RIFLESSIONI Quale futuro? di Kristjan Knez «V È doveroso riconoscere tutto Come andare avanti? Nel terzo millennio è ormai anacronistico guardare ai processi storici secondo una visione manichea, che non tiene conto delle complesse vicende del confine orientale e delle peculiarità di una regione plurale in cui s’intersecavano interessi e posizioni diverse, anche all’interno delle stesse componenti nazionali. E invece, l’era fascista per taluni costituisce l’unico metro per misurare gli avvenimenti della storia recente delle nostre terre, per additare colpe, per evidenziare gli sbagli compiuti (a senso unico) dal nazionalismo italiano, che avrebbe oppresso gli Slavi già in epoca asburgica, aprendo così la strada alla successiva snazionalizzazione fascista. Nella stagione in cui in tutta l’Europa sbocciava il sentimento nazionale, che poi, inevitabilmente avrebbe portato al nazionalismo, ha senso parlare di un nazionalismo “buono” in quanto difensivo e di uno “malvagio” data la sua natura aggressiva? Nell’Impero austro-ungarico, anche grazie alla politica del “divide et impera” caldeggiata da Vienna, le contrapposizioni nazionali erano all’ordine del giorno. Attilio Tamaro, attento osservatore degli avvenimenti del suo tempo entro i confini della duplice monarchia, aveva colto perfettamente i problemi che la attanagliavano e nel primo dopoguerra, in uno dei suoi innumerevoli scritti, molto opportunamente rammentava che in realtà in quella compagine tutti erano sia oppressi sia oppressori. Segue a pagina 8 Maggio è stato il mese degli appuntamenti importanti con i grandi nodi del nostro passato ma, a giudicare dagli eventi annunciati, giugno... non sarà da meno. Attesa per il nuovo volume del Centro di Ricerche storiche di Rovigno: il tomo XLI degli “Atti” – la più feconda e prestigiosa collana dell’Ente – verrà presentato venerdì prossimo alla Comunità degli Italiani di Sissano (ore 18). In concomitanza (ahimè) con la promozione a Trieste (Libreria “Minerva”) della monografia “Capodistria – la città e il suo territorio”, di Salvator Žitko, tradotta in italiano dal Centro Italiano “Carlo Combi”. Prima, però, sbarcherà nel capoluogo giuliano, nell’ambito di “Trieste, una storia scritta sull’acqua – i lunedì marinari dei Civici Musei Scientifici”, appunto lunedì prossimo 4 giugno (ore 18, Civico Museo del mare) la significativa opera “Gli ultimi giorni della Serenissima in Istria - L’insurrezione popolare di Isola del 1797” (Edizioni “Il mandracchio” della Comunità degli Italiani “Pasquale Besenghi degli Ughi” di Isola d’Istria). Oggi, intanto, alla CI capodistriana “Santorio Santorio”, si esploreranno e sonderanno “in cucina” i legami tra tradizione e storie regionali articolate nei secoli tra dominazioni, occupazioni e commerci per terra e per mare. Una piacevole occasione per approfondire queste tematiche sarà il convegno internazionale “La cucina istriana tra tradizione ed innovazione”. Interessanti i due libri, “Il tempo dei confini” (atlante storico dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo –, con un grande numero di carte, semplici e immediate, per comprendere gli spostamenti delle frontiere dal 1748 al 2008, e “Un’epoca senza confini” (antologia sulla questione adriatica tra Ottocento eprimo Novecento), editi dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giuia, che verranno illustrati entrambi giovedì prossimo nel Settore italiano della Biblioteca centrale di Capodistria. E probabilmente ce ne saranno ancora tanti altri di incontri da segnalare, ma per il momento ci fermiamo qui e veniamo ai contenuti di questo “Storia & Ricerca”. Grandi nodi del nostro passato, si diceva in apertura: e in questo numero di parla innanzitutto di eventi che determinarono le sorti della regione alla metà del secolo scorso, di una lacerazione profonda e insanabile. Pubblichiamo la seconda parte del saggio di Ezio Giuricin sui retroscena dei rapporti tra le varie Resistenze in Istria – “giochi” che trasformeranno la presenza italiana maggioritaria in una minoranza spesso asservita al potere jugoslavo e comunista –, ma ci soffermiamo pure a riflettere – con Kristjan Knez – sul significativo percorso della memoria e della riconciliazione compiuto a metà maggio da esuli e rimasti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, spiegando anche perché, come momento-simbolo di questo nuovo dialogo, sia stata scelta la foiba di Terli. E lo facciamo con la collaborazione di Paolo Radivo, che ai fatti di maggio 2012 dedica ampio spazio sul nuovissimo numero dell’ “Arena di Pola”, il giornale degli esuli polesi. Tanja Škopac ci guida alla riscoperta di un “tassello” istriano, anzi albonese, nella tragedia del “Titanic”, rispettivamente del transatlantico “Carpathia” che ne soccorse i naufraghi cent’anni fa; in chiusura due “letture” consigliateci da Fabio Sfiligoi e Carla Rotta. LA VOCE ce vo /la .hr dit w.e ww ae victis – Guai ai vinti”, credo non vi sia locuzione migliore per indicare lo stato in cui si trovarono gli Italiani dell’Adriatico orientale al termine della seconda guerra mondiale. Precipitati in una sorta di limbo, erano destinati a subire le nefaste conseguenze della politica scellerata del fascismo, che per due decenni aveva seminato vento nella Venezia Giulia, e dalla primavera del 1941 anche nello scacchiere balcanico, commettendo non poche nefandezze. Ma a differenza dei connazionali residenti in altre parti dello Stivale, che, dopo la stagione plumbea della guerra civile, dei bombardamenti alleati o delle dure rappresaglie naziste, poterono avviarsi a una vita nuova, contraddistinta dalla ricostruzione e da una volontà di rinascita in senso lato, al confine orientale ci fu un corso diverso degli eventi. La cosa fu evidente già all’indomani dell’8 settembre. Dopo l’armistizio, le Nuove Province cessarono d’appartenere al Regno. Se Trieste, a seguito delle articolate vicende diplomatiche, durate quasi un decennio, ritornò all’Italia, a oriente di Muggia la cesura fu completa e un ambiente umano, sociale, linguistico e culturale sarebbe scomparso per sempre. Quella metamorfosi che produsse un dramma, che si consumò con modalità e in tempi diversi a seconda della località interessata, ha diritto di entrare nel ricordo della Nazione italiana? E la sua popolazione può interrogarsi su quanto accadde in quella parte del Paese? Oppure si dovrebbe stendere, nuovamente, il velo del silenzio e fare finta che nulla accadde, ossia considerare quegli accadimenti come la giusta conseguenza della precedente politica fascista, che aveva portato un intero popolo sull’orlo del baratro? Sono domande che a distanza di tanti decenni fanno ancora discutere animatamente e, nonostante il tramonto delle ideologie, questi argomenti suscitano ancora polemiche e sollevano vespai. Almeno tra le nostre contrade. Non è inusuale individuare dei circoli che argomentano quei problemi usando schemi fossilizzati, che ormai dovrebbero essere tutt’al più oggetto di indagine storiografica in quando superati, ma significativi per cogliere i nessi di determinate scelte e prese di posizione nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi. IN QUESTO NUMERO DEL POPOLO storia e ricerca An no VII • n. 012 62 • Sabato, 2 giugno 2 2 storia e ricerca Sabato, 2 giugno 2012 I momenti cruciali della Resistenza in Istria e a Fiume (2 e continua) CONTRIBUTI Le sorti di queste terre Terli, erano già state decise altrove La vicenda è stat di Paolo Radivo di Rosanna Turcinovich Giuricin “Gli Italiani dell’Adriatico orientale”: questo il titolo del convegno organizzato a Perugia, dove la Società di Studi fiumani ha raggiunto con l’ISUC (Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea) un accordo per stimolare soprattutto le scuole al dibattito sulle vicende di Istria, Fiume e Dalmazia. Al dibattito sulla Resistenza, Ezio Giuricin ha spiegato il coinvolgimento degli italiani nella Lotta popolare, il rapporto con gli jugoslavi, il passaggio da popolo di maggioranza a minoranza nazionale attraverso i complessi e controversi risvolti che il fenomeno della resistenza ha assunto in Istria ed a Fiume. In un numero precedente abbiamo riportato una prima parte del suo intervento; proponiamo di seguito la continuazione. Giuricin aveva ripercorso la fondazione dell’Unione degli Italiani, tra il luglio del 1944 e il marzo del 1945, risultato più esplicito del complesso processo politico, ideologico e militare che ha portato al completo assoggettamento degli antifascisti e dei comunisti italiani di quest’area al movimento popolare di liberazione e al partito comunista jugoslavi (croati e sloveni). Processo tutt’altro che semplice e lineare, anzi, contrassegnato da tensioni e contrasti che hanno posto in risalto l’esistenza di profonde divisioni all’interno del fronte resistenziale. Nell’area istriana e giuliana si sono di fatto sovrapposte (e a tratti confrontate) due diverse “resistenze”: quella italiana e quella jugoslava. Si è trattato di due concetti diversi di lotta di liberazione: nazionale e so- ciale, in un quadro di radicalismo rivoluzionario, per i croati e gli sloveni; sociale, diretta prevalentemente a scacciare l’occupatore ed a lavare l’onta dell’oppressione nazi-fascista, per gli italiani. La resistenza jugoslava era monopolizzata dal Partito comunista jugoslavo (croato e sloveno), attraverso le strutture del Movimento Popolare di Liberazione (MPL), in un contesto caratterizzato da un disegno rivoluzionario di radicale sovvertimento degli assetti e degli equilibri nazionali, sociali ed economici del territorio. Quella italiana, almeno inizialmente, seguiva invece lo schema – ampiamente collaudato in tutta l’Italia settentrionale – della collaborazione fra tutte le forze antifasciste nell’ambito dei Comitati di Liberazione Nazionale. Diverse erano anche le concezioni dei comunisti: per quelli croati e sloveni il disegno rivoluzionario coincideva ampiamente con quello di liberazione e di espansione nazionale, anzi risultava essergli subordinato; i comunisti italiani invece erano legati ad una visione profondamente internazionalista in cui l’obiettivo della costruzione di una società più “giusta” prevaleva su ogni considerazione di carattere nazionale. Il movimento comunista jugoslavo era riuscito a “saldare” le forze antifasciste e gran parte delle masse popolari croate e slovene attorno al suo progetto nazionale e di annessione. Durante l’occupazione tedesca l’antagonismo nazionale segnò pesantemente le scelte e i comportamenti delle genti giuliane. L a situazione divenne difficile specie per gli antifascisti italiani, in quanto le loro strutture organizzative, nei principali centri urbani, subirono un collasso quasi totale. Infatti, mentre nell’Italia occupata presero piede quasi dappertutto i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), che accomunavano tutti i partiti antifascisti, in Istria l’azione delle varie forze antifasciste di matrice liberale e democratico-borghese si rivelò quasi sempre limitata e molto debole. Inoltre, gran parte di queste componenti, disorientate dalle rivendicazioni nazionali del movimento di liberazione croato e sloveno, furono spinte ad assumere una posizione defilata in attesa dello sviluppo degli eventi. Al loro isolamento contribuì anche la linea di condotta intransigente del Movimento popolare di liberazione, avversa all’affermazione in questi territori di qualsivoglia componente antifascista indipendente e autonoma, compresa quella comunista italiana, che non accettasse la supremazia e lerivendicazioni nazionalijugoslave (croate e slovene). A Trieste venne costituito, con il contributo di tutti i partiti democratici antifascisti, prima il Fronte Democratico Nazionale (composto da Gabriele Foschiatti del partito d’Azione, dal comunista Zeffirino Pisoni, dal socialista Edmondo Puecher, dal liberale Gandusio e dal popolare Giovanni Tamasco) e quindi il Comitato di Liberazione Nazionale (guidato, nella sua seconda e terza composizione, dopo l’arresto e la morte a Dachau di Foschiatti, da don Edoardo Marzari e da Ercole Miani). Il CLN giuliano di allora venne però subito a trovarsi in una posizione del tutto differente da quelli operanti nel resto del Paese. Il comitato triestino si trovò ad agire in un isolamento sconfortante: impegnato da un lato nella lotta antinazista, che richiedeva spirito di sacrificio, mobilitazione di uomini e mezzi e una forte organizzazione militare, dall’altro a contrastare le pressioni degli sloveni che puntavano ad ottenereil totale controllo sulle forze resistenziali. Il CLN giuliano venne distrutto per ben tre volte (la prima con l’eliminazione dell’azionista Gabriele Foschiatti – che morì a Dachau – e l’arresto di Ercole Miani, e le altre con l’arresto di don Edoardo Marzari), e la sua dirigenza spazzata via, a seguito delle dure azioni di repressione condotte dai nazisti e dai fascisti. Dopo la decapitazione del PCI triestino e gli arresti (le cui circostanze avrebbero alimentato a lungo sospetti e polemiche) dei suoi massimi dirigenti (Luigi Frausin – torturato e ucciso alla Risiera di S. Sabba –, Vincenzo Gigante, anch’egli torturato e ucciso, Natale Colarich – fucilato – e di Ermanno Solieri) le sue strutture, completamente assoggettate alla linea del Partito comunista sloveno, finirono con il sostenere apertamente le tesi annessioniste jugoslave rompendo la collaborazione con il CLN di Trieste. L’arresto e l’uccisione di Luigi Frausin nell’agosto del 1944 dette adito al sospetto – non confermato – che il dirigente fosse stato catturato a seguito di una delazione pilotata dall’organizzazione slovena (a causa delle posizioni contrarie da lui assunte sulla questione dei confini durante il secondo incontro – avvenuto a Milano nel luglio del 1944 – tra il CLN Alta Italia e l’”Osvobodilna Fronta” della Slovenia,così come delle sue proteste contro la decisione di trasferire all’interno della Slovenia il battaglione italiano “Alma Vivoda”). Sogni autonomistici A Fiume sorse pure un CLN, seppure in un contesto molto più confuso e senza l’apporto dei comunisti ormai inseriti nell’ambito dell’MPL; situazione che relegò l’organismo ad un’inerzia e ad un isolamento quasi totali. Forte era al contrario la presenza a Fiume del Movimento autonomista zanelliano che, risorto dopo la caduta del fascismo, godeva di un largo seguito tra le masse popolari. Alla componente autonomista i tedeschi avevano persino chiesto di assumere l’amministrazione della città, memori del ruolo da questa sostenuto nel passato austro-ungarico. Gli autonomisti però rifiutarono tale collaborazione, decisi ad evitare il pericolo di “compromettersi legando la causa fiumana al carro della Germania”. Lo stesso fecero con i reiterati inviti a collaborare avanzati dall’MPL, anche se in molti casi gli autonomisti simpatizzarono con i partigiani, porgendo loro aiuto e sostegno. Altri CLN minori vennero costituiti in alcune cittadine dell’Istria nord-occidentale, in particolare a Pirano, Isola e Capodistria, sull’esempio di quello triestino. Pola, invece, per quanto si fosse distinta creando, sin dall’agosto 1943, uno dei primi organismi unitari denominato “Fronte unico antifascista italiano” (che ebbe un ruolo significativo, in città, nelle tragiche giornate seguite all’armistizio), non riuscì a costituire, nonostante tutti i tentativi, un proprio CLN durante la ripresa della resistenza. Troppe debolezze e critiche inascoltate Di questa estrema debolezza delle forze antifasciste italiane approfittarono gli esponenti del Movimento popolare di liberazione controllato dal Partito comunista jugoslavo (croato e sloveno) che, specie in Istria e a Fiume, riuscirono ad imporre gradualmente la loro egemonia strumentalizzando e soggiogando gli antifascisti di matrice italiana e in particolare i militanti del Partito comunista italiano. Nel mese di dicembre 1943 vennero registrati altre due importanti avvenimenti: il convegno istriano del PCC dell’Istria, svoltosi a Brgudac il 10 dicembre, e la prima Conferenza istriana del PCC, che ebbe luogo a Račice (Pinguente) il 25 dicembre. A Brgudac venne trattato ampiamente il problema dei rapporti con il PCI, alla presenza di diversi rappresentanti dello stesso, tra cui Vincenzo Gigante Ugo, Ermanno Solieri, Giorgio Sestan e Pino Budicin. Durante il dibattito Pino Budicin criticò il carattere troppo nazionale assunto dal Movimento popolare di liberazione, rilevando grande disappunto per il modo in cui erano stati liquidati i fascisti durante l’insurrezione armata. L’oratore si soffermò in particolare sul dramma delle foibe che, come disse, “in seguito alla propaganda fascista ha generato sconcerto e disorientamento tra la popolazione italiana”. A Budicin rispose Vincenzo Gigante: “Noi siamo comunisti – disse l’anziano membro del Comitato centrale – e non possiamo parlare in questo momento di divisioni territoriali, ma soltanto di lotta armata per la sconfitta definitiva del nazifascismo”. Una delle più importanti conclusioni della riunione fu che la resistenza in Istria e a Fiume doveva essere condotta da un solo partito, quello comunista croato, e dalle strutture del Movimento popolare di liberazione jugoslave. L a foiba di Terli (in croato Trlji) è stata la terza delle quattro tappe del percorso della memoria e della riconciliazione fra italiani dell’Adriatico orientale che il Libero Comune di Pola in Esilio, l’Unione Italiana e FederEsuli hanno attuato sabato 12 maggio in omaggio alle vittime degli opposti totalitarismi del ’900 in Istria. La voragine si trova nel comune di Barbana presso l’omonimo villaggio, un centinaio di metri a est della strada che da Vorichi (Orihi) a nord conduce a Saini (Šajini) a sud, in una suggestiva area di landa e boscaglia carsica ancora integra. Davanti a circa 150 convenuti, l’on. Furio Radin, deputato della Comunità nazionale italiana al Sabor e presidente dell’Unione Italiana, Argeo Benco, sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio, e Silvio Mazzaroli, direttore de “L’Arena di Pola” e consigliere dell’LCPE, hanno posizionato a lato della voragine una corona d’alloro con la scritta “Gli italiani di Istria-Fiume-Dalmazia”. Quindi il parroco di Barbana, di nazionalità polacca, ha pronunciato una preghiera in italiano. Mazzaroli ha poi recitato l’Invocazione per le vittime delle foibe, scritta dall’esule rovignese mons. Antonio Santin quand’era vescovo di Trieste e Capodistria. Infine lo stesso Mazzaroli e Sara Harzarich Pesle, nipote del maresciallo dei Vigili del Fuoco di Pola Arnaldo Harzarich, hanno lanciato nell’inghiottitoio una seconda corona. Con tale composta cerimonia quasi tutte le associazioni degli esuli e l’organizzazione degli italiani “rimasti” hanno voluto manifestare umana pietà verso le vittime italiane innocenti del totalitarismo comunista jugoslavo, suggellando così la ritrovata unità e concordia dopo decenni di vicende e memorie separate. Una certezza in un mare di oblio Ma perché gli organizzatori hanno scelto proprio Terli quale simbolo degli eccidi compiuti dai partigiani titoisti fra il 1943 e il 1945 nell’Istria oggi appartenente alla Croazia? Perché è una delle non molte foibe istriane riguardo alle quali disponiamo di certezze sul numero, l’identità, l’età e altre caratteristiche delle vittime, nonché sulla data e le modalità del loro assassinio. E inoltre perché, alla luce di questi dati inoppugnabili, Terli smentisce clamorosamente le residue teorie giustificazioniste, minimaliste e assolutorie delle stragi del 1943 propagate per decenni e oggi ancora diffuse. Ecco i fatti. A metà ottobre del 1943, subito dopo la conquista tedesca dell’intera Istria, la ricostituita Procura di Stato provinciale affidò al Distaccamento di Pola del 41° Corpo dei Vigili del fuoco la ricognizione delle foibe e cave dove i partigiani filo-jugoslavi avessero compiuto eccidi fra l’8 settembre e la prima decade di ottobre, dopo la liquefazione delle strutture istituzionali e militari storia e ricerca 3 Sabato, 2 giugno 2012 La foiba testimonia gli eccidi compiuti dai partigiani titoisti fra il 1943 e il 1945 la strage nascosta assurta a simbolo ta ricordata a metà maggio nell’ambito del percorso comune compiuto da esuli e rimasti È stata scelta questa foiba perché è un raro caso in cui si conoscono il numero, l’identità, l’età e altre caratteristiche delle vittime, nonché la data e le modalità del loro assassinio. Dati inoppugnabili, che smentiscono clamorosamente le residue teorie giustificazioniste, minimaliste e assolutorie delle stragi del 1943 propagate per decenni e oggi ancora diffuse del Regno d’Italia. Il comandante del Distaccamento, ing. Gaetano Vagnati, incaricò delle indagini speleologiche e del recupero delle eventuali salme una squadra coordinata dal maresciallo Arnaldo Harzarich. I pompieri polesi agirono subito alacremente malgrado le minacce lanciate, gli ostacoli frapposti e gli agguati compiuti dai partigiani alla macchia i quali volevano impedire che emergessero le prove dei loro crimini. Il 2 novembre 1943 la squadra di Harzarich si calò nell’orrido di Terli, stimandone la profondità in 95 metri e accertando la presenza di cadaveri. Il 4 novembre continuò l’ispezione fino a una profondità di 125 metri e, con un’apposita impalcatura, si recuperarono i poveri resti di 26 persone. Il 12 luglio 1945 il maresciallo Harzarich consegnò all’Ufficio “J” del Governo Militare Alleato di Pola (Zona A della Venezia Giulia sotto occupazione angloamericana) una relazione sull’intero lavoro svolto fra l’ottobre 1943 e il febbraio 1945. Carnizza, era il nonno del dirigente Fiat Sergio Marchionne. Davvero struggente la vicenda della famiglia Lazzari, di Medolino. A Terli vennero infoibati sia il padre che il figlio: Aldo, 18 anni, studente, e Luca, 40 anni, fuochista. Al momento di riconoscere i cadaveri del marito e del figlio, la signora Lazzari impazzì per il dolore: potremmo considerarla la quinta donna vittima di quel terribile eccidio. Antifascisti «scomodi» Questa foto, scattata il 4 novembre 1943 al momento del recupero delle salme, mostra i corpi delle quattro donne infoibate a Terli il 5 ottobre 1943: Albina Radecchi, di anni 21, Caterina Radecchi, di anni 19, Fosca Radecchi, di anni 17 e Amalia Ardossi, di anni 45 circa che mentre queste stavano ormai precipitando. Grazie a una ricerca incrociata presso parenti e compaesani, nonché al lavoro di alcuni storici, furono poi identificati i cadaveri di 25 delle 26 vittime, perlopiù residenti nella bassa Polesana: 8 a Medolino, 6 a Carnizza, 5 a Marzana, 3 a Lavarigo, 1 ad Altura, 1 a Gallesano e 1 a Visignano. Erano tutti civili innocenti: nessun funzionario statale, ex gerarca fascista o affamatore del popolo. C’erano anche 3 minorenni, considerato che la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. Il calvario era cominciato nella seconda metà del settembre 1943, quando furono arrestati nelle loro abitazioni dai partigiani con la stella rossa. Molti erano stati dapprima rilasciati, ma nuovamente prelevati la notte del 2 ottobre. Essendo difatti partita l’operazione “Wolkenbruch”, costoro sapevano troppo, avrebbero potuto fare le spie e dunque andavano tacitati per sempre, nel caso i nazisti avessero sba- ti alla vista impedendone il ritrovamento. Così li fecero precipitare dentro, alcuni ancora vivi o solo feriti. Tanto di là non sarebbero potuti uscire… Sui corpi i segni di brutali violenze Il triste elenco comprendeva quattro donne. Tra queste le sorelle Radecchi (o Radecca), di Lavarigo: la 21enne Albina (nata il 23 marzo 1922), in avanzato stato di gravidanza, la 19enne Caterina e la 17enne Fosca. La loro imperdonabile colpa? Non essersi concesse spontaneamente e “per tempo” ai rispettivi carnefici. Lavoravano tutte in una fabbrica di Pola e ogni sera, rientrando a casa, si intrattenevano con dei militari italiani al distaccamento della Regia Aeronautica di Fortuna, presso Altura. In una notte successiva all’8 settembre i titoisti le rapirono da casa portandole a Barbana in un edificio dove le costrinsero a fare le sguattere, le maltrattarono Furono identificati 25 dei complessivi 26 cadaveri recuperati dai pompieri polesi. Si trattava di persone perlopiù residenti nella bassa Polesana: 8 a Medolino, 6 a Carnizza, 5 a Marzana, 3 a Lavarigo, 1 ad Altura, 1 a Gallesano e 1 a Visignano. Erano tutti civili innocenti: nessun funzionario statale, ex gerarca fascista o affamatore del popolo. C’erano anche 3 minorenni, considerato che la maggiore età si raggiungeva a 21 anni Ricerche incrociate Uno dei capitoli era dedicato alla foiba di Terli. I partigiani titoisti di Barbana vi avevano gettato, nella notte del 5 ottobre 1943, subito prima dell’arrivo dei tedeschi, un numero imprecisato di persone. I Vigili del fuoco polesi ne riesumarono 26, più la carogna di un cane nero. Su gran parte dei corpi riscontrarono segni di colpi d’arma da fuoco alla testa o al viso. All’imboccatura dell’inghiottitoio notarono poi molte tracce di proiettili, segno che gli assassini avevano sparato contro le vittime an- ragliato i loro carcerieri. I 5 residenti a Marzana subirono una gogna pubblica: furono radunati nella piazza del loro paese e “dovettero bere, alla presenza dei parenti e dei paesani impotenti, mezzo litro di nafta”, con quali effetti sulla salute e lo stato d’animo è facile immaginare… In attesa degli eventi, gli aguzzini rinchiusero gli arrestati dell’entroterra polese in un edificio di Barbana, dove inflissero loro violenze e sevizie. Nella notte del 5 ottobre, quando ormai i tedeschi erano alle porte, se ne sbarazzarono pensando che la foiba di Terli, sperduta in mezzo alla campagna, li avrebbe occulta- e le violentarono. Ai primi di ottobre le trasferirono in un rustico di campagna, dove per tre giorni di fila continuarono a stuprarle e seviziarle fino a che, la notte del 5 ottobre, le infoibarono. I Vigili del fuoco trovarono Albina con una ferita d’arma da fuoco forse rivelatasi letale subito prima della caduta nell’abisso, mentre Caterina e Fosca con fratture craniche, probabile segno che furono precipitate ancora vive. Sugli abusi subiti non vi sono dubbi; scrisse infatti il maresciallo Harzarich: “si può notare la Albina addirittura senza mutande e le due sorelle con le mutan- dine stracciate ai fianchi, il che dà la certezza che anche agli ultimi istanti le ragazze hanno dovuto impotentemente lottare contro la brutale violenza partigiana”. Pietro Gonan, un commerciante 52enne nato il 28 luglio 1891 a Marzana, venne infoibato per vendetta da tre slavi locali che una decina d’anni prima erano stati condannati a una pena carceraria per aver violentato e ucciso sua figlia. La stessa fine toccò al fratello minore Severino, nato il 15 febbraio 1900 a Marzana, semplice carbonaio. C’è però da aggiungere che Pietro era un antifascista di sentimenti italiani, così come forse Severino. Antifascisti “colpevoli” di non volere la Jugoslavia di Tito erano anche i fratelli Antonio e Guido (o Giulio) Del Bianco, scalpellini di Carnizza, staccatisi dal movimento di liberazione jugoslavo dopo avervi inizialmente militato. E lo stesso Nicolò Carmignani, vecchio comunista di Gallesano. Gaetano La Perna e Luigi Papo lo dan- Alla base del fatto vi erano a stragrande maggioranza cause squallidamente personali: magari nemmeno vendetta o ritorsione, ma solo banale invidia, gelosia e/o lussuria Ancor più inequivocabili sono le foto dei cadaveri scattate il 4 novembre 1943. Una quarta donna finì i suoi giorni a Terli: Amalia Ardossi, di Medolino. Dopo aver invano tentato di impedire l’arresto del marito Francesco Lorenzin, ne volle seguire la tragica sorte dimostrandogli il suo amore in questo modo commovente. I corpi dei coniugi erano legati assieme col fil di ferro all’altezza del gomito. Di professione Lorenzin faceva il fuochista. Agricoltore e sagrestano della chiesa di Medolino era invece il fratello di Amalia, Giacomo Ardossi. Pietro Basilisco aveva 46 anni, essendo nato a Carnizza nel 1897, e faceva l’ingegnere. Giuseppe Bedrina (o Bedrino), nato a Carnizza nel 1893, aveva 50 anni. Il 23enne Ferruccio Bartoli (o Bertoli), nato a Padova nel 1920, faceva il commerciante a Carnizza. Martino Chiali, nato a Marzana il 2 febbraio 1887, aveva 55 anni. Di Gregorio Clari sappiamo solo che abitava a Medolino ed era manovale. Giovanni De Prato aveva 56 anni, essendo nato a Marzana nel 1887, e faceva l’oste. Giovanni Garbin era un manovale 43enne, nato a Visignano nel 1900. Giovanni Pravich, nato nel 1920 ad Altura, aveva appena 23 anni e faceva l’agricoltore. Il macellaio 52enne Giuseppe Radolli (Radollovich) era nato a Marzana il 27 dicembre 1890. Di Matteo Tonello (o Tomillo), nato a Medolino, conosciamo la professione: guardia giurata della società mineraria “Arsa”. Il 42enne Pietro Vogliacco, nato a Medolino nel 1901, faceva l’autista. Il 46enne Giacomo Zuccon, nato a Medolino nel 1897, commerciante a no per ucciso nella foiba di Orizi il 30 ottobre 1945, ma l’improbabile data dell’avvenimento e la verosimile identità tra Orizi (Vorichi) e Terli fanno propendere per il suo infoibamento a Terli, come sostenuto dall’esperto prof. Guido Rumici. Alla base della strage di Terli vi erano dunque per la stragrande maggioranza cause squallidamente personali: magari nemmeno vendetta o ritorsione, ma solo banale invidia, gelosia e/o lussuria. Ignorata, eppure si sapeva tutto... Visto poi che di fascisti in giro dopo il 25 luglio 1943 non ve n’erano più, occorreva eliminare i più pericolosi concorrenti politici: gli antifascisti, democratici o anche comunisti, che rifiutavano l’annessione alla nuova Jugoslavia filo-sovietica e volevano rimanere nell’ambito di una nuova Italia libera. L’identikit delle vittime di Terli confuta perciò in modo lampante la versione ufficiale del regime jugoslavo secondo cui le foibe del 1943 furono una spontanea rivolta popolare dei contadini slavi (buoni) contro i loro sfruttatori fascisti, capitalisti, latifondisti o comunque italiani (cattivi). Il mito della “jacquerie” istriana dunque non regge alla prova dei fatti. Dopo la guerra la foiba di Terli non venne più ispezionata, né furono mai aperti procedimenti giudiziari per individuare i colpevoli del truce massacro. Eppure si conosceva sia il nome, sia il cognome, sia il nomignolo del capo dei partigiani jugoslavi barbanesi… 4 storia e Sabato, 2 giugno 2012 CURIOSITÀ Grazie a una recente ricerca, in cui si combinano fonti orali, documenti e bib «Carpathia», nave di marinai... i Furono complessivamente 32 i navigatori provenienti dal territorio dell’odierna Albon di Chersano e Santa Domenica che si trovarono a bordo della nave in quel fatidico apr di Tanja Škopac E Mate Kiršić e il nipote Redi Kiršić Ivan Vozila rano complessivamente 32 i navigatori provenienti dal territorio dell’odierna Albona e dai comuni di Chersano e Santa Domenica che si trovarono a bordo della nave “Carpathia” nell’aprile 1912, cioè nella notte tra il 14 e il 15 aprile di quell’anno, in cui affondò il “Titanic”. Questo e altri dati sull’equipaggio emergono da una ricerca condotta a scoprire l’esatto numero degli albonesi che si trovavano a bordo dell’imbarcazione che per prima arrivò sul luogo del disastro e soccorse i naufraghi del celebre transatlantico della White Star Line. Un primo studio sui navigatori istriani sull’RMS “Carpathia”, della compagnia navale “Cunard Line”, è stato condotto da Lucian Mrzlić, studente della seconda classe liceale della Scuola media superiore “Mate Blažina” di Albona, e dalla sua docente di storia Dijana Muškardin. La ricerca, intitolata “‘Carpathia” – brod istarskih mornara” (“’Carpathia’ – nave dei marinai istriani”), è stata premiata alle gare regionali di storia che si sono svolte il 7 marzo, rispettivamente presentata a quelle nazionali a inizio maggio, a Ragusa. Infine, il lavoro è stato illustrato ad Albona, nel Teatrino in cittavecchia, alla presenza delle famiglie di alcuni navigatori dell’Albonese e dello zagabrese Slobodan Novković, conosciuto quale unico studioso delle navi “Titanic” e “Carpathia” in Croazia. Rimasti fuori perché... italiani Prima di quest’indagine era risaputo che tra i 300 membri del personale di bordo del “Carpathia” c’erano pure 70 navigatori provenienti dal territorio dell’Istria e del Quarnero. A individuarli tutti era stato proprio il Novković, e ciò in base all’elenco fornito dalla compagnia “Cunard Line”, proprietaria del transatlantico, il più attendibile in materia, come confermato ora pure dal Mrzlić e dalla Muškardin. Tuttavia, essendo i nomi riportati nella loro grafia/versione italiana o di fatto italiani, tipici cognomi dell’Albonese, trattandoIl documento del Vosilla Certificato d’imbarco di Francesco Verbanaz si di alcuni connazionali provenienti dalla penisola istriana, il Novković, che ignorava tale fatto, ne aveva tralasciati alcuni. La ricerca svolta da Mrzlić-Muškardin aggiunge così alla lista dei navigatori dell’Istria e del Quarnero una decina di albonesi. ni che avevamo ricevuto da alcuni membri della nostra famiglia e dei nostri concittadini. Da tali dati abbiamo capito che molti marittimi di questa parte dell’Istria erano rimasti sconosciuti alle liste ufficiali e alle fonti bibliografiche e letterarie relative alle vicende del ‘Carpathia’. Noi abbiamo cercato di individuarli in base ai loro cognomi”, ha spiegato Mrzlić, la cui famiglia, come pure quella della sua insegnante Muškardin e quelle di molte altre nell’Albonese, ebbe in quegli anni tra i suoi membri (almeno) un “uomo di mare”. Come risulta dall’analisi svolta da Mrzlić – Muškardin, gli albonesi lavorarono a bordo come camerieri, fuochisti, ma anche come traduttori, quest’ultima una delle prestazioni meglio pagate. Al Novković, ad esempio, erano “sfuggiti” Antonio Vozila, Mate Santaleza, Domeniko Vozila, Mate Kiršić e Ivan Klapčić. A loro si aggiungono Ivan Kerševanić, riportato nella lista del Novković, ma senza la specifica del luogo di residenza, come pure tre navigatori che facevano parte del personale di bordo sbarcati prima della tragedia, cioè Mateo Zupičić, Josip Vozila e Antonio M. Dundara, nonché Francesco Verbanaz, il cui imbarco si Spunta anche ebbe nel 1914 e che è stato aggiunto nella lista per l’importanza del un’altra medaglia suo libretto di navigazione austroOltre ad ampliare la lista dei naungarico e della lettera in italiano in cui descrisse le difficili condi- vigatori istriani appunto parlando con i discendenti delle famiglie dei zioni di vita dell’equipaggio. marinai, la ricerca ha portato alla I ricordi raccolti scoperta della presenza nel territorio dell’Albonese di un’altra medadai discendenti glia di bronzo di quelle che ciascun “Ciò che ci ha spinti a fare que- navigatore del “Carpathia” ricevetsta ricerca sono state le informazio- te per aver aiutato i naufraghi del ricerca Sabato, 2 giugno 2012 5 bliografia, sono stati «identificati» nuovi nomi nell’elenco dell’equipaggio del transatlantico istriani na e dai comuni rile del 1912 Antonio Vosilla “Titanic”, assieme al doppio stipendio. In effetti, a quella conferita dai sopravvissuti a Jakov Kranjac, della cui esistenza già si sapeva in precedenza, si è aggiunta quella assegnata a Mate Kiršić. La prima è finita nelle mani di Fabio Juričić, pronipote del Kranjac, mentre a possedere la seconda è un suo discendente, Redi Kiršić. Alcune testimonianze Ma nel patrimonio lasciato dai navigatori albonesi del “Carpathia”, figura pure il libretto d’imbarco sulla nave “Carpathia”, affondata da un sottomarino nel 1918, appartenuto ad Antonio Vosilla. Nella notte del naufragio del “Titanic” Antonio Vosilla, che lavorava come magazziniere, dovette aiutare a calare le scialuppe di salvataggio in mare e il cameriere e traduttore Jakov Kranjac ebbe l’ordine di contribuire all’accoglienza dei naufraghi. Per Mate Santaleza uno dei momenti più traumatici della sua vita fu l’arrivo del “Carpathia” a New York, a Ellis Island, dove le famiglie e i parenti dei passeggeri del “Titanic” aspettavano la nave con la speranza di vedere tra i circa 700 sopravvissuti i loro cari. Si continuerà a indagare “La gente gridava i nomi dei passeggeri e piangeva”, questo il ricordo lasciato dallo Santaleza. Mesi dopo lo sbarco, lo stesso Santaleza ricevette da una certa signora Astor di New York una lettera con alcune monete d’oro: era un gesto di ringraziamento da parte di una delle sopravvissute del “Titanic”. Secondo la Muškardin, la ricerca sui navigatori albonesi del “Carpathia” non finisce qui. È lecito, dunque, attendersi nuovi dati e informazioni sugli eroi che parteciparono all’operazione di salvataggio dei naufraghi del “Titanic”. Come dichiarò in un’occasione al rotocalco “Vikend” uno dei marittimi albonesi, Mate Peršić, quando il capitano del “Carpathia”, Arthur Henry Rostrom, ordinò di cambiare rotta nessuno dell’equipaggio poteva capacitarsi del fatto che accorrevano in aiuto ai passeggeri del “Titanic”, che era colata a picco la nave “inaffondabile”. O almeno così tutti avevano creduto fino a quel fatale impatto con un iceberg. Le foto e i materiali sono stati forniti delle famiglie dell’Albonese e pubblicate nella ricerca Mrzlić – Muškardin Jakov Kranjac e moglie La medaglia del Kranjac 6 storia e ricerca Sabato, 2 giugno 2012 Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati «Soldaten»: combattere, uccidere, morire C erto a leggere il titolo il primo pensiero che un po’ banalmente viene in mente è una raccolta di strisce di “Sturmtruppen”, il più apprezzato e famoso fumetto creato da Franco Bonvicini, meglio conosciuto come Bonvi. Ma “Soldaten” titolo del libro stampato dalla Garzanti è lontano anni luce dalla satira del fumetto e molto più vicino ad essere un documento di rilevanza storica capace di aprire una nuova quanto inedita finestra sui fatti della Seconda guerra mondiale. Rettungswiderstand: è la parola tedesca con cui si identificano forme di resistenza palese agli ordini di sterminio impartiti ai “Soldaten” durante il conflitto. “Soldaten” è appunto il libro che raccoglie le registrazioni, oggi si direbbero le intercettazioni, dei colloqui di circa diecimila prigionieri tedeschi selezionati da inglesi e americani in due luoghi di detenzione speciali perché potessero appunto parlare tra loro in apparente libertà e fornire quindi informazioni. Cento su 17 milioni Dai colloqui registrati per anni da inglesi e americani, dai rapporti interni tedeschi e dai documenti della efficientissima burocrazia tedesca risulta che i casi di “Rettungswiderstand” furono cento. Cento su diciassette milioni di arruolati nei sei anni del conflitto. Cento su diciassette milioni fecero almeno un tentativo di non ubbidire fino in fondo ad Hitler quando l’ordine era di sterminare civili o “sotto umani”. Cento su diciassette milioni, neanche una percentuale, un nulla. Cento “soldaten” su diciassette milioni che esitarono e mostrarono di esitare nel doversi trasformare da soldati in assassini. È una cifra della storica vergogna tedesca ed è soprattutto una cifra della epocale vergogna umana, di tutta l’umanità. Fermatevi un attimo, ritornate inietro nel tempo anche con la fantasia se si vuole, e immaginate le voci in tedesco, pioverci addosso da un’ altra era e un altro luogo, appunto come un viaggio a ritroso nel tempo. Dai campi di prigionia inglesi e americani durante la Seconda guerra mondiale: Trent Park e Wilton Park nel Regno Unito e di Fort Hunt negli Usa. La lingua è aspra, come le storie che racconta: sono soldati dell’esercito del Fürher finiti tra le maglie del nemico. Tra di loro è in corso una gara a chi la spara più grossa, a chi ne ha viste e fatte di più. Un modo come un altro per vincere la noia della detenzione e dimostrare che la banalità del male ha molte facce: persone comuni trasformate in aguzzini e boia dall’insensatezza della guerra. I verbali sono il frutto del lavoro della rete dei Secret Interrogation Center, allestiti da Londra già all’inizio della guerra, e degli Joint Interrogation Centre, resi operanti dagli americani a partire dall’estate del 1941. Sul milione di prigionieri caduti in mano alleata sono circa 10.000 i militari tedeschi e 563 gli italiani (su questi in “Soldaten” emerge piuttosto poco) trasferiti, dopo opportuna selezione, in questi luoghi di detenzione speciale. L’obiettivo non è raccogliere prove per punire azioni criminali, ma fornire all’intelligence alleata materiale prezioso sull’avversario che si sta ancora fronteggiando. di crimini innegabili e l’uccisione era per loro normale routine, anche quando riguardava donne, bambini e civili innocenti, presi com’erano a risultare “perfetti nazisti spietati“. Inglesi e americani operarono intercettazioni sistematiche nei campi di prigionia, registrando su vinile i passi più interessanti e redassero copie a stampa riempiendo oltre 150 mila pagine di verbali. Così nelle trascrizioni degli interrogatori, si leggono dichiarazioni talvolta raccapriccianti, come quando i soldati tedeschi parlano di “divertimento” e “puro divertimento” nel massacrare civili innocenti e truppe nemiche. Uccidiamone venti per stare calmi Pohl: “(…) Era il nostro giochetto prima di colazione, andare con i mitra a caccia di soldati solitari per i campi, e poi, con due pallottole, stenderli e lasciarli a terra alla rinfusa.” Meyer: “Ma sempre contro i soldati?” Pohl: “Anche contro le persone. Abbiamo attaccato la gente in fila per strada. Eravamo un aereo dietro l’altro”. (…) Schmid: “Ho sentito del caso di quei due furfanti quindicenni. Erano in uniforme e sparavano all’impazzata. (…) Alla fine, li hanno scovati entrambi (…) Gli hanno fatto scavare la fossa, due buchi, poi hanno fucilato il primo. Che però non è caduto nella fossa, ma lì davanti. Allora hanno detto all’altro che doveva spingerlo dentro, prima di essere fucilato anche lui. E l’ha fatto, con aria spavalda! Un delinquente di quindici anni! Questo sì Un caporale chiamato S. raccontava di quando la sua unità si trasferì in un villaggio in Italia dopo la caduta del governo Mussolini, il primo compito era sempre quello di uccidere un paio di civili, poi l’asticella si alzò:”In Italia, in ogni posto dove arrivavamo, il tenente diceva sempre: “Per prima cosa facciamone fuori qualcuno! Fatene fuori venti, così avremo un po’ di calma, che non si facciano strane idee!”. Si legge poi nel libro, in una conversazione del 19 dicembre 1944. Dal fronte orientale, alle incursioni sulla Gran Bretagna, alle invasioni in Italia, Francia e Nord Africa, le testimonianze coprono larga parte del teatro di guerra. Un aviatore della Luftwaffe, identificato come B pilot, riferisce del “divertimento enorme” nello sparare sulle colonne di civili in fuga lungo le strade di Francia e Belgio Harald Welzer che è fanatismo, o idealismo!”. Ecco questi sono solo alcuni esempi di quanto si può trovare nel libro. “Soldaten” – Combattere, uccidere, morire” (il titolo completo) da più parti è stato definito un libro sconvolgente: per realizzarlo gli autori Sönke Neitzel (storico) e Harald Welzer (psicologo) hanno spulciato per anni negli archivi di Stato di Londra e Washington, a caccia delle intercettazioni delle conversazioni tra migliaia di prigionieri tedeschi, avvenute dal ’40 al ’45. Il libro ci racconta che i ligi soldati dell’esercito tedesco, così come gli ufficiali della Luftwaffe “non erano migliori delle SS”. Si sono macchiati “Soldaten” è una sorta di vivisezione operata su una significativa campionatura del grande corpo delle armate di Berlino nel sangue, amico mio che divertimento“. Che dispiacere per i cavalli... Un altro si vantava: “Nella nostra squadra ero conosciuto come il “sadico professionale”. Ho buttato giù tutto: gli autobus, un treno di civile a Folkestone. Ho ucciso ogni ciclista”. Un altro aviatore, denominato P pilot, ha raccontato come fosse stato “davvero triste” avere mitragliato i cavalli dell’esercito polacco durante l’attacco a Poznan nei primi giorni della guerra: “La gente non mi preoccupava, ma mi dispiace- Sonke Neitzel nel 1940 “è stato un grande successo, bello, enorme, fantastico divertimento!“. Le case tremavano In un’altra intervista, lo stesso pilota parlando della celebre Battaglia d’Inghilterra, diceva che era “favoloso” vedere le finestre delle case tremare e aggiungeva: “Sul mercato abbiamo visto persone che si sono riunite, la gente parlava. Abbiamo tirato fuori le pistole. È stato divertente”. E sempre durante la Battaglia d’Inghilterra, un altro pilota: “…abbiamo visto una festa in una villa, abbiamo sparato, ragazze in abito sexy e uomini in abito elegante schizzavano via rà per quei poveri cavalli fino alla fine dei miei giorni...”. L’elenco di atrocità è lungo, si parla – tra l’altro – di stupri atroci e di navi affondate cariche di bambini, l’inimmaginabile. Ha detto un critico che prima di “Soldaten”, i tedeschi potevano trarre conforto dal fatto che i crimini dei loro soldati fossero limitati a pochi. Non è più vero tutti, o molti, a quanto pare, furono contaminati dal nazismo e infausi di sete di sangue. E cade anche quanto sostenuto fino ad oggi dagli storici, ovvero che era quasi impossibile per un soldato della Wehrmacht avere informazioni circa l’uccisione degli ebrei. Le conversazioni intercettate confermano invece che praticamente tutti sapevano, o almeno avevano il sospetto e non sono mancati soldati che di tanto in tanto hanno partecipato volontariamente alle fucilazioni di ebrei. Come si può notare da questo breve “assaggio” Soldaten” può essere interpretato come un catalogo degli orrori. Crudeltà che vanno ben al di là della ferocia insita in ogni guerra. Lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer cercano di ricostruire il mondo interiore dei soldati di Hitler, e com si intuisce non è lettura per palati fini. O per sensibilità delicate. Ma è un documento di inestimabile valore per gli storici: una sorta di vivisezione operata su una significativa campionatura del grande corpo delle armate di Berlino. I kamaraden, ignari – o, forse, in alcuni casi, incuranti – di essere intercettati dalle “cimici” installate nelle baracche di questi campi speciali, si raccontano l’un l’altro quella che per loro, alla fine, è stata solo la pratica quotidiana del mestiere di soldati di Hitler. Le nefandezze e i delitti vengono descritti come se fossero la cosa più scontata e normale. “Soldaten” spiega come questi siano i frutti maturati in Germania in poco più di sei anni – dall’avvento di Hitler nel 1933 allo scoppio della guerra –, della convinta adesione della maggioranza della società tedesca al mito della “razza eletta”. Ancora una volta la Storia dimostra che non conta l’irrealtà di una situazione quanto il fatto che “chi vi è immerso la possa percepire come reale”. Come sottolinea il sociologo americano William I. Thomas, anche i fatti immaginari – ad esempio il “complotto ebraico” da estirpare per salvare la Germania – finiscono con l’avere conseguenze reali: l’infinito sgranarsi di brutalità e crimini rievocato, senza rimorsi né dubbi, nelle intercettazioni di Soldaten, ne è la prova. Secondo lo storico Wolfram Setter furono poco più di un centinaio i casi di “Rettungswiderstand”, ovvero di resistenza agli ordini finalizzata a salvare vittime. Cento su oltre 17 milioni di soldati della Wehrmacht nel corso di sei anni di guerra. Tutti gli altri si adeguarono. Da volonterosi carnefici, da zelanti complici o da obbedienti boia. (fas) storia e ricerca 7 Sabato, 2 giugno 2012 LETTI PER VOI «L’Inquisizione», di Michael Baigent e Richard Leigh Pagine di persecuzioni, ideologie, potere, morte di Carla Rotta “Un’indagine storica sobria e documentata. Un resoconto incisivo e, spesso, sconvolgente che ricorda a tutti come, in certi periodi, la chiesa e la camera delle torture fossero terribilmente vicine...”. Cosi il “The Sunday Telegraph” su “L’Inquisizione”, di Michael Baigent e Richard Leigh. Abbiamo letto per voi il volume pubblicato dalla Marco Tropea Editore. Oltre 300 pagine di avvincente e coinvolgente (e a volte scabroso) viaggio nell’Inquisizione, nelle sue diverse vite e diversi meccanismi in geografie diverse, ma con un denominatore unico fatto di torture, violenza, paura, sangue, cinismo, corruzione, fanatismo... Di primo acchito, e a S iamo nell’estate del 1206. Il vescovo e il vicepriore della cattedrale di Osma, Domenico Guzman, sta attraversando il meridione francese. L’eresia catara sta già impensierendo la Chiesa: anzi, decisamente si è andati oltre il fastidio. Il 27 novembre 1095 papa Urbano II aveva bandito la I crociata. La Chiesa aveva affilato le armi contro gli infedeli islamici e incitato alla riconquista del Santo Sepolcro. Nel 1208, mentre in Terra Santa le spade e le lance si incrociavano ancora con inaudito fervore, Innocenzo III bandiva la quinta crociata, solo che non si guardava più all’Outremer, perché il “nemico” da affrontare e vincere era in casa, nel sud della Francia: bisognava avere ragione dell’eresia catara (o albigese, dal primo centro dell’attività, Albi). I catari erano oppositori della Chiesa romana; essenzialmente erano dualisti, consideravano la creazione materiale malvagia e quella spirituale “superiore”. Era una buona risposta alla corrotta Chiesa del tempo. All’epoca il papa in persona diceva dei suoi preti che erano “peggiori delle bestie che sguazzano nel loro stesso letame”, i vescovi “pescatori di denaro e non di anime”. Ma le defezioni che si manifestavano all’interno del cattolicesimo impensierirono il papa, che cercò di fermare il fenomeno. Bezeries, roccaforte catara, venne messa a ferro e fuoco, saccheggiata, e quando al legato pontificio Arnald Amaury venne chiesto di distinguere gli eretici dai cristiani, in modo da punire solo i primi, questi rispose dicendo “Uccideteli tutti: Dio riconoscerà i suoi“. Il Mezzogiorno francese venne incendiato. Letteralmente. Gli eretici finivano sul rogo, chi tentava di difenderli veniva impiccato. non conoscere la storia, si potrebbe affermare che tanto sia difficilmente sposabile al cattolicesimo romano, eppure, nell’ambito di questo stesso cattolicesimo romano l’Inquisizione è stata uno degli aspetti di notevole importanza, ma che comunque non va identificata con la Chiesa nella sua globalità. L’Inquisizione “fu il prodotto di un mondo brutale, insensibile e ignorante”, e quindi non potè essere altro che brutale, insensibile e ignorante a sua volta. Comunque, è fuori di dubbio che con tutti i suoi orrori ed errori, l’Inquisizione è stata importante nell’ambito del cattolicesimo. Vediamone premesse, genesi e percorsi. le questioni di fede”, nella caccia agli eretici. Lentamente divennero indispensabili alla Chiesa. Domenico morì nel 1222. Nel 1223 divenne papa Gregorio IX, un amico di Domenico: nell’aprile dello stesso anno il pontefice con una Bolla affidò ai frati il compito di sradicare l’eresia. Una seconda Bolla indirizzata direttamente ai Domenicani specificava che avevano il potere “di privare i clerici dei loro benefici per sempre, e di procedere contro di loro e contro tutti gli altri, senza appello, chiedendo l’aiuto del braccio secolare ove necessario”. Il papa istituì un tribunale permanente composto da frati Domenicani e cosi, nel 1234 nasceva a Tolosa la Santa Inquisizione. Ora, mandare gli eretici al rogo aveva la benedizione della massima autorità della cristianità. Piromania istituzionalizzata e all’odor di incenso. L’Inquisizione si lasciò dietro una scia di dolore e fiamme, organizzò punizioni che mandarono a morte, in un giorno solo parecchie centinaia di persone. Una somma che tenga di conto di tutta la geografia dell’Inquisizione darebbe numeri da genocidio. Fuoco purificatore nobili, che andavano trattati con rispetto. Gli interrogatori servivano per ottenere la confessione: gli strumenti di tortura si affinarono (si fa per dire), sempre attenti a non far spargere sangue. La condanna a morte era l’ultimissima risorsa; macabro il rituale del fuoco, non meno macabro quello della distruzione dei resti carbonizzati. Mentre da una parte si moriva, dall’altra si faceva di conto. Anche del materiale speso. Per dire, in riferimento al rogo del 24 aprile 1323 a Carcassone, venne compilato questo elenco spese: - Per il legname grosso: 55 soldi e 6 denari - Per i tralci di vite: 21 soldi e 3 denari - Per la paglia: 2 soldi e 6 denari - Per i quattro pali: 10 soldi e 9 denari - Per le funi con cui legare i condannati: 4 soldi e 7 denari - Per i quattro boia, 20 soldi ciascuno: 80 soldi. L’Inquisizione fece il suo anche nel meridione d’Europa: Bulgaria, Grecia, Bosnia (qui si rifugiarono molti catari). Per mano dell’Inquisizione scomparirono anche i Templari: troppo forti, troppo potenti, troppo ricchi, troppo tutto. Davano fastidio. Ma nel gioco delle associazioni, a dire Inquisizione si pensa subito alla Spagna. In effetti, lì l’Inquisizione si fece strada molto più tardi. Si instaurò nel 1238 in Aragona, ma era disordinata e nel Quattrocento totalmente inattiva. Nel 1474 salì al trono Isabella di Castiglia, cinque anni più tardi suo marito, Ferdinando, divenne re di Aragona. Isabella e Ferdinando volevano una Spagna unita, purificata dall’islam, dall’ebraismo e da qualsiasi eresia. E furono i monarchi a volere l’Inquisizione. Nei meccanismi poco si differì da quella in atto in altri Paesi. Non si andò per il sottile. Il fuoco divenne lo strumento principe dell’Inquisizione. Che, sembra, nel rispetto di un’antica norma risalente al IX secolo, non doveva far versare sangue. Forse agli inquisitori il dettaglio sarà dispiaciuto, ma riuscirono a trovare strumenti orribili, che attraverso il dolore fisico salvavano e redimevano l’anima: la ruota, lo schiacciapollici, il supplizio della corda, l’immersione in acqua. L’Inquisizione metteva paura anche al solo sentirla nominare. La delazione era poi diventata una sorta di sport nazionale e spesso lo strumento dell’Inquisizione veniva La nascita usato per pareggiare conti e beghe dei Domenicani assolutamente privati che nulla avevano da spartire con la Chiesa Il «caso spagnolo» e del Tribunale Il 1.mo novembre 1478 papa e l’eresia. Che clima! PraticamenNella loro visita, sentite le la- te ognuno aveva in una tasca il bi- Sisto IV diede il placet all’istitumentele dei legati papali di Mon- glietto di eretico e nell’altra quello zione di un’Inquisizione particolatpellier sui catari, il vescovo e Do- della spia. re per la Spagna. Tra i vari sacerdomenico concepirono un piano per Concesso quasi tutto ti e domenicani nominati inquisitoaverne ragione: il vescovo morì ri si distinse, diventando l’incarnaGli inquisitori ascoltavano fiu- zione dell’Inquisizione spagnola, e cosi fu Domenico a metterlo in pratica. Al proselitismo itineran- mi di parole, segreti... e lentamen- il priore del monastero di Segovia, te degli albigesi Domenico rispo- te si costruivano un archivio che Tomas de Torquemada. La sua folse con il proselitismo itinerante del non avrebbe avuto di che vergo- lia sanguinaria è nota. Ad ondate, gnarsi di fronte agli archivi delle le esecuzioni fecero diminuire nocattolicesimo. La Chiesa, insomma, uscì dalle più temute polizie segrete di re- tevolmente il numero dei vivi e auchiese per andare incontro alla gen- cente memoria. Si passava quindi mentare vorticosamente quello dei te: con i frati di Domenico, istruiti, all’arresto e agli interrogatori. Nel morti. ottimi oratori, modesti, semplici, corso dei quali, come detto, non si Alcuni numeri per dire quanto frugali. L’ordine crebbe e il papa andava per il sottile, fatta eccezio- fossero radicate la paura e l’insicuiniziò a chiedere il suo aiuto “nel- ne per medici, soldati, cavalieri e rezza: alla fine del Quattrocento a Maiorca (dopo la lettura dell’editto inquisitorio) si autodenunciarono 337 persone, nel 1406 a Toledo ben 2400. Tra il 1480 e il 1490 vennero mandate al rogo nella sola Castiglia 1.500 persone, tutto sulla base di false denunce. E quindi arsero 1.500 innocenti. Ma l’Inquisizione teneva molto alla quantità. Dall’arresto alla sentenza passavano spesso moltissimi anni, nel frattempo i sospetti venivano privarti dei loro beni e, mentre questi aspettavano in carcere il loro destino, le famiglie, magari una volta ricchissime, morivano di fame. Espellere gli ebrei e i musulmani In Spagna l’Inquisizione si rivolse anche contro gli ebrei. Moltissime famiglie abiurarono la loro religione abbracciando il cristianesimo: venivano etichettati come “conversos”. Ma l’Inquisizione aveva messo gli occhi sulle immense ricchezze della comunità ebraica, e spesso si diffondeva la voce che in realtà i conversos continuassero a praticare la loro fede e questo apriva la porta agli orrori dell’Inquisizione. Molti conversos prosperarono, ad onor del vero, ma la bilancia tra i perseguitati e i fortunati non ha certo i piatti in equilibrio. Sembra che ad un certo punto Corona e Inquisizione (nella persona di Torquemada) vennero ad un accordo per espellere gli ebrei dalla Spagna. La battaglia si combatteva, come detto, contro ebrei e islamici: una ad una caddero le enclave musulmane. Feroce, implacabile, l’Inquisizione infiammò (è il caso di dirlo) la Spagna per oltre duecento anni. Assopita, ebbe un risveglio nel 1814, ma ormai operava senza schedari, senza dati. L’ultima persecuzione di un ebreo in Spagna si ebbe a Cordova nel 1818. Caccia alle streghe L’Inquisizione spagnola arrivò al Nuovo Mondo: laddove con- quistadores, esploratori, soldati o coloni spagnoli mettevano il piede, portavano con sé i missionari cattolici e questi l’Inquisizione. Gli indigeni certo non potevano venir tacciati di eresia, in quanto la dottrina cristiana non era la loro, ciononostante l’Inquisizione riuscì a crearsi il pane. Mentre l’Inquisizione spagnola metteva in croce la penisola Iberica e il Nuovo Mondo, l’antica Inquisizione pontificia aveva trovato un nuovo bersaglio: la stregoneria. La lotta alla stregoneria aveva un suo codice, il “Malleus Maleficarum”, scritto da Heinrich Kramer e Johan Sprenger, un ignobile e vergognoso fai-da-te per gli inquisitori, i giudici e autorità varie. Senza girarci troppo intorno è la prova provata di psicopatologia sessuale e comportamenti deviati. Gronda di rapporti carnali tra streghe e diavolo, offre tecniche di diagnosi, formule per esorcismi. A leggerlo, non c’è donna che si salvi, essendo “animale imperfetto che inganna per natura.” Lo spazio non ci consente di entrare nei dettagli dei processi, degli interrogatori e delle esecuzioni. La caccia alle streghe raggiunse livelli di follia. La stregoneria e la lotta a questa inficiò l’Europa tutta, giunse nel Nuovo Mondo e fece vittime forse più di quelle contate nella già deleteria e infausta crociata albigese. E ci fermiamo qua. Il libro tratta ancora della lotta contro l’eresia protestante, dei mistici, di massoneria, dei rotoli del Mar Morto, della Congregazione per la dottrina della fede (un eufemismo per dire Inquisizione, senza fiammiferi però), delle apparizioni della Madonna. Interessante, senza dubbio, lo scritto di Baigent e Leigh, al punto che per trattarlo tutto avremo bisogno di molto più spazio. Consigliamo di leggerlo. Il viaggio spazio temporale, culturologico, sociale ed altro che le 300 e passa pagine offrono ne vale realmente la pena. 8 storia e ricerca Sabato, 2 giugno 2012 RIFLESSIONI Una storia complessa, un percorso tortuoso della memoria e della riconciliazione Italiani dell’Adriatico orientale: quale futuro? R dalla prima pagina iteniamo non abbia alcun senso soppesare il dolore, caso mai è doveroso riconoscere tutto, senza censure, escludendo le minimizzazioni o le mezze verità, perché non giovano a nessuno. Bisogna avere l’onestà intellettuale e riconoscere i torti, non è però assolutamente condivisibile il ragionamento del chiodo schiaccia chiodo, per cui ciò che accadde dopo dev’essere visto solo e soltanto come la giusta reazione, mentre il male è riconducibile esclusivamente a ciò che era accaduto precedentemente. Le indubbie colpe del fascismo Se l’Italia di Mussolini non avesse occupato il Regno di Jugoslavia, i confini, forse, sarebbero rimasti immutati. E invece, nella primavera del 1941, i venti di guerra si spostarono sulla “creatura voluta a Versailles”, il regio esercito occupò e annesse quei territori che l’Italia liberale non ricevette con i trattati di pace del primo dopoguerra e che furono uno dei simboli della “vittoria mutilata”; il confine si dilatò anche all’interno e porzioni territoriali, come la cosiddetta Provincia di Lubiana, divennero parte integrante dell’Impero. Negli anni del conflitto il comportamento italiano non fu certo irreprensibile, ampie zone furono messe a ferro e fuoco e non pochi furono gli atti di barbarie nei confronti della popolazione civile. Sono episodi documentati che non si possono confutare. Devono essere conosciuti, celarli non avrebbe alcun senso, altrimenti sarebbe inutile auspicare che le brutture successive siano riconosciute in Slovenia e Croazia. Bisogna altresì evitare anche il perverso ragionamento secondo il quale proprio quegli atti perpetrati dal regime avrebbero portato alle foibe e all’esodo. Ma siamo sicuri che quegli episodi sono riconducibili esclusivamente al “prima”. Sono solo il macabro epilogo, la brutta eredità della dittatura fascista? Se ci addentriamo nelle cose ci rendiamo conto che la questione è molto complessa, e allora l’impalcatura crolla al primo scossone. Se nel resto della penisola la capitolazione e la firma dell’armistizio rappresentavano la fine delle ostilità sui vari fronti, e qualcuno, ingenuamente, intravide la pace, nelle terre di recente acquisizione lo scenario fu alquanto diverso. Per la componente slava, che il regime aveva conculcato mettendo in atto un genocidio culturale che avrebbe dovuto cancellare la presenza slovena e croata, quella data fu vista come lo schiudere di una nuova epoca. Lo Stato italiano con la sua azione illiberale aveva certamente esacerbato gli animi e giunse il momento della resa dei conti. Arrivò il momento in cui si iniziò a raccogliere tempesta. Il progetto politico messo in atto non era estemporaneo bensì preparato nella fase finale del conflitto (già accolto con le dichiarazioni del 1943 a Pisino, a Kočevje, a Jajce), perciò le armate con il loro potenziale bellico furono impegnate in due distinte corse: a occidente in direzione di Trieste e a settentrione verso Klagenfurt, che raggiunsero a costo di grosse perdite. Le chiare mire annessionistiche jugoslave L’ordine era chiaro, d’altra parte fu lo stesso Edvard Kardelj, nel settembre 1944, a sostenere che “diventerà nostro territorio tutto ciò che si troverà nelle mani del nostro esercito”, pertanto non vi era grande premura a liberare Zagabria o Lubiana, né puntare immediatamente contro i forti nuclei della Wehrmacht ancora presenti sul territorio oppure colpire le forze collaborazioniste, cioè gli acerrimi nemici con i quali i comunisti avevano lottato per quattro anni in una guerra civile cruentissima. Erano incombenze che potevano attendere, era solo questione di tempo. Non era ammissibile, invece, che gli Alleati mettessero piede per primi in due luoghi simbolici. Ma non erano emblemi del 1945, erano due città “perse” dopo la Grande Guerra, ma mai dimenticate. Che si dovessero pareggiare i conti era pressoché inevitabile e alla violenza si rispose con altrettanta durezza. Fu una costante registrata praticamente ovunque. Ma dalle nostre parti il disegno era un altro: non furono colpiti solo quanti avevano avuto un ruolo decisivo all’interno del regime del littorio oppure si erano macchiati con crimini di vario genere. Finirono nel vortice tutti coloro che venivano classificati come “nemici del popolo”, come pure coloro che non volevano il comunismo o osteggiavano la politica annessionistica jugoslava. Era la cosiddetta “epurazione preventiva”. Ogni discordanza o critica rappresentava un pretesto per percuotere l’“eversione fascista”. L’antifascismo divenne un alibi per colpire tutto ciò che si discostava dalla linea del regime jugoslavo. Gli Italiani dei lidi orientali dell’Adriatico erano dipinti per lo più come i carnefici, non mancavano poi i riferimenti a una presunta connivenza con il regime mussoliniano. L’opposizione a quest’ultimo e il contribuito dato dagli Italiani alla Resistenza erano dettagli insignificanti. “Noi pagavamo lì tutte le colpe del fascismo e della guerra perduta, ed insieme della leggerezza e della superficialità italiane”, scrive Guido Miglia, esule da Pola, nell’introduzione al suo volume “Dentro l’Istria. Diario 1945-1947”, edito nel 1973. Una minoranza discriminata Il terrore e la politica discriminatoria nei confronti degli Italiani non fu una costante solo al termine delle ostilità e nel frangente antecedente la firma del Trattato di pace, continuarono per oltre un decennio e, sebbene con dinamiche diverse, sarebbero continuati ancora per decenni contro ciò che rimaneva della popolazione italiana, ridotta a sparuta minoranza, controllata dal regime in ogni sua espressione e “ammonita”, ma anche pesantemente colpita, ogniqualvolta osava sollevare il capo. Il Ventesimo secolo con le sue devianze dovrebbe essere inteso come uno scrigno di tragedie perché andò a colpire tutti, in primis la popolazione comune. Le divisioni nette non sono d’aiuto, a meno che non si vogliano far passare delle “verità” imposte, quel- le cioè che per essere credibili dovevano, per forza di cose, poggiare sulla menzogna. I regimi totalitari con il loro utilizzo del terrore di massa come prassi quotidiana, sotto la regia dell’ideologia, colpirono a prescindere dall’appartenenza nazionale. Perciò tra le vittime del fascismo annoveriamo anche tanti Italiani, ed è assolutamente falso ritenere fossero solo gli Sloveni e i Croati (nel caso di questi due popoli inclusi entro i confini di Rapallo alla discriminazione generale si aggiunse quella nazionale, particolarmente dura), così come quest’ultimi furono pure perseguitati dal comunismo. L’offesa maggiore: l’assenza di rispetto Nelle aree eterogenee come le nostre, le ideologie, impregnate di nazionalismo, ebbero conseguenze devastanti. L’eliminazione del “diverso”, secondo programmi particolari, studiati a tavolino, fu una pratica comune a tutti e mostra pa- lesemente l’incapacità di gestire aree così peculiari. Quell’assenza di rispetto è forse l’offesa maggiore che ancora oggi brucia nelle vittime e nei discendenti di queste. Quei torti andrebbero riconosciuti senza distinzioni. Meritano rispetto sia coloro che furono insultati negli anni Venti e Trenta perché parlavano in “slavo” o non poterono ricevere un’istruzione nella propria madre lingua, sia verso chi fu dichiarato d’ufficio “sloveno” o “croato” e perciò finì in una classe la cui lingua gli era sconosciuta, o chi dovette abbandonare il luogo natio troncando in tal modo i legami secolari con la propria terra. Guido Miglia ricorda che, appena diciottenne, fu mandato come insegnante in uno sperduto villaggio croato fra Gimino e la valle dell’Arsa – Milojski Brig (Montemilotti) –, il suo racconto riassume meglio di tanti ragionamenti l’insensatezza umana. “Poveri bambini, io parlo nell’unica lingua che conosco, e comprendo che i più piccoli non mi capiscono; du- rante la ricreazione li sento parlare piano tra loro, nel dialetto croato, e credo allora che il mio dovere sia quello di rimproverarli e di farli parlare italiano. Solo a mie spese, da adulto, fatto pensoso dalle sciagure vissute dalla mia terra, capirò l’aberrazione di voler impedire all’altro gruppo etnico di manifestarsi liberamente nella lingua materna. Ma quando lo capirò, nulla potrà essere modificato nel destino della penisola, e la vendetta travolgerà la mia gente, che conosceva soltanto la lingua veneta”. Ricordare le ingiustizie compiute e subite da tutti e comprendere il dolore degli altri sono i primi passi da compiere per fare un salto di qualità. La memoria non può essere condivisa, può essere però appresa e riconosciuta. È questo l’obiettivo tanto auspicato. Ma la strada è ancora tortuosa, sebbene si scorgano dei momenti che fanno ben sperare, e, non meno importante, contribuiscono alla riflessione. Per superare i luoghi comuni. Kristjan Knez «Lezione» di Dean Krmac all’Archivio di Stato di Pisino La popolazione dell’Istria L’Archivio di Stato di Pisino già da qualche anno organizza, in diversi appuntamenti mensili, delle lezioni didattiche di illustri esperti di scienze sociali, che si occupano di storia dell’Istria sulla base di fonti conservate presso archivi collocati in differenti aree e un approccio multidisciplinare. Di recente la sala conferenze dell’istituto pisinese ha accolto il dott. Dean Krmac, editore di diverse riviste storico-demografiche, storico e ricercatore dell’Università di Trieste, che ha tenuto un intervento sul tema: “L’evoluzione demografica del popolo istriano ai tempi della Monarchia asburgica dal 1815 al 1918”. Fonti archivistiche e di stampa, censimenti, registri anagrafici e parrocchiali sono stati utilizzati dal Krmac, che ha preso in esame il periodo che va dal XIX agli inizi del XX secolo. Scopriamo, ad esempio, che nella penisola istriana nel 1815 vivevano 360.173 persone e 103 anni dopo, nel 1918, la popolazione era lievitata di ben 157mila unità. Nel 1815 però non fu possibile censire tutte le case dei villaggi, dei comuni e delle città e le autorità austriache si servirono pertanto dei dati rilevati dai francesi nel 1811. Nel 1840 nacque a Vienna l’Istituto di statistica, che cominciò a raccogliere tutte le informazioni relative ai vari movimenti e spostamenti demografici. In Istria la zona più popolata della seconda metà dell’Ottocento era quella nordoccidentale, da Parenzo a Trieste. Pola nel 1830 contava all’incirca 700 abitanti; qualche anno più tardi, nel 1870, con il conferimento da parte della monarchia dello stato di “porto di guerra”, la popolazione aumenterà fortemente toccando le 60.000 persone. La città di Pisino nel 1918 aveva 14.450 abitanti, un numero superiore a quello di oggi. Trieste, alla fine del XIX secolo era una delle città più popolate, soprattutto a causa del forte aumento dell’immigrazione: il 33% degli immigrati erano donne dai 16 ai 30 anni. (blj) Anno VII / n. 62 2 giugno 2012 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Borna Giljević Collaboratori: Kristjan Knez, Branko Ljuština, Paolo Radivo, Carla Rotta, Fabio Sfiligoi e Rosanna Turcinovich Giuricin / Foto: Archivio