E per quelli un po’ più in
là con gli anni: “Gli over 40 rischiano di
trovarsi fuori mercato”. E gli editori? “In retroguardia”, risponde Speroni.
Giuseppe Morello, consigliere dell’Ordine
nazionale, ripercorrendo la storia dell’ente, si
è soffermato sugli aspetti più dibattuti: “I
precari, il riconoscimento d’ufficio del praticantato, sono problemi vecchi, datati Anni 70”. E
allora? E allora, solo le scuole possono offrire
quella formazione qualitativa di cui tanto si
parla, perché, spesso, i praticanti d’ufficio “non
hanno le attrezzature tecnico-culturali per
affrontare il mestiere”, ha affermato Morello,
concludendo: “È ora di voltare pagina”.
“Lavorare in nero in una redazione, non
assicura più il posto di lavoro, come una
volta”, Roberto Seghetti, componente di
Giunta della Fnsi, parte dal passato, dalla
redazione-chioccia per analizzare il presente: “La scuola è il percorso migliore, ma
vanno ripensati l’accesso al praticantato e
gli stessi contratti e, poi, c’è da risolvere il
problema dei freelance”.
Ha concluso i lavori il presidente dell’Ordine,
Lorenzo Del Boca: “La ricerca del Censis
conferma la drammaticità della situazione”.
Insomma, non c’è meraviglia, anzi: “Io sono
per il praticantato tradizionale (nelle redazioni, ndr), ma oggi non ci sono più maestri, i
giornalisti che ti insegnano il mestiere e
perciò bisogna trasferire quel modello nelle
scuole, le uniche in grado di garantire il mix
di esperienza tradizionale e imprinting culturale”. Il presidente dell’Ordine, ha poi affrontato la questione flessibilità: “Noi non possiamo assecondare il mercato sulla flessibilità:
la stabilità del lavoro è una garanzia di
libertà, il posto fisso può mettere a riparo da
pressioni e ricatti. Il nostro lavoro riguarda
l’intera comunità sociale e gli editori devono
capirlo”.
Del Boca si è soffermato, infine, sul rapporto
tra giornalismo e università: “Bene facciamo a
mantenere il diritto di ispezione su docenti e
insegnamenti nelle scuole”. E sì, perché
docenti e contenuti sono il punto d’incontroscontro sul percorso di avvicinamento tra le
due anime (giornalistica e universitaria) della
“nuova professione”.
(g.c.)-da www.odg.it
7
L’ esecutivo dell’Ordine nazionale dei giornalisti ha deciso
di trasmettere ai Comitati di redazione
ed alle associazioni professionali interessate la bozza
di modifiche delle regole deontologiche della categoria volte
a promuovere la qualità della stampa economica
Occorre tener conto delle prescrizioni
previste dalla direttiva europea sui reati
finanziari (market abuse). Quest’ ultima,
che sarà recepita entro il prossimo
ottobre nell’ambito delle nuove misure
sulla protezione del risparmio, ha
incluso per la prima volta i giornalisti tra
i soggetti vigilati - al pari degli analisti
finanziari - quando i loro articoli
contengano raccomandazioni
d’investimento
Roma, 19 maggio 2004. Parte la consultazione sulle regole di autoregolamentazione
dei giornalisti finanziari. L’ esecutivo dell’Ordine nazionale dei giornalisti ha deciso di
trasmettere ai comitati di redazione ed alle
associazioni professionali interessate la
bozza di modifiche delle regole deontologiche della categoria volte ad promuovere la
qualità della stampa economica. La materia
è stata affrontata da alcuni colleghi (Riccardo Sabbatini, Claudio Alò, Roberto Seghetti). È stata anche sottoposta ad un primo
esame della Commissione cultura del Consiglio nazionale.
Occorre tener conto delle prescrizioni previ-
ste dalla direttiva europea sui reati finanziari
(market abuse). Quest’ ultima, che sarà recepita entro il prossimo ottobre nell’ambito
delle nuove misure sulla protezione del
risparmio, ha incluso per la prima volta i giornalisti tra i soggetti vigilati - al pari degli analisti finanziari - quando i loro articoli contengano raccomandazioni d’investimento.
Norme specifiche sono previste per l’identificazione dell’autore dell’articolo, la sua
corretta presentazione e la trasparenza su
eventuali conflitti di interesse. La direttiva
europea prevede una deroga a favore dei
giornalisti purché, si precisa, siano in vigore
adeguati codici di autoregolamentazione. È
1
Osservazioni
sulla Carta dei doveri
La Carta dei doveri in vigore dal 1993 già prevede per il giornalista tre precisi obblighi deontologici: 1) non subordinare in
alcun caso al profitto personale o di terzi le informazioni
economiche o finanziarie di cui sia venuto comunque a conoscenza; 2) non turbare l’andamento del mercato diffondendo
fatti e circostanze riferibili al proprio tornaconto; 3) non scrivere articoli relativi ad azioni sul cui andamento borsistico
abbia direttamente o indirettamente un interesse finanziario,
né vendere o acquistare azioni delle quali già si stia o si sta
per occuparsi.
Il primo principio andrebbe meglio circostanziato perché,
nell’attuale formulazione, potrebbe precludere al giornalista
ogni attività d’investimento consapevole. Si potrebbe precisare che il giornalista non deve “subordinare in alcun caso al
profitto personale o di terzi le informazioni economiche o
finanziarie di cui sia venuto a conoscenza nell’ambito delle
propria attività professionale”.
Il secondo principio è sostanzialmente assorbito dalla nuova
formulazione del reato di aggiotaggio (contenuto nella direttiva sul market abuse) laddove (art.1 della legge comunitaria)
si precisa che esempio di aggiotaggio è “l’avvantaggiarsi di
un accesso occasionale o regolare ai mezzi di informazione
tradizionali o elettronici diffondendo una valutazione su uno
strumento finanziario (o indirettamente sul suo emittente)
dopo aver precedentemente preso posizione su quello strumento finanziario, beneficiando di conseguenza dell’impatto
della valutazione diffusa sul prezzo di detto strumento, senza
aver allo stesso tempo comunicato al pubblico, in modo
corretto ed efficace, l’esistenza di tale conflitto di interessi”.
Il terzo principio fa unicamente riferimento alle azioni. Ne
andrebbe estesa la portata all’insieme degli strumenti finanziari. L’espressione “sta per occuparsi a breve termine” è
generica. Forse potrebbe essere sostituita con “...delle quali
si sta occupando professionalmente o delle quali gli è stato
chiesto di occuparsi”.
2
Analisi comparativa degli obblighi
previsti dalla nuova direttiva
sulla presentazione delle ricerche
e delle norme deontologiche
già presenti nell’ordinamento
della professione giornalistica
La recente direttiva comunitaria applicativa di quella sul market
abuse, cioè sui reati di turbativa del mercato finanziario
(2003/125/CE del 22 dicembre 2003) disciplina la corretta
presentazione e la trasparenza su eventuali conflitti di interesse
delle “raccomandazioni” all’acquisto riguardanti strumenti finanziari, intendendosi per tali “ricerche o altre informazioni, destinate ai canali di distribuzione o al pubblico, intese a raccomandare o a proporre, in maniera esplicita o implicita, una strategia
8
Etica dell’informazione
economico-finanziaria:
sondaggio fra i colleghi
la strada che l’Ordine dei giornalisti ha deciso di percorrere.
La bozza allegata - quella che viene sottoposta alla consultazione - per tenere conto
delle nuove esigenze aggiorna la “Carta dei
doveri del giornalista” (1993) introducendo
una specifica sezione dedicata alla stampa
economica-finanziaria. Tali principi verrebbero poi attuati dalle singole testate in propri
codici di autoregolamentazione.
Le regole deontologiche dei giornalisti sono
già sostanzialmente adeguate alle norme
europee per quanto riguarda l’identificazione
dell’autore dell’articolo ed i possibili conflitti
d’interesse dei singoli giornalisti (quando ad
d’investimento in merito ad uno o pù strumenti finanziari o emittenti strumenti finanziari”. Come si vede la definizione è assai
vasta ed include, oltre agli studi degli analisti, anche gli articoli
dei giornali che presentano simili caratteristiche.
Obblighi in arrivo con la nuova legge
A) Identità dei soggetti che elaborano le raccomandazioni
d’investimento. Gli Stati della Ue, nel recepire la direttiva, assicurano che sia in vigore una regolamentazione appropriata
per riportare “in modo chiaro e visibile l’identità del soggetto
responsabile della sua elaborazione, in particolare il nome e
la funzione del soggetto che ha preparato la raccomandazione” di acquistare o vendere questo o quel prodotto finanziario. La norma non si applica ai giornalisti “soggetti a regolamentazione appropriata equivalente, ivi comprese appropriate norme di autoregolamentazione”. Qualora vengono riferite
raccomandazioni prodotte da altri soggetti si invita la stampa
a dar conto della motivazione di simili giudizi.
Conformità delle attuali norme deontologiche in Italia: la
Carta dei doveri dei giornalisti non disciplina questa
materia
Proposta. Occorre prevedere, nel caso di articoli di giornale
che contengano “raccomandazioni d’investimento” l’obbligo
di indicare il nome del giornalista o del collaboratore che l’abbiano redatta.
B) Corretta presentazione delle raccomandazioni. Gli Stati
della Ue assicurano che sia in vigore una regolamentazione
appropriata perché nelle raccomandazioni: 1) “i fatti vengano
tenuti chiaramente distinti dalle interpretazioni”; 2) le “fonti
siano attendibili, ovvero che quando vi siano dubbi sulla loro
attendibilità, ciò venga chiaramente indicato”; 3) “tutte le
proiezioni, le previsioni e gli obiettivi di prezzo siano chiaramente indicati come tali e che siano indicate le principali
ipotesi elaborate nel formularli e nell’utilizzarli”. La norma non
si applica ai giornalisti “soggetti a regolamentazione appropriata equivalente, come i regolamenti della Ue o le norme di
autoregolamentazione dei giornalisti.
Conformità delle attuali norme deontologiche in Italia: i
punti a e b sono sostanzialmente già recepiti nelle
norme deontologiche della professione giornalistica
(paragrafo “sulle fonti” della Carta dei doveri del giornalista). Il punto c), invece, no
Proposta. Occorre prevedere che “in caso di raccomandazioni o proposte di strategia di investimento siano chiaramente esplicitate le motivazioni (macroeconomiche, di
mercato, etc) che giustificano quelle indicazioni”.
C) Gestione dei conflitti d’interesse. Gli Stati della Ue assicurano che sia in vigore una regolamentazione appropriata
perché “i soggetti pertinenti comunichino al pubblico tutti i
rapporti e tutte le circostanze che possano essere ragionevolmente ritenuti tali compromettere l’obiettività della raccomandazione, in particolare nel caso in cui i soggetti pertinenti abbiano un rilevante interesse finanziario oggetto della
raccomandazione o un rilevante conflitto d’interesse in
rapporto all’emittente cui la raccomandazione si riferisce”.
Per “soggetto pertinente” la direttiva intende “la persona fisica o giuridica che elabora o diffonde raccomandazioni”. Nel
caso dei giornali, pertanto, anche l’editore può essere considerato tale. Qualora il soggetto pertinente sia una persona
giuridica, i conflitti di interesse da prendere in considerazione sono quelli “accessibili o che si possano ragionevolmente
considerare accessibili dai soggetti che partecipano alla
preparazione della raccomandazione”. La norma, come già
detto, non si applica ai giornalisti “soggetti a regolamentazione appropriata equivalente, ivi comprese appropriate norme
di autoregolamentazione”.
esempio un redattore ha un interesse specifico, e personale, sull’oggetto del proprio articolo). Manca, invece, qualsiasi norma per
gestire, quantomeno per rendere trasparenti
ai lettori, i potenziali conflitti d’interesse connaturati alla proprietà del giornale. È, quest’ultimo, un fatto particolarmente rilevante in Italia
dove tutti i grandi giornali fanno capo a gruppi
economici. L’Ordine, finora, è stato frenato dal
fatto che le proprie regole valgono per i giornalisti ma non per i giornali. La strada dei codici di autoregolamentazione - da attuare a livello di testata per tener conto delle differenti
esigenze e caratteristiche di ogni giornale risolve in positivo questa difficoltà.
Conformità delle attuali norme deontologiche in Italia
Per quanto riguarda eventuali conflitti di interesse del singolo giornalista le norme deontologiche già in vigore (con i
limiti sopra ricordati), appaiono sostanzialmente adeguate.
Mancano invece indicazioni specifiche laddove i conflitti
d’interesse sono generati da un “soggetto pertinente” che è
una persona giuridica. Cioè quando sono insiti nell’editore
del giornale o nei soggetti terzi (collaboratori) che vi scrivono. Mancano ad esempio norme che impongano di rendere
trasparente la proprietà del giornale, quando è chiamata in
causa da un “articolo-raccomandazione finanziaria” o l’identità dei maggiori inserzionisti pubblicitari. Un ostacolo a
simili standard di trasparenza potrebbe derivare dal fatto
che le norme deontologiche disciplinate dall’Ordine hanno
efficacia per i giornalisti ma, ovviamente, non per gli editori.
Il rinvio a norme di autoregolamentazione a livello delle
singole testate potrebbe risolvere in positivo tale difetto di
giurisdizione.
Proposta. Fatte salve, con gli adeguamenti opportuni, le
norme già contenute nella Carta dei Doveri l’ordine
dovrebbe invitare le redazioni a disciplinare la materia dei
conflitti di interesse nella stampa finanziaria (con un intervento più ampio rispetto a quello che ci viene ora proposto, circoscritto al solo ambito degli articoli- raccomandazioni finanziarie) in codici di autoregolamentazione. In
particolare andrebbero stabiliti alcuni principi, da inserire
nella Carta dei doveri come specifico paragrafo dedicato
alla stampa finanziaria. Simili principi andrebbero interpretati dalle singole redazioni in codici di autoregolamentazione. L’Ordine nazionale annualmente dovrebbe procedere
ad un censimento e ad un’analisi dei codici dei giornali
così da valutare il grado di adesione ai principi e suggerire
le i migliori standard.
Conclusioni. I principi da introdurre nella Carta dei doveri
del giornalista dovrebbero essere i seguenti:
1) - “Va assicurato un adeguato standard di trasparenza sulla
proprietà editoriale del giornale, i suoi inserzionisti pubblicitari nonché sugli eventuali interessi di cui siano portatori i suoi
collaboratori. In particolare va ricordato al lettore chi è l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi finanziari
che direttamente o indirettamente lo riguardino. Occorre poi
informare il lettore sull’identità dei commentatori non giornalisti ed agli interessi di cui sono portatori in relazione allo
specifico argomento dell’articolo. Inoltre si auspica che
annualmente sia pubblicata la lista dei maggiori inserzionisti
pubblicitari del giornale”.
2) - “Nel caso di articoli-raccomandazioni d’investimento
elaborati dallo stesso giornale occorre indicare espressamente l’identità del giornalista (o del collaboratore) autore della
raccomandazione e, nel rispetto delle norme deontologiche
già in vigore sulla affidabilità e sulla pubblicità delle fonti, far sì
che ‘tutte le proiezioni, le previsioni e gli obiettivi di prezzo
siano chiaramente indicati come tali e che siano indicate le
principali ipotesi elaborate nel formularli e nell’utilizzarli’”.
3) - “La presentazione degli studi degli analisti deve avvenire
assicurando una piena informazione sull’identità di chi li ha
elaborati. La comunicazione deve rispettare ‘nella sostanza’ il
contenuto delle ricerche. In caso di una significativa difformità
occorre farne oggetto di specifica segnalazione ai lettori”.
Le osservazioni possono essere inviate alla casella di posta
elettronica [email protected] oppure al Consiglio nazionale dell’Ordine, Lungotevere Cenci, 8 (00186 Roma) Informazioni: Ordine nazionale / Rita Schiappa tel 06/6862337
(da www.odg.it)
ORDINE
6
2004
Fissati i principi
fondamentali
Stato/Regioni dopo
la sentenza
n. 353/2003 della
Corte costituzionale
Le Regioni devono rispettare
le competenze legislative esclusive
statali che vengono individuate
nelle seguenti riserve: regole sugli
esami di Stato, titoli e requisiti
compreso la formazione
professionale universitaria e il
tirocinio per l’accesso alle
professioni; la disciplina per
l’individuazione delle figure
professionali intellettuali; le norme
sul riconoscimento e l’equipollenza
dei titoli per l’accesso alle
professioni conseguiti negli Stati
membri dell’UE o negli altri Stati;
la disciplina della concorrenza
compreso quella relativa
alle deroghe derivanti dal diritto
comunitario per tutelare interessi
pubblici costituzionalmente
garantiti; la disciplina delle attività
professionali attinenti l’ordine
pubblico e la sicurezza
e l’amministrazione della giustizia;
le norme sui dati personali
trattati nell’esercizio
dell’attività professionale
Professioni, la riforma
guadagna il primo sì: ecco
i principi fondamentali
Roma, 12 maggio 2004. Primo sì al decreto legislativo che disciplina l’attività legislativa concorrente e fissa i principi fondamentali per
le Regioni in materia di professioni alla luce anche della sentenza
n. 353/2003 della Corte costituzionale. Il Consiglio dei ministri di
venerdì 8 maggio 2004 ha approvato un decreto legislativo in attuazione della legge “La Loggia” n. 131/2003 volto a definire i confini
delle competenze sulle professioni.
Viene così fatta una ricognizione dei principi fondamentali alla luce
della legislazione vigente e della giurisprudenza: libertà professionale, divieto di discriminazione, tutela della concorrenza, rispetto
degli standard di preparazione professionale, rispetto dei requisiti di
accesso alle professioni, equiparazione dell’attività professionale
all’attività d’impresa ai fini dell’applicazione delle norme sulla
concorrenza, rispetto dell’affidamento della clientela, degli interessi
pubblici e dell’ampliamento dell’offerta dei servizi. Inoltre le Regioni
devono rispettare le competenze legislative esclusive statali che
vengono individuate nelle seguenti riserve: regole sugli esami di
Stato, titoli e requisiti compreso la formazione professionale universitaria e il tirocinio per l’accesso alle professioni; la disciplina per
l’individuazione delle figure professionali intellettuali; le norme sul
riconoscimento e l’equipollenza dei titoli per l’accesso alle professioni conseguiti negli Stati membri dell’UE o negli altri Stati; la disciplina della concorrenza compreso quella relativa alle deroghe derivanti dal diritto comunitario per tutelare interessi pubblici costituzionalmente garantiti; la disciplina delle attività professionali attinenti
l’ordine pubblico e la sicurezza e l’amministrazione della giustizia; le
norme sui dati personali trattati nell’esercizio dell’attività professionale. Il provvedimento è assoggettato ad una particolare procedura
che prevede una doppia sottoposizione al parere della Conferenza
Stato-Regioni e delle Commissioni parlamentari.
SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO RECANTE ATTUAZIONE DELL’ARTICOLO 1
DELLA LEGGE 5 GIUGNO 2003, N.131 IN MATERIA DI PROFESSIONI
Il Presidente della Repubblica,
visti gli articoli 76, 87, 117 della Costituzione;
vista la legge 5 gennaio 2003, n. 131, recante disposizioni per l’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3;
vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione dell’8
maggio 2004;
acquisito il parere preliminare della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
acquisito il parere preliminare delle competenti Commissioni parlamentari, ed, in particolare,
anche quello della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
acquisito il parere definitivo della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano;
acquisito il parere definitivo della Commissione parlamentare per le questioni regionali;
vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione dell’8 maggio 2004;
sulla proposta del presidente del Consiglio dei ministri e del ministro per gli Affari regionali di
concerto con i ministri della Giustizia, delle Politiche comunitarie, dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, delle Attività produttive, della Salute, per i Beni e le attività culturali,
Art. 5. Accesso alle professioni
Le attività che richiedono una specifica preparazione a garanzia di finalità la cui tutela compete allo Stato devono rispettare i requisiti tecnico-professionali ed i titoli professionali definiti
dalla legge statale.
Art. 6. Regolazione delle attività professionali
La regolazione delle attività professionali s’ispira ai principi della tutela della buona fede,
dell’affidamento del pubblico e della clientela, degli interessi pubblici e dell’ampliamento e
della specializzazione dell’offerta dei servizi, nel rispetto dei principi deontologici.
Capo III
Individuazione delle disposizioni di competenza
legislativa esclusiva statale
emana il seguente decreto legislativo:
Capo I
Disposizioni generali
Art. 1 Ambito d’applicazione
Il presente decreto legislativo individua i principi fondamentali che si desumono dalle leggi
vigenti in materia di professioni regolamentate, di cui all’articolo 117, terzo comma, della
Costituzione, secondo i principi ed i criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 4 e 6 della legge 5
giugno 2003, n. 131.
Nell’esercizio della competenza legislativa in materia di professioni, le Regioni sono tenute al
rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, nonché dei principi fondamentali di cui al capo secondo.
Il presente decreto legislativo riguarda le professioni già individuate dalle leggi statali vigenti.
Capo II
Principi fondamentali
Art. 2. Libertà professionale
L’esercizio della professione è tutelato in tutte le sue forme e applicazioni, purché non contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. Le Regioni non possono adottare provvedimenti che ostacolino l’esercizio della professione.
È vietata qualsiasi discriminazione di professioni o di esercenti le stesse, che sia motivata da
ragioni sessuali, razziali, religiose, politiche o da ogni altra condizione personale o sociale.
Non costituiscono comunque discriminazione quelle differenze di trattamento che siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.
Art. 3. Tutela della concorrenza e del mercato
L’attività professionale è equiparata all’attività d’impresa ai fini della concorrenza di cui agli
articoli 81, 82 e 86 (ex artt. 85, 86 e 90) del Trattato CE, salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali.
Art. 4. Formazione professionale
Il rilascio di titoli relativi all’esercizio di attività professionali anche fuori dei limiti territoriali
regionali deve avvenire nel rispetto dei livelli standard di preparazione professionale stabiliti
dalle leggi statali.
ORDINE
6
2004
Art. 7. Discipline di competenza legislativa esclusiva statale
Ai sensi dell’art.1, comma 5, della legge 5 giugno 2003, n.131, restano di competenza legislativa esclusiva dello Stato:
a. la disciplina dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni intellettuali
ai sensi dell’articolo 33 della Costituzione, nonché dei titoli e dei requisiti, compresi la
formazione professionale universitaria ed il tirocinio, richiesti per accedervi;
b. la disciplina concernente l’individuazione delle figure professionali intellettuali e relativi
ordinamenti didattici;
c. la disciplina del riconoscimento e dell’equipollenza dei titoli necessari ai fini dell’accesso
alle professioni conseguiti negli Stati membri dell’Unione europea o negli altri Stati;
d. la disciplina della tutela della concorrenza ivi compresa quella delle deroghe consentite dal
diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti e comunque per
ragioni imperative di interesse generale; della riserva di attività professionale non intellettuale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, della pubblicità professionale, nonché del
concorso per notai;
e. la disciplina dell’ordinamento e dell’organizzazione amministrativa degli ordini e dei collegi
nazionali;
f. la disciplina delle attività professionali attinenti l’ordine pubblico e la sicurezza e l’amministrazione della giustizia, ad esclusione della polizia locale;
g. la disciplina di protezione dei dati personali trattati nell’esercizio dell’attività professionale;
h. la disciplina dei rapporti regolati dal codice civile e dalle altre leggi speciali integranti l’ordinamento civile della Repubblica; sono riservate allo Stato, in particolare, la disciplina del
contratto, dell’impresa e del rapporto di lavoro, delle società e delle associazioni professionali, della responsabilità dei professionisti;
i. la disciplina sanzionatoria concernente l’esercizio delle professioni intellettuali; la determinazione dei livelli essenziali, minimi ed uniformi, delle prestazioni in materia di istruzione e
formazione professionale;
j. la disciplina dell’iscrizione obbligatoria ad albi, collegi, registri, ruoli o elenchi con validità su
tutto il territorio dello Stato a tutela dell’affidamento del pubblico e degli utenti;
l. la disciplina sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali;
m. la disciplina dell’organizzazione amministrativa e delle competenze degli ordini e collegi
delle professioni intellettuali che sono regolati, ai sensi dell’articolo 2229 del Codice civile,
dalla normativa vigente.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli
atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo
osservare.
9
M O B B I N G
L’Inail - con la circolare n. 71/2003 ha dato il via libera al risarcimento dei danni
da mobbing sul lavoro dopo l’esame di oltre
200 casi (denunciati quasi sempre a seguito
di trattamenti terapeutici).
Questi accertamenti hanno consentito
“di monitorare il fenomeno e di conoscere
l’approccio diagnostico” dei vari centri
specialistici che fanno capo a cattedre
universitarie, ospedali, ambulatori e centri di
salute mentale del Servizio sanitario
nazionale. L’Inpgi, che contrattualmente copre
gli “infortuni” dei giornalisti, per ora non ha
adottato una normativa ad hoc.
Eppure per la Casagit “il mal di redazione”
esiste da tempo: il primo indicatore
è l’aumento costante, negli ultimi anni,
del ricorso alle psicoterapie.
Soltanto lo sportello di Roma (aperto presso
l’Asr) ha accertato 26 casi gravi di mobbing.
Gli interventi di Laura Delli Colli, di Simonetta
Ramogida e di Michele Piccione al Convegno
di Roma (sul tema “Se il giornale dà il mal di
capo’) del 23 marzo 2004 organizzato
dall’Associazione stampa romana e dall’Ucsi
offrono elementi ineludibili.
Gli atti di questo Convegno, che verranno
pubblicati nel numero di maggio di “Tabloid” e
che sono già presenti nel sito www.odg.mi.it,
dicono ampiamente che la stagione
dell’Osservatorio antisopruso (art. 48 Cnlg) è
ampiamente superata e che bisogna pensare
a una tutela efficace e penetrante dei giornalisti
vittime di mobbing.
L’Inpgi, che dice di essere autonomo,
ha l’obbligo morale e giuridico di far propria la
circolare Inail n. 71/2003, mentre Fnsi
e Fieg, come parti sociali, dovrebbero
far tesoro in fretta della lezione che viene
dalla normativa pubblica e passare subito alla
fase delle “determinazioni normative”
ipotizzate dal Contratto senza aspettare il
momento ancora lontano delle trattative
contrattuali.
Le casistiche del mobbing dovrebbero essere
previste dall’articolo 25 del Cnlg,
che oggi parla genericamente di “infortunio o
malattia”.
Il “mal di redazione”, riscontrato da
attende il risarcimento dall’Inpgi (in
intervento di Franco Abruzzo
Consiglio ai giornalisti professionisti, praticanti giornalisti e
pubblicisti assunti a tempo pieno di dare un’occhiata al foglio
paga: solo così si potranno rendere conto che non sono assicurati con l’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro). La funzione assicurativa citata, prevista dal Cnlg (articoli 38, 39, 40 e 41), è svolta dall’Inpgi. Per
quanto riguarda il mobbing, l’articolo 48 del Cnlg prevede l’istituzione di un “Osservatorio anti-sopruso”: “È costituita una
Commissione mista di 2 rappresentanti per ciascuna Federazione incaricata di raccogliere e coordinare entro 90 giorni
dalla data di stesura del presente contratto la documentazione (progetti di legge, esperienze contrattuali di altri settori)
utile a fornire alle parti un quadro di riferimento sullo stato e
l’evoluzione del fenomeno e ciò in vista di possibili determinazioni normative”. Diciamo subito che il mal di redazione esiste,
che è un’amara e sconvolgente realtà. L’Ordine di Milano, con
un saggio di Paola Pastacaldi (Mobbing in redazione. Un’arma contro la professionalità), ha denunciato pubblicamente
(Tabloid n. 3/2004 e sito www.odg.mi.it) il mal di redazione. Il
vicepresidente della Casagit Laura Delli Colli ha ammesso:
“Per la Casagit, che ha comunque sotto gli occhi un osservatorio empirico ma indicativo dello stato di salute dei giornalisti,
il primo indicatore che conferma il fenomeno, neanche a dirlo,
è l’aumento costante, negli ultimi anni, del ricorso alle psicoterapie. È un aumento generalizzato, su questo un chiarimento
a priori va fatto, che riguarda alcune fasce d’età, purtroppo
anche la parte più giovane anagraficamente degli assistiti, ma
il nocciolo duro degli interventi ‘coperti’ dal rimborso integrativo
Casagit denuncia un male di vivere che tocca soprattutto chi
La
vive, e non da ieri, la vita professionale in redazione. Il lavoro
logora chi non ce l’ha, ma, soprattutto chi ce l’ha. E i segnali,
che questo sia o no mobbing nel senso più correttamente
declinabile del termine, confermano che il malessere esiste
nella professione vissuta sul campo, perché la professione ha
ormai un campo che ha sempre più ristretto la sua visuale
diventando spesso un luogo virtuale”.
Gli interventi di Laura Delli Colli, di Simonetta Ramogida e di
Michele Piccione al Convegno di Roma (sul tema “Se il giornale dà il mal di capo’) del 23 marzo 2004 organizzato
dall’Associazione stampa romana e dall’Ucsi offrono elementi ineludibili. Simonetta Remogida, che si occupa dello sportello aperto a Roma presso l’Asr, ha parlato “di 26 casi gravi
di mobbing, ma il fenomeno è molto più diffuso, e presente
in tutte le realtà, nel senso che interessa i grandi quotidiani,
come le radio, le Tv, sia pubblche che private, i grandi
network, le agenzie di stampa, gli uffici stampa. È capitato
che i Cdr ci chiedessero aiuto anche per le testate straniere
che operano a Roma”.
Gli atti di questo Convegno, pubblicati nel numero di maggio
di “Tabloid” e già presenti nel sito www.odg.mi.it, dicono
ampiamente che la stagione dell’Osservatorio antisopruso
(art. 48 Cnlg) è ampiamente superata e che bisogna pensare
a una tutela efficace e penetrante dei giornalisti vittime di
mobbing. Per la Casagit “il mal di redazione” esiste da tempo:
il primo indicatore è, come riferito, l’aumento costante, negli
ultimi anni, del ricorso alle psicoterapie. Ha detto Laura Delle
Colli: “E cosa legge Casagit nel quadro dei suoi dati quotidia-
L’Inail – con la circolare n. 71/2003 – ha dato il via libera al
risarcimento dei danni da mobbing sul lavoro dopo l’esame
di oltre 200 casi (denunciati quasi sempre a seguito di trattamenti terapeutici). Questi accertamenti hanno consentito
il Disturbi psichici da costrittività
a
In
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organizzativa sul lavoro.
r
a
l
Rischio tutelato e diagnosi di malattia
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professionale.
Modalità di trattazione delle pratiche
(http://www.gildains.it/nomobbing/doc036.htm)
DIREZIONE GENERALE - DIREZIONE CENTRALE
PRESTAZIONI SOVRINTENDENZA MEDICA GENERALE Circolare n. 71 del 17 dicembre 2003
Oggetto: Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul
lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale.
Modalità di trattazione delle pratiche.
Quadro Normativo
· D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965: “Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali”, art. 3.
· Sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 18 febbraio
1988: introduzione del “sistema misto” di tutela delle malattie professionali.
· Circolare n. 35/1992: “Sentenze nn. 179 e 206 del 1988
della Corte Costituzionale: prima fase del decentramento
10
namente ingoiati nella voragine degli archivi telematici? La
radiografia di una realtà professionale diversa proprio sotto il
profilo della salute. Lo stress ha raggiunto livelli di cronicità
aggravate dal malessere redazionale. E nel malessere redazionale è difficile individuare la soglia tra una ‘normale’ abitudine alle complicazioni di una convivenza da ufficio e gli episodi che la nuova consapevolezza della materia consente di
individuale come vero e proprio mobbing. A noi comunque
spetta soprattutto l’analisi degli effetti. E se siano o no da
mobbing. Possiamo confermare, come Casagit, che l’aumento di certe patologie legate a un quadro fortemente potenziato di stress da lavoro è un fatto riscontrabile. Ci sono effetti
squisitamente psicologici e la malattia in questo caso si esprime con il ricorso alle prestazioni specifiche. Ma ci sono anche,
e in costante aumento, patologie apparentemente molto
‘normali’ e generalmente diffuse che sono indubbiamente
segnali di uno stress palese e di un malessere conclamato: al
di là dei normali disturbi ‘da stress’ il dismetabolismo o, nel
quadro delle disfunzioni ormonali, l’aumento delle patologie
tiroidee”. Ha aggiunto Laura Delli Colli: “C’è ancora una forte
resistenza nel denunciare, e anche molta impreparazione nel
saper individuare come vero e proprio mobbing la vessazione
strisciante che si propaga dal capo in giù all’interno di una
redazione”.
della trattazione di pratiche di tecnopatie non tabellate”.
· Decreto Legislativo n. 38 del 23 febbraio 2000, art. 10,
comma IV: conferma legislativa del “sistema misto” di tutela
delle malattie professionali.
· Decreto ministeriale del 12 luglio 2000: “Approvazione di
Tabella delle menomazioni, Tabella indennizzo danno biologico, Tabella dei coefficienti, relative al danno biologico ai
fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni e malattie professionali”.
· Delibera del Consiglio di amministrazione n. 473 del 26
luglio 2001: definizione di percorsi metodologici per la
diagnosi eziologica delle patologie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativo.
· Lettera del 12 settembre 2001 della Direzione centrale
prestazioni e della sovrintendenza medica generale:
“Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio
lavorativo, compreso il mobbing. Prime indicazioni operative”.
ORDINE
6
2004
Secondo i sindacati sono oltre 2 milioni i dipendenti che subiscono molestie sul lavoro in Italia
Milano, 16 aprile 2004. L’Italia è una
Repubblica fondata sul lavoro. Nero,
sommerso, precario, che non c’è e che
quando c’è magari è molesto. Secondo
quanto denunciano i sindacati, il mobbing
colpisce oltre 2 milioni di lavoratori italiani, il
9-10% del totale. Ma il numero delle persone coinvolte sale a 6 milioni se si considerano i familiari interessati nel dramma del lavoratore sottoposto a soprusi. Tali dati sono
però in controtendenza rispetto a quelli ufficiali sul fenomeno che risalgono al 2000.
E infatti secondo la Fondazione europea
per il miglioramento delle condizioni di lavoro con sede a Dublino, l’Italia appare ultima tra gli altri Paesi europei per quanto
riguarda la diffusione del mobbing con il
4,2% di casi; guidano la classifica la Gran
Bretagna con il 16%, la Svezia e la Francia
con il 10%, seguite dall’Irlanda con il 9%.
Dal 1996 a oggi si sono rivolti alla Clinica
del lavoro di Milano diretta dal professor
Renato Gilioli e sono risultati affetti da alcuni disturbi più direttamente riconducibili
all’origine lavorativa oltre 4mila soggetti.
Sulla base dei dati raccolti, Sda Bocconi ha
realizzato una ricerca i cui risultati sono
stati in parte anticipati e dalla quale emer-
“
Emergenza
mobbing
di Daniele Passanante
ge che, contrariamente a quanto avviene in
Europa, la vittima prevalente del mobbing
non è una donna, bensì un uomo. Il mobbizzato tipo è provvisto di un titolo di studio
abbastanza elevato: ha un diploma superiore nel 50% dei casi. Il 42 % dei lavoratori
colpiti da molestie sul lavoro sono inquadrati
nella categoria degli impiegati e hanno
un’età compresa tra i 30 e i 50 anni e nel
40% dei casi è appartenente al settore del
pubblico impiego.
Ma che cos’è il mobbing? Secondo una definizione comunemente accettata, consiste in
un comportamento ripetuto, immotivato rivolto contro un dipendente o un gruppo di
”
dipendenti, tale da creare un rischio per la
salute e la sicurezza. Stress, depressione,
calo dell’autostima, disturbi del sonno,
problemi a carico dell’apparato digerente
sono le conseguenze più frequenti. Dal
mobbing derivano costi anche a carico
dell’azienda in cui il fenomeno si verifica:
maggior assenteismo e minore produttività
non solo da parte delle vittime ma anche dei
colleghi di lavoro, che risentono del clima
psicosociale negativo dell’ambiente.
Attualmente pochi Paesi europei hanno adottato una legislazione specifica in materia di
mobbing sul posto di lavoro, anche se il Parlamento europeo ha emanato una recente
direttiva per gli Stati membri affinché le organizzazioni pubbliche e private attuino efficaci politiche sociali di prevenzione, perché
vengano individuate procedure per risolvere
il problema e perché venga messa a punto
una puntuale formazione ed informazione
nei confronti dei lavoratori dipendenti, delle
parti sociali, dei medici del lavoro.
In Italia, dallo scorso anno una bozza di
legge sul mobbing definiva il fenomeno
come “la violenza morale o psichica in occasione di lavoro: atti, atteggiamenti o comportamenti di violenza morale ripetuti nel tempo
in modo sistematico o abituale, che portano
ad un degrado delle condizioni di lavoro
idoneo a compromettere la salute o la
professionalità o la dignità del lavoratore”.
La bozza prevedeva che il lavoratore potesse ricorrere al tribunale del lavoro e indicava
gli strumenti oggettivi di misurazione del
mobbing, come il questionario sullo stress
da lavoro, i test proiettivi, il questionario dei
disturbi soggettivi e quello del tono dell’umore. Il mobbing non è ancora menzionato
nelle nostre leggi, ma esistono norme di
tutela dei lavoratori che possono essere
richiamate nel caso si verifichi.
da www.libero.it
tempo dalla Casagit,
forte ritardo sull’Inail)
“di monitorare il fenomeno e di conoscere l’approccio
diagnostico” dei vari centri specialistici che fanno capo a
cattedre universitarie, ospedali, ambulatori e centri di salute mentale del Servizio sanitario nazionale. L’Inpgi, che
contrattualmente copre gli “infortuni” dei giornalisti, per ora
non ha adottato una normativa ad hoc. L’Istituto ha l’obbligo
morale e giuridico di far propria la circolare Inail, mentre
Fnsi e Fieg, come parti sociali, dovrebbero far tesoro in fretta della lezione che viene dalla normativa pubblica e passare subito alla fase delle “determinazioni normative” ipotizzate dal Cnlg senza aspettare il momento ancora lontano
delle trattative contrattuali. Le casistiche del mobbing
dovrebbero essere previste dall’articolo 25 del Cnlg, che
oggi parla genericamente di “infortunio o malattia”. L’Inpgi è
in forte ritardo rispetto all’Inail.
Rientrano nel rischio tutelato (il cd. danno biologico) dall’Inail
tutte le situazioni di costrittività organizzativa nonché il
mobbing strategico. Secondo l’articolo 13 del dlgs n. 38/2000
“in attesa della definizione di carattere generale di danno
biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai
fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico
come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.
Con lettera del 12 settembre 2001 sono state fornite le prime
istruzioni per la trattazione delle denunce di disturbi psichici
determinati dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro ed è stato disposto che, data l’esigenza di acquisire un
adeguato patrimonio di informazioni e conoscenze sulla
materia, tutte le fattispecie con documentazione completa e
probante fossero inviate all’esame centrale.
L’esame degli oltre 200 casi pervenuti (denunciati all’Inail quasi
sempre dopo accertamenti e trattamenti terapeutici) ha
consentito di monitorare il fenomeno e di conoscere l’approccio diagnostico dei vari centri specialistici nazionali che fanno
capo a cattedre universitarie, ospedali, ambulatori e centri di
salute mentale delle AA.SS.LL. operanti sul territorio.
L’accertamento del rischio, effettuato sulla base della denuncia di malattia professionale - integrata ove necessario da
richieste specifiche ai datori di lavoro e dai risultati di incarichi ispettivi mirati - nonché le ulteriori indagini cliniche specialistiche eseguite, hanno condotto al riconoscimento della
natura professionale della patologia diagnosticata nel 15 per
cento circa dei casi esaminati.
Contemporaneamente, l’apposito Comitato scientifico, dopo
aver approfondito gli aspetti più complessi e controversi del
problema, è pervenuto alle conclusioni contenute nel documento che si allega per opportuna conoscenza.
Completata questa propedeutica fase di studio e monitoraggio, si forniscono nuove e più articolate istruzioni sulle modalità di trattazione di questi casi.
Le istruzioni di seguito indicate tengono conto:
· dell’esperienza maturata nel periodo di osservazione
· della relazione del Comitato scientifico
· della letteratura in materia.
6
· Marginalizzazione dalla attività lavorativa
· Svuotamento delle mansioni
· Mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata
· Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro
· Ripetuti trasferimenti ingiustificati
· Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto
· Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici
· Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie
· Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro
· Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale
· Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo
Si legge ancora nella circolare Inail: “Nel rischio tutelato può
essere compreso anche il cosiddetto “mobbing strategico”
specificamente ricollegabile a finalità lavorative. Si ribadisce
tuttavia che le azioni finalizzate ad allontanare o emarginare
il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si
concretizzano in una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco sopra riportato o in altre ad esse assimilabili. Le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere
caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali,
verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di discrezionalità interpretativa”.
I FATTORI
DI RISCHIO
PREMESSA
ORDINE
L’elenco delle “costrittività organizzative”, elaborato dall’Inail,
è lungo quanto drammatico, abbracciando ben 11 circostanze:
2004
La posizione assunta dall’Istituto sul tema delle patologie
psichiche determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro trova il suo fondamento giuridico
nella sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e
nel Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in
base ai quali sono malattie professionali, non solo quelle
elencate nelle apposite tabelle di legge, ma anche tutte le
altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa.
Secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle
forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla
crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei
luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di
ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui
si sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione
aziendale delle attività lavorative.
I disturbi psichici quindi possono essere considerati di
origine professionale solo se sono causati, o concausati in
modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni
dell’attività e della organizzazione del lavoro.
Si ritiene che tali condizioni ricorrano esclusivamente in
presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili con l’espressione
“costrittività organizzativa”.
Le situazioni di “costrittività organizzativa” più ricorrenti
sono riportate di seguito, in un elenco che riveste un
imprescindibile valore orientativo per eventuali situazioni
assimilabili.
Concludiamo, ricordando un monito che non ha bisogno di
commenti: “…Indubbiamente cattivo è colui che, abusando
del proprio ruolo di potere e prestigio, commette ingiustizie e
violenza a danno dei suoi simili; infinitamente più cattivo è
colui che, pur sapendo dell’ingiustizia subita da un suo simile, tacendo, acconsente a che l’ingiustizia venga commessa”
(Einstein, in A. Einstein/S. Freud – Perché la guerra – Ed
Boringhieri, 1981 in
http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html)
ELENCO DELLE
“COSTRITTIVITÀ ORGANIZZATIVE”
· Marginalizzazione dalla attività lavorativa
· Svuotamento delle mansioni
· Mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività
forzata
· Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro
· Ripetuti trasferimenti ingiustificati
· Prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al
profilo professionale posseduto
· Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi
anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psicofisici
· Impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie
· Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni
inerenti l’ordinaria attività di lavoro
· Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative
formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale
· Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
Nel rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto
“mobbing strategico” specificamente ricollegabile a finalità
lavorative. Si ribadisce tuttavia che le azioni finalizzate ad
allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza
assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni
di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco sopra riportato
o in altre ad esse assimilabili.
Le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e
non suscettibili di discrezionalità interpretativa.
segue
11
M O B B I N G
il
a
In
re
a
l
co
r
i
c L’ITER DIAGNOSTICO DELLA MALATTIA
a
L
PROFESSIONALE DA COSTRITTIVITÀ ORGANIZZATIVA
Sono invece esclusi dal
rischio tutelato:
· i fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro
(nuova assegnazione, trasferimento, licenziamento)
· le situazioni indotte dalle dinamiche psicologico-relazionali
comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a comportamenti puramente soggettivi
che, in quanto tali, si prestano inevitabilmente a discrezionalità interpretative).
MODALITÀ DI TRATTAZIONE
DELLE PRATICHE
ACCERTAMENTO DELLE
CONDIZIONI DI RISCHIO
Come per tutte le altre malattie non tabellate, l’assicurato ha
l’obbligo di produrre la documentazione idonea a supportare
la propria richiesta per quanto concerne sia il rischio sia la
malattia.
L’Istituto, da parte sua, ha il potere-dovere di verificare l’esistenza dei presupposti dell’asserito diritto, anche mediante
l’impegno partecipativo nella ricostruzione degli elementi
probatori del nesso eziologico.
L’esperienza fin qui maturata ha dimostrato che non sempre
sono producibili dall’assicurato, o acquisibili dall’Istituto, prove
documentali sufficienti.
È perciò necessario procedere ad indagini ispettive per
raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del
datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata
sui fatti allo scopo di:
· acquisire riscontri oggettivi di quanto dichiarato dall’assicurato
· integrare gli elementi probatori prodotti dall’assicurato.
Ulteriori elementi potranno essere attinti dall’eventuale accertamento dei fatti esperito in sede giudiziale o in sede di vigilanza ispettiva da parte della Direzione provinciale del lavoro o
dei competenti uffici delle AA.SS.LL..
Come per tutte le altre malattie professionali, l’indagine ispettiva mirata ad acquisire i riscontri oggettivi nonché gli eventuali
elementi integrativi di quanto asserito e prodotto dall’assicurato
dovrà essere attivata su richiesta della funzione sanitaria, che
provvederà anche ad indicare gli specifici aspetti da indagare.
Diversamente invece dalle altre malattie professionali (per le
quali l’intervento ispettivo è previsto solo se necessario) per le
patologie in oggetto l’indagine ispettiva deve essere sempre
effettuata. Fanno ovviamente eccezione le ipotesi in cui la
funzione sanitaria, già al termine della prima fase istruttoria, è
giunta alla determinazione di definire negativamente il caso per
l’assenza della malattia o per la certezza della esclusione della
sua origine professionale.
12
L’iter diagnostico da seguire ai fini di una uniforme trattazione
medico-legale dei casi denunciati all’Istituto è descritto di seguito.
· Anamnesi lavorativa pregressa e attuale
· Indicare settore lavorativo, anno di assunzione, qualifica e
mansioni svolte.
· Descrivere la situazione lavorativa ritenuta causa della
malattia individuando le specifiche condizioni di costrittività
organizzativa.
· Disporre, se non già in atti, le necessarie indagini ispettive4
con la conseguente acquisizione di dichiarazioni del datore
di lavoro, testimonianze dei colleghi di lavoro, eventuali atti
giudiziari, ecc..
· Anamnesi fisiologica: riportare le abitudini di vita (alimentazione, fumo, alcoolici, hobby, titolo di studio, ecc.)
· Anamnesi patologica remota
· Anamnesi patologica prossima:
· Riportare la diagnosi formulata nel 1° certificato medico di
malattia professionale.
· Descrivere il decorso ed i sintomi del disturbo psichico.
· Comprendere, nella documentazione medica di interesse, le
certificazioni specialistiche, gli accertamenti sanitari preventivi
e periodici svolti in azienda ed eventuali “precedenti Inps”.
· Esame obiettivo completo
· Indagini neuropsichiatriche:
· Visita e relazione neuropsichiatrica corredata di eventuali
test psicodiagnostici, se è presente in sede lo specialista
neuropsichiatra.
· Consulenza specialistica esterna, in convenzione con
specialista in neuropsichiatria di comprovata esperienza o
con struttura pubblica, se non è presente in sede lo specialista neuropsichiatra.
· Test psicodiagnostici:
· La particolarità della materia lascia al singolo specialista, in
relazione alla sua esperienza professionale, la scelta dei
test da somministrare, test che integrano l’esame obiettivo
psichico ma non possono sostituirlo. Tali test, nel complesso del videat psichiatrico, assumono indubbia importanza
per la loro riproducibilità e confrontabilità nel tempo e
dunque per finalità medico-legali. Elenchiamo di seguito
quelli usati più frequentemente.
a) Questionari di personalità (MMPI e MMPI2, EWI, MPI,
MCMI ecc.)
b) Scale di valutazione dei sintomi psichiatrici:
- per ansia e depressione, di auto e eterovalutazione (BDI,
HAD scale, HAM-A, HAM e Zung depression rating scale,
MOOD scale)
- per aggressività e rabbia (STAXI)
- per disturbo post-traumatico da stress (MSS-C)
- per amplificazione di sintomi somatici (MSPQ)
c) Tests proiettivi (Rorschach, SIS, TAT, Reattivi di disegno
ecc.)
Diagnosi medico-legale
· Per l’inquadramento nosografico, fare esclusivo riferimento
ai seguenti due quadri morbosi:
- sindrome (disturbo) da disadattamento cronico
- sindrome (disturbo) post-traumatica/o da stress cronico.
La diagnosi comunemente correlabile ai rischi in argomento
è il disturbo dell’adattamento cronico, con le varie manifestazioni cliniche (ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta, disturbi emozionali e disturbi somatoformi). La valutazione di queste manifestazioni consentirà la
classificazione in lieve, moderato, severo.
La diagnosi di sindrome (o disturbo) post traumatico da
stress può riguardare quei casi per i quali l’evento lavorativo,
assumendo connotazioni più estreme, può ritenersi parago-
nabile a quelli citati nelle classificazioni internazionali
dell’ICD-10 e DSM-IV. Questi casi vengono definiti come
“estremi/eccezionalmente minacciosi o catastrofici” (a tale
riguardo giova ricordare la possibilità che fattispecie che
configurino un “evento acuto” devono trovare naturale collocazione nell’ambito dell’infortunio lavorativo).
· Escludere, ai fini della diagnosi differenziale, la presenza di:
- sindromi e disturbi psichici riconducibili a patologie d’organo e/o sistemiche, all’abuso di farmaci e all’uso di sostanze
stupefacenti
- sindromi psicotiche di natura schizofrenica, sindrome affettiva bipolare, maniacale, gravi disturbi della personalità.
Valutazione del danno biologico permanente
La tabella delle menomazioni, relativa alla valutazione del
danno biologico in ambito Inail, prevede la presenza di due
voci che attengono entrambe al solo disturbo post-traumatico da stress cronico, di grado moderato (voce 180) e severo
(voce 181).
L’intervallo valutativo riportato offre un adeguato riferimento
per consentire, in analogia, la valutazione del danno biologico anche da disturbo dell’adattamento cronico. I due quadri
menomativi, anche se derivano da un evento lesivo diverso,
possono presentare infatti pregiudizi della sfera psichica in
parte sovrapponibili e coincidenti.
La valutazione del danno terrà conto del polimorfismo e della
gravità dei sintomi psichiatrici e somatoformi, secondo le indicazioni delle classificazioni internazionali sopra richiamate,
così come riscontrati nel singolo caso.
Codifica
Dovranno essere utilizzati i seguenti codici:
Codice amministrativo A: 99.0 99.0
Codice di malattia M:
144(6)
Disturbo dell’adattamento cronico
145 (7)
Disturbo post traumatico da stress cronico
Codice di agente causale:
Da individuare nel gruppo “Fattori psicologici” in relazione alla
condizione di costrittività organizzativa ritenuta prevalente
Disposizioni
La fase di sperimentazione può considerarsi completata.
Questa circolare, infatti, riporta un esaustivo ed articolato
quadro di riferimento che consente, già da ora, di garantire
omogeneità e correttezza nella trattazione delle pratiche.
Sono inoltre previsti specifici corsi di formazione, programmati per il prossimo mese di gennaio, nonché ulteriori direttive di carattere generale in relazione alle problematiche che
dovessero emergere.
A partire dalla data della presente circolare, le denunce di
disturbi psichici da costrittività organizzativa saranno definite
direttamente a cura delle sedi senza il parere preventivo della
Direzione generale.
Le Direzioni regionali, nell’ambito delle loro funzioni di indirizzo, coordinamento e controllo, adotteranno ogni iniziativa
idonea a garantire uniformità e completezza di lettura della
presente circolare e conseguenti correttezza ed omogeneità
di comportamento sul territorio.
Per quanto non specificato in questo contesto, si fa rinvio ai
vigenti indirizzi in materia di trattazione delle malattie professionali non tabellate.
ORDINE
6
2004
Il tribunale civile di Milano respinge domanda di condanna del Consiglio in carica nel 1993
Guido Rivolta – che aveva
chiesto un risarcimento di
danni pari a 200 milioni di lire
al Consiglio dell'Ordine dei
giornalisti della Lombardia e
ai consiglieri Franco Abruzzo,
Adriano Solazzo, Gianluigi
Falabrino, Brunello Tanzi,
Giancarlo Mazzuca, Maria
Luigia Bagni e Valeria
Saccchi – è stato condannato
a rifondere le spese del
procedimento, liquidate in
complessivi euro 6.890,20
Milano, 9 giugno 2004. “È da escludere che
possa dare luogo a responsabilità civile l'attività di valutazione del fatto e della prova,
inclusa evidentemente quella relativa all'attendibilità dei testimoni, essendo a carico
anche del giudice disciplinare l’obbligo di
esaminare ogni problematica influente per la
decisione e di dare contezza (la più esaustiva e persuasiva possibile) delle ragioni della
decisione stessa”.
Con questa motivazione la I sezione stralcio
del Tribunale civile di Milano (goa l’avv. Lucio
Magaldi) ha assolto, a distanza di 10 anni
dall’inizio della causa, il Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia in carica nel
1993, difeso dagli avvocati Cesare Rimini e
Umberto Gragnani, chiamato in giudizio dal
giornalista professionista Guido Rivolta, testimone “volontario” (e autore di una memoria
scritta) nell’ambito della complessa istruttoria
relativa al “caso Lombardfin” (vicenda conclusasi il 22 novembre 1993, nel primo grado
amministrativo disciplinare, con la radiazione
di due giornalisti, la sospensione di altri
cinque e il proscioglimento di due, poi confermata dalla Corte d’Appello di Milano e
successivamente dichiarata prescritta dalla
Cassazione).
A Tamarozzi
e Simoni
il premio
Città di
Milano-Maria
Grazia Cutuli
Sono Patrizia Tamarozzi, di
“D/ La Repubblica delle
Donne”, e Gabriella Simoni, di Italia 1, le vincitrici ex
aequo della seconda
edizione del Premio Giornalistico Città di Milano
“Alla memoria di Maria
Grazia Cutuli”. Altre tre
giornaliste - Lisa Iotti di
“Ventiquattro” de “Il Sole
24 Ore”, Carmen Morrone
di “Vita” e Beatrice Ghezzi
del Tg5 - sono state
segnalate il valore dei loro
servizi.
L’Ordine è libero
di valutare le prove
e anche l’attendibilità
dei testimoni
Guido Rivolta – che aveva chiesto un risarcimento di danni pari a 200 milioni di lire al
Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della
Lombardia e ai consiglieri Franco Abruzzo,
Adriano Solazzo, Gianluigi Falabrino, Brunello Tanzi, Giancarlo Mazzuca, Maria Luigia
Bagni e Valeria Saccchi – è stato condannato a rifondere le spese del procedimento,
liquidate in complessivi euro 6.890,20.
La sentenza, la n. 04801/2004, depositata il
7 aprile, è stata resa nota oggi.
Le accuse di Rivolta. Con atto di citazione
notificato il 21 febbraio 1994, Guido Rivolta
aveva chiesto la condanna in solido del
Consiglio e dei singoli consiglieri (che avevano approvato la decisione disciplinare) al
risarcimento dei danni “per avere i convenuti
emesso, a chiusura di un procedimento disciplinare nei confronti di alcuni giornalisti
professionisti, la delibera 22 novembre 1993,
decidendo fra l'altro di riservarsi di valutare in
un secondo tempo i giudizi espressi da Guido
Rivolta per iscritto su una collega al fine di
minarne la credibilità come testimone, e così
ledendo la propria onorabilità, credibilità e
dignità professionale".
La motivazione della sentenza. Due sono i
Milano, 20 maggio 2004. La consegna delle targhe e del
premio di 7.500 euro è avvenuta oggi a Milano alla presenza
dell’assessore comunale alle Politiche sociali, Tiziana Maiolo,
del direttore del “Corriere della Sera”, Stefano Folli, della direttrice di “Io Donna”, Fiorenza Vallino, del caporedattore di
“Panorama”, Silvia Grilli, e di Bruno Ambrosi in rappresentanza della Scuola di Giornalismo.
“Ho istituito questo premio - ha ricordato l’assessore - per
valorizzare tutte le giornaliste che ogni giorno si comportano
con coraggio e sensibilità, nel ricordo di Maria Grazia. Tutte e
cinque hanno mostrato tematiche interessanti e svolte con un
taglio diverso, in modo non banale”. Nel complesso, le tematiche scelte sono state al 25% donne e guerra, al 20% donne
e lavoro, al 20% donne e disabilità, al 10% donne e sfruttamento e al 25% altro. Al concorso sono pervenuti 103 servizi
(l’80% degli articoli dal nord Italia e il 70% del totale da Milano), hanno partecipato 68 giornaliste, tra professioniste e
pubbliciste (il 45% provenienti dai femminili, il 30% dai quotidiani e il 25% da settimanali e mensili vari), di età (il 60%) tra
i 35 e i 50 anni.
“È fondamentale - ha sottolineato Folli - che promuoviamo
l’affermazione delle donne in ruoli di alta responsabilità nei
giornali: è uno degli obiettivi di speranza del nostro mestiere”,
perché la giornaliste, ha aggiunto, sono in un giornale
“elemento di passionalità, professionalità, competenza e originalità. Maria Grazia era tutto questo e ci ha lasciato rimpianto
e il ricordo di una straordinaria passione”. Folli ha ringraziato
l’assessore Maiolo per aver istituito questo premio che “si
distingue - ha detto - perché interpreta meglio degli altri lo
spirito professionale che ispirò Maria Grazia e coglie l’aspetto
più rilevante: la grande preparazione delle donne che si dedicano alla professione, ottenendo posizioni brillanti con sacrifici grandi”.
(ANSA)
passaggi che hanno portato il tribunale a
respingere la domanda di Rivolta:
a) Ma si sa che, nei delitti contro l’onore,
sebbene non sia richiesto un dolo specifico,
è pur sempre necessaria la volontà dell'evento, che è quella di recare offesa all’altrui
patrimonio morale (Cass. pen., sez. V,
10/1/83, n. 1341): ma tale intenzione, che
pure non necessita di prova perché normalmente insita nella stessa volontà dell’azione
lesiva, va qui invece esclusa, proprio perché
il fine perseguito dai convenuti (Consiglio e
consiglieri, ndr) è stato senza dubbio alcuno
quello esclusivo del mantenere ferma l’attendibilità della teste, non certo quello ben diverso e controindicato (perché non obbiettivo)
dell'offesa. Ne consegue che il comportamento dei convenuti deve considerarsi legittimo e non produttivo di danno ingiusto, ancorché causa eventuale di un pregiudizio per l’attore: resta così precluso qualsiasi sindacato
sul contenuto della frase in esame, sulla
rispondenza a veridicità della medesima,
nonché sulla potenziale sua idoneità a determinare un effetto di tipo diffamatorio.
b) È da escludere che possa dare luogo a re-
Premio
Citigroup
per giornalisti
finanziari
a Rossana
Linguini
Rossana Linguini,
redattrice di “Il Nostro
Budget”, il mensile
della Hachette Rusconi dedicato all’economia e alla finanza, si
aggiudica la terza
edizione italiana del
Journalistic Excellence Award con un articolo sulla limitazione
dei rischi finanziari
all’interno di un
portafoglio obbligazionario.
sponsabilità civile l'attività di valutazione del
fatto e della prova, inclusa evidentemente
quella relativa all'attendibilità dei testimoni,
essendo a carico anche del giudice disciplinare (obbligo di esaminare ogni problematica
influente per la decisione e di dare contezza
(la più esaustiva e persuasiva possibile) delle
ragioni della decisione stessa. II momento
della funzione giurisdizionale (così come
quello disciplinare), riguardante l’individuazione del contenuto di una determinata norma e
(accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o no dell'una all'altro, non può essere fonte di responsabilità, nemmeno sotto il
profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita e convincente confutazione di opposte tesi, dovendo
passare l’affermazione della responsabilità,
anche in tali casi, attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo o
valutativo; fonte di responsabilità potrebbe
essere, invece, l’omissione di giudizio (anche
circa la contestata attendibilità del testimone)
che investa questioni decisive, anche in relazione alla fase in cui si trova il processo, e sia
ascrivibile a negligenza inescusabile (Cass.
02/17259).
Milano, 29 aprile 2004. La giuria italiana del premio ideato da
Citigroup per promuovere il giornalismo economico finanziario
di alto livello è composta dai massimi appresentanti del mondo
dell’economia, dell’imprenditoria, della finanza e del giornalismo: Massimo Capuano; Antonio D’Amato; Lorenzo Del Boca;
Alan Friedman; Carlo Secchi; Maurizio Sella; Luigi Spaventa;
Terri Thompson; Giacomo Vaciago.
Rossana Linguini prenderà parte - insieme ai vincitori di tutti
gli altri paesi partecipanti - ad un seminario che si terrà dal 31
maggio al 11 giugno 2004 presso la Columbia Graduate
School of Journalism di New York, la più prestigiosa facoltà
americana di giornalismo, fondata nel 1912 da Joseph Pulitzer.
Al secondo posto si è classificato Walter Galbiati, redattore di
“la Repubblica”, mentre Luca Piana, redattore de “L’Espresso”,
è risultato terzo.
«La nostra iniziativa ha raccolto quest’anno un forte interesse
presso il pubblico dei giornalisti economico-finanziari, in particolare grazie alla finalità formativa e all’indirizzo internazionale
del premio», ha affermato Luca Toniutti, Citigroup Country Officer per l’Italia. «L’informazione finanziaria ha un ruolo cruciale
nel garantire il funzionamento del sistema economico nel suo
complesso.
Con la terza edizione italiana del premio vogliamo ribadire il
nostro impegno a sostenere l’importanza della comunicazione
finanziaria di alto livello», ha concluso Toniutti.
Citigroup è la principale società globale di servizi finanziari con
circa 200 milioni di clienti in oltre 100 paesi, e fornisce a consumatori, società, governi ed enti una vasta gamma di prodotti e
servizi finanziari, incluse attività bancarie e creditizie rivolte ai
consumatori, attività bancarie aziendali e di investimento, assicurazioni, negoziazione titoli e gestione patrimoniale. Citigroup
è presente in Italia dal 1962.
CONDANNATO A LODI CRONISTA DEL “CORRIERE” CHE SI ERA FINTO CLANDESTINO
Dichiarazione
del presidente
dell’Ordine
dei giornalisti
della Lombardia
Abruzzo: “Un errore. Fabrizio Gatti
ha rispettato le regole deontologiche
e le norme europee. Andava assolto”
Milano, 5 maggio 2004. Il Tribunale di Lodi ha condannato
oggi Fabrizio Gatti a 20 giorni di reclusione per falsa attestazione a un pubblico ufficiale sulla proprio identità. Aveva detto
di essere rumeno e alla domanda “sei tu Roman Ludu?”
aveva risposto di sì. L’episodio è avvenuto nel centro di via
Corelli riservato ai cittadini extracomunitari. Gatti aveva scritto due articoli attorno alle condizioni degli extracomunitari
nel nostro Paese. Un primo articolo era intitolato: “Io clandestino per un giorno rinchiuso nel centro di via Corelli” (pubblicato il 6 febbraio 2000).
ORDINE
6
2004
Franco Abruzzo ha dichiarato: “Dal dibattimento è emerso che
non era possibile avere notizie attendibili su quello che avveniva nel Centro di via Corelli e che anche ai parlamentari era
negato l’accesso senza preavviso. Il Codice della privacy prevede che il giornalista possa nascondere la propria identità in
situazioni di pericolo. Ed è quello che ha fatto Fabrizio Gatti. Il
cronista non ha violato alcuna regola deontologica. Gatti,
secondo me, andava dichiarato non punibile per avere esercitato un diritto, quello di cronaca, principio consacrato nell’articolo 21 della Costituzione, che va incrociato con l’articolo 2 della
legge professionale, con l’articolo 51 del Codice penale e con
l’articolo 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo.
La vicenda merita di essere portata all’esame dei giudici della
Corte di Strasburgo. Al cittadino europeo Fabrizio Gatti, il Tribunale di Lodi ha negato il diritto di ricevere notizie, diritto consacrato nelle sentenze Goodwin e Roemen. I giudici di Lodi sono
incorsi, credo, in un errore gigantesco, perché sono tenuti ad
uniformarsi alle sentenze di Strasburgo. Lo Stato italiano rischia
ora di essere condannato a pagare i danni a Fabrizio Gatti, un
bravo cronista che onora la professione giornalistica”.
13 (21)
Trent’anni fa moriva a Roma il grande giornalista, geniale e incoerente
M E M O R I A
Direttore del “Corriere della Sera”
dal 1952 al 1961, fu un acuto analista
politico. Formatosi alla scuola
delle riviste letterarie dei primi anni
del Novecento
(“La Voce”, e “Il Leonardo”),
odiava la cronaca. Secondo Montanelli,
il suo ideale era quello di pubblicare
il giornale del giorno precedente
Filosocialista prima del ’22,
si convertì al fascismo che lo utilizzò
al “Messaggero” come estensore
di editoriali ricavati dalle veline emanate
dal Minculpop.
La Resistenza lo trovò naturalmente
tra le sue fila e la Liberazione
lo premiò con un encomio
Mario
Don Abbondio
Missiroli in redazione
di Enzo Magrì
Un giorno di maggio del 1949 Mario Missiroli che dirigeva “Il Messaggero” (ma ambiva a sedere sulla poltrona che era stata di
Luigi Albertini, al “Corriere della Sera”), chiese a Leo Longanesi che cosa ne pensasse
del giornale milanese che Guglielmo
Emanuel dirigeva aiutato dal redattore capo
Michele Mottola. Il direttore del “Borghese”
gli tracciò una sapida analisi, alla sua
maniera, senza giri di parole: “Il ‘Corriere’ a
confronto del ‘Messaggero’ sembra un giornale di provincia nonostante i mezzi di cui
dispone. Sbagliano i titoli in terza pagina e
in terza pagina pubblicano sempre articoli
sui raffreddori. Tuttavia la tiratura è sempre
eccellente e il direttore, grazie alla sua incapacità, diventa sempre più inamovibile. Fra
lui e Mottola è cementato un patto di mutua
difesa: essi sanno che ogni mutamento è un
grave pericolo e trascorrono i loro giorni a
difendersi da ogni scoppio d’intelligenza”.
A dimostrazione che la politica ha sempre
comandato sull’informazione, l’autore di In
piedi e seduti, il quale aveva capito quanto
l’amico e collega ci tenesse a trasferirsi a
Milano, gli suggeriva: “Tuttavia, se si riuscisse a muovere De Gasperi, a fargli fare qualche pressione sui C. (leggi i Crespi), credo
che ne trarresti vantaggio”.
Non si è mai saputo se effettivamente il
presidente del Consiglio sia intervenuto
presso i proprietari del giornale per una
malleveria su Missiroli. Di certo c’è che
quando nel 1952 i Crespi decisero di affidargli la direzione del loro foglio e lo convocarono per discuterne le condizioni, questi si
rese irreperibile. Per rintracciarlo, qualcuno
telefonò alla moglie che si trovava in America per assistere la figlia recente puerpera.
“Madame, per carità, torni subito. Missiroli è
fuggito in Svizzera. Cerchi di convincere suo
marito ad accettare la direzione del “Corriere della Sera”. L’intervento della signora
Regina si rivelò prezioso perché il giornalista emiliano cominciò a firmare il ‘Corriere
della Sera’ a partire dal 15 settembre 1952.
In redazione fu accolto
come un liberatore
Nella redazione, avvilita dal burocratico
grigiore della conduzione di Emanuel, Missi
(come si firmava in privato) fu accolto come
un liberatore. Ma l’entusiasmo si spense
quasi subito. Alla prima riunione, il neo direttore enunciò la sua filosofia che riassunse
nel motto: “Meglio un buco che uno scoop”.
Qualche giorno più tardi, si pronunciò contro
la “mania” di protagonismo di certi redattori.
“In questo giornale” denunziò “ci sono troppi
galli”. Mimando con indice e medio della
mano destra levata a mezz’aria il movimento delle forbici, ammonì: “Ma io li ridurrò a
capponi”. Come gli attori, i giornalisti vivono
di visibilità che alimentano mediante la
firma. Nello scoop, che è una sorta di assolo, sintetizzano la magnificazione d’un lavoro di ricerca e d’indagine. Come gli artisti
inoltre hanno la vocazione ad occupare il
proscenio, indulgendo sovente, chi più chi
meno, in atteggiamenti da prime donne e in
comportamenti che fanno parte del profes-
14 (22)
sionismo protagonista. Figurarsi dunque l’effetto che ebbero quelle parole sul corpo
redazionale il quale nella totalità (ancora
non esistevano i comitati di redazione) si
guardò bene dal replicargli. L’unico ad interloquire fu Indro Montanelli. “Fai bene direttore a dire così: tutti capponi. Tranne me,
però”. Missiroli non ebbe la prontezza di
rispondergli. Ma da quel giorno, per giustificare la sua tolleranza verso le “stravaganze”
di Cilindro dentro il giornale e negli scritti,
prese a dire: “In ogni famiglia c’è un matto:
in quella del ‘Corriere’ c’è Montanelli”.
Magro, statura media, naso grosso, sempre
elegantemente vestito, Missiroli aveva lo
sguardo curioso, a volte luciferino. Del romagnolo possedeva la facilità all’ira ma anche
la rapidità del ritorno alla calma. L’iconografia ci ha tramandato l’immagine d’un uomo
intelligentissimo ma pauroso che, aiutato da
una profonda cultura e da un’acuta capacità
d’intuizione, riusciva a giustificare atteggiamenti umani contraddittori e prese di posizioni politicamente discutibili.
La coerenza esteriore
e quella interiore
Il suo debole fu certamente la coerenza, in
questo imitato da una folta schiera di giornalisti i quali pur non avendolo conosciuto
ne adottano ancora oggi la filosofia. Un giorno scrisse: “Io non sono uno di quelli che
nutrono una specie di idolatria per la
coerenza. Spesso la coerenza esteriore è
dovuta alla impossibilità d’intendere lo svolgimento della realtà, il fluire della storia, che
si muove sotto i nostri occhi”. Puntualizzò:
“Ma vi è un’altra coerenza: intima, con il
proprio pensiero che, se è veramente tale,
non formula fittizia, deve riprendersi ogni
giorno, ogni ora, ogni istante, per adeguarsi
alla realtà infinita e mutevole a quella viva
realtà concreta, incandescente che troppe
volte ci sorprende in difetto con noi stessi”.
Pronto a capire i rivolgimenti politici di cui
era un eminente esegeta, temeva quelli
quotidiani, della realtà spicciola, della cronaca. Secondo Montanelli, l’ideale di Missi era
quello di pubblicare il giornale del giorno
prima. Direttore della più importante testata
italiana, egli non amava le notizie. Giungendo nel pomeriggio tardi in redazione, ambiva d’essere rassicurato che nulla di grave
fosse accaduto né Italia né nel mondo.
Raffaele Mauri, un giornalista entrato al
“Corriere della Sera” alla fine degli anni Venti
e che come Missiroli aveva lavorato al
“Resto del Carlino”, era il capo della redazione romana.
“Raffaele che c’è di nuovo” chiedeva Missi
al telefono da Milano. ‘”Niente, niente” lo
tranquillizzava l’altro da Roma. Confortato, il
primo replicava: “Meno male, meno male”.
Subito Mauri incalzava: “Sì, c’è qualche
sciocchezza, una sciocchezzuola, cosa
vuoi, cose che capitano”. Annunziava: “Oggi
bocciano il Governo alle Camere. Ma sono
cose che succedono. Cose normali”.
Quest’uomo schivo, timoroso, tratteggiato
dall’aneddotica come il don Abbondio delle
redazioni, aveva attraversato da protagonista i primi vent’anni del secolo scorso imponendosi all’attenzione dell’intellighenzia
italiana. Non gli erano mancati né coraggio
né spavalderia tanto che aveva sfidato a
duello colui che per vent’anni sarà il padrone d’Italia: sì, Benito Mussolini.
Mario Missiroli era, si può dire, uno che si
era fatto da sé: una sorta di versione letteraria del self made man dell’imprenditoria
americana. Bolognese d’origine romagnola,
rimasto orfano di padre giovanissimo, era
stato educato da uno zio materno che gli
aveva inculcato l’amore per la cultura.
Enfant prodige, a quindici anni, nel 1901,
comincia a collaborare con il “Don
Chischiotte” e la “Rinascenza”, due settimanali emiliani. Qualche anno più tardi scrive
per il “Leonardo” e la “Voce”, le prestigiose
riviste letterarie dirette rispettivamente da
Giuseppe Prezzolini e da Giovanni Papini,
che rappresentano il bivio per il quale transitarono gli intellettuali liberali, socialisti,
nazionalisti e fascisti. Appassionato di filosofia e di letteratura, agli svaghi dei giovani
preferiva la lettura dei cultori del pensiero e
dei narratori. Trascorreva gran parte del suo
tempo all’Archiginnasio, la biblioteca pubblica di Bologna. Frequentava il Caffè del
Corso, ritrovo di artisti, e di sera visitava la
libreria Zanichelli dove Carducci soleva
intrattenersi con il titolare, il signor Cesare.
All’autore delle Odi Barbare, il giovanotto
fece un giorno rilevare una lacuna contenuta nella sua opera omnia; vale a dire l’assenza d’un importante discorso.
Non gli manca neppure l’intraprendenza. In
quel periodo (siamo attorno al 1910) dà vita
ad una rivista letteraria. Essendo stato
presentato da poco a Giovanni Pascoli, un
giorno, vincendo la ritrosia, si presenta in
casa del poeta per chiedergli un inedito.
L’autore di Myricae, uomo timido, si siede
alla scrivania verga un biglietto e lo porge al
giovane che saluta ed esce in fretta convinto d’avere in mano un nuovo brano del
poeta. Nel foglio c’è scritto: “Adesso non ho
nulla. Ripassi tra qualche giorno”.
Scrittore raffinato
e scopritore di talenti
Redattore del “Corriere dell’Emilia”, organo
del partito conservatore emiliano, nel 1903,
a 23 anni, Missi passa al “Resto del Carlino”
dove, a causa della malattia di Alberto Savagni, diventa l’effettivo direttore. Oltre che
scrittore sottile, egli si rivela uno scopritore
di talenti. Riconosce le qualità di Alfredo
Oriani, che impone all’editoria. Arruola al
giornalismo della terza pagina Giuseppe
Prezzolini, Giovanni Papini, Giovanni Gentile, Giovanni Amendola, Aldo Valori, Ernesto
Bonaiuti e Benedetto Croce, valenti intellettuali, esponenti del pensiero italiano. Amante della scrittura chiara e semplice, quando
qualche suo collaboratore deve affrontare
un argomento pericoloso sia dal punto di
vista politico che da quello economico gli
raccomanda “sii prolisso e confuso”. È attraverso il “Carlino” che egli entra in contatto
con Georges Sorel, teorico del sindacalismo
rivoluzionario, con il quale ha una fitta corrispondenza. Nel 1913, a ventisette anni,
pubblica il suo primo saggio La monarchia
socialista un’opera fondamentale nella sua
biografia. Quattro anni più tardi esce Il Papa
in guerra, un riuscito intreccio saggistico in
cui egli indica nel socialismo democratico il
ORDINE
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2004
Al suo vademecum dell’incoerenza
si sono ispirati e s’ispirano ancora molti
giornalisti che vogliono cavalcare
il successo
Indro Montanelli, Gaetano Afeltra, Mario Missiroli.
vero continuatore del liberalismo: le sue
teorie politiche ruoteranno su questa tesi e
sull’assunto che l’Italia era condannata
all’arretratezza a causa della mancata riforma religiosa. Nel 1918, dopo una brevissima esperienza di condirettore al “Tempo” di
Roma, rientra a Bologna per assumere la
direzione del “Resto del Carlino”.
Il fascismo è ormai prossimo alla conquista
del potere. Dopo Milano, Bologna è uno dei
centri di maggiore aggregazione. Accusato
di filosocialismo, Missiroli è costretto a
lasciare la sua città e nel settembre del 1921
assume la direzione del “Secolo”, “contraltare sinistreggiante della democrazia illuminata del ‘Corriere della Sera’”. Sul giornale
antifascista, egli, che è amico di Pietro
Nenni, Filippo Turati e Anna Kuliscioff, non
risparmia critiche a Mussolini tanto che definisce i fascisti “schiavisti agrari”. Ormai in
guerra con il movimento creato dal direttore
del “Popolo d’Italia”, pubblica una serie di
articoli in cui esprime duri giudizi sull’uno e
sull’altro. La risposta del futuro duce non si
fa attendere. Il 10 maggio del 1922, cinque
mesi prima della marcia su Roma, egli definisce Missiroli un “perfido gesuita e un
solennissimo vigliacco”.
In uno dei rarissimi atti di ardimento, l’autore
di La monarchia socialista si dichiara offeso.
Sfida il capo del fascio. Egli però non sa tirare di scherma. Il corso accelerato di 24 ore
tenutogli dal celebre Giuseppe Mangiarotti
non basta a svelargli tutti i segreti dell’uso
delle armi bianche. Il maestro, pessimista
sul futuro dell’impreparato e improvvisato
allievo, gli raccomanda: “Miri sempre alla
coccia della spada del suo avversario e non
si curi d’altro”. Il 13 maggio del ‘22, in un
prato di San Siro, Missiroli è assistito dalla
fortuna dei principianti. Non solo mette in
difficoltà il suo rivale (tanto che un redattore
del “Popolo d’Italia” presente confida ad un
suo collega: “Se Missiroli continua cosi, ci fa
fuori il direttore”), ma con un fortunato
fendente lo ferisce leggermente al polso. Il
duello è sospeso senza la riconciliazione dei
contendenti.
Vinto sul campo dell’onore Mussolini, Missiroli è però sconfitto in quello professionale e
politico. Costretto a lasciare la direzione del
“Secolo”, si rifugia presso la redazione
romana della “Stampa” dove Frassati gli dà
ospitalità. Indomito, l’emiliano, continua a
battibeccare con il capo del governo. Ma il
suo destino è segnato: espulso dal sindacato dei giornalisti, è licenziato pure dalla
“Stampa” passata al servizio del fascismo
sotto la direzione di Andrea Torre.
Era terrorizzato
dal pensiero della povertà
Molti antifascisti militanti, con l’avvento delle
leggi speciali lasciano l’Italia e si rifugiano a
Parigi. Missiroli resta a Roma ma quel che è
peggio passa dalla parte del suo nemico.
La tesi di Montanelli è che egli fosse tormentato dal pensiero della povertà. Nel 1925
aveva incontrato al mare Regina Avanzini
che aveva sposato e che gli aveva dato una
figlia. Traumatizzato di vedere Mussolini al
potere, il bolognese temeva di essere
messo fuori gioco. Dev’essere stato in quel
periodo che egli elabora la sua teoria sulla
ORDINE
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2004
coerenza. Leandro Arpinati, podestà di
Bologna, che gli è amico, chiede al presidente del Consiglio di concedere la tessera
del Pnf al vecchio avversario. Per impietosire il duce sul caso, gli riferisce che Missiroli
è sposato e ha una figlia. Il dittatore domanda, incredulo: “Come, quell’uomo così pallido ha pure una figlia?”.
Oltre alla tessera, il giornalista ottiene anche
un posto al “Messaggero”. Per sdebitarsi,
adula il regime facendo autocritica. Nel 1925
scrive: “Il fascismo è in gran parte quel
socialismo al quale alcuni dottrinari, me
compreso, s’illusero d’assegnare compiti e
funzioni liberali”. Mente senza imbarazzi: “Il
fascismo al potere contrassegna la fase
storica più intensamente democratica che
abbia attraversato l’Italia dal 1870 ad oggi”.
Poiché il suo nome imbarazza il regime,
Mussolini gli consente di scrivere per il
“Messaggero” ma senza firmare i servizi.
Rintanato in una stanza del giornale, stila
editoriali seguendo la traccia delle veline
che prima l’Ufficio stampa della presidenza
del Consiglio, poi il sottosegretariato (e quindi ministero) per la Stampa e propaganda,
infine il ministero per la Cultura popolare,
trasmettono ai giornali per “orientare” i giornalisti e il paese.
Nella solitudine materiale ed intellettuale in
cui è costretto vivere, egli si vendica del regime con il disprezzo mordace e impudente.
Si meraviglia: “Orribile, molti fascisti parlano
come scrivo io”. Riferendosi al loro atteggiamento culturale ironizza: “Hanno la forza
dell’analfabetismo e la forza dell’alfabetismo: è una forza invincibile”. Lo esalta però
il pensiero che i suoi articoli giungano con il
caffellate sia a Mussolini sia al Papa. Datano da allora alcune folgoranti battute. Incontrando Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio,
dopo che Mussolini ha chiuso il settimanale
“Oggi” (che i due dirigevano), li conforta: “Vi
hanno punito per quello che non avete
pubblicato”.
E nel 1939 finisce
il “ feeling” con il fascismo
Il suo feeling con il regime finisce nel 1939
quando Mussolini si allea con Hitler, un
personaggio che Missiroli odia. Quando
capisce che il fascismo non potrà superare
la prova della guerra, si avvicina operosamente all’antifascismo militante: riesce a
salvare le rotative del “Messaggero” che
rischiavano d’essere trasferite in Germania
e tenta di sottrarre al maresciallo Herbert
Kappler Alberto Bergamini (il prestigioso ex
direttore del “Giornale d’Italia”) detenuto a
Regina Coeli, ignorando che egli è evaso.
Nel 1943 è costretto a rifugiarsi e a vivere
per settimane nell’appartamento di Vittorio
Emanuele Orlando, suo vicino di casa, per
non farsi prendere dai tedeschi che lo cercano perché ha aiutato alcuni detenuti a fuggire dal Celio.
La democrazia (che lo premia con un encomio solenne dopo la Liberazione) lo trova
ovviamente tra i vincitori. Egli si prodiga per
aiutare parecchi colleghi giornalisti compromessi con il passato regime che sono
minacciati d’epurazione. La milizia nei due
fronti (quello fascista e l’altro antifascista)
senza passione né per l’uno né per l’altro,
gli consente di esternare un cinismo bipartisan. Un tizio che era andato a trovarlo alla
fine degli anni Quaranta, presente Montanelli, si qualificò come “vero fascista che non
ha mai rinnegato la sua fede e il suo giuramento”. Uscito il personaggio, Missi sbottò
davanti al suo amico Indro: “Si crede un vero
fascista, quell’idiota. Ma i veri fascisti siamo
noi che dapprima non ci credemmo, poi
fingemmo di crederci; poi, forse, credemmo
fingendo di non crederci. E ora non sappiamo più nemmeno noi se ci abbiamo creduto
o no”. Quasi a volere stabilire una sorta di
par condicio, la sua irrisione non colpisce
solo il fascismo ma anche l’antifascismo. Nel
consegnargli un articolo, un neo collaboratore si era lamentato:”Il fascismo non mi ha
fatto scrivere per vent’anni”. Missiroli, dopo
aver dato una scorsa al pezzo, gli risponde:
“Ma almeno poteva leggere”.
L’impegno con la Resistenza romana, riscatta gli anni della sua meschina collaborazione con il regime. Assistito da un geniale
acume di politologo (anche se sostiene che
i professionisti della politica non ne azzeccano mai una come i meteorologi), diventa
uno dei referenti dell’establishment. Divenuto direttore del “Messaggero”, il più importante giornale del Centro-Sud, è l’ascoltato
consigliere di parecchi uomini di governo
che (con l’eccezione di Alcide De Gasperi)
lo vanno a trovare in redazione dove divide
la stanza con Pippo, un gatto randagio al
quale ha offerto una cuccia in un cassetto
della sua scrivania. In quel periodo pare
abbia redento persino una prostituta che
frequentava via del Tritone, proprio davanti
al giornale, trasformandola in una centralinista.
I vent’anni di semiclandestinità, cui lo ha
costretto il fascismo, hanno certamente
indebolito il suo senso della sicurezza che
però egli ritrova rifugiandosi dietro manie e
rituali. Come un pipistrello, vive di notte e
dorme di giorno. Entra al giornale alle otto di
sera e va a letto alle sei del mattino. Madame (come chiama da sempre la moglie)
veglia perché in quelle ore di riposo del
marito tutto si svolga in casa in punta di
piedi e perché nulla ne possa disturbare il
sonno. Un giorno la signora si vede costretta a svegliarlo alle tre del pomeriggio. L’onorevole Antonio Segni, dalla redazione del
“Messaggero” in cui si trova, si lamenta per
telefono che Missi non si è presentato all’appuntamento. Dolcemente dissonnato, il giornalista prende la cornetta e chiede all’uomo
politico. “A che ora le ho fissato l’appuntamento?”. E l’altro: “Alle tre”. “E allora?” interviene il giornalista. “Sono le tre e mezzo e
lei è ancora a casa” replica l’uomo politico.
“Sono le quindici” precisa Missiroli. “L’ho
attesa questa notte alle ore tre”.
Scriveva gli articoli
con la penna a cannuccia
Maniaco della perfezione, impiegava ogni
giorno almeno dieci minuti (aiutato dalla
moglie che sovente s’innervosiva), per
indossare la giacca avendo cura che il
colletto combaciasse millimetricamente con
quello della camicia.
Scriveva i suoi articoli usando la penna a
cannuccia e il calamaio. Solo negli ultimi
15 (23)
Celebri sono rimaste
alcune sue frasi:
M E M O R I A
“Togliatti è un eccellente uomo politico,
peccato che sia un conservatore”.
“L’Italia deve poggiare su un piede sempre
più largo del suo per illudersi di essere
forte e felice. Vivere al gabinetto e scambiarlo per un castello. Questo Mussolini lo
aveva capito”.
“Non c’è niente di progressivo nel nostro
paese, tranne la paralisi”.
Accomiatandosi un giorno da un importante uomo politico che era andato a trovarlo
in redazione, lo aveva esortato: “Mi raccomando, mi raccomando, siamo nelle sue
mani”. Uscito di scena il personaggio, fu
sentito dire: “In quali mani siamo...”
Colli, Emanuel, Missiroli, Mario Crespi e Gaetano Afeltra.
anni si era convertito alla biro.
La sua libreria conteneva migliaia di volumi
che non potevano essere toccati se non da
lui. Se qualcuno in casa voleva leggere uno
dei libri allineati negli scaffali se lo doveva
comprare. A volte la moglie perdeva la
pazienza e lo apostrofava: “Sei un nevrastenico”. Egli subito precisava: “No, no, sono un
ordinato”.
Uomo estremamente solitario e profondamente scettico, entrando al “Corriere” vi
aveva introdotto le sue manie e le sue fobie.
Montanelli sosteneva che, nonostante tutto,
Missiroli fosse una droga, un virus contro il
quale non c’erano difese. Con la voce
bassa, che si perdeva in un bisbiglio, devoto
come un monaco alla professione, riusciva
ad acquistare la fiducia di chiunque entrasse in contatto con lui.
Aveva sempre paura
di ciò che non conosceva
Paradossalmente, a Milano era stato accolto male solo dalla Confindustria che sul
“Sole 24 Ore” gli aveva rimproverato d’avere
promosso, quand’era direttore del “Messaggero”, una campagna contro l’industria elettrica privata. Forse per questa ragione, o
piuttosto perché aveva sempre paura di ciò
che non conosceva, appena messo piede in
redazione, ad un collega di cui si fidava
chiese: “Chi comanda realmente a Milano?”.
L’altro rispose: “Guarda che qui non ci sono
padroni, almeno non mi risulta che ce ne sia
uno”.”Ma ci dev’essere uno che comanda”,
gli replicò Missi. “Chi è la Confindustria?”. E
l’altro: “No, non è la Confindustria.” “Allora è
la Curia”, congetturò il neodirettore. “Quella
non c’entra niente” fece presente l’amico.
“Allora sono i Crespi?” concluse risoluto
l’emiliano. “Ma qui non comandano nemmeno loro” intervenne l’altro che precisò:
“Comandano sì, ma nell’ambito amministrativo. Una volta però che ti hanno nominato
direttore, sta a te andare avanti”.
Quell’affermazione che avrebbe rassicurato
chiunque apprezzasse la possibilità di potere operare in piena autonomia, dovette
gettare nella costernazione l’emiliano il
quale scoprì cosi che, diversamente da
quanto accadeva al “Messaggero” con i
Perrone, non aveva personaggi di riferimento e che non avrebbe avuto nessuno cui
rapportarsi. A quel punto, per difendersi
adottava, secondo una diagnosi di Montanelli, la tecnica dell’ignoranza. Trascurava le
notizie. Queste per lui erano una specie di
turbamento. Secondo la teoria di Indro, “gli
avvenimenti modificavano le cose e quindi
era meglio che non accadessero”. Avrebbe
voluto censurare le informazioni perché
ognuna di esse avrebbe potuto costituire un
pericolo.
Epigono del mondo politico letterario del
primo Novecento, quello che ruotava attorno alle riviste letterarie (“La Voce”, “Il
Regno”, “Lacerba”, “Il Leonardo”, “L’Idea
Nazionale” etc) prediligeva il giornalismo
formativo, di stile ottocentesco, anziché
quello di taglio informativo. Come storico e
come politico, riusciva a leggere gli avvenimenti che orientavano la cosa pubblica ma
non era capace d’interpretare gli eventi
dell’attualità che preferiva rimuovere.
Infallibile nella scelta
dei suoi collaboratori
Incerto nell’approccio con le novità, egli è
però infallibile nella scelta dei collaboratori.
Al suo arrivo al “Corsera”, se ne va Guido
Piovene che passa alla “Stampa”. A
rimpiazzarne la bravura giungono Luigi
Barzini jr, Virgilio Lilli, Domenico Bartoli,
16 (24)
Giuseppe Antonio Borgese. Torna Enrico
Massa, che era uscito dal “Corriere” nel
1925 insieme con Luigi Albertini.
All’interno del giornale trova subito una
fattiva, creativa, collaborazione in Gaetano
Afeltra che conferma come redattore capo
ed eleva anzi a suo braccio destro. “Tu
m’indovini” gli dirà spesso per sottolinearne la solidale intesa. Sarà Afeltra che in
pratica dirigerà il giornale. Sono sue le
“scoperte” di Goffredo Parise, Alfonso
Gatto, Domenico Rea, Alberto Arbasino.
Missiroli pensa solo all’editoriale della
domenica e alla gestione delle sue ire che,
uomo estremamente civile, non rivela mai.
In compenso è lapidario nelle sue battute
che hanno la capacità di esaltare o deprimere. Pare che una volta, incrociando un
bravissimo giornalista, che però a lui non
garbava, gli si sia rivolto con queste parole: “Bravo, bravo, bravo”. Non comprendendo la ragione di quel complimento, l’altro
chiese: “Scusi, direttore, ma bravo
perché?”. “Già perché” rispose il bolognese
allontanandosi. Conoscendone le idiosincrasie e le riserve mentali, coloro che gli
stavano vicini s’industriavano per conformarsi e per interpretare i reali intenti di
certe sue proposte e iniziative. Un giorno
Montanelli telefonò ad Afeltra annunciandogli: “Missiroli mi ha chiesto di fare la
recensione al nuovo libro di Longanesi, Un
morto fra noi. Io ho scritto quello che sentivo di scrivere. Ma, poiché sono certo che
Missiroli l’ha fatta fare a me soltanto per
paura di Longanesi, può darsi benissimo
che ora non la pubblica per paura di dispiacere ai nemici di Longanesi. In questo caso
vedi tu di fargli fare una buona scelta fra
l’una e l’altra paura”.
“Il mio destino è quello
di non essere mai in tempo”
Quando Missiroli domanda ad Afeltra
com’è il nuovo libro del direttore del
“Borghese”, il suo braccio destro gli sottolinea che vi sono pagine contro il poeta
Vincenzo Cardarelli. Il direttore sbotta:”Ma
come. Per vent’anni fra Longanesi e me c’è
stato un sordo rancore proprio perché io
non stimavo Cardarelli. Com’è possibile
che ora che mi sono messo a stimarlo e
che per aiutarlo gli ho pubblicato persino
due pezzi in un giorno, com’è possibile che
proprio ora Longanesi dica che non valga
più niente”. Sconsolato sospira: ”Il mio
destino è quello di non essere mai in
tempo”.
Una volta insediatosi in via Solferino, Missiroli amministra l’esistente. Coglie sicuramente i mutamenti che si registrano nel
mondo: la fine dello stalinismo, l’avvento di
Giovanni XXIII, la nascita a Milano del
“Giorno”, opera di Gaetano Baldacci (un ex
inviato del “Corriere” che lo angosciava con
i suoi servizi dissacranti e che egli aveva
sollecitato a farsi un giornale tutto suo), il
proposito di Angelo Rizzoli di pubblicare un
quotidiano. Tuttavia, essendo stato vittima
d’un esiziale mutamento epocale che aveva
investito il nostro paese, teme le conseguenze dei rivolgimenti e li esorcizza con le
facezie. Esercizio che non ne minimizza la
bravura professionale ma che semmai ne
arricchisce l’immagine restituendola umana
e gradevole anche se i suoi nemici utilizzano questa pratica per ridurlo a cinica
macchietta. Un giorno, al “Corriere”, leggendo una notizia d’agenzia che annunciava il
crollo d’un palazzo, aveva sussurrato:
“Bene, bene, questa è una buona notizia.
Credevo che in Italia tutto fosse già crollato
da un pezzo. Invece…”
Alla maniera delle persone riservate, egli si
sottrae a certe imbarazzanti situazioni con
le battute che sono le scintille con le quali
l’uomo colto schizza una situazione, uno
stato d’animo, un’analisi. Se qualcuno
propone un articolo che a lui non piace, un
po’ per rimarcare i limiti del suo mandato di
direttore ma anche per liquidarlo senza
approfondite spiegazioni, è solito rispondere: “Bello, ma per poter scrivere queste
cose bisognerebbe avere un giornale”.
L’ammirazione che avviluppa, soprattutto in
chi lo conosce, la figura del grande giornalista, non intenerisce i Crespi i quali, dopo
nove anni di direzione missiroliana, sono
divisi tra loro da diverse questioni, ma si
trovano uniti nel proposito di dargli il
benservito. Dall’esterno, il “Corsera” è
considerato inadeguato ad esprimere le
realtà nuove che premono nella società
italiana. Dei giornali della Penisola, è ritenuto il foglio meglio scritto in italiano, “ma è
un italiano” si osserva “senza più linfa vitale, quello di una società ferma e cristallizzata”. Come capita ai direttori di forte personalità, egli assomiglia in maniera impressionante al giornale che pubblica e viceversa.
Concordi dunque nel proposito di non rinnovargli il contratto, i padroni della testata
sono in consonanza anche sulla scelta del
suo successore intendendo affidarla non ad
un antimissiroliano bensì ad un Missiroli
giovane. Hanno pure individuato il delfino.
Alcuni anni prima, l’autore de La monarchia
socialista aveva annunciato a Madame
d’avere trovato un giovane “fenomenale e
preparatissimo”, che, come lui, coltivava
interessi storici e filosofici: si chiamava
Giovanni Spadolini. Egli non soltanto gli
aveva aperto le porte del giornalismo invitandolo a collaborare ai suoi giornali, ma lo
aveva proposto alla direzione del “Resto
del Carlino”. Quindi aveva parlato di lui
come del suo successore ai Crespi che
s’erano trovati d’accordo. Tuttavia, quando
Missi è licenziato, a prendere il suo posto
non è Spadolini bensì Alfio Russo.
E Montanelli lo esortò
a fare il saggista
L’uscita dal “Corriere” fu un vero dramma
per il prestigioso giornalista che si sentì
messo da parte, fuori del mestiere, un
sopravvissuto. Andando a trovare il vecchio
amico, Indro lo confortava scuotendolo: ”Tu
sei stato tradito e ti sei tradito con il giornalismo”. Lo esortava a fare ciò che sapeva
fare meglio: lo scrittore saggista. “Perché,
almeno ora, non cominci a scrivere le cose
che hai dentro? Basterebbe che registrassi
ciò che dici e ne verrebbero fuori delle cose
straordinarie”. Il giornalista di Fucecchio
ricordò più tardì amareggiato: “Non mi ha
dato retta”. Egli riteneva che Missiroli avesse paura del giudizio dei posteri.
Abbandonata via Solferino, Missi continuò
a collaborare con quotidiani e settimanali
che pubblicavano puntualmente le sue
analisi politiche. Il suo sogno era quello di
firmare ancora un quotidiano come direttore. Un giornale con articoli di cronaca, politica e cultura. “Vorrei fare un giornale popolare dignitoso” confidò ad un collega che lo
intervistava. Era il 1968. Non si era accorto
che quel giornale c’era già: era “il Giorno”,
la pubblicazione che dodici anni prima
aveva fondato il suo amico-nemico Gaetano Baldacci. Non aveva compreso, neppure quel globale movimento che prendeva il
nome Sessantotto.
Riferendosi alla contestazione osservava:
“Questo problema non esiste. La giovinezza è un fatto, non un problema. Parlare del
problema della giovinezza sarebbe come
parlare della fioritura. La fioritura accade
naturalmente e non dà luogo ad alcun
problema”. Pur di non vedere la realtà, vi
stendeva sopra il velo della poesia e della
retorica. Mario Missiroli morì trent’anni fa,
a Roma, il 29 ottobre del 1974.
Enzo Magrì
ORDINE
6
2004
ACCORDO TRA IL CONSIGLIO
NAZIONALE (DOMINATO
DA UN’ALLEANZA MILAZZIANA DS -AN)
E LE UNIVERSITÀ DI
CHIETI, ROMA-LUMSA E TORINO
Laurea in un anno
Pronta una scorciatoia esclusiva
per i giornalisti senza titolo
(avremo 30mila nuovi “dottorini”,
ma privi di saperi)
Milano, 15 maggio 2004. I quotidiani
“Roma” e “Il Mattino”di pari data
pubblicano una notizia stupefacente.
Questo è il titolo del “Roma” (pagina 9):
“Giornalisti, varato il progetto per la
laurea breve. Caldoro: si creeranno
nuove occasioni di lavoro” (Stefano
Caldoro, è il sottosegretario alla Pubblica
istruzione-Università).
Ed ecco il titolo del “Mattino” (pagina
34): “Intesa per le lauree brevi tra
giornalisti e atenei”. In sostanza un
accordo (per ora clandestino) tra il
Consiglio nazionale dell’Ordine dei
giornalisti (dominato da un’alleanza
milazziana Ds-An) e le Università di
Chieti, Roma-Lumsa e Torino regala ai
giornalisti senza titolo (professionisti e
pubblicisti) due anni di corso (10/11
esami) sotto forma di crediti
professionali: basterà sostenere i 4-5
esami del terzo anno (con una tesi
finale di 70-90 pagine) per conseguire
la laurea di primo livello o breve (che in
questo caso è... brevissima) in Scienze
politiche, Scienze sociali e Scienze
della comunicazione.
Chi consegue la laurea breve triennale
ha, comunque, il titolo di “laureato” (non
di “dottore”, titolo che spetta soltanto ai
laureati quadriennalisti e ai laureati
specialisti).
La macchina da scrivere, la vecchia
“Lettera 22”, resta al suo posto. Per quanto riguarda gli esami di stato, la Direzione
generale del ministero della Giustizia, si è
espressa in maniera negativa sul passaggio al computer portatile. La proposta del
Comitato esecutivo dell’Ordine, per innovare e snellire la prova scritta degli esami
d’idoneità professionale, potrà, però,
concretizzarsi attraverso una modifica al
Regolamento per l’esecuzione della legge
69/1963 sull’ordinamento della professione giornalista. La proposta è supportata
da un meccanismo (messo a punto dal
consulente tecnico dell’Ordine) che annulla la memoria dell’hard disk e, quindi,
impedisce al candidato di ottenere informazioni dal disco fisso del computer.
Ma per la Direzione generale il “sufficiente
livello di sicurezza”, così raggiunto, non
basta. Infatti, consentirebbe, comunque,
accessi “fraudolenti” agli elaborati. Insomma, per ora, resta la macchina da scrivere: difficile da reperire e da usare.
Di seguito il testo del parere della Direzione generale del ministero della
Giustizia:
“L’art. 48 del Regolamento per l’esecuzione della legge 69/1963 sull’ordinamento
della professione giornalistica, nel dettare
le modalità di svolgimento della prova
scritta degli esami di abilitazione, prevede
espressamente che i candidati debbono
usare, per la stesura dell’elaborato, esclusivamente carta munita della firma del
presidente.
Essi, durante la prova, non possono porta-
ORDINE
6
2004
Pubblichiamo integralmente il testo
dell’articolo del “Roma”
NAPOLI. Coniugare l’esperienza maturata
sul campo con il gradino pia alto della carriera scolastica: è quanto si propone il progetto
“Laureare l’esperienza”, presentato ieri mattina dal vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti, Domenico Falco, e dal segretario generale aggiunto della Fnsi Mimmo Castellano
nel corso di una conferenza stampa svoltasi
alla Camera di commercio di Napoli alla
quale ha preso parte anche il sottosegretario
alla Pubblica istruzione Stefano Caldoro. L’intesa, sottoscritta dall’Ordine nazionale con
l’Università di Torino, la Gabriele D’Annunzio
di Chieti-Pescara e la Lumsa di Roma,
consentirà a tutti i giornalisti pubblicisti o
professionisti di potersi iscrivere all’ultimo
anno del corso di laurea di primo livello presso una delle seguenti facoltà: Scienze politiche a Torino, Scienze sociali a Chieti-Pescara e Scienze delle comunicazioni a Roma. In
tal modo sarà possibile valutare i crediti
formativi detenuti dai singoli giornalisti che,
se in possesso dei requisiti previsti dalla
legge, potranno conseguire l’ambito titolo. Si
tratta di un’intesa innovativa che ci auguriamo coinvolga al più presto anche le Università del Mezzogiorno, in particolare della
Campania - ha commentato Caldoro -. In tal
modo, verrà regolamentato l’aspetto che
mancava alla professione di giornalista,
ovvero quello riguardante gli esami dì stato,
ed i crediti formativi accumulati nel corso di
anni di lavoro verranno finalmente riconoscìuti. Ciò comporterà anche nuovi sbocchi
lavorativi in particolare per quanto concerne
i concorsi banditi dalla Pubblica amministrazione. E proprio sul tema del rapporto tra la
Pa e gli organi di informazione, !’incontro ha
fornito l’occasione per ribadire l’importanza
di superare i ritardi accumulati nella corretta
attuazione della Legge 150/2000, che, com’è
noto, prevede l’istituzione degli Uffici stampa
nelle Pubbliche amministrazioni con la
conseguente applicazione ai giornalisti impegnati in dette strutture del contratto nazionale di lavoro giornalistico.
Al riguardo Mimno Castellano ha preannunciato l’apertura di una “Vertenza informazione” in Campania, che permetterà un confronto del síndacato con tutti gli enti locali (Regione, Provincia e Comune) tenuti all’applicazione della legge.
Il sindacato si impegna a chiedere al Consiglio regionale di predisporre un’apposita
legge che regoli in modo chiaro e definitivo
la questione inerente l’erogazione delle provvidenze a fondo perduto per l’editoria locale
analogamente a quanto predisposto dalle
passate Giunte regionali.
ADELAIDE AUREMMA
Esami: il ministero boccia il
portatile, resta la “Lettera 22”
Franco Abruzzo:
“Spero che
il ministro Moratti
blocchi questa
immonda intesa,
che peraltro
viola la pari dignità
sociale
tra i cittadini”
“I giornalisti professionisti e pubblicisti sono
63mila circa e di questi, si ritiene, almeno
30mila non abbiano conseguito una laurea.
Rivolgo un appello soprattutto ai giovani,
perché respingano con sdegno lo sconto di
due anni di studi. Parlo come ex studentelavoratore, che ha sostenuto non più giovane i 25 esami del corso di laurea quadriennale in Scienze politiche, laureandosi con
la lode. Quell’esperienza mi è stata utilissima. Un titolo senza saperi non serve. Bisogna studiare, aggiornarsi e continuare ad
aggiornarsi per stare sul mercato con
possibilità di successo e di lavoro. Spero
che il ministro Moratti blocchi questa
immonda intesa, che è contraria alla Costituzione in quanto viola la pari dignità sociale tra i cittadini. Perché le lauree non
vengono regalate anche ai cittadini non
giornalisti? La Facoltà di giurisprudenza di
Milano, invece, ha respinto un’eguale
pretesa dei ragionieri.
“L’accordo tra il Consiglio nazionale dell’Ordine e le tre Università, con la benedizione
della Fnsi, è semplicemente scandaloso.
Non è educativo, perché offre ai giovani
scorciatoie e non indica agli stessi la dura
via del sacrificio (qual è quella di saper
conciliare lavoro e studi universitari).
“È incredibile che l’esecutivo del Consiglio
nazionale dell’Ordine, dominato da giornalisti ds del Gruppo di Fiesole e da esponenti di An o di destra (una maggioranza
milazziana), abbia potuto avallare un simile
vergognoso pateracchio. Ed è altrettanto
incredibile la benedizione della Fnsi. Eppure l’Ordine nazionale ha un presidente
eccellente con due lauree”.
Conclude Abruzzo: “Mi batto da 15 anni per
legare professione giornalistica e Università, cioè professione e saperi. E rimango
della mia idea: i giornalisti devono studiare
in Università per essere padroni degli argomenti che trattano via via e per riacquistare credibilità e autorevolezza. Oggi bisogna
pensare alla formazione continua, prefigurata dal contratto. ma mai attuata. Questa
trovata della laurea brevissima è semplicemente umiliante per chi esercita la professione più delicata tra le professioni intellettuali. Non abbiamo bisogno di patenti”.
re nella sede dell’esame mezzi di comunicazione portatili o macchine per scrivere
elettroniche con memoria.
A seguito degli accertamenti tecnici compiuti dalla competente Direzione generale
per i sistemi informativi automatizzati di
questo ministero, è emerso che il personal computer impiegato per la prova scritta degli esami di idoneità professionale dei
giornalisti costituisce, in senso stretto, una
macchina per scrivere comprensiva di
memoria.
Pertanto, essendo il dettato normativo
sopra indicato così esaustivo, non appare,
allo stato, legittimo, a parere di questa
Direzione generale, consentire l’utilizzo di
un computer portatile ai candidati, pur con
le cautele prospettate da codesto Consiglio nazionale.
Infatti, seppure il sistema realizzato, in sé
considerato, risulterebbe avere un sufficiente livello di sicurezza, la Direzione
generale per i sistemi informativi automatizzati ha evidenziato che comunque, la
conoscenza della chiave di cifratura dà la
possibilità di accedere al computer ed
all’elaborato di esame, in maniera fraudolenta, consentendo di neutralizzare i requisiti di sicurezza impostati.
Di conseguenza, un’eventuale innovazione nel senso prospettato dovrebbe essere
oggetto di una modifica del Dpr n.
115/1965 che introduca espressamente
questa possibilità, modifica di cui codesto
Consiglio potrebbe eventualmente farsi
promotore”.
(g.c.)
(12 maggio 2004)
17 (25)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Mauro Forno
Fascismo
e informazione
di Vito Soavi
Margherita Sarfatti, dopo
aver completato la stesura
del libro Dux, volle sottoporre il manoscritto al giudizio
del suo illustre amico.
Mussolini glielo restituì, accompagnandone l’approvazione con una personale
prefazione. Con queste referenze si rivolse allora all’editore Arnoldo Mondadori per
proporgli la pubblicazione
della sua opera. Prima di accettare l’incarico Mondadori
volle, per prudenza, chiedere conferma a Mussolini del
suo beneplacito, ottenendone una risposta sconcertante: “Questo libro non dovrà
mai vedere la luce”; ed alla
sua osservazione:
“Chi lo dice alla Sarfatti?”
concluse: “Si arrangi lei!”
Trascorsero molti mesi durante i quali il malcapitato
editore, con varie scuse, rimandava il momento della
composizione delle bozze,
ma quando non fu più in grado di procrastinare, le fece
preparare e, dopo le correzioni dell’autrice programmò
una tiratura di poche centinaia di copie con lo scopo di
eseguire un test di gradimento... sul mercato dell’Argentina.
Fu l’inizio di un successo travolgente. Dux ebbe moltissime riedizioni, fu tradotto in
tantissime lingue, e divenne
il trampolino che trasformò
un piccolo editore di provincia nella grandissima “Arnoldo Mondadori Editore”.
Questo episodio trova un curioso collegamento con
quanto leggo nella parte
conclusiva di Fascismo e
Informazione di Mauro Forno, relativamente all’ultimo li-
bro, scritto da Benito Mussolini Storia di un anno pubblicato anche lui dopo tormentate vicissitudini nel
1945 in 20.000 copie, guarda caso ancora da Mondadori. Fatalità dei corsi e ricorsi!
Mauro Forno per esaminare
il comportamento della stampa quotidiana nel ventennio
fascista sceglie, come filo
conduttore, l’opera di Ermanno Amicucci protagonista, come dimostra, di una rivoluzione giornalistica incompiuta. Lo descrive come
un personaggio pieno di contraddizioni, che godeva, fra i
camerati che contavano, di
uno scarso peso politico, anche forse per il suo aspetto fisico, basso e tondeggiante,
facile bersaglio delle vignette
dei giornali satirici dell’epoca.
Anche Mussolini lo sopportava appena, pur riconoscendogli una assoluta dedizione e fedeltà che l’accompagnarono fino alla fine di
questa folle avventura.
Con questa velata protezione Amicucci poté spaziare
con molta libertà di iniziativa
nel campo sociale, come segretario del sindacato e “gestore” dell’Albo dei giornalisti, e come promotore dei
Littoriali della cultura, della
Biennale d’arte e della
Mostra del cinema di
Venezia, del Centro sperimentale di Cinecittà.
Ben minori però furono, a
mio avviso, i meriti che acquisì come giornalista-scrittore. Non fu mai una grande
penna e questa immagine si
trascinò fino alla fine della
sua carriera, nel 1946, quando dall’Argentina iniziò a collaborare con il settimanale
Tempo, edito, guarda un pò,
Pierluigi Battista
Parolaio
italiano
dal suo “camerata di merende al Corriere” Aldo Palazzi.
Come direttore della Gazzetta del Popolo, che portò a
divenire il secondo quotidiano d’Italia (come tiratura ma
con quale diffusione?), egli
poté scatenare la sua fantasia perché aveva alle spalle
un editore, la Sip che, almeno inizialmente non si occupò dei conti economici.
Diede grande respiro agli
eventi culturali, introdusse la
pagina degli spettacoli, quella dell’economia, abbondò
nelle illustrazioni fotografiche, creò addirittura degli inserti settimanali stampati in
roto-ofset, col risultato di
vendere il suo prodotto a 15
centesimi quando gli costava più del doppio. La Sip, a
causa di questa allegra gestione rischiò il tracollo.
La concorrenza nel frattempo non stava a guardare. Il
Corriere della Sera, sempre
attento a far quadrare i bilanci e a realizzare utili, con una
tiratura che oscillava dalle
800.000 copie al 1.200.000
(durante la campagna
d’Abissinia) e una resa che
non superò mai il 7%, durante e nonostante le sanzioni
riuscì ad acquistare in
Inghilterra una rotativa (la famosa Hoe) gemella di quella
che stampava il Times, che
poteva sfornare 400.000 copie all’ora. Questa straordinaria produzione gli consentiva di procrastinare la chiusura del quotidiano per dedicare maggior cura alla confezione del prodotto e per
raccogliere le ultimissime
della notte.
Mauro Forno ha presentato
la rivoluzione giornalistica incompiuta (1922-1945 ) di
Amicucci non per raccontare
una storia ma per lanciare
molti sassi provocatori nel
mondo dell’informazione. Ne
ho raccolto uno per esprimere il mio punto di vista personale. La sua sconfitta più
bruciante fu la chiusura della
Scuola di giornalismo di
Roma nata nel 1930 e condannata a morte nel 1933 da
Starace. Arrivò all’epilogo
anche la laurea in Scienze
politiche a indirizzo giornalistico avviata a Perugia (gli
allievi dovevano frequentare
per 6 mesi la scuola di
Roma e una volta laureati
potevano iscriversi all’Albo).
A queste iniziative di Perugia
e Roma, Amicucci aveva dedicato molte energie sostenuto da Bottai, ma non dal
giornalista Mussolini. La
scuola e il corso di laurea
erano ritenuti, con miopia,
fabbriche di disoccupati. Non
era così. Quei “dottori giornalisti” erano guardati con
sospetto (erano critici in molti verso il regime). Amicucci
era guardato come un anticipatore dei tempi: eppure la
prima scuola di giornalismo
americana (nel Missouri) è
del 1866.
Va reso omaggio al valore
della paziente e meticolosa
ricerca delle testimonianze,
che trovano uno spazio generoso di accompagnamento del testo, senza nulla far
perdere alla scorrevolezza
del racconto.
Mauro Forno,
Fascismo e informazione.
Ermanno Amicucci
e la rivoluzione
giornalistica incompiuta
(1922 – 1945),
Edizioni dell’Orso,
Alessandria,
gennaio 2004,
pagine 272, euro 20,00
E poi ci si lamenta del calo di
vendite dei quotidiani. Se la
parola, strumento par excellence della professione giornalistica, della politica e della comunicazione, viene meno alla
funzione informativa per indulgere al pettegolezzo, al chiacchiericcio e all’attacco gratuito,
allora finisce in un magma
informe, una proliferazione
verbale che certo non invoglia i
lettori. Insomma, in un parolaio.
Un Parolaio che da dieci anni
Pierluigi Battista tiene sotto osservazione nelle sue omonime
rubriche pubblicate sulla
Stampa, e che ora escono
raccolte in volume. A leggerle
tutte insieme fanno una certa
impressione, eppure sono lo
specchio di dieci anni di dibattiti svoltisi nel nostro Paese in
tema di politica, cultura e società. Certo, per fortuna non
c’è solo questo, ma dall’antologia del Parolaio emergono caratteristiche che sarebbe difficile disconoscere, data l’abbondanza di esempi di cui
possiamo disporre ogni giorno. Tanto per dirne una, pare
che fra le passioni nazionali ci
sia la caccia al complotto, il sospetto perenne di trame occulte ordite non si sa mai bene da
chi (una cosa su cui Battista è
feroce è l’attacco indifferenziato di chi spara nel mucchio
senza chiamare per nome i
destinatari delle proprie invettive). Una tendenza che si manifesta anche nel campo della
critica letteraria, dove ciclicamente si scatenano bagarre in
cui tutti - critici scrittori editori sono contro tutti, e pazienza
se il lettore non capisce o non
è interessato a regolamenti di
conti personali. Insomma, sia-
tima della propria esistenza
prendendo idealmente la mano a Lucia per narrare cose a
lei già dette, che ora non può
più comunicare se non con
una lettera lasciata ai flutti della speranza oltre la vita.
Fin da piccolo l’autore è educato al senso del dovere.
“Prima si fanno i compiti e poi
si gioca”. È una lezione per
tutti. Soprattutto le giovani generazioni.
La guerra e la miseria fanno
crescere in fretta quei giovani ed Enzo come molti suoi
coetanei, inizia a lavorare
adolescente. Giovanissimo
entra nel mondo del giornalismo e da ragazzo prodigio
brucia tutte le tappe. La sua
carriera è nota. Direttore di
Epoca, del Telegiornale, corrispondente ed opinionista
de maggiori quotidiani italiani
(La Stampa Il Corriere della
Sera e La Repubblica), conduttore di tanti programmi televisivi e da ultimo Il Fatto
con record di ascolto straordinari. È stato testimone degli eventi storici drammatici
del secondo dopoguerra (la
caduta del fascismo, l’assassinio di John Kennedy, la
guerra del Vietnam, del
Libano, della Somalia e quella della Bosnia).
Nei momenti più difficili Lucia
gli sta a fianco e lo sprona a
tenere alto il profilo della dignità della persona. Enzo accetta i consigli e attua con linearità i principi etici dell’azionismo dell’anima. Onesti con
se stessi e con il lettore.
Una carriera prestigiosa di
giornalista che lo annovera
tra i più grandi oltre il contesto
italiano. I suoi libri sono stati
tradotti in Russia, in Giappone, in America e in Europa.
L’autore in questo volume
Enzo Biagi
Lettera d’amore
a una ragazza di una volta
di Filippo Senatore
Una strada di campagna. È
primavera. Un ragazzo e una
ragazza che si prendono per
mano e vedono l’orizzonte
come una promessa luminosa di un mondo migliore.
La guerra è appena finita ed
essi sperano un futuro felice. Il
ruscello s’infrange sui sassi
muscosi della casa paterna e
segna inesorabile il tempo
trascorso.
Enzo Biagi ha dedicato la sua
ultima fatica alla moglie Lucia.
La morte ha spezzato un’unione durata sessantadue
anni. Un amore grande e discreto, capace di vincere gli
ostacoli dell’esistenza e dell’usura del tempo.
Biagi nella Lettera d’amore a
18 (26)
una ragazza di una volta ripercorre la sua vita.
I ricordi sono un medicamento consolatorio che lenisce il
dolore e la scrittura è una
speranza che questi non vadano perduti.
Il grande giornalista e scrittore
ha perso da pochi mesi anche la figlia Anna e il dolore è
ancora più tremendo. Il viatico
della scrittura è l’unico mezzo
per non essere sommerso
dalla disperazione.
È ammirevole la pacatezza e
la dolcezza dell’esercizio della memoria. Biagi non perde
soprattutto i particolari degli
attimi. Ci fa vedere gli odori
della carta fresca ed umida di
stampa, ma anche i profumi
perduti che solo nelle case
antiche ed umili si potevano
sentire. Una festicciola di fa-
miglia pronuba di un incontro
tra torte fatte in casa, un bicchiere di Vermut e la musica
di Rabagliati. Una piccola storia d’amore sboccia “di due
ragazzi di quel tempo che
cercavano l’uno nell’altra
quella sicurezza che il mondo
in quel momento non poteva
offrire”. Era il 1943.
“Vivendo noi tutti nel mondo
delle cose, dei fatti, dei gesti,
che è il mondo del tempo, il
nostro sforzo inconsapevole e
incessante è un tendere, fuori
del tempo, all’attimo estatico,
che ci farà realizzare la nostra
libertà” (Cesare Pavese).
Lucia è un punto di riferimento per tutta una vita.
Un’educazione sentimentale
che cresce e si consolida tra
le intemperie dei giorni.
Biagi ripercorre la parte più in-
di Olimpia Gargano
mo sì una repubblica delle lettere, ma d’accusa, e per di più
a mezzo stampa.
Nella sua introduzione, l’autore delinea gli umori, anzi i malumori, che hanno caratterizzato il clima politico dei dieci
anni successivi a quello che,
riprendendo la definizione di
Paolo Mieli, Battista chiama il
“Terrore del ‘93”. Sottolinea il
vizio d’origine del bipolarismo
politico italiano, nato non “per
naturale e graduale aggregazione e ricomposizione di blocchi contrapposti ma solidamente radicati nella storia e
nel costume, bensì sotto l’effetto di una tempesta storica
che sradicò e azzerò senza
misericordia appartenenze
tradizionali, identità sedimentate ma anche etichette convenzionali, sigle, nomi, insegne e simboli strappati via con
inaudita violenza”. Questo
Parolaio è una collezione ragionata di “cose dette”. Però in
genere i collezionisti traggono
diletto dalla propria attività.
Pierluigi Battista no.Tirando le
somme, Battista parla di “sgomento e solitudine”: se è vero,
dice, che le sue “punzecchiature” sono più frequentemente
indirizzate a sinistra che a destra, è vero anche “che si soffre e si diventa ipercritici per le
malefatte di chi, per storia e vicende biografiche, per radici
generazionali e mentalità, dovrebbe esserti più vicino”.
Pierluigi Battista,
Parolaio italiano,
Rizzoli, pagine 353, euro 17
dedica alla moglie il non detto, il silenzio. L’essere e non
l’apparire. Lei ha pensato agli
altri, poco a se stessa. Ha
pensato alla famiglia ed ai nipoti ed è stato in un certo
senso la leader eroica e silenziosa di una storia; dispensatrice di consolazione
nei momenti del bisogno,
amica e compagna.
Con questo romanzo Biagi ci
fa innamorare dell’ora fuggita,
dove non si ha il tempo per
commettere errori. È un insegnamento di una strada maestra il cui esito è inevitabile.
È valsa la pena percorrerla
tutta con la dignità cui ciascuna persona aspira.
L’autore ci ha fatto scoprire in
questo libro qualche verso di
verità e di bellezza: in questo
consiste l’onore (parafrasando Edgard Lee Master).
“Io ti vedo fra gli angeli
Almen ne’ sogni allora,
E invocherei l’aurora
Dell’immortal mio dì”
(T. Solera)
Enzo Biagi,
Lettera d’amore
a una ragazza di una volta,
Rizzoli,
pagine 188, euro 15,00
ORDINE
6
2004
Diretti da Pier Franco Quaglieni
Gli “annali” da qualsiasi istituzione culturale o da qualunque università vengano pubblicati, fitti come sono di saggi,
contributi, comunicazioni, relazioni, sono un tema difficile
per una recensione… che cosa scegliere nel mare di tante
sollecitazioni? Tema assai arduo dunque, anche in questo
caso, elencare tutte le pagine significative. Dopo l’articolo
introduttivo del direttore Quaglieni, intitolato “Riforma della
scuola: gli effetti negativi di novità devastanti”, si possono
almeno fissare due filoni principali:
a) l’omaggio a Mario Pannunzio e al suo settimanale Il
Mondo tessuto in particolare da Stefano De Luca, Leo
Valiani, Elena Croce; Maurizio Ferrara, Igor Man, e sostenuto dalla riedizione di pagine note di Arrigo
Benedetti, Vittorio Gorresio, Domenico Bartoli e Indro
Montanelli;
b) la strenua seppur critica rivalutazione di Giolitti e dell’età giolittiana con le acute osservazioni di Ettore
Peyron, che traccia un singolare parallelo fra Giolitti e
Cavour, rintracciando le loro radici delle rispettive famiglie,e i confronti con Giolitti e i cattolici (Cosimo Ceccuti)
Giolitti e i socialisti (Francesco Gozzano); Giolitti e i nazionalisti (Francesco Cappellotti), Giolitti e la questione
meridionale (Francesco Compagna), finendo con le
considerazioni su Giolitti scrittore e sulla letteratura dell’età giolittiana di Giovanni Ramella, con un Giolitti visto
“tra storia e caricatura” di M.Grazia Jamarisio e Diego
Surace e con i ricordi di Alfredo Frassati, riproposti dal
nipote Jas Gawronski e di Filippo Burzio, a cura di
Giorgio Calcagno.
Anche se gli Annali ripropongono il “Ricordo di un amico”
di Eugenio Scalfari, pubblicato sull’Espresso del febbraio
1968 occorre riconoscere che in alcuni saggi si sostiene
forse con eccessiva vis polemica, che Scalfari e il suo
Espresso non sono, come pretendono appunto Scalfari &
Company, i veri continuatori del mitico Mondo. E la presenza, a tutta pagina di una vignetta di Forattini, velenosamente intitolata “Il Gegè aveva detto agli amici” (in ricordo
di una “rubrica” non so più se del “Marc’Aurelio” o del
“Bertoldo”…), vignetta che vede Pannunzio dare l’elemosina a uno Scalfari il cui corpo è ridotto a una falce e martello, aggiunge una bella fascina al falò “anti-Repubblica” acceso dai duri e puri sodali di Pannunzio. A questa presa di
posizione si aggiunge, si può ben dire, il caustico intervento di Pierluigi Battista. Il brillante opinionista della Stampa
ironizza, da par suo, su tutti i colleghi che, pur non avendo
fatto parte della redazione, pur non avendo mai collabora-
Annali del Centro
Pannunzio
Mario Pannunzio direttore de “Il mondo”
di Alfredo Barberis
to al settimanale, pur non essendosi mai seduti neppure
vicino al tavolino del caffè di via Veneto, dove Pannunzio
teneva serie “lezioni di giornalismo”, vantano fasulle familiarità o nostalgici rapporti fra allievo e Maestro con il grande direttore.
Una vera e propria chicca è la presenza di quattro lettere
inedite di Alberto Moravia a Pannunzio (la scoperta la si
deve a Loris Maria Marchetti). Siamo nel 1936, l’autore degli “Indifferenti” viaggia nelle Americhe e scrivendo all’allora direttore del settimanale Omnibus si rivela, come sempre, felice e insieme drastico nei giudizi: “New York è un
formicaio”, gli piacciono alcuni grattacieli, “ma il resto è
Iacopo Iandorio
La leggenda
del Real Madrid
di Gianni De Felice
Fa piacere constatare con
quanto coraggio e passione
un bravo editore – Limina di
Arezzo – nella crescente orgia audiovisiva di videocassette e Dvd, affidi meritoriamente alla pagina scritta il
compito di diffondere la cultura dello sport fra i giovani più
riflessivi e attenti.
E rallegra accorgersi anche
come sappia sempre scovare autori – in questo caso relativamente giovane anche
lui – capaci di far rivivere con
un racconto morbido, scorrevole, solubile starei per dire,
fatti e date, circostanze e personaggi, storie e cronache.
Come questa leggenda del
Real Madrid, che Iacopo
Iandorio narra attraverso i più
popolari fra i campioni che
l’hanno materializzata sui
campi di calcio di mezzo
mondo.
Non conosco Iandorio. Leggo
in controcopertina che ha 37
anni. La parte più leggendaria della leggenda che narra
si è svolta quando era un ragazzino. Dunque narra da
storico.
Lo fa bene, senza annoiare e
senza deformare il ritratto dei
suoi eroi. Ho ritrovato, per
esempio, il don Santiago Bernabeu, monumentone massiccio e cordiale, che conobbi
una quarantina d’anni fa, agosto ‘62, a Casablanca. Helenio
Herrera aveva portato l’Inter al
trofeo Mohammed V voluto da
Hassan II, papà dell’attuale re
del Marocco. Che nacque, a
Roma, proprio la sera che
l’Inter doveva incontrare il
Real, nelle cui file debuttava
Amancio. Per la regale circostanza la partita fu rinviata di
tre ore e don Santiago s’intrattenne coi giornalisti, sempre
più impazienti.
Raccomandava di non arrabbiarsi, altrimenti si prendeva
l’ulcera: dicendolo, si sbracò la
camicia e mostrò, come fosse
la cosa più naturale del mondo, una cicatrice che gli solcava da gola a ventre il corpaccione sudato e debordante.
Tempi meno formali. Anche
coi presidentissimi come
Bernabeu si parlava al bar,
non in conferenza stampa.
Don Santiago non “era” il
Real Madrid – come ora, cedendo un po’ alla leggenda si
santifica – ma un marpione
che del calcio sapeva tutto e
che rappresentava un sistema, un potere, una struttura
retrostante, troppo potente
per esporsi. Cioè: Raimundo
Saporta, uomo d’affari e di finanza destinato a diventare
numero uno del Banco de
Espana; Juan Antonio Samaranch, presidente del Comitato olimpico nazionale e lo
sarà poi di quello mondiale; il
principe don Alfonso di Borbone, gran tifoso e grande
sportivo (morì sciando) con
casa nel quartiere Salamanca proprio sopra lo stadio Chamartin; don Juan
Carlos – pretendente al trono, affabile, ottimo italiano,
scendeva negli spogliatoi di
San Siro quando giocava il
Real – che è il re di adesso.
Perché tanti pezzi da novanta
alle spalle del Real? Perché
con la popolarità e la gloria
del Real si puntellavano tante
cose. Per esempio, l’istituzio-
Come se il pallone si trasformasse in un aerostato. Battute, aneddoti anche dell’infanzia, tracciano un quadro di
una passione mai sopita.
L’autore definisce il tifo calcistico “una forma benefica di
regressione infantile” e non
intende rinunciarci. Condivide
con i lettori-tifosi ( dei quali
ospita lettere ed idee) impressioni e sensazioni con un
dialogo che si adagia sul lettino del psicanalista. Lo sfogo
porta al superamento di tensioni e svaniscono i fantasmi
delle figurine Panini.
Un cimento che farebbe impallidire la scuola sociologica
di Chicago. Dice il lettore
Fiorenzo Baini di Bollate. Noi
interisti “ci siamo fatti scudo
con l’ironia che è sempre la
luce dell’intelligenza”. Altri lettori propongono una filosofia
dell’interista rassegnato l’”interosofia” paragonabile alla
sindrome di solidarietà collettiva per le disgrazie del club.
Considerazioni semiserie dilatano l’immaginazione permeando la realtà di una nebbiolina che si trasforma in un
Beppe Severgnini
Altri interismi
di Filippo Senatore
Un bracchetto col fazzoletto
al collo. Un labirinto con al
centro l’emblema della squadra del cuore. Un uomo che
rinuncia disilluso a guardare
nel cannocchiale.Un bambino di spalle che guarda il labirinto ed indossa la maglia del
calciatore del cuore. Al centro
c’e l’obiettivo, la gioia e il premio. Come arrivarci?
Dopo la precedente fatica di
Interismi del 2002, Beppe
Severgnini continua il terORDINE
6
2004
mentone con il libro Altri interismi, giunto ormai alla terza
edizione. Per chi non l’avesse
capito nelle puntate precedenti, le calamità della squadra del cuore continuano in
un crescendo, dove la realtà
supera l’immaginazione. Lo
sfogo inizia con una garbata
lettera d’incitamento ai colori
e ai comuni sentimenti di tifo
calcistico, rivolta al presidente dell’Inter, Massimo Moratti.
Poi si sviluppa per magia l’elogio alla Milano poetica di
Dino Buzzati e di Giampiero
Neri, fratello di Peppo Pontiggia.
spesso di una bruttezza notevole”, le donne “hanno la testa grossa, niente petto, niente fianchi, parlano con il naso
e portano gli occhiali. Però sono graziose”; il Messico “è
bello ma forse non valeva la pena di farsi quattro giorni di
ferrovia per vederlo”. Tra una stoccata e l’altra il giovane
Moravia trova il tempo di dare consigli grafici a Pannunzio
(“il formato non mi piace troppo”, “dovreste cambiare i caratteri”, le fotografie devono essere attuali e “non estetiche
o ironiche”), pensare che proprio queste sono sempre state un “pallino” di Pannunzio e di Longanesi (ne ricordo una
di Hailè Selassié colto dall’obiettivo accanto a una mitragliatrice, e la fulminante didascalia che ironizzava “Il
Negus ritratto in un patetico atteggiamento antiaereo…) e
di raccomandare la sua futura sposa (“invita per favore a
collaborare la signorina Morante. Se lo fai, mi fai un favore
personale”). Qualche anno dopo, nel 1941, il padre gesuita Pietro Tacchi Venturi celebrava il matrimonio fra Alberto
Moravia ed Elsa Morante. Tra i testimoni, ovviamente,
Mario Pannunzio.
Scorrendo l’indice del più che sostanzioso volume è curioso trovare il nome del pur grande cantautore Paolo Conte.
Si scopre poi che all’avvocato astigiano (ricordate una delle sue più belle canzoni, e purtroppo poco conosciuta dedicata, appunto, al teatro della sua città?) è stato assegnato il premio Pannunzio 2002.
Non ci resta, dunque, che leggere l’intervista fattagli da
Paolo Fossati intitolata “L’ elegante semplicità di Paolo
Conte” e annotare alcune sue risposte dalle quali si apprende che i suoi modelli musicali, “fra i tanti possibili” sono César Frank, Giuseppe Verdi, Louis Armstrong, Art
Tatum e, fra gli scrittori, “anche qui a caso”: Kipling,
Seferis, Pascoli, Sbarbaro. Pascoli e Sbarbaro: due nomi
che dovranno tenere a mente tutti quelli che, in avvenire, si
proporranno di preparare una tesi di laurea su Paolo
Conte poeta. Davvero in quello che scrive c’è tanto jazz,
ma anche tanti echi degli autori dei “Canti di Castelvecchio
(come non rammentare la pascoliana “Bicicletta”?) e di
“Trucioli” (che potrebbe essere benissimo il titolo di una
sua canzone…). Ecco, partendo da un omaggio a
Pannunzio e da una “rivisitazione” di Giolitti, siamo arrivati
a Paolo Conte. Già, questo è il bello degli Annali, ragazzi.
Annali del Centro Pannunzio,
direttore Pier Franco Quaglieni,
anno XXXIV, 2003/2004,
pagine 418, s.i.p.
ne monarchica temporaneamente sospesa dal regime
franchista. La “promozione”
internazionale di una Spagna
che certo non usciva da una
guerra mondiale, ma da un
periodo di oblio e di arretratezza economica sì.
Con la conquista delle prime
cinque coppe dei campioni e
l’ingaggio dei migliori calciatori del mondo, il Real fu il fiore all’occhiello del Caudillo, la
fiamma accesa della monarchia, il miglior testimonial di
una hispanidad che si rimodernava e che si allineava al
passo dell’Europa. Perciò il
Real Madrid fu incoraggiato e
aiutato in tutti i modi – ma
proprio in tutti – a diventare
leggenda: i catalani tifosi del
Barcellona non glielo hanno
mai perdonato, ma da buoni
commercianti alla lunga – in
nome delle esportazioni e
della peseta – hanno capito.
Ho rivisto nelle pagine di
Iandorio – assai ben ritratto,
dall’infanzia nel “caminito”
della Boca a Buenos Aires ai
trionfi del Chamartin - l’Alfredo Di Stefano, la saeta rubia, che mi accolse nella villa
da torero che s’era costruito
fumetto alla Dick Tracy.
A volte torna la mitologia
omerica. Un dio controlla i
destini della squadra. Una
sorta di maledizione con l’urlo finale “Patroclo” di una vecchia trasmissione radiofonica.Severgnini tiene il tutto
sotto una regia linguistica impeccabile senza alcuna smagliatura, inviando sia a club e
che ai tifosi messaggi di incitamento.Non mollare. Ogni
sconfitta bisogna tesaurizzarla alla ricerca di nuove vittorie. Temprare un’identità senza arrendersi. È uno ottima ricetta non solo per il calcio.
Colori, nuvole e soprattutto
festa per esaltare la parte sana di uno sport popolare che
accende passioni imprevedibili in una città come Milano.
Lotta senza quartiere ai cugini come nel racconto di
sulla Sierra e posò per una
foto accanto al monumento
che aveva voluto nel giardino:
il monumento al pallone.
Ho rivisto il Butraguenho di
Querètaro, Messico, mondiale ‘86: quello dei quattro gol ai
danesi: el buitre idolatrato dai
tifosi, piccolo, travolgente, fulmineo. Nei tiri come nelle risposte, taglienti come rasoiate. Avrei voluto rivedere anche altri ma il libro, nonostante il titolo, privilegia più la cronaca che la leggenda. C’è un
po’ di squilibrio: cinque personaggi per sessant’anni (Zamora, Bernabeu, Di Stefano,
Gento, Butraguenho) e cinque per meno di vent’anni
(Raul, Roberto Carlos, Zidane, Ronaldo). Via, Zidane
e Ronaldo i giovani li conoscono anche fuori dalla leggenda del Real: non era meglio fargli scoprire Ferenc
Puskas, il “colonnello” che
scelse la libertà?
Iacopo Iandorio,
La leggenda
del Real Madrid,
Edizioni Limina,
pagine 147, euro 13,50
Molnar, ma alla fine può prevalere una sorta di nazionalismo preterintenzionale.
Gallerie di memorie vecchie
e nuove, icone indelebili o da
dimenticare.
Severgnini scava attraverso il
pretesto del calcio, i ricordi
collettivi di una generazione
suscitando curiosità ed emozioni a coloro che stanno lontano anni luce dal mondo del
calcio.
Come ad esempio quelli
che... la scuola di Chicago.
Beppe Severgnini,
Altri interismi,
un nuovo viaggio
nel favoloso labirinto
nerazzurro,
Rizzoli editore,
pagine 157, euro 9,50
19 (27)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
G. Montefoschi
La sposa
di Olimpia Gargano
Sergio Nava
Veronica Guerin. Una giornalista
in lotta contro il crimine
di Giacomo de Antonellis
Una donna straordinaria.
Una madre cattolica. Una
giornalista vittima del suo
coraggio.
Ecco in sintesi i tratti salienti
di Veronica Guerin, protagonista del primo libro di un
giovane scrittore da poco
entrato nei ruoli della stampa italiana: Sergio Nava, 28
anni, inserito nell’emittente
Radio 24, con laurea di lettere all’Università cattolica e
un’esperienza di free lance
per testate di lingua inglese
in Irlanda.
E proprio da questo rapporto
è nata la ricerca sul personaggio e l’idea di costruire
un’inchiesta sull’assassinio
della collega.
In contemporanea, anche altri si erano mossi puntando
su saggi (in Irlanda ne sono
già usciti quattro) e sulla ricostruzione cinematografica
della vicenda: così sono nati
i film Quando cade il cielo di
John MacKenzie e Il prezzo
del coraggio di Joel Schumacher. In entrambi i casi a
sorprendere lettore e spettatore è il volto diverso di un
paese che solitamente viene
considerato un meraviglioso
angolo di verde e di pace, e
che qui ritroviamo crocevia
di attività criminali dalla mafia al traffico di droga.
Veronica Guerin era entrata
in giornalismo quasi per caso ma aveva rapidamente
compreso la necessità di
rompere gli schemi di un
mestiere potenzialmente forte ma praticamente addormentato, anche per colpa di
una legge sulla “diffamazione” (parliamo dell’Irlanda ma
sarebbe bene guardare anche in casa nostra) che garantisce i prevaricatori meglio delle loro vittime.
La scheda biografica della
protagonista si racchiude in
un arco di 37 anni. Nata il 5
luglio 1959 in un sobborgo a
nord di Dublino, è stata uccisa il 26 giugno 1996 da un
killer in moto mentre attendeva il verde di un semaforo
su una strada centrale della
sua città.
Nel frattempo era stata educata in un collegio religioso,
aveva svolto attività sportiva,
si era diplomata come contabile, aveva svolto vita politica con la Fianna Fail ed
esercitato pubbliche relazioni, nel settembre 1985 si era
sposata con un imprenditore
edile conosciuto nel partito e
dal matrimonio nasceva
Cathal.
Soltanto nell’autunno 1990
la dinamica Veronica aveva
compreso che per fare qualcosa di concreto a sostengo
della società irlandese doveva stabilire un contatto a largo raggio con la gente: ed
era scesa sul campo della
comunicazione prima nel
Sunday Business Post, poi
con il Sunday Tribune e infine sulle pagine del Sunday
Indipendent autorevole foglio dell’isola.
Forse non era casuale la
predilezione per le testate
settimanali: ciò le consentiva
di lavorare anche a casa, di
sviluppare inchieste ben documentate e di seguire la
crescita fisica e formativa del
figlio. Una vita ordinata, da
donna normale.
Perché allora è stata uccisa
Veronica Guerin? Il suo giornalismo era troppo incisivo,
scopriva intrecci mafiosi tra
criminalità e strutture civili,
che puntualmente denunciava ricorrendo a nomi fittizi
(The Monk, The General,
Psycho, Factory John, ma gli
addetti ai lavori comprendevano bene i riferimenti) per
aggirare la legge sulla “diffamazione”. E non temeva di
sfidare le varie ganghe andando a scovare e a intervistare gli stessi criminali.
Niente la distoglieva dall’intento: minacce via telefono e
aggressioni psicologiche,
persino un traumatico pestaggio con dolorose conseguenze. Finché la criminalità
organizzata - incapace di zittirla - ne decideva l’eliminazione fisica.
Un delitto che ha costituito
un errore gravissimo, in
quanto capace finalmente di
scuotere la coscienza dell’opinione pubblica e della
stessa politica. Tutti hanno
gridato “basta” inducendo il
governo di Dublino a stringere i tempi per provvedimenti
anticrimine, con l’aumento
degli organici della polizia,
con la creazione di una task
force costituita dall’unione di
organismi abituati a lavorare
in sedi separate (polizia, fisco, dogane, dipartimento
affari sociali) e con l’inasprimento delle condizioni carcerarie.
I risultati sono stati immediati. Il maggiore indiziato quale
mandante del delitto, Factory John ovvero John Gilligan
che si dichiara allevatore di
cavalli, viene bloccato a
Londra per traffico di valuta
e condannato a quattro anni.
Uscito dalle prigioni britanniche, rientra tranquillo a
Dublino.
Qui la polizia lo ferma portandolo in tribunale con accuse di complicità nell’omicidio Guerin e di narcotraffico.
Il criminale si mostra sicuro
e sprezzante. Dopo un lungo
iter processuale, il giudice
legge la sentenza: non è stato raggiunta, oltre ogni ragionevole dubbio, la prova del
suo ruolo nel delitto e pertanto viene prosciolto dall’accusa di omicidio. Gilligan
appare raggiante. L’ha quasi
fatta franca.
Ma la situazione si capovolge dopo la pausa pranzo. Si
torna in aula per il procedimento sul narcotraffico. Il
giudice si rivolge all’imputato: “Lei è responsabile per la
valanga di droga che ha invaso in questi anni il nostro
paese”. E lo condanna a 28
anni di carcere, la pena più
pesante mai inflitta in Irlanda
per reati di stupefacenti.
Gilligan riacquisterà la libertà attorno agli 80 anni: in
genere, da quelle parti le pene si pagano senza sconti fino all’ultimo giorno.
Il libro del giovane Nava si
legge con trasporto perché
ben documentato e scritto
con passione.
Sergio Nava,
Veronica Guerin.
Una giornalista in lotta
contro il crimine,
Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo 2003,
pagine 210, euro 14,00
Di spose, intese nel senso di
mogli, questo romanzo offre
quattro possibili interpretazioni: Silvia, che, come si sarebbe detto una volta, muore di
crepacuore dopo che il marito
se n’è andato di casa; Carla,
figlia di Silvia e sorella di Gino
Giusti, il protagonista; e infine
Gianna e Francesca, che di
Gino sono rispettivamente
amante e consorte.
Ognuna di esse è moglie, ma
nessuna delle quattro sembra
essere la sposa evocata nel titolo. O meglio, ognuna ne
conserva una traccia, un’essenza inafferrabile: e forse
non potrebbe essere diversamente, se, come sembra essere nelle intenzioni dell’autore, al termine “sposa” si attribuisce un senso più remoto,
quello di una figura femminile
“antica” a cui la metà maschile
aspira a ricongiungersi, complemento indispensabile del
Sé primigenio in una tradizione mistico-filosofica che va
dalle Upanishad (citate in
apertura dell’ultima parte del
romanzo) a Platone. Intesa in
senso simbolico, la parola
evoca suggestioni bibliche.
Anche questo nuovo romanzo
di Montefoschi è costellato di
una moltitudine di dialoghi minimi - non però minimalisti -,
frammenti nei quali si scompongono emozioni di un tempo lento, assorto, nella cui rappresentazione verbale ogni
“segno”, dai gesti agli arredi
domestici, è descritto con una
minuziosità che verrebbe da
definire liturgica: è la liturgia
della quotidianità, quell’attenzione insistita, se non addirittura estenuata, tanto agli oggetti quanto appunto ai dialoghi, già cara alla narrativa di
Montefoschi, e qui riconfermata e come addolcita.
La storia, anzi le storie comprese nel libro, ruotano con
forza centripeta intorno alla famiglia Giusti, il cui perno è costituito da Carla, che dopo la
morte della madre assume su
Angelo Agostini
Giornalismi
Pietro Suber
Inviato di guerra
Maria Pia Pozzato Leader, Oracoli, Assassini
di Paola Pastacaldi
Tra un ismo e l’altro, giornalisti e ricercatori cercano di
cogliere il cuore del cambia-
mento epocale di una professione che è sempre stata
la più osannata e la più criticata (mai come oggi) e cercano di fissare il chi e che
cosa del fare informazione
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L’informazione su misura.
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20 (28)
oggi. Angelo Agostini, direttore di “Problemi dell’informazione”, il principale periodico italiano sull’argomento
(che per anni è stato diretto
da Paolo Murialdi) e professore all’università di Bologna
e allo Iulm di Milano, descrive la nascita del giornalismo
d’impresa che negli ultimi
trent’anni anni si è ampiamente consolidato (tanto da
soffocare il giornalismo,
quello vero, ndr) fino ad approdare alle imprese legate
alle nuove tecnologie speranzose di fare affari. I primi
nomi dei personaggi al centro della trasformazione del
giornalismo, tavolta anche
“padroni”, sono naturalmente Eugenio Scalfari con la
sua creazione di “Repubblica” e Silvio Berlusconi e
l’informazione pubblicitaria e
televisiva che ha invaso
l’Italia con il suo annoso conflitto d’interessi. Interessante
sul tema maketing e redazione (“che marciano uniti, o
quasi”, spiega l’autore) è il
capitolo “Il quotidiano totale:
è il marketing, bellezza!” a
pagina 119.
Di buona lettura è il libro di
Pietro Suber, inviato del Tg5,
che racconta la sua esperienza sul fronte iracheno e
su quello afgano. Una scrittura densa di storie e tesa,
dove Suber non scorda di
raccontare quando l’informazione di guerra viaggi ormai
sulla propaganda costruita
per l’opinione pubblica, su
immagini di repertorio offerte
dagli apparati militari.
Direbbe Umberto Eco “i fatti
eventi” e più eventi delle
guerre che abbiamo avuto
negli ultimi anni credo non ci
sia stato nulla. Dispiace solo
che Suber facendo una citazione più che meritoria, cioè
Evelyn Arthur Waugh (Londra,1903-1966), che scrisse
in Inviato speciale (Guanda)
cosa signficasse fare l’inviato di guerra con grande ironia, lo scambi per una don-
na. Waugh era uno scrittore,
popolarissimo in Inghilterra
negli anni Trenta, ex giornalista.
Suber si salva da questo
spiacevole inghippo con la
vena ironica che usa nel descrivere la truppa degli inviati vestiti come Indiana Jones
tra vizi, manie, prodezze e
ansie, che alle volte rendono
tutti grotteschi di fronte alla
Storia (Evelyn Waugh, fu in
questo senso un grande
maestro).
Sulle analisi semiotiche dell’informazione - fatta alcune
eccezione specialissime per
Umberto Eco o anche Roland Barthes - mantengo forti dubbi. Sembra leggendo il
libro Leader, Oracoli, Assassini di leggere una spiegazione postuma e/o estranea
di qualcosa che invece si conosce benissimo.
È un po’ come criticare un
quadro anche famoso e sostenere a posteriori il perché
e il come l’artista ha usato
di sé il compito di mantenere
saldi i legami familiari. Una figura di non facile individuazione quella di Carla che, all’inizio del romanzo, ancora ragazza, troviamo alle prese
con certe sospensioni dell’animo, un distacco trasognato da
luoghi e persone che in alcuni
momenti fanno pensare a
un’altra Carla, quella degli
Indifferenti di Moravia.
Gino Giusti, il protagonista, è
un cardiologo: una professione scelta forse per contrappasso, visto che nelle faccende di cuore il dottor Giusti si
trova decisamente a disagio.
Impacciato e maldestro nel
suo lasciarsi amare da una
donna inquieta come Gianna,
moglie del suo migliore amico,
sperimenta la stessa inabilità
sentimentale anche nel rapporto con Francesca, la donna che ama e con cui si unisce in matrimonio.
Particolare curioso, tutti i personaggi di questo romanzo
prima o poi avvertono “un peso sul cuore”, un male fisico o
tutto interiore, ma comunque
sempre precisamente localizzato: un disagio inesprimibile,
la morsa di una sofferenza a
volte mortale (come nel caso
di Silvia, madre di Gino, o del
suo giovanissimo paziente
cardiopatico).
Per diventare fecondo, l’amore
fra Gino e Francesca deve
temprarsi alle prove della sofferenza e del distacco, al termine delle quali, durante un diluvio dalla potenza rigeneratrice, i due si ricongiungeranno
nella stessa dimensione fisica
e sentimentale: solo allora, ritrovandosi l’uno nell’altra, riusciranno a perdersi del tutto.
Giorgio Montefoschi,
La sposa,
Rizzoli, pagine 333, euro 17
un colore e una certa forma.
Sarà vero?
Non so. Una cosa è certa:
quando un giornalista scrive
e realizza servizi, impagina
e sceglie foto, non pensa affatto a tutto quello che gli
viene attribuito da alcuni manuali universitari.
D’altro canto le notizie hanno a che vedere con i fatti e i
fatti sono più che mobili e difficilmente inchiodabili ad uno
schema fisso. In fondo le regole del giornalismo si fanno, si disfano e si ricomincia.
Chi riesce a codificarle forse
è un genio.
Angelo Agostini,
Giornalismi.
Media e giornalisti in Italia,
il Mulino Contemporanea
pagine 208,
euro 12,00
Pietro Suber,
Inviato di guerra.
Verità e menzogne,
Editori Laterza
pagine 202,
euro 14,00
Maria Pia Pozzato,
Leader, Oracoli,
Assassini.
Analisi semiotica
dell’informazione,
Carocci,
euro 19,10
ORDINE
6
2004
L A
Mario Pancera
La morte assurda
di Ottone Rosai
di Dario Fertilio
Ci sono libri che nascono
d’impulso e altri che prima di
vedere la luce richiedono
anni di gestazione. Migliori i
primi, di solito, perché più
freschi e diretti; pericolosi i
secondi per i loro autori, che
rischiano di scottarsi per eccesso di vicinanza al loro oggetto.
Mario Pancera ha dedicato
un libretto a una sua passione di gioventù: il pittore
Ottone Rosai. Opera del secondo tipo, evidentemente,
cioè lungamente meditata e
macerata, come del resto
l’autore confessa nella sua
fulminea premessa. “Libretto”, invece, se si guarda alla
misura e al formato (più o
meno quelli che un tempo i
teatri riservavano ai libretti
d’opera); romanzo di testimonianza intenso e profondo, infine, se ci si riferisce alla sostanza.
Perché Mario Pancera, capitano di lungo corso del giornalismo, capace di legare il
suo nome a testate storiche
come Il Corriere d’Informazione (dove ci siamo conosciuti in anni lontani) e La
Domenica del Corriere, ma
anche a Il Giornale, La
Repubblica o La Stampa, ricostruisce l’ultimo giorno di
vita di un pittore vagamente
maledetto e sicuramente geniale, quell’Ottone Rosai rimasto per tutti questi anni un
suo irraggiungibile oggetto di
desiderio. La narrazione, insolitamente oscillante fra la
cronaca e il cammeo, inquietante per l’atmosfera di so-
spensione e presagio che vi
traspare, appare fissata in un
giorno, alla metà di maggio
del 1957, quando il pittore toscano già malato si dirige in
macchina da Firenze ad
Ivrea insieme a due collaboratori e amici. Lo scopo apparente è quello di allestire e
inaugurare una mostra personale dell’artista nella città
piemontese; ma il senso
profondo dell’avvenimento è
in realtà un viaggio verso la
morte, tante volte accarezzata da Rosai nei suoi momenti
neri di malinconia, e forse inconsciamente voluta e cercata di fronte all’impossibilità
di vivere una vita normale.
Dunque, Ottone Rosai si
mette in viaggio alla volta di
Ivrea passando per Milano,
la stagione è già tiepida ma
nella narrazione di Pancera
affiora come la sensazione
di un temporale imminente.
Proprio mentre l’auto guidata da un amico di Rosai procede verso Ivrea, altrove in
Europa si preparano infatti
altri drammi: il marchese
Alfonso De Portago investirà
e ucciderà nove spettatori
mentre corre la sua Mille
Miglia; il barone austriaco,
attore e regista Eric von
Stroheim chiude per l’ultima
volta gli occhi nel suo castello francese di Maurepas; si
spegne nella clinica romana
dove è ricoverato un altro famoso toscano, Kurt Suckert,
ovvero Curzio Malaparte. E
la morte che aleggia in tanti
luoghi diversi coglierà anche
Ottone Rosai quella stessa
notte, nella camera d’albergo in riva alla Dora dove è
arrivato poche ore prima.
Autori vari
Milano capitale
di Mario Pancera
È un volumetto assai compatto, ma pure riccamente documentato (ogni capitolo ha lunghe e serie note bibliografiche) che il Rotary Club di
Milano, costituito nel 1923, ha
dedicato alla città per il suo ottantesimo compleanno. In un
primo tempo i rotariani – è
spiegato nella prefazione di
Luciano Martini – avevano
pensato di pubblicare la storia
del loro ultimo decennio, poi è
sorta un’idea diversa. È interessante conoscerne il perché: “Prevalse un’idea più
ambiziosa: quella di aiutare
Milano, la nostra città, ad assumere ancora una volta quel
ruolo di preminenza morale,
di priorità culturale oltre che
economica, che, per ragioni
che tutti conosciamo, è andata lentamente sgretolandosi”.
Il corsivo è mio, per sottolineare come qui non si intenda una “capitale” rozzamente
burocratica e degradata a livello di mera antagonista di
ORDINE
6
2004
altre città, ma di una vera,
grande città nella migliore e
più alta delle accezioni. Non
tanto capitale di un Stato, insomma, ma di una società. A
questo scopo, per strutturare
il libro è stato chiamato lo storico Giorgio Rumi, che del
Rotary è socio onorario; i curatori delle tre sezioni (Milano
romana e preromana, medioevale, napoleonica) sono
tutti docenti all’Università degli Studi.
È dunque chiaro che queste
pagine non trattano soltanto
dei nomi e delle figure di maggior spicco, militari o religiose,
dell’arte o della scienza, ma
contribuiscono a mettere in rilievo movimenti e impulsi civili
– naturalmente, anche mercantili, economici e finanziari;
in certo modo “capitalistici”,
ma non solo – che hanno
condotto la città e con essa
l’area lombarda a farsi avanti
nell’istruzione, nel miglioramento dei rapporti tra i vari
ceti, nella diffusione della sanità pubblica, nel concepire il
progresso insieme materiale
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Una “morte assurda”, come
la definisce Pancera nel titolo del libro, più simile a un incubo d’artista che a una situazione reale, che per questo si imprime nella mente e
nell’immaginazione del lettore.
Insolito “quasi romanzo”,
questo di Mario Pancera,
che va probabilmente oltre le
intenzioni del suo autore.
Sembra davvero un libretto
d’opera per una composizione che non fu scritta. A meno che si consideri tale la vita di Ottone Rosai tratteggiata in queste pagine. Un coacervo di contraddizioni vissute da un “bestemmiatore
credente, un anticlericale
che pregava Dio ed era superstizioso, un povero ricco,
un solitario che amava la
compagnia”. Ancora: un violento dall’animo gentile e,
potremmo aggiungere, un
fascista ribelle, un popolano
individualista e malinconico.
Tutto questo, suggerisce
Pancera, potrebbe spiegare
la duplicità della sua ispirazione e delle sue opere: quadri che sembrano a volte sereni e pieni di speranza cedono improvvisamente il
campo ad altri cupi e neri,
quasi cattivi.
Probabilmente proprio questa duplicità artistica ha affascinato Pancera fin da giovane, trasformando ai suoi occhi i quadri di Rosai in oggetti impossibili del desiderio (a
causa dei prezzi, come confessa lui stesso, sempre più
alti e inarrivabili per chi vive
di solo giornalismo). Il meno
che gli si possa augurare,
ora che scrivendo questo libretto ha onorato il suo debito d’amore verso il pittore, è
che presto un Rosai se ne
stia davvero appeso alla sua
parete.
Mario Pancera,
La morte assurda di
Ottone Rosai,
Edizioni Acquaviva, C.P.
AP 29
pagine 60, s.i.p
C. Didier e G. Galzerano
I Capozzoli e la rivolta
del Cilento del 1828
e intellettuale, nello spirito di
libertà. Ciò è avvenuto nei secoli pur con le rivolte e le rivoluzioni, le battaglie patriottiche
e quelle sociali, ovvero con i
lutti e le divisioni degli animi a
tutti ben noti, ma è avvenuto e
ha dato un risultato: Milano ha
una posizione eminente in
Europa e una fama da consolidare nel mondo. Deve mostrarsi non soltanto leader,
ma vera capitale, il cui impero
non si basa su semplici limiti
geografici e politici, perché attiene a una sfera affatto diversa e più complessa del disbrigo degli “affari correnti”.
L’esame, che comincia con le
invasioni dei Galli (o Celti) descritte da Tito Livio si ferma ai
primi dell’Ottocento (periodo
napoleonico), cioè ad anni
abbastanza vicini e nello stesso tempo lontani per essere
osservati con lenti umane il
meno appannate possibile.
L’ultima pagina riporta una
tabella con dati assai curiosi
per qualsiasi lettore: nel
1804, ovvero duecento anni
fa, Milano contava 140 mila
831 abitanti e la popolazione
attiva era di 49 mila 851 individui, ma in essa venivano
considerati “attivi” – questo è
sicuramente singolare – i
482 accattoni e i 392 sospetti
(politici, penso io, forse malandrini), che costituivano
l’1,76 % del totale. Ma c’erano anche 3323 “possidenti
del reddito”, 6,33%; 2401 impiegati pubblici, 4,57%; 113
medici, 133 chirurghi e 119
farmacisti, con 814 “fabbricatori (padroni)” che avevano
1487 dipendenti.
I mercanti con i loro inservienti erano oltre 2600, circa il 5
%; il commercio al minuto di
alimentari e servizi era nella
mani di 2811 venditori che
avevano alle loro dipendenze
altre tremila persone. Una categoria molto consistente era
quella degli artigiani con i loro
inservienti, formata da oltre
13 mila individui cioè più di un
quarto di tutti i milanesi attivi
“sospetti” compresi. I pittori,
incisori e scultori erano 247
cioè lo 0,47%; i maestri di
scuola rappresentavano una
minoranza: solo 243 cioè lo
0,46. Banchieri e negozianti
calcolati insieme erano 130
(0,25%), mentre gli studenti,
immagino di ogni livello, erano 2167 ovvero il 4,1% del totale. La categoria più numerosa? Quella del personale di
servizio: 10 mila 718 addetti,
oltre il 20%, ovvero in media
un milanese attivo su cinque
faceva il servitore.
Autori Vari,
Milano Capitale,
Editrice Abitare Segesta,
pagine 254, s.i.p.
di Alfredo Barberis
Occorre precisare subito che,
per comprendere meglio questo libro, dedicato a tragico
epilogo di una dimenticata insurrezione meridionale bisognerebbe avere letto almeno
uno dei saggi che l’intrepido
Giuseppe Galzerano ha via
via pubblicato, in questi anni,
con i tipi della casa editrice da
lui stesso fondata, vale a dire:
Le Memorie di Antonio
Galotti. La rivolta del Cilento
del 1828”, e Stragi e speranze nel Cilento del 1828.
Già, perché nell’ ultima sua fatica di serio studioso del passato della propria amatissima
terra, l’autore si occupa soltanto della cattura dei tre fratelli “fuorbanditi” e del loro
compagno d’avventura Galotti, del processo-farsa celebrato a Vallo della Lucania,
della fucilazione dei condannati e della feroce messa in
scena voluta da Francesco
Saverio Del Carretto, “il macellaio del Cilento” che ordinò,
dopo la fucilazione, di decapitare i cadaveri e di esporre le
teste mozzate nei paesi di origine quale orrendo monito alle
popolazioni…
L’autore ha compiuto una ricostruzione da manuale di storiografia: ha consultato gli archivi di Stato di Napoli e di
Salerno, ha riesumato i verbali
del processo (spesso firmati
con una croce perché gli interrogati erano, o si dichiaravano
analfabeti…) ha corredato il
volume di riproduzioni fotografiche degli “editti” contro i
Capozzoli
emanati
da
Francesco I “per la grazia di
Dio re del regno delle Due
Sicilie” degli articoli del
Giornale del Regno delle
due Sicilie sulla cattura e l’uccisione degli insorti, del verbale della Gendarmeria Reale,
del quadro del pittore Cenni
sulla strage degli insorti cilentani: una scena davvero da
Grand Guignol, con in primo
piano il palo su cui è infissa
una testa ancora sanguinante, e attorno la disperazione e
l’orrore di parenti, donne,
bambini.
Il volume reca anche la firma
di Charles Didier, il giovane
giornalista francese che,
avendo conosciuto il Cilento in
quegli stessi anni, ed essendo
stato perseguitato dai gendarmi locali come sospetto affiliato alla Carboneria, ha denunciato in molti articoli e nel saggio I Capozzoli e la polizia
napoletana, (qui tradotto per
la prima volta) il barbaro comportamento degli sgherri borbonici.
Certo, ripeto, su tratta di un
saggio, meglio di più saggi,
che fotografano soltanto un
segmento della complessa vicenda, quello finale, e non
raccontano i precedenti.
Avendo stabilito di pubblicare
testi e documenti di una sola
“parte”, cioè quella poliziesca,
inquisitiva, in ultima analisi
esclusivamente repressiva, i
Capozzoli sono visti e trattati
soltanto come dei feroci “fuorbanditi”. Per rendere il volume
di più agevole comprensione
forse avrebbe giovato inserire
una premessa socio-politica
che spiegasse chi erano veramente i fratelli Capozzoli, quali
ideali perseguivano, perché
lottavano e contestavano il po-
tere borbonico. Insomma, al
lettore medio non profondo
conoscitore della storia del
nostro profondo Sud, rimasto
forse legato ai versi della
Spigolatrice di Sapri, che
Mercantini dedicò alla sfortunata spedizione di Carlo
Pisacane: ricordate, “Eran trecento, giovani e forti e sono
morti”, non basta leggere le fin
troppo alate parole con le
quali Giuseppe Mazzini ha voluto rendere omaggio al “fratello di lotte e di speranze”
Charles Didier nel IV fascicolo
de La giovane Italia, e qui riportate integralmente.
Il dubbio sicuramente ingenuo
che ogni non-meridionalista di
professione si pone una volta
chiuso questo esauriente libro
dedicato però unicamente alla
cattura e al martirio dei quattro
ribelli, e non al loro progetto
politico- insurrezionale, rimane. Che rapporti esistevano
fra la Carboneria e i seguaci
dei Capozzoli?
Charles Didier e
Giuseppe Galzerano,
I Capozzoli e la rivolta del
Cilento del 1828,
Galzerano Editore,
pagine 246, euro 11,00
Ordine/Tabloid
ORDINE - TABLOID
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Consiglio dell’Ordine dei
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Chiuso in redazione
il 10 giugno 2004
21 (29)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Lucia Bellaspiga
Carlo Urbani, il primo
medico contro la Sars
di Giuseppe Prunai
Chissà cosa penserebbe
Carlo Urbani, il medico italiano morto a 47 anni di Sars
dopo avere isolato il virus
della terribile malattia, chissà
cosa penserebbe se fosse
ancora in vita nell’apprendere delle torture inflitte ai prigionieri iracheni dai militari
della coalizione, nel vedere
ogni giorno in tv le tragiche
scene di una guerra sporca
di petrolio e di altri affari internazionali, fatta sulle spalle
della povera gente che non
ha acqua, non ha cibo, non
ha prospettive di una vita dignitosa.
Forse non ha neppure prospettive di vita. Che degli
ospedali ha solo l’edificio
perché mancano i medicinali
più comuni e più necessari,
perché mancano strumenti
diagnostici e di intervento ma
dove ogni giorno si riversano
centinaia di persone sofferenti delle più disperate infezioni che si portano dietro la
miseria e il sudiciume, ferite
da proiettili, da schegge, da
mine antiuomo. In Iraq come
in Afghanistan, come in
Israele nei territori della striscia di Gaza, come un tempo
in Libano, in Bangladesh, in
Vietnam, in Cambogia, in
Corea.
In qualsiasi paese del sud
del mondo dove infuriano le
guerre dimenticate, del centro Africa dove si muore di
diarrea, una malattia curabilissima con una spesa ridicola, e di malaria perché manca un farmaco che costa poco più di un dollaro ma che
non viene prodotto perché
non remunerativo per le multinazionali che controllano le
industrie farmaceutiche.
Quel centro Africa dove si
stabilì nel 1913 il medico tedesco Albert Schweitzer per
dedicarsi ai negri del Gabon.
Urbani, dopo aver letto da ragazzo un libro su Schweitzer,
ne subì il fascino e decise di
diventare un medico.
Carlo Urbani, presidente per
l’Italia di Medici senza fron-
tiere, inviato dall’Organizzazione mondiale della sanità
in Vietnam come coordinatore per l’intera regione del Pacifico occidentale per il controllo delle malattie parassitarie, non accettò mai del tutto
il ruolo del burocrate, seduto
al tavolino a redigere chilometrici rapporti e non rinunciò mai a quello di medico.
Nei tre anni che Urbani ha
vissuto in Vietnam con la moglie Giuliana e i suoi tre figli (li
faceva frequentare le scuole
vietnamite perché si integrassero meglio), non si è
mai risparmiato come medico.
Data la sua grande esperienza di diagnostica clinica, veniva molto spesso consultato
dai colleghi. Fu così che per
Urbani giunse un appuntamento fatale. Il 28 febbraio
2003, fu chiamato al capezzale di mister Johnny Chen,
uomo d’affari americano proveniente da Hong Kong, da
due giorni ricoverato all’ospedale di Hanoi con febbre
alta, tosse secca e difficoltà
respiratorie. Urbani si rende
subito conto della gravità della situazione, nell’ospedale
sono già una decine le persone infette perché venute a
contatto con il malato senza
nessuna precauzione e pensa alle contromisure.
Allerta l’Oms che diffonde
l’allarme sanitario in tutto il
mondo e, grazie alla stima
che il medico italiano godeva
presso la autorità di Hanoi,
convince il governo vietnamita a varare severe misure di
prevenzione.
Undici giorni più tardi, in volo
verso Bangkok per una conferenza, accusa il primo malessere. Urbani si rende subito conto di essere contagiato
dal virus che lui stesso ha individuato. “Statemi lontani –
dice a chi ha intorno. Ho la
Sars”. La malattia durerà 18
giorni. Il 29 marzo – un mese
dopo il ricovero di Mister
Chen – Urbani muore.
Ancora un mese e il 28 aprile
il Vietnam festeggia lo scampato pericolo. Il virus, che
miete vittime in ogni parte del
mondo, in Vietnam è scomparso grazie alle rigorose
procedure di controllo e di
profilassi
suggerite
da
Urbani che il governo vietnamita ha seguito alla lettera
con grande scrupolo. Urbani
godeva di grande stima ad
Hanoi e lui stesso aveva
grande stima del governo di
un paese in cui la scolarizzazione è arrivata al 95% e anche nell’ultimo dei villaggi c’è
un ambulatorio medico.
“Saranno anche comunisti,
diceva Urbani. Ma ce ne fossero…”
Il libro della collega Lucia
Bellaspiga, redattrice di Avvenire, vincitrice della prima
edizione del premio giornalistico dedicato alla memoria
di Maria Grazia Cutuli, comincia con l’atto finale della
vicenda di Urbani, cioè con
la morte dopo avere isolato il
virus letale della Sars, per
poi ripercorrerne la vita in un
lungo e ragionato flashback.
Presentazione del segretario
generale dell’Onu, Kofi A.
Annan, che sottolinea quanto sia stato determinante per
circoscrivere e sconfiggere
l’infezione il contributo di
Urbani, che definisce un
eroe; prefazione di Nicoletta
Dentico, di Medici senza
frontiere, che adatta a Carlo
Urbani una lapidaria sentenza di Montaigne: “Il valore di
una vita non sta nella lunghezza dei giorni, ma nell’uso che ne facciamo. Uno può
aver vissuto a lungo e tuttavia pochissimo”; premessa
dell’autrice che esprime lo
stupore del giornalista che,
solo il 29 marzo di un anno
fa, ha appreso dell’esistenza
di un simile uomo e il rimpianto di non averlo conosciuto prima.
Il racconto, si è detto, muove
dalla fine, dalla tragica conclusione ma questa insolita
struttura narrativa non sottrae l’interesse del lettore a
conoscere l’intera vicenda.
Perché questo non è un libro
giallo che si conclude con la
scoperta dell’assassino. È
una storia che ha una sua
continuità, una sua evoluzio-
Ettore Mo
I dimenticati
di Marzio De Marchi
Sono diciannove storie, diciannove reportage intensi,
forti e anche violenti, racconti
al termine dei quali nessuna
coscienza può ritenersi uguale a prima. Non sono neppure
inediti: gli estimatori di Ettore
Mo li hanno già letti sul
Corriere della Sera, ma trovarseli lì, uno dopo l’altro, in
un volume che già dal titolo
nulla nasconde della loro
drammaticità, è tutta un’altra
cosa. A ciò si aggiungano le
22 (22)
foto di Luigi Balzelli, amico di
una vita e «occhio» di Mo: se
le parole potevano lasciare
immaginare al lettore una
realtà meno feroce, gli scatti
lo riportano alla drammaticità
della Vita. Di queste vite.
Come quella di Niwan, uno
dei malati terminali di Aids
che da nove anni trovano rifugio nel monastero buddista di
Wat Pharabat Nampu, in
Thailandia. «Se proprio deve
morire (e non c’è scampo, se
ne andrà tra qualche ora), è
meglio prepararlo bene per
l’ultimo viaggio, soprattutto ri-
pulirlo da capo a piedi perché
il suo corpo non lasci tracce
immonde sul fondo rovente
del forno crematorio. […] Si
chiama Niwan, è completamente nudo, se si esclude il
vestimento dei tatuaggi che
gli hanno stampato addosso
ne che ci fa conoscere il giovanissimo Carlo Urbani, un
cattolico praticante atipico,
impegnato nella parrocchia
del paese natale (Castelplanio, Ancona) per l’assistenza ai bisognosi (per la festa del protettore fece saltare
lo spettacolo pirotecnico devolvendo in beneficenza i
soldi risparmiati) e lo studente di medicina che organizza
ed anima i soggiorni estivi
per i disabili.
E poi il medico che trascorre
le ferie in Africa al servizio
dei sofferenti, il suo interesse
per le malattie tropicali e parassitarie. Per questa attività,
nel ‘93 divenne consulente
dell’Organizzazione mondiale per la sanità: incarico che
lo portò numerose volte in
Africa e, infine, in Vietnam
per la sua ultima missione.
Nel ‘96 è coordinatore di un
progetto di Medici senza
frontiere di cui divenne presidente per l’Italia.
Quando, nel ‘99, Medici senza frontiere ricevette il Nobel
per la pace, Urbani fece parte della delegazione che si
recò a Oslo per ritirarlo.
Urbani, che certamente non
conduceva una vita mondana, non aveva lo smoking per
partecipare alla cerimonia.
Lo prese in affitto, ma – poco
abituato com’era a certi capi
di abbigliamento – lo dimenticò a Roma: dovettero spedirglielo.
Lucia Bellaspiga scava nella
vita di Urbani, si reca a
Castelplanio, conosce la famiglia, consulta appunti, lettere, sfoglia le foto di famiglia.
Parla con la moglie, Giuliana,
con i figli Tommaso, Luca,
Martina. Sono praticamente
fuggiti dal Vietnam a causa
della malattia (la Sars non la
nominano mai). Ma una volta
cessato il pericolo, Tommaso
non sa resistere. Ha 16 anni
e riprende l’aereo per Hanoi,
per un “amarcord” che può
cicatrizzare tante ferite, ma
può aprirne anche di nuove.
Invece, Tommaso ritorna in
Italia sereno, innamorato del
Vietnam così come suo padre. E con la ferma determinazione di seguirne le orme.
Forse Carlo Urbani sarà il
suo Albert Schweitzer: glielo
auguriamo e ce lo auguriamo.
Lilli Gruber
I miei giorni
a Baghdad
di Marzio De Marchi
Lucia Bellaspiga,
Carlo Urbani,
il primo medico contro
la Sars,
Ancora editrice,
euro 12,00
La cattura di Saddam Hussein
chiude una fase, drammatica
e dolorosa, della guerra in
Iraq. Certamente si è ancora
lontani dalla «normalizzazione» di questo Paese, ma la
cronaca ci dice che qualche
cosa, adesso, potrebbe cambiare. E conoscere il passato
più o meno recente di questo
Paese può permetterci di
comprendere meglio gli sviluppi della prima guerra del
terzo millennio. Una significativa «lezione» di storia, a questo proposito, può darcela il libro di Lilli Gruber, uno dei volti
più noti del telegiornalismo italiano e inviata speciale in Iraq
per il Tg1.
I miei giorni a Baghdad è il
diario di quasi tre mesi sul
fronte di guerra, fra le strade di
una città che trascorreva le
notti sotto le bombe degli angloamericani; è il diario di storie di tutti i giorni, fra preghiere
e saccheggi, scontri e fine delle illusioni e, forse, anche di
qualche speranza. Ma è soprattutto il diario di una professionista che spesso lascia il
ruolo della giornalista «impegnata» per rivestire i panni
della più «vera» cronista. E
raccontare così, della innata
passione degli iracheni per la
floricoltura. «”La notte scorsa,
mentre bombardavano, mi è
venuta una voglia improvvisa
di piantare nuovi fiori nel mio
giardinetto. Adoro le piante,
perché sono il simbolo della
vita” racconta Umm Muhammad, in chador nero. Ha appena comprato quattro vasi di rose da un fiorista del quartiere
di Sayadiya, lungo la circonvallazione che circonda
Baghdad. Kazem Muhammad Hussein, il vivaista, spiega che il lavoro non manca,
anche se il numero dei suoi
clienti è certamente diminuito
dall’inizio della guerra».
È, come lo definisce la stessa
Gruber, un libro che «lascia
che a parlare siano i fatti, le
persone incontrate e i luoghi
visitati». Per questo, la scrittura è sempre scorrevole, le sto-
ovunque […] Compiuta la liturgia del lavacro, Niwan viene risospinto nel padiglione
dei morituri e adagiato con
delicatezza nel suo letto d’agonia, il numero 29, su un
materassino verde. Pesa come una piuma e le ossa stanno per bucare da ogni parte la
velina arabescata della pelle».
Ma chi sono i personaggi che
animano queste storie, chi
sono i «dimenticati» di Mo, e
che cosa li unisce? Sono
sciamani della Siberia e ragazzi di strada della nostra vicina Svezia, vittime deformi
vietnamite dell’Agente Arancio e figli di prostitute di Dacca, artisti viennesi invasi dalla
follia e bibliotecari itineranti
che distribuiscono libri fra i villaggi andini. Sono i protagonisti rigettati del mondo globa-
lizzato, uomini, donne e bambini che non hanno conquistato il diritto di vivere fra i
«normali».
«Sull’ingresso c’è scritto semplicemente Maria Gugging,
che è il nome di un grande
ospedale psichiatrico a una
ventina di chilometri da
Vienna: ma il “padiglione” che
stiamo cercando è lontano
dall’edificio centrale […].
Ospita malati di mente speciali ed è scorretto, anzi offensivo definirlo “padiglione”. E
infatti tutti lo chiamano “Haus
der Künstler”, la Casa degli
Artisti. […] Gli otto che sono
rimasti trascorrono la giornata
al primo piano, le stanze a
due o tre letti s’affacciano sul
corridoio, che è la “passeggiata” comune e che percorrono
infinite volte […] senza mai
scambiarsi una parole e
rie raccontate con il giusto
garbo, le immagini rappresentate con gli occhi di chi conosce profondamente, e ama, il
proprio mestiere. E che al lettore non vuole nascondere
pensieri e timori. Come quando racconta della sua voglia di
«fare qualche cosa di normale: bere un tè caldo […].
Parlare di vacanze al mare.
Lavarmi i capelli senza preoccuparmi di come verranno
una volta asciutti […]. È rilassante persino fare un po’ di
bucato nel lavabo del mio bagno e stendere la biancheria
su un filo tirato sul balcone, di
fronte al palazzo di Saddam
Hussein tartassato ogni giorno dalle bombe americane.
Abbiamo tutti bisogno di questi gesti, che fanno dimenticare la guerra».
La guerra, dunque, è qui raccontata senza «sterili contrapposizioni ideologiche» e lontana dai «fumosi dibattiti degli
esperti di strategia militare».
La Gruber è stata testimone di
una battaglia cruciale per il destino dell’Occidente, ma non
ha tralasciato di «vedere» l’altra faccia di questa Storia: «E
gli iracheni in tutto questo?
Chi pensa a loro? […] Dopo il
terrore, le privazioni, le sofferenze, avrebbero almeno diritto a un po’ di speranza». Oggi,
forse, questa speranza di normalità è un po’ più vicina.
Lilli Gruber,
I miei giorni a Baghdad,
Rai Eri - Rizzoli, pagine 322,
euro 16,00
neanche uno sguardo. […]
Franz Kernbeis è leggermente obeso, ha sessantaquattro
anni, lo rinchiusero in manicomio quando ne aveva soltanto
diciassette, dall’81 è ospite
della “Haus der Künstler”.
Questa mattina è un po’ agitato, gira in cerchio su se stesso
nel corridoio […] . La sua memoria è inchiodata all’età della pietra: disegna oggetti massicci con forme arcaiche, rocciose […] .»
Ecco chi sono i «dimenticati»
e come li descrive Ettore Mo:
con la solita acutezza di chi si
sforza di capire. E poi così,
senza retorica, ci regala le
sue emozioni.
Ettore Mo,
I dimenticati
Rizzoli, pagine 219,
euro 15,50
ORDINE
6
22 (31)
2004
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Giugno 2004 - Ordine dei Giornalisti