RASSEGNA STAMPA
Mercoledì 5 agosto 2015
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L’ARCI SUI MEDIA
ROMA
Del 5/08/2015
Gli OvO, dal vivo stasera al circolo arci Pini Spettinati, sono da sempre una delle band più
attive del panorama rock noise. Più di 700 concerti, un numero imprecisabile di uscite
discografiche tra album, collaborazioni, singoli, pezzi su compilations, li hanno fatti
conoscere ovunque anche per l'originalità della loro proposta. Un duo formato da una
piccola e indemoniata cantante e chitarrista (Stefania Pedretti) ed un energumeno che
suona una mezza batteria come se fosse il set di un gruppo metal (Bruno Dorella). I loro
live mascherati, portati a tutte le latitudini, dal Messico alla Turchia, dalla Russia agli Usa,
spaziano dal noise al metal, dal doom al punk.Circolo Arci Pini Spettinati, Via Campo
Barbarico 80, stasera alle ore 22, infotel: 06 45598326 e 392 4464127
Da strill.it del 4/08/2015
Pentedattilo – Campi della legalità de “Il Grillo
parlante”
“Fatti un campo” è lo slogan che l’ARCI nazionale ha scelto per invitare quanti sono
interessati a partecipare al progetto Campi della Legalità.
Occasione irrinunciabile per l’associazione culturale “Il grillo parlante” – circolo ARCI di
Girifalco – che ha raggiunto il campo di Pentedattilo (Reggio Calabria) con una
delegazione composta da 5 associati.
Ad arricchire l’esperienza di lavoro e di formazione l’incontro presso l’ostello della gioventù
dei soci del locale circolo ARCI che coordina l’attività dei campi della Legalità sui beni
confiscati alla potente famiglia ‘ndranghetista dei Iamonte ed oggi assegnati al consorzio
“Terra del Sole”.
In questi giorni i soci che hanno scelto di partecipare al viaggio promosso da “Il grillo
parlante” si stanno misurando in attività pratica di lavoro nei campi, nella cura del borgo
antico di Pentedattilo, in lavori di ristrutturazione degli immobili, in attività formative e di
scambio di esperienze nella lotta alla ‘ndrangheta e sui progetti per la legalità.
Se cinque giovani girifalcesi hanno avuto la possibilità di partecipare a questo progetto lo
devono – oltre che alla determinazione della presidenza de “Il grillo parlante” che in questi
pochi mesi di attività ha cercato di raccogliere i fondi necessari – all’importante supporto
del Comune di Girifalco che ha garantito un piccolo rimborso spese per gli spostamenti ed
al finanziamento ricevuto dallo SPI CGIL che, da anni, a livello nazionale supporta
l’esperienza dei Campi della Legalità.
Questa esperienza rappresenta semplicemente una piccolissima tappa nel percorso più
ampio che come associazione culturale si porterà avanti a Girifalco per far prevalere la
cultura della Legalità contro ogni ingiustizia.
http://www.strill.it/citta/2015/08/pentedattilo-campi-della-legalita-de-il-grillo-parlante/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 5/08/2015, pag. 5
Patrizia Moretti: «Mauro Guerra ucciso come
Federico»
Una fiaccolata con il sindaco Mauro Sbicego, fra le centinaia di persone che hanno sfilato,
in silenzio, da Carmignano a Sant’Urbano. Un’inchiesta a Rovigo con il procuratore capo
Carmelo Ruberto che segue da vicino il lavoro del sostituto Fabrizio Suriano. E il funerale
di domani pomeriggio che rimetterà quest’angolo del Padovano al confine con il Polesine
sotto i riflettori nazionali.
Mauro Guerra, 32 anni, grande e grosso, una laurea in economia e la passione per la grafica e il culturismo, era senza dubbio borderline. Ma è morto in mezzo ai campi, inseguito
dai carabinieri chiamati a placarlo anche con un ricovero coatto. Il trentenne era riuscito a
«fuggire». Un militare lo aveva placcato, ma stava avendo la peggio nella violenta colluttazione. Il maresciallo Marco Pegoraro ha estratto la Beretta d’ordinanza: due colpi in aria
e poi ha preso la mira su Mauro. È rimasto un cadavere coperto da un lenzuolo in mezzo
alla campagna bruciata dall’afa.
Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, ha levato la sua voce a sostegno della
famiglia Guerra e di chi ora pretende massima trasparenza. «Mauro l’hanno dipinto come
un mostro, come avevano fatto con mio figlio dieci anni fa», dichiara al Corriere Veneto.
«C’è una versione ufficiale carica di lati oscuri, i carabinieri che indagano su se stessi
e una vittima che viene criminalizzata». Patrizia dà voce pubblica a tanti altri: «Continuano
a sparare senza pensarci due volte, come se fosse assimilato un senso di impunità consolidata. Sarà sempre peggio. Perché tutto questo accanimento fino a uccidere? Serve un
freno, forse una formazione adeguata, una cultura diversa. E la fine dell’impunità, la possibilità di essere spogliati di quella divisa con cui commettono questi abusi».
La morte di Mauro Guerra è destinata ad aggiungersi alla sequenza di analoghi casi. Per
ora, la famiglia ha scelto di affidarsi agli avvocati. Ma c’è sempre da stabilire se mercoledì
era stata davvero attivata la procedura del Trattamento sanitario obbligatorio. L’Usl 17
della Bassa padovana, i medici e il servizio 118, il municipio di Sant’Urbano e l’Arma sono
i soggetti chiamati a certificare se per Mauro era in corso un Tso oppure no.
Un «caso» ancora aperto, quindi. Tant’è che nei social c’è chi chiede: «Mauro Guerra,
fuori la verità». Come pure si è mobilitata la curva degli ultrà del Calcio Padova con uno
striscione in sintonia con il Dna politico.
Domani alle 16:30 nella parrocchiale della frazione di Carmignano l’ultimo saluto a Mauro
Guerra. L’epigrafe è sintomatica: riproduce il Cristo che aveva disegnato recentemente.
E alla fine della cerimonia religiosa è prevista una canzone di Vasco Rossi: «Gli angeli», le
ultime note che Mauro aveva affidato al suo profilo Fb. Ma anche in pieno agosto l’eco
della tragedia di Carmignano farà fatica a stemperarsi nell’indifferenza vacanziera.
In questi giorni, sono riaffiorati particolari sulla personalità del trentenne. Condannato per
stalking, noto in paese da tempo per le sue bizzarrie, buttafuori nei locali notturni, con una
vena artistica che confonde fede e violenza. Ma resta il fatto che, dentro l’abitazione di
famiglia in via Roma e durante l’inseguimento a Mauro in mutande, la sicurezza di tutti
è clamorosamente saltata. E alla fine un intervento (Tso o meno) di routine è sfociato in un
dramma inspiegabile. L’accertamento delle responsabilità diventa il minimo. È agli atti
l’autopsia effettuata per conto della procura dal medico legale Lorenzo Marinelli. Hanno
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assistito i consulenti Luca Massaro (per il carabiniere) e Giovanni Cecchetto, per la famiglia Guerra. Un solo proiettile ha causato la morte per emorragia interna.
Risale, invece, ad un paio di mesi fa il decesso durante un Tso di Massimiliano Malzone,
39 anni di Agnone nel Cilento. Indaga la procura di Lagonegro in Puglia, soprattutto dopo il
clamoroso caso di Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento morto il
4 agosto 2009 nel servizio psichiatrico di Vallo della Lucania.
ESTERI
Del 5/08/2015, pag. 7
Usa e Russia pianificano uscita di scena di
Assad
Siria. L'accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano e i colloqui a Doha tra
Kerry e Lavrov potrebbero avere riflessi importanti per Damasco. Riflessi il
presidente siriano forse troverà indigesti.
Michele Giorgio
A chi in questi quattro anni di bagno di sangue gli diceva che è stato sconfitto perchè non
ha saputo sbaragliare l’opposizione islamista e jihadista, il presidente siriano Bashar
Assad replicava che, al contrario, ha vinto perchè non è stato sconfitto da nemici finanziati
e armati da potenze economiche regionali, come l’Arabia saudita, e da diversi Paesi occidentali. Un giudizio tutto sommato fondato se si tiene conto del bilancio di vittorie e sconfitte ottenute dall’esercito governativo siriano e dai suoi alleati, come i combattenti libanesi
di Hezbollah, e dei territori strategici che il presidente siriano continua a controllare. Assad,
a fine luglio, si è sentito sufficientemente forte da ammettere pubblicamente le difficoltà
che le sue forze armate incontrano nel rimpiazzare con truppe fresche quelle sfinite da
quattro anni di combattimenti e i soldati caduti in battaglia, in attentati e vittime delle esecuzioni sommarie compiute da qaedisti e jihadisti (in totale non meno di 60 mila dal 2011,
contando solo i militari e non anche gli uomini della milizia pro governativa). Qualcosa
però bolle in pentola. L’accordo internazionale di Vienna sul nucleare iraniano che Assad
ha salutato con favore, rischia di avere riflessi importanti per quella parte della Siria che
resta, assieme alla capitale Damasco, sotto la sua autorità. Riflessi il presidente siriano
potrebbe trovare indigesti.
I colloqui a Doha tra il Segretario di stato John Kerry, il ministro degli esteri russo Sergej
Lavrov e quello saudita Adel al Jubeir, hanno avuto l’obiettivo evidente di provare a tracciare il futuro a breve e medio termine del Medio Oriente. Quale “regalo”, oltre alle armi,
Washington ha promesso pur di far digerire ad Arabia saudita e Israele l’accordo sul
nucleare iraniano che continuano a contestare? Quale “svolta” gli Usa e la Russia hanno
deciso di dare al quadro regionale per rassicurare le monarchie sunnite preoccupate dalla
crescente influenza dell’Iran sciita? Cosa otterranno re e principi del Golfo in cambio delle
loro aperture all’Iran? Di fronte a questi interrogativi non è certo privo di importanza
appello lanciato ieri dal ministro degli esteri del Qatar, Khalid al Attiyah, per l’avvio di un
«dialogo serio con l’Iran». Così come l’annuncio che Washington bombarderà tutte le forze
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in campo in Siria, incluse quelle governative, che attaccheranno i cosiddetti “ribelli moderati” addestrati dai consiglieri militari statunitensi.
«Un piatto russo-americano è pronto per quanto riguarda la crisi siriana e, eventualmente,
per l’intera regione», scrive su Rai al Youm, l’analista Abdelbari Atwan che da trent’anni
racconta la palude mediorientale di accordi, guerre, alleanze vere e presunte, strette di
mano e sorrisi di circostanza. «La recente visita del principe ereditario Mohammad bin Salman a Mosca dove ha incontrato il presidente Vladimir Putin, ha fornito una solida base
per una nuova mappa di alleanze regionali», spiega l’analista arabo ricordando che sono
insistenti, sebbene siano state smentite dalle due parti, le indiscrezioni su un incontro
segreto avvenuto nei giorni scorsi tra il capo dell’intelligence siriana Ali al Mamlouk e,
anche in questo caso, Mohammad bin Salman. Un faccia a faccia che non ha risolto i contrasti enormi tra i due Paesi. Avrebbe però aperto un canale di comunicazione impensabile
quando erano in posizione di potere i principi sauditi Bandar bin Sultan e Saud al Faisal,
entrambi nemici giurati della Siria di Assad, ora usciti di scena. Riyadh, aggiunge Abdelbari Atwan, avrebbe ammorbidito le sue posizioni e scelto una prima forma di dialogo con
i suoi nemici anche alla luce del fallimento in Yemen dove nonostante i pesanti bombardamenti dell’aviazione saudita, i ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, continuano a controllare buona parte del paese. Infine la Turchia, alleata dei sauditi contro la Siria, al momento
appare più interessata ad attaccare il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che a provocare la caduta di Assad. Piuttosto pessimista si mostra Mohammad Kharroub del quotidiano giordano al-Ra’i, secondo il quale il successo dei colloqui di Doha e la definizione di
un calendario politico che metta fine alla guerra civile siriana, dipende dalla eliminazione
della condizione posta (da Arabia saudita, Qatar, Turchia e altri Paesi, ndr) della rimozione
immediata di Bashar Assad dal potere. Nonchè dalla comprensione di tutte le parti che la
priorità ora deve essere assegnata alla lotta ai “takfiristi”, ossia ai leader e ai militanti
dell’Isis e di altre organizzazioni jihadiste e qaediste. «I grandi burattinai regionali avranno
capito la lezione?», si domanda Kharroub lasciando trasparire parecchio scetticismo.
Del 5/08/2015, pag. 6
Il capogruppo di Syriza: «Una scommessa per
tutta l’Europa»
Grecia/intervista. Nikos Filis: «Tutti si assumano le proprie responsabilità. Noi per i
greci siamo il nuovo. Ora la fase è cambiata e serve ancora una legittimazione
politica. Alle elezioni con un processo interno unitario»
Teodoro Andreadis Synghellaki
Capogruppo di Syriza al parlamento di Atene, Nikos Filis, ex direttore del giornale del partito, Avghì, non ha dubbi: il dilemma principale, oggi, è capire se la sinistra ha il diritto di
negare al popolo greco la possibilità di una forte contrapposizione all’austerità e di una
prospettiva di sviluppo, attraverso la permanenza di Syriza al governo.
Secondo Filis tutto il partito si deve assumere le proprie responsabilità per non deludere
i greci che continuano a vedere in Alexis Tsipras e in Syriza, una garanzia per le classi
sociali più deboli e per il cambiamento. In questa intervista a il manifesto, tende la mano
a Varoufakis — «a condizione che parli meno» — e si aspetta un importante contributo da
parte di Podemos e delle forze della sinistra italiana.
Ha appena dichiarato che il futuro di Syriza costituisce una scommessa. Cosa
intende di preciso, quali sono le caratteristiche principali di questa scommessa?
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Riguarda il popolo greco, ma anche l’Europa intera, ed è per questo che la vicenda greca
viene seguita con così grande interesse a livello mondiale. L’imposizione dell’ultimatum
con le durissime misure della nuova Troika, in Grecia, ha creato una nuova realtà politica.
La sinistra non si sente a suo agio nell’attuazione di queste misure. Ed è per questo che
lotterà per cambiarle, per poter sostenere le classi sociali più deboli e portare le riforme
necessarie nel sistema politico e nella vita democratica. È importante vedere come, malgrado le dure misure che siamo stati costretti a firmare, la fiducia popolare rimane ad alti
livelli e credo sia anche aumentata. Per quale motivo? Perché Syriza rappresenta il nuovo,
e i cittadini — come è apparso chiaramente anche con il referendum — provano ribrezzo
per il vecchio sistema partitico. Il merito principale è indubbiamente di Alexis Tsipras, che
è riuscito a rendere credibile un messaggio di speranza agli occhi della grande maggioranza del popolo greco. Malgrado le difficoltà, quindi, alla sinistra viene riconosciuta una
profonda sincerità. A mio parere, certo, questa fiducia politica dovrà esprimersi anche
attraverso nuove elezioni, poiché la realtà politica è mutata. A queste elezioni si deve arrivare seguendo una direzione unitaria, discutendo delle differenze esistenti, ma facendo
prevalere il principio della maggioranza democratica.
In che senso?
In questa fase il partito ha una precisa direzione politica ed i compagni che hanno delle
opinioni differenti — pur mantenendo le loro convinzioni — lavoreranno alla realizzazione
di un progetto politico valido sino al congresso. La questione è: siamo pronti a lavorare ad
un progetto greco di sviluppo e a portarlo avanti basandoci sul sostegno popolare?
La realtà emersa all’ultimo summit europeo, tuttavia, è molto dura e sembra non
lasciare ampi spazi di manovra…
In molti si chiedono se in queste condizioni di duro neoliberismo prevalente in Europa, ci
possa essere un governo realmente progressista e di sinistra. Io credo che se il popolo
desidera questo governo, per ridurre le conseguenze della politica neoliberista ed aprire la
strada allo sviluppo, la sinistra non ha li diritto di negarglielo solo per poter ritornare alle
sicurezze che offre il ruolo dell’opposizione. Sono questi i nostri dilemmi.
La lotta per cambiare le dure condizioni imposte al summit europeo del 12 luglio inizierà prima o dopo la firma dell’accordo definitivo — previsto entro agosto — con la
nuova Troika, o Quartetto, come è stata ribattezzata?
Questo accordo riguarderà un arco di tre anni, e sarà composto dal sostegno economico,
le riforme, la ristrutturazione del debito. Senza dimenticare il piano Junker per lo sviluppo
e altri finanziamenti. Tutto ciò verrà esaminato in corso d’opera. Oggi è necessario poter
ricapitalizzare le banche, far tornale il mercato bancario alla normalità e garantire liquidità
all’economia. Il cambiamento di termini dell’accordo, con nuovi equilibri che si allontanino
dall’austerità, fa parte di una dinamica e di una lotta che si svilupperà in seguito, nell’arco
di tre anni. E in questo un rinnovo della fiducia popolare ci può indubbiamente aiutare.
Secondo quanto è filtrato sinora, i creditori chiedono la liberalizzazione dei licenziamenti e l’abbandono definitivo dei contratti collettivi di lavoro. La sinistra greca
cosa risponde?
Sono questioni che hanno a che fare con la realtà e le conquiste a livello europeo. Che
genere di paese europeo saremmo senza protezione dai licenziamenti e senza contratti
collettivi? Faremo di tutto per evitare che passi questa linea, affinché non venga imposta
definitivamente la strategia che vorrebbe eliminare il diritto alla contrattazione collettiva.
Realisticamente, si può evitare una scissione all’interno di Syriza, o anche un continuo e logorante scontro tra la maggioranza e la minoranza interna?
Tutti gli eventuali sviluppi, positivi e negativi, devono essere considerati possibili. Ma dobbiamo capire che in un partito si sta sempre su base volontaria. Se vogliamo rimanere
insieme dobbiamo trovare un modo vero per realizzare un progetto politico comune. Altri6
menti, significherà che non vogliamo coesistere nello stesso partito. E sarebbe una risposta scoraggiante.
Ha chiesto di evitare gli attacchi personali a Varoufakis. Pensa che l’ex ministro
delle finanze possa offrire ancora un apporto positivo a Syriza?
Non dobbiamo cercare, tra di noi, dei capri espiatori. Tutti abbiamo responsabilità per le
tante cose positive, come anche per alcuni elementi negativi nella trattativa dei mesi
scorsi. E i responsabili principali sono i creditori.
Varoufakis ha dato rilevanza mondiale al bisogno di ristrutturazione del debito anche se, in
seguito, alcune sue mosse non hanno aiutato la trattativa. Si è dimesso, ma ha deciso di
rimanere all’interno di questo sforzo collettivo. Credo possa essere d’aiuto, basta che
parli meno.
Gli ultimi sondaggi danno Podemos sotto il 20%. È una conseguenza della punizione inflitta alla Grecia o pensa che sino alle elezioni spagnole di novembre le cose
cambieranno?
La questione del Sud Europa è dovuta, principalmente, alla Germania che guarda ai paesi
del Sud come a una “colonia del debito”, una parte dell’eurozona di seconda categoria.
Malgrado gli ultimi sondaggi, questo problema verrà sempre a galla. È importante sottolineare l’atteggiamento di Berlino all’ultimo vertice europeo che ha iniziato a creare delle
crepe importanti. Ci vuole un fronte comune dei paesi interessati, per cambiare gli equilibri
e credo che in Spagna ci sarà una buona affermazione di Podemos. Si tratta di dinamiche
radicate nella società, che non si possono fermare così facilmente. È la risposta di popoli
che hanno visto la loro dignità umiliata e di cittadini che sentono che il loro futuro sta crollando sotto il peso dell’austerità.
Che tipo di apporto si aspetta Syriza da parte dell’Italia?
Abbiamo grosse aspettative, perché col popolo italiano c’è un lungo cammino comune di
solidarietà. Ci aspettiamo molto dalla sinistra italiana, dai movimenti, dai sindacati e dalle
forze politiche. Credo che, malgrado le differenze delle nostre economie, ci siano molti,
forti elementi in comune su cui bisogna insistere. E il rafforzamento della sinistra italiana
— politica e dei movimenti — aiuterà sicuramente l’Italia a riacquistare la propria voce
sulla scena europea.
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INTERNI
Del 5/08/2015, pag. 6
Immunità, Orlando divide Fi e Casini:no alla
riforma la sinistra apre, ma è lite
Chiti: “Era un nostro emendamento,lo ripresentiamo” Papa: va abolita.
Tedesco: il nodo è la custodia cautelare
ALBERTO CUSTODERO
ROMA . La proposta del ministro della Giustizia Orlando di far decidere alla Consulta sulle
richieste di arresto dei parlamentari, e non più alle Camere, divide la politica.
C’è chi , come la minoranza Pd, rivendica di aver proposto un identico passaggio dei
poteri in un emendamento, che fu bocciato, al ddl costiuzionale sul Senato.
L’emendamento, assicura ora il senatore Vannino Chiti, sarà ripresentato, ma questo fa
entrare la sinistra dem in conflitto con il Guardasigilli che ritiene che sia difficile ora inserire
la modifica nel testo della riforma costituzionale. Posizione, questa, condivisa dalla
senatrice del Pd Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali.
Ma c’è anche chi boccia la proposta, a cominciare da Forza Italia, per la quale «Renzi così
tenta di rabbonire i pm» e dal senatore centrista Casini (Area popolare), contrario a
«invasioni di campo». «Ciascuno continui a fare il proprio dovere - dice il presidente della
Commissione Affari esteri l’intromissione della Consulta sull’immunità sarebbe impropria».
C’è poi chi ne prende le distanze, come Giuseppe Tesauro, presidente emerito della
Corte, secondo il quale «la Consulta viene tirata per la giacchetta un po’ troppe volte, è
come il prezzemolino nella minestra». Sull’argomento è tornato lo stesso ministro della
Giustizia. «È solo una riflessione - ha precisato - non una proposta. Non ha nessun
imprimatur ministeriale e non impegna il governo, ma vuole solo approfondire un tema».
La precisazione, tuttavia, ha alimentato le polemiche, in particolare all’interno del pd. «Mi
dispiac e questa puntualizzazione del Guardasigilli ha replicato Chiti - perché se una cosa
è positiva e utile non ha senso annunciarla e poi rimandarla, ma la si approva quanto
prima, per esempio nelle riforme». Replica al Guardasigilli anche il Presidente della Giunta
delle Elezioni e Immunità del Senato, Dario Stefàno, eletto con Sel. «La soluzione - ha
detto - non sta nella previsione di un organismo terzo, ma semmai nell’individuazione di
parametri oggettivi che guidino il corretto esercizio della discrezionalità delle decisioni». A
favore della proposta, anche due ex parlamentari sulle cui vicende giudiziarie si erano
pronunciate le camere. Alfonso Papa, ex Pdl, finì in carcere dopo che Montecitorio aveva
votato a favore dell’arresto. «Perfettamente d’accordo con Orlando - commenta Papa - ma
penso che questo istituto dell’immunità non abbia più nessuna ragione di esistere. Cosi
com’è strutturato, è diventato non un privilegio, ma una forma di ricatto».
Alberto Tedesco, Pd (ma poi si dimise), invece, fu beneficiato dal voto dei colleghi. «Penso
a un ente terzo che giudichi queste richieste - dice Tedesco - ma non certo alla Consulta».
Per Tedesco, «il vero problema è la riforma della custodia cautelare: «Così com’è, è
gestito in maniera “impropria”».
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Del 5/08/2015, pag. 7
Camera, cancellato il tetto agli stipendi dei
commessi
A RISCHIO 60 MILIONI DI RISPARMI.LA BOLDRINI FA RICORSO
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
ROMA . Tutto come prima. A sorpresa salta il tetto agli stipendi dei dipendenti dei “livelli
più bassi” di Montecitorio. Si tratta degli emolumenti dei commessi, dei documentaristi e
degli addetti al bar della buvette. Ed è già polemica.
L’ufficio di presidenza della Camera ha già deciso all’unanimità di presentare appello
contro la sentenza, notificata il 30 luglio, e di chiederne la sospensione dagli effetti
altrimenti immediati. Al momento, però, resta sul tavolo la disposizione della commissione
giurisdizionale per il personale, presieduta dal renziano Francesco Bonifazi (il tesoriere del
Pd) che ha infatti bocciato la parte di delibera del 2014 sugli stipendi dei dipendenti
relativa ai tetti introdotti sugli stipendi di quelli di “livello più basso” (commessi, i
documentaristi, e gli addetti al bar della buvette). Di più: se l’appello contro la sentenza
della commissione - composta da deputati, quasi tutti del Pd- non ribalterà la decisione
assunta, l’effetto sarà che mentre i funzionari di alto livello a fine carriera avranno uno
stipendio lordo annuo pari a 240 mila euro, come prevede appunto la delibera del 2014, un
documentarista a fine carriera avrà uno stipendio praticamente simile, pari cioè a 237 mila
euro. Il che vuol dire che mentre per i consiglieri parlamentari non ci sarà più possibilità di
aumentare il proprio stipendio con gli anni, ciò sarà ancora possibile per i dipendenti
“semplici”, come ad esempio i commessi. L’altro effetto che potrebbe produrre la sentenza
della commissione, qualora non dovesse essere ribaltata dall’appello, andrebbe ad
impattare sulla spending review del bilancio della Camera. Prima della sentenza i risparmi
previsti erano pari a 60 milioni di euro in 4 anni. Gli effetti della sentenza invece
produrrebbero una diminuzione dei risparmi, che toccherebbero quota 13 milioni di euro. A
rischio, quindi, 47 milioni di euro. Dopo la delibera del 2014 la situazione risultava la
seguente: i dipendenti di basso livello possono percepire fino a un massimo di 96 mila
euro lordi annui, mentre i funzionari di alto livello 240 mila euro. Inoltre, durante la riunione
dell’Ufficio di Presidenza c’è chi ha sottolineato alcuni aspetti “contraddittori” della delibera
della Commissione giurisdizionale. In cui da una parte riconosce la autodichia della
Camera, ovvero la sua autonomia decisionale, così come si riconosce la potestà
legislativa dell’ufficio di presidenza, ma poi si giudicano illegittimi e discriminatori i “sottotetti” perché non previsti in nessun’altra pubblica amministrazione.
Del 5/08/2015, pag. 1-11
Cantieri sbloccati e wifi obbligatorio
Passa al Senato la riforma della Pubblica amministrazione.
Tante le novità che modificano la macchina dello Stato: dal libretto unico per le auto alla
carta d’identità digitale, dai dirigenti in carica al massimo per sei anni alle multe e bollette
pagabili con un sms, dal wifi obbligatorio nelle scuole e nelle biblioteche al
commissariamento delle società partecipate di enti pubblici con i conti in rosso. E per le
emergenze al posto di 113, 115 e 118 arriva un numero unico che li sostituirà tutti: il 112. Il
tweet di Renzi: «Un altro tassello, un abbraccio agli amici gufi».
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ROMA La riforma della Pubblica amministrazione è legge. Cambia profondamente il ruolo
dei dirigenti, prova a rilanciare il riordino delle società partecipate da enti pubblici, prevede
un ampio uso del silenzio-assenso per sveltire la macchina burocratica, sbloccare le opere
pubbliche e semplificare i rapporti con cittadini e imprese. Taglia il numero delle prefetture
e delle Camere di commercio, rafforza i poteri di coordinamento della presidenza del
Consiglio, fa confluire la Guardia forestale nei Carabinieri, prevede il libretto unico di
possesso e circolazione per i veicoli e la nuova carta d’identità elettronica. Istituisce un
unico numero, il 112, per le chiamate di emergenza e prevede il wifi in tutti gli uffici
pubblici. La legge è stata approvata ieri in terza lettura al Senato con 145 sì e 97 no.
Quindi se i contrari non avessero partecipato al voto, sarebbe mancato il numero legale di
150 senatori. «Evidentemente hanno tutti una gran paura di un possibile ritorno alle urne»,
commenta il sindacato di base Usb. Il governo tira invece un sospiro di sollievo è passa
alla fase successiva. La riforma, infatti, è una «legge delega» e quindi per essere attuata
richiede successivi decreti legislativi, che l’esecutivo dovrà emanare al massimo entro 18
mesi. In tutto saranno una quindicina. Nelle intenzioni del ministro della Pubblica
amministrazione, Marianna Madia, che già da mesi lavora ai testi, i primi decreti, a
settembre, riguarderanno le misure per i cittadini e le imprese, dal silenzio-assenso alla
riforma della conferenza dei servizi. Poi toccherà ai dirigenti pubblici, con mandato a
termine e licenziabili. Infine al testo unico sul pubblico impiego.
Dal Giappone, pochi minuti dopo il voto in Senato, il premier Matteo Renzi ha twittato: «Un
altro tassello: approvata la riforma PA #lavoltabuona un abbraccio agli amici gufi». Le
opposizioni hanno invece criticato l’eccessiva quantità di decreti attuativi previsti. Contrari
anche i sindacati. «Altro che riforma — dice la Cgil —. La legge scarica la spending review
sui cittadini e sul lavoro». Maurizio Bernava della Cisl parla di «manuale delle buone
intenzioni» e di riforma che non prevede il coinvolgimento dei lavoratori, mentre secondo
la Uil «si continua a destrutturare la contrattazione infierendo sui lavoratori che hanno un
contratto scaduto da anni, per il quale, nonostante la sentenza della Corte, non è stata
ancora aperta alcuna trattativa».
La riforma, ha replicato Madia al Tg1, consentirà di eliminare «gli sprechi, dagli enti inutili
alle troppe partecipate», e ciò significherà «avere servizi di maggiore qualità e fare pagare
meno tasse ai cittadini». Tutti i decreti attuativi «arriveranno entro l’anno», ha assicurato il
ministro, invitando i sindacati a far sì che anche nella Pubblica amministrazione «si premi il
merito».
Enrico Marro
Del 5/08/2015, pag. 9
Le misure
Con la riforma arriva il telelavoro nella Pubblica amministrazione
Semplificate le pratiche per i cantieri
Licenziamenti più facili e lotta all’assenteismo
Emergenze, solo il 112
Dirigenti, ma non solo. La riforma della pubblica amministrazione passa attraverso una
modifica sostanziale della classe dirigente dello Stato, che avrà incarichi a tempo, sarà
valutabile e licenziabile. Ma il testo appena approvato prevede altre deleghe ad ampio
raggio ed un restyling generale delle amministrazioni e dei rapporti fra Stato e cittadino. Si
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va dal silenzio- assenso dopo tre mesi introdotto per le amministrazioni che si occupano di
tutela ambientale, alle visite mediche fiscali assegnate all’Inps, dal «112» numero unico
per le emergenze al dimezzamento delle Camere di commercio, al pin unico per l’accesso
ai servizi pubblici.
DIRIGENTI
E’ la parte più corposa della riforma, anche se i decreti attuativi a riguardo non saranno fra
i primi ad essere attuati. Ruolo unico, incarichi di 4 anni (più un massimo di altri 2),
licenziabilità vincolata ad una valutazione negativa dell’operato svolto dal dirigente che, se
resta senza incarico, può chiedere di passare a mansioni inferiori per non perdere il posto.
E’ prevista la possibilità di revoca dell’incarico ai dirigenti condannati dalla Corte dei Conti
per corruzione, anche se in via non definitiva. Cancellata la figura dei segretari comunali,
anche se potranno continuare ad esercitare per i prossimi tre anni.
LICENZIAMENTI
A differenza dei nuovi contratti del privato, nel pubblico resta l’articolo 18, ma una volta
avviata l’azione disciplinare la pratica dovrà essere portata a termine (il nuovo testo unico
sul pubblico impiego fisserà tempi certi) senza escludere il licenziamenti. Stretta
sull’assenteismo: il controllo delle visite fiscali passerà dalle Asl all’Inps; introdotto il
telelavoro
IL 112
Per qualsiasi circostanza, in caso di aiuto bisognerà chiamare il 112. L’idea è quella di
realizzare centrali regionali che smistino le richieste
CONCORSI
Superato il voto minimo di laurea, sarà sempre previsto un test d’inglese. E’ stata fatta
invece marcia indietro sulla norma valuta-atenei: non ci saranno punteggi diversi in base
alle diverse sedi di laurea.
LA FORESTALE
E’ uno dei provvedimenti più contestati: il corpo forestale verrà fuso con un altro corpo
dello Stato, probabilmente i carabinieri e ci sarà un riordino generale di tutti i corpi. Il
settore protesta contro la militarizzazione.
DIMEZZAMENTI
Drastico taglio per le Camere di Commercio , ma anche per le Prefetture. Ci sarà un unico
ufficio territoriale di contatto fra l’amministrazione e i cittadini. Scure sulle partecipate:
saranno ridotte e sarà previsto un numero massimo di «rossi» prima del
commissariamento.
BOLLETTE ELETTRONICHE
Bollette e multe, fino ad un valore di 50 euro potranno essere pagate anche utilizzando il
credito telefonico, sia da card che da abbonamento. Basterà un sms.
GRANDI OPERE
Scatterà un taglio alla burocrazia per accelerare i tempi di realizzo; potranno essere
conferiti poteri sostitutivi al premier
SILENZIO ASSENSO
Altra norma contestata, specialmente per gli effetti che potrà produrre nella gestione dei
beni culturali. Il testo prevede che in caso di contese tra amministrazioni centrali su nulla
osta sarà il premier a decidere. Es fissato anche un tetto per ottenere il sì: massimo 30
giorni, che diventano 90 in materia di ambiente, cultura e sanità. Fra le raccolte di firme
contro un testo che facilita la «cementificazione » quella promossa da Rodotà, Settis e
Montanari.
TRASPARENZA
Tutti avranno diritto di accedere, anche via web,ai documenti della p.a. Restano limiti per
gli archivi pubblici.
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LIBRETTO AUTO
Unica banca dati per la circolazione e la proprietà dell’auto. Il Pubblico registro
automobilistico, oggi Aci, passerà al ministero dei Trasporti, a cui fa già capo la
Motorizzazione.
Del 5/08/2015, pag. 12
I tagli alla Sanità
Il decreto legge Enti locali contiene le norme relative a risparmi per 2,3
miliardi di euro. Controlli più severi per evitare la prescrizione eccessiva
di esami
ROMA Per i Comuni è una boccata d’ossigeno. Per la Sanità una stangata attesa. Il
decreto legge sugli Enti locali ha ottenuto la fiducia della Camera con 295 voti favorevoli e
129 contrari. Già passato in Senato con lo stesso meccanismo, diventa ufficialmente legge
dello Stato.
Un contenitore di diverse misure. I sindaci lo aspettavano con trepidazione perché
consente di distribuire fondi al territorio. Dai 5 milioni per l’istituzione di una zona franca in
Sardegna colpita dalle alluvioni del 18 e 19 novembre 2013, a un pacchetto di misure per
opere edilizie terremotate dell’Abruzzo. Dalle 2.500 assunzioni nelle Forze dell’Ordine
(2.500 in Polizia e carabinieri, 400 Guardia di Finanza e 250 Vigili del Fuoco) alla norma
salva autodromo di Monza che rischiava di essere privato del Gran Premio. E poi 530
milioni come fondo di perequazione per Imu e Tasi ai Comuni (472 milioni), via libera
all’assunzione di maestre d’asilo, aiuti alla Calabria per risolvere la vertenza in corso con 5
mila lavoratori, 500 milioni alla Sicilia. Assegnati fondi per potenziare i pronto soccorsi di
alcuni ospedali. I pellegrini potranno sottoscrivere una polizza di 50 euro per le cure
durante il soggiorno a Roma. Ieri, inoltre, il ministro Maria Elena Boschi ha annunciato che
il governo porrà la questione di fiducia sul decreto di misure urgenti in materia fallimentare.
I tagli alla Sanità per il 2015 sono 2,3 miliardi. Arrivano da lontano, risultato di un’intesa
con la Conferenza delle Regioni. Furono i governatori a decidere che una lauta fetta dei 4
miliardi richiesti nel patto di Stabilità sarebbero stati presi da quella tasca. I risparmi sono
incentrati soprattutto sull’appropriatezza. Significa prescrizione di esami diagnostici non
eccessivi rispetto alla patologia che si vuole accertare. L’esempio più calzante è la
risonanza magnetica nucleare per il dolore alla schiena.
Una linea aggressiva che mette al riparo i medici da eventuali contenziosi con i pazienti. Si
chiama medicina difensiva e costa al servizio sanitario miliardi. Col nuovo sistema ci
saranno più controlli, gli autori di una ricetta non chiara ne daranno ragione col rischio di
risponderne in termini pecuniari. «È l’inizio di un percorso — ha spiegato la ministra
Beatrice Lorenzin dopo un incontro con i sindacati medici —. Il secondo passo sarà una
legge sulla medicina difensiva che prende avvio da un dossier consegnato alla
commissione Affari sociali della Camera». Sono 180 le prestazioni a rischio di abuso su
circa 1.700 presenti nella lista dei rimborsi. Test genetici, odontoiatria, allergologia, tac,
risonanza magnetica ad arti e colonna con mezzi di contrasto. Altri risparmi previsti dal
ritocco di prezzi di farmaci e dispositivi medici. Capitolo spending review: il ministro ha
chiarito che «tutto è ancora da studiare, non useremo l’accetta, niente tagli lineari, il
principio è l’abbattimento degli sprechi. I risparmi saranno reinvestiti in sanità».
E sulle strategie del governo ieri nell’incontro con la stampa estera il ministro
dell’Economia Pier Carlo Padoan ha ribadito che il taglio delle tasse è un impegno
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dell’esecutivo. L’Italia intende inoltre chiedere alla Commissione europea di poter far leva
di nuovo sulla clausola di flessibilità.
Margherita De Bac
Del 5/08/2015, pag. 18
Il nuovo disastro del Sud è la spia del declino
complessivo dell’Italia
Negli ultimi 15 anni nessun Paese industrializzato è cresciuto meno del
nostro Mezzogiorno. Ma il Nord non può stare tranquillo: anche i suoi
fondamentali sono ormai alla deriva
Il Sud fa due volte gli abitanti della Grecia. E nell’ultimo quindicennio ha vissuto una crisi
peggiore. Se si considera anche il lustro che precede il tracollo finanziario del 2008, nel
Mezzogiorno maggiore è stata la caduta della produzione e più grave si è rivelato anche
l’impatto demografico. Ma la preoccupazione più seria − di cui forse non adeguatamente ci
si rende conto − è che tutto ciò è avvenuto senza che il Sud fosse sottoposto a una cura
draconiana come quella della Grecia (i tagli che abbiamo affrontato non hanno certo avuto
un impatto paragonabile).
Il regredire dell’economia meridionale verso una condizione cronica di sottosviluppo − così
efficacemente e drammaticamente documentato nel rapporto Svimez − non pare quindi la
conseguenza eccezionale di una qualche, drammatica, contingenza: piuttosto sembra
l’esito naturale di una nuova fisiologia, sorta di centro di gravità che inesorabilmente
trascina in basso la società e l’economia.
Che cosa lo determina? Le cause sono locali, di antica data. Ma da un po’ di tempo anche
nazionali. Il Sud è la parte più debole di un paese, l’Italia, in cui da due-tre decenni le
condizioni fondamentali dello sviluppo figurano al di sotto di quelle di ogni altra economia
avanzata: così è per il sistema di istruzione e innovazione, fanalino di coda nel gruppo
Ocse e per giunta sotto-finanziato; per l’apparato burocratico-amministrativo, pletorico,
ostinato, che scoraggia l’imprenditoria pubblica e privata, raddoppia i tempi (e i costi) delle
grandi infrastrutture rispetto alla media europea ed è vivaio dove prolificano corruzione,
clientelismo e comportamenti opportunistici; per l’illegalità e il malaffare, che si attestano
su livelli percepiti che sono propri di una società sottosviluppata; per il drenaggio continuo
di risorse e capitale umano verso l’estero, senza che si intraveda nemmeno l’accenno di
flussi in entrata che possano compensarlo. E in cima a tutto ciò vi è una classe dirigente −
politica e imprenditoriale − che da altrettanto tempo (sin dagli anni Ottanta, con una breve
eccezione negli anni Novanta) si ostina a sottovalutare questi problemi, illudendosi che per
tornare a crescere basti flessibilizzare il lavoro, creare spesa pubblica o potere di nuovo
svalutare il cambio. E invece per l’Italia, come per ogni altro paese avanzato, le uniche
possibilità per competere nei mercati globali (e per mantenere i livelli di benessere)
passano attraverso una politica di innovazione e specializzazione nei settori ad alta
tecnologia, con tutto quel che ciò comporta in termini di riforme sociali e istituzionali −
come dare regole e tempi certi che favoriscano gli investimenti di lungo periodo, o
promuovere il merito e la trasparenza nella Pubblica amministrazione e nel suo rapporto
con i privati. Tecnologia, tecnologia e tecnologia, la sola vera determinante di lungo
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periodo della crescita della produttività e quindi del reddito; e con essa, le condizioni di
contesto che le consentono di svilupparsi.
Se in questi che sono i fondamentali dello sviluppo l’Italia ha i parametri di un Paese a
medio reddito, è inevitabile che scivoli verso questa categoria. Ed è bene ripetere che
l’Italia tutta si trova da tempo – da ben prima dello scoppio dell’ultima crisi – proprio in
questa condizione. Dopodiché, nel Sud la situazione è ancora più seria. Perché tutte le
criticità che abbiamo ricordato sopra lì sono generalmente presenti in forma più grave. E
soprattutto perché esse vengono ulteriormente amplificate da tare antiche, endogene alla
società meridionale e alla sua impalcatura: come la forza storica della grande criminalità,
un’amministrazione ancora più inefficiente perché − da generazioni! − clientelare, la
carenza di infrastrutture (di trasporto, ma anche telematiche), la maggiore polarizzazione
della ricchezza a favore di una minoranza di privilegiati avvezza a logiche estrattive e che
di solito esprime le classi dirigenti locali (e in parte anche quelle nazionali).
Così ridotto, se il Sud fosse uno stato indipendente, con questi numeri sarebbe quello in
assoluto cresciuto di meno negli ultimi quindici anni, in tutto il mondo avanzato e invero (se
si escludono i casi dei Paesi in stato di guerra) nel mondo intero. E si badi bene che
l’appartenenza all’Italia ha comunque garantito ai meridionali un flusso di risorse netto
positivo (vero è che la spesa pubblica per abitante è più bassa al Sud che al Nord; ma in
cambio dal Mezzogiorno, più povero, ancora più basse sono le uscite fiscali). Ma che
questa deriva sia avvenuta nella pressoché totale trascuratezza dell’opinione pubblica e
anche delle classi dirigenti nazionali, in fondo non è un caso né dovrebbe stupire: molto
trascurata è anche la più grande deriva dell’Italia, di cui quella meridionale è oggi la parte
più profonda. Per anni ci siamo ripetuti che l’Italia non è la Grecia. È vero. Un pezzo
consistente dell’Italia è messo peggio della Grecia. E anche il resto del Paese, stando ai
fondamentali dello sviluppo sembra destinato a convergere al ribasso. Benvenuti nella
realtà.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 5/08/2015, pag. 1-10
Mafia Capitale.
I nuovi verbali del capo dell’organizzazione: “Per fini nobili ho fatto cose ignobili.
Ora sono pronto a fare chiarezza su tutte le forme di corruzione che conosco, che
ho praticato, che ho subito”
Le accuse di Buzzi “Da Zingaretti a Marino
soldi a tutti i politici”
CARLO BONINI
MARIA ELENA VINCENZI
ROMA . Dopo sei mesi di detenzione in quel di Nuoro, a Badu e Carros, il 23 e 24 giugno,
nel carcere di Cagliari, Salvatore Buzzi, signore della coop “29 giugno” e uomo chiave di
“Mafia Capitale”, ha risposto alle domande del Procuratore aggiunto Michele Prestipino e
del sostituto Paolo Ielo. Nella trascrizione originale depositata dalla Procura, oltre
trecentoventi pagine di verbali. Per un interrogatorio che Buzzi ha sollecitato per mesi e
che, nelle sue intenzioni e in quelle del suo avvocato, Alessandro Diddi, dovrebbe
capovolgerne la posizione processuale. Da carnefice in vittima. Da corruttore, in concusso
dalla Politica e i suoi appetiti. Buzzi — come documentano i verbali — ammette tutto ciò
cui lo inchiodano le intercettazioni telefoniche, risparmia l’ex sindaco Alemanno («Non
sapeva delle tangenti»), definisce la geografia della corruzione nel gruppo consiliare Pd
che ha sostenuto la giunta Marino, muove accuse al governatore della Regione Nicola
Zingaretti e al suo entourage («Hanno preso soldi»). Anche se spesso non è in grado di
distinguere tra fatti e circostanze apprese in prima persona e voci raccolte da terzi o
semplici deduzioni.
IL PAPA E I “MEZZI IGNOBILI”
Fa un preambolo, Buzzi. «Io ero convintissimo che il mio fine giustificasse i mezzi e,
quindi, diciamo, per un fine nobile ho usato mezzi, diciamo, ignobili. Ho avuto un processo
di revisione critica del mio percorso aiutato anche dal cappellano, dal vescovo di Nuoro, e
quindi, alla fine, ho ritenuto opportuno aderire all’appello del Papa sulla lotta alla
corruzione. E quindi farò chiarezza su tutte le forme di corruzione che io conosco e che ho
praticato e che ho subito». Il pm Paolo Ielo, incenerisce l’enfasi: «Guardi, il fine nobile
appartiene in qualche maniera alla sfera dell’etica, i mezzi ignobili appartengono alla
competenza del mio ufficio. Se vuole cominciare da quelli… ».
L’UOMO DI ZINGARETTI
Ci sono due sindaci (Alemanno e Marino) e un Presidente di Regione (Zingaretti) di cui
Buzzi ha intenzione di parlare. Ed è sul governatore che muove con maggior decisione. A
cominciare dalla gara da poco meno di 1 miliardo di euro bandita nel 2014 per il centro
unico di prenotazioni ospedaliere, di cui Buzzi vincerà un lotto (prima che la gara venga
annullata). «La gara era in quattro lotti. Tre andavano alla maggioranza e una
all’opposizione. Era l’accordo che Storace aveva fatto con Zingaretti. Poi, al posto di
Storace, noi mettiamo in pista Gramazio (Luca, arrestato lo scorso giugno, ndr ). E
Zingaretti dice: “Non ti preoccupare, fai questa cosa con Venafro (ex capo di gabinetto del
governatore, ora indagato, ndr ), ci penso io con lui”. Da quel momento in poi, si parla solo
con Venafro. Fatto l’accordo politico a monte con il Presidente, poi parli con il capo di
gabinetto. Il capo di gabinetto fa l’accordo con Gramazio, il quale, per essere sicuro che
venga rispettato, chiede un membro in commissione aggiudicatrice di gara».
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C’è dell’altro. Buzzi indica un uomo chiave nell’entourage di Nicola Zingaretti. Peppe
Cionci. «Gravita intorno a Zingaretti, è il suo uomo, tiene le sue cose economiche. È
l’uomo dei soldi. Quando abbiamo fatto la campagna elettorale per lui, siamo andati da
Cionci. Non ha un ruolo politico. Ha un ufficio vicino alla sede della redazione di
Repubblica , in Largo Fochetti. È un imprenditore. Se uno deve fare una campagna
elettorale e deve dare dei soldi al comitato di Zingaretti, ti rivolgi a Cionci. Se devi dare i
soldi a Marino, ti rivolgi a Cionci. Tutti a Cionci». E c’è un motivo, a quanto pare.
IL PALAZZO DELLA PROVINCIA
Buzzi sostiene di aver saputo da Luca Odevaine (come lui detenuto dal dicembre scorso,
ndr ) in quale occasione Zingaretti e il suo entourage sarebbero stati corrotti. «Odevaine
mi raccontò che in Provincia (dove era capo della polizia provinciale, ndr ) le operazioni
sporche le facevano Cionci, Cavicchia (Antonio, direttore generale della Provincia, ndr ) e
Venafro e mi raccontò ‘sta cosa dell’acquisto della sede della Provincia. Il palazzo fu
comprato da Parnasi con un pre-contratto di acquisto, praticamente prima ancora che
Parnasi costruisse l’immobile. Uno dei due grattacieli dell’Eur (quartiere a Ovest di Roma,
ndr ) è diventato la sede della Provincia quando si sapeva già che la Provincia sarebbe
stata soppressa. Quindi, viene bandita la gara per cercare la sede della Provincia, vince
Parnasi e si incazza tanto Caltagirone, tant’è che il Messaggero fa campagna per giorni su
questa storia. Anche perché Parnasi, con questa operazione che vale 180 milioni di euro,
si salva dal fallimento. Ovviamente con un contratto in mano di acquisto da parte della
Provincia, tutte le banche finanziarono Parnasi. Che da allora si è rimesso in pista e ora
farà lo stadio nuovo della Roma». Buzzi riferisce ai pm le parole esatte che avrebbe
pronunciato Odevaine: «Luca mi disse: “Che pensi, che ‘sta operazione l’hanno fatta
gratis, lì? I soldi che ci hanno fatto Cavicchia e compagnia ci possono andare avanti per
generazioni». Il pm Ielo lo interrompe: «Odevaine le disse i nomi di chi avrebbe preso i
soldi?». E Buzzi: «Sì. Cavicchia, Cionci, Venafro e Zingaretti. Cionci per Zingaretti,
ovviamente».
LE MAZZETTE PD
Se dalla Regione ci si sposta al consiglio Comunale, sostiene Buzzi che con la giunta
Marino fossero cambiate le regole. «Con Alemanno — spiega — comandavano gli
assessori. Con Marino, i dirigenti dei dipartimenti». Mentre l’aula consiliare Giulio Cesare
era diventata un suk dove la facevano da padrone i due capi- bastone del Pd, l’allora
presidente dell’Assemblea Mirko Coratti e l’allora capogruppo Francesco D’Ausilio (a
quest’ultimo, Buzzi sostiene di aver fatto arrivare, attraverso il suo capo segreteria
Salvatore Nucera, una tangente da 6.500 euro per una gara per la pulizia delle spiagge di
Ostia). «La regola era che si pagava la tangente sul valore del 50 per cento dei lotti di
gara. E che, un lotto era indicato dalla politica. Era la politica che decideva a chi doveva
essere assegnato». «Pagavate quanto? », chiede Ielo. «Il 3, 4, 5 per cento», risponde
Buzzi. Che aggiunge: «Con D’Ausilio ci venne imposta per la prima volta una tassazione
sulle gare per il servizio giardini e il V dipartimento (assistenza immigrati ndr.). Diceva
D’Auisilio: “Dovete pagare tutto”. Avemmo una discussione. Gli dissi: “Non puoi entrare a
gamba tesa sulle coop sociali”. Anche perché non potevo andare da una piccola coop
sociale e dirgli “paga D’Ausilio”. Per questo ci accordammo con Nucera che si pagava solo
sul 50 per cento dei lotti».
IL RUOLO DI ALEMANNO
Diversa la storia che Buzzi racconta di Alemanno. Sostiene con i pm che, anche in quel
caso, fu «costretto a pagare» per non perdere le gare con Ama. «Alla fine, a Panzironi
(allora ad della municipalizzata, ndr ) gli ho dato tra 900 mila e 1 milione di euro». Una
sanguisuga, «che se lo incontravo pe’ strada, je mettevo le mani addosso». E, tuttavia, di
questo fiume di denaro preteso da Panzironi, anche in qualità di segretario della
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Fondazione Nuova Italia dell’allora sindaco, Alemanno nulla avrebbe saputo. «Io ho la
prova indiretta — dice Buzzi — che Alemanno non sapesse che questo acchiappava i
soldi in nero. Mi fu data un giorno che venne in visita al Bioparco con il cardinale Vallini
l’allora assessore Visconti, Discutemmo di quanto dovevo dare per una gara. E lui mi
disse: “Non voglio che Alemanno sappia”».
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 5/08/2015, pag. VII RM
“Migranti e rifugiati Roma è allo stremo”
L’appello di Marino
Il sindaco interviene alla Commissione parlamentare “Arriva qui il 20%.
Molti cittadini contro l’integrazione”
SOS sovraffollamento migranti e rifugiati. Lo ha lanciato ieri il sindaco Ignazio Marino
convocato in commissione parlamentare d’inchiesta sull’accoglienza immigrati. «Roma è
la seconda città d’Italia per l’accoglienza, assorbe il 20% delle persone che arrivano nel
nostro paese. Non possiamo sostenere questi afflussi: non abbiamo né risorse né
strutture», ha detto il sindaco. Il sovraffollamento non è solo degli immigrati, anche i rom
hanno raggiunto numeri record: più di 8mila presenze. E qui il grosso problema è che la
maggior parte dei romani non vuole l’integrazione dei nomadi. «I campi rom sono da
superare - ha dichiarato Marino - ma una questione è affermarlo, un’altra è farlo. La
maggior parte della popolazione è contraria all’idea del superamento dei campi con la
possibilità di attribuire alle famiglie rom alloggi popolari come agli altri cittadini ». Non solo.
Il sindaco ammette che finora le politiche di integrazione sono risultate
fallimentari: «Spendiamo somme ingenti per il trasferimento con i bus dei bambini a scuola
ma il successo è inferiore al 50%. I bimbi che poi a scuola ci vanno davvero sono meno
del 20%. Potremmo tentare con un maggior coinvolgimento delle donne. Sono convinto
che una mamma non voglia vedere il proprio figlio crescere in una situazione di degrado e
senza la possibilità di andare a scuola». «Il sindaco parla giustamente di resistenze, ma va
detto che le resistenze maggiori provengono dalla politica e dall’amministrazione stessa»,
polemizza Riccardo Magi, presidente di Radicali italiani.
Più volte il chirurgo dem si è posto il problema di eventuali contagi per la presenza così
massiccia di immigrati a Roma. In particolare Marino si è chiesto se i romani non fossero a
rischio contagio tbc. «Ho più volte espresso preoccupazione per lo stato di salute dei
migranti, anche in una lettera che ho scritto ai ministri della Salute e dell’Interno. Lorenzin
e Alfano mi hanno assicurato che esistono cinque livelli di controlli sanitari sui migranti, a
partire da quello che ha luogo sulle navi». Ma non bastano i controlli. Servono le cure: «I
migranti devono essere curati, anche per evitare la diffusione di malattie a cui il nostro
sistema immunitario non è più abituato», ha concluso Marino.
L’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese, anche lei ascoltata nella
commissione presieduta dal Pd Gennaro Migliore, ha annunciato una nuova delibera sulle
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residenze fittizie, gli indirizzi che i migranti forniscono perché si metta in moto la procedura
dell’assistenza, per esempio, sanitaria e legale. Di concerto con questura, prefettura,
dipartimenti Anagrafe e Politiche sociali, l’assessore porterà in giunta una delibera che
presuppone una rete di controlli. «Il provvedimento spiega Danese- darà la possibilità alle
associazioni di riprendere in mano la gestione delle residenze fittizie, ma con un impegno
in più: le persone a cui vanno date le residenze devono essere effettivamente seguite e
conosciute e devono certificare più volte durante l’anno che frequentano l’associazione di
riferimento». Giorni contati per il centro di accoglienza Baobab. «Puntiamo a chiuderlo
attraverso un progressivo alleggerimento conferma Danese- Il centro è stato attivo fino ad
aprile, poi abbiamo chiuso tutte le partite, anche economiche, e non abbiamo più pagato
l’affitto. I migranti verranno trasferiti alla tensostruttura sulla Tiburtina e al Ferrhotel,
sempre sulla Tiburtina, adesso in fase di ristrutturazione. L’obiettivo finale è
l’integrazione». Intanto però ieri pomeriggio un tunisino di 30 anni si è dato fuoco nel
centro di immigrazione di via Patini. L’uomo è ricoverato all’ospedale Sant’Eugenio, ma
non sarebbe in pericolo di vita. Un gesto di protesta e disperazione: lo straniero,
allontanato più volte dall’Italia, era stato convocato per ricevere una notifica di rigetto della
sua ultima domanda di regolarizzazione. Appresa la notizia, si è cosparso di liquido
infiammabile e si è dato fuoco con un accendino.
Del 5/08/2015, pag. 9
Cameron: «Niente garanzie e welfare per chi
non ottiene l’asilo politico»
Gran Bretagna. I migranti avranno 28 giorni per andarsene. Londra
risparmia oltre 70 milioni di euro. Almeno 10mila persone dovranno
lasciare il paese
Il governo conservatore di David Cameron ha annunciato dei provvedimenti volti a scoraggiare l’immigrazione illegale in Gran Bretagna. Ieri il ministero dell’Interno ha infatti illustrato il piano che prevede lo stop al welfare per coloro ai quali verrà respinta la richiesta
d’asilo. Il documento ufficiale, datato 4 agosto, afferma che il governo sta prendendo in
considerazione di attuare i provvedimenti dal prossimo luglio 2016: a partire dall’estate
prossima, saranno oltre 10.000 le persone che dovranno lasciare il paese.
Per farlo avranno a disposizione, si fa per dire, 28 giorni.
La mossa del governo permetterà di risparmiare alle casse dello stato circa 49 milioni di
sterline (70 milioni). Il documento chiarisce inoltre – nel caso ce ne fosse bisogno — che
questi provvedimenti legislativi permetteranno alle autorità locali di non essere in alcun
modo obbligate ad aiutare i richiedenti d’asilo e le loro famiglie che dovranno lasciare
l’Inghilterra. Le proposte avanzate dal governo sono motivate dalla volontà di dimostrare
a chi cerca di arrivare in Gran Bretagna che quest’ultima non è «la terra del latte e miele»
e finiranno per integrare due categorie di sostegni offerti fino ad oggi, al fine – dice il
governo — di rendere più rigoroso il processo decisionale caso per caso, anziché garantire il diritto al sostegno statale in modo automatico. La prima categoria, conosciuta come
«section 95 support», garantisce il welfare a poco più di 10mila richiedenti asilo (le cui
richieste sono state respinte) che non riescono a far fronte al carovita.
Le famiglie alle quali è stato dato un alloggio «no-choice» (senza scelta) in zone periferiche di Londra riceveranno infatti, a partire dal 10 Agosto, 50 euro per ogni adulto o bambino, e alcune di loro vedranno il proprio sostegno diminuire di circa il 30%.
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La seconda categoria, nota invece come «section 4.2 support», include tutte le famiglie
a cui è stato assicurato un alloggio «no-choice», sempre nella periferia della capitale, ma
che non ricevono assegni. I circa 4.000 singoli richiedenti circoscritti in questa categoria
ricevono una carta prepagata Azure, contenente 40 euro circa settimanali e utilizzabile
solo in alcuni rivenditori per comprare generi alimentari o prodotti di prima necessità.
Fonti vicine al governo britannico negano però la completa sparizione del sostegno economico verso i più bisognosi. Il sussidio statale verrà infatti erogato a coloro per i quali
lasciare il paese rappresenta un vero e proprio ostacolo; secondo una ricerca eseguita
dalla Camera dei Comuni, più di 3.600 individui inclusi nella «section 4.2» hanno vissuto
con il sostegno per più di un anno; si tratta di una cifra alta che sta ad indicare che molti di
loro hanno reali difficoltà a tornare nel paese d’origine, o perché c’è una guerra, o per il
rifiuto del paese stesso a rilasciare i documenti validi ad un nuovo espatrio.
«David Cameron invece di utilizzare la retorica anti immigrazione, dovrebbe spiegare al
popolo inglese che questa è gente disperata proveniente da paesi in guerra o che non
rispettano i diritti umani», aveva dichiarato Natalie Bennett, leader del Green Party.
Secondo il Ministero degli Interni inglese, i provvedimenti cercheranno di porre i bambini
come categoria da proteggere: il progetto «cercherà il modo migliore per far espatriare le
famiglie a cui è stato negato l’asilo, garantendo nel frattempo che ci siano meccanismi per
assicurare la protezione dei bambini». «Questa dura proposta sembra essere basata sulla
logica secondo la quale lasciare le famiglie al margine della miseria le costringerà ad
andare via da questo paese. Il governo ha il dovere di tutelare tutti i bambini in questo
paese e anche governi precedenti hanno ritenuto moralmente riprovevole togliere il supporto a famiglie con bambini» ha specificato Lucy Doyle dal Consiglio per i Rifugiati.
Del 5/08/2015, pag. 9
«Cani e reticolati», il premier britannico
rilancia l’ultra destra razzista
Eurorazzismi. Nuovi movimenti anti-migranti e islamofobi in Gran
Bretagna. Edl, National Action, Pegida UK: ecco i nuovi «difensori dei
valori occidentali», in marcia, fino all’Eurotunnel, con l’estrema destra
polacca
David Cameron non ha più rivali a destra. Dopo l’euroscetticismo, sostenuto dall’allarme
lanciato dai tabloid popolari che annunciano invasioni, epidemie e terrorismo jihadista diffuso se non si sbarrano le frontiere, il premier conservatore britannico ha scelto la via
dell’affondo muscolare anche sull’immigrazione. Epicentro dell’escalation dagli accenti
xenofobi del governo di Londra è oggi il tunnel sotto la Manica e l’afflusso degli stranieri
provenienti dalla città francese di Calais, ma, puntando tutto su questa stessa linea,
Cameron si è già aggiudicato le recenti elezioni politiche riuscendo nell’impresa di riportare a casa i voti nazionalisti in libera uscita e i consensi protestatari e razzisti andati negli
ultimi anni all’United Kingdon Independence Party.
La svolta del Partito Conservatore non passa però inosservata. Mentre le autorità ripetono
in modo ossessivo che i «veri nemici», più della crisi, sono gli stranieri scrocconi che campano alle spalle del già malridotto sistema di welfare del paese, l’estrema destra razzista
sfrutta la situazione e torna ad occupare le strade. Al punto che c’è da credere che il
saluto nazista esibito in famiglia dalla futura regina Elisabetta nel 1933, l’anno dell’ascesa
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al potere di Hitler, quando la sovrana non aveva che sette anni, rivelato recentemente da
uno scoop del Sun, non sarà il solo segnale sinistro per cui ricordare questa calda estate
dell’era Cameron. Quasi a sostenere le proposte del premier che aveva parlato di
aumento della sorveglianza, con «cani, agenti e reti metalliche» sulla sponda britannica
della Manica, nei giorni scorsi i militanti dell’English Defense League, il movimento ultranazionalista che negli ultimi anni ha raccolto estremisti di destra e hooligans di diverse squadre di calcio su una piattaforma anti-immigrati e soprattutto anti-musulmani, si sono radunati a Folkestone, all’ingresso dell’Eurotunnel, per chiedere che «per fermare questa
marea umana, siano inviati subito i militari». In un comizio improvvisato, introdotto dall’inno
nazionale e tra bandiere con la croce di San Giorgio, simbolo dell’Inghilterra, e Union Jack,
ha preso la parola Paul Goding, alla testa dal 2011 di Britain First, il partitino che si prefigge di portare sul piano elettorale le tesi dell’Edl, recentemente denunciato per aver seppellito un maiale in un terreno destinato alla costruzione di una moschea a Dudley, nelle
Midlands occidentali. Secondo lui, «il popolo britannico è contrario all’immigrazione.
Viviamo su un’isola già fin troppo popolata, non c’è più posto per nessuno. E se dobbiamo
fare degli sforzi, è giusto farli per i nostri concittadini e non per degli stranieri. Chi arriva
qui, deve essere fermato con ogni mezzo». Edl e Britain First, che hanno preso il posto
occupato all’inizio del decennio dal British National Party ormai prossimo allo scioglimento,
puntano a presentarsi come difensori dei valori occidentali, ma, oltre al passato violento di
molti dei loro membri, sono le stesse iniziative assunte dai gruppi locali che si rifanno
a queste sigle ad illustrarne il vero profilo: a giugno, a Liverpool, hanno ad esempio promosso una «White Man March» aperta anche ai membri di formazioni neonaziste come la
National Action e il British Movement. Allo stesso modo, a Newcastle, alcune centinaia di
aderenti all’Edl, guidati da Robert Gray, un veterano delle forze armate, hanno dato vita di
recente a Pegida UK, ispirandosi all’omonimo gruppo anti-islamico tedesco fondato
a Dresda.
Come descritto nel rapporto annuale sulle violenze e il pregiudizio nei confronti dei musulmani, redatto da un gruppo di ricercatori della Teesside University, il diffondersi
dell’islamofobia è infatti uno degli aspetti più visibili della situazione. Con oltre 700 incidenti
repertoriati, tra cui una ventina di aggressioni fisiche gravi, e il moltiplicarsi della «letteratura dell’odio» online, il fenomeno è descritto nei termini di un autentico allarme.
La progressiva banalizzazione delle tesi dell’estrema destra nella società britannica,
avvertono gli analisti della rivista antirazzista Searchlight, cela però anche un altro pericolo: quello di un ritorno del neonazismo puro e semplice e la prospettiva che Londra
diventi una sorta di capitale di tali movimenti.
Come accaduto nel quartiere periferico londinese di Golders Green, dove vive una folta
comunità ebraica, che è stato protagonista all’inizio di luglio di una manifestazione indetta
letteralmente «contro l’ebraizzazione» della zona, a cui hanno preso parte neonazisti
locali, riuniti nella National Action e nello Iona London Forum, accanto agli aderenti alla
sezione britannica della Narodowe Odrodzenie Polski, Rinascita nazionale polacca, formazione dell’ultradestra di Varsavia sempre più presente anche presso i polacchi immigrati in
Gran Bretagna, al pari di quanto accade anche per i gruppi neonazisti delle repubbliche
baltiche e dell’Ucraina.
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Del 5/08/2015, pag. 19
«In sette mesi sono morti 2.000 migranti»
L’Organizzazione per le migrazioni: picco di vittime ad aprile.
Cittadinanza, alla Camera primo sì allo ius soli
Di qualcuno, come Raghad Hasoun, la bambina siriana malata di diabete arrivata senza
vita a Siracusa a metà luglio, c’è un nome. Di altri, come l’eritreo scomparso nel Canale di
Sicilia il 22 luglio sotto gli occhi del fratello, che si è salvato, è rimasta una storia. Per
moltissimi, come la maggior parte degli 800 naufragati il 18 aprile al largo della Libia, non
resta niente, solo il ricordo di chi, a casa, non ha più notizie ma spera che ce l’abbiano
fatta lo stesso. Ora c’è un numero che li racchiude tutti: sono 2.000 i migranti e rifugiati
morti da gennaio nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Lo stima l’Organizzazione
internazionale per le migrazioni (Oim), secondo la quale il nostro mare è il confine più
pericoloso del mondo. Almeno 60 persone hanno perso la vita sulla rotta per la Grecia,
1.930 nel tentativo di raggiungere l’Italia. «L’anno scorso, nello stesso periodo, le vittime
stimate erano state in tutto 1.600 — spiega Flavio Di Giacomo, portavoce di Oim Italia —.
Ogni naufragio è una storia a sé, ma di fatto l’aumento di morti è concentrato nei primi
mesi dell’anno. Cioè il periodo tra la sospensione di Mare Nostrum, la missione di
salvataggio italiana, e il potenziamento di quella europea Triton». Una spiegazione
confermata dai dati dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che sulla base delle
segnalazioni delle Guardie costiere di diversi Paesi e delle testimonianze dei sopravvissuti
stima in almeno 2.100 i morti da gennaio. Secondo l’Unhcr i migranti e rifugiati annegati
nelle traversate ad aprile scorso sono stati 1.308 rispetto ai 42 del 2014 (Oim ne stima
rispettivamente 1.265 e 50). Una strage che ha indotto i leader dell’Ue a triplicare il
finanziamento a Triton e ad ampliarne la copertura fino alla zona antistante alla Libia. A
maggio così il numero delle vittime si è ridotto a un terzo di quelle registrate nel 2014.
A monte c’è però l’aumento delle persone che tentano la traversata: 219 mila l’anno
scorso, 137 mila nei primi sei mesi di quest’anno, contro le 60 mila di tutto il 2013.
«Spesso fuggono dalle guerre: la maggior parte di coloro che sono arrivati via mare dal
2014 a ora sono siriani e eritrei — dice Barbara Molinario di Unhcr —. Se vogliamo salvare
vite umane non possiamo continuare a lasciare soli Paesi come il Libano che già oggi
ospita 1,2 milioni di rifugiati su circa sei milioni di persone. Bisogna fornire a chi scappa
dalle violenze alternative alle traversate: visti umanitari, per esempio, o il ricongiungimento
familiare facilitato». In assenza di percorsi legali al costo umano si aggiunge quello
economico: il sito d’inchiesta «The Migrants Files» calcola che dal 2000 migranti e rifugiati
hanno speso 16 miliardi di euro per entrare illegalmente in Europa. E l’Europa ne ha spesi
11,3 per rimandarli indietro. Ieri intanto la commissione Affari costituzionali della Camera
ha approvato il testo base dello ius soli «soft»: permette ai minori nati in Italia da stranieri
di ottenere subito la cittadinanza se frequentano le scuole qui per almeno 5 anni o se uno
dei genitori è residente da 5 anni.
Elena Tebano
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Del 5/08/2015, pag. 11
I profughi nel cuore dell’Europa
La grande maggioranza dei migranti arrivati in Sicilia e Ungheria si è
ormai spostata nel Nord Caos a Calais, la Germania ricorre all’esercito.
Nel 2015 morte 2000 persone nel Mediterraneo
Beniamino Pagliaro
Sono davvero andati al Nord. Quando il 18 aprile il Canale di Sicilia inghiottiva centinaia di
disperati, quando la polizia li sfollava alla Stazione centrale a giugno, quando si
accampavano sugli scogli a Ventimiglia, quando la politica strepitava e concludeva poco,
una voce continuava a ripeterci: non vogliono venire in Italia. Cercano il Nord Europa, non
un Paese con la disoccupazione al 12,7%.
Il viaggio è continuato, con il miraggio delle imprese di Germania e Inghilterra, un parente
o un amico che ce l’ha fatta in Svezia. La voce aveva ragione: sono andati al Nord, e il
Nord si è attrezzato per l’arrivo. Da Calais all’Ungheria sono stati schierati soldati ed eretti
muri. La Bulgaria, confine Sud Est dell’area Schengen, ha già in piedi un muro da quattro
metri e mezzo: filo spinato, soldati e telecamere, lungo 80 chilometri. In Ungheria il
governo Orban ha avviato la costruzione del nuovo muro da 175 chilometri: 900 militari
sono al lavoro, e contano di concludere i lavori entro fine mese.
Nuove rotte
L’Ungheria è diventata la porta d’entrata preferita dagli immigrati in fuga dal Nord Iraq in
mano all’Isis e dall’infinita guerra civile siriana. Più sicura ed economica di una traversata
nel Mediterraneo, la porta a Est ha registrato oltre 100 mila arrivi nei primi mesi del 2015.
Nel 2014 le richieste d’asilo a Budapest erano state meno di 43mila, nel 2013 circa 18mila.
Tra calcoli e diverse tipologie di migranti, un ragionamento sui numeri è sempre
complicato. Ma il grande flusso si è spostato a Nord. Nei primi giorni di agosto l’Italia ha
accolto i migranti salvati dalle navi delle rinnovate operazioni in mare: 780 il primo agosto,
369 il 3 agosto a Reggio Calabria, solo ieri 427 a Vibo Valentia e 305 a Messina. Nelle
stesse ore, in un solo colpo 4.500 migranti sono stati catturati nel tentativo di entrare in
Ungheria. Le ultime stime dicono che i rifugiati arrivati in Germania nel solo mese di luglio
sono 79mila, e le richieste d’asilo da gennaio a luglio sono state 258mila. Il governo di
Angela Merkel è dovuto intervenire, toccando il divieto - stabilito nel dopoguerra negli
accordi con gli Alleati - di usare l’esercito per attività che non siano emergenze nazionali o
vera e propria difesa. La politica tedesca discute del presunto affronto alla Costituzione, e
nonostante Merkel goda di un ampio consenso nel Paese, ha scelto di intervenire: i militari
costruiranno tendopoli e strutture sanitarie per i migranti.
Arrivano nel Regno Unito, disturbando le vacanze di David Cameron, e allora il fronte
caldo è a Calais più che a Lampedusa. Al porto francese sulla Manica i prezzi dei trasporti
illegali attraverso l’Eurotunnel sono raddoppiati dai 500 euro di due mesi fa ai mille. La
tendopoli che a settembre ospitava 1.300 persone oggi ne ha oltre cinquemila. Aspettano
il buio e tentano l’assalto al tunnel, con circa 400 tentativi a notte. Spesso vengono
bloccati, a volte muoiono. La politica borbotta, i trasportatori lamentano danni da 5 milioni
di sterline per ogni diecimila tir fermi nella Manica, complicando ancora il rapporto tra
Cameron e l’Europa in attesa del referendum sull’uscita dall’Ue. Chi arriva al Nord scrive
comunque la pagina fortunata della storia contemporanea. Nel 2015 oltre duemila migranti
sono già morti attraversando il Mediterraneo, secondo la stima diffusa ieri
dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Problema comune
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Nello stesso periodo del 2014 erano morte 1607 persone. La rotta italiana si conferma la
più pericolosa: Italia e Grecia hanno registrato un flusso simile di migranti (97.000 e
90.500), ma 1.930 persone sono morte durante la traversata per l’Italia 60 verso la Grecia.
Anche l’uomo nascosto nella valigia, morto soffocato nel viaggio dal Marocco alla Spagna,
era diretto a Nord. Meno di un mese fa, quando la Commissione europea provava a
introdurre le quote di migranti da redistribuire, la riposta del Nord è stata scarsa e
negativa. Ora i ministri francesi e inglesi chiedono solidarietà a Italia e Grecia, e lo staff di
Merkel pensa a un nuovo vertice, a settembre, dopo le vacanze. L’immigrazione è o no, un
problema europeo?
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 5/08/2015, pag. 13
L’ex colosso dell’acciaio
Una lunga crisi sfociata in disastro ambientale e avvelenamento, con la produzione
ai minimi storici, le aziende dell’indotto soffocate dai debiti e i cinesi che
abbandonano il progetto del porto
Il mostro ferito chiamato Ilva ora Taranto
tenta il riscatto
DAL NOSTRO INVIATO GIULIANO FOSCHINI
TARANTO. Bisogna tornare indietro di sessant’anni quasi. E arrivare al vecchio sindaco
democristiano Angelo Monfredi che nel 1959 così raccontava: «Alla notizia la città esultò.
Fu scomodato persino un completo bandistico che portò in ogni rione l’annuncio tanto
atteso. La città cominciava finalmente a guardare al suo futuro con maggiore serenità. Chi
alzò un dito allora per dire che il IV centro siderurgico stava per nascere? Nessuno. C’era
fame di buste paga, di posti di lavoro, di tranquillità economica, di serenità. Se ce lo
avessero chiesto avremmo costruito lo stabilimento anche in pieno centro cittadino».
Sessant’anni di Italsider e Ilva dopo, Taranto è diventata invece questa qua: un animale
ferito, quasi ucciso, da quel mostro che accolsero con la banda in piazza. Lo raccontano le
carte giudiziarie (disastro ambientale, omicidio plurimo, avvelenamento di cibo, animali,
eccetera eccetera), lo si legge sui muri della città (“Ilva boia”), lo si trova nelle storie della
gente, storie di malattie, di dolori, di sogni spezzati. E ora lo si comincia a trovare anche
nei numeri dell’economia perché dopo anni in cui l’acciaio ha dato da mangiare a tutta la
città, in buste paga o in mazzette, oggi il siderurgico è al minimo storico di produzione, con
le aziende dell’indotto che chiudono soffocate dei crediti non pagati dal vecchio
siderurgico, i cinesi che abbandonano il progetto del rilancio del porto ma comprano a
quattro soldi le case del quartiere Tamburi, quelle inquinate che non vuole più nessuno.
Qualche numero: nel 1980 31mila persone, tra azienda e indotto, lavoravano per
l’Italsider. La produzione a pieno regime era di 11 milioni di tonnellate all’anno, tredicesimo
nel mondo, dietro cinesi, coreani e russi, secondi in Europa soltanto a Duisburg. Il fatturato
annuo ai tempi dei Riva oscillava tra gli 11 e i 15 miliardi di euro, con una percentuale
altissima di esportazione. In sostanza, la grande industria dell’acciaio era qui, a due passi
dal ponte girevole. E ora? «Ora le cose sono cambiate…» si stringe nelle spalle il
presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo. L’Ilva è andata in amministrazione
straordinaria con tre miliardi di debiti, circa duemila creditori aspettano duecento milioni.
Lo stesso Cesareo, imprenditore metalmeccanico, con alcune aziende che lavoravano
nell’indotto, ha «crediti per qualche milione di euro». «La crisi dell’Ilva vale il 2,7% del Pil
nazionale — spiega il numero uno locale degli industriali — Il 90% di quello della provincia
di Taranto». Crisi dell’Ilva significa che oggi le 11 milioni di tonnellate di produzione si sono
ridotte sotto i 5, che i dipendenti non superano i 14mila e che il rientro al lavoro di 300
persone oggi, che un altoforno sta per riaprire dopo i lavori di ambientalizzazione, viene
festeggiato come un evento. Non con la banda. Ma quasi.
Ma il problema per Taranto, è chiaro, non è quello che accadrà oggi. Ma quello che
succederà domani. Il premier Renzi ci “aveva messo” la faccia, arrivando a Taranto tra i
primi impegni da presidente. Ha poi delegato il suo sottosegretario, Claudio De Vincenti, a
occuparsi del caso mettendo sul piatto 600 milioni di euro non solo per Ilva. Anzi, non per
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Ilva. Ma per il turismo, la cultura. «Soffriamo — continua il presidente di Confindustria — la
crisi dell’Arsenale Militare con il progressivo depauperamento delle risorse. E l’incredibile
storia del porto ». In pochi anni si sono perse 300 grandi navi all’anno, che invece
dovevano raddoppiare secondo l’intenzione della Tct (Taranto container terminale),
società partecipata dai tawanesi, che doveva rendere Taranto il secondo porto dell’Italia
meridionale: serviva però il risanamento e il dragaggio dei fondali per l’attracco delle navi
transoceaniche. C’erano anche i soldi, ma la burocrazia non è riuscita a fare le opere in
tempi accettabili. E allora i taiwanesi sono andati via.
E’ la maledizione del Mostro, sembra Medusa: chiunque lo guardi, diventa pietra. Gli
investimenti, le pecore che pascolavano, la gente che ci viveva. Si può sopravvivere? Può
esserci un futuro a Taranto? La stessa domanda posta a cinque soggetti diversi trova
risposte sorprendenti. «Sì, nessun dubbio » — dice il nuovo commissario straordinario di
Ilva, Piero Gnudi — Siamo convinti che ci siano ancora le condizioni per un rinnovato ruolo
di Ilva come acciaieria moderna, compatibile con l’ambiente, efficiente e di qualità. Il
governo e tutti noi, commissari e lavoratori di Ilva siamo impegnati a completare
rapidamente questo processo: fra qualche giorno riparte l’altoforno 1 ambientalizzato e
rinnovato, entro il prossimo anno ripartirà l’altoforno 5. Se non ci saranno intoppi nel 2016
torneremo in pareggio e dal 2017 in utile. Ilva e i suoi 14 mila dipendenti sono pronti a
tornare ad essere protagonisti in Europa». “Sì” risponde Confindustria. «Ma non solo con
Ilva. Insieme con i sindacati abbiamo presentato un master plan nel quale chiediamo
sviluppo turistico e culturale, certo. Ma anche un’industria di tipo diverso: un accordo di
programma per il porto, l’aerospazio». “Sì” risponde anche Francesco Bardinella della
Fiom. «Ma lo sviluppo è civiltà. E allora non si deve più morire di lavoro e per il lavoro»,
con gli occhi lucidi dopo la morte di nemmeno due mesi fa di Alessandro Morricella,
travolto da una colata di lava bollente mentre era in Altoforno. “Sì” dice anche Vincenzo
Fornaro, il pastore che ha visto uccidere il suo gregge perché pascolava troppo vicino
all’Ilva, e ora su quei campi ha piantato canapa, perché “pulisce” e perché si “può produrre
senza inquinare”. E “sì” risponde anche Alessandro Marescotti, il leader di Peacelink, la
coscienza ambientalista di questa città, l’uomo che forse più di tutti ha portato la parola
“consapevolezza” in questa terra. E ora combatte per un altro vocabolo: «Riconversione.
Usiamo i soldi per la bonifica, due miliardi circa, e costruiamo la prima vera smart city
italiana». Sessant’anni dopo, a Taranto, c’è soltanto da scegliere qual è il “sì” giusto.
Del 5/08/2015, pag. 19
L’Italia alla «battaglia» dell’energia pulita
È ormai conveniente produrla, mancano leggi precise - Frankl (Iea):
«Stesso impatto del gas, doppio del nucleare»
Nel mondo l’evoluzione energetica, quel cambio di paradigma nel modo di produrre e
consumare energia, mostra segnali di tendenza. Probabilmente irreversibile. Anche l’Italia
con gradualità e – come in ogni transizione – fra piccoli passi in avanti e retromarce
evidenti segue quanto accade anche nel resto del mondo. Le tecnologie energetiche
stanno percorrendo con qualche anno di ritardo quanto è avvenuto nel resto del mondo
produttivo. Il silicio, che ha dato la svolta dei computer e dei telefonini in rete cambiando le
relazioni fra i produttori e con i consumatori e più in generale la società, quando è in una
particolare forma ha anche la proprietà di emettere un flusso di elettricità se colpito dalla
luce. È il principio dell’energia fotovoltaica che, con quella eolica, è il simbolo della
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produzione elettrica efficiente, pulita, con basse barriere di capitale, vicina ai consumatori
o perfino direttamente in casa del consumatore il quale diventa, neologismo imbarazzante,
un «prosumer», che si potrebbe tradurre in modo ancor più imbarazzante come
«prosumatore». Produttore e consumatore insieme.
Cina e India, che marciano a carbone, stanno convertendo parte della loro capacità
produttiva verso l’energia rinnovabile, come sottolinea Francesco Ferrante di GreenItaly,
un osservatore accorto delle tendenze dell’ecologia, e il consumo cinese di carbone in
Cina è sceso dell’8% e le emissioni di anidride carbonica del 5%. Dal 2008 al 2013 le
emissioni degli Stati Uniti sono diminuite del 12% nonostante la crescita del Pil (fonte:
nuovo rapporto Ceres), e si disaccoppia il collegamento tra crescita economica e danni
all’ambiente: si può crescere in modo sostenibile. A Dubai un grande impianto solare
produrrà elettricità a meno di 60 dollari per mille chilowattora, un record mondiale; in Egitto
sorgerà una centrale eolica il cui chilowattora costerà ancor meno.
Il sistema normativo nazionale è ondivago, spesso oggetto di spinte emotive alla ricerca
del consenso. Per anni l’Italia ha promosso le fonti rinnovabili, facendo del Paese uno dei
più rinnovabili al mondo. Durante un convegno organizzato di recente dall’Agenzia
internazionale dell’energia e dal Gestore dei servizi energetici, l’amministratore delegato di
Terna (la Spa pubblica dell’alta tensione) Pier Francesco Zanuzzi ha sottolineato che dal
2005 al 2013 la produzione italiana di energia pulita è cresciuta di 17 volte e copre il 40%
della produzione nazionale, con un sorpasso sul metano, il quale a sua volta pochi anni fa
aveva conquistato il primato sull’olio combustibile. Ma i dati del giugno 2015, freschissimi,
sono ancora più forti: secondo la media trilussiana del pollo, le centrali pulite hanno
prodotto 9,5 miliardi di chilowattora pari al 47% dell’elettricità nazionale. Significa che in
giugno diverse volte le fonti pulite di energia hanno costretto a tenere spente quasi tutte le
centrali a combustibile. L’effetto è duplice. Le rinnovabili fanno scendere in modo rilevante
la quotazione del chilowattora all’ingrosso al Mercato Elettrico (la settimana scorsa il listino
è crollato del -21%) ma al tempo stesso fanno rincarare la bolletta dei consumatori tramite
gli incentivi. Le politiche italiane ancora oggi oscillano fra le due spinte contraddittorie,
promuovere l’energia pulita ma frenare l’energia pulita. La normativa viene cambiata di
continuo, secondo gli umori del momento. Per il segmento fotovoltaico, per esempio, c’è
stato un sovrapporsi di diversi incentivi in “conto energia” inframmezzati da leggi come il
cosiddetto Salva Alcoa che, durante il Governo Berlusconi, diede all’energia solare un
sussidio di generosità sorprendente, salvo far in breve marcia indietro. Oggi siamo alla
revisione dello “spalmaincentivi” (che vengono ridotti ma pagati per un tempo più lungo), il
quale ha sconcertato i piani di rientro delle banche che avevano finanziato i progetti, le
associazioni dei produttori rinnovabili e perfino il Tar Lazio, che vi ha sentenziato contro.
Sono in corso nuovi aggiornamenti, e associazioni come l’Assorinnovabili o la
Federidroelettrica lanciano allarmi ripetuti. Non a caso Greenpeace, associazione
ecologista battagliera e fra le meglio scientificamente preparate, ha dovuto lanciare in
questi giorni una campagna per promuovere la diffusione delle fonti rinnovabili di energia
nelle piccole isole italiane, che potrebbero diventare il regno delle fonti pulite di energia per
le imprese, per le famiglie e per i trasporti. Avverte Paolo Frankl, direttore a Parigi della
sezione rinnovabili dell’Agenzia internazionale dell’energia, che il comparto ha bisogno
soprattutto di continuità, di certezze. Non è più vero – dice – che l’energia sostenibile
costa troppo. I costi del fotovoltaico e dell’eolico scendono dove c’è un mercato
competitivo oppure in alternativa dove ci sono piani di incentivazioni a lungo termine.
Quando come in Italia i due sistemi si sommano (concorrenza e pianificazione insieme) in
modo irregolare ed emotivo invece i costi della corrente elettrica crescono. Ciò scoraggia
gli investimenti finanziari nelle rinnovabili, perché le indicazioni di prezzo sono falsate. «Il
settore finanziario considera le rinnovabili come mature e affidabili. Ciò ha consentito di
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ridurre i premi per il rischio, ottenere un costo del capitale più basso e di ridurre il costo
delle rinnovabili», ha scritto Frankl in un articolo sulla rivista «Elementi » del Gse. «Chi
pensa che le rinnovabili siano ancora piccole semplicemente sbaglia. Con circa 5.400
miliardi di chilowattora l’anno scorso le rinnovabili hanno prodotto a livello globale la
stessa quantità di elettricità prodotta con il gas e due volte quella da nucleare».
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INFORMAZIONE
Del 5/08/2015, pag. 1-2
Rai,eletti i primi 7 del Cda nuovo scontro nel
Pd Renzi: vertici di alto profilo
Ai dem 3 consiglieri,2 al centrodestra,1 a Ncd e 5Stelle No a De Bortoli,
proposto dalla sinistra. Dall’Orto sarà Dg
UMBERTO ROSSO
ROMA. Ci sono i sette nuovi consiglieri di amministrazione della Rai. Oggi tocca al
presidente e all’altro membro scelto dal Tesoro. Il direttore generale, lo lascia intuire
chiaramente lo stesso Renzi («ha qualità, autorevolezza, capacità»), con tutta probabilità
sarà Antonio Campo Dall’Orto. Ma la battaglia per il presidente, che ieri ha avuto un
prologo nella spaccatura del Pd, con la minoranza dem che aveva proposto per il cda
Feruccio de Bortoli, è una partita delicata: servono i due terzi della commissione di
vigilanza per la ratifica, e Renzi avrà perciò bisogno dei voti di una parte di Forza Italia o
dei grillini. Fico, uomo di Grillo alla guida della Vigilanza, da un lato attacca duramente il
premier, « aveva promesso nomi nuovi e invece sono tutti legati al suo partito», ma
dall’altro tende la mano sul presidente: «Vediamo se finalmente ci propone una figura di
alto profilo, ma sono scettico». E pure Forza Italia attende con interesse il nome del
candidato presidente, «lo votiamo se rappresenta il paese», annuncia Augusto Minzolini.
Renzi dal Giappone promette che i due nomi che farà oggi il governo saranno «di alto
profilo» e spiega che nonostante la minoranza interna le riforme non si bloccheranno,
«mai ne erano state fatte tante in Italia come adesso».
Nel cda di Viale Mazzini entrano tre nomi per i democratici, l’ex segretario del sindacato
dei giornalisti Franco Siddi, il direttore del teatro Puccini di Firenze Guelfo Guelfi, e la
storica dell’arte Rita Borioni. Due nomi riesce a spuntare il centrodestra, due giornalisti,
Arturo Diaconale (direttore dell’Opinione) e Giancarlo Mazzuca (direttore del Giorno ed ex
deputato del Pdl). Area Popolare elegge Paolo Messa, ex capo ufficio stampa dell’Udc.
Entra anche Carlo Freccero, uomo di lungo corso tv, direttore Mediaset, di Raidue e di
Rai4, sospinto nel cda dai voti dei Cinquestelle e di Sel. L’ex direttore del Corriere della
Sera de Bortoli, prende solo due voti (Gotor e Fornaro) della sinistra Pd e quindi non ce la
fa, mentre scoppiano le polemiche dentro il partito. Miguel Gotor : «E’ stato posto un veto
della maggioranza, è un’occasione persa». Il capogruppo Rosato smentisce: «Nessun
veto ma i candidati del partito erano altri». E il presidente del partito Orfini: «Spero che non
sia un altro strappo della minoranza, certo è curioso che, con tutto il rispetto per de Bortoli,
sia il candidato della sinistra interna». Oggi il Tesoro indicherà all’assemblea degli azionisti
Rai gli altri due consiglieri, uno dei quali sarà indicato come presidente. Ma domani la sua
nomina dovrà essere confermata dalla Vigilanza, accordi permettendo.
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Del 5/08/2015, pag. 1-2
Carta segreta del premier: “Un nome
bipartisan alla presidenza. Una sorpresa”
Berlusconi reclama il diritto di scelta per il numero uno di Viale Mazzini
Attacco di Bersani: “Avevano detto via i partiti, hanno messo le
correnti”
IL RETROSCENA
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA . Mansi? «Non la conosco. Non si è mai occupata di Rai, dentro Viale Mazzini si
possono trovare donne più all’altezza di lei», risponde Maurizio Gasparri. Il centrodestra
comincia a bruciare nomi per il presidente della Rai: la stessa Antonella Mansi, Anselmi,
Sorgi, Fuortes... Alzano il prezzo in attesa del ritorno di Matteo Renzi dal Giappone (è
atterrato nella notte) e dell’inizio di una vera trattativa. Berlusconi propone tre nomi: Piero
Ostellino, Barbarba Palombelli, Antonio Catricalà. «Dobbiamo trovare un Garimberti al
contrario», dice ancora Gasparri. Ovvero, una personalità stavolta indicata da Forza Italia.
Ma Renzi dice di avere una carta segreta. Telefona ai suoi collaboratori dai cieli della
Siberia e annuncia: «Ho qualche nome in testa, non ho ancora deciso». La Mansi resta in
campo e se ci sono veti, garantisce, ci penserà lui a superarli. Però sull’aereo di Stato,
durante quel voto sopra il Polo Nord, si affaccia un’altra ipotesi: quella di designare alla
carica di presidente Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria.
Il centrodestra, per far pesare il suo diritto di veto, approfitta del caos dentro il Partito
democratico, di una spaccatura ormai conclamata e che arriva a consumarsi persino sul
prestigio di Ferruccio De Bortoli. L’ex direttore del Corriere della Sera è il nome proposto
dalla minoranza per un posto da consigliere. La risposta di Ettore Rosato e Luca Lotti è
negativa: «Va bene tutto, ma il Pd non può farsi rappresentare da chi ci ha definiti ladri e
massoni», ribattono i renziani riferendosi a un editoriale del giornalista. Succede quindi
che due voti in commissione di Vigilanza vanno dispersi e ne approfitta Forza Italia che da
un consigliere passa a due (Diaconale e Mazzuca). «So- no stato più bravo di loro»,
gongola Gasparri mentre nel Pd volano coltellate che non lasciano presagire nulla di
buono per le leggi da votare in autunno.
Bersani raduna a pranzo alcuni dei suoi fedelissimi e girano commenti al vetriolo.. L’ex
segretario dice chiaro e tondo: «E non è lottizzazione questa? Renzi aveva detto: fuori i
partiti dalla Rai. Adesso ci mette addirittura le correnti». Qualcuno infatti maligna che Rita
Borioni «era la segretaria di Orfini». Guelfo Guelfi invece è il ghost writer del premier.
Speranza commenta: «Dire di no a De Bortoli dopo che lui aveva dato la sua disponibilità
è un errore grave. Sarebbe stato un vero candidato lontano dalla politica». Rosato
ricostruisce la vicenda in tutt’altro modo, come un agguato della minoranza. «Avevamo
chiesto una rosa di nomi. Ci hanno fatto aspettare fino all’ultimo secondo, poi hanno
presentato il nome secco di De Bortoli». Una provocazione bell’e buona, secondo il
capogruppo e secondo il presidente del Pd Orfini. Adesso bisognerà tenere conto di
questo clima rovente anche nel bilancino per eleggere il presidente. Cosa succede se
mancano i tre voti dei consiglieri Pd della sinistra? La maggioranza scende da 22 a 19 voti
e ha bisogno di 8 voti per raggiungere il quorum di due terzi necessario alla nomina del
numero uno di Viale Mazzini. Non cambia molto, c’è comunque bisogno di un accordo con
Forza Italia o 5stelle, ma il percorso diventa ancora più difficile. A Palazzo Chigi sono
furiosi per le parole del presidente della commissione Roberto Fico che ha definito Renzi
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«un buffone». Nessun patto sembra possibile per i grillini. Per questo si guarda a Forza
Italia e Berlusconi vuole giocare la partita da dominus. «Troverò un nome dal profilo
altissimo, sarà difficile dire di no», garantisce Renzi. Il match comincia stamattina alle
9,30. Il premier ha convocato a Palazzo Chigi i capigruppo Luigi Zanda e Ettore Rosato.
Oltre a chi si occupa della vicenda: Lorenzo Guerini, Antonello Giacomelli, il ministro
Boschi, Luca Lotti. Nel frattempo si sonderà Forza Italia sul nome, possibilmente di una
donna, ma in pista c’è anche l’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo. Il Tesoro,
conclusi i colloqui tra i partiti, indicherà il presidente e il suo membro del Cda (non si
esclude che in quota ministero possa essere recuperato Massimo Bray). Domani però è il
giorno decisivo in Vigilanza con il voto vincolante dei parlamentari. Senza un accordo con
Berlusconi ed escludendo un patto con Grillo, il Pd cercherà i voti dei “cespugli” in
commissione: centristi sparsi, verdiniani (2), Gal, ex Scelta civica. Non sarebbe un buon
viatico per il nuovo consiglio, ma nel Pd si pensa anche all’arma estrema per non rimanere
prigionieri del Cavaliere o del comico. Anche perché già così, con i due consiglieri
conquistati a sorpresa da Forza Italia, il governo avrebbe una maggioranza ballerina
anche nel Cda Rai.
Del 5/08/2015, pag. 1-3
Trionfa la Gasparri
Servizio Pubblico. Purtroppo, hanno vinto la conservazione, il viaggio
all’indietro nel tempo: il trionfo della lottizzazione perfetta. I partiti in Rai
sono di più, non di meno
Di Vincenzo Vita
Come nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo dei film trasmessi in televisione, ecco
l’interruzione pubblicitaria della nomina dei vertici della Rai. Secondo i rituali della sbeffeggiata ma sempiterna legge Gasparri.
Il primo capitolo della messa pagana si è compiuto con l’elezione dei sette componenti del
nuovo consiglio di amministrazione da parte della commissione parlamentare di vigilanza.
Seguono ora i due di emanazione governativa, tra i quali si colloca il nome del presidente,
che diverrà effettivo con il parere reso dalla stessa commissione di vigilanza. Ed è atteso il
Godot del rito, vale a dire il direttore generale, al quale saranno attribuiti a legge approvata
i poteri dell’amministratore delegato: il fiore all’occhiello della (contro)riforma renziana.
Il tutto dovrebbe consumarsi in un baleno. A quanto si sussurra e si grida, il predestinato
Ad è Antonio Campo Dall’Orto, MtvItalia-Telecom Italia-La7-Viacom-Leopolda. Chissà chi
lo sa. Il totonomine sulla presidenza indicherebbe una donna, secondo una vulgata assai
edulcorata della parità di genere: scoperta a giorni alterni, possibilmente dove il potere si
affievolisce. Quanto ai volti dei neo-amministratori, il bon ton impone una prudente attesa,
pur scorgendo professionalità collaudate e un brillante «guru» dei media, Carlo Freccero.
Non a caso votato da 5Stelle e da Sinistra, ecologia e libertà. Purtroppo, non ce l’ha fatta
Ferruccio De Bortoli, suggerito — in limite — dalla minoranza piddina ad un partito piuttosto ostile verso gli eretici, tra le cui fila è finito persino l’ex direttore del Corriere della sera,
a causa forse di qualche editoriale non allineato.
Quanto è accaduto, però, non va valutato come se fosse un Talent. Il giudizio negativo
prescinde dalla qualità dei singoli. Il meccanismo di nomina è desueto, ingiallito e tale da
rendere inesorabilmente «minore» il medesimo organismo consiliare. Il baricentro si è spostato nettamente verso la parte «fiduciaria» del governo: un capo azienda con molti gal30
loni, ma privo di una missione. Appunto. L’incredibile e ingiusto destino che tocca al servizio pubblico sta proprio in tale astrusa contraddizione: mano dura, conduzione di impresa,
gerarchia accorciata, ma non si sa per fare che. Freccero ha subito parlato della necessità
di valorizzare l’informazione e la fiction. Come? Con il piano del direttore generale uscente
Gubitosi o con un progetto coraggioso e creativo? Cinema e audiovisivo italiani ed europei
o semplice messa in onda di serie americane (pur intriganti e di eccellente fattura)?
E Il rapporto con Cinecittà, vero tesoro italiano gestito oggi in maniera discutibile? Il
discorso si potrebbe allargare a numerosi aspetti che attengono al senso e all’attualità di
un servizio pubblico-bene comune nell’era digitale. I nomi — dunque — andavano immaginati, al di là delle casacche politiche, sulla base di un progetto. Che non pare al momento
esistere. A meno che non sia tenuto nascosto. L’urgenza di una strategia non è un bisogno teoretico, bensì un obbligo dettato dall’imminente scadenza della convenzione con
lo stato. Purtroppo, hanno vinto la conservazione, il viaggio all’indietro nel tempo: il trionfo
della lottizzazione perfetta. I partiti in Rai sono di più, non di meno.
Un flop di governo e maggioranza, che in nobile sinergia hanno buttato al vento elaborazioni e proposte venute da parti significative della comunità mediatica.
Non per fretta, ma per scelta: il passaggio dal servizio pubblico ad un’azienda governativa
di relativa importanza.
Del 5/08/2015, pag. 4
Viale Mazzini e la politica
Tra assalti alle poltrone, intercettazioni, persino dossier dei servizi
segreti, il Servizio Pubblico è da sempre uno scalpo dei partiti vincenti.
Anche se Renzi aveva promesso questa volta il contrario
Da Silvio a Matteo quei “Raibaltoni” che
raccontano il potere italiano
FILIPPO CECCARELLI
L’ITALIA è una repubblica fondata sull’equivoco. Ma la Rai ancora di più.
Ecco dunque l’esordio dell’ennesima, preannunciata e conclamatissima palingenesi che
già da oggi vuole l’azienda finalmente “restituita al Paese”, come twittava nei mesi scorsi il
presidente Renzi, o addirittura, secondo un’altra social-lectio, “ai cittadini”.
E guai a chi sorride, seppure con rassegnazione. Il “Servizio pubblico”, d’altra parte, resta
vincolato ad ammiccanti maiuscole e beffarde virgolette. Ci sarà tempo per ricostruire con
la dovuta cura la rapida marcia d’avvicinamento dell’ultimo Conquistador verso la tv di
Stato, periodico bottino di guerra, preda di spogli e di razzie del potere.
Ma fin d’ora la tentazione sarebbe quella di prendere le mosse da quell’altro mutilatino
digitale trasmesso alla rete dal giovane premier nel maggio 2014: “Niente paura, futuro
arriverà anche alla Rai. Senza ordini dei partiti”. Là dove, mettendo per un attimo da parte
il ruolo dei corpi intermedi, l’ipotesi maliziosa è che Renzi, peraltro in quei giorni reduce da
un corpo a corpo con Floris a “Ballarò”, fosse in realtà inferocito con la Rai, i suoi burocrati
e i suoi regolamenti per il divieto di esibirsi in diretta alla “Partita del Cuore” - e magari di
fare anche gol. Ciò detto, viale Mazzini è per sua natura e vocazione piuttosto arrendevole
ai potenti di turno. A volte lo è a tal punto da prenderli addirittura prigionieri, come
dimostrano un paio di remoti dossier dei servizi segreti e alcuni più recenti cicli di
intercettazioni telefoniche che documentano come all’occorrenza il “servizio pubblico” - ah31
ah! - si trasformi in una sorta di alcova di Stato. In questo senso, nell’arco ormai di un
trentennio, timoratissimi democristiani, vitalisti craxiani e famelici post-fascisti potrebbero
recare illuminanti testimonianze sui propri sviluppi sentimentali, per così dire,
sovrapponibili a quelli dell’azienda radiotelevisiva.
Per quanto riguarda Berlusconi, beh, anche lui qualcosina pure su quel versante sarebbe
certamente in grado di aggiungerla. “La Rai - era la formula che condensava il programma
del Cavaliere - va ripresa in mano”. Dopo di che, al netto degli impicci politici, dei
magheggi economici, delle nomine scandalose e perfino della “Struttura Delta” (una cricca
di dirigenti che dall’interno facevano in buona sostanza gli interessi di Mediaset), ecco,
ben presto si comprese che fra i principi non negoziabili di quel salvifico programma
rientrava di piazzare un certo numero di avvenenti attrici amiche del premier nelle varie
fiction. Una signorina piuttosto insistente ebbe un posto anche in un “Padre Pio”. Mentre il
designato consigliere d’amministrazione di Forza Italia, già fondatore dell’”Associazione
del Buongoverno” - ed è detto tutto - fu pizzicato sempre per telefono a caldeggiare le
ragioni di una fiction prodotta dalla sua compagna e dedicata niente meno che a “La
meravigliosa storia di Suor Bakhita”, l’ex schiava africana menzionata in un’enciclica di
Benedetto XVI e appena salita agli onori degli altari.
Umberto Bossi, d’altra parte, era andato in fissa e aveva puntato tutte le sue fiches-Rai sul
“Barbarossa”, costosissimo polpettone di mitopoiesi archeo- padana. Come Mussolini ai
tempi di “Scipione l’Africano” e poi Andreotti durante la lavorazione di “Ben Hur”, il leader
leghista e ministro delle Riforme volle anche visitare il set, in Romania, trovandolo
affollatissimo di comparse rom. Per compiacerlo, previa segnalazione di alacri uffici
romani, la produzione ritenne opportuno di regalare a Bossi anche una particina, un
cameo, vestito da nobile lombardo. Il “Barbarossa” venne infine presentato e proiettato al
Castello Sforzesco in una serata di gala, con bracieri, figuranti in costume e pure un
guerriero a cavallo. Questa è insomma la Rai. Per capirsi. E seppure in certi giorni si è
portati a credere che l’unica sensata idea sarebbe quella non tanto di venderla, ma di
abolirla del tutto, la retorica del comando, con quel tanto o quel troppo di ipocrisia che
comporta, vuole che chi ci mette le mani sopra ne farà comunque un gioiello di
rinnovamento, anzi di rinascimento, di autonomia, di trasparenza, di cultura e così via.
Donde l’ennesimo e mirabilissimo “Raibaltone”, neologismo che tuttavia risulta segnalato
già vent’anni orsono nel dizionario “Novelli-Urbani”, nonché censito nel 1999 da Enzo
Golino e dal glottologo Fabio Rossi. L’uso ventennale di tale formula conferma come
l’azienda sia destinata o condannata, se si vuole, a restare animatissimo serraglio, hortus
conclusus, campo di battaglia e terreno di coltura dei nuovi equilibri, specchio, ma anche
stagno, palude e perfino “cloaca” - in tal modo la definì a fine esperienza il professore
berlusconiano di Suor Bakhita - del potere. Si apre così, non proprio sotto i migliori auspici,
l’era del giovane Renzi che fino a qualche mese fa voleva restituire la Rai al Paese e ai
cittadini. E non si sa se ci credeva davvero, e se ancora ci crede pure lui.
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CULTURA
Del 5/08/2015, pag. 13 RM
La fiction? Ora è sul web
Deve ancora partire, ma è già in pieno svolgimento. Paradosso di un festival che dal web
nasce e del web si nutre, basta vedere la mole di condivisioni, «mi piace», commenti,
tweet e visualizzazioni che conta sul suo sito il Roma web fest, dal 25 al 27 settembre al
Maxxi. Tre giorni di programmazione, ma un anno di libere creazioni, che trovano nelle
web series la loro realizzazione: fiction di almeno tre episodi da fruire sul web e
«webnative». Un altro modo di intendere la fiction: libero da condizionamenti, fantasioso,
vicino alla realtà. Basta vedere alcuni «prodotti» quest’anno in concorso, già godibili
attraverso video-spot che testimoniano la maturità raggiunta dai registi, la maggior parte
sui 30 anni. Giovani cineasti crescono insieme a un festival, ideato nel 2012 e diretto da
Janet De Nardis, che ha guadagnato l’appoggio del Mibact, della Regione, della Lazio Film
commission, e fra i suoi punti di forza conta la capacità di stringere legami internazionali.
L’idea giusta, un po’ di fortuna, e un talento sconosciuto può diventare un autore cult.
Gli italiani sono presenti in massa nel concorso, dove la comicità è uno spunto vincente.
Negli episodi de «La cresta dell’onda» di Adriano Roncari e Ruggero Melis due comici
cercano di tornare alla ribalta aiutati da un ragazzino-manager imbarazzante. «Le Ricette
di Jacques La Mer» di Giuliano Capozzi e Dario Tacconelli sbeffeggiano i programmi di
cucina. In «Vegetti, la serie che era meglio ai miei tempi» di Edoardo Bellanti e Alice Corsi,
Beppe e Gino sono due anziani genovesi che sferzano il mondo dalla panchina.
Le ragazze di oggi? «Povere ma belle» è il titolo della serie firmata da Antonella Lauria,
web sitcom al femminile il cui concept è l’ironia come arma vincente per affrontare la
quotidianità. Marco Giganti, Luigi Nappa e Paolo Scattarelli mettono al centro di «Spread
zero» un ragazzino di 18 anni che al ricevimento della scheda spread individuale viene
invitato dai genitori a lasciare casa «perché il nostro spread individuale è già alto così».
Anche il genere cronaca/reality piace ai filmmaker, italiani e stranieri. «We folk» di
Massimo Moca e Serena Del Prete racconta il viaggio in Abruzzo di un’attrice di
professione e di un musicista folk. Dal sacro al western, in compagnia di pastori, cavalli,
asini, sub, climber e frati. «Rugagiuffa, young man blues» di Silvio Franceschet,
Alessandra Quattrini e Alberto Valentini è una web serie fatta da giovani veneziani con
l’intento di raccontare Venezia oltre la cartolina. «Roma custom bike» di Cesare Ranucci
Rascel nasce come tutorial e diventa show: il desiderio di Custom Cez di documentare il
restauro della sua moto. Così in «Somos mujeres invisibles» della spagnola Graciela Saez
l’assistente sociale Thelma rivive le storie di violenza sulle donne.
Dal giallo al noir ecco «La Runa» di Fabio Mangroni, «Distinct» di Alberto Setti e Giacomo
Piantini (cinque amici dopo un black out), «Step by step» di Ivan La Ragione e Francesco
Crisci (che fare del cadavere di una portinaia uccisa di fresco?), «La linea dei topi» di
Davide Verazzani, Alessandro Fusto, Andrea Galatà e Chiara De Caroli ambientato nei
sobborghi della periferia romana. Non mancano lavori a sfondo gay e lesbo, e esperimenti
fuori dal solco come «The beat and path: walk of shame» con la regia di Brandon Russell,
dove un dj underground e una stagista di moda raccontano con il visual mixtape
l’autorealizzazione a colpi di alcolici, musica, e sesso. E tanto altro, un materiale ancora
non definitivo (le iscrizioni si chiudono il primo settembre) da sfogliare come un libro,
ammirare, criticare, votare. Anche quest’anno una sezione «Fashion film», corti, spot,
video di campagne griffate e piccoli capolavori firmati da registi indipendenti.
Laura Martellini
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