RASSEGNA STAMPA Mercoledì 5 agosto 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA ROMA Del 5/08/2015 Gli OvO, dal vivo stasera al circolo arci Pini Spettinati, sono da sempre una delle band più attive del panorama rock noise. Più di 700 concerti, un numero imprecisabile di uscite discografiche tra album, collaborazioni, singoli, pezzi su compilations, li hanno fatti conoscere ovunque anche per l'originalità della loro proposta. Un duo formato da una piccola e indemoniata cantante e chitarrista (Stefania Pedretti) ed un energumeno che suona una mezza batteria come se fosse il set di un gruppo metal (Bruno Dorella). I loro live mascherati, portati a tutte le latitudini, dal Messico alla Turchia, dalla Russia agli Usa, spaziano dal noise al metal, dal doom al punk.Circolo Arci Pini Spettinati, Via Campo Barbarico 80, stasera alle ore 22, infotel: 06 45598326 e 392 4464127 Da strill.it del 4/08/2015 Pentedattilo – Campi della legalità de “Il Grillo parlante” “Fatti un campo” è lo slogan che l’ARCI nazionale ha scelto per invitare quanti sono interessati a partecipare al progetto Campi della Legalità. Occasione irrinunciabile per l’associazione culturale “Il grillo parlante” – circolo ARCI di Girifalco – che ha raggiunto il campo di Pentedattilo (Reggio Calabria) con una delegazione composta da 5 associati. Ad arricchire l’esperienza di lavoro e di formazione l’incontro presso l’ostello della gioventù dei soci del locale circolo ARCI che coordina l’attività dei campi della Legalità sui beni confiscati alla potente famiglia ‘ndranghetista dei Iamonte ed oggi assegnati al consorzio “Terra del Sole”. In questi giorni i soci che hanno scelto di partecipare al viaggio promosso da “Il grillo parlante” si stanno misurando in attività pratica di lavoro nei campi, nella cura del borgo antico di Pentedattilo, in lavori di ristrutturazione degli immobili, in attività formative e di scambio di esperienze nella lotta alla ‘ndrangheta e sui progetti per la legalità. Se cinque giovani girifalcesi hanno avuto la possibilità di partecipare a questo progetto lo devono – oltre che alla determinazione della presidenza de “Il grillo parlante” che in questi pochi mesi di attività ha cercato di raccogliere i fondi necessari – all’importante supporto del Comune di Girifalco che ha garantito un piccolo rimborso spese per gli spostamenti ed al finanziamento ricevuto dallo SPI CGIL che, da anni, a livello nazionale supporta l’esperienza dei Campi della Legalità. Questa esperienza rappresenta semplicemente una piccolissima tappa nel percorso più ampio che come associazione culturale si porterà avanti a Girifalco per far prevalere la cultura della Legalità contro ogni ingiustizia. http://www.strill.it/citta/2015/08/pentedattilo-campi-della-legalita-de-il-grillo-parlante/ 2 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 5/08/2015, pag. 5 Patrizia Moretti: «Mauro Guerra ucciso come Federico» Una fiaccolata con il sindaco Mauro Sbicego, fra le centinaia di persone che hanno sfilato, in silenzio, da Carmignano a Sant’Urbano. Un’inchiesta a Rovigo con il procuratore capo Carmelo Ruberto che segue da vicino il lavoro del sostituto Fabrizio Suriano. E il funerale di domani pomeriggio che rimetterà quest’angolo del Padovano al confine con il Polesine sotto i riflettori nazionali. Mauro Guerra, 32 anni, grande e grosso, una laurea in economia e la passione per la grafica e il culturismo, era senza dubbio borderline. Ma è morto in mezzo ai campi, inseguito dai carabinieri chiamati a placarlo anche con un ricovero coatto. Il trentenne era riuscito a «fuggire». Un militare lo aveva placcato, ma stava avendo la peggio nella violenta colluttazione. Il maresciallo Marco Pegoraro ha estratto la Beretta d’ordinanza: due colpi in aria e poi ha preso la mira su Mauro. È rimasto un cadavere coperto da un lenzuolo in mezzo alla campagna bruciata dall’afa. Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, ha levato la sua voce a sostegno della famiglia Guerra e di chi ora pretende massima trasparenza. «Mauro l’hanno dipinto come un mostro, come avevano fatto con mio figlio dieci anni fa», dichiara al Corriere Veneto. «C’è una versione ufficiale carica di lati oscuri, i carabinieri che indagano su se stessi e una vittima che viene criminalizzata». Patrizia dà voce pubblica a tanti altri: «Continuano a sparare senza pensarci due volte, come se fosse assimilato un senso di impunità consolidata. Sarà sempre peggio. Perché tutto questo accanimento fino a uccidere? Serve un freno, forse una formazione adeguata, una cultura diversa. E la fine dell’impunità, la possibilità di essere spogliati di quella divisa con cui commettono questi abusi». La morte di Mauro Guerra è destinata ad aggiungersi alla sequenza di analoghi casi. Per ora, la famiglia ha scelto di affidarsi agli avvocati. Ma c’è sempre da stabilire se mercoledì era stata davvero attivata la procedura del Trattamento sanitario obbligatorio. L’Usl 17 della Bassa padovana, i medici e il servizio 118, il municipio di Sant’Urbano e l’Arma sono i soggetti chiamati a certificare se per Mauro era in corso un Tso oppure no. Un «caso» ancora aperto, quindi. Tant’è che nei social c’è chi chiede: «Mauro Guerra, fuori la verità». Come pure si è mobilitata la curva degli ultrà del Calcio Padova con uno striscione in sintonia con il Dna politico. Domani alle 16:30 nella parrocchiale della frazione di Carmignano l’ultimo saluto a Mauro Guerra. L’epigrafe è sintomatica: riproduce il Cristo che aveva disegnato recentemente. E alla fine della cerimonia religiosa è prevista una canzone di Vasco Rossi: «Gli angeli», le ultime note che Mauro aveva affidato al suo profilo Fb. Ma anche in pieno agosto l’eco della tragedia di Carmignano farà fatica a stemperarsi nell’indifferenza vacanziera. In questi giorni, sono riaffiorati particolari sulla personalità del trentenne. Condannato per stalking, noto in paese da tempo per le sue bizzarrie, buttafuori nei locali notturni, con una vena artistica che confonde fede e violenza. Ma resta il fatto che, dentro l’abitazione di famiglia in via Roma e durante l’inseguimento a Mauro in mutande, la sicurezza di tutti è clamorosamente saltata. E alla fine un intervento (Tso o meno) di routine è sfociato in un dramma inspiegabile. L’accertamento delle responsabilità diventa il minimo. È agli atti l’autopsia effettuata per conto della procura dal medico legale Lorenzo Marinelli. Hanno 3 assistito i consulenti Luca Massaro (per il carabiniere) e Giovanni Cecchetto, per la famiglia Guerra. Un solo proiettile ha causato la morte per emorragia interna. Risale, invece, ad un paio di mesi fa il decesso durante un Tso di Massimiliano Malzone, 39 anni di Agnone nel Cilento. Indaga la procura di Lagonegro in Puglia, soprattutto dopo il clamoroso caso di Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento morto il 4 agosto 2009 nel servizio psichiatrico di Vallo della Lucania. ESTERI Del 5/08/2015, pag. 7 Usa e Russia pianificano uscita di scena di Assad Siria. L'accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano e i colloqui a Doha tra Kerry e Lavrov potrebbero avere riflessi importanti per Damasco. Riflessi il presidente siriano forse troverà indigesti. Michele Giorgio A chi in questi quattro anni di bagno di sangue gli diceva che è stato sconfitto perchè non ha saputo sbaragliare l’opposizione islamista e jihadista, il presidente siriano Bashar Assad replicava che, al contrario, ha vinto perchè non è stato sconfitto da nemici finanziati e armati da potenze economiche regionali, come l’Arabia saudita, e da diversi Paesi occidentali. Un giudizio tutto sommato fondato se si tiene conto del bilancio di vittorie e sconfitte ottenute dall’esercito governativo siriano e dai suoi alleati, come i combattenti libanesi di Hezbollah, e dei territori strategici che il presidente siriano continua a controllare. Assad, a fine luglio, si è sentito sufficientemente forte da ammettere pubblicamente le difficoltà che le sue forze armate incontrano nel rimpiazzare con truppe fresche quelle sfinite da quattro anni di combattimenti e i soldati caduti in battaglia, in attentati e vittime delle esecuzioni sommarie compiute da qaedisti e jihadisti (in totale non meno di 60 mila dal 2011, contando solo i militari e non anche gli uomini della milizia pro governativa). Qualcosa però bolle in pentola. L’accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano che Assad ha salutato con favore, rischia di avere riflessi importanti per quella parte della Siria che resta, assieme alla capitale Damasco, sotto la sua autorità. Riflessi il presidente siriano potrebbe trovare indigesti. I colloqui a Doha tra il Segretario di stato John Kerry, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e quello saudita Adel al Jubeir, hanno avuto l’obiettivo evidente di provare a tracciare il futuro a breve e medio termine del Medio Oriente. Quale “regalo”, oltre alle armi, Washington ha promesso pur di far digerire ad Arabia saudita e Israele l’accordo sul nucleare iraniano che continuano a contestare? Quale “svolta” gli Usa e la Russia hanno deciso di dare al quadro regionale per rassicurare le monarchie sunnite preoccupate dalla crescente influenza dell’Iran sciita? Cosa otterranno re e principi del Golfo in cambio delle loro aperture all’Iran? Di fronte a questi interrogativi non è certo privo di importanza appello lanciato ieri dal ministro degli esteri del Qatar, Khalid al Attiyah, per l’avvio di un «dialogo serio con l’Iran». Così come l’annuncio che Washington bombarderà tutte le forze 4 in campo in Siria, incluse quelle governative, che attaccheranno i cosiddetti “ribelli moderati” addestrati dai consiglieri militari statunitensi. «Un piatto russo-americano è pronto per quanto riguarda la crisi siriana e, eventualmente, per l’intera regione», scrive su Rai al Youm, l’analista Abdelbari Atwan che da trent’anni racconta la palude mediorientale di accordi, guerre, alleanze vere e presunte, strette di mano e sorrisi di circostanza. «La recente visita del principe ereditario Mohammad bin Salman a Mosca dove ha incontrato il presidente Vladimir Putin, ha fornito una solida base per una nuova mappa di alleanze regionali», spiega l’analista arabo ricordando che sono insistenti, sebbene siano state smentite dalle due parti, le indiscrezioni su un incontro segreto avvenuto nei giorni scorsi tra il capo dell’intelligence siriana Ali al Mamlouk e, anche in questo caso, Mohammad bin Salman. Un faccia a faccia che non ha risolto i contrasti enormi tra i due Paesi. Avrebbe però aperto un canale di comunicazione impensabile quando erano in posizione di potere i principi sauditi Bandar bin Sultan e Saud al Faisal, entrambi nemici giurati della Siria di Assad, ora usciti di scena. Riyadh, aggiunge Abdelbari Atwan, avrebbe ammorbidito le sue posizioni e scelto una prima forma di dialogo con i suoi nemici anche alla luce del fallimento in Yemen dove nonostante i pesanti bombardamenti dell’aviazione saudita, i ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, continuano a controllare buona parte del paese. Infine la Turchia, alleata dei sauditi contro la Siria, al momento appare più interessata ad attaccare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che a provocare la caduta di Assad. Piuttosto pessimista si mostra Mohammad Kharroub del quotidiano giordano al-Ra’i, secondo il quale il successo dei colloqui di Doha e la definizione di un calendario politico che metta fine alla guerra civile siriana, dipende dalla eliminazione della condizione posta (da Arabia saudita, Qatar, Turchia e altri Paesi, ndr) della rimozione immediata di Bashar Assad dal potere. Nonchè dalla comprensione di tutte le parti che la priorità ora deve essere assegnata alla lotta ai “takfiristi”, ossia ai leader e ai militanti dell’Isis e di altre organizzazioni jihadiste e qaediste. «I grandi burattinai regionali avranno capito la lezione?», si domanda Kharroub lasciando trasparire parecchio scetticismo. Del 5/08/2015, pag. 6 Il capogruppo di Syriza: «Una scommessa per tutta l’Europa» Grecia/intervista. Nikos Filis: «Tutti si assumano le proprie responsabilità. Noi per i greci siamo il nuovo. Ora la fase è cambiata e serve ancora una legittimazione politica. Alle elezioni con un processo interno unitario» Teodoro Andreadis Synghellaki Capogruppo di Syriza al parlamento di Atene, Nikos Filis, ex direttore del giornale del partito, Avghì, non ha dubbi: il dilemma principale, oggi, è capire se la sinistra ha il diritto di negare al popolo greco la possibilità di una forte contrapposizione all’austerità e di una prospettiva di sviluppo, attraverso la permanenza di Syriza al governo. Secondo Filis tutto il partito si deve assumere le proprie responsabilità per non deludere i greci che continuano a vedere in Alexis Tsipras e in Syriza, una garanzia per le classi sociali più deboli e per il cambiamento. In questa intervista a il manifesto, tende la mano a Varoufakis — «a condizione che parli meno» — e si aspetta un importante contributo da parte di Podemos e delle forze della sinistra italiana. Ha appena dichiarato che il futuro di Syriza costituisce una scommessa. Cosa intende di preciso, quali sono le caratteristiche principali di questa scommessa? 5 Riguarda il popolo greco, ma anche l’Europa intera, ed è per questo che la vicenda greca viene seguita con così grande interesse a livello mondiale. L’imposizione dell’ultimatum con le durissime misure della nuova Troika, in Grecia, ha creato una nuova realtà politica. La sinistra non si sente a suo agio nell’attuazione di queste misure. Ed è per questo che lotterà per cambiarle, per poter sostenere le classi sociali più deboli e portare le riforme necessarie nel sistema politico e nella vita democratica. È importante vedere come, malgrado le dure misure che siamo stati costretti a firmare, la fiducia popolare rimane ad alti livelli e credo sia anche aumentata. Per quale motivo? Perché Syriza rappresenta il nuovo, e i cittadini — come è apparso chiaramente anche con il referendum — provano ribrezzo per il vecchio sistema partitico. Il merito principale è indubbiamente di Alexis Tsipras, che è riuscito a rendere credibile un messaggio di speranza agli occhi della grande maggioranza del popolo greco. Malgrado le difficoltà, quindi, alla sinistra viene riconosciuta una profonda sincerità. A mio parere, certo, questa fiducia politica dovrà esprimersi anche attraverso nuove elezioni, poiché la realtà politica è mutata. A queste elezioni si deve arrivare seguendo una direzione unitaria, discutendo delle differenze esistenti, ma facendo prevalere il principio della maggioranza democratica. In che senso? In questa fase il partito ha una precisa direzione politica ed i compagni che hanno delle opinioni differenti — pur mantenendo le loro convinzioni — lavoreranno alla realizzazione di un progetto politico valido sino al congresso. La questione è: siamo pronti a lavorare ad un progetto greco di sviluppo e a portarlo avanti basandoci sul sostegno popolare? La realtà emersa all’ultimo summit europeo, tuttavia, è molto dura e sembra non lasciare ampi spazi di manovra… In molti si chiedono se in queste condizioni di duro neoliberismo prevalente in Europa, ci possa essere un governo realmente progressista e di sinistra. Io credo che se il popolo desidera questo governo, per ridurre le conseguenze della politica neoliberista ed aprire la strada allo sviluppo, la sinistra non ha li diritto di negarglielo solo per poter ritornare alle sicurezze che offre il ruolo dell’opposizione. Sono questi i nostri dilemmi. La lotta per cambiare le dure condizioni imposte al summit europeo del 12 luglio inizierà prima o dopo la firma dell’accordo definitivo — previsto entro agosto — con la nuova Troika, o Quartetto, come è stata ribattezzata? Questo accordo riguarderà un arco di tre anni, e sarà composto dal sostegno economico, le riforme, la ristrutturazione del debito. Senza dimenticare il piano Junker per lo sviluppo e altri finanziamenti. Tutto ciò verrà esaminato in corso d’opera. Oggi è necessario poter ricapitalizzare le banche, far tornale il mercato bancario alla normalità e garantire liquidità all’economia. Il cambiamento di termini dell’accordo, con nuovi equilibri che si allontanino dall’austerità, fa parte di una dinamica e di una lotta che si svilupperà in seguito, nell’arco di tre anni. E in questo un rinnovo della fiducia popolare ci può indubbiamente aiutare. Secondo quanto è filtrato sinora, i creditori chiedono la liberalizzazione dei licenziamenti e l’abbandono definitivo dei contratti collettivi di lavoro. La sinistra greca cosa risponde? Sono questioni che hanno a che fare con la realtà e le conquiste a livello europeo. Che genere di paese europeo saremmo senza protezione dai licenziamenti e senza contratti collettivi? Faremo di tutto per evitare che passi questa linea, affinché non venga imposta definitivamente la strategia che vorrebbe eliminare il diritto alla contrattazione collettiva. Realisticamente, si può evitare una scissione all’interno di Syriza, o anche un continuo e logorante scontro tra la maggioranza e la minoranza interna? Tutti gli eventuali sviluppi, positivi e negativi, devono essere considerati possibili. Ma dobbiamo capire che in un partito si sta sempre su base volontaria. Se vogliamo rimanere insieme dobbiamo trovare un modo vero per realizzare un progetto politico comune. Altri6 menti, significherà che non vogliamo coesistere nello stesso partito. E sarebbe una risposta scoraggiante. Ha chiesto di evitare gli attacchi personali a Varoufakis. Pensa che l’ex ministro delle finanze possa offrire ancora un apporto positivo a Syriza? Non dobbiamo cercare, tra di noi, dei capri espiatori. Tutti abbiamo responsabilità per le tante cose positive, come anche per alcuni elementi negativi nella trattativa dei mesi scorsi. E i responsabili principali sono i creditori. Varoufakis ha dato rilevanza mondiale al bisogno di ristrutturazione del debito anche se, in seguito, alcune sue mosse non hanno aiutato la trattativa. Si è dimesso, ma ha deciso di rimanere all’interno di questo sforzo collettivo. Credo possa essere d’aiuto, basta che parli meno. Gli ultimi sondaggi danno Podemos sotto il 20%. È una conseguenza della punizione inflitta alla Grecia o pensa che sino alle elezioni spagnole di novembre le cose cambieranno? La questione del Sud Europa è dovuta, principalmente, alla Germania che guarda ai paesi del Sud come a una “colonia del debito”, una parte dell’eurozona di seconda categoria. Malgrado gli ultimi sondaggi, questo problema verrà sempre a galla. È importante sottolineare l’atteggiamento di Berlino all’ultimo vertice europeo che ha iniziato a creare delle crepe importanti. Ci vuole un fronte comune dei paesi interessati, per cambiare gli equilibri e credo che in Spagna ci sarà una buona affermazione di Podemos. Si tratta di dinamiche radicate nella società, che non si possono fermare così facilmente. È la risposta di popoli che hanno visto la loro dignità umiliata e di cittadini che sentono che il loro futuro sta crollando sotto il peso dell’austerità. Che tipo di apporto si aspetta Syriza da parte dell’Italia? Abbiamo grosse aspettative, perché col popolo italiano c’è un lungo cammino comune di solidarietà. Ci aspettiamo molto dalla sinistra italiana, dai movimenti, dai sindacati e dalle forze politiche. Credo che, malgrado le differenze delle nostre economie, ci siano molti, forti elementi in comune su cui bisogna insistere. E il rafforzamento della sinistra italiana — politica e dei movimenti — aiuterà sicuramente l’Italia a riacquistare la propria voce sulla scena europea. 7 INTERNI Del 5/08/2015, pag. 6 Immunità, Orlando divide Fi e Casini:no alla riforma la sinistra apre, ma è lite Chiti: “Era un nostro emendamento,lo ripresentiamo” Papa: va abolita. Tedesco: il nodo è la custodia cautelare ALBERTO CUSTODERO ROMA . La proposta del ministro della Giustizia Orlando di far decidere alla Consulta sulle richieste di arresto dei parlamentari, e non più alle Camere, divide la politica. C’è chi , come la minoranza Pd, rivendica di aver proposto un identico passaggio dei poteri in un emendamento, che fu bocciato, al ddl costiuzionale sul Senato. L’emendamento, assicura ora il senatore Vannino Chiti, sarà ripresentato, ma questo fa entrare la sinistra dem in conflitto con il Guardasigilli che ritiene che sia difficile ora inserire la modifica nel testo della riforma costituzionale. Posizione, questa, condivisa dalla senatrice del Pd Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali. Ma c’è anche chi boccia la proposta, a cominciare da Forza Italia, per la quale «Renzi così tenta di rabbonire i pm» e dal senatore centrista Casini (Area popolare), contrario a «invasioni di campo». «Ciascuno continui a fare il proprio dovere - dice il presidente della Commissione Affari esteri l’intromissione della Consulta sull’immunità sarebbe impropria». C’è poi chi ne prende le distanze, come Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte, secondo il quale «la Consulta viene tirata per la giacchetta un po’ troppe volte, è come il prezzemolino nella minestra». Sull’argomento è tornato lo stesso ministro della Giustizia. «È solo una riflessione - ha precisato - non una proposta. Non ha nessun imprimatur ministeriale e non impegna il governo, ma vuole solo approfondire un tema». La precisazione, tuttavia, ha alimentato le polemiche, in particolare all’interno del pd. «Mi dispiac e questa puntualizzazione del Guardasigilli ha replicato Chiti - perché se una cosa è positiva e utile non ha senso annunciarla e poi rimandarla, ma la si approva quanto prima, per esempio nelle riforme». Replica al Guardasigilli anche il Presidente della Giunta delle Elezioni e Immunità del Senato, Dario Stefàno, eletto con Sel. «La soluzione - ha detto - non sta nella previsione di un organismo terzo, ma semmai nell’individuazione di parametri oggettivi che guidino il corretto esercizio della discrezionalità delle decisioni». A favore della proposta, anche due ex parlamentari sulle cui vicende giudiziarie si erano pronunciate le camere. Alfonso Papa, ex Pdl, finì in carcere dopo che Montecitorio aveva votato a favore dell’arresto. «Perfettamente d’accordo con Orlando - commenta Papa - ma penso che questo istituto dell’immunità non abbia più nessuna ragione di esistere. Cosi com’è strutturato, è diventato non un privilegio, ma una forma di ricatto». Alberto Tedesco, Pd (ma poi si dimise), invece, fu beneficiato dal voto dei colleghi. «Penso a un ente terzo che giudichi queste richieste - dice Tedesco - ma non certo alla Consulta». Per Tedesco, «il vero problema è la riforma della custodia cautelare: «Così com’è, è gestito in maniera “impropria”». 8 Del 5/08/2015, pag. 7 Camera, cancellato il tetto agli stipendi dei commessi A RISCHIO 60 MILIONI DI RISPARMI.LA BOLDRINI FA RICORSO GIUSEPPE ALBERTO FALCI ROMA . Tutto come prima. A sorpresa salta il tetto agli stipendi dei dipendenti dei “livelli più bassi” di Montecitorio. Si tratta degli emolumenti dei commessi, dei documentaristi e degli addetti al bar della buvette. Ed è già polemica. L’ufficio di presidenza della Camera ha già deciso all’unanimità di presentare appello contro la sentenza, notificata il 30 luglio, e di chiederne la sospensione dagli effetti altrimenti immediati. Al momento, però, resta sul tavolo la disposizione della commissione giurisdizionale per il personale, presieduta dal renziano Francesco Bonifazi (il tesoriere del Pd) che ha infatti bocciato la parte di delibera del 2014 sugli stipendi dei dipendenti relativa ai tetti introdotti sugli stipendi di quelli di “livello più basso” (commessi, i documentaristi, e gli addetti al bar della buvette). Di più: se l’appello contro la sentenza della commissione - composta da deputati, quasi tutti del Pd- non ribalterà la decisione assunta, l’effetto sarà che mentre i funzionari di alto livello a fine carriera avranno uno stipendio lordo annuo pari a 240 mila euro, come prevede appunto la delibera del 2014, un documentarista a fine carriera avrà uno stipendio praticamente simile, pari cioè a 237 mila euro. Il che vuol dire che mentre per i consiglieri parlamentari non ci sarà più possibilità di aumentare il proprio stipendio con gli anni, ciò sarà ancora possibile per i dipendenti “semplici”, come ad esempio i commessi. L’altro effetto che potrebbe produrre la sentenza della commissione, qualora non dovesse essere ribaltata dall’appello, andrebbe ad impattare sulla spending review del bilancio della Camera. Prima della sentenza i risparmi previsti erano pari a 60 milioni di euro in 4 anni. Gli effetti della sentenza invece produrrebbero una diminuzione dei risparmi, che toccherebbero quota 13 milioni di euro. A rischio, quindi, 47 milioni di euro. Dopo la delibera del 2014 la situazione risultava la seguente: i dipendenti di basso livello possono percepire fino a un massimo di 96 mila euro lordi annui, mentre i funzionari di alto livello 240 mila euro. Inoltre, durante la riunione dell’Ufficio di Presidenza c’è chi ha sottolineato alcuni aspetti “contraddittori” della delibera della Commissione giurisdizionale. In cui da una parte riconosce la autodichia della Camera, ovvero la sua autonomia decisionale, così come si riconosce la potestà legislativa dell’ufficio di presidenza, ma poi si giudicano illegittimi e discriminatori i “sottotetti” perché non previsti in nessun’altra pubblica amministrazione. Del 5/08/2015, pag. 1-11 Cantieri sbloccati e wifi obbligatorio Passa al Senato la riforma della Pubblica amministrazione. Tante le novità che modificano la macchina dello Stato: dal libretto unico per le auto alla carta d’identità digitale, dai dirigenti in carica al massimo per sei anni alle multe e bollette pagabili con un sms, dal wifi obbligatorio nelle scuole e nelle biblioteche al commissariamento delle società partecipate di enti pubblici con i conti in rosso. E per le emergenze al posto di 113, 115 e 118 arriva un numero unico che li sostituirà tutti: il 112. Il tweet di Renzi: «Un altro tassello, un abbraccio agli amici gufi». 9 ROMA La riforma della Pubblica amministrazione è legge. Cambia profondamente il ruolo dei dirigenti, prova a rilanciare il riordino delle società partecipate da enti pubblici, prevede un ampio uso del silenzio-assenso per sveltire la macchina burocratica, sbloccare le opere pubbliche e semplificare i rapporti con cittadini e imprese. Taglia il numero delle prefetture e delle Camere di commercio, rafforza i poteri di coordinamento della presidenza del Consiglio, fa confluire la Guardia forestale nei Carabinieri, prevede il libretto unico di possesso e circolazione per i veicoli e la nuova carta d’identità elettronica. Istituisce un unico numero, il 112, per le chiamate di emergenza e prevede il wifi in tutti gli uffici pubblici. La legge è stata approvata ieri in terza lettura al Senato con 145 sì e 97 no. Quindi se i contrari non avessero partecipato al voto, sarebbe mancato il numero legale di 150 senatori. «Evidentemente hanno tutti una gran paura di un possibile ritorno alle urne», commenta il sindacato di base Usb. Il governo tira invece un sospiro di sollievo è passa alla fase successiva. La riforma, infatti, è una «legge delega» e quindi per essere attuata richiede successivi decreti legislativi, che l’esecutivo dovrà emanare al massimo entro 18 mesi. In tutto saranno una quindicina. Nelle intenzioni del ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, che già da mesi lavora ai testi, i primi decreti, a settembre, riguarderanno le misure per i cittadini e le imprese, dal silenzio-assenso alla riforma della conferenza dei servizi. Poi toccherà ai dirigenti pubblici, con mandato a termine e licenziabili. Infine al testo unico sul pubblico impiego. Dal Giappone, pochi minuti dopo il voto in Senato, il premier Matteo Renzi ha twittato: «Un altro tassello: approvata la riforma PA #lavoltabuona un abbraccio agli amici gufi». Le opposizioni hanno invece criticato l’eccessiva quantità di decreti attuativi previsti. Contrari anche i sindacati. «Altro che riforma — dice la Cgil —. La legge scarica la spending review sui cittadini e sul lavoro». Maurizio Bernava della Cisl parla di «manuale delle buone intenzioni» e di riforma che non prevede il coinvolgimento dei lavoratori, mentre secondo la Uil «si continua a destrutturare la contrattazione infierendo sui lavoratori che hanno un contratto scaduto da anni, per il quale, nonostante la sentenza della Corte, non è stata ancora aperta alcuna trattativa». La riforma, ha replicato Madia al Tg1, consentirà di eliminare «gli sprechi, dagli enti inutili alle troppe partecipate», e ciò significherà «avere servizi di maggiore qualità e fare pagare meno tasse ai cittadini». Tutti i decreti attuativi «arriveranno entro l’anno», ha assicurato il ministro, invitando i sindacati a far sì che anche nella Pubblica amministrazione «si premi il merito». Enrico Marro Del 5/08/2015, pag. 9 Le misure Con la riforma arriva il telelavoro nella Pubblica amministrazione Semplificate le pratiche per i cantieri Licenziamenti più facili e lotta all’assenteismo Emergenze, solo il 112 Dirigenti, ma non solo. La riforma della pubblica amministrazione passa attraverso una modifica sostanziale della classe dirigente dello Stato, che avrà incarichi a tempo, sarà valutabile e licenziabile. Ma il testo appena approvato prevede altre deleghe ad ampio raggio ed un restyling generale delle amministrazioni e dei rapporti fra Stato e cittadino. Si 10 va dal silenzio- assenso dopo tre mesi introdotto per le amministrazioni che si occupano di tutela ambientale, alle visite mediche fiscali assegnate all’Inps, dal «112» numero unico per le emergenze al dimezzamento delle Camere di commercio, al pin unico per l’accesso ai servizi pubblici. DIRIGENTI E’ la parte più corposa della riforma, anche se i decreti attuativi a riguardo non saranno fra i primi ad essere attuati. Ruolo unico, incarichi di 4 anni (più un massimo di altri 2), licenziabilità vincolata ad una valutazione negativa dell’operato svolto dal dirigente che, se resta senza incarico, può chiedere di passare a mansioni inferiori per non perdere il posto. E’ prevista la possibilità di revoca dell’incarico ai dirigenti condannati dalla Corte dei Conti per corruzione, anche se in via non definitiva. Cancellata la figura dei segretari comunali, anche se potranno continuare ad esercitare per i prossimi tre anni. LICENZIAMENTI A differenza dei nuovi contratti del privato, nel pubblico resta l’articolo 18, ma una volta avviata l’azione disciplinare la pratica dovrà essere portata a termine (il nuovo testo unico sul pubblico impiego fisserà tempi certi) senza escludere il licenziamenti. Stretta sull’assenteismo: il controllo delle visite fiscali passerà dalle Asl all’Inps; introdotto il telelavoro IL 112 Per qualsiasi circostanza, in caso di aiuto bisognerà chiamare il 112. L’idea è quella di realizzare centrali regionali che smistino le richieste CONCORSI Superato il voto minimo di laurea, sarà sempre previsto un test d’inglese. E’ stata fatta invece marcia indietro sulla norma valuta-atenei: non ci saranno punteggi diversi in base alle diverse sedi di laurea. LA FORESTALE E’ uno dei provvedimenti più contestati: il corpo forestale verrà fuso con un altro corpo dello Stato, probabilmente i carabinieri e ci sarà un riordino generale di tutti i corpi. Il settore protesta contro la militarizzazione. DIMEZZAMENTI Drastico taglio per le Camere di Commercio , ma anche per le Prefetture. Ci sarà un unico ufficio territoriale di contatto fra l’amministrazione e i cittadini. Scure sulle partecipate: saranno ridotte e sarà previsto un numero massimo di «rossi» prima del commissariamento. BOLLETTE ELETTRONICHE Bollette e multe, fino ad un valore di 50 euro potranno essere pagate anche utilizzando il credito telefonico, sia da card che da abbonamento. Basterà un sms. GRANDI OPERE Scatterà un taglio alla burocrazia per accelerare i tempi di realizzo; potranno essere conferiti poteri sostitutivi al premier SILENZIO ASSENSO Altra norma contestata, specialmente per gli effetti che potrà produrre nella gestione dei beni culturali. Il testo prevede che in caso di contese tra amministrazioni centrali su nulla osta sarà il premier a decidere. Es fissato anche un tetto per ottenere il sì: massimo 30 giorni, che diventano 90 in materia di ambiente, cultura e sanità. Fra le raccolte di firme contro un testo che facilita la «cementificazione » quella promossa da Rodotà, Settis e Montanari. TRASPARENZA Tutti avranno diritto di accedere, anche via web,ai documenti della p.a. Restano limiti per gli archivi pubblici. 11 LIBRETTO AUTO Unica banca dati per la circolazione e la proprietà dell’auto. Il Pubblico registro automobilistico, oggi Aci, passerà al ministero dei Trasporti, a cui fa già capo la Motorizzazione. Del 5/08/2015, pag. 12 I tagli alla Sanità Il decreto legge Enti locali contiene le norme relative a risparmi per 2,3 miliardi di euro. Controlli più severi per evitare la prescrizione eccessiva di esami ROMA Per i Comuni è una boccata d’ossigeno. Per la Sanità una stangata attesa. Il decreto legge sugli Enti locali ha ottenuto la fiducia della Camera con 295 voti favorevoli e 129 contrari. Già passato in Senato con lo stesso meccanismo, diventa ufficialmente legge dello Stato. Un contenitore di diverse misure. I sindaci lo aspettavano con trepidazione perché consente di distribuire fondi al territorio. Dai 5 milioni per l’istituzione di una zona franca in Sardegna colpita dalle alluvioni del 18 e 19 novembre 2013, a un pacchetto di misure per opere edilizie terremotate dell’Abruzzo. Dalle 2.500 assunzioni nelle Forze dell’Ordine (2.500 in Polizia e carabinieri, 400 Guardia di Finanza e 250 Vigili del Fuoco) alla norma salva autodromo di Monza che rischiava di essere privato del Gran Premio. E poi 530 milioni come fondo di perequazione per Imu e Tasi ai Comuni (472 milioni), via libera all’assunzione di maestre d’asilo, aiuti alla Calabria per risolvere la vertenza in corso con 5 mila lavoratori, 500 milioni alla Sicilia. Assegnati fondi per potenziare i pronto soccorsi di alcuni ospedali. I pellegrini potranno sottoscrivere una polizza di 50 euro per le cure durante il soggiorno a Roma. Ieri, inoltre, il ministro Maria Elena Boschi ha annunciato che il governo porrà la questione di fiducia sul decreto di misure urgenti in materia fallimentare. I tagli alla Sanità per il 2015 sono 2,3 miliardi. Arrivano da lontano, risultato di un’intesa con la Conferenza delle Regioni. Furono i governatori a decidere che una lauta fetta dei 4 miliardi richiesti nel patto di Stabilità sarebbero stati presi da quella tasca. I risparmi sono incentrati soprattutto sull’appropriatezza. Significa prescrizione di esami diagnostici non eccessivi rispetto alla patologia che si vuole accertare. L’esempio più calzante è la risonanza magnetica nucleare per il dolore alla schiena. Una linea aggressiva che mette al riparo i medici da eventuali contenziosi con i pazienti. Si chiama medicina difensiva e costa al servizio sanitario miliardi. Col nuovo sistema ci saranno più controlli, gli autori di una ricetta non chiara ne daranno ragione col rischio di risponderne in termini pecuniari. «È l’inizio di un percorso — ha spiegato la ministra Beatrice Lorenzin dopo un incontro con i sindacati medici —. Il secondo passo sarà una legge sulla medicina difensiva che prende avvio da un dossier consegnato alla commissione Affari sociali della Camera». Sono 180 le prestazioni a rischio di abuso su circa 1.700 presenti nella lista dei rimborsi. Test genetici, odontoiatria, allergologia, tac, risonanza magnetica ad arti e colonna con mezzi di contrasto. Altri risparmi previsti dal ritocco di prezzi di farmaci e dispositivi medici. Capitolo spending review: il ministro ha chiarito che «tutto è ancora da studiare, non useremo l’accetta, niente tagli lineari, il principio è l’abbattimento degli sprechi. I risparmi saranno reinvestiti in sanità». E sulle strategie del governo ieri nell’incontro con la stampa estera il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha ribadito che il taglio delle tasse è un impegno 12 dell’esecutivo. L’Italia intende inoltre chiedere alla Commissione europea di poter far leva di nuovo sulla clausola di flessibilità. Margherita De Bac Del 5/08/2015, pag. 18 Il nuovo disastro del Sud è la spia del declino complessivo dell’Italia Negli ultimi 15 anni nessun Paese industrializzato è cresciuto meno del nostro Mezzogiorno. Ma il Nord non può stare tranquillo: anche i suoi fondamentali sono ormai alla deriva Il Sud fa due volte gli abitanti della Grecia. E nell’ultimo quindicennio ha vissuto una crisi peggiore. Se si considera anche il lustro che precede il tracollo finanziario del 2008, nel Mezzogiorno maggiore è stata la caduta della produzione e più grave si è rivelato anche l’impatto demografico. Ma la preoccupazione più seria − di cui forse non adeguatamente ci si rende conto − è che tutto ciò è avvenuto senza che il Sud fosse sottoposto a una cura draconiana come quella della Grecia (i tagli che abbiamo affrontato non hanno certo avuto un impatto paragonabile). Il regredire dell’economia meridionale verso una condizione cronica di sottosviluppo − così efficacemente e drammaticamente documentato nel rapporto Svimez − non pare quindi la conseguenza eccezionale di una qualche, drammatica, contingenza: piuttosto sembra l’esito naturale di una nuova fisiologia, sorta di centro di gravità che inesorabilmente trascina in basso la società e l’economia. Che cosa lo determina? Le cause sono locali, di antica data. Ma da un po’ di tempo anche nazionali. Il Sud è la parte più debole di un paese, l’Italia, in cui da due-tre decenni le condizioni fondamentali dello sviluppo figurano al di sotto di quelle di ogni altra economia avanzata: così è per il sistema di istruzione e innovazione, fanalino di coda nel gruppo Ocse e per giunta sotto-finanziato; per l’apparato burocratico-amministrativo, pletorico, ostinato, che scoraggia l’imprenditoria pubblica e privata, raddoppia i tempi (e i costi) delle grandi infrastrutture rispetto alla media europea ed è vivaio dove prolificano corruzione, clientelismo e comportamenti opportunistici; per l’illegalità e il malaffare, che si attestano su livelli percepiti che sono propri di una società sottosviluppata; per il drenaggio continuo di risorse e capitale umano verso l’estero, senza che si intraveda nemmeno l’accenno di flussi in entrata che possano compensarlo. E in cima a tutto ciò vi è una classe dirigente − politica e imprenditoriale − che da altrettanto tempo (sin dagli anni Ottanta, con una breve eccezione negli anni Novanta) si ostina a sottovalutare questi problemi, illudendosi che per tornare a crescere basti flessibilizzare il lavoro, creare spesa pubblica o potere di nuovo svalutare il cambio. E invece per l’Italia, come per ogni altro paese avanzato, le uniche possibilità per competere nei mercati globali (e per mantenere i livelli di benessere) passano attraverso una politica di innovazione e specializzazione nei settori ad alta tecnologia, con tutto quel che ciò comporta in termini di riforme sociali e istituzionali − come dare regole e tempi certi che favoriscano gli investimenti di lungo periodo, o promuovere il merito e la trasparenza nella Pubblica amministrazione e nel suo rapporto con i privati. Tecnologia, tecnologia e tecnologia, la sola vera determinante di lungo 13 periodo della crescita della produttività e quindi del reddito; e con essa, le condizioni di contesto che le consentono di svilupparsi. Se in questi che sono i fondamentali dello sviluppo l’Italia ha i parametri di un Paese a medio reddito, è inevitabile che scivoli verso questa categoria. Ed è bene ripetere che l’Italia tutta si trova da tempo – da ben prima dello scoppio dell’ultima crisi – proprio in questa condizione. Dopodiché, nel Sud la situazione è ancora più seria. Perché tutte le criticità che abbiamo ricordato sopra lì sono generalmente presenti in forma più grave. E soprattutto perché esse vengono ulteriormente amplificate da tare antiche, endogene alla società meridionale e alla sua impalcatura: come la forza storica della grande criminalità, un’amministrazione ancora più inefficiente perché − da generazioni! − clientelare, la carenza di infrastrutture (di trasporto, ma anche telematiche), la maggiore polarizzazione della ricchezza a favore di una minoranza di privilegiati avvezza a logiche estrattive e che di solito esprime le classi dirigenti locali (e in parte anche quelle nazionali). Così ridotto, se il Sud fosse uno stato indipendente, con questi numeri sarebbe quello in assoluto cresciuto di meno negli ultimi quindici anni, in tutto il mondo avanzato e invero (se si escludono i casi dei Paesi in stato di guerra) nel mondo intero. E si badi bene che l’appartenenza all’Italia ha comunque garantito ai meridionali un flusso di risorse netto positivo (vero è che la spesa pubblica per abitante è più bassa al Sud che al Nord; ma in cambio dal Mezzogiorno, più povero, ancora più basse sono le uscite fiscali). Ma che questa deriva sia avvenuta nella pressoché totale trascuratezza dell’opinione pubblica e anche delle classi dirigenti nazionali, in fondo non è un caso né dovrebbe stupire: molto trascurata è anche la più grande deriva dell’Italia, di cui quella meridionale è oggi la parte più profonda. Per anni ci siamo ripetuti che l’Italia non è la Grecia. È vero. Un pezzo consistente dell’Italia è messo peggio della Grecia. E anche il resto del Paese, stando ai fondamentali dello sviluppo sembra destinato a convergere al ribasso. Benvenuti nella realtà. 14 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 5/08/2015, pag. 1-10 Mafia Capitale. I nuovi verbali del capo dell’organizzazione: “Per fini nobili ho fatto cose ignobili. Ora sono pronto a fare chiarezza su tutte le forme di corruzione che conosco, che ho praticato, che ho subito” Le accuse di Buzzi “Da Zingaretti a Marino soldi a tutti i politici” CARLO BONINI MARIA ELENA VINCENZI ROMA . Dopo sei mesi di detenzione in quel di Nuoro, a Badu e Carros, il 23 e 24 giugno, nel carcere di Cagliari, Salvatore Buzzi, signore della coop “29 giugno” e uomo chiave di “Mafia Capitale”, ha risposto alle domande del Procuratore aggiunto Michele Prestipino e del sostituto Paolo Ielo. Nella trascrizione originale depositata dalla Procura, oltre trecentoventi pagine di verbali. Per un interrogatorio che Buzzi ha sollecitato per mesi e che, nelle sue intenzioni e in quelle del suo avvocato, Alessandro Diddi, dovrebbe capovolgerne la posizione processuale. Da carnefice in vittima. Da corruttore, in concusso dalla Politica e i suoi appetiti. Buzzi — come documentano i verbali — ammette tutto ciò cui lo inchiodano le intercettazioni telefoniche, risparmia l’ex sindaco Alemanno («Non sapeva delle tangenti»), definisce la geografia della corruzione nel gruppo consiliare Pd che ha sostenuto la giunta Marino, muove accuse al governatore della Regione Nicola Zingaretti e al suo entourage («Hanno preso soldi»). Anche se spesso non è in grado di distinguere tra fatti e circostanze apprese in prima persona e voci raccolte da terzi o semplici deduzioni. IL PAPA E I “MEZZI IGNOBILI” Fa un preambolo, Buzzi. «Io ero convintissimo che il mio fine giustificasse i mezzi e, quindi, diciamo, per un fine nobile ho usato mezzi, diciamo, ignobili. Ho avuto un processo di revisione critica del mio percorso aiutato anche dal cappellano, dal vescovo di Nuoro, e quindi, alla fine, ho ritenuto opportuno aderire all’appello del Papa sulla lotta alla corruzione. E quindi farò chiarezza su tutte le forme di corruzione che io conosco e che ho praticato e che ho subito». Il pm Paolo Ielo, incenerisce l’enfasi: «Guardi, il fine nobile appartiene in qualche maniera alla sfera dell’etica, i mezzi ignobili appartengono alla competenza del mio ufficio. Se vuole cominciare da quelli… ». L’UOMO DI ZINGARETTI Ci sono due sindaci (Alemanno e Marino) e un Presidente di Regione (Zingaretti) di cui Buzzi ha intenzione di parlare. Ed è sul governatore che muove con maggior decisione. A cominciare dalla gara da poco meno di 1 miliardo di euro bandita nel 2014 per il centro unico di prenotazioni ospedaliere, di cui Buzzi vincerà un lotto (prima che la gara venga annullata). «La gara era in quattro lotti. Tre andavano alla maggioranza e una all’opposizione. Era l’accordo che Storace aveva fatto con Zingaretti. Poi, al posto di Storace, noi mettiamo in pista Gramazio (Luca, arrestato lo scorso giugno, ndr ). E Zingaretti dice: “Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro (ex capo di gabinetto del governatore, ora indagato, ndr ), ci penso io con lui”. Da quel momento in poi, si parla solo con Venafro. Fatto l’accordo politico a monte con il Presidente, poi parli con il capo di gabinetto. Il capo di gabinetto fa l’accordo con Gramazio, il quale, per essere sicuro che venga rispettato, chiede un membro in commissione aggiudicatrice di gara». 15 C’è dell’altro. Buzzi indica un uomo chiave nell’entourage di Nicola Zingaretti. Peppe Cionci. «Gravita intorno a Zingaretti, è il suo uomo, tiene le sue cose economiche. È l’uomo dei soldi. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui, siamo andati da Cionci. Non ha un ruolo politico. Ha un ufficio vicino alla sede della redazione di Repubblica , in Largo Fochetti. È un imprenditore. Se uno deve fare una campagna elettorale e deve dare dei soldi al comitato di Zingaretti, ti rivolgi a Cionci. Se devi dare i soldi a Marino, ti rivolgi a Cionci. Tutti a Cionci». E c’è un motivo, a quanto pare. IL PALAZZO DELLA PROVINCIA Buzzi sostiene di aver saputo da Luca Odevaine (come lui detenuto dal dicembre scorso, ndr ) in quale occasione Zingaretti e il suo entourage sarebbero stati corrotti. «Odevaine mi raccontò che in Provincia (dove era capo della polizia provinciale, ndr ) le operazioni sporche le facevano Cionci, Cavicchia (Antonio, direttore generale della Provincia, ndr ) e Venafro e mi raccontò ‘sta cosa dell’acquisto della sede della Provincia. Il palazzo fu comprato da Parnasi con un pre-contratto di acquisto, praticamente prima ancora che Parnasi costruisse l’immobile. Uno dei due grattacieli dell’Eur (quartiere a Ovest di Roma, ndr ) è diventato la sede della Provincia quando si sapeva già che la Provincia sarebbe stata soppressa. Quindi, viene bandita la gara per cercare la sede della Provincia, vince Parnasi e si incazza tanto Caltagirone, tant’è che il Messaggero fa campagna per giorni su questa storia. Anche perché Parnasi, con questa operazione che vale 180 milioni di euro, si salva dal fallimento. Ovviamente con un contratto in mano di acquisto da parte della Provincia, tutte le banche finanziarono Parnasi. Che da allora si è rimesso in pista e ora farà lo stadio nuovo della Roma». Buzzi riferisce ai pm le parole esatte che avrebbe pronunciato Odevaine: «Luca mi disse: “Che pensi, che ‘sta operazione l’hanno fatta gratis, lì? I soldi che ci hanno fatto Cavicchia e compagnia ci possono andare avanti per generazioni». Il pm Ielo lo interrompe: «Odevaine le disse i nomi di chi avrebbe preso i soldi?». E Buzzi: «Sì. Cavicchia, Cionci, Venafro e Zingaretti. Cionci per Zingaretti, ovviamente». LE MAZZETTE PD Se dalla Regione ci si sposta al consiglio Comunale, sostiene Buzzi che con la giunta Marino fossero cambiate le regole. «Con Alemanno — spiega — comandavano gli assessori. Con Marino, i dirigenti dei dipartimenti». Mentre l’aula consiliare Giulio Cesare era diventata un suk dove la facevano da padrone i due capi- bastone del Pd, l’allora presidente dell’Assemblea Mirko Coratti e l’allora capogruppo Francesco D’Ausilio (a quest’ultimo, Buzzi sostiene di aver fatto arrivare, attraverso il suo capo segreteria Salvatore Nucera, una tangente da 6.500 euro per una gara per la pulizia delle spiagge di Ostia). «La regola era che si pagava la tangente sul valore del 50 per cento dei lotti di gara. E che, un lotto era indicato dalla politica. Era la politica che decideva a chi doveva essere assegnato». «Pagavate quanto? », chiede Ielo. «Il 3, 4, 5 per cento», risponde Buzzi. Che aggiunge: «Con D’Ausilio ci venne imposta per la prima volta una tassazione sulle gare per il servizio giardini e il V dipartimento (assistenza immigrati ndr.). Diceva D’Auisilio: “Dovete pagare tutto”. Avemmo una discussione. Gli dissi: “Non puoi entrare a gamba tesa sulle coop sociali”. Anche perché non potevo andare da una piccola coop sociale e dirgli “paga D’Ausilio”. Per questo ci accordammo con Nucera che si pagava solo sul 50 per cento dei lotti». IL RUOLO DI ALEMANNO Diversa la storia che Buzzi racconta di Alemanno. Sostiene con i pm che, anche in quel caso, fu «costretto a pagare» per non perdere le gare con Ama. «Alla fine, a Panzironi (allora ad della municipalizzata, ndr ) gli ho dato tra 900 mila e 1 milione di euro». Una sanguisuga, «che se lo incontravo pe’ strada, je mettevo le mani addosso». E, tuttavia, di questo fiume di denaro preteso da Panzironi, anche in qualità di segretario della 16 Fondazione Nuova Italia dell’allora sindaco, Alemanno nulla avrebbe saputo. «Io ho la prova indiretta — dice Buzzi — che Alemanno non sapesse che questo acchiappava i soldi in nero. Mi fu data un giorno che venne in visita al Bioparco con il cardinale Vallini l’allora assessore Visconti, Discutemmo di quanto dovevo dare per una gara. E lui mi disse: “Non voglio che Alemanno sappia”». RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 5/08/2015, pag. VII RM “Migranti e rifugiati Roma è allo stremo” L’appello di Marino Il sindaco interviene alla Commissione parlamentare “Arriva qui il 20%. Molti cittadini contro l’integrazione” SOS sovraffollamento migranti e rifugiati. Lo ha lanciato ieri il sindaco Ignazio Marino convocato in commissione parlamentare d’inchiesta sull’accoglienza immigrati. «Roma è la seconda città d’Italia per l’accoglienza, assorbe il 20% delle persone che arrivano nel nostro paese. Non possiamo sostenere questi afflussi: non abbiamo né risorse né strutture», ha detto il sindaco. Il sovraffollamento non è solo degli immigrati, anche i rom hanno raggiunto numeri record: più di 8mila presenze. E qui il grosso problema è che la maggior parte dei romani non vuole l’integrazione dei nomadi. «I campi rom sono da superare - ha dichiarato Marino - ma una questione è affermarlo, un’altra è farlo. La maggior parte della popolazione è contraria all’idea del superamento dei campi con la possibilità di attribuire alle famiglie rom alloggi popolari come agli altri cittadini ». Non solo. Il sindaco ammette che finora le politiche di integrazione sono risultate fallimentari: «Spendiamo somme ingenti per il trasferimento con i bus dei bambini a scuola ma il successo è inferiore al 50%. I bimbi che poi a scuola ci vanno davvero sono meno del 20%. Potremmo tentare con un maggior coinvolgimento delle donne. Sono convinto che una mamma non voglia vedere il proprio figlio crescere in una situazione di degrado e senza la possibilità di andare a scuola». «Il sindaco parla giustamente di resistenze, ma va detto che le resistenze maggiori provengono dalla politica e dall’amministrazione stessa», polemizza Riccardo Magi, presidente di Radicali italiani. Più volte il chirurgo dem si è posto il problema di eventuali contagi per la presenza così massiccia di immigrati a Roma. In particolare Marino si è chiesto se i romani non fossero a rischio contagio tbc. «Ho più volte espresso preoccupazione per lo stato di salute dei migranti, anche in una lettera che ho scritto ai ministri della Salute e dell’Interno. Lorenzin e Alfano mi hanno assicurato che esistono cinque livelli di controlli sanitari sui migranti, a partire da quello che ha luogo sulle navi». Ma non bastano i controlli. Servono le cure: «I migranti devono essere curati, anche per evitare la diffusione di malattie a cui il nostro sistema immunitario non è più abituato», ha concluso Marino. L’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese, anche lei ascoltata nella commissione presieduta dal Pd Gennaro Migliore, ha annunciato una nuova delibera sulle 17 residenze fittizie, gli indirizzi che i migranti forniscono perché si metta in moto la procedura dell’assistenza, per esempio, sanitaria e legale. Di concerto con questura, prefettura, dipartimenti Anagrafe e Politiche sociali, l’assessore porterà in giunta una delibera che presuppone una rete di controlli. «Il provvedimento spiega Danese- darà la possibilità alle associazioni di riprendere in mano la gestione delle residenze fittizie, ma con un impegno in più: le persone a cui vanno date le residenze devono essere effettivamente seguite e conosciute e devono certificare più volte durante l’anno che frequentano l’associazione di riferimento». Giorni contati per il centro di accoglienza Baobab. «Puntiamo a chiuderlo attraverso un progressivo alleggerimento conferma Danese- Il centro è stato attivo fino ad aprile, poi abbiamo chiuso tutte le partite, anche economiche, e non abbiamo più pagato l’affitto. I migranti verranno trasferiti alla tensostruttura sulla Tiburtina e al Ferrhotel, sempre sulla Tiburtina, adesso in fase di ristrutturazione. L’obiettivo finale è l’integrazione». Intanto però ieri pomeriggio un tunisino di 30 anni si è dato fuoco nel centro di immigrazione di via Patini. L’uomo è ricoverato all’ospedale Sant’Eugenio, ma non sarebbe in pericolo di vita. Un gesto di protesta e disperazione: lo straniero, allontanato più volte dall’Italia, era stato convocato per ricevere una notifica di rigetto della sua ultima domanda di regolarizzazione. Appresa la notizia, si è cosparso di liquido infiammabile e si è dato fuoco con un accendino. Del 5/08/2015, pag. 9 Cameron: «Niente garanzie e welfare per chi non ottiene l’asilo politico» Gran Bretagna. I migranti avranno 28 giorni per andarsene. Londra risparmia oltre 70 milioni di euro. Almeno 10mila persone dovranno lasciare il paese Il governo conservatore di David Cameron ha annunciato dei provvedimenti volti a scoraggiare l’immigrazione illegale in Gran Bretagna. Ieri il ministero dell’Interno ha infatti illustrato il piano che prevede lo stop al welfare per coloro ai quali verrà respinta la richiesta d’asilo. Il documento ufficiale, datato 4 agosto, afferma che il governo sta prendendo in considerazione di attuare i provvedimenti dal prossimo luglio 2016: a partire dall’estate prossima, saranno oltre 10.000 le persone che dovranno lasciare il paese. Per farlo avranno a disposizione, si fa per dire, 28 giorni. La mossa del governo permetterà di risparmiare alle casse dello stato circa 49 milioni di sterline (70 milioni). Il documento chiarisce inoltre – nel caso ce ne fosse bisogno — che questi provvedimenti legislativi permetteranno alle autorità locali di non essere in alcun modo obbligate ad aiutare i richiedenti d’asilo e le loro famiglie che dovranno lasciare l’Inghilterra. Le proposte avanzate dal governo sono motivate dalla volontà di dimostrare a chi cerca di arrivare in Gran Bretagna che quest’ultima non è «la terra del latte e miele» e finiranno per integrare due categorie di sostegni offerti fino ad oggi, al fine – dice il governo — di rendere più rigoroso il processo decisionale caso per caso, anziché garantire il diritto al sostegno statale in modo automatico. La prima categoria, conosciuta come «section 95 support», garantisce il welfare a poco più di 10mila richiedenti asilo (le cui richieste sono state respinte) che non riescono a far fronte al carovita. Le famiglie alle quali è stato dato un alloggio «no-choice» (senza scelta) in zone periferiche di Londra riceveranno infatti, a partire dal 10 Agosto, 50 euro per ogni adulto o bambino, e alcune di loro vedranno il proprio sostegno diminuire di circa il 30%. 18 La seconda categoria, nota invece come «section 4.2 support», include tutte le famiglie a cui è stato assicurato un alloggio «no-choice», sempre nella periferia della capitale, ma che non ricevono assegni. I circa 4.000 singoli richiedenti circoscritti in questa categoria ricevono una carta prepagata Azure, contenente 40 euro circa settimanali e utilizzabile solo in alcuni rivenditori per comprare generi alimentari o prodotti di prima necessità. Fonti vicine al governo britannico negano però la completa sparizione del sostegno economico verso i più bisognosi. Il sussidio statale verrà infatti erogato a coloro per i quali lasciare il paese rappresenta un vero e proprio ostacolo; secondo una ricerca eseguita dalla Camera dei Comuni, più di 3.600 individui inclusi nella «section 4.2» hanno vissuto con il sostegno per più di un anno; si tratta di una cifra alta che sta ad indicare che molti di loro hanno reali difficoltà a tornare nel paese d’origine, o perché c’è una guerra, o per il rifiuto del paese stesso a rilasciare i documenti validi ad un nuovo espatrio. «David Cameron invece di utilizzare la retorica anti immigrazione, dovrebbe spiegare al popolo inglese che questa è gente disperata proveniente da paesi in guerra o che non rispettano i diritti umani», aveva dichiarato Natalie Bennett, leader del Green Party. Secondo il Ministero degli Interni inglese, i provvedimenti cercheranno di porre i bambini come categoria da proteggere: il progetto «cercherà il modo migliore per far espatriare le famiglie a cui è stato negato l’asilo, garantendo nel frattempo che ci siano meccanismi per assicurare la protezione dei bambini». «Questa dura proposta sembra essere basata sulla logica secondo la quale lasciare le famiglie al margine della miseria le costringerà ad andare via da questo paese. Il governo ha il dovere di tutelare tutti i bambini in questo paese e anche governi precedenti hanno ritenuto moralmente riprovevole togliere il supporto a famiglie con bambini» ha specificato Lucy Doyle dal Consiglio per i Rifugiati. Del 5/08/2015, pag. 9 «Cani e reticolati», il premier britannico rilancia l’ultra destra razzista Eurorazzismi. Nuovi movimenti anti-migranti e islamofobi in Gran Bretagna. Edl, National Action, Pegida UK: ecco i nuovi «difensori dei valori occidentali», in marcia, fino all’Eurotunnel, con l’estrema destra polacca David Cameron non ha più rivali a destra. Dopo l’euroscetticismo, sostenuto dall’allarme lanciato dai tabloid popolari che annunciano invasioni, epidemie e terrorismo jihadista diffuso se non si sbarrano le frontiere, il premier conservatore britannico ha scelto la via dell’affondo muscolare anche sull’immigrazione. Epicentro dell’escalation dagli accenti xenofobi del governo di Londra è oggi il tunnel sotto la Manica e l’afflusso degli stranieri provenienti dalla città francese di Calais, ma, puntando tutto su questa stessa linea, Cameron si è già aggiudicato le recenti elezioni politiche riuscendo nell’impresa di riportare a casa i voti nazionalisti in libera uscita e i consensi protestatari e razzisti andati negli ultimi anni all’United Kingdon Independence Party. La svolta del Partito Conservatore non passa però inosservata. Mentre le autorità ripetono in modo ossessivo che i «veri nemici», più della crisi, sono gli stranieri scrocconi che campano alle spalle del già malridotto sistema di welfare del paese, l’estrema destra razzista sfrutta la situazione e torna ad occupare le strade. Al punto che c’è da credere che il saluto nazista esibito in famiglia dalla futura regina Elisabetta nel 1933, l’anno dell’ascesa 19 al potere di Hitler, quando la sovrana non aveva che sette anni, rivelato recentemente da uno scoop del Sun, non sarà il solo segnale sinistro per cui ricordare questa calda estate dell’era Cameron. Quasi a sostenere le proposte del premier che aveva parlato di aumento della sorveglianza, con «cani, agenti e reti metalliche» sulla sponda britannica della Manica, nei giorni scorsi i militanti dell’English Defense League, il movimento ultranazionalista che negli ultimi anni ha raccolto estremisti di destra e hooligans di diverse squadre di calcio su una piattaforma anti-immigrati e soprattutto anti-musulmani, si sono radunati a Folkestone, all’ingresso dell’Eurotunnel, per chiedere che «per fermare questa marea umana, siano inviati subito i militari». In un comizio improvvisato, introdotto dall’inno nazionale e tra bandiere con la croce di San Giorgio, simbolo dell’Inghilterra, e Union Jack, ha preso la parola Paul Goding, alla testa dal 2011 di Britain First, il partitino che si prefigge di portare sul piano elettorale le tesi dell’Edl, recentemente denunciato per aver seppellito un maiale in un terreno destinato alla costruzione di una moschea a Dudley, nelle Midlands occidentali. Secondo lui, «il popolo britannico è contrario all’immigrazione. Viviamo su un’isola già fin troppo popolata, non c’è più posto per nessuno. E se dobbiamo fare degli sforzi, è giusto farli per i nostri concittadini e non per degli stranieri. Chi arriva qui, deve essere fermato con ogni mezzo». Edl e Britain First, che hanno preso il posto occupato all’inizio del decennio dal British National Party ormai prossimo allo scioglimento, puntano a presentarsi come difensori dei valori occidentali, ma, oltre al passato violento di molti dei loro membri, sono le stesse iniziative assunte dai gruppi locali che si rifanno a queste sigle ad illustrarne il vero profilo: a giugno, a Liverpool, hanno ad esempio promosso una «White Man March» aperta anche ai membri di formazioni neonaziste come la National Action e il British Movement. Allo stesso modo, a Newcastle, alcune centinaia di aderenti all’Edl, guidati da Robert Gray, un veterano delle forze armate, hanno dato vita di recente a Pegida UK, ispirandosi all’omonimo gruppo anti-islamico tedesco fondato a Dresda. Come descritto nel rapporto annuale sulle violenze e il pregiudizio nei confronti dei musulmani, redatto da un gruppo di ricercatori della Teesside University, il diffondersi dell’islamofobia è infatti uno degli aspetti più visibili della situazione. Con oltre 700 incidenti repertoriati, tra cui una ventina di aggressioni fisiche gravi, e il moltiplicarsi della «letteratura dell’odio» online, il fenomeno è descritto nei termini di un autentico allarme. La progressiva banalizzazione delle tesi dell’estrema destra nella società britannica, avvertono gli analisti della rivista antirazzista Searchlight, cela però anche un altro pericolo: quello di un ritorno del neonazismo puro e semplice e la prospettiva che Londra diventi una sorta di capitale di tali movimenti. Come accaduto nel quartiere periferico londinese di Golders Green, dove vive una folta comunità ebraica, che è stato protagonista all’inizio di luglio di una manifestazione indetta letteralmente «contro l’ebraizzazione» della zona, a cui hanno preso parte neonazisti locali, riuniti nella National Action e nello Iona London Forum, accanto agli aderenti alla sezione britannica della Narodowe Odrodzenie Polski, Rinascita nazionale polacca, formazione dell’ultradestra di Varsavia sempre più presente anche presso i polacchi immigrati in Gran Bretagna, al pari di quanto accade anche per i gruppi neonazisti delle repubbliche baltiche e dell’Ucraina. 20 Del 5/08/2015, pag. 19 «In sette mesi sono morti 2.000 migranti» L’Organizzazione per le migrazioni: picco di vittime ad aprile. Cittadinanza, alla Camera primo sì allo ius soli Di qualcuno, come Raghad Hasoun, la bambina siriana malata di diabete arrivata senza vita a Siracusa a metà luglio, c’è un nome. Di altri, come l’eritreo scomparso nel Canale di Sicilia il 22 luglio sotto gli occhi del fratello, che si è salvato, è rimasta una storia. Per moltissimi, come la maggior parte degli 800 naufragati il 18 aprile al largo della Libia, non resta niente, solo il ricordo di chi, a casa, non ha più notizie ma spera che ce l’abbiano fatta lo stesso. Ora c’è un numero che li racchiude tutti: sono 2.000 i migranti e rifugiati morti da gennaio nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Lo stima l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), secondo la quale il nostro mare è il confine più pericoloso del mondo. Almeno 60 persone hanno perso la vita sulla rotta per la Grecia, 1.930 nel tentativo di raggiungere l’Italia. «L’anno scorso, nello stesso periodo, le vittime stimate erano state in tutto 1.600 — spiega Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim Italia —. Ogni naufragio è una storia a sé, ma di fatto l’aumento di morti è concentrato nei primi mesi dell’anno. Cioè il periodo tra la sospensione di Mare Nostrum, la missione di salvataggio italiana, e il potenziamento di quella europea Triton». Una spiegazione confermata dai dati dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che sulla base delle segnalazioni delle Guardie costiere di diversi Paesi e delle testimonianze dei sopravvissuti stima in almeno 2.100 i morti da gennaio. Secondo l’Unhcr i migranti e rifugiati annegati nelle traversate ad aprile scorso sono stati 1.308 rispetto ai 42 del 2014 (Oim ne stima rispettivamente 1.265 e 50). Una strage che ha indotto i leader dell’Ue a triplicare il finanziamento a Triton e ad ampliarne la copertura fino alla zona antistante alla Libia. A maggio così il numero delle vittime si è ridotto a un terzo di quelle registrate nel 2014. A monte c’è però l’aumento delle persone che tentano la traversata: 219 mila l’anno scorso, 137 mila nei primi sei mesi di quest’anno, contro le 60 mila di tutto il 2013. «Spesso fuggono dalle guerre: la maggior parte di coloro che sono arrivati via mare dal 2014 a ora sono siriani e eritrei — dice Barbara Molinario di Unhcr —. Se vogliamo salvare vite umane non possiamo continuare a lasciare soli Paesi come il Libano che già oggi ospita 1,2 milioni di rifugiati su circa sei milioni di persone. Bisogna fornire a chi scappa dalle violenze alternative alle traversate: visti umanitari, per esempio, o il ricongiungimento familiare facilitato». In assenza di percorsi legali al costo umano si aggiunge quello economico: il sito d’inchiesta «The Migrants Files» calcola che dal 2000 migranti e rifugiati hanno speso 16 miliardi di euro per entrare illegalmente in Europa. E l’Europa ne ha spesi 11,3 per rimandarli indietro. Ieri intanto la commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato il testo base dello ius soli «soft»: permette ai minori nati in Italia da stranieri di ottenere subito la cittadinanza se frequentano le scuole qui per almeno 5 anni o se uno dei genitori è residente da 5 anni. Elena Tebano 21 Del 5/08/2015, pag. 11 I profughi nel cuore dell’Europa La grande maggioranza dei migranti arrivati in Sicilia e Ungheria si è ormai spostata nel Nord Caos a Calais, la Germania ricorre all’esercito. Nel 2015 morte 2000 persone nel Mediterraneo Beniamino Pagliaro Sono davvero andati al Nord. Quando il 18 aprile il Canale di Sicilia inghiottiva centinaia di disperati, quando la polizia li sfollava alla Stazione centrale a giugno, quando si accampavano sugli scogli a Ventimiglia, quando la politica strepitava e concludeva poco, una voce continuava a ripeterci: non vogliono venire in Italia. Cercano il Nord Europa, non un Paese con la disoccupazione al 12,7%. Il viaggio è continuato, con il miraggio delle imprese di Germania e Inghilterra, un parente o un amico che ce l’ha fatta in Svezia. La voce aveva ragione: sono andati al Nord, e il Nord si è attrezzato per l’arrivo. Da Calais all’Ungheria sono stati schierati soldati ed eretti muri. La Bulgaria, confine Sud Est dell’area Schengen, ha già in piedi un muro da quattro metri e mezzo: filo spinato, soldati e telecamere, lungo 80 chilometri. In Ungheria il governo Orban ha avviato la costruzione del nuovo muro da 175 chilometri: 900 militari sono al lavoro, e contano di concludere i lavori entro fine mese. Nuove rotte L’Ungheria è diventata la porta d’entrata preferita dagli immigrati in fuga dal Nord Iraq in mano all’Isis e dall’infinita guerra civile siriana. Più sicura ed economica di una traversata nel Mediterraneo, la porta a Est ha registrato oltre 100 mila arrivi nei primi mesi del 2015. Nel 2014 le richieste d’asilo a Budapest erano state meno di 43mila, nel 2013 circa 18mila. Tra calcoli e diverse tipologie di migranti, un ragionamento sui numeri è sempre complicato. Ma il grande flusso si è spostato a Nord. Nei primi giorni di agosto l’Italia ha accolto i migranti salvati dalle navi delle rinnovate operazioni in mare: 780 il primo agosto, 369 il 3 agosto a Reggio Calabria, solo ieri 427 a Vibo Valentia e 305 a Messina. Nelle stesse ore, in un solo colpo 4.500 migranti sono stati catturati nel tentativo di entrare in Ungheria. Le ultime stime dicono che i rifugiati arrivati in Germania nel solo mese di luglio sono 79mila, e le richieste d’asilo da gennaio a luglio sono state 258mila. Il governo di Angela Merkel è dovuto intervenire, toccando il divieto - stabilito nel dopoguerra negli accordi con gli Alleati - di usare l’esercito per attività che non siano emergenze nazionali o vera e propria difesa. La politica tedesca discute del presunto affronto alla Costituzione, e nonostante Merkel goda di un ampio consenso nel Paese, ha scelto di intervenire: i militari costruiranno tendopoli e strutture sanitarie per i migranti. Arrivano nel Regno Unito, disturbando le vacanze di David Cameron, e allora il fronte caldo è a Calais più che a Lampedusa. Al porto francese sulla Manica i prezzi dei trasporti illegali attraverso l’Eurotunnel sono raddoppiati dai 500 euro di due mesi fa ai mille. La tendopoli che a settembre ospitava 1.300 persone oggi ne ha oltre cinquemila. Aspettano il buio e tentano l’assalto al tunnel, con circa 400 tentativi a notte. Spesso vengono bloccati, a volte muoiono. La politica borbotta, i trasportatori lamentano danni da 5 milioni di sterline per ogni diecimila tir fermi nella Manica, complicando ancora il rapporto tra Cameron e l’Europa in attesa del referendum sull’uscita dall’Ue. Chi arriva al Nord scrive comunque la pagina fortunata della storia contemporanea. Nel 2015 oltre duemila migranti sono già morti attraversando il Mediterraneo, secondo la stima diffusa ieri dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Problema comune 22 Nello stesso periodo del 2014 erano morte 1607 persone. La rotta italiana si conferma la più pericolosa: Italia e Grecia hanno registrato un flusso simile di migranti (97.000 e 90.500), ma 1.930 persone sono morte durante la traversata per l’Italia 60 verso la Grecia. Anche l’uomo nascosto nella valigia, morto soffocato nel viaggio dal Marocco alla Spagna, era diretto a Nord. Meno di un mese fa, quando la Commissione europea provava a introdurre le quote di migranti da redistribuire, la riposta del Nord è stata scarsa e negativa. Ora i ministri francesi e inglesi chiedono solidarietà a Italia e Grecia, e lo staff di Merkel pensa a un nuovo vertice, a settembre, dopo le vacanze. L’immigrazione è o no, un problema europeo? 23 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 5/08/2015, pag. 13 L’ex colosso dell’acciaio Una lunga crisi sfociata in disastro ambientale e avvelenamento, con la produzione ai minimi storici, le aziende dell’indotto soffocate dai debiti e i cinesi che abbandonano il progetto del porto Il mostro ferito chiamato Ilva ora Taranto tenta il riscatto DAL NOSTRO INVIATO GIULIANO FOSCHINI TARANTO. Bisogna tornare indietro di sessant’anni quasi. E arrivare al vecchio sindaco democristiano Angelo Monfredi che nel 1959 così raccontava: «Alla notizia la città esultò. Fu scomodato persino un completo bandistico che portò in ogni rione l’annuncio tanto atteso. La città cominciava finalmente a guardare al suo futuro con maggiore serenità. Chi alzò un dito allora per dire che il IV centro siderurgico stava per nascere? Nessuno. C’era fame di buste paga, di posti di lavoro, di tranquillità economica, di serenità. Se ce lo avessero chiesto avremmo costruito lo stabilimento anche in pieno centro cittadino». Sessant’anni di Italsider e Ilva dopo, Taranto è diventata invece questa qua: un animale ferito, quasi ucciso, da quel mostro che accolsero con la banda in piazza. Lo raccontano le carte giudiziarie (disastro ambientale, omicidio plurimo, avvelenamento di cibo, animali, eccetera eccetera), lo si legge sui muri della città (“Ilva boia”), lo si trova nelle storie della gente, storie di malattie, di dolori, di sogni spezzati. E ora lo si comincia a trovare anche nei numeri dell’economia perché dopo anni in cui l’acciaio ha dato da mangiare a tutta la città, in buste paga o in mazzette, oggi il siderurgico è al minimo storico di produzione, con le aziende dell’indotto che chiudono soffocate dei crediti non pagati dal vecchio siderurgico, i cinesi che abbandonano il progetto del rilancio del porto ma comprano a quattro soldi le case del quartiere Tamburi, quelle inquinate che non vuole più nessuno. Qualche numero: nel 1980 31mila persone, tra azienda e indotto, lavoravano per l’Italsider. La produzione a pieno regime era di 11 milioni di tonnellate all’anno, tredicesimo nel mondo, dietro cinesi, coreani e russi, secondi in Europa soltanto a Duisburg. Il fatturato annuo ai tempi dei Riva oscillava tra gli 11 e i 15 miliardi di euro, con una percentuale altissima di esportazione. In sostanza, la grande industria dell’acciaio era qui, a due passi dal ponte girevole. E ora? «Ora le cose sono cambiate…» si stringe nelle spalle il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo. L’Ilva è andata in amministrazione straordinaria con tre miliardi di debiti, circa duemila creditori aspettano duecento milioni. Lo stesso Cesareo, imprenditore metalmeccanico, con alcune aziende che lavoravano nell’indotto, ha «crediti per qualche milione di euro». «La crisi dell’Ilva vale il 2,7% del Pil nazionale — spiega il numero uno locale degli industriali — Il 90% di quello della provincia di Taranto». Crisi dell’Ilva significa che oggi le 11 milioni di tonnellate di produzione si sono ridotte sotto i 5, che i dipendenti non superano i 14mila e che il rientro al lavoro di 300 persone oggi, che un altoforno sta per riaprire dopo i lavori di ambientalizzazione, viene festeggiato come un evento. Non con la banda. Ma quasi. Ma il problema per Taranto, è chiaro, non è quello che accadrà oggi. Ma quello che succederà domani. Il premier Renzi ci “aveva messo” la faccia, arrivando a Taranto tra i primi impegni da presidente. Ha poi delegato il suo sottosegretario, Claudio De Vincenti, a occuparsi del caso mettendo sul piatto 600 milioni di euro non solo per Ilva. Anzi, non per 24 Ilva. Ma per il turismo, la cultura. «Soffriamo — continua il presidente di Confindustria — la crisi dell’Arsenale Militare con il progressivo depauperamento delle risorse. E l’incredibile storia del porto ». In pochi anni si sono perse 300 grandi navi all’anno, che invece dovevano raddoppiare secondo l’intenzione della Tct (Taranto container terminale), società partecipata dai tawanesi, che doveva rendere Taranto il secondo porto dell’Italia meridionale: serviva però il risanamento e il dragaggio dei fondali per l’attracco delle navi transoceaniche. C’erano anche i soldi, ma la burocrazia non è riuscita a fare le opere in tempi accettabili. E allora i taiwanesi sono andati via. E’ la maledizione del Mostro, sembra Medusa: chiunque lo guardi, diventa pietra. Gli investimenti, le pecore che pascolavano, la gente che ci viveva. Si può sopravvivere? Può esserci un futuro a Taranto? La stessa domanda posta a cinque soggetti diversi trova risposte sorprendenti. «Sì, nessun dubbio » — dice il nuovo commissario straordinario di Ilva, Piero Gnudi — Siamo convinti che ci siano ancora le condizioni per un rinnovato ruolo di Ilva come acciaieria moderna, compatibile con l’ambiente, efficiente e di qualità. Il governo e tutti noi, commissari e lavoratori di Ilva siamo impegnati a completare rapidamente questo processo: fra qualche giorno riparte l’altoforno 1 ambientalizzato e rinnovato, entro il prossimo anno ripartirà l’altoforno 5. Se non ci saranno intoppi nel 2016 torneremo in pareggio e dal 2017 in utile. Ilva e i suoi 14 mila dipendenti sono pronti a tornare ad essere protagonisti in Europa». “Sì” risponde Confindustria. «Ma non solo con Ilva. Insieme con i sindacati abbiamo presentato un master plan nel quale chiediamo sviluppo turistico e culturale, certo. Ma anche un’industria di tipo diverso: un accordo di programma per il porto, l’aerospazio». “Sì” risponde anche Francesco Bardinella della Fiom. «Ma lo sviluppo è civiltà. E allora non si deve più morire di lavoro e per il lavoro», con gli occhi lucidi dopo la morte di nemmeno due mesi fa di Alessandro Morricella, travolto da una colata di lava bollente mentre era in Altoforno. “Sì” dice anche Vincenzo Fornaro, il pastore che ha visto uccidere il suo gregge perché pascolava troppo vicino all’Ilva, e ora su quei campi ha piantato canapa, perché “pulisce” e perché si “può produrre senza inquinare”. E “sì” risponde anche Alessandro Marescotti, il leader di Peacelink, la coscienza ambientalista di questa città, l’uomo che forse più di tutti ha portato la parola “consapevolezza” in questa terra. E ora combatte per un altro vocabolo: «Riconversione. Usiamo i soldi per la bonifica, due miliardi circa, e costruiamo la prima vera smart city italiana». Sessant’anni dopo, a Taranto, c’è soltanto da scegliere qual è il “sì” giusto. Del 5/08/2015, pag. 19 L’Italia alla «battaglia» dell’energia pulita È ormai conveniente produrla, mancano leggi precise - Frankl (Iea): «Stesso impatto del gas, doppio del nucleare» Nel mondo l’evoluzione energetica, quel cambio di paradigma nel modo di produrre e consumare energia, mostra segnali di tendenza. Probabilmente irreversibile. Anche l’Italia con gradualità e – come in ogni transizione – fra piccoli passi in avanti e retromarce evidenti segue quanto accade anche nel resto del mondo. Le tecnologie energetiche stanno percorrendo con qualche anno di ritardo quanto è avvenuto nel resto del mondo produttivo. Il silicio, che ha dato la svolta dei computer e dei telefonini in rete cambiando le relazioni fra i produttori e con i consumatori e più in generale la società, quando è in una particolare forma ha anche la proprietà di emettere un flusso di elettricità se colpito dalla luce. È il principio dell’energia fotovoltaica che, con quella eolica, è il simbolo della 25 produzione elettrica efficiente, pulita, con basse barriere di capitale, vicina ai consumatori o perfino direttamente in casa del consumatore il quale diventa, neologismo imbarazzante, un «prosumer», che si potrebbe tradurre in modo ancor più imbarazzante come «prosumatore». Produttore e consumatore insieme. Cina e India, che marciano a carbone, stanno convertendo parte della loro capacità produttiva verso l’energia rinnovabile, come sottolinea Francesco Ferrante di GreenItaly, un osservatore accorto delle tendenze dell’ecologia, e il consumo cinese di carbone in Cina è sceso dell’8% e le emissioni di anidride carbonica del 5%. Dal 2008 al 2013 le emissioni degli Stati Uniti sono diminuite del 12% nonostante la crescita del Pil (fonte: nuovo rapporto Ceres), e si disaccoppia il collegamento tra crescita economica e danni all’ambiente: si può crescere in modo sostenibile. A Dubai un grande impianto solare produrrà elettricità a meno di 60 dollari per mille chilowattora, un record mondiale; in Egitto sorgerà una centrale eolica il cui chilowattora costerà ancor meno. Il sistema normativo nazionale è ondivago, spesso oggetto di spinte emotive alla ricerca del consenso. Per anni l’Italia ha promosso le fonti rinnovabili, facendo del Paese uno dei più rinnovabili al mondo. Durante un convegno organizzato di recente dall’Agenzia internazionale dell’energia e dal Gestore dei servizi energetici, l’amministratore delegato di Terna (la Spa pubblica dell’alta tensione) Pier Francesco Zanuzzi ha sottolineato che dal 2005 al 2013 la produzione italiana di energia pulita è cresciuta di 17 volte e copre il 40% della produzione nazionale, con un sorpasso sul metano, il quale a sua volta pochi anni fa aveva conquistato il primato sull’olio combustibile. Ma i dati del giugno 2015, freschissimi, sono ancora più forti: secondo la media trilussiana del pollo, le centrali pulite hanno prodotto 9,5 miliardi di chilowattora pari al 47% dell’elettricità nazionale. Significa che in giugno diverse volte le fonti pulite di energia hanno costretto a tenere spente quasi tutte le centrali a combustibile. L’effetto è duplice. Le rinnovabili fanno scendere in modo rilevante la quotazione del chilowattora all’ingrosso al Mercato Elettrico (la settimana scorsa il listino è crollato del -21%) ma al tempo stesso fanno rincarare la bolletta dei consumatori tramite gli incentivi. Le politiche italiane ancora oggi oscillano fra le due spinte contraddittorie, promuovere l’energia pulita ma frenare l’energia pulita. La normativa viene cambiata di continuo, secondo gli umori del momento. Per il segmento fotovoltaico, per esempio, c’è stato un sovrapporsi di diversi incentivi in “conto energia” inframmezzati da leggi come il cosiddetto Salva Alcoa che, durante il Governo Berlusconi, diede all’energia solare un sussidio di generosità sorprendente, salvo far in breve marcia indietro. Oggi siamo alla revisione dello “spalmaincentivi” (che vengono ridotti ma pagati per un tempo più lungo), il quale ha sconcertato i piani di rientro delle banche che avevano finanziato i progetti, le associazioni dei produttori rinnovabili e perfino il Tar Lazio, che vi ha sentenziato contro. Sono in corso nuovi aggiornamenti, e associazioni come l’Assorinnovabili o la Federidroelettrica lanciano allarmi ripetuti. Non a caso Greenpeace, associazione ecologista battagliera e fra le meglio scientificamente preparate, ha dovuto lanciare in questi giorni una campagna per promuovere la diffusione delle fonti rinnovabili di energia nelle piccole isole italiane, che potrebbero diventare il regno delle fonti pulite di energia per le imprese, per le famiglie e per i trasporti. Avverte Paolo Frankl, direttore a Parigi della sezione rinnovabili dell’Agenzia internazionale dell’energia, che il comparto ha bisogno soprattutto di continuità, di certezze. Non è più vero – dice – che l’energia sostenibile costa troppo. I costi del fotovoltaico e dell’eolico scendono dove c’è un mercato competitivo oppure in alternativa dove ci sono piani di incentivazioni a lungo termine. Quando come in Italia i due sistemi si sommano (concorrenza e pianificazione insieme) in modo irregolare ed emotivo invece i costi della corrente elettrica crescono. Ciò scoraggia gli investimenti finanziari nelle rinnovabili, perché le indicazioni di prezzo sono falsate. «Il settore finanziario considera le rinnovabili come mature e affidabili. Ciò ha consentito di 26 ridurre i premi per il rischio, ottenere un costo del capitale più basso e di ridurre il costo delle rinnovabili», ha scritto Frankl in un articolo sulla rivista «Elementi » del Gse. «Chi pensa che le rinnovabili siano ancora piccole semplicemente sbaglia. Con circa 5.400 miliardi di chilowattora l’anno scorso le rinnovabili hanno prodotto a livello globale la stessa quantità di elettricità prodotta con il gas e due volte quella da nucleare». 27 INFORMAZIONE Del 5/08/2015, pag. 1-2 Rai,eletti i primi 7 del Cda nuovo scontro nel Pd Renzi: vertici di alto profilo Ai dem 3 consiglieri,2 al centrodestra,1 a Ncd e 5Stelle No a De Bortoli, proposto dalla sinistra. Dall’Orto sarà Dg UMBERTO ROSSO ROMA. Ci sono i sette nuovi consiglieri di amministrazione della Rai. Oggi tocca al presidente e all’altro membro scelto dal Tesoro. Il direttore generale, lo lascia intuire chiaramente lo stesso Renzi («ha qualità, autorevolezza, capacità»), con tutta probabilità sarà Antonio Campo Dall’Orto. Ma la battaglia per il presidente, che ieri ha avuto un prologo nella spaccatura del Pd, con la minoranza dem che aveva proposto per il cda Feruccio de Bortoli, è una partita delicata: servono i due terzi della commissione di vigilanza per la ratifica, e Renzi avrà perciò bisogno dei voti di una parte di Forza Italia o dei grillini. Fico, uomo di Grillo alla guida della Vigilanza, da un lato attacca duramente il premier, « aveva promesso nomi nuovi e invece sono tutti legati al suo partito», ma dall’altro tende la mano sul presidente: «Vediamo se finalmente ci propone una figura di alto profilo, ma sono scettico». E pure Forza Italia attende con interesse il nome del candidato presidente, «lo votiamo se rappresenta il paese», annuncia Augusto Minzolini. Renzi dal Giappone promette che i due nomi che farà oggi il governo saranno «di alto profilo» e spiega che nonostante la minoranza interna le riforme non si bloccheranno, «mai ne erano state fatte tante in Italia come adesso». Nel cda di Viale Mazzini entrano tre nomi per i democratici, l’ex segretario del sindacato dei giornalisti Franco Siddi, il direttore del teatro Puccini di Firenze Guelfo Guelfi, e la storica dell’arte Rita Borioni. Due nomi riesce a spuntare il centrodestra, due giornalisti, Arturo Diaconale (direttore dell’Opinione) e Giancarlo Mazzuca (direttore del Giorno ed ex deputato del Pdl). Area Popolare elegge Paolo Messa, ex capo ufficio stampa dell’Udc. Entra anche Carlo Freccero, uomo di lungo corso tv, direttore Mediaset, di Raidue e di Rai4, sospinto nel cda dai voti dei Cinquestelle e di Sel. L’ex direttore del Corriere della Sera de Bortoli, prende solo due voti (Gotor e Fornaro) della sinistra Pd e quindi non ce la fa, mentre scoppiano le polemiche dentro il partito. Miguel Gotor : «E’ stato posto un veto della maggioranza, è un’occasione persa». Il capogruppo Rosato smentisce: «Nessun veto ma i candidati del partito erano altri». E il presidente del partito Orfini: «Spero che non sia un altro strappo della minoranza, certo è curioso che, con tutto il rispetto per de Bortoli, sia il candidato della sinistra interna». Oggi il Tesoro indicherà all’assemblea degli azionisti Rai gli altri due consiglieri, uno dei quali sarà indicato come presidente. Ma domani la sua nomina dovrà essere confermata dalla Vigilanza, accordi permettendo. 28 Del 5/08/2015, pag. 1-2 Carta segreta del premier: “Un nome bipartisan alla presidenza. Una sorpresa” Berlusconi reclama il diritto di scelta per il numero uno di Viale Mazzini Attacco di Bersani: “Avevano detto via i partiti, hanno messo le correnti” IL RETROSCENA GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Mansi? «Non la conosco. Non si è mai occupata di Rai, dentro Viale Mazzini si possono trovare donne più all’altezza di lei», risponde Maurizio Gasparri. Il centrodestra comincia a bruciare nomi per il presidente della Rai: la stessa Antonella Mansi, Anselmi, Sorgi, Fuortes... Alzano il prezzo in attesa del ritorno di Matteo Renzi dal Giappone (è atterrato nella notte) e dell’inizio di una vera trattativa. Berlusconi propone tre nomi: Piero Ostellino, Barbarba Palombelli, Antonio Catricalà. «Dobbiamo trovare un Garimberti al contrario», dice ancora Gasparri. Ovvero, una personalità stavolta indicata da Forza Italia. Ma Renzi dice di avere una carta segreta. Telefona ai suoi collaboratori dai cieli della Siberia e annuncia: «Ho qualche nome in testa, non ho ancora deciso». La Mansi resta in campo e se ci sono veti, garantisce, ci penserà lui a superarli. Però sull’aereo di Stato, durante quel voto sopra il Polo Nord, si affaccia un’altra ipotesi: quella di designare alla carica di presidente Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria. Il centrodestra, per far pesare il suo diritto di veto, approfitta del caos dentro il Partito democratico, di una spaccatura ormai conclamata e che arriva a consumarsi persino sul prestigio di Ferruccio De Bortoli. L’ex direttore del Corriere della Sera è il nome proposto dalla minoranza per un posto da consigliere. La risposta di Ettore Rosato e Luca Lotti è negativa: «Va bene tutto, ma il Pd non può farsi rappresentare da chi ci ha definiti ladri e massoni», ribattono i renziani riferendosi a un editoriale del giornalista. Succede quindi che due voti in commissione di Vigilanza vanno dispersi e ne approfitta Forza Italia che da un consigliere passa a due (Diaconale e Mazzuca). «So- no stato più bravo di loro», gongola Gasparri mentre nel Pd volano coltellate che non lasciano presagire nulla di buono per le leggi da votare in autunno. Bersani raduna a pranzo alcuni dei suoi fedelissimi e girano commenti al vetriolo.. L’ex segretario dice chiaro e tondo: «E non è lottizzazione questa? Renzi aveva detto: fuori i partiti dalla Rai. Adesso ci mette addirittura le correnti». Qualcuno infatti maligna che Rita Borioni «era la segretaria di Orfini». Guelfo Guelfi invece è il ghost writer del premier. Speranza commenta: «Dire di no a De Bortoli dopo che lui aveva dato la sua disponibilità è un errore grave. Sarebbe stato un vero candidato lontano dalla politica». Rosato ricostruisce la vicenda in tutt’altro modo, come un agguato della minoranza. «Avevamo chiesto una rosa di nomi. Ci hanno fatto aspettare fino all’ultimo secondo, poi hanno presentato il nome secco di De Bortoli». Una provocazione bell’e buona, secondo il capogruppo e secondo il presidente del Pd Orfini. Adesso bisognerà tenere conto di questo clima rovente anche nel bilancino per eleggere il presidente. Cosa succede se mancano i tre voti dei consiglieri Pd della sinistra? La maggioranza scende da 22 a 19 voti e ha bisogno di 8 voti per raggiungere il quorum di due terzi necessario alla nomina del numero uno di Viale Mazzini. Non cambia molto, c’è comunque bisogno di un accordo con Forza Italia o 5stelle, ma il percorso diventa ancora più difficile. A Palazzo Chigi sono furiosi per le parole del presidente della commissione Roberto Fico che ha definito Renzi 29 «un buffone». Nessun patto sembra possibile per i grillini. Per questo si guarda a Forza Italia e Berlusconi vuole giocare la partita da dominus. «Troverò un nome dal profilo altissimo, sarà difficile dire di no», garantisce Renzi. Il match comincia stamattina alle 9,30. Il premier ha convocato a Palazzo Chigi i capigruppo Luigi Zanda e Ettore Rosato. Oltre a chi si occupa della vicenda: Lorenzo Guerini, Antonello Giacomelli, il ministro Boschi, Luca Lotti. Nel frattempo si sonderà Forza Italia sul nome, possibilmente di una donna, ma in pista c’è anche l’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo. Il Tesoro, conclusi i colloqui tra i partiti, indicherà il presidente e il suo membro del Cda (non si esclude che in quota ministero possa essere recuperato Massimo Bray). Domani però è il giorno decisivo in Vigilanza con il voto vincolante dei parlamentari. Senza un accordo con Berlusconi ed escludendo un patto con Grillo, il Pd cercherà i voti dei “cespugli” in commissione: centristi sparsi, verdiniani (2), Gal, ex Scelta civica. Non sarebbe un buon viatico per il nuovo consiglio, ma nel Pd si pensa anche all’arma estrema per non rimanere prigionieri del Cavaliere o del comico. Anche perché già così, con i due consiglieri conquistati a sorpresa da Forza Italia, il governo avrebbe una maggioranza ballerina anche nel Cda Rai. Del 5/08/2015, pag. 1-3 Trionfa la Gasparri Servizio Pubblico. Purtroppo, hanno vinto la conservazione, il viaggio all’indietro nel tempo: il trionfo della lottizzazione perfetta. I partiti in Rai sono di più, non di meno Di Vincenzo Vita Come nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo dei film trasmessi in televisione, ecco l’interruzione pubblicitaria della nomina dei vertici della Rai. Secondo i rituali della sbeffeggiata ma sempiterna legge Gasparri. Il primo capitolo della messa pagana si è compiuto con l’elezione dei sette componenti del nuovo consiglio di amministrazione da parte della commissione parlamentare di vigilanza. Seguono ora i due di emanazione governativa, tra i quali si colloca il nome del presidente, che diverrà effettivo con il parere reso dalla stessa commissione di vigilanza. Ed è atteso il Godot del rito, vale a dire il direttore generale, al quale saranno attribuiti a legge approvata i poteri dell’amministratore delegato: il fiore all’occhiello della (contro)riforma renziana. Il tutto dovrebbe consumarsi in un baleno. A quanto si sussurra e si grida, il predestinato Ad è Antonio Campo Dall’Orto, MtvItalia-Telecom Italia-La7-Viacom-Leopolda. Chissà chi lo sa. Il totonomine sulla presidenza indicherebbe una donna, secondo una vulgata assai edulcorata della parità di genere: scoperta a giorni alterni, possibilmente dove il potere si affievolisce. Quanto ai volti dei neo-amministratori, il bon ton impone una prudente attesa, pur scorgendo professionalità collaudate e un brillante «guru» dei media, Carlo Freccero. Non a caso votato da 5Stelle e da Sinistra, ecologia e libertà. Purtroppo, non ce l’ha fatta Ferruccio De Bortoli, suggerito — in limite — dalla minoranza piddina ad un partito piuttosto ostile verso gli eretici, tra le cui fila è finito persino l’ex direttore del Corriere della sera, a causa forse di qualche editoriale non allineato. Quanto è accaduto, però, non va valutato come se fosse un Talent. Il giudizio negativo prescinde dalla qualità dei singoli. Il meccanismo di nomina è desueto, ingiallito e tale da rendere inesorabilmente «minore» il medesimo organismo consiliare. Il baricentro si è spostato nettamente verso la parte «fiduciaria» del governo: un capo azienda con molti gal30 loni, ma privo di una missione. Appunto. L’incredibile e ingiusto destino che tocca al servizio pubblico sta proprio in tale astrusa contraddizione: mano dura, conduzione di impresa, gerarchia accorciata, ma non si sa per fare che. Freccero ha subito parlato della necessità di valorizzare l’informazione e la fiction. Come? Con il piano del direttore generale uscente Gubitosi o con un progetto coraggioso e creativo? Cinema e audiovisivo italiani ed europei o semplice messa in onda di serie americane (pur intriganti e di eccellente fattura)? E Il rapporto con Cinecittà, vero tesoro italiano gestito oggi in maniera discutibile? Il discorso si potrebbe allargare a numerosi aspetti che attengono al senso e all’attualità di un servizio pubblico-bene comune nell’era digitale. I nomi — dunque — andavano immaginati, al di là delle casacche politiche, sulla base di un progetto. Che non pare al momento esistere. A meno che non sia tenuto nascosto. L’urgenza di una strategia non è un bisogno teoretico, bensì un obbligo dettato dall’imminente scadenza della convenzione con lo stato. Purtroppo, hanno vinto la conservazione, il viaggio all’indietro nel tempo: il trionfo della lottizzazione perfetta. I partiti in Rai sono di più, non di meno. Un flop di governo e maggioranza, che in nobile sinergia hanno buttato al vento elaborazioni e proposte venute da parti significative della comunità mediatica. Non per fretta, ma per scelta: il passaggio dal servizio pubblico ad un’azienda governativa di relativa importanza. Del 5/08/2015, pag. 4 Viale Mazzini e la politica Tra assalti alle poltrone, intercettazioni, persino dossier dei servizi segreti, il Servizio Pubblico è da sempre uno scalpo dei partiti vincenti. Anche se Renzi aveva promesso questa volta il contrario Da Silvio a Matteo quei “Raibaltoni” che raccontano il potere italiano FILIPPO CECCARELLI L’ITALIA è una repubblica fondata sull’equivoco. Ma la Rai ancora di più. Ecco dunque l’esordio dell’ennesima, preannunciata e conclamatissima palingenesi che già da oggi vuole l’azienda finalmente “restituita al Paese”, come twittava nei mesi scorsi il presidente Renzi, o addirittura, secondo un’altra social-lectio, “ai cittadini”. E guai a chi sorride, seppure con rassegnazione. Il “Servizio pubblico”, d’altra parte, resta vincolato ad ammiccanti maiuscole e beffarde virgolette. Ci sarà tempo per ricostruire con la dovuta cura la rapida marcia d’avvicinamento dell’ultimo Conquistador verso la tv di Stato, periodico bottino di guerra, preda di spogli e di razzie del potere. Ma fin d’ora la tentazione sarebbe quella di prendere le mosse da quell’altro mutilatino digitale trasmesso alla rete dal giovane premier nel maggio 2014: “Niente paura, futuro arriverà anche alla Rai. Senza ordini dei partiti”. Là dove, mettendo per un attimo da parte il ruolo dei corpi intermedi, l’ipotesi maliziosa è che Renzi, peraltro in quei giorni reduce da un corpo a corpo con Floris a “Ballarò”, fosse in realtà inferocito con la Rai, i suoi burocrati e i suoi regolamenti per il divieto di esibirsi in diretta alla “Partita del Cuore” - e magari di fare anche gol. Ciò detto, viale Mazzini è per sua natura e vocazione piuttosto arrendevole ai potenti di turno. A volte lo è a tal punto da prenderli addirittura prigionieri, come dimostrano un paio di remoti dossier dei servizi segreti e alcuni più recenti cicli di intercettazioni telefoniche che documentano come all’occorrenza il “servizio pubblico” - ah31 ah! - si trasformi in una sorta di alcova di Stato. In questo senso, nell’arco ormai di un trentennio, timoratissimi democristiani, vitalisti craxiani e famelici post-fascisti potrebbero recare illuminanti testimonianze sui propri sviluppi sentimentali, per così dire, sovrapponibili a quelli dell’azienda radiotelevisiva. Per quanto riguarda Berlusconi, beh, anche lui qualcosina pure su quel versante sarebbe certamente in grado di aggiungerla. “La Rai - era la formula che condensava il programma del Cavaliere - va ripresa in mano”. Dopo di che, al netto degli impicci politici, dei magheggi economici, delle nomine scandalose e perfino della “Struttura Delta” (una cricca di dirigenti che dall’interno facevano in buona sostanza gli interessi di Mediaset), ecco, ben presto si comprese che fra i principi non negoziabili di quel salvifico programma rientrava di piazzare un certo numero di avvenenti attrici amiche del premier nelle varie fiction. Una signorina piuttosto insistente ebbe un posto anche in un “Padre Pio”. Mentre il designato consigliere d’amministrazione di Forza Italia, già fondatore dell’”Associazione del Buongoverno” - ed è detto tutto - fu pizzicato sempre per telefono a caldeggiare le ragioni di una fiction prodotta dalla sua compagna e dedicata niente meno che a “La meravigliosa storia di Suor Bakhita”, l’ex schiava africana menzionata in un’enciclica di Benedetto XVI e appena salita agli onori degli altari. Umberto Bossi, d’altra parte, era andato in fissa e aveva puntato tutte le sue fiches-Rai sul “Barbarossa”, costosissimo polpettone di mitopoiesi archeo- padana. Come Mussolini ai tempi di “Scipione l’Africano” e poi Andreotti durante la lavorazione di “Ben Hur”, il leader leghista e ministro delle Riforme volle anche visitare il set, in Romania, trovandolo affollatissimo di comparse rom. Per compiacerlo, previa segnalazione di alacri uffici romani, la produzione ritenne opportuno di regalare a Bossi anche una particina, un cameo, vestito da nobile lombardo. Il “Barbarossa” venne infine presentato e proiettato al Castello Sforzesco in una serata di gala, con bracieri, figuranti in costume e pure un guerriero a cavallo. Questa è insomma la Rai. Per capirsi. E seppure in certi giorni si è portati a credere che l’unica sensata idea sarebbe quella non tanto di venderla, ma di abolirla del tutto, la retorica del comando, con quel tanto o quel troppo di ipocrisia che comporta, vuole che chi ci mette le mani sopra ne farà comunque un gioiello di rinnovamento, anzi di rinascimento, di autonomia, di trasparenza, di cultura e così via. Donde l’ennesimo e mirabilissimo “Raibaltone”, neologismo che tuttavia risulta segnalato già vent’anni orsono nel dizionario “Novelli-Urbani”, nonché censito nel 1999 da Enzo Golino e dal glottologo Fabio Rossi. L’uso ventennale di tale formula conferma come l’azienda sia destinata o condannata, se si vuole, a restare animatissimo serraglio, hortus conclusus, campo di battaglia e terreno di coltura dei nuovi equilibri, specchio, ma anche stagno, palude e perfino “cloaca” - in tal modo la definì a fine esperienza il professore berlusconiano di Suor Bakhita - del potere. Si apre così, non proprio sotto i migliori auspici, l’era del giovane Renzi che fino a qualche mese fa voleva restituire la Rai al Paese e ai cittadini. E non si sa se ci credeva davvero, e se ancora ci crede pure lui. 32 CULTURA Del 5/08/2015, pag. 13 RM La fiction? Ora è sul web Deve ancora partire, ma è già in pieno svolgimento. Paradosso di un festival che dal web nasce e del web si nutre, basta vedere la mole di condivisioni, «mi piace», commenti, tweet e visualizzazioni che conta sul suo sito il Roma web fest, dal 25 al 27 settembre al Maxxi. Tre giorni di programmazione, ma un anno di libere creazioni, che trovano nelle web series la loro realizzazione: fiction di almeno tre episodi da fruire sul web e «webnative». Un altro modo di intendere la fiction: libero da condizionamenti, fantasioso, vicino alla realtà. Basta vedere alcuni «prodotti» quest’anno in concorso, già godibili attraverso video-spot che testimoniano la maturità raggiunta dai registi, la maggior parte sui 30 anni. Giovani cineasti crescono insieme a un festival, ideato nel 2012 e diretto da Janet De Nardis, che ha guadagnato l’appoggio del Mibact, della Regione, della Lazio Film commission, e fra i suoi punti di forza conta la capacità di stringere legami internazionali. L’idea giusta, un po’ di fortuna, e un talento sconosciuto può diventare un autore cult. Gli italiani sono presenti in massa nel concorso, dove la comicità è uno spunto vincente. Negli episodi de «La cresta dell’onda» di Adriano Roncari e Ruggero Melis due comici cercano di tornare alla ribalta aiutati da un ragazzino-manager imbarazzante. «Le Ricette di Jacques La Mer» di Giuliano Capozzi e Dario Tacconelli sbeffeggiano i programmi di cucina. In «Vegetti, la serie che era meglio ai miei tempi» di Edoardo Bellanti e Alice Corsi, Beppe e Gino sono due anziani genovesi che sferzano il mondo dalla panchina. Le ragazze di oggi? «Povere ma belle» è il titolo della serie firmata da Antonella Lauria, web sitcom al femminile il cui concept è l’ironia come arma vincente per affrontare la quotidianità. Marco Giganti, Luigi Nappa e Paolo Scattarelli mettono al centro di «Spread zero» un ragazzino di 18 anni che al ricevimento della scheda spread individuale viene invitato dai genitori a lasciare casa «perché il nostro spread individuale è già alto così». Anche il genere cronaca/reality piace ai filmmaker, italiani e stranieri. «We folk» di Massimo Moca e Serena Del Prete racconta il viaggio in Abruzzo di un’attrice di professione e di un musicista folk. Dal sacro al western, in compagnia di pastori, cavalli, asini, sub, climber e frati. «Rugagiuffa, young man blues» di Silvio Franceschet, Alessandra Quattrini e Alberto Valentini è una web serie fatta da giovani veneziani con l’intento di raccontare Venezia oltre la cartolina. «Roma custom bike» di Cesare Ranucci Rascel nasce come tutorial e diventa show: il desiderio di Custom Cez di documentare il restauro della sua moto. Così in «Somos mujeres invisibles» della spagnola Graciela Saez l’assistente sociale Thelma rivive le storie di violenza sulle donne. Dal giallo al noir ecco «La Runa» di Fabio Mangroni, «Distinct» di Alberto Setti e Giacomo Piantini (cinque amici dopo un black out), «Step by step» di Ivan La Ragione e Francesco Crisci (che fare del cadavere di una portinaia uccisa di fresco?), «La linea dei topi» di Davide Verazzani, Alessandro Fusto, Andrea Galatà e Chiara De Caroli ambientato nei sobborghi della periferia romana. Non mancano lavori a sfondo gay e lesbo, e esperimenti fuori dal solco come «The beat and path: walk of shame» con la regia di Brandon Russell, dove un dj underground e una stagista di moda raccontano con il visual mixtape l’autorealizzazione a colpi di alcolici, musica, e sesso. E tanto altro, un materiale ancora non definitivo (le iscrizioni si chiudono il primo settembre) da sfogliare come un libro, ammirare, criticare, votare. Anche quest’anno una sezione «Fashion film», corti, spot, video di campagne griffate e piccoli capolavori firmati da registi indipendenti. Laura Martellini 33