STUDIA MORALIA / SUPPLEMENTO 2 La recezione del Concilio Vaticano II nella teologia morale Atti del convegno Accademia Alfonsiana, Roma, 25-26 marzo 2004 Est Ecclesia agricultura seu ager Dei (Lumen gentium 6) EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE ROMA Studia Moralia / Supplemento 2 INDICE Presentazione del volume 5 COMMEMORAZIONI E. SCHOCKENHOFF, Pater Bernhard Häring als Wegbereiter einer konziliaren Moraltheologie. 50. Jahre: „Das Gesetz Christi“ . . . . . . . . . . . . . . A. CÓRDOBA, Leonardo Buijs y la Accademia Alfonsiana de Teología Moral . . . . . . . . . . . . . . . L. VEREECKE, Ricordo del R.mo Padre Leonardo Buijs, C.Ss.R. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LA RECEZIONE DEL 9 39 61 CONCILIO VATICANO II NELLA TEOLOGIA MORALE Relazioni L. ÁLVAREZ, La centralidad de la Sagrada Escritura en la reflexión teológico-moral postconciliar. Criterios hermeneuticos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. DOLDI, Il rinnovamento postconciliare del contatto della teologia morale con il mistero di Cristo e la storia della salvezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . T. KENNEDY, Paths of Reception: How Gaudium et spes shaped Fundamental Moral Theology. . . . . G. RUSSO, Lo sviluppo postconciliare dell’etica della vita (Bioetica) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. GATTI, Lo sviluppo postconciliare della morale della famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 99 115 147 169 4 M. MCKEEVER, Quale questione sociale? Interrogativi, risposte e sfide nell’insegnamento sociale postconciliare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201 Tavola rotonda Quale teologia morale per il XXI secolo? (B. PETRÀ, B. JOHNSTONE, D. BILLY) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 A 40 ANNI DAL CONCILIO VATICANO II, UN CONVEGNO ALL’ACCADEMIA ALFONSIANA In data 25 e 26 marzo, si è tenuto all’Accademia Alfonsiana un convegno sul tema “La recezione del Concilio Vaticano II nella teologia morale”. L’evento del concilio (1962-1965), che quaranta anni fa stava in pieno svolgimento, non ha esaurito la sua fecondità ecclesiale. Ma da quel momento, la situazione del mondo è già evoluta notevolmente e rapidamente. L’appello che il Concilio rivolgeva proprio alla teologia morale perché i cristiani siano in grado di “portare frutto nella carità per la vita del mondo” (Optatam totius 16) esige una costante interpretazione di questa evoluzione e la sua rilettura alla luce del Vangelo. Dopo il messaggio di benvenuto del Preside, e prima di entrare nella tematica specifica del convegno, l’Accademia ha voluto sottolineare due altre ricorrenze legate alla sua storia. Dapprima, il 50º anniversario della pubblicazione dell’opera del P. Bernhard Häring (professore all’Accademia per più di 40 anni): Das Gesetz Christi (La legge di Cristo), che ha conosciuto decine di edizioni in più di 10 lingue. I partecipanti al convegno potevano vedere in mostra i volumi della prima edizione tedesca nonché un esemplare delle traduzioni esistenti. Per l’occasione, il Prof. Eberhard Schockenhoff, dell’Università Albert-Ludwigs in Friburgo (Germania), ha presentato una relazione intitolata: “Il padre Häring, pioniere di una teologia morale conciliare. I 50 anni de La Legge di Cristo”. Il relatore ha sottolineato il contributo del P. Häring al rinnovamento della morale, anticipando sulle richieste del concilio che ne indicava una chiave nel “contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza”. Questo orientamento fondamentale era già stato impresso all’Accademia dal suo fondatore, P. Leonardo Buijs, Superiore generale della Congregazione del Santissimo Redentore dal 1947 al 1953, di cui abbiamo commemorato il 50º anniversario del decesso. Dopo una presentazione biografica del P. Buijs e del suo ruolo nella fondazione dell’Accademia, presentazione corredata da un interessante materiale visivo, offertaci dal Prof. Álvaro Córdoba, abbiamo ascoltato la testimonianza di uno che l’ha conosciuto personalmente: P. Louis Vereecke, C.Ss.R., pro- 6 PRESENTAZIONE fessore all’Accademia già nella prima ora ed emerito dal 1990. (La testimonianza del P. Vereecke, che non ha potuto essere presente per motivi di salute, è stata letta dal Preside dell’Accademia, il Prof. Sabatino Majorano). Questa prima mattinata del convegno, dal carattere celebrativo e così opportunamente conclusa con un rinfresco, è stata onorata dalla presenza di rappresentanti delle province redentoriste di origine del Prof. Häring e del P. Buijs, rispettivamente P. Karl Borst della provincia di Monaco (Baviera) e P. Joseph Konings, della provincia di Amsterdam. Nel pomeriggio, si è attaccato la tematica specifica del convegno con due relazioni che hanno cercato di leggere la storia recente della teologia morale alla luce di due indicazioni del Concilio nel suo documento sulla formazione dei sacerdoti, Optatam totius. Il Prof. Lorenzo Álvarez, dell’Accademia Alfonsiana, ci ha intrattenuti su “La centralità della Sacra Scrittura nella riflessione teologico-morale post-conciliare” e il Prof. Marco Doldi (ex-studente dell’Accademia e attualmente Direttore della Sezione di Genova della Facoltà di Teologia dell’Italia settentrionale) su “Il rinnovamento postconciliare del contatto della teologia morale con il mistero di Cristo e la storia della salvezza”. Nel pomeriggio l’attenzione si è dapprima rivolta al documento del Concilio che ha voluto esaminare i problemi contemporanei “alla luce del vangelo e dell’esperienza umana” (Gaudium et spes, 46): il Prof. Terence Kennedy ci ha offerto una riflessione sull’influsso della Gaudium et spes nello sviluppo postconciliare della teologia morale fondamentale. Si è fatto così anche transizione verso i tre temi di morale speciale (o settoriale) che si è voluto privilegiare nel convegno: la bioetica, la famiglia e la società. Il Prof. Giovanni Russo (ex-studente dell’Accademia e oggi professore di bioetica presso l’Istituto “S. Tommaso” di Messina) ha tenuto una relazione su “lo sviluppo postconciliare dell’etica della vita (bioetica). Hanno seguito il Prof. Guido Gatti, professore emerito della Pontificia Università Salesiana, su “lo sviluppo postconciliare della morale della famiglia” e il Prof. Martin McKeever, dell’Accademia Alfonsiana che ci intrattenuti sul tema: “Quale questione sociale? Interrogativi, risposte e sfide nell’insegnamento sociale post-conciliare”. Dopo questo penetrante sguardo dato al passato recente, PRESENTAZIONE 7 occorreva rivolgersi verso il futuro. I Professori Basilio Petrà, Brian Johnstone e Dennis Billy, tutti e tre dell’Accademia, hanno dibattuto in tavola rotonda, con la partecipazione dell’assemblea, sulla domanda: “Quale teologia morale per il XXI secolo? Evento accademico, il convegno è stato anche per i suoi partecipanti un evento ecclesiale in cui l’impegno della riflessione scientifica ha voluto iscriversi nella disponibilità allo Spirito che rinnova la terra (cf. Salmo 104, 30). JULES MIMEAULT, C.SS.R. StMor 42 (2004) 9-37 EBERHARD SCHOCKENHOFF PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 50 Jahre: „Das Gesetz Christi“ Das Streben nach gedanklicher Originalität ist der Theologie wie aller geistig-wissenschaftlicher Tätigkeit bis zu einem gewissen Grade immanent. Doch während sich das philosophische Denken als individuelle Wahrheitssuche des einzelnen Denkers versteht, ist die Theologie in stärkerem Maß von einem Ethos gemeinsamer Erkenntnisbemühung geprägt. Innerhalb ihres Fächerkanons trifft das Eingebundensein eines Autors in eine überindividuelle Aufgabenstellung und Schultradition für die Moraltheologie sogar in noch höherem Maß als für die anderen theologischen Disziplinen zu. Im Blick auf den gegenwärtigen Zustand des Faches, der durch eine hochgradige Differenzierung und Pluralität von Fragestellungen, Methoden und Argumentationsweisen geprägt ist, mag diese Diagnose überraschen. Doch trifft sie auf die Zeit, in der Bernhard Häring die Arbeit an dem moraltheologischen Handbuch „Das Gesetz Christi“ begann, also für die 50er-Jahre des vergangenen Jahrhunderts, zweifellos noch zu. Als Redemptorist stand er nicht nur in der langen Schultradition eines Ordens, dessen gemeinsame Zielsetzung ausdrücklich der wissenschaftlichen Tätigkeit auf dem Gebiet der Moraltheologie gewidmet ist, sondern wollte durch sein eigenes theologisches Arbeiten die Erneuerungstendenzen fortführen, die sich seit dem Ende des 18. Jahrhunderts zunächst gegen die vorherrschende (neu)scholastische Tradition und seit der Thomas-Renaissance des 20. Jahrhunderts in bewusstem Anschluss an sie zu Wort meldeten. 10 EBERHARD SCHOCKENHOFF I. Die Situierung Härings in der jüngeren Geschichte der Moraltheologie Am Anfang des propädeutischen Kapitels von „Das Gesetz Christi“ gibt Häring deshalb nicht nur einen geschichtlichen Überblick über die Entwicklung seines Faches, wie es dem Charakter eines Handbuches entspricht; er verortet vielmehr sich selbst und seinem theologischen Neuansatz in dem verzweigten Gelände, als das sich die katholische Moraltheologie in der Mitte des 20. Jahrhunderts präsentiert. Schon der Untertitel seines Handbuchs enthält ein verstecktes theologisches Bekenntnis. Hinter der Angabe „dargestellt für Priester und Laien“ verbirgt sich nicht nur die Abkehr von einer kasuistischen Beichtmoral, die sich nach der tridentinischen Reform vor allem als Handreichung zur Verwaltung des Bußsakramentes verstand. Die Ausrichtung auf Priester und Laien enthält vielmehr eine versteckte Hommage an einen großen Vorgänger, in dessen Tradition sich Häring mit dem erweiterten Adressatenkreis seines Werkes stellt: den Dillinger Moraltheologen und späteren Regensburger Bischof Johann Michael Sailer, der als Überwinder der Aufklärung und Erneuerer des kirchlichen Lebens in die neuere Theologie- und Kirchengeschichte einging. (Wer um die historischen Zusammenhänge weiß, wird darin auch eine späte Wiedergutmachung erkennen, die Häring stellverstretend für den ganzen Redemptoristenorden und seine bayrische Provinz dieser markanten Gestalt des deutschen Katholizismus im Übergang von der Aufklärung zur Romantik erwies.)1 Nachdem er seine rationalistische Frühphase eines aufgeklärten Christentums überwunden hatte, veröffentlichte Sailer im Jahre 1817 das „Handbuch der christlichen Moral zunächst für künftige katholische Seelsorger und dann für jeden gebildeten 1 Vgl. dazu O. Weiß, Die Redemptoristen in Bayern, 1790-1909. Ein Beitrag zur Geschichte des Ultramontanismus (Münchener Theologische Studien. I. Historische Abteilung 22), St. Ottilien 1983 und H. Wolf, Johann Michael Sailer. Das postume Inquisitionsverfahren (Römische Inquisition und Indexkongregation, Bd. II), Paderborn u.a. 2002. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 11 Christen“. Schon der Titel bringt die Zielsetzung zum Ausdruck, über die pastorale Beichtunterweisung hinaus eine Anleitung „zu einem gottseligen Leben“ für alle Christen und Berufsstände zu geben. Was Häring zur Charakterisierung Sailers sagt, trifft ebenso für sein eigenes moraltheologisches Programm zu: „Er will ein Gesamtgebäude der Lehre vom christlichen Leben bieten, eine systematische Darstellung des vollen Ideals.“2 Insbesondere übernimmt Häring von Sailer die Idee, wonach die Moraltheologie in erster Linie das dynamische Wachstum und die seinshafte Vollendung des christlichen Lebens zu beschreiben hat und sich keineswegs mit einer „Umzäunung der Mindestgrenzen“ nach Art einer legalistischen Minimalmoral zufrieden geben darf.3 Ebenso zeigt sich Häring dem „bayerischen Kirchenvater“ in der pastoralen Ausrichtung seines moraltheologischen Denkens und in dem Bemühen um eine Sprachgestalt verwandt, die dürre Begrifflichkeit vermeidet und statt dessen (in bisweilen freilich sehr zeitbedingter Form) auf gemütsbetonte, zu Herzen gehende rhetorische Wirkungen setzt. Unter den großen Moraltheologen des 19. Jahrhunderts stellt Häring Sailer als zweiten „große(n) Überwinder und Bahnbrecher“4 den Tübinger (und später Freiburger) Johann Baptist Hirscher zur Seite, dessen Denken ganz unter dem biblischen Zentralbegriff vom Reich Gottes stand. Das Anliegen, zu einer Überwindung des für beide Seiten verhängnisvollen Schismas zwischen Christentum und moderner Kultur beizutragen, sieht Häring unter den späteren Moraltheologen vor allem von Franz Xaver Linsenmann fortgeführt. Seinem 1878 erschienenen Lehrbuch attestiert er eine „glückliche Verbindung der spekulativen mit der praktischen, den Zeitproblemen zugewandten Methode“ sowie eine Sichtweise der christlichen Freiheit, die im paulinischen Geist deren inneres Wachstum und fortschreitende Bindung an Gott betont. Wiederum formuliert Häring dabei zentrale Denkmotive seiner eigenen Theologie im 2 B. Häring, Das Gesetz Christi. Moraltheologie in drei Bänden, dargestellt für Priester und Laien 1. Bd., Freiburg i.Br. 71963, 63. 3 A.a.O., 64. 4 A.a.O., 65. 12 EBERHARD SCHOCKENHOFF Spiegel der jüngeren Geschichte seines Fachs. Unter den bedeutenderen Moraltheologen des 20. Jahrhunderts hebt Häring vor allem Josef Mausbach und Otto Schilling hervor – den erstgenannten, weil er im engen Anschluss an Augustinus den Charakter der Moraltheologie als Glaubenswissenschaft wieder stärker betont und daher einer „Theologisierung der Moral“ das Wort redet, den zweiten, weil er auf dem Boden der thomanischen Ethik in der Gottesliebe das Formalprinzip der gesamten Moraltheologie erkennt und diese konsequent am Gedanken des finis ultimus ausrichtet. Als unmittelbare Vorgänger erwähnt Häring schließlich Fritz Tillmann, dessen „ganz und gar biblisch fundierte Moral“ auf das Prinzip der Nachfolge Christi aufbaut und seinen Tübinger Lehrer Theodor Steinbüchel, dessen philosophisches Bemühen eine Versöhnung der thomanischen Wesensphilosophie mit den personalistischen, wertphilosophischen und existentialistischen Strömungen des 20. Jahrhunderts gewidmet ist. Indem Häring in diesen theologischen Kurzbiographien bedeutende moraltheologische Profile bis zur zeitgenössischen Gegenwart vorstellt, gibt er zugleich Rechenschaft von seiner individuellen Entwicklung und den Anregungen, die für sein eigenes Denken prägend wurden. Dabei versäumt er es jedoch nicht, durch ebenso markante Korrekturen die Richtung anzudeuten, in der er seinen Beitrag zu der gemeinsamen Erneuerungsbewegung in seinem Fach vorantreiben möchte. So bemängelt er an der thomanischen Konzeption Schillings, dass sie die caritas nicht personal-dynamisch und responsorisch, sondern nur von ihrer Zielgerichtetheit und ihrem Gegenstand her sieht, während er bei Tillmann eine Unterbelichtung der sakramentalen Christusverbundenheit beklagt, die nicht angemessen als „Bauelement der Nachfolge Christi“ herausgestellt werde.5 Wie in einem Fächer liegen am Ende des historischen Durchgangs durch die Geschichte seiner Disziplin die Denkmotive und Facetten bereit, die Häring in seinem eigenen Entwurf einer Fundamentalmoral zu einem systematischen Ganzen zusammenzufügen versucht. 5 Vgl. a.a.O., 71f. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 13 II. Zentralbegriffe und Grundanliegen in „Das Gesetz Christi“ Im zweiten Schritt seiner Einleitung in die allgemeine Moraltheologie gibt Häring einen systematischen Überblick über die Zentralbegriffe seiner Disziplin. Er wechselt nunmehr die Blickrichtung und fragt nicht mehr nach dem historisch gewachsenen Problemstand, sondern stellt die wichtigsten Denkformen und Anliegen vor, die ihn bei seinem fundamentalethischen Entwurf leiten. Ein erster charakteristischer Grundzug, der wie ein Wasserzeichen durch alle späteren Einzelausführungen hindurchscheint, liegt in der ausgesprochen christozentrischen Anordnung des Werkes. Schon der Eröffnungssatz verweist auf dieses zentrale Motiv Häring’scher Theologie: „Die Norm, die Mitte und das Ziel der christlichen Moraltheologie ist Christus.“6 Dieses biblische Grunddatum wird zum bleibenden Referenzpunkt aller fundamentalethischen Zentralbegriffe. Ihrem formalen Prinzip nach ist die Moraltheologie weder Tugendethik noch Pflichtenethik, weder allgemeine Normwissenschaft noch konkrete Entscheidungsethik, weder Gebotsmoral noch Gewissenslehre, sondern immer nur eines: Ethik der Nachfolge Christi. Doch als umfassende Theorie der menschlichen Lebensführung unter dem Anspruch des Evangeliums fragt eine christozentrische Ethik notwendig nach moralischen Prinzipien, nach dem letzten Grund des sittlichen Sollens, nach der Funktion von Tugenden und Geboten sowie der Rolle des Gewissens im moralischen Leben. Sie enthält daher als Gegenstandsbereiche auch eine Prinzipienethik, eine Tugendethik, eine Gesetzesethik und eine Gewissenslehre. Mit anderen Worten: Was ihre grundlegenden Fragestellungen und Themenfelder anbelangt, so präsentiert sich die Fundamentalethik von „Das Gesetz Christi“ bewusst als Mischform. Die christologische Struktur der Gesamtanlage des Werkes verdrängt nicht die klassischen materialen Problemfelder der Moraltheologie; sie gibt vielmehr den architektonischen Rahmen vor, innerhalb dessen diese ihren von der Leitidee der Nachfolge Christi zugewiesenen Platz finden. 6 A.a.O., 25. 14 EBERHARD SCHOCKENHOFF Bevor Häring den architektonischen Gesamtrahmen vorstellt, dem in der Anlage des Werkes die materialen Einzelthemen zugeordnet werden, erläutert er den formalen Grundzug einer christologischen Nachfolge-Ethik. Mit einer gängigen Formel der theologischen Gegenwartssprache gesagt: Er bestimmt den theologischen Charakter der christlichen Moral und arbeitet das Unterscheidend-Christliche heraus, das diese im Gegensatz zu einer philosophischen Ethik prägt. Dabei orientiert er sich nicht an der späteren Streitfrage, ob es ein materiales Proprium christlicher Ethik gibt, das als Überschuss über eine philosophische Moraltheorie hinausweist und der natürlichen Vernunft des Menschen unerreichbar ist. Entgegen einer solchen Mehrwert-Theorie, die das Unterscheidend-Christliche in die Randzonen des Lebens abdrängt, sieht Häring die Besonderheit der christlichen Moral in ihrer formalen Grundstruktur, die das gesamte Ethos prägt und somit auch den allen Menschen gemeinsamen, der natürlichen Vernunft zugänglichen Grundbestand praktischen Wissens umfasst. Dieses durchgängige Formalprinzip benennt Häring mit Hilfe der zeitgenössischen Philosophie des Personalismus und einer phänomenologischen Analyse des religiösen Aktes als responsorisch-dialogische Struktur: Christliches Ethos versteht sich immer vom Gegenüber zu dem heiligen, dreieinigen Gott her als geschöpfliche Antwort auf dessen Ruf zur beseeligenden Gemeinschaft mit ihm. In der grundlegenden Bestimmung des moralischen Handelns als tätigem Vollzug der Gemeinschaft mit dem lebendigen Gott sieht Häring die genuine Urform einer religiösen Ethik, die schon von ihrem ersten Einsatz her durch den Gottesbezug geprägt ist und die Religion nicht nur als sekundäre Sanktionierung gewissermaßen nachträglich ins Spiel bringt. „Der reine Typus der religiösen Ethik ist der responsorische, wo das sittliche Tun als Antwort auf den Anruf einer heiligen, absoluten Person verstanden wird.“7 7 A.a.O., 76. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 15 Im Gegensatz zur dialogischen Struktur einer religiösen Ethik sieht Häring das gemeinsame Kennzeichen aller Varianten einer philosophischen Ethik in ihrem monologischen Charakter: Ob es sich um die platonische Theorie des Guten, die aristotelische Tugendlehre, die kantische Vernunftmoral oder Nietzsches Anti-Moral einer dionysischen Lebenssteigerung handelt – immer bleibt die natürliche Ethik im Bannkreis eines monologischen Ich und seiner Suche nach Selbstvervollkommnung gefangen.8 Diesem ersten Gegensatz entspricht ein zweiter, der in dem tragenden Wort-Antwort-Geschehen angelegt ist, worin das christliche Ethos seinen Ursprung hat. Während im Gedanken der Nachfolge Christi die besondere Berufung des Einzelnen im Mittelpunkt steht, stelle eine natürliche Vernunftethik die sittliche Forderung unter dem Titel des Gesetzes, der Pflicht oder auch des kategorischen Imperativs immer als eine unpersönliche Macht oder ein abstraktes Prinzip dar. Für die gesamte neuzeitliche Ethik und einen ihr verwandten Typus theologischer Aufklärung gilt nach Härings Urteil: „In Wirklichkeit sind die Vernunftgesetze nur Abstraktionen, die in keiner Weise den Reichtum des Individuellen wiedergeben können.“9 Dagegen ist die responsorisch-dialogische Ethik des Christentums dadurch bestimmt, dass der Einzelne als Einzelner vor Gott gestellt ist: „In personaler, religiöser Sittlichkeit steht der Mensch nicht vor einem allgemeinen Gesetz (es gibt selbstverständlich auch dieses!), sondern vor dem persönlichen Anruf Gottes an ihn, den er aus den besonderen Gaben und Kräften und aus der jeweiligen Situation vernehmen kann.“10 Ein drittes Kennzeichen der religiösen Ethik sieht Häring in dem Umstand, dass diese sich nicht nur an allgemein gültigen Mindestforderungen orientiert, wie es für eine rationale 8 Vgl. dazu a.a.O., 84. A.a.O., 85. 10 Ebd. Vgl. auch a.a.O., 188: „Je mehr der Mensch aus seiner Persontiefe lebt, um so sicherer und unverlierbarer wird ihm sein geistiges Gespür sagen: Es ist nicht ein totes absolutes Prinzip, sondern es ist eine lebendige Person, die hinter allem Fordern der Werte steht.“ 9 16 EBERHARD SCHOCKENHOFF Gesetzesethik typisch ist, sondern dem Einzelnen einen persönlichen Weg der Liebe und des Gehorsams gegenüber dem göttlichen Du aufzeigt, der seinen individuellen Fähigkeiten entspricht. Anders als in einer „anthropozentrischen Selbstvervollkommnungsethik“11, bei der immer der Mensch im Mittelpunkt steht und die deshalb zwangsläufig in der Sackgasse einer „todbringenden Anthropozentrik“12 endet, liegt der christlichen Ethik eine anspruchsvolle Vorstellung vom Glück (oder wie Häring sagt: vom „Seelenheil“) des Menschen zugrunde, die den sündigen Menschen in die „Liebesgemeinschaft mit dem lebendigen Gott“13 ruft. Ein vierter Grundzug der religiösen Ethik des Christentums zeigt sich schließlich in ihrem ekklesiologischen Charakter. Wird die menschliche Person radikal von Gott her verstanden, so sieht sie nicht nur zu sich selbst, sondern zugleich in die Gemeinschaft derer gerufen, die den heiligen, lebendigen Gott verehren. Weil Nachfolge Christi nicht nur als persönliches Gefolgschaftsverhältnis gedacht werden kann, sondern als dialogischer Vollzug sakramentaler Christusgemeinschaft bestimmt werden muss, ist der Einzelne, indem er sich Christus anschließt, zugleich in die Gemeinschaft seines mystischen Leibes aufgenommen. Daher steht die Moraltheologie vor der Aufgabe, eine spannungsvolle Balance zwischen zwei Polen zu wahren: Einerseits sind die Getauften in ihrem personalen Eigenwert von Gott zur Gemeinschaft mit ihm berufen, andererseits trifft sie diese Berufung nicht nur als Einzelne, sondern zugleich als Glieder der Kirche. „In Christus sein heißt notwendig auch denen verbunden sein, die in Christus sind, die von Christus gerufen werden.“14 Die sakramentale Christusgemeinschaft, welche die ontologische Grundlage für die persönliche Nachfolge jedes Einzelnen bildet, lässt sich von der Realität des mystischen Leibes Christi nicht trennen, die ihn in seiner Antwort trägt und umfängt. „Der Ruf zur Nachfolge Christi trifft 11 12 13 14 A.a.O., A.a.O., A.a.O., A.a.O., 80. 94. 81. 79. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 17 uns in der Kirche und durch die Kirche.“15 An mehreren Stellen seines Werkes bezeichnet Häring die Kirche mit einem Wort des Tübinger Theologen Johann Adam Möhler, auf das später auch die Kirchenkonstitution des Zweiten Vatikanischen Konzils anspielen wird, explizit als den „fortlebenden Christus“16. Eine christozentrische Nachfolge-Ethik, wie sie Häring vorschwebt, setzt als dogmatische Bezugspunkte notwendigerweise die Theologie der Inkarnation und die Lehre von der Kirche in ihrer für das sakramentale Denken typischen Verschränkung voraus. Es überrascht daher nicht, dass sich bei Häring in den späteren Auflagen seines Handbuchs auch die Kennzeichnung der Kirche als Ursakrament findet, die das Konzil zum Angelpunkt seiner Lehre über das Mysterium der Kirche machen wird.17 Nachdem Häring die dialogische Struktur, die personale Einmaligkeit, die damit verbundene hochethische Tendenz und den heilssozialen (= kirchlichen) Charakter des christlichen Ethos herausgestellt hat, fragt er abschließend nach einem Grundbegriff, der dem religiösen Konzept der Nachfolge Christi als moralischer „Zentralbegriff der katholischen Sittenlehre“18 zur Seite treten kann. Wiederum kommt dafür keiner der herkömmlichen Grundbegriffe moraltheologischer Theoriebildung in Frage. Weder Tugend noch Gesetz, weder Gebot noch Norm, sondern das religiös interpretierte Wort „Verantwortung“ stellt das gesuchte Korrelat zur Zentralidee der Nachfolge Christi dar. „Es erscheint uns als der beste Ausdruck für den personalen IchDu-Bezug zwischen Gott und Mensch in Wort und Antwort bzw. in Anruf und Entscheidung.“19 Wie in einem Prisma versammelt der in einen theologischen Bezugsrahmen gestellte Begriff der Verantwortung die bisher ausgezogenen Linien. Der Gedanke der Verantwortung umfasst nicht nur den dialogischen Charakter des christlichen Ethos (als Antwort-Geben gegenüber dem göttlichen Du) und die Selbstverantwortung der menschli- 15 16 17 18 19 Ebd. Vgl. a.a.O., 109. A.a.O., 109. A.a.O., 86. Ebd. 18 EBERHARD SCHOCKENHOFF chen Person, die das Wesen des sittlichen Aktes ausmacht, sondern auch die aufgezeigten dogmatischen Fundamente des christlichen Lebens. Die Bedeutung der Gestalt Christi geht in einer theologischen Moral der Verantwortung über die Funktion hinaus, die sie in einer menschlichen Vorbild-Ethik haben könnte. In Christus ereignet sich das Geschehen der Verantwortung im Dialog zwischen Gott und Mensch in höchster urbildlicher Vollendung, so dass alle menschliche Verantwortung nichts anderes als den geschöpflichen Nachvollzug dieses urbildlichen Geschehens im freien menschlichen Tätigsein bedeutet. In Christus ist die bleibende und endgültige Koinzidenz der beiden Bewegungen gegeben, die in ihrem Aufeinandertreffen den Rahmen geschöpflicher Verantwortung eröffnen: dem göttlichen Wort und der menschlichen Antwort. „Christus, das menschgewordene Wort des Vaters, ist in einem und zugleich das letztgültige Wort des Vaters an uns Menschen und die vollgültige Antwort des Hauptes der erneuerten Menschheit auf den Vater zu.“20 Am Ende des propädeutischen Kapitels, in dem Häring wie in einem Präludium die Einzelmotive seines fundamentalethischen Neuansatzes anklingen lässt, greift er deshalb auf den programmatischen Anfangssatz der Einleitung zurück, in dem er Christus als die Norm, die Mitte und das Ziel der Moraltheologie bestimmt. „Ihm nachfolgen und in ihm sein bedeutet lebensspendende Theozentrik, gnadengeschenkte Gemeinschaft mit Gott, in Wort und Antwort, in ‚Ver-antwortung’.“21 Die Moraltheologie ist, so lautet das theologische Programm, dem Häring sich selbst unterstellt, nur dann recht bei ihrer Sache, wenn sie der Sache Christi zugewandt ist. Sie kann in all ihren Einzelanalysen, in denen sie die moralischen Grundworte Freiheit, Gesinnung, Motiv, Situation, Tugend, Gesetz und Gewissen durchbuchstabiert, nur so recht von ihrer Sache reden, dass sie in all dem auf das „Urwort“ verweist, „in dem und 20 21 A.a.O., 92. (Kursivschrift jeweils im Original) A.a.O., 94. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 19 durch das der gottebenbildliche Mensch lebt und in dem er Antwort geben kann“22. III. Der äußere Aufbau der Fundamentalethik Die responsorisch-dialogische Anlage der Häring’schen Moraltheologie zeigt sich bereits im äußeren Aufbau, nach dem er die fundamentalethischen Einzelstoffe anordnet. Die grundlegende Zweiteilung erfolgt nicht entlang der Trennungslinie zwischen natürlicher und heilsgeschichtlich-biblischer Ethik (analog zur Dissoziation von Weltethos und Heilsethos in der späteren autonomen Moral) oder nach dem Schema: zuerst die objektiven Grundlagen der Moral und dann deren Aneignung durch das handelnde Subjekt, sondern entsprechend der Sequenz: Ruf Christi – Antwort des Menschen. Der Nachfolgegedanke bestimmt die Moraltheologie also nicht nur in der Form einer feierlichen Anfangsproklamation, die auf deren konkrete Stoffeinteilung keinen Einfluss mehr hätte. Er prägt vielmehr den Gesamtaufbau der Fundamentalethik wie ein Begleitfaden, der in die Durchführung aller Themenfelder hineinverwoben ist. Der erste Hauptteil unter dem Titel „Der Ruf Christi“ geht in zwei Schritten vor, indem er zunächst den Mensch als Adressaten dieses Rufes behandelt. Der umfangreiche Abschnitt „Der zur Nachfolge gerufene Mensch“ enthält die anthropologische Grundlegung der Ethik, die entsprechend dem heilsgeschichtlich-biblischen Charakter des Gesamtwerkes in dezidiert theologischer Absicht erfolgt. Der Mensch wird nicht als neutrales Wesen, sondern als die konkrete Person beschrieben, die in der faktischen Heilsordnung unter dem Anruf der göttlichen Gnade steht und sich in ihrem sittlichen Selbstvollzug unausweichlich für die Annahme dieses Rufes entscheidet oder sich ihm im Nein der Sünde verschließt. Was Häring hier entwickelt, sind die klassischen Themenfelder der theologischen Anthropologie, die in Form einer aufgelockerten Schultradition 22 Ebd. 20 EBERHARD SCHOCKENHOFF mit einem kräftigen Schuss zeitgenössischer Philosophie und Psychologie angereichert werden. Insbesondere machen sich die Einflüsse des dialogischen Personalismus, der Phänomenologie und der Wertethik als innovative, dem philosophischen Zeitgespräch gegenüber anschlussfähige Elemente des moraltheologischen Denkens bemerkbar. Diese Verbindungslinien lassen sich anhand der Werke des frühen Max Scheler, der katholischen Heidegger-Schülerin Edith Stein oder christlicher Philosophen wie Dietrich von Hildebrandt und Hedwig ConradMartius auch in den ausdrücklichen Zitaten verfolgen. Entsprechend der philosophischen Anthropologie des 20. Jahrhunderts, die in diesem Punkt dem ganzheitlichen Menschenbild der Bibel und dem thomanischen Hylemorphismus sehr nahe kommt, stellt Häring als anthropologischen Ausgangspunkt des christlichen Ethos die leib-seelische Ganzheit des Menschen heraus. Dieser Einsatz bei einem anthropologischen Einheitsdenken hat unmittelbare Konsequenzen für die Handlungstheorie, die allen normativen Einzelaussagen voransteht: Die Einzelhandlung wird nicht primär in ihrer physischen Außenseite wahrgenommen, sondern sie erhält sittliche Bedeutsamkeit erst in dem Maß, wie sie zum Ausdruck der „Gesamtperson“ wird. Träger des sittlich Guten ist nach dieser Analyse, durch die Häring die klassische Unterscheidung von actus humanus und actus hominis mit Einsichten der phänomenologischen Wertforschung verbindet, weder allein der gute Wille und die richtige Gesinnung (wie bei Kant), noch primär der äußere Vollzug einer isolierten Handlung (wie in einer einseitigen Aktmoral), sondern die Gesamtperson, die sich in ihrem Handeln ein konkretes Ausdrucksfeld in der sozialen Welt des Mit-Seins mit den anderen erwirkt.23 Unter den weiteren anthropologischen Grundzügen, die Härings fundamentalethischen Entwurf prägen, sind vor allem die Geschichtlichkeit der menschlichen Existenz, ihre Ausrichtung an einem transzendenten Ziel und die eschatologische Dynamik der menschlichen Lebensgeschichte sowie die kultische Bestimmung des Menschen zum 23 Vgl. a.a.O., 107. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 21 Lobpreis Gottes hervorzuheben. Nachdem auf diese Weise Wesen und Ziel des Menschen umschrieben sind, werden unter der Überschrift „Der eigentliche Sitz des Sittlichen“ die dynamische Entwicklung der menschlichen Freiheit, die Fähigkeit des Menschen zur sittlichen Werterkenntnis, das Gewissen als sittliche Anlage, die einzelne Handlung als abgeleiteter Träger des sittlichen Wertes sowie die Bedeutung von Gesinnung, Motiv und Intention des Guten behandelt. Erst nach diesen anthropologischen Vorklärungen, die den Menschen als Adressaten des göttlichen Rufes in den Blick nehmen, kommen unter dem Titel „Form und Inhalt des Rufes Christi“ die ethischen Zentralbegriffe zur Sprache, die in der herkömmlichen Gesetzesmoral der Manualistik im Mittelpunkt standen. Nacheinander handelt Häring das Verhältnis von Norm und Wert, von moralischem Prinzip (Sittennorm) und Einzelnorm, von Gebot und Rat ab. Während er hier auf weite Strecken wiederum der Schultradition folgt, verraten die Ausführungen zur Verpflichtungskraft supererogatorischer Handlungen und der individuellen Berufung des Einzelnen, die Unterscheidung von Erfüllungsgebot und Zielgebot und die positive Würdigung der berechtigten Anliegen einer gemäßigten Situationsethik deutlich die persönliche Handschrift ihres Autors.24 Entsprechend der Grundeinteilung des Werkes folgt auf die theologische und anthropologische Exposition des existenzbegründenden Rufes Christi (erster Hauptteil) die von der Gnade getragene und ermöglichte Antwort des Menschen (zweiter Hauptteil). Während sich im ersten Hauptteil die Überfülle einzelner Stoffelemente störend bemerkbar macht, so dass diese bisweilen etwas gewaltsam verbunden erscheinen oder an unterschiedlichen Orten mehrfach abgehandelt werden,25 zeichnet 24 Vgl. vor allem 330-347. Vgl. etwa die Ausführungen zur Bedeutsamkeit des sittlichen Motivs a.a.O., 243ff. und 348ff. oder die wiederholte Behandlung des Lohngedankens. 25 22 EBERHARD SCHOCKENHOFF sich der zweite Hauptteil durch eine klar gegliederte, logisch folgerichtige Systematik aus. Die Antwort des Menschen auf den Ruf zur Nachfolge Christi wird in dreifacher Ausprägung analysiert, wobei entsprechend der stets gefährdeten Wachstumsdynamik des moralischen Lebens eine aufsteigende Linie erkennbar ist. Im ersten Schritt werden Wesen und Folge der Sünde als Verweigerung und fortgesetzte Gefährdung der Nachfolge beschrieben. Schon dabei ist eine Schwerpunktverlagerung unverkennbar, insofern Häring nämlich die Artbestimmtheit der einzelnen Sünden von dem Wert abhängig macht, den sie verletzen und somit das scholastische Axiom actus specificantur ab obiecto im Hinblick auf die verschiedenen Wertrücksichten (und nicht auf den materialen Gegenstand als solchen) interpretiert.26 Weiterhin wird die Abkehr von einer reinen Sündenmoral in der Betonung der Haupt- und Wurzelsünden sowie in der Warnung vor einer nur negativ orientierten Verbotsmoral sichtbar. Zurecht erinnert Häring daran, dass der Christ auch für sein unterlassenes Tun Verantwortung trägt und dass die verweigerte Mitwirkung an der göttlichen Gnade die eigentliche Ur-Sünde des Menschen darstellt, sodass dem Reich Gottes durch das Nicht-Tun des Guten oftmals größerer Schaden entsteht, als durch die Sünden, die durch das Tun des Bösen begangen werden.27 Im zweiten Schritt wird das Geschehen der Bekehrung als Aufbruch zur Nachfolge Christi thematisiert. In moraltheologischer Perspektive steht dabei weniger die anfängliche Bekehrung zum Glauben, als vielmehr die Notwendigkeit von Reue und Bußgesinnung als dauerhaften Grundhaltungen des Christseins im Mittelpunkt; unter dem Stichwort „erste und zweite Bekehrung“ arbeitet Häring das Grundgesetz des christlichen Lebens heraus, das zu jeder Zeit „einer fortwährenden Verinnerlichung und Vertiefung der Bekehrung“ bedarf.28 Im 26 27 28 Vgl. a.a.O., 405f. Vgl. a.a.O., 410. A.a.O., 423, vgl. auch die Ausführungen zum eschatologischen PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 23 dritten Schritt schließlich erfolgt die Grundlegung der Tugendlehre, die unter der Überschrift „Das sich vollendende Ja“ nichts anderes als den Weg der Nachfolge Christi beschreibt. Dabei legt Häring im Anschluss an Schelers Versuch der Rehabilitierung des Tugendbegriffs besonderen Wert darauf, die Tugend von mechanischer Gewohnheit abzugrenzen und den Entscheidungscharakter des Guten hervorzuheben. Die eigentliche Pointe des Tugendbegriffs liegt demnach nicht so sehr darin, dass regelmäßig das Gleiche getan wird, sondern in dem „tiefen Erfaßtsein von ihrem Wertgehalt“29 und in einem „Erfaßtsein vom Guten in seiner ganzen Breite“30, das im Fall der eingegossenen Tugend einen „neuen Richtungssinn und eine ganz neue Gestalt“31 insofern annimmt, als die Tugenden der Christen entsprechend der Theologie der griechischen Väter als Teilhabe an der urbildlichen Tugend Christi verstanden werden können. Gegenüber der Versuchung zu einer platonisierenden Entwertung des Leibhaft-Konkreten betont Häring mit einem kritischen Seitenhieb auf zeitgenössische Tendenzen, dass die Tugend nicht am idealen „Werthimmel“ der Theorie oder als Reflexionsbegriff der Ethik, sondern nur in ihrem jeweiligen personalen Träger real gegeben ist. Das Grundgesetz der Verleiblichung, das zuvor anhand des dynamischen Wachstumsprozesses der sittlichen Freiheit und der Bedeutung der Einzelhandlung aufgezeigt wurde, gilt auch für den Tugendbegriff, der bei Häring wie alle moraltheologischen Zentralbegriffe dem Gesamtrahmen einer christologischen Nachfolge-Ethik zugeordnet bleibt. Der Christ sieht sich nämlich „nicht einer idealen Forderung eines abstrakten Wertgebildes gegenüber. Er steht vor der unendlich vollkommenen Person Christi, in dem die Tugend im vollsten Sinn leibhaftig geworden ist.“32 So bringt Häring das proprium christianum auch gegenüber den philosophischen Zeitströmungen zur Entscheidungscharakter der Reich-Gottes-Botschaft Jesu a.a.O., 429ff. und zur Reue als dauerhafter Grundhaltung a.a.O., 481ff. 29 A.a.O., 540. 30 A.a.O., 533. 31 A.a.O., 539. 32 A.a.O., 542. 24 EBERHARD SCHOCKENHOFF Geltung, denen er selbst entscheidende Anstöße zur Vertiefung und zum besseren Verständnis der moraltheologischen Tradition verdankt. IV. Charakteristische Einzelthemen der Fundamentalethik Abschließend seien noch einige Einzelthemen von Härings Fundamentalethik vorgestellt, die für dessen Denkstil zur Zeit seiner Arbeit an „Das Gesetz Christi“ besonders aufschlussreich sind. Ausgewählt werden dazu drei Fragestellungen, die zum klassischen Problembestand der Moraltheologie gehören, aber in Härings Sichtweise eine charakteristische Neuausrichtung erfahren. So lässt sich die Tragweiter seiner moraltheologischen Methode – der Kombination von traditionellem Stoffgut mit Gedankengängen der zeitgenössischen Wertphilosophie und einer breiten bibeltheologischen Fundierung – im Spiegel dreier Problemkreise überprüfen: der Lehre von der sittlichen Freiheit, dem Zusammenhang von Norm und Wert sowie der Bedeutung des Gewissens in der konkreten Situation. 1. Die Lehre von der sittlichen Freiheit Die Auffassung der katholischen Moraltheologie vom Wesen der sittlichen Freiheit war in den Jahren vor und während des Konzils vor allem von dem Bestreben gekennzeichnet, eine legalistische Konzeption der bloßen Wahlfreiheit zu überwinden und die Grundintention oder die fundamentale Entschiedenheit des Menschen gegenüber dem Anspruch des Guten in den Mittelpunkt zu rücken.33 Häring hat an dieser Entwicklung wesentlichen Anteil. Der Gedanke der Freiheit, der in der nachkonziliaren Phase seines Denkens noch stärker in den Vordergrund rückt, benennt von Anfang an ein wichtiges Anliegen, ja eine persönliche Stoßrichtung seiner Theologie. Schon die Grundbestimmung der Freiheit verrät die Abkehr von 33 Vgl. dazu auch die Studie von B. Schüller, Gesetz und Freiheit. Eine moraltheologische Untersuchung, Düsseldorf 1966. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 25 einer philosophischen Konzeption, die in der Freiheit nichts anderes als die Indifferenz des Willens und ein neutrales Wahlvermögen zwischen Gut und Böse sieht.34 Obwohl die Freiheit im Sollen des Guten ihren eigentlichen Grund findet und daher primär als „Mächtigkeit zum Guten“ verstanden werden muss, wird sie psychologisch stärker im Versuchtwerden zum Bösen und im Widerstand der Triebe, Leidenschaften und Affekte gegen das Gute erfahren. „Oft wird der Mensch sich seiner Freiheit am deutlichsten bewußt im Aufruhr vom Bösen her, dem zu widerstehen er sich mächtig genug fühlt.“35 Die Freiheit meint nicht eine periphere Möglichkeit des Menschen oder ein weiteres Handlungsvermögen neben Verstand und Wille, sondern sie entspringt der Mitte der Person; in ihren einzelnen Wahlakten manifestiert sich die fundamentale Wertantwort, welche diese gegenüber dem Anruf des Guten und Wertvollen gibt. „Freiheit ist nur dort, wo die Person aus ihrem innersten Kern heraus Stellung nehmen kann zu Aufruf und Aufruhr.“36 Dennoch steht die Freiheit dem Anruf des Guten und dem Aufruhr des Bösen nicht wie zwei gleichberechtigten Alternativen gegenüber, die ihrer inneren Wesenstendenz gleichermaßen äußerlich wären. Denn die Indifferenz zum Guten und Bösen gehört, wie Häring in Übereinstimmung mit der Freiheitslehre des späten Thomas betont,37 nicht zur Freiheit als solche, sie ist vielmehr ein charakteristisches Merkmal der endlichen Freiheit. Die Kraft zum Guten kommt dagegen aus der ursprünglichen Gottebenbildlichkeit des Menschen und ihrer gnadenhaften Erneuerung; in der realen Heilsordnung erwächst Freiheit immer „aus der geschöpflichen Teilnahme an der Freiheit Gottes“38. 34 Der Mensch wird des Wesens seiner Freiheit inne, wenn er sich angerufen fühlt vom Werthaften. B. Häring, Das Gesetz Christi, Bd. I, 139. 35 Ebd. 36 Ebd. 37 Vgl. De Malo 16,5. 38 Ebd. 26 EBERHARD SCHOCKENHOFF Freiheit ist dem Menschen daher nicht als eine statische Wesensauszeichnung oder als unverlierbares Differenzmerkmal gegenüber dem Tierreich, sondern immer nur als eine dynamische Vollzugsgröße gegeben. Im Gebrauch seiner Freiheit wächst der Mensch über sich selbst hinaus und gelangt so in eine dauerhaftere Entschiedenheit für das Gute. So sehr die einzelne Freiheitstat „immer ein schöpferischer Neuanfang“ ist, so wenig wird dieser blind und grundlos gesetzt; vielmehr „ist auch der schöpferische Neuanfang der Freiheit von Motiven, von Leitideen bestimmt“39. Der tatsächliche Freiheitsgrad des menschlichen Handelns bemisst sich daher nicht allein an seiner Beeinflussung durch äußere Determinanten oder der Frage, ob die äußere Willenshandlung frei aus ihrer inneren Setzung – in traditioneller Schulsprache: dem actus elicitus – hervorgeht. Entscheidend ist vielmehr, ob der innere Willensakt „selbst noch frei wählend über den Motiven (wenn auch nie völlig motivlos?)“40 steht oder ob er den sich ihm aufdrängenden Motiven mehr oder weniger ausgeliefert ist. An dieser entscheidenden Stelle der Freiheitsanalyse zeigt sich für Häring, worin der eigentliche Beitrag der Grundentscheidung und der Wahl des Letztzieles liegt: Nur auf dem Resonanzboden einer tieferen Entschiedenheit für das Gute lässt sich eine einzelne Wahlhandlung als frei, d.h. mit dieser Entschiedenheit übereinstimmend erkennen. Für sich genommen lassen sich die konkreten Motive einer Einzelhandlung nie eindeutig bewerten; sie erlangen ihre letztgültige Bestimmtheit erst auf dem Hintergrund einer positiven oder negativen Grundintention. „Wenn diese letzte Entscheidung gefallen ist (die Wahl des finis ultimus), werden die Motive des einzelnen Tuns im Raum derselben frei ausgewählt (natürlich immer im Rahmen der psychologischen Gesetze).“41 Der Handelnde wird sich seiner Freiheit daher immer nur indirekt bewusst, indem er vor seinem Gewissen seine Motivlage erforscht und sich Rechenschaft über die inneren Wurzeln seines Handelns gibt. 39 40 41 A.a.O., 140. A.a.O., 149. A.a.O., 145. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 27 Christliche Gewissensbildung meint insofern immer Erziehung zur Freiheit, jedoch nicht zur Freiheit ungebundenen Wählen-Könnens, die eine trügerische Schein-Freiheit ist, sondern zu jener Freiheit, die aus der bewussten Entschiedenheit für das Gute erwächst. Wiederum zeigt sich, wie sehr Härings Moraltheologie von einer pastoralen Zielsetzung bestimmt ist: Die Freiheitsanalyse steht im Dienst der moralischen Selbsterziehung des Menschen. Sie will zur aufmerksamen Selbstbeobachtung anleiten und den Einzelnen zu einer achtsamen Motivpflege seines inneren Lebens, zu einer affektiven Kultur des Guten führen. „Je tiefer die Hingabe an das Motiv, umso mächtiger die Freiheit. In der Wahl und Pflege des Motivs liegt also die letzte Entscheidung der Freiheit.“42 Die Erziehung zur christlichen Freiheit ist für Häring – das betont schon der Titel seines dreibändigen Hauptwerkes – immer auch Erziehung zum Gesetz. Im neuen Bund der Gnade ist das Gesetz Christi zugleich das „vollkommene Gesetz der Freiheit“ (Jak 2,12) und das „Geistgesetz des Lebens in Jesus Christus, das mich frei gemacht hat vom Gesetz der Sünde und des Todes“ (Röm 8,2; dieses Pauluszitat steht dem ersten Band als Motto voran). Das Gesetz ist daher für den Christen, der sich der inneren Dynamik seiner Entschiedenheit für das Gute überlässt, nicht mehr Einengung und Zwang, sondern „Warnung und Schutz, Gabe und Aufgabe für die Freiheit“43. Die Aussage, wonach echte Gehorsamserziehung Hinführung zum Gesetz und Gewöhnung an eine feste Regel des Guten ist, bedarf daher vom paulinischen Freiheitsverständnis her einer wichtigen Korrektur. So sehr das Gesetz Auflage und Schutzraum der Freiheit ist, so wenig kann sich diese mit einem bloßen Festhalten am Zaun des Gesetzes begnügen. Christliche Erziehung will deshalb sicher auch zu einem angemessenen Verständnis des moralischen Gesetzes, aber „mehr noch zur Freiheit über das allgemeine Gesetz hinaus, zur Freiheit aus innerster Einsicht und Liebe zum Guten und je Besseren“ erziehen.44 42 43 44 Ebd. A.a.O., 144. A.a.O., 145. 28 EBERHARD SCHOCKENHOFF So wird die Freiheit zur eigentlichen Tugend des Christen, durch die er den Raum seines Gehorsams gegenüber dem Ruf Christi mehr und mehr ausweitet. Das ist der Grundgedanke von Härings Freiheitstheologie, das entscheidende Vorzeichen, unter dem die nachfolgenden Analysen über die innere Gefährdung, Minderung oder Zerstörung der Freiheit gelesen werden müssen. In diesen langen Partien seines Werkes (schon der Umfang dieser Überlegungen belegt die Situation der kirchlichen Beichtpastoral vor dem Konzil) zeigt sich der pastorale Tenor von Härings Analysen vor allem darin, dass er die klassischen moraltheologischen Unterscheidungsregeln (voluntarium in causa, intentio virtualis, metus antecedens, concupiscentia antecedens, die Aufmerksamkeit auf die motus primo primi und die ignorantia affectata) von den Erkenntnissen der zeitgenössischen Moralpsychologie und Pastoralmedizin her erläutert. 2. Norm und Wert Besonders deutlich macht sich der Einfluss der Wertphilosophie bei Häring auf das Verständnis moralischer Normen bemerkbar. Allerdings gelingt es ihm nicht bruchlos, das scholastische Erbe und die innertheologische Diskussion um die Verpflichtungskraft des moralischen Gesetzes mit den Einsichten der zeitgenössischen Phänomenologie und Wertphilosophie zu verbinden. Einerseits hält Häring mit der moraltheologischen Tradition an einem seinsethischen Ansatz fest, wonach der Inhalt der Sittennorm durch die wesensgemäßen Entfaltungsmöglichkeiten des Menschen festgelegt ist. Insofern betont er nachdrücklich die Dienstfunktion moralischer Normen; nicht die Norm als solche, als starre Formel ist normgebender Maßstab, sondern der sittliche Wert, dessen Wahrung und Pflege sie dient. „Eine Norm, die nicht in einem Wert gründet, und nicht eine werthafte Aufgabe stellt, hat keine sittliche Bindekraft.“45 Da der moralische Wert den Entfaltungsmöglichkeiten der menschlichen Freiheit nicht als äußere Einschränkung gegenübertritt, sondern deren Erfüllung 45 A.a.O., 260. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 29 gerade in der Hingabe an den Wert besteht, kann man (wie Häring damals noch sehr zurückhaltend formuliert) mit einer gewissen Berechtigung sogar von Autonomie und „Selbstgesetzgebung“ sprechen.46 Diese für die damalige Moraltheologie typische Vorsicht führt auch bei Häring noch nicht zu einer konsequenten Aufnahme des Autonomiegedankens. Er schwankt zwischen zwei Positionen hin und her, die sich in der Geschichte der Moraltheologie schon öfters gegenüberstanden.47 Von seinem wertphilosophischen Ansatz her neigt er einer Auffassung zu, nach der die Verbindlichkeit einer moralischen Norm ihren unmittelbaren Geltungsund Erkenntnisgrund in dem Wertcharakter der entsprechenden Handlungsweise bzw. ihres Gegenstandes findet. Mit einer auf Suárez zurückgehenden scholastischen Tradition möchte er jedoch gleichzeitig daran festhalten, dass erst die Willensanordnung des göttlichen Gesetzgebers die absolute Verpflichtungskraft der Norm begründet. Wie sich das dem Wertcharakter des Guten entspringende Gesolltsein zu der absoluten Verbindlichkeit verhält, die im göttlichen Gebot zu dieser immanenten Werthaftigkeit noch hinzutreten muss – diese Frage bleibt bei Häring letztlich ungeklärt. Er verweist zwar auf die herkömmlichen Unterscheidungen zwischen norma proxima und norma remota oder zwischen subjektiver und objektiver Verbindlichkeit, aber diese harmonisierende Begrifflichkeit kann nicht über eine ausgeglichene Spannung, ja eine offene Bruchstelle zwischen zwei unvereinbaren Theoriebausteinen hinwegtäuschen. Härings wertethischer Ansatz steht im Widerspruch zu der suárezianischen Tradition, der er sich an diesem Punkt noch verpflichtet fühlt. Wenn allein der in der Offenbarung festgehaltene Wille Gottes die objektive Sittennorm enthält, erscheint es logisch unvermeidbar, dass der immanente Geltungsgrund des sittlichen Wertes zu einer nur vorläufig gültigen subjektiven Verpflichtungsregel herabgestuft wird, was 46 Vgl. a.a.O., 261. Vgl. dazu B. Schüller, Sittliche Forderung und Erkenntnis Gottes. Überlegungen zu einer alten Kontroverse, in: ders., Der menschliche Mensch. Aufsätze zur Metaethik und zur Sprache der Moral, Düsseldorf 1982, 28-53, bes. 32f. 47 30 EBERHARD SCHOCKENHOFF jedoch den eigentlichen Intentionen der Wertphilosophie zuwiderläuft. Das theoretische Schwanken in der Frage, worin der eigentliche Verpflichtungsgrund sittlicher Normen besteht, meint jedoch nicht, dass Häring den praktischen Sinn einer wertethischen Begründung moralischer Normen am Ende wieder in Frage gestellt hätte. Vielmehr sieht er darin einen geeigneten und zu seiner Zeit hilfreichen Weg, um den Gefahren einer allzu engmaschigen Verbotsmoral zu entgehen, die dem moralischen Leben mehr schadet als nützt. Deren größter Fehler liegt seiner Ansicht nach darin, dass sie die Bereitschaft zu Kreativität und Wagnis durch ein starres Regelwerk erstickt. „Wer nur auf die formulierte Norm schaut, ohne den begründenden Wert zu meinen, wird zu einer toten, nur gesetzlichen Sittlichkeit kommen.“48 Die Inadäquatheit moralischer Normen rührt nicht nur daher, dass sie im Einzelfall nicht einschlägig sind oder von dem betreffenden Subjekt nur unvollkommen erfasst werden. Sie findet ihren letzten Grund vielmehr darin, dass eine satzhaft formulierte Norm den immanenten Wertcharakter des Guten niemals angemessen ausdrücken kann. „In Wirklichkeit ist der in der Norm aufgegebene Wert immer unendlich reicher, als es auch die beste Formulierung der Norm ahnen lassen kann.“49 Die bleibende Unangemessenheit moralischer Normen kommt auch darin zum Ausdruck, dass diese dem Menschen die Wertordnung nur umrisshaft und in Allgemeinbegriffen vor Augen stellen können. Eine praktisch wirksame Werterkenntnis, die in einer konkreten Situation handlungsleitend werden kann, erfordert jedoch immer die Fähigkeit des richtigen VorziehenKönnens,50 da kein geschaffener Wert den Menschen unabhängig von der Wertordnung im Ganzen so fordert, dass er nicht zu einem anderen in Konkurrenz treten könnte.51 Damit stehen wir vor einer dritten Aufgabe, zu der Häring mit seinen moraltheologischen Überlegungen anleiten möchte: einer angemessenen 48 49 50 51 A.a.O., 268. Ebd. Vgl. a.a.O., 263. Vgl. a.a.O., 324. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 31 Einschätzung der jeweiligen Situation durch das individuelle Gewissen. 3. Situation und Gewissen Das Bestreben derjenigen Moraltheologen, die sich in den 50er-Jahren des 20. Jahrhunderts für eine Öffnung ihres Faches gegenüber den Fragestellungen der zeitgenössischen Ethik einsetzten, war auf eine Vermittlung von personaler Situationsethik und allgemeiner Wesensethik gerichtet. Sie suchten nach einem dritten Weg zwischen einer essentialistischen Wesensethik und einer radikalen Situationsethik, die jeden überindividuellen Anspruch des Sittlichen leugnete.52 Häring schließt sich in der Phase von „Das Gesetz Christi“ diesen Bemühungen ausdrücklich an, wobei er gegenüber seinem Tübinger Lehrer Theodor Steinbüchel und Karl Rahner, den beiden bedeutendsten Wortführern dieses Anliegens im deutschsprachigen Raum, durchaus eigenständige Akzente setzt. Während nämlich Steinbüchel die Bedeutung der Situation von der Singularität der jeweiligen Ich-Du-Relation und dem Reichtum des einzelnen Augenblicks her begründet, um diese individuelle Situation sodann mit der gemeinsamen historischen Situation zu verbinden, in der sich das Wesen des Menschen geschichtlich erschließt,53 setzt Häring auch in dieser Frage auf die Hilfe der Wertphilosophie. Da der sittliche Wert einer Einzelhandlung nicht allein von einem einzigen infrage stehenden Wert, sondern immer nur „von den wertbegründenden Beziehungen zum Wertganzen, von der Stellung in der Wertordnung“54 her zu beurteilen ist, erschließt sich ihm die sittliche Bedeutsamkeit der Situation über das reziproke Verhältnis, in dem die Werte zueinander stehen. 52 Ein typischer Vertreter dieser radikalen Variante der Situationsethik war Eberhard Grisebach mit seinem Buch „Gegenwart, eine Kritische Ethik“, Halle 1928. 53 Vgl. dazu Th. Steinbüchel, Die philosophische Grundlegung der katholischen Sittenlehre, Düsseldorf 1938, 242-255. 54 B. Häring, Das Gesetz Christi, Bd. I, 325. 32 EBERHARD SCHOCKENHOFF So möchte er das klassische Lehrstück von den fontes moralitatis aus den Fesseln einer „allzu starre(n) rationalistische(n) Wesensethik“55 befreien und gewissermaßen „verflüssigen“, indem er unter dem Begriff der „Situation“ alle moralisch relevanten Umstände einer Handlung zusammenfasst. Gemäß dem scholastischen Axiom actus specificantur ab obiecto gibt der gegenständliche Wert einer Handlung (also das obiectum materiale) zwar den „ersten Ausschlag für ihre sittliche Beurteilung“56, doch ist von dieser gegenstandsbezogenen objektiven Betrachtungsweise aus noch keine umfassende und endgültige Bewertung der Einzelhandlung möglich. „Zu einem Gesamturteil über die sittliche Qualität des Aktes aber ist der materielle Wert nicht für sich allein, sondern in der Situation mit all ihren Bestimmtheiten zu betrachten.“57 In gleicher Weise liest Häring den Grundsatz agere sequitur esse mit seinen durch die wertethische Brille geschärften Augen. Er entnimmt diesem Axiom die Forderung, dass immer „das ganze Sein, die allgemeine Wesenheit und die individuelle Wesensgestalt, das Seiende für sich und in der Situation“58 für die abschließende Bewertung des sittlichen Aktes heranzuziehen ist. Ebenso wie nämlich die eine, konstante Wesensnatur des Menschen real nur in der jeweiligen Verwirklichungsform existiert, die sie im einzelnen Menschen annimmt, muss die Bedingtheit und Formung durch die jeweilige Situation auch als eine unverzichtbare Bewandtnis der sittlichen Wahrheit angesehen werden. Innerhalb des Rahmens der allgemeinen Wesensnatur des Menschen und eines substantiellen Personbegriffs, der die individuelle Lebensgeschichte nicht in „eine Reihe von wesensunverbundenen Akten“59 auflöst, muss daher auch der Einmaligkeit und Unvertretbarkeit des Einzelnen Rechnung getragen werden. „Die allgemeinen Definitionen und Wesensgrundsätze können wohl die Grenzen abstecken, aber 55 56 57 58 59 A.a.O., A.a.O., Ebd. A.a.O., A.a.O., 331. 324. 326. 330. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 33 nicht den individuellen Reichtum der Person ausschöpfen.“60 Anders gesagt: Um diesem Reichtum gerecht zu werden, muss über die allgemeinen Wesensgrundsätze der Moral hinaus noch ein Weiteres in den Blick genommen werden, nämlich „das Unableitbare (und darum vom anderen nicht zu Beurteilende) der Einzelsituation, die gebildet wird vom Zusammentreffen eines individuellen Menschen mit der besonderen Gestalt der gegebenen Umstände“61. Die Beachtung der individuellen Umstände des Handelns darf allerdings nicht dazu dienen, sich dem Anspruch einer allgemeinen Norm im Sinne willkürlicher Selbstdispens zu entziehen. Dieser Gefahr einer einseitigen Situationsethik möchte Häring dadurch einen Riegel vorschieben, dass er das Ernstnehmen der Situation vom Ernst der persönlichen Berufung des Einzelnen her versteht. Die Unvertretbarkeit des Einzelnen meint ja keineswegs, dass er mit den anderen in keiner Weise vergleichbar wäre. Dass jeder an seiner Stelle in eigener Verantwortung zu handeln hat und dadurch dem Anspruch der jeweiligen Situation gerecht werden muss, gilt vielmehr für alle in durchaus analoger Weise. Der letzte Grund, warum wir Menschen in der jeweiligen Einmaligkeit unseres Tuns miteinander vergleichbar sind, erschließt sich Häring wiederum aus dem Prinzip der Nachfolge Christi. Im Sinne der Existentialethik Rahners, dessen Ansatz beim Individualwillen Gottes sich Häring ausdrücklich zu eigen macht, gibt es eine persönliche Berufung des Einzelnen, die innerhalb des Rahmens allgemeingültiger Normen über deren Anspruch hinausführt.62 Dieser Hinweis zeigt, dass die Betonung der jeweiligen Situation nicht eine periphere Forderung des christlichen Ethos ist; dieses Postulat ergibt sich vielmehr aus seiner strukturellen Besonderheit gegenüber einer an allgemeingültigen Mindestforderungen orientierten natürlichen Moral. In einer 60 A.a.O., 326. A.a.O., 331. 62 Vgl. K. Rahner, Situationsethik und Sündenmystik, in: StZ 145 (1949/50) 330-342, bes. 336. 61 34 EBERHARD SCHOCKENHOFF christologischen Nachfolge-Ethik wird die Situation eben deshalb bedeutsam, weil hier nicht zuerst allgemeine Normen, sondern das Situative und Individuelle der persönlichen Berufung gefragt sind. Das bedeutet jedoch keineswegs, dass der sittliche Anspruch individueller Beliebigkeit ausgeliefert wird, denn niemand kann sich willkürlich irgendwelche Züge aus dem Leben Jesu zur Nachahmung aussuchen. An die Stelle einer solchen individuellen Auswahl, die zum Unterlaufen moralischer Grenzen verleiten würde, tritt in einer biblischen NachfolgeEthik vielmehr das Vertrauen auf die Führung des Geistes, der den Einzelnen in der jeweiligen Situation zum Tun des Guten anleitet, wie es seinen ihm angebotenen Fähigkeiten entspricht. Es ist der Geist, der jedem zuteilt, wie er will, und der den Glaubenden unter die fordernde Norm des konkreten Lebens Jesu stellt. Da viele der Taten Jesu nicht kopierbar sind, während andere nur analog nachgebildet werden können, erfordert eine personale Nachfolge-Ethik die Fähigkeit, zur kreativen Erschließung der jeweiligen Handlungsmöglichkeiten, die sich in einer gegebenen Situation eröffnen, wenn wir sie mit den Augen Jesu betrachten.63 Um der Gefahr individueller Beliebigkeit zu entgehen, geben die folgenden Klugheitsregeln eine Hilfestellung zur verlässlichen Gewissensbildung: Sie erinnern nach Häring erstens daran, dass „der Ruf der Stunde (des kairos) nie ein Unterschreiten der allgemeinen Wesensforderung erheischt, sondern stets zu einem Überbieten der untersten Grenze drängt“.64 Zweitens ist aufgrund der Heilssolidarität aller Gläubigen, ja aller Menschen überhaupt zu beachten, dass „alle individuellen Gaben und der Reichtum der aus der Situation zu erkennenden Werte auf das allgemeine Beste hingeordnet sind“.65 Schließlich kann drittens eine selbstkritische Überprüfung der eigenen Handlungsmotive davor bewahren, den Auftrag der Situation mit dem Weg des geringsten Widerstandes 63 64 65 Vgl. B. Häring, Das Gesetz Christi, Bd. I, 267. A.a.O., 334. Ebd. PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 35 und der Suche nach dem größtmöglichen Vorteil für sich selbst zu verwechseln. V. Kritische Würdigung Die begrenzte Perspektive dieses Beitrags, der nur der Anlage und den Einzelthemen des fundamentalethischen Konzeptes von „Das Gesetz Christi“ gewidmet ist, lässt es nicht zu, ein Urteil über Härings Gesamtwerk oder gar seine theologische Lebensleistung abzugeben. Dies ist aus berufenerem Mund andernorts bereits ausführlich geschehen. Daher können sich einige abschließende Bemerkungen auf die Frage beschränken, welchen Beitrag Häring mit seinem Handbuch zur Erneuerung der Moraltheologie nach den späteren Vorstellungen des Konzils zu seiner Zeit geleistet hat. Hält man sich die Zielvorgabe aus dem „Dekret über die Ausbildung der Priester“ (Optatam totius) vor Augen, wonach die Moraltheologie „reicher genährt aus der Lehre der Schrift, in wissenschaftlicher Darlegung die Erhabenheit der Berufung der Gläubigen in Christus und ihre Verpflichtung, in der Liebe Frucht zu tragen für das Leben der Welt, erhellen soll“ (Art. 16), so zeigt sich: Zweifellos fühlte sich schon Häring diesen Desideraten verpflichtet, als er mit der Ausarbeitung von „Das Gesetz Christi“ begann. Der formale Rahmen einer christologischen Nachfolge-Ethik, die bibeltheologische Fundierung wichtiger Einzelthemen, insbesondere der Lehrstücke von der sittlichen Freiheit, dem moralischen Gesetz, den göttlichen Tugenden und dem sittlichen Gewissen sowie die Einbeziehung der paulinischen Charismenlehre in den fundamentalethischen Gesamtplan dokumentieren die Entschlossenheit, die Moraltheologie als Offenbarungswissenschaft von deren Zentrum, der Heiligen Schrift aus zu konzipieren. Durch die Öffnung seines Faches für die Fragestellungen der zeitgenössischen Philosophie und die Einbeziehung wichtiger Forschungsergebnisse der damaligen Humanwissenschaften (der Psychologie, der Pädagogik und der Pastoralmedizin sowie innerhalb der sozialen und politischen Ethik auch der Staatsund Gesellschaftswissenschaften) greift Häring den Wunsch nach einer zeitgenössischen wissenschaftlichen Darstellungsform auf. Zumindest was die thematische Weite und die Vielfalt 36 EBERHARD SCHOCKENHOFF der verarbeiteten Perspektiven anbelangt, wird er damit der Doppelforderung des Konzils nach einer biblischen Inspiration und einer wissenschaftlichen Darlegung auf dem Stand der Zeit auch in ihrem zweiten Teil gerecht. Schließlich sind der ekklesiologische Charakter und die pastorale Ausrichtung dieses Werkes aus damaliger Sicht für ein moraltheologisches Handbuch ungewohnt und neu. Sie verleihen Härings Moraltheologie Lebensnähe, spirituellen Tiefgang und einen Sinn für das Mögliche, der gleichwohl nicht um den Preis einer Aufweichung der kirchlichen Morallehre erkauft ist. Dennoch ist die Entwicklung sehr bald nach dem Konzil über Härings ersten Ansatz in „Das Gesetz Christi“ hinweggegangen. Dazu haben sicherlich auch ein aus heutiger Sicht bisweilen pathetisch wirkender Sprachstil und ein gewisser Eklektizismus in der Stoffverarbeitung beigetragen; ebenso wurden manche schon absehbaren Konflikte durch harmonisierende Versöhnungsformeln nur vordergründig entschärft. Eine kritische Würdigung des fundamentalethischen Ansatzes von „Das Gesetz Christi“ führt deshalb zu einem paradoxen Ergebnis: Zweifellos war Häring, was seinen weltweiten Einfluss anbelangt, der wirkmächtigste Wegbereiter und Erneuerer der katholischen Moraltheologie vor dem Konzil. „Das Gesetz Christi“ war aus damaliger Sicht ein Zeugnis des Aufbruchs in eine noch ungewisse Zukunft, auch wenn es sich aus der Retrospektive, also fünfzig Jahre danach, als Dokument des Überganges darstellt. Häring hat in den Jahren nach dem Konzil selbst gespürt, dass die Herausforderungen der modernen Mediengesellschaft, die Krisenerscheinungen von Ehe und Familie und die Entwicklung des wissenschaftlichen und technischen Fortschritts, aber auch die Verschärfung innerkirchlicher Konflikte nach neuen Antworten verlangten. Die enorm gewachsene Perspektivenvielfalt der Forschungsansätze in allen Bereichen (nicht nur im Bereich der Humanwissenschaften und der philosophischen Ethik, sondern auch innerhalb der Theologie und ihrer Einzeldisziplinen) führen dazu, dass ein Einzelner diesen Erwartungen heute nicht mehr gerecht werden kann. Mehr denn je ist Moraltheologie zu einer Gemeinschaftsaufgabe geworden, deren Einlösung nur im Zueinander und Miteinander unterschiedlicher Ansätze, PATER BERNHARD HÄRING ALS WEGBEREITER EINER KONZILIAREN MORALTHEOLOGIE 37 Kompetenzen und Argumentationsformen gelingen kann. Es zeugt von der theologischen Kreativität und Arbeitskraft, vor allem aber vom Mut Härings, dass er nicht davor zurückschreckte, diese immense Aufgabe in der Zeit nach dem Konzil ein zweites Mal in Angriff zu nehmen. EBERHARD SCHOCKENHOFF, FREIBURG I.BR. StMor 42 (2004) 39-60 ÁLVARO CÓRDOBA C.Ss.R. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 1. FACTORES QUE LLEVARON A LA CREACIÓN DE LA ACADEMIA ALFONSIANA 1.1 El doctorado de san Alfonso 1.2 Los Capítulos Generales CSSR (1894-1947) 1.3 El contexto de la postguerra 2. ORGANIZACIÓN INICIAL DE LA ACADEMIA ALFONSIANA 2.1 Leonardo Buijs 2.2 Fundación y primeros cursos de la Academia Alfonsiana 2.3 Conceptos y directrices de Buijs —En febrero de 1949 nació la Academia Alfonsiana en Roma. Se cumplía un proyecto de la Congregación del Santísimo Redentor orientado a promover la herencia teológico-moral de su fundador, san Alfonso de Liguori, por medio de una institución universitaria. En las siguientes páginas queremos exponer los factores que contribuyeron a la creación de la Academia y la manera como fue organizada por el superior general Leonardo Buijs. 1. FACTORES QUE LLEVARON A LA CREACIÓN DE LA ACADEMIA ALFONSIANA Tres fueron los factores que se encadenaron lentamente durante ocho décadas para la fundación de la Academia Alfonsiana: el título de Doctor de la Iglesia conferido a san Alfonso, los cinco Capítulos Generales redentoristas tenidos en Roma entre 1894 y 1947, y el contexto posterior a la segunda guerra mundial. 40 ÁLVARO CÓRDOBA 1.1 EL DOCTORADO DE SAN ALFONSO Antes de iniciarse el Concilio Vaticano I, los superiores de los redentoristas pidieron al padre Jules JACQUES, que compendiara algunos textos de san Alfonso para que los obispos y teólogos participantes en el Concilio conocieran sus ideas a favor del papa, y así le fuera concedido más fácilmente el título de Doctor de la Iglesia. JACQUES publicó en 1869 el libro Du Pape et du Concile, ou doctrine complète de S. Alphonse de Liguori sur ce double sujet, del cual el superior general obsequió más de un centenar de ejemplares al papa y a los padres conciliares. Era evidente el interés del gobierno general redentorista en colaborar con la Santa Sede y en atraerse la benevolencia de los obispos participantes en el Concilio; 126 de éstos visitaron la casa general de los redentoristas (Villa Caserta), en la vía Merulana.1 En marzo de 1871, san Alfonso fue declarado Doctor de la Iglesia, título que se sumaba a los de fundador y obispo.2 Algunos opositores suscitaron polémicas,3 contra las cuales los redentoristas trataron de llevar adelante una defensa, sobre todo 1 Andreas SAMPERS, “Congregatio SS.MI Redemptoris et Concilium Vaticanum I, an. 1869-1870”, in Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris – SHCSR- 10 (1962) 426-428, 442; cf. Du Pape et du Concile, ou doctrine complète de S. Alphonse de Liguori sur ce double sujet, traités traduits, classés et annotés par le P. Jules Jacques, Vve H. Casterman, Tournai 1869, 701 p. 2 Cf. PIUS IX, Decretum urbis et orbis Inter eos qui fecerunt et docuerunt (Romae, 20 Martii 1871), in Acta Sanctae Sedis 6 (1870) 318-320; PIUS IX, Litterae apostolicae Qui Ecclesiae suae nunquam (Romae, 7 Iulii 1871), de Sancto Alphonso Maria de Ligorio titulo Ecclesiae Doctoris aucto, in ASS 6 (1870) 320-324; Giuseppe ORLANDI, “La causa per il Dottorato di S. Alfonso. Preparazione – Svolgimento – Ripercussioni (1866-1871)”, in SHCSR 19 (1971) 25-240, hic 26, nota 3: únicamente habían sido declarados Doctores de la Iglesia otros 17; A. SAMPERS, “Bestreben und erste Ansätze den hl. Alfons zum Kirchenlehrer zu erklären kurz nach seiner Heiligsprechung, 18391844”, in SHCSR 19 (1971) 5-24. 3 Antonio Ballerini, S.J., figura entre los teólogos que originaron debates: G. ORLANDI, “La causa per il Dottorato…”, 28 ss.: presenta la aceptación o rechazo de san Alfonso en diversos países. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 41 con la publicación de las Vindiciae alphonsianae4 y los manuales de teología moral,5 la traducción de sus obras y la publicación de diversas biografías6 y revistas como La Sainte Famille (1875, Francia) y El Perpetuo Socorro (1899, España). Justo es reconocer que la concesión del título de Doctor de la Iglesia a san Alfonso: a) ayudó a que los mismos redentoristas incrementaran la devoción y el conocimiento de su fundador; b) favoreció la expansión de la CSSR por diversos continentes, pues muchos personajes comenzaron a pedir misioneros al superior general; c) el clero y los seminaristas se interesaron más en la doctrina alfonsiana. 4 Cf. Vindiciae Alphonsianae seu Doctoris Ecclesiae S. Alphonsi M. de Ligorio Episcopi et Fundatoris Congregationis SS. Redemptoris doctrina moralis vindicata a pluribus oppugnantibus Cl. P. Antonii Ballerini, Soc. Jesu in Collegio Romano professoris, cura et studio quorundam theologorum e Congregatione SS. Redemptoris [Rudolf von Smetana], Ex Typ. Polyglota S. C. de Propaganda Fide, Romae1873, LXIII-957 p. (segunda edición en 1874, 2 vol.); G. ORLANDI, “La causa per il Dottorato…”, 61-64; Raphael GALLAGHER, “The moral method of st. Alphonsus in the light of the Vindiciae controversy”, in SHCSR 45 (1997) 331-349: las controversias se dieron sobre todo entre 1873-1875. 5 Cornelius SCHOLTEN, De kerkleeraarswaardigheid en de verheffing van den H. Alphonsus Maria de Liguori tot Kerkleeraar, F. H. J. Bekker, Amsterdam 1872, 507 p.; Anton KONINGS, Theologia moralis novissimi Ecclesiae Doctoris S. Alphonsi, in compendium redacta, et usui Venerabilis Cleri Americani accomodata, Typis Patricii Donahoe, Bostoniae 1874, X-898 p. (dos años después Benziger Fratres publican dos volúmenes, Neo-Eboraci / Cincinnati / S. Ludovici, Einsidlae 18762, editio altera, aucta et emendata); Clement MARC, Institutiones morales Alphonsianae seu Doctoris Ecclesiae S. Alphonsi Mariae de Ligorio doctrina moralis ad usum scholarum accomodata, 2 vol., ex typogr. Pacis, Romae 1885; Josef AERTNYS, Teologia moralis secundum doctrinam S. Alphonsi Mariae de Ligorio, 2 vol., H. Casterman, Tornaci 1886-1887; Opera moralia sancti Alphonsi Mariae de Ligorio Doctoris Ecclesiae, Teologia Moralis, 4 vol., cura et studio P. Leonardi Gaudé, ex typographia Vaticana, Romae 1905-1912. 6 Victorio LOYÓDICE, Vida del glorioso Doctor de la Iglesia S. Alfonso María de Ligorio, Fundador de la Congregación del Santísimo Redentor y Obispo de Santa Águeda de los Godos, Juan Aguado, Madrid 1874, 654 p.; Augustin BERTHE, Saint Alphonse de Liguori 1696-1787, 2 vol., Victor Retaux, Paris 1900. 42 ÁLVARO CÓRDOBA 1.2 LOS CAPÍTULOS GENERALES CSSR (1894-1947) Los Capítulos Generales son la más alta instancia jurídica y directiva de muchas familias religiosas. Los acá mencionados fueron realizados por la CSSR en Roma y a ellos se refiere Buijs cuando afirma que la Academia Alfonsiana tuvo su prehistoria.7 En el X Capítulo General CSSR de 1894, se lanzó la idea de crear una Schola Maior Generalis en Roma para sacerdotes redentoristas jóvenes que hicieran estudios de filosofía y teología. La idea era sembrar una fuerte inspiración alfonsiana que fuese transmitida posteriormente.8 Guillermo van Rossum, holandés y futuro cardenal, fue comisionado en 1895 para iniciar este proyecto con la ayuda de Juan Bautista Favre, pero no cristalizó.9 En 1909, el XI Capítulo General ordena que se establezca en Roma la Schola Maior con el nombre de Collegium Maius Sancti Alphonsi, para sacerdotes redentoristas jóvenes, que estudiaran sobre todo la teología moral por lo menos durante dos años, con la guía de un prefecto de estudios.10 Esta vez sí pudo organizarse, de modo que en el curso de 1909-1910 aparecen 26 estudiantes inscritos. Pero la obra se clausura en 1914, al comienzo de la primera guerra mundial. El XII Capítulo General de 1921 restablece el Collegium Maius Sancti Alphonsi in Urbe, para sacerdotes redentoristas jóvenes que estudien al menos durante dos años, bajo la guía de un director, en algún ateneo pontificio, pero que reciban clases 7 “Accademiae Alfonsianae cursus scholasticus die 21 Octobris 1951 a Sua Paternitate inauguratus”, in Analecta Congregationis SS. Redemptoris = Analecta CSSR 23/4 (1951) 151. 8 X Capitulum Generale anno 1894 Romae celebratum, n. 1354, in Acta integra Capitulorum Generalium Congregationis SS. Redemptoris ab anno 1749 usque ad annum 1894 celebratorum, ex typ. della Pace, Romae 1899, 671-672. 9 Cf. Cronica della Casa Generalizia del Santissimo Redentore, I, ms, in Roma, AGHR, 10 diciembre 1895, p. 405. 10 Acta integra Capituli Generalis XI Congregationis SS. Redemptoris Romae celebrati anno MCMIX, n. 1459, Cuggiani, Romae 1909, 23. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 43 internas sobre la doctrina de san Alfonso.11 La CSSR cumplió sus 200 años de existencia en 1932, ocasión que sirvió para evocar su historia y, en especial a su fundador. El XIII Capítulo General de 1936 recomienda al superior general que promueva la preparación de profesores de teología moral y que se empiece oportunamente el Instituto Alfonsiano de Moral en Roma para divulgar y defender la doctrina de san Alfonso, primero entre los redentoristas y después entre los no redentoristas; Cornelio Damen fue encargado de examinar las posibilidades.12 Entre tanto vino la segunda guerra mundial y nada se pudo llevar a la práctica. El XIV Capítulo General de 1947 le dio el impulso decisivo al proyecto de crear la Academia Alfonsiana. El Capítulo pide que a partir del año 1948 se ponga en práctica lo decidido en 1936, es decir: que se establezca un Instituto de Teología Moral, pues no existía ninguno especializado en esta disciplina.13 1.3 EL CONTEXTO DE LA POSTGUERRA En el contexto que sigue a la ‘segunda guerra mundial’, se dan varias coyunturas que podemos relacionar con la Academia 11 Acta integra Capituli Generalis XII Congregationis SS. Redemptoris Romae celebrati anno MCMXXI, n. 1554-1555, Cuggiani, Romae 1922, 68-70. Se sugería el Instituto Bíblico para la sagrada escritura, el Seminario Lateranense para derecho canónico y el Angélico para filosofía. 12 Acta integra Capituli Generalis XIII Congregationis SS. Redemptoris Romae celebrati anno MCMXXXVI, n. 1598 y 1605, Cuggiani, Romae 1936, 19-20, 25; en el n. 1605 se lee: “ut tales efformentur Professores Theologiae Moralis scientifice instructi, quales ratio temporis exigit, qui postea, apto tempore, incipiant Institutum Morale Alphonsianum a Congregatione tantopere desideratum”. Murray manifestó que era muy difícil, pero no imposible. 13 Acta integra Capituli Generalis XIV Congregationis SS. Redemptoris Romae celebrati anno MCMXLVII, n. 1658, Cuggiani, Romae 1948, 45; cf. CAPITULUM GENERALE (Romae 1947), Postulata, “De Facultate Theologiae Moralis Alphonsianae instituenda”, in Roma, biblioteca del AGHR, K 14,3, copia dactilografiada, folio 009; AGHR, DG Collegium Maius: postulado de Damen al Capítulo de 1947; “Aliquae Capituli Generalis a. 1947 declarationes”, en Analecta CSSR 19 (1947) 196, n. 31. 44 ÁLVARO CÓRDOBA Alfonsiana. Señalemos sólo tres: Coyuntura política: se sufren las consecuencias de la segunda guerra mundial y se vive la tensión política internacional con la llamada guerra fría. Comienzan a funcionar dos organismos internacionales que irán tomando fuerza: la ONU en 1945 y la OTAN (NATO) en 1949. Naciones como Filipinas, Indonesia e India declaran su independencia en 1945; Italia se proclama república en 1946, e Israel se anuncia Estado en 1948. Comienza la guerra de Corea en 1950. Coyuntura eclesial: se siente el influjo de Pío XII con sus encíclicas Mystici corporis Christi (1943), Divino afflante Spirito (1943), y Mediator Dei et hominum (1947); en 1948 se funda el Colegio de San Pedro en Roma; el año 1950 se recordará por la definición del dogma de la Asunción. También es la época en la que se crea el Instituto de Ciencias Sociales en la Gregoriana (1951) y otro igual en el Angelicum (1955); en este mismo año se erige el Marianum; Juan XXIII inicia su pontificado en 1958 y al año siguiente convoca el Concilio Ecuménico Vaticano II. Coyuntura redentorista: en 1948 se recordaron los 200 años de la publicación de la Theologia moralis de san Alfonso;14 la CSSR festejó el segundo centenario de aprobación de sus reglas (1749-1949) y obtuvo la declaración de san Alfonso como patrono de moralistas y confesores (26 de abril de 1950).15 14 Cf. “In bi-centenarium magni operis moralis S. P. N. Alfonsi (17481948)”, in Analecta CSSR 20 (1948) 186-189. 15 Cf. PIUS XII, Breve Consueverunt omni tempore (Romae, 26 Aprilis 1950), Sanctus Alphonsus Maria de Ligorio, ep., c. et Ecclesiae Doctor, omnium confessariorum ac moralistarum coelestis patronus constituitur, in Acta Apostolicae Sedis 42 (1950) 595-597; Leonardo BUIJS, Circular Brevi Apostolico (Roma, 31 mayo 1950), en Analecta CSSR 22 (1950) 73-74; “Notulae historicae ad praecedens Breve Apostolicum”, in Analecta CSSR 22 (1950) 77-80; Serafino FIORE, “A cinquant’anni dalla proclamazione di S. Alfonso a patrono dei confessori e dei moralisti (1950-2000): un evento, un’eredità”, in SHCSR 48 (2000) 3: Pío XII proclamó a san Alfonso protector especial de los ministros de la reconciliación y de los estudiosos de la teología moral. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 45 2. ORGANIZACIÓN INICIAL DE LA ACADEMIA ALFONSIANA Como en la construcción de un edificio nuevo pero complejo, la CSSR encontró el arquitecto idóneo para iniciar la obra de la Academia en la persona de su nuevo y dinámico general: Leonardo Buijs. 2.1 LEONARDO BUIJS La vida de Leonardo Buijs16 se enmarca entre dos fiestas importantes de la Virgen: su nacimiento el día de la Inmaculada y su muerte el día del Perpetuo Socorro. Nació el 8 de diciembre de 1896 en Sommelsdijk, municipio de Middelharnis (Goeree en Overflakkee), Holanda meridional, diócesis de Haarlem. Sus padres, Quirino Buijs (1854-1940) y Guillermina Catalina Adriaense (1854-1928) eran agricultores. Leonardo fue el noveno de nueve hermanos; otro se hizo sacerdote diocesano y dos hermanas se unieron a las religiosas del Instituto de Nuestra Señora. Estudios Buijs ingresó en el seminario menor redentorista en 1909, después de asistir en su parroquia a una misión predicada por los hijos de san Alfonso. Pasó al noviciado de Hertogenbosch en septiembre de 1915 e hizo su profesión religiosa el 29 de septiembre de 1916. Estudió la filosofía y la teología en el seminario redentorista de Wittem (provincia de Limburg, Holanda) en el que tuvo como formadores y profesores a Bernardo Lijdsman, Luis Wouters, Guillermo Duijnstee y Cornelio Damen.17 16 Cf. Ibid., 11-58; nota 1: El apellido se escribe Buys (forma antigua) y Buijs (forma moderna); el padre Leonardo usa ambas formas; Henricus BOELAARS, “R.mus P. Leonardus Buijs, cultor theologiae moralis et pastoralis”, in SHCSR 4 (1956) 425-452; ID., “In memoriam Dris L. Buys C. SS. R., Sup. Gen. Redemptoristarum”, in Analecta CSSR 25 (1953) 81-82 (artículo publicado en De Tiid, 20 junio 1953: dirigió y aconsejó a muchos religiosos, sacerdotes y obispos). 17 Henricus NIEMANN, “R. P. Cornelius Damen (1881-1953)”, in Analecta CSSR 25 (1953) 113-115: de 1911 a 1914 estudió derecho canónico en San 46 ÁLVARO CÓRDOBA Buijs fue ordenado sacerdote el 11 de enero de 1922 y en el otoño de este mismo año fue enviado al Angelicum de Roma, donde obtuvo los doctorados en filosofía y teología en tres años. Uno de sus examinadores fue el célebre Réginald Garrigou–Lagrange. Su tesis de filosofía se tituló De obiecto formali proprio intellectus humani (123 páginas) y la de teología: De potentia obedientiali creaturae rationalis ad vitam supernaturalem clarae Dei visionis (45 páginas). El padre Damen le pidió colaborar con él en la preparación de la 11ª edición de la Theologia moralis de Josef AERTNYS,18 lo que permitió a Buijs profundizar en el método casuístico y en las cuestiones relacionadas con el derecho canónico. Experiencia docente Fue en el estudiantado redentorista de Wittem, donde Buijs afianzó su experiencia como docente. De 1928 a 1931 enseña sociología; de 1930 a 1945 teología moral y pastoral; de 19361946 teología espiritual y ascética. Su vida la pasó entre los libros, como quería su fundador. Escritos Buijs escribe corto y sustancioso: de los 176 escritos que Sampers le registra, 91 son artículos, 19 recensiones, 1 comentario, 1 sumario y 64 voces de enciclopedia. Colaboró especialmente en la revista teológico-pastoral Apolinar (Roma); fue profesor de teología moral, ascética, pastoral y sociología en Wittem; en 1921 llega a Roma como director del Colegio Mayor san Alfonso y profesor de teología moral en el Ateneo Pontificio de Propaganda Fide, donde, además, fue decano de la facultad de teología durante 14 años. 18 Josef AERTNYS, Theologia Moralis secundum doctrinam S. Alfonsi de Ligorio Doctoris Ecclesiae, 2 vol., Marietti, Taurinorum Augustae 192811, editio undecima quam secundum Codicem Juris Canonici nunc tertio ex integro recognovit C. A. Damen – I, p. VIII: “Superest demum ut hic publicas agamus gratias confratri nostro Leonardo Buijs, Phil. et Theol. Doctori, qui in hac editione accuranda et perficienda validissimus et solertissimus laborum socius nobis exstitit”. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 47 Nederlandse Katholieke Stemmen [Voces católicas de los Países Bajos]19, tratando argumentos de moral y pastoral (aborto, acción católica y asociaciones piadosas, actos humanos, amistad, conciencia, confirmación, continencia periódica, costumbres, cura animarum, derecho al secreto, derecho y justicia, esterilización, fraude, laicos, ley natural, matrimonio, neomaltusianismo, penitencia, política, puritanismo, quinto mandamiento, salario justo, socialismo, uso del dinero, trabajo pastoral de los laicos, virtudes, etc.). Las 64 voces para la enciclopedia católica holandesa De Katholieke Encyclopedie [Enciclopedia Cattolica] se refieren al amor a los enemigos, benignidad, buena fe, circunstancias, costumbres, culpa, doctrina moral de los jesuitas, dolo, duelo, juego, justicia, laxismo, liberalidad, militarismo, pecado, precio justo, principios reflejos, probidad, rapiña, restitución, relajación, robo, sabiduría, sedición, servicio militar obligatorio, sistema moral, solicitación, sumo bien, temor, teología moral casuística, teología pastoral, tiranicidio, usura, vicio, virtud, etc. Además, redacta artículos sobre: Acción Católica, apostolado de la pluma CSSR, ayuda mutua, baños, comercio ilegal, confesión, cultura del cuerpo, estudios de teología moral en Holanda, liturgia, lujuria, matrimonio en la Casti Connubii, personalidad cristiana, recreación, sexualidad de los jóvenes y adolescentes, teología de la misión, vestidos, visitas domiciliarias, etc. Inspirándose en san Alfonso, Buijs considera la moral como la doctrina de la salvación. Siendo la teología moral una ciencia práctica, usa sobriamente la casuística (sin la cual se cae en el rigorismo o en el laxismo), y la ensambla con la teología sistemática. Se interesa también por la medicina, la psicología, la sociología, la economía y el derecho (el que usa en muchos casos, separándolo claramente de la moral).20 19 Bajo este título fue publicada de 1901 a 1964, y a partir de 1965 con el de Theologie en Pastoraat. Varios redentoristas colaboraron en ella, y Buijs fue co-director durante once años y escribió 64 artículos y recensiones en dicha revista. 20 A. SAMPERS, “Bibliographia R.mi P.is Leonardo Buijs (1929-1949)”, in SHCSR 4 (1956) 453-461; cf. Maurice DE MEULEMEESTER, Bibliographie Générale des écrivains rédemptoristes, II, Imprimerie Saint-Alphonse, Louvain 1935, 59-60. 48 ÁLVARO CÓRDOBA Al escribir, Buijs aplicó la teología moral al campo pastoral, sobre todo a las costumbres, actos humanos, castidad, pecado, responsabilidad, precaución, concepto del cuerpo (masturbación), matrimonio (castidad conyugal, continencia periódica), derecho y justicia (salario familiar justo, contratos, valor del dinero, compras y ventas, negocios, confesión, cuestiones de la guerra…).21 Su doctrina pastoral se desarrolló sobre todo en tres campos: la liturgia pastoral, el ministerio de la predicación y la función de los laicos en la Iglesia.22 Las líneas fundamentales seguidas por Buijs en sus escritos de teología moral y pastoral fueron: a) el cristianismo, concebido como la religión que posee la doctrina y la disciplina de las costumbres; b) la frase de Pedro: “para que, muertos al pecado, vivamos para la justicia” (I Pedr. 2, 24); c) por la fe y los sacramentos; d) la sentencia de san Pedro Damián: “Nosotros como Iglesia”. Superior general CSSR En 1946, el nuevo superior provincial llama a Buijs a Amsterdam como consultor secretario. Por este tiempo el superior general es el irlandés Patrick Murray (1865-1959). Éste decide renunciar al cargo que ejercía desde 1909 y convoca el XIV Capítulo General CSSR para abril de 1947. La Provincia redentorista holandesa elige a Buijs como vocal. El 30 de ese mismo mes y año, es elegido superior general en la tercera sesión, con 51 votos sobre 69. Buijs no había sido superior local ni provincial, sino sólo profesor; lo que explica su preocupación por lo académico. 21 H. BOELAARS, “R.mus P. Leonardus Buijs…”, in SHCSR 4 (1956) 432- 443. 22 Ibid., 445-452; cf. L. BUYS – H. BOELAARS, De Katholieke Actie, Uitgeverij Foreholte te Voorhout, Amsterdam 1945, 85 p. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 2.2 FUNDACIÓN Y PRIMEROS CURSOS EN LA 49 ACADEMIA ALFONSIANA Para informarse “in situ” sobre la vida y obras de los redentoristas, Buijs emprende muchos viajes, los que aprovecha para buscar profesores y pedir apoyo para la Academia Alfonsiana.23 Como el edificio que primero se construye y luego se inaugura, así la Academia tuvo su fundación e inauguración en dos años diferentes: a) La fundación (año 1949) El 9 de febrero de 1949 parte el tren de la Academia Alfonsiana. Su piloto y sus técnicos le imprimen un impulso lento y suave.24 Los cuatro primeros profesores provenían: dos 23 Leonardus BUYS, “Epistula III” (Romae, 8 Septembris 1947), in Analecta CSSR 19 (1947) 203; cf. SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 21, 34: “De hoc instituto romano, studiis theologiae moralis excolendis destinato, R.mus Pater in suis peregrinationibus, propitiis occasionibus oblatis, libenter et diserte cum PP.bus in re competentibus collocutus est, nec omisit, epistolis datis et receptis, cum iis maxime tractare, quos professores instituti elegerat”; Álvaro CÓRDOBA CHAVES, “La Academia Alfonsiana: cincuenta años al servicio de la teología moral”, en Studia Moralia 37 (1999) 229-268; ID., “L’Accademia Alfonsiana: cinquant’anni al servizio della teologia morale”, in ACCADEMIA ALFONSIANA, Cinquant’anni di storia. Quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense, Edacalf, Roma 1999, 47-84, traduzione di Stella Padelli. 24 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus die 21 Octobris 1951 a Sua Paternitate inauguratus”, in Analecta CSSR 23/4 (1951) 151: “Die 9 Febr. 1949 Romae erecta est “Academia Alfonsiana (A.A.) de re morali” atque exinde cura huius instituti quaedam conferentiae ac lectiones de re morali, pastorali et ascetica habitae sunt. Sed professoribus in morbum incidentibus nondum pervenire licuit ad cursum regularem”; DOMENICO CAPONE, “Historia”, in Academia Alfonsiana, 1957-1982. A pontificia approbatione XXV anniversarium, curante Roger Roy, Pisani, Isola del Liri 1982, 74: confirma esta fecha cuando escribe: “El 9 de febrero de 1949 el Rmo. Padre Buijs ejecutaba el mandato del capítulo, en gran parte inspirado por él, y fundaba la Academia Alfonsiana como instituto privado”; ID., “Ratio studiorum. Academia Alfonsiana qua Instituti Superioris Theologiae Moralis”, in Academia Alfonsiana 1957-1982..., 95: “In Academia Alfonsiana, erecta Romae 9 februarii 1949, post biennium activitatis deminutae, experimenti causa, die 21 octobris 1951 cursus organicus de theologia morali inauguratus fuit”; cf. A. SAMPERS, “Quaedam de Academia Alfonsiana notitiae”, in 50 ÁLVARO CÓRDOBA de la Provincia CSSR de París: Germain Liévin (1892-1969) y Louis Vereecke (1920—); uno de la Provincia de Nápoles: Domenico Capone (1907-1995); y uno de la Provincia Suiza: Paul Hitz (1915-1974).25 Para comenzar, los nuevos profesores dan algunas clases y conferencias en el Colegio Mayor San Alfonso.26 De modo que los años 1949 y 1950 fueron sólo de exploración. Studia Moralia, II, Desclée & Socii / Editores Pontificii, Roma et al. 1964, 328; “L’Accademia Alfonsiana”, in CAPITULUM GENERALE XVII (Romae 1973), Relatio ad Capitulum de statu Congregationis, folio 82: “L’Accademia Alfonsiana è stata fondata nel 1949 dal Rev.mo P. L. Buijs, in esecuzione delle disposizioni dei Capitoli Generali C. Ss. R. del 1936 e del 1947”. 25 “De Academia Alfonsiana”, in Analecta CSSR 21 (1949) 9: “Hoc grave negotium R.mus P. Generalis statim post capitulum naviter aggressus est, deliberando cum viris peritis, et huic novae Academiae Alfonsianae idoneos Professores quaerendo. In praesenti res in tantum maturata est, ut cum certitudine dici possit, Deo ita volente, fore ut proximi anni 1950 mense Octobri haec Academia plene inaugurari possit. [...] Nemo enim ad hanc Academiam Alfonsianam admittetur, nisi sit Doctor vel saltem Licentiatus in theologia vel iure canonico. Licentiati possunt eodem tempore et lauream parare et cursus Academiae sequi. Intra annum scholasticum 1949-1950 iam nonnulli cursus habebuntur; cuius rei gratia ad minimum 4 Professores Romae erunt, saltem per aliquam anni partem, videlicet RR. PP. Liévin, D. Capone, Hitz, L. Vereecke”; cf. Cronaca della Casa Generalizia per l’anno 1946, II, liber 9 (1946-1950), ms, in Roma, AGHR, agosto de 1949, folios 10, 95, 116 y 117; “De Collegio Maggiore”, in Analecta CSSR 21 (1949) 192: Vereecke dio sus primeras clases sobre historia de la teología moral a los estudiantes del Colegio Mayor san Alfonso; Bernhard Häring estuvo medio año y viajó después de Pascua; Pr. MEERSCHAUT, “De Academia Alfonsiana”, in Analecta CSSR 29 (1957) 235: lo primero que Buijs pidió después del Capítulo, fueron profesores aptos; se dieron algunos cursos en 1949-1950; D. CAPONE, “Historia”, 74; “Accademia Alfonsiana”, in Orbis 8/36 (1976) 3: Vereecke nombrado profesor de la Academia el 6 de febrero de 1949. 26 SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 33-34: el número de estudiantes del Colegio Mayor pasó de 32 en 1947 a 61 en 1953; cf. “Domus generalitia amplianda”, in Analecta CSSR 21 (1949): se construyó el cuarto piso en la casa san Alfonso con veinte habitaciones nuevas para los estudiantes. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 51 b) La inauguración (año 1950) En 1950 san Alfonso es proclamado patrono de los moralistas y confesores. La ocasión es un estímulo para la Academia que se honra con su nombre, y Buijs la inaugura en las instalaciones del Colegio Mayor.27 El superior general indica la naturaleza y fin del nuevo Instituto, y presenta el programa para el año académico 1950-1951. Ratifica a los profesores Vereecke, Liévin, Capone, y Hitz, y añade a Edward Wuenschel, de los Estados Unidos.28 Año Académico 1951-1952 Del 7 al 27 de mayo de 1951 Buijs va a París, Bruselas y Luxemburgo, y conversa con tres futuros profesores de la Academia: Cornelio Moonen (Holanda), Bernhard Ziermann (Alemania) y Bernhard Häring (Alemania).29 “El año académico 1951-1952 comienza con un discurso pronunciado por Buijs el 21 de octubre de 1951, en el que traza el programa y el método de la Academia. Los estudios morales, decía el superior General, irán creando una nueva teología moral en cone- 27 El año anterior, Buijs había escrito una carta a los provinciales y viceprovinciales, Romae, 4 augusti 1949, en Roma, AGHR, carpeta Buijs: “Uti scitis [...] iterum in memoriam revocare intendo id quod in Analectis nostris huius anni iam nuntiatum est circa Academiam Alfonsianam quam speramus inauguraturum fore anno 1950. Itaque, si quidam iuniores Patres destinantur ulteriori studio Theologiae Moralis, expedit ut iam hoc anno Romam mittantur. Oportet enim ut prius licentiatum in Theologia vel Iure Canonico obtineant”. 28 Cronaca della Casa Generalizia per gli Anni 1950-59, II, liber 10, ms, en Roma, AGHR, p. 17; cf. A. SAMPERS, “Quaedam de Academia Alfonsiana notitiae”, 332-334; Pr. MEERSCHAUT, “De Academia Alfonsiana”, in Analecta CSSR 29 (1957) 235. 29 Cf. “Iter Rev.mi P. Generalis”, in Redemptoristarum Informationum Servitium – RIS 3/5 (1951) 113: Moonen y Häring dieron clases desde mayo de 1951 hasta la Pascua de 1952; Ziermann de la Navidad de 1951 hasta la Pascua de 1952; “Curia et domus generalitia”, in RIS 3/10 (1951) 133: llegan a Roma los nuevos profesores de la Academia: Pedro Fink (Argentina), Cornelio Moonen y Bernhard Häring. 52 ÁLVARO CÓRDOBA xión con la teología pastoral y la espiritual. Ante todo, se trata de formar profesores y de profundizar los estudios de teología hechos en universidades. Hay que separarla del derecho, complementarla con ejercicios prácticos y conseguir grados académicos. […] Serán profesores ordinarios: Germain Liévin, Cornelius Moonen, Bernhard Ziermann, Domenico Capone, Jan Visser, Bernhard Häring, Louis Vereecke, y Joseph Owens. El grupo de estudiantes estaba conformado por once redentoristas y algún externo”.30 El programa de 1951-1952 preveía los siguientes profesores y cursos: Liévin: Doctrina espiritual de san Alfonso; Moonen: Introducción a la teología moral y un seminario de casuística (de narco analysi, de leucotomia seu lobotomia praefontali); Häring: la conciencia, la prudencia y la virtud de la religión, y un seminario práctico sobre ética y teología moral no católica; Ziermann: cuestiones físico-morales, y un seminario sobre casuística del sexto mandamiento y el matrimonio; Capone: la doctrina de los santos Padres y de los escolásticos en las obras ascéticas de san Alfonso.31 Para Buijs, el trabajo prioritario de la Academia era formar profesores redentoristas de teología moral que ya hubieran estudiado o estuvieran estudiando teología en alguna universidad. Una vez formados, recibirían cursos de pastoral, ascética y mística. Los cursos de teología moral se debían articular por medio de clases y ejercicios prácticos, y en estrecha colaboración de 30 Á. CÓRDOBA CHAVES, “La Academia Alfonsiana…”, 237-238; cf. “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152-155; “Collegium Maius Anno Accademico 1951-52”, in Analecta CSSR 23 (1951) 160-161; Ian VISSER, “Academia Alfonsiana. Sermo inauguralis anni academici 1957-1958”, in Analecta CSSR 29 (1957) 239; D. CAPONE, “L’Accademia Alfonsiana: Istituto di Teologia Morale. 1. Fondazione e finalità”, in La Pontificia Università Lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri e dei suoi discepoli, PUL, Roma 1963, 310-312; ID., “Historia”, 75; SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam...”, 34-35. 31 Cf. “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 151-155: los profesores debían dar algunas clases en el Colegio Mayor san Alfonso. Mensualmente, un alumno de la Academia, guiado por un profesor, presentaba un caso de moral durante una hora ante todos los sacerdotes de la comunidad redentorista de vía Merulana. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 53 profesores y estudiantes. Se esperaba que alguna universidad romana concediera oportunamente los grados universitarios y que al consolidarse la Academia se recibirían alumnos no redentoristas.32 Buijs confiaba en el apoyo de toda la CSSR, por tratarse de un Instituto que consideraba muy útil para ésta y para toda la Iglesia.33 Año académico 1952-1953 El 22 de junio de 1952 inicia Buijs su tercer viaje al centro de Europa. Del 13 al 15 de julio va al seminario menor redentorista de Bonn y al estudiantado de Geistingen (Alemania), e intercambia ideas con los profesores acerca de la Academia Alfonsiana”.34 Pedro Fink, de la Provincia CSSR de Buenos Aires, comienza a dar clases en la Academia.35 2.3 CONCEPTOS Y DIRECTRICES DE BUIJS Academia Buijs concibió la Academia en el sentido más amplio, es decir, como un Instituto superior cuyo programa de estudio abarcara todas las disciplinas fundamentales y auxiliares, directa o indirectamente relacionadas con la moral o la ética: la ética cristiana, la teología moral católica (teórica, práctica, pastoral, ascética y mística, historia de la teología, moral general y especial, moral social), pedagogía, catequesis, etc.36 “Hay que subrayar — observa Capone — el paso del concepto de scuola, con lecciones de tipo institucional, al de accademia, con 32 33 34 35 36 Ibid., 152-153. Ibid., 155. “Iter Reverendissimi P. Generalis”, in RIS 4/7 (1952) 166. “Domus generalitia”, in RIS 4/10 (1952) 177. SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 34-35. 54 ÁLVARO CÓRDOBA un carácter de especialización. Es verdad que no se usa este término, pero sí está claramente implícito lo que significa en el programa de estudio para conseguir un conocimiento profundo una vez adquiridos los grados académicos. Téngase presente que hasta el Concilio Vaticano II no sólo no se hablaba de especialización, sino que, de ordinario, para ser profesor de teología moral se preparaba uno estudiando derecho canónico. Además, los manuales estaban dominados por la casuística. Esto hacía que la teología moral no tuviera identidad. Con el concepto de academia se trataba de establecer una investigación sistemática sobre tal identidad especial. A este fin concurría también la otra idea: ampliar el concepto de teología moral afirmando su continuidad con la vida espiritual o ascética y su funcionalidad en orden a la pastoral. Esto, por otra parte, estaba de acuerdo con el espíritu de S. Alfonso que había sido siempre contrario al minimalismo ético y que, además de una teología moral de los pecados a no cometer y del mínimo legal a observar, había escrito y trabajado por una vida integralmente cristiana para todos, tanto en el estado laical como en los estados de perfección. Naturalmente, en el concepto de academia, además de la búsqueda de la identidad propia y específica de la moral, cabía una instancia de profundización en las nuevas dimensiones que ofrecía el descubrimiento de la identidad de la moral”.37 Directrices de Buijs Entendidas así la Academia y la moral, Buijs establece varias orientaciones o criterios operativos: a) La esencia de la teología moral debe ser el evangelio, en el que se inspira el cristiano para seguir a Jesucristo y estar en 37 D. CAPONE, “Historia”, in Academia Alfonsiana..., 74-75; cf. “De Academia Alfonsiana”, in Analecta CSSR 21 (1949) 8: “Capitulum generale a. 1947 expressit desiderium, ut Romae quaedam “Academia Alfonsiana de re morali” erigeretur. Theologia moralis hic late sumitur, ita ut etiam pastoralem et ascetico – mysticam comprehendat. […] Academiae finis immediatus est formatio universitaria atque universalis Professorum harum disciplinarum”. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 55 comunión con Él.38 Teniendo en cuenta la Sagrada Escritura y la tradición de la Iglesia, la vida cristiana es: 1) comunicación con Dios, filiación divina y vida en el Espíritu; vivir en la caridad y de la caridad; 2) seguimiento y comunión con Cristo. De ahí que las características esenciales de la moral evangélica deben ser, en primer lugar, las virtudes teologales, especialmente la caridad divina que es la fundamental y el“vínculo de pefección”, y la imitación de Cristo.39 b) No se trata de una Academia de estudios exclusivamente alfonsianos, sino de estudios inspirados en san Alfonso, que abarquen toda la teología moral católica y respondan a los problemas de nuestro tiempo.40 c) La CSSR se asigna la misión de elaborar una nueva teología moral adaptada a nuestros tiempos y a las grandes necesidades de los sacerdotes dedicados al cuidado de las almas. El hilo conductor es la renovación de la teología moral como ciencia que orienta a la práctica de la vida cristiana.41 38 Leonardus BUIJS, “De theologia morali et sermone montano”, in ACADEMIA ALFONSIANA, Studia Moralia, II, Desclée & Socii - Editores Pontifici, Roma - Paris – Tournai – New York 1964, 11-41. Orig. en el libro Theologische opstellen, opgedragen en aangeboden aan Mgr Dr G. C. van Noort (Commentaria theologica dedicata et dono oblata Mgri Dri G. C. van Noort), traducción al latín de L. Schils. El artículo, escrito en 1944 y ajustado a los estudios de la teología moral en los seminarios, presenta los puntos fundamentales que le sirvieron a Buijs para la Academia Alfonsiana; subraya temas como el de la doble ley moral (- la ley natural de la razón o ley moral natural, y - la ley sobrenatural de la fe o ley evangélica), las virtudes teologales, la centralidad de la caridad, la metodología y el objetivo de la moral. 39 L. BUIJS, “De theologia morali et sermone montano…”, 27-28, 30-31, 35. 40 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152; SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 36; L. BUIJS, “De theologia morali et sermone montano…”, 37-38. 41 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152; Cf. Séan O’RIORDAN, “Il teologo moralista nell’Accademia Alfonsiana”, in StMor 33 (1995) 46-51; I. VISSER, “Academia Alfonsiana. Sermo inauguralis...”, 239; L. BUIJS, “De theologia morali et sermone montano…”, 32-33: “Nam in moralitate Scripturae et Patrum non regnat illa virtutis idea, neque illae series virtutum quae in ethica antiquorum commendantur, sed nova Evangelii mora- 56 ÁLVARO CÓRDOBA d) La doctrina moral debe separarse netamente del derecho canónico y asumir la clara impronta teológica, que hoy aparece escasamente sobre todo en los manuales.42 e) Los estudios de moral, ampliamente entendidos, incluyen toda la vida cristiana y, por consiguiente, el estudio de la teología pastoral y espiritual (ascética y mística).43 Se debe adoptar el método integral, pues entendida la doctrina moral como el conjunto de la doctrina cristiana, hay que incorporarle la teología moral positiva (bíblica y patrística), la sistemática (Santo Tomás) y la casuística (san Alfonso). Santo Tomás y san Alfonso serán los dos guías. Como textos convendría usar la Suma teológica de santo TOMÁS para la moral sistemática, y la Teología moral de san ALFONSO para la moral casuística; las obras de pastoral y ascética de éste sirven para la teología pastoral y espiritual, en las que conviene iniciar a los alumnos con mucho esmero.44 Se ve cómo la línea seguida por Buijs era el engranaje de la teología teórica y la práctica.45 litas suum habet ethos, quod novis virtutum operibus, novis animarum dispositionibus novoque spiritu manifestatur. Haec est morum disciplina poenitentiae usque ad martyrium, est virginitatis et continentiae, evangelicae simplicitatis et veritatis, est ethica earum dispositionum quae in Sermone Montano beatificantur, caritate demum cum inexhausta serie earum qualitatum quae eam ornant. Patet, hic valere novam normam novumque ideale, quod non tollit quidem illud ideale mere humanum, sed umbra quasi obruit. Quodsi hoc ethos et elementa quae in eo continentur, proponere velimus ea praecisione eoque systemate quae theologiae propria sunt, opus erit nos cum S. Thoma proficisci a doctrina evangelica de novo homine. Novus homo iuxta Evangelium in operibus suis et in motu et motivis quibus ad agendum impellitur, non tantum agnoscit normam rationis naturalis, sed et aliam sublimiorem quandam regulam nempe fidei et legis divinae”. 42 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152. 43 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152; H. BOELAARS, “R.mus P. Leonardus Buijs…”, 444. 44 “Academiae Alfonsianae cursus scholasticus...”, 152-153; L. BUIJS, “De theologia morali et sermone montano…”, 38, 40; cf. Á. CÓRDOBA CHAVES, “La Academia Alfonsiana…”, 237. 45 SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 15; H. BOELAARS, “In memoriam Dris L. Buys…”, 81-82: “Linea principalis totius eius actionis erat coniugium inter theologiam et curam animarum. […] Tractatio theologiae LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 57 Por eso, figura como teólogo experto en teología moral y pastoral, además de profesor competente y actualizado, fiel a la Iglesia y a la revelación.46 En 1953 Buijs propuso dos cursos dirigidos por profesores de la Academia, para los redentoristas: uno para jóvenes formadores y otro para misioneros; éstos debían conocer mejor la misión según las exigencias del tiempo. También deseaba un manual de ejercicios espirituales al estilo de los de San Ignacio de Loyola. La intención era clara: acoplar la teoría con la práctica apostólica.47 Al iniciarse el generalato de Buijs, había en la CSSR 23 Provincias y 30 Viceprovincias con 6995 miembros profesos; cuando murió se habían erigido cuatro nuevas Provincias,48 ocho misiones, y el total de profesos escaló a 7724, aumentando en 729.49 moralis in connexione cum theologia dogmatica, ascetica, pastorali novos impulsus accepit. Renovatio methodorum missionalium, opus exercitiorum paroecialium et “stationum periferiae” atque eiusmodi alia ab eo incitabantur et claro intuitu theologali fines ponendos fortuitoque obvenientes delineationes cognoscevat”. 46 H. BOELAARS, “R.mus P. Leonardus Buijs…”, 452: “Pater Leonardus Buijs coram nobis astat theologus moralis et pastoralis in medio tempore mutante versatus. Quae docuit in provincia theologiae moralis magna parte hodie auctoritatem retinent, partim ipso iuvante ulterius maturuerunt. In theologia pastoralis primis ordinibus interest omnibusque pastoribus animarum etiam hodie viam sequendam indicat. Semper exemplum theologi moralis et pastoralis existit, quippe qui sciebat et opere se perspicere monstrabat, omnem actionem Ecclesiae ex eiusdem de revelatione divina sibi concredita notitia profluere eique intime coniungi. Tali enim modo ductus Spiritus Sancti, animae Corporis Christi Mystici, omnem operam omnium fidelium, membrorum. Eius, tam clericorum quam laicorum, imbuit et perfundit”. 47 SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 36. 48 Las Provincias redentoristas erigidas fueron: Buga-Quito (1947), Suiza (1948), Río de Janeiro (1951), y Oakland (1952). La CSSR también se estableció en Japón, Tailandia y El Líbano. 49 SOCII REDACTIONIS [CSSR]..., 25, 31; L. BUYS, “Epistula II – 2 Iulii 1947”, in Analecta CSSR 19 (1947) 185-192: entre otros asuntos, alude a la adaptación de la CSSR al momento presente y a su renovación, inspirándose en san Alfonso: “quantopere praesertim duo ultima magna bella faciem terrae et 58 ÁLVARO CÓRDOBA A Buijs se deben iniciativas como la del afianzamiento del Colegio Mayor, la dotación de la biblioteca de la casa san Alfonso en Roma con ocho mil nuevos volúmenes,50 la reorganización del archivo general, la fundación del Instituto Histórico Redentorista (1948)51 y de la revista Spicilegium Historicum CSSR (1953). Mientras Murray ejerció como superior general durante 38 años, Buijs duró sólo seis años y dos meses en ese cargo. humanitatis mutaverint” (p. 187); Ambrogio FREDA, “Meste parole” (elogio funebre in occasione del funerale per il P. Leonardo Buys – Pagani, 30 giugno 1953), in S. Alfonso 24/6 (1953) 101: “La sua opera non ebbe più quello sfarzo e quella esuberanza di espressione che contradistinse l’inizio del suo governo, ma fu profonda. La creazione delle nuove Provincie, il primo Congresso di Storia della Congregazione e l’Istituto Storico della Congregazione che ne nacque, l’Accademia Alfonsiana istituita a Roma, l’incremento del Collegio Maggiore a Roma, lo sviluppo dato alle Case di formazione, la nuova Commissione per l’edizione critica delle opere di S. Alfonso, la proclamazione di S. Alfonso a Patrono dei Moralisti e dei Confessori, la nutrita partecipazione dei Redentoristi ai Congressi internazionali Mariano e Mariologico nel ’50, l’apprezzato contributo al Congresso internazionale dei Religiosi a Roma e in America... sono tutte pagine della nostra storia, che si rifanno a Lui, come ad iniziatore, animatore vigoroso”. - Buijs también favoreció la reedición de la Theologia moralis de San Alfonso dirigida por Gaudé, y la edición de varias obras populares del Fundador. 50 SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 33: Douglas, Gaudé, y Reuss habían comenzado a organizar la biblioteca; Buijs llamó a Brill, belga, que trabajó de 1947 a 1949, y a Andreas Sampers, holandés, quien trabajó desde 1949; el brasileño Roriz ayudó un poco. 51 Cf. Analecta CSSR 20 (1948) 5, 51-60; SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 40-42: Buijs promovió los estudios históricos, pues estaba convencido de que no se pueden adaptar las cosas sin una investigación histórica sólida sobre el origen y evolución de cada elemento; quería que se conociera nuestra Congregación en su ser y su hacer. En 1948 se tuvo en Roma el primer congreso de historiadores redentoristas, cuyo primer fruto fue la fundación del Instituto Histórico Redentorista (1948) bajo la dirección del belga Maurice de Meulemeester. Éste fue nombrado director del Archivo general y el padre francés Juan Gautier su colaborador. En 1951 Andreas Sampers, quien era ya prefecto de la biblioteca, sustituyó a De Meulemmeester. LEONARDO BUIJS Y LA ACADEMIA ALFONSIANA DE TEOLOGÍA MORAL 59 Muerte de Buijs Buijs tenía que ir a un congreso que se verificaba en Alemania. Cuando salió de Roma el 21 mayo 1953, se sentía muy mal de salud. El viaje se le convirtió en un suplicio tan doloroso, que, al llegar a la ciudad austríaca de Innsbruck lo tuvieron que hospitalizar y operar de ‘pancreatitis purulenta’; murió a los pocos días, el 27 de junio.52 Sus restos fueron llevados a Holanda. La Academia continúa Los proyectos de Buijs sobre la Academia Alfonsiana no se realizaron, pero la experiencia de los años iniciales fue preciosa para su continuación y perfeccionamiento.53 Quienes conocieron a Buijs, escribieron: “Multa incepit, plura facere cogitavit, pauca complere potuit” [Planeó y comenzó muchas obras, pero pudo terminar pocas].54 52 Cf. Ibid., 18, 42-45: en una comunicación desde Innsbruck, él mismo anuncia su grave estado de salud: Uti probabiliter (27 mayo 1953); BOELAARS, “R.mus P. Leonardus Buijs…”, 452; H. NIEMANN, “De ultimis defleti Rev.mi P. Generalis diebus terrestribus relatio”, in Analecta CSSR 25 (1953) 172-179; “La morte del Superiore Generale dei Redentoristi”, in L’Osservatore Romano, Città del Vaticano, 30 giugno 1953, 2: artículo transcrito en Analecta CSSR 24 (1953) 79-81; A. FREDA, “Meste parole”, 99-102: consigliere del card. de Jong (primato di Olanda); ebbe parte nella elaborazione degli statuti dell’Azione Cattolica Olandese; diresse convegni e congressi sacerdotali; potè proteggere perseguitati ebrei. Ad Innsbruck il Signore lo fermò. 53 SOCII REDACTIONIS [CSSR], “In piam memoriam…”, 35: “Naturale erat, vastissimum hoc propositum nec primo nec uno anno perfici posse. Academia alfonsiana, aliqualiter initiata an. 1949-50, ideo primis duobus annis Scholasticis regularibus (1951-52, 1952-53) per modum experimenti, ut ita dicamus, gerebatur; delectus professorum non primu ictu fieri potuit, nec materia tractanda illico completa et ex omni parte absoluta esse potuit. Sed experientiae his annis collectae, sive ex parte docentium, sive ex parte audientium, pretiosae erunt pro continuatione e perfectione huius instituti, cui P. Generalis tantum dedicaverat affectum. Propter necessitates Capituli generalis, initio an. 1954 celebrandi, aliasque rationes nec opinate exortas, Academia alfonsiana an. scholastico 1953-54 remitti debuit”. 54 Ibid., 45: “Congregationem sancte amavit, pro eius omnimodo pro- 60 ÁLVARO CÓRDOBA En 1955 se celebró en Holanda un congreso de formadores redentoristas que respaldaron la continuación de la Academia. 55 Sobre esta base, el nuevo superior general Guillermo Gaudreau (norteamericano), hizo construir un nuevo edificio. De esta forma, la Academia Alfonsiana reabrió sus puertas en 1957, reconocida ahora por la Sagrada Congregación de Religiosos como “Escuela pública interna”, que podía acoger profesores y estudiantes no redentoristas. El 2 de agosto de 1960, fiesta de san Alfonso, fue incorporada a la Pontificia Universidad Lateranense, con autonomía en la especialización en teología moral y con derecho a conferir el doctorado en teología. La Academia Alfonsiana, que comenzó como una pequeña semilla plantada por Leonardo Buijs en la famosa colina del Esquilino en Roma, se ha transformado en un árbol que produce exquisitos frutos. ÁLVARO CÓRDOBA, C.Ss.R. gressu sincere adlaborans, propter corporis infirmitatem, et, fortasse etiam propter animi sui vehementem et impetuosam indolem qua incessanter agitabatur, velociter viribus consumptus in itinere ad officia sua explenda occubuit”. 55 Cf. A. S. [Andreas SAMPERS], “Primo convegno dell’Accademia Alfonsiana tenuto a Wittem, Olanda, dal 27 al 30 agosto 1955”, in Spicilegium CSSR 3 (1955) 461-463: participaron 33 representantes de los estudiantados redentoristas de Europa occidental; Julio DE LA TORRE, “La moral social en la enseñanza de la Academia Alfonsiana”, en Studia Moralia – StMor 20 (1982) 143: asegura que la Academia Alfonsiana comenzó a gestarse en un congreso con “inspiradores y actores holandeses”, como Buys, Wouters, Damen, Hartmann, Kremer, y De St. Martin. StMor 42 (2004) 61-62 LOUIS VEREECKE, C.SS.R. RICORDO DEL R.MO PADRE LEONARDO BUIJS, C.SS.R. (†1953) Il mio ricordo del Rev.mo Padre Leonardo Buijs non può pretendere di essere completo. Infatti, dei sei anni del suo generalato (1947 al 1953), ne ho trascorsi a Roma solo tre. Inizialmente come semplice studente, poi come giovane professore. C’era quindi una certa distanza tra noi. Si può dire che l’Accademia Alfonsiana fu la “pupilla dell’occhio” del Padre Buijs. Al Capitolo generale del 1947, in giugno, aveva delineato i tratti dell’erigenda Accademia, e già luglio si era messo personalmente alla ricerca di professori. Il primo contattato fu il Padre Domenico Capone, distintosi recentemente con le sue ricerche storiche su sant’Alfonso. Nello stesso mese, di passaggio da Dreux con il Padre Van Biervliet, il Padre Buijs si informò presso il corpo docente dello Studentato della Provincia di Parigi circa la possibilità di trovare professori per l’Accademia. L’8 settembre 1947, il P. Jean de Saint Martin, Provinciale di Parigi, mi avvertì di tenermi pronto ad eseguire gli ordini del Padre Generale, allora in visita ai Redentoristi della Cecoslovacchia. Alla fine di ottobre, il Padre Generale mi ordinò di recarmi a Roma per conseguire il dottorato in teologia all’Università Gregoriana. Egli seguì tutto il corso dei miei studi, e il 13 dicembre 1949 volle assistere alla difesa della mia tesi alla Gregoriana, cosa che fino ad allora i Generali non erano soliti fare. Si può dire che la ricerca di professori per l’Accademia fu una preoccupazione costante del Padre Buijs, durante tutto il suo generalato. In conformità con la specializzazione dei professori, ne fissava la materia d’ insegnamento. Per quanto riguarda in particolare il mio caso, nel novembre 1947 mi chiese di studiare le fonti della morale di sant’Alfonso, in altri termini di insegnare la storia della morale moderna. Il Padre Bernhard Häring ha ricordato in un articolo che il P. Buijs, invitandolo ad 62 LOUIS VEREECKE insegnare nell’Accademia, gli garantì piena libertà nella presentazione della morale. Ma ho anche saputo, e ne ignoro il motivo, che il Padre Buijs chiese al Padre G. Liévin di sottoporgli i corsi di spiritualità alfonsiana prima di darli. In agosto 1952 – mentre era in viaggio verso la Spagna, con il Padre García Pedrero – il Padre Buijs mi convocò a Lourdes e mi chiese di riprendere le lezioni all’Accademia per l’anno 19521953. Insieme stabilimmo la materia del mio corso. Il Padre Buijs si preoccupò che i professori fossero liberi da altri impegni, in modo da potersi dedicare a tempo pieno allo studio, e a tale scopo li collegò al Collegio Sant’Alfonso. Va segnalato anche l’aiuto loro dato mediante l’arricchimento della biblioteca, soprattutto per interessamento del Padre A. Sampers. Il Padre Buijs volle anche che gli studenti dell’Accademia Alfonsiana conseguissero i gradi universitari. Dopo un tentativo infruttuoso con la Gregoriana, egli ottenne il riconoscimento dei corsi che gli studente dell’Angelicum seguivano all’Accademia Alfonsiana. Certo, il Padre Buijs amava parlare con i professori della struttura, dei programmi, e dell’avvenire dell’Accademia Alfonsiana, ma aveva idee molto chiare su ciò che intendeva fare. Per conoscerne il pensiero bisogna esaminare i discorsi inaugurali da lui pronunciati negli anni 1950, 1951 e 1952. In particolare quello del 1951, che è certamente il più importante. Ma il Padre Buijs era anche Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore. Nel 1953, ebbi occasione di parlare a lungo con lui, dato che veniva spesso a passare il weekend a Frascati, dove mi trovavo ospite delle Suore di San Carlo. Parlandomi della necessità di aggiornare le Regole e Costituzioni per adattarle alle nuove condizioni del mondo, mi diceva: “Se non lo fanno i Superiori, lo faranno i Confratelli per conto loro”. Le circostanze non consentirono al P. Leonardo Buijs di realizzare tali suoi progetti, e sappiamo tutti come le cose andarono a finire. LOUIS VEREECKE, C.SS.R. StMor 42 (2004) 63-98 LORENZO ÁLVAREZ VERDES C.Ss.R LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA EN LA REFLEXIÓN TEOLÓGICO-MORAL POSTCONCILIAR. CRITERIOS HERMENÉUTICOS La Const. Dei Verbum 24, hablando de la teología en general afirma que “el estudio de la Sagrada Escritura debe ser como el alma de la teología”. La expresión “anima theologiae” es un aforismo que aparece ya en las Congregaciones generales de la Compañía de Jesús de 1600. Más tarde pasó a los manuales de Exégesis1, siendo finalmente asumida por los documentos oficiales de la Iglesia (León XIII, Enc. Providentissimus Deus2 y Benedicto XV, Enc. Spiritus Paraclitus3). En DV 24 la expresión “anima theologiae” es precedida por la partícula “como” (veluti)4 y por una serie de metáforas que circunscriben la función vital de la Sagrada Escritura en relación con la teología: en ella se apoya come sobre cimiento perdurable la teología, hace que ésta se mantenga firme, cobre fuerza, se rejuvenezca sin cesar, penetre en la verdad del misterio de Cristo. En el decreto sobre la formación sacerdotal (OT 16) se habla de la necesidad de “perfeccionar” la teología moral, haciendo que su exposición científica esté “más intensamente nutrida” por la doctrina de la Sagrada Escritura, con el objetivo de “mos- 1 Cf. R. CORNELY, S.J., Cursus Scripturae Sacrae. Historica et critica Introductio in Utriusque Testamenti libros sacros, 3 Vol., Paris 1885-87. IDEM, Compendium Introductionis, 2 Vol., ib. 1889. 2 EB 114: Illud autem maxime optabile est et necessarium, ut eiusdem divinae Scripturae usus in universam theologiae influat disciplinam eiusque prope sit anima” 3 EB 483. Hablando de la necesidad del uso de la Escritura, cita literalmente el texto de la Enc. Providentissimus Deus. 4 La Enc. Providentissimus Deus (EB 114) usa la partícula “prope” (prope sit anima), precedido de la afirmación de que el uso de la Sagrada escritura “influya” (influat) en toda la teología. 64 LORENZO ÁLVAREZ VERDES trar la excelencia de la vocación de los fieles en Cristo y su obligación de producir frutos en la caridad para la vida del mundo”. De este modo expresa el Concilio la voluntad de recuperar para la reflexión teológico-moral la riqueza fecundante y revitalizadora de la Sagrada Escritura. Esto era particularmente necesario tras el ajetreado iter del sistema de relaciones Biblia-Dogmática5, que había ido desde el predominio de la Sagrada Escritura a la dependencia total de la misma con relación a la Dogmática. Para los Padres efectivamente la reflexión teológica arrancaba directamente del texto bíblico, limitándose prácticamente a simples “comentarios” de los mismos, que ponían de relieve los contenidos de orden teológico y moral. Incluso en su estructura, estos tratados “teológicos” eran organizados, no según un orden sistemático, sino siguiendo el orden de los libros de la Biblia6. No es, pues, de extrañar que todavía al comienzo del Medioevo el profesor de teología siguiera siendo “lector in Sacra Pagina”7. Sin embargo, con la llegada de las “Summae”, la Dogmática fue independizándose cada vez más de la Biblia, recurriendo a ella prácticamente para encontrar argumentos con que “probar” las proposiciones recogidas en las Summae sea como tesis sea como problemas8, siempre con la convicción de que la “auctoritas” definitiva residía en la traditio viva (identificada de hecho con la autoridad de la Iglesia), que debía garantizar toda la verdad, incluso la de las proposiciones reveladas. La función “probatoria” de la 5 Cf F. RAMOS PASTOR, “Escritura y Teología”, en L. ALONSO SCHÖKEL, L., (Ed.) Concilio Vaticano II. Comentarios a la Constitución Dei Verbum sobre la divina revelación, BAC, Madrid 1969, 724-751. 6 Cf., por ejemplo, la obra agustiniana Enarrationes in psalmos. 7 No obstante aparecer en esta época englobado en la teología el estudio de la Sagrada Escritura, hay que reconocer que frecuentemente la Sagrada Escritura era más bien “ocasión” que “fuente” verdadera de la enseñanza de la Teología. 8 Los ”problemas” eran las cuestiones nuevas. Las llamadas “tesis” tenían el carácter de afirmaciones susceptibles aun de revisión y discusión. Los dogmas (o afirmaciones definitivamente sancionadas) no eran tratados en las Summae. Cf. H. DE LUBAC, Exégèse médiévale I, Desclée de Brouwer, Paris 1986, 56-66. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 65 Sagrada Escritura quedaría sistematizada en la conocida obra de Melchor Cano De locis theologicis9. El uso “probatorio” abría las puertas a la búsqueda de formulaciones bíblicas claras10, independientemente del análisis histórico y, lógicamente, de la carga vital que conlleva la revelación. Para ampliar sus horizontes, la teología bíblica tendría que dar un paso decidido, liberándose definitivamente del yugo de la dogmática, liberación auspiciada en 1787 por J. Ph. Gabler en su discurso de ingreso en la universidad de Altdorf11, y puesta en marcha, especialmente en el campo protestante, con una buena dosis de historicismo y racionalismo. 9 MELCHIOR CANO, De Locis Theologicis, Salamanca, 1563. El recurso “probatorio” a las citas bíblicas fue frecuente entre los rigoristas (s. XVII-XVIII), como FR. GENET, Theologia moralis juxta Sacrae Scipturae, Canonum & Ss. Patrum mentem, 6 vol. Venezia 1702 (Orig. franc. Théologie morale ou résolution des cas de conscience selon l’Écriture sainte, les canons et les saints Pères, 8 vol., Grenoble 1676-1780); J. BESOMBES, Moralis chistiana ex Scriptura sacra, Traditione, Conciliis, Patribus et insignioribus theologis excerpta, 8 vol. Toulouse 1709-1711. T. GONZÁLEZ DE SANTALLA, Fundamentum theologiae moralis, id est Tractatus theologicus de recto usu opinionum probabilium, Roma 1694. De estos autores decía FR. ANTONIO ZACCARIA que hacían de la Escritura un uso “vano e inútil”, destinado solamente a atacar a los probabilistas (De casuisticae theologiae originibus, locis atque praestantia, en: Theologia moralis, Ferrara 31755). 11 PH. GABLER, Oratio de iusto discrimine theologiae biblicae et dogmaticae, regundisque recte utriusque finibus. El texto de este discurso se puede leer en traducción alemana en el apéndice de la obra de O. MERK, Biblische Theologie des Neuen Testaments in ihrer Anfangszeit, Marburg 1972, 272-284. Sobre el tema remitimos a la importante obra de H.-J. KRAUS, La teologia biblica. Storia e problematica, Paideia, Brescia 1979. El autor ofrece una amplia exposición de las dificultades de sistematización con que se ha encontrado la teología bíblica tras su independencia de la Dogmática. En general, los autores no estaban de acuerdo en dejar sucumbir la teología bíblica en las redes del puro historicismo, que se limitaba a estudiar los datos del pasado en su singularidad histórica, sin prestar atención al conjunto del mensaje bíblico sobre todo desde la perspectiva unitaria del Antiguo y Nuevo Testamento. La bibliografía sobre el tema fue abundante sobre todo en los años 50’ y 60’, tanto en campo protestante ( cf. G. Von Rad, M. Kahler, V. Filson, C.H. Dodd, G. Ebeling) como en el católico (cf. los estudios de C. Spicq, F.M. Braun, R. de Vaux y H. Haag. Este último dedica amplio espacio al tema en la gran obra Mysterium Salutis . Vol I). 10 66 LORENZO ÁLVAREZ VERDES La independencia de la teología bíblica fue acompañada desde el principio por una marcada preocupación por los problemas ético-culturales. Los nuevos descubrimientos arqueológicos fueron despertando gran interés por penetrar en el espíritu (Geist) de las culturas antiguas, incluida la de Israel. De ahí la preocupación por los temas de moral bíblica, como lo demuestran las numerosas monografías en torno a la figura de Jesús o sobre el pensamiento ético paulino12. En el campo católico los nuevos horizontes de los estudios bíblicos no se presentaron tan luminosos. A los amargos resabios de la “sola Scriptura” dejados por la Reforma venían a juntarse ahora las sombras del racionalismo y del historicismo. Ello generó un muro de resistencia sistemática frente a todo intento de apertura a las nuevas corrientes bíblicas, como lo demuestra el caso del oratoriano Richard Simon (1638-1712) y, más tarde, del dominico M.-J. Lagrange (1855-1938)13. Este muro perduraría hasta el mismo Concilio Vat. II, principalmente durante la fase preparatoria; tras él se parapetó la corriente conciliar tradi- 12 J.I. BERGER, Versuch einer moralischen Einleitung ins Neue Testament für Religionslehrer und denkenden Christen, Leipzig 1798; G.L. BAUER, Biblische Moral des Neuen Testaments, 2 Bände, Leipzig 1804-1805; P. WERNLE, Der Christ und die Sünde bei Paulus, JCB Mohr, Freiburg i. Br. Leipzig 1897. Más tarde corregiría el autor algunas de sus tesis en su nueva obra Die Anfänge unserer Religion, Tübingen-Leipzig 1901; H. JACOBY, Neutestamentliche Ethik, Von Thomas & Oppermann, Königsberg 1899; H.FR. ERNESTI, Die Ethik des Apostels Paulus in ihren Grundzügen dargestellt, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1868; H. SLADECZEK, Paulinische Lehre über das Moralsubjekt. Als anthropologische Vorschule zur Moraltheologie des heiligen Apostels Paulus, Nationale Verlaganstalt, Regensburg 1899; A. JUNCKER, Die Ethik des Apostels Paulus (2 Vol), Max Niemeyer, Halle 1904, 1919; A.B.D. ALEXANDER, The Ethics of St. Paul, James Maclehose & Sons, Glasgow 1910; K. BENZ, Die Ethik des Apostels Paulus, Herder, Freiburg i. Br. 1912; G. STEUERNAGEL “Alttestamentliche Theologie und alttestamentliche Religionsgeschichte”, en: Festschrift Karl Marti (BZAW 41), Berlin 1925, 266273, hic 266. 13 Aun en 1971 podía escribir O. KUSS: “De hecho, después de Richard Simon no hay ni un solo libro publicado por católicos fieles a la Iglesia, que haya hecho época en la historia de la exegesis científica” (Paulus. Die Rolle des Apostels in der theologischen Entwicklung der Urkirche, Pustet, Regensburg 1971, 247). El autor enumera las causas concretas que impedí- LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 67 cionalista14 para rechazar las propuestas de la “nueva exégesis”, en las que algunos veían latentes las tesis de R. Bultmann y de su escuela. En tal sospecha se vieron englobados numerosos exegetas católicos, como R. Geiselmann15, y otros prestigiosos profesores de universidad, particularmente del Pontificio Instituto Bíblico16; de tales acusaciones fueron objeto incluso los Padres conciliares que pilotaron la lucha contra los esquemas De deposito Fidei pure custodiendo y De fontibus revelationis”17. A la Const. Dei Verbum, debemos el que los muros hayan en gran parte caído y los biblistas puedan acercarse al Dios de la an a los exegetas católicos trabajar en una manera científicamente válida. Esta dificultad la sentían de modo especial los autores que se arriesgaban a publicar “Manuales” de exegesis, como se puede ver en el Enchiridion Biblicum. En dic. 1923, por ejemplo, era condenado el Manuel biblique de los sulpicianos D. Vigouroux y D. Bacuez, en la edición refundida de D. Brassac (EB 497-504). Pocos años después se vería en la misma situación el Manual de Adriano Simón (redentorista). El Prof. Juan Prado, que acababa de aceptar el continuar con la obra, tras la muerte inesperada de A. Simón, se vería obligado, por indicación del Card. Van Rossum (Presidente de la Pont. Comisión Bíblica) a “retirar” todas las páginas del Manual referentes a la historicidad de los discursos joánnicos. Cf. L. ALVAREZ (ed.), Homenaje a Juan Prado, Miscelánea de estudios bíblicos y hebraicos, CSIC, Madrid 1975, 19-20. 14 Cf. el Monitum del Santo Oficio del 28.6.1961, destinado a prevenir a los Padres Conciliares contra el peligro de sucumbir a los peligros de la nueva exegesis. En él se podía leer: “... in variis regionibus sententiae et opiniones circunferuntur, quae in discrimen adducunt germanam veritatem historicam et obiectivam Scripturae Sacrae”, AAS 53 (1961) 507. 15 J.R. GEISELMANN, Die heilige Schrift und die Tradition. Zu den neueren Kontroversen über das Verhältnis der Heiligen Schrift zu den nicht geschriebenen Traditionen. Quaestiones disputatae, 18, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1962 (Trad. it.: La Sacra Scrittura e la Tradizione, Morcelliana, Brescia 1974, 99 ss.). 16 Sobre la focalización persecutoria y condenatoria de algunos centros en concreto, como el Pontificio Instituto Bíblico, cf. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei Verbum del Vaticano II. Il Mulino, Bologna 1998, 97 ss.; L. ALVAREZ VERDES: ”La Dei Verbum, una Constitución clave para la comprensión del Concilio Vaticano II”, StMor 41 (2003) 211-242; 17 El primero de estos esquemas ni siquiera llegaría a ser discutido en el Concilio. El segundo, oficialmente rechazado el 21 nov. 1962, sería sustituido por el nuevo texto de la Const. Dei Verbum. 68 LORENZO ÁLVAREZ VERDES revelación a “rostro descubierto”18. Ello ha permitido a la teología bíblica poner de relieve valencias sumamente importantes, tanto para la dogmática como para la moral, como el carácter personal (trinitario) de la verdad revelada, la historicidad, la importancia de la escatología, la esencial unidad del proyecto salvífico de Dios y, por tanto, la inseparabilidad de las dimensiones teológica y moral, el carácter indicatival de la moral cristiana, la centralidad de la responsabilidad en la configuración del modelo ético, la importancia de la conciencia, el nuevo horizonte moral de la ley de Cristo y la recuperación de las ideas de crecimiento y perfección morales. Tras la toma de posición del Concilio Vaticano II, esencialmente positiva y pastoral, sobre la interpretación y uso de la Sagrada Escritura, ya no es posible circunscribir el significado del aforisma “alma de la teología” al ámbito de una apologética centrada en el instinto de conservación, generadora de actitudes defensivas y combatientes, como dejaba traslucir la Enc. Providentissimus Deus, que contemplaba la Sagrada Escritura como instrumento para “afirmar y establecer lo que es objeto de fe y lo que de éste se deduce y … refutar las nuevas interpretaciones de los herejes”19. En este contexto el estudio de la Sagrada Escritura era considerado como el último retoque en la preparación de los futuros “abogados” de la verdad; de ahí la exigencia de garantías precisas para los candidatos: éstos deberían ser sacerdotes selectos y haber recibido antes el doctorado en teología20. Sin pretender negar importancia al papel de la Biblia en el orden cognoscitivo (afirmar-establecer-deducir- refutar), creemos 18 Cf. 2 Cor 3,18. La Pont. Comisión Bíblica adoptaría finalmente una posición de apertura con la Instrucción Sancta Mater Ecclesia, AAS 56 (1964) 712ss. 19 EB 114. 20 PIO X, Litt. Apost. Scripturae Sanctae, EB 152. Cf. Litt. Apost. Vinea electa, EB 287 . La Enc. Spiritus Paraclitus habla también de la necesidad de buscar en la Sagrada Escritura “el alimento conveniente a la vida espiritual” (EB 482) pero sin dejar de insistir a continuación en la función apologética (EB 483). LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 69 que la función de “alma” –con todas las matizaciones de la metáfora – hace referencia ante todo al “dinamismo vital”, que va más allá del orden especulativo-deductivo. Lo demuestra en modo evidente la Const. Dei Verbum al insistir en que la revelación debe ser entendida como invitación de Dios (en Cristo) a vivir en su compañía (DV 2). De ahí su insistencia en el carácter sacramental de la Biblia (objeto de una veneración semejante a la Eucaristía, DV 21) que, por lo mismo, debe ser alimento (pan) que “alumbre el entendimiento, ilumine la mente, confirme la voluntad, encienda el corazón” (DV 23). En este contexto se encuadra la exhortación a un más profundo conocimiento y a un uso redoblado de la Sagrada Escritura, que “rejuvenezca y dé nuevo vigor” a la reflexión teológica (DV 24). ¿En qué medida esta invitación, directamente referida a la teología en general, alcanza a la reflexión teológico-moral? Evidentemente, ni la teología bíblica puede identificarse con la teología dogmática21 ni la ética cristiana con la ética bíblica, como tampoco puede confundirse la moral bíblica con el “uso” que de la Sagrada Escritura debe hacer la ética cristiana. En nuestro estudio no pretendemos hacer un análisis directo de la vasta producción post-conciliar (estudios monográficos, manuales, documentos oficiales), empresa que requeriría un espacio mucho más amplio del de una simple conferencia. 21 H. HAAG sintetiza su pensamiento sobre la distinción entre teología dogmática y teología bíblica en los siguientes términos: “ Mientras que la teología bíblica se limita a los temas de la Biblia, la teología dogmática se encuentra en el deber de tener que abordar todos los temas que le son propuestos por la predicación y la doctrina actual de la iglesia y del pensamiento religioso contemporáneo, incluso aquellos que la teología bíblica no encuentra en base a la pura interpretación de los textos escrituristicos” (Mysterium Salutis. Grundriss heilsgeschichtlicher Dogmatik. Vol. I: Die Grundlagen heilsgeschichtlicher Dogmatik, Benziger Vlg., Düsseldorf 1965, 457). La teología bíblica sigue las huellas de la Biblia no solamente en cuanto a la selección de los temas, sino incluso en cuanto a la sistematización de los mismos. Aquí queda una amplio campo a disposición de los autores. Si se parte, por ejemplo, del relato de la creación, los conceptos clave seguirán el hilo conductor de Dios-creador. Si, en cambio, se pone como base la revelación de Dios en la intervención exódica, el concepto clave será el de liberación. 70 LORENZO ÁLVAREZ VERDES Queremos más bien focalizar nuestra atención en la identificación de los criterios hermenéuticos que, a la luz de la experiencia de los 40 años transcurridos después del Concilio, creemos que deben guiar a los moralistas en la elaboración de una ética cristiana que haga realidad la propuesta conciliar de que el estudio de la Sagrada Escritura sea el “alma” de la reflexión moral. I. ÉTICA CRISTIANA Y ÉTICA BÍBLICA Aunque en el lenguaje práctico no se haga especial distinción entre ética y moral, creemos que, a nivel gnoseológico, sea conveniente hablar de ética cristiana, más que de teología moral. Lo ético es anterior a la fe, como es anterior la estructura formal a los contenidos con que ésta se debe llenar después. El ethos representa el primer paso en la obra de “relleno” del cuadro de lo moral como estructura formal22. El ethos variará de acuerdo con los contenidos y las coordinadas en las que éstos se encuadran, siempre orientados a realizar lo “deseable humano”23. Sólo a este nivel se puede comenzar a hablar de teología moral, por 22 En términos zubirianos diríamos que el ethos se sitúa en línea con lo moral como “estructura”. La estructura del hombre como realidad implica el ser moral, pero un ser moral como estructura formal. En cuanto tal, lo moral es anterior a los contenidos (fruto de la razón práctica). La ética normativa, que establece los criterios y normas con los que se ha de llenar de contenido este cuadro formal, viene después. En este sentido, se puede llamar protomoral, no pre-moral, porque en el hombre en cuanto tal no existe un estadio pre-moral. El hombre que “tiene que ser” (plano metafísico), ligado a la felicidad, se siente por ello ob-ligado por el deber (J.L. ARANGUREN, “Moral como estructura, como contenido y como actitud”, D. GRACIA (Ed.), Ética y Estética, Trotta, Madrid 1996, 21-24. Lo ético, escribe X. ZUBIRI, tiene entre los griegos un sentido infinitamente más amplio que el que hoy damos a la palabra “ética”, Comprende, ante todo, las disposiciones del hombre en la vida, su carácter, sus costumbres y, naturalmente, también la moral. En realidad se podría traducir por “modo o forma de vida”, en el sentido hondo de la palabra, a diferencia de la simple ‘manera’ (Naturaleza, historia, Dios. Ed. Nacional, Madrid 1963, 207). 23 P. RICOEUR, “Tâches de l’éducateur politique”, Esprit 33 (1965) 78, lo llama lo “souhaitable humain”. X. Zubiri define la ética como el logro de LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 71 cuanto la fe cristiana introduce una modalización específica del ethos: para el creyente las coordinadas de lo “deseable humano” se identifican con las que Dios se ha propuesto para la realización del proyecto-hombre, tal como se ha revelado y plasmado en Cristo: Cristo “manifiesta plenamente el Hombre al propio hombre y le descubre la sublimidad de su vocación”24. Naturalmente esta inserción de la fe en la estructura del ethos alcanza a todos los niveles en que ése se despliega: desde la aceptación de la revelación de Dios en los libros sagrados hasta la adhesión a Cristo como encarnación utópica del ideal humano y, por tanto, como fuente y modelo de la propia praxis de vida. Este espesor teológico del ethos cristiano no justifica, sin embargo, a nuestro parecer, la inversión del orden de los elementos constitutivos del mismo, que parte de la estructura formal (ética) y sigue con los contenidos. De ahí nuestra preferencia, en principio, por la expresión “ética teológica”. La dimensión teológica del ethos cristiano afloraba fácilmente mientras la ética vivió unida a la dogmática, pudiéndose legítimamente hablar de “teología moral”. Las cosas comenzaron, sin embargo, a cambiar cuando la moral decidió separarse de la dogmática, para seguir el rumbo de las ciencias positivas25. Algo semejante podemos decir de la dimensión “bíblica”. En tiempos pasados (patrística, medioevo) el adjetivo “bíblico”, hablando de teología (dogmática o moral), podía aparecer superfluo e incluso tautológico, ya que todo estudio teológico arrancaba de la Biblia. Hoy día, sin embargo, el lexema “bíblico” tiene valencias específicas, por cuanto el estudio de la Sagrada Escritura se encuadra en un horizonte de comprensión mucho más vasto. Y esto por varias razones: en primer lugar, porque los “sustantividad humana integral y plenaria”, como recuerda J.L. ARANGUREN, o.c., 22. 24 J.G. ZIEGLER, “ ‘Christus der neue Adam’ (GS 22). Eine anthropologische integrierte christozentrische Moraltheologie. Das Vision des Vatikans II. Zum Entwurf einer Gnadenmoral”, StMor 24 (1986) 41-70. 25 J. VICO PEINADO, Éticas teológicas ayer y hoy, Ed. Paulinas, Madrid 1993, 63, comenta: Desde ese momento “ya no aparece con claridad que el compromiso ético surge de la identidad de la existencia cristiana y es parte integrante de la misma… La Biblia no es ya el alma de esta ética”. 72 LORENZO ÁLVAREZ VERDES avances de las ciencias (antropología, arqueología, historia), han hecho que el llamado sentido “literal” de los textos adquiera perfiles nuevos; en segundo lugar, porque el progreso de las ciencias del lenguaje, especialmente el estructuralismo, ha permitido trascender el ámbito restringido de la semántica del vocablo para centrar la atención en las “estructuras” parciales o totales: el „lexema“ no es considerado como mónada suelta sino como unidad de significado dentro del “tejido” relacional (texto); en tercer lugar, porque la nueva hermenéutica ha puesto de relieve que el sentido del discurso no se agota en la exposición del texto original en cuanto tal, sino que conlleva un “plus” de significado que los lectores han ido añadiendo al entrar en contacto con el mismo a lo largo de la historia (Wirkungsgeschichte); esta complementación de sentido del texto original comenzó en el momento mismo en que los primeros oyentes se apropiaron del mensaje a ellos dirigido, siguió durante el periodo de recepción durante la época del A.T. y continuó en modo especial con la irrupción del exegeta por antonomasia del N.T., Jesucristo26; el mismo proceso continuaría con los apóstoles y a lo largo de la historia de la Iglesia. Cuanto hemos dicho vale especialmente para la ética bíblica, cuyo objetivo es ofrecer una síntesis de la visión moral ofrecida por la Sagrada Escritura, teniendo en cuenta los diversos modelos en que el material ético se presenta: principios, categorías de valor, normas, paradigmas27. La ética cristiana, lo mismo que la teología dogmática, encuentra actualmente en la ética bíblica todo un arsenal (científicamente garantizado) del que no podía disponer en tiempos pasados, pudiendo recurrir a ella como a un nuevo “locus theologicus”28. Si en el pasado la teología moral no ha sido suficien- 26 Jn 1,10 dice que el Hijo, el único que ha visto al Padre, nos lo ha explicado (ejkei`noı ejxeghvsato). 27 A pesar de las diferencias mutuas, la moral bíblica se puede legítimamente llamar “moral” del mismo modo que se puede llamar “teología”, en cuanto, a la vez que representa una primera inteligencia del dato revelado, traza una visión del hombre y de su destino y el ideal de la vida cristiana. E. HAMEL, “L’usage de l’Écriture Sainte en théologie morale”, Gregorianum 47 (1966) 68). LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 73 temente bíblica, puede haberse debido precisamente a la falta de una ética bíblica científicamente convincente. Pero la ética cristiana, aun reconociendo el papel fundamental de la reflexión bíblica, sabe muy bien que sería una ilusión pretender encontrar en la sola Biblia la respuesta a todos problemas concretos de la vida del hombre actual, por ejemplo, en el campo de la sexualidad, de la bioética y de las relaciones individuales, sociales e internacionales. Para ello tendrá que contar con otras fuentes de conocimiento, como la razón, la experiencia y las ciencias positivas, empeñadas en una imparable carrera a la búsqueda de nuevos conocimientos y nuevos resultados. No obstante esta necesaria dependencia en relación con las ciencias “humanas”, la ética cristiana, si quiere ser fiel a su cometido esencial de configurar un ethos verdaderamente cristiano, deberá mantenerse en contacto vital con la fuente primaria, la Palabra encarnada, plasmada primero en el Cristo predicador y después en el Cristo predicado, que nos viene ofrecida en forma única e irrepetible en la Sagrada Escritura. ¿Cómo construir a nivel de reflexión moral la síntesis integradora? A nuestro modo de ver, tal síntesis no puede llegar a través de un biblicismo fundamentalista (aplicación literal de los datos bíbli- 28 Entre las numerosas obra de ética bíblica recientes, referidas al N.T., podemos citar: R. SCHNACKENBURG, Die sittliche Botschafft des Neuen Testaments, 2 Bände, Herder, Freiburg 1986.1988, 271.285 (11954) ; C. SPICQ, Théologie morale du Nouveau Testament (Études Bibliques), Gabalda, Paris 1965; H. HALTER, Taufe und Ethos, Paulinische Kriterien für das Proprium christlicher Moral, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1977; R. DILLMANN, Das Eigentliche der Ethik Jesu. Ein exegetischer Beitrag zur moraltheologischen Diskussion um das Proprium einer christlichen Ethik (TTS, 23), Grünewald, Mainz 1984; S. SCHULZ, Neutestamentliche Etik, TVZ, Zürich 1987; E. LOHSE, Theologische Ethik des Neuen Testaments, Stuttgart - Berlin - Köln - Mainz 1988; W. SCHRAGE, Ethik des Neuen Testaments (NDT Ergänzungsreihe, 4),: Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1989; IDEM (Edit.), Studien zum Text und zur Ethik des Neuen Testaments. Festschrift zum 80. Geburtstag von Heinrich Greeven, W. de Gruyter 1986, Berlin-New York 1986; W. MARXSEN, “Christliche” und christliche Ethik im Neuen Testament, G. Mohn, Gütersloh 1989; R. B. HAYS, Moral Vision of the New Testament. A Contemporary Introduction to New Testament Ethics, T&T Clark, Edinburgh 1996. 74 LORENZO ÁLVAREZ VERDES cos), ni de una mera yuxtaposición del material bíblico y no bíblico (filosofía, ley natural, psicología etc.), ni de una selección reductiva de “textos” normativos usados como “prueba” de las tesis construidas desde otras fuentes. La síntesis deberá ser de orden “orgánico y vital”, como lo es el movimiento descendente de la Palabra de Dios (revelación-inspiración) y el movimiento ascendente de aproximación interpretativa a la Sagrada Escritura (DV 12). Para llegar a esta síntesis no basta el simple recurso “objetivo” al libro sagrado sino que se impone un verdadero esfuerzo de penetración hermenéutica. II. EL USO DE LA BIBLIA COMO PROBLEMA HERMENÉUTICO La hermenéutica es un fenómeno que ha acompañado la historia de la humanidad desde los tiempos remotos en que ésta se expresaba con el lenguaje primitivo de los símbolos y de los mitos29. De ello tenemos abundante información tanto en la literatura griega30 como en la hebraica31. ¿Qué tipo de hermenéutica deberá adoptar el moralista para que el uso de la Sagrada Escritura pueda cumplir con las funciones que le atribuye la DV? A nuestro modo de ver, deberá ser una hermenéutica que siga de cerca los tres los niveles en que se 29 P. RICOEUR, Foreward, en D. IHDE, Hermeneutic Phenomenology: The Philosophy of Paul Ricoeur, Northwestern University Press, Evanston 1971, pp. XII-XVII. 30 Una reflexión explícita sobre la hermenéutica la encontramos ya en Platón y Aristóteles, siendo Platón (Epinómides) el primero en usar el sustantivo hermeneutikê. Cf. H. D. F. KITTO, The Greeks, Harmondsworth 1957, 55ss.; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, 9ss. 31 Son conocidos los métodos de interpretación empleados en el mundo hebreo: el literal, el midrásico, el pesher y el alegórico. Cf. JOHN BOWKER, The Targums and Rabbinic Litterature. A Introduction to Interpretation of Scripture, Cambridge 1969, 4ss.; H. L. STRACK, Introduction to the Talmud and Midrash, New York 41976 (11969), 3-8; L.ALVAREZ VERDES, La ética bíblica frente a las nuevas propuestas de la hermenéutica, Moralia 20 (1997) 171198. IDEM, Ética bíblica y hermenéutica: una reflexión desde la postmodernidad, StMor 35 (1997) 213-244. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 75 realiza el encuentro con el mensaje bíblico: el exegético, el sintético-bíblico y el de integración actualizada y actualizadora. El momento exegético, de carácter analítico-descriptivo, es el primero y fundamental: el lector entra en contacto con el texto revelado a través del estudio directo de cada uno de los términos y del sistema de relaciones por ellos generado. A este nivel, el lector percibe ante todo la pluralidad y las diferencias. En el momento sintético (ética bíblica) el lector trata de superar la diversidad explorando la posible convergencia en torno a algunos conceptos clave, sea en el ámbito de un autor o libro sea en el conjunto de libros del canon. En esta línea, la Const. DV 12c habla de la necesidad de tener en cuenta la analogía de la fe, y el contenido y unidad de toda la Sagrada Escritura. En el momento de integración (momento hermenéutico propiamente dicho) el lector busca la síntesis definitiva entre la oferta moral de la ética bíblica y la demanda actual de iluminación para la solución de los problemas morales de nuestro tiempo. El proceso de integración hemenéutica se da ya a nivel de ética bíblica, en cuanto, no es concebible una síntesis del pensamiento moral de la Biblia que no tenga en cuenta el valor permanente de la palabra revelada, es decir, su capacidad de iluminar y dirigir la vida del hombre en cada momento concreto de la historia. La ética cristiana, al servirse de la ética bíblica, tiene, pues, en sus manos el fruto de un verdadero trabajo hermenéutico. A pesar de todo, consideramos que a la ética cristiana se le pide un ulterior esfuerzo de profundización que le permita matizar al máximo los elementos morales de la Biblia, distinguiendo entre el material indicatival y el imperatival, y precisando, en este último caso, el espesor imperativo de cada uno de los modelos literarios empleados: relatos modélicos, parábolas, principios, normas, consejos, universo simbólico. Sólo tras esta identificación “objetiva” del mensaje bíblico será posible proceder a la síntesis final en la que el hombre concreto, con sus gozos y esperanzas, con sus preocupaciones y angustias (GS 1), pueda obtener la iluminación que le permita discernir cuál es para él en concreto la “voluntad de Dios, lo bueno, conveniente y acabado” (Rom 12,2). Este proceso de “de-limitación” del sentido (a través de la 76 LORENZO ÁLVAREZ VERDES identificación de los modelos literarios y de los parámetros generales que dan razón del sentido último del discurso) no es un simple expediente para obviar las dificultades que los moralistas frecuentemente presentan bajo el epígrafe de “límites” del uso de la Sagrada Escritura32, sino que entra en la naturaleza misma del discurso bíblico en cuanto éste es a pleno título un discurso “humano”33 (Dei Verbum, 12). 1. Modelos normativos Como consecuencia de la “dimensión humana” del discurso bíblico, la Const. Dei Verbum habla de la necesidad de estudiar los “géneros literarios”. Tal estudio en nuestro caso se concretiza especialmente en el análisis de los “modelos” éticos a que antes hacíamos referencia: principios, normas, paradigmas (relatos, parábolas) y universos simbólicos34. En cada uno de estos géneros o modos de expresión la imperatividad funciona de manera distinta. Por eso, su identificación no puede ser ajena a la búsqueda del sentido ético de los textos. De especial importancia consideramos el estudio del “universo simbólico”. Los principios, normas, paradigmas y símbolos funcionan últimamente como expresiones (reales o metafóricas) de un determinado universo simbólico. La Biblia (con su largo iter histórico-cultural) es en realidad un mosaico de universos simbólicos que se han ido entrecruzando y superponiendo. Esta diversidad de universos simbólicos deberá ser tenida presente cuando se estudian temas concretos como el matrimonio, la homosexualidad, la esclavitud etc. Sabemos efectivamente las profundas diferencias que sobre estos temas existían entre la visión del A.T., la del N.T. y la del mundo greco-romano, como 32 E. HAMEL, „L’usage..“, a.c., 70; CHARLES E. CURRAN, The Role and Function of the Scriptures in Moral Theology, en: CH. E. CURRAN –R.A. MCCORMICK, S.J., The Use of The Scripture in Moral Theology (Readings in Moral Theology 4), Paulist Press, New York-Ramsey 1984, 187 ss. 33 Cf. L. ÁLVAREZ VERDES “La Dei Verbum una constitución clave”, a.c, 229. 34 R. HAYS, Moral Vision of the New Testament. A Contemporary Introduction to the New Testament Ethics. T&T Clark: New York, 1996, 208209. El autor habla de “Modes of Appeal”. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 77 son profundas también las diferencias entre los universos simbólicos operantes en nuestro días. 2. La dialéctica indicativo-imperativo, como parámetro central El análisis narrativo del texto permite descubrir la existencia de las figuras isotópicas que sirven de punto de confluencia de las diversas figuras narrativas del discurso. En este sentido, nos permitimos adelantar como figura isotópica central del discurso ético del N.T. la relación dialéctica indicativo-imperativo, entendiendo por “indicativo” las actuaciones salvíficas, que culminan en la manifestación suprema de Dios en Cristo y en la inserción en Él del hombre redimido; y entendiendo como “imperativo” la pertinente exigencia de respuesta del hombre desde su nueva condición indicativa35. Explicaciones reductivas. Para no pocos autores la autorrevelación de Dios sería de carácter exclusivamente indicatival, con lo que quedaría excluida de la Biblia cualquier intención imperativa o moral. Lo que realmente cuenta, scribe K. Barth, es la revelación del Dios vivo, conocido en Jesucristo, que exige del hombre obediencia a una persona, no a una proposición. K. Barth realiza así el salto de la ética a la fe. En semejantes términos se expresa H. Richard Niebuhr36. La misma reducción a lo indicatival encontramos en el modelo llamado de “generación de actos”, vistos fundamentalmente desde la parte de Dios: la Biblia pretendería, dice Joseph Sittler, definir, no tanto lo que Dios es sino lo que Dios hace (en la creación, redención y santificación). La dimensión ética estaría presente, no como cometido directo, sino solamente en cuanto el hombre queda involucrado en la acción de Dios37. Paul Lehmann habla de la ética en términos de 35 R. BIERINGER, “Biblical Revelation and Exegestical Interpretation according to Dei Verbum 12”, en M. LAMBREGTS & L. KENIS, Vatican II and its Legacy, o.c., 25-58. 36 H. RICHARD NIEBUHR, The Purpose of the Church and Its Ministry, Harper & Bros, Middletown 1956, 33.35) 37 JOSEPH SITTLER, The Structure of Christian Ethics, University Press, Louisiana 1958. 78 LORENZO ÁLVAREZ VERDES “producto colateral” de la “madurez” de vida que viene con la fe (a by-product of maturity)38. Estos autores se mueven en la línea de la ortodoxia protestante y de la propuesta bultmaniana de la relación indicativo-imperativo. Lo central es la acción justificadora de Dios. El imperativo se agota en la obediencia radical a la gracia, sin influjo directo en la acción. Lo más que se puede augurar es una “armonía” o “paralelismo” entre el orden indicativo de la gracia y el orden de la praxis. De hecho, este exclusivismo del indicativo se hizo patente ya en las primeras éticas del N.T. aparecidas en el s. XIX (H. Fr. Ernesti39, P. Wernle40 etc.). Esta visión puramente teológico-indicatival no podía convencer ni a los mismos teólogos protestantes, muchos de los cuales han criticado, con razón, la ausencia de toda reflexión racional sobre lo que el hombre debe realizar41. Nuestra interpretación de la dialéctica indicativo-imperativo está bien lejos de los reduccionismos arriba indicados, considerando esencial la acción del hombre en cuanto éste responde y colabora con la acción de Dios “en la historia”. La condición de redimido es algo real (indicativo) pero no plenamente actualizado y, por lo mismo, imperativo a “caminar”. Este reverso imperativo no se agota, como pretende la ortodoxia protestante, en el margen de la gracia (acción de Dios, con la correspondiente obediencia radical del hombre) sino que salta al margen de lo humano, de lo histórico y concreto (Rom 6,12). Pablo suele 38 PAUL LEHMANN, Ethics in a Christian Context, Harper & Row: New York 1963, 45. 54. Christian Faith and Social Action, ed. John A. Hutchison, 1953. Ha influenciado a Albert Rasmussen (Christian Social Ethics, 1956), Alexander Miner (The Renewal of Man, 1955). 39 H. FR. ERNESTI, Die Ethik des Apostels Paulus in ihren Grundzügen dargestellt, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1868., 53. 40 P. WERNLE, Der Christ und die Sünde bei Paulus, JCB Mohr, Freiburg i.Br. - Leipzig 1897. 41 J.M. GUSTAFSON, (Changing 146) cita entre estos autores: Paul Ramsey, Robert Fitch, Alvin Pitcher, Clinton Gardner, and John C. Bennett, que proponen, en cambio, una “ ética de principios” que se encontrarían sea directamente en la Biblia sea a través de la mediación de la tradición. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 79 expresar la conexión entre ambas vertientes del existencial cristiano en términos de carácter consecutivo (ou{twı, ou\n) y final (i{na). Esto significa que la conexión entre el indicativo cristológico-antropológico y el imperativo no es meramente coyuntural sino estructural: somos para llegar a ser, hemos muerto al pecado para no servir más al pecado, hemos resucitado con Cristo para vivir en la lógica de la vida nueva (Rom 6,11; Col 3,1ss.). El reverso imperativo de carácter fontal, está llamado a concretizarse en imperativos y comportamientos particulares. Al imperativo de ofrecer nuestras vidas como “hostias vivas”, en la lógica del indicativo (qusiva logikhv) (Rom 12,1) sigue el imperativo de no dejarse configurar por los esquemas (schvmata) de este mundo sino proceder a una una verdadera transformación o cambio de forma (meta-morfou`sqai) de nuestra mente (nou`ı), que permita discernir (dokimavzein) en cada momento concreto lo que es la voluntad de Dios, lo que es bueno y acabado (Rom 12,2). El proceso transformador desencadenado por la fe en Cristo no se rige por mecanismos deterministas que proceden del centro hacia la periferia42 bajo el solo impulso del Espíritu. El creyente está llamado a “rellenar” de contenidos concretos la “casa” de su existencia (h\qoı), empleando para ello todos los recursos de que dispone (la razón, la conciencia, la prudencia). La gnosis de que los cristianos han sido enriquecidos (ejploutivsqhte, 1 Cor 1,5; 8,1) no disminuye ni excluye sino enriquece y potencia las facultades naturales que permiten al hombre discernir el bien. La gnosis cristiana es, por lo mismo, dialogante con todo tipo de gnosis y acepta naturalmente todas las valoraciones éticas que considera “justas” (Fil 4,8; cf. GS 16). El trabajo hermenéutico cuenta, pues, con un punto de partida fundamental: la ética cristiana arranca del indicativo cristológico-antropológico (DV 2). El cristiano, por la fe, es una nueva creatura (kainh; ktivsiı), y, en cuanto tal, está llamado a caminar en una vida nueva. Confluencia de motivos. En la imagen de “nueva creatura” convergen los motivos cristológico, pneumatológico y escatológi- 42 Expresión acuñada por L. IHMELS, Die tägliche Vergebung der Sünde, CB Mohr, Leipzig 1901, 15.26 ss. 80 LORENZO ÁLVAREZ VERDES co. La confluencia de todos estos factores en el indicativo soteriológico-antropológico produce un dinamismo tensional de perfiles específicos, cuyo alcance ético deberá ser hermenéuticamente precisado, para evitar malentendidos que pudieran desfigurar o destruir la verdadera naturaleza del modelo indicativoimperatival. Nos referimos en particular a la dialéctica ontologismo-personalismo e historia-escatología a) La dialéctica ontologismo-personalismo. El modelo ontológico (u ontológico-místico) ha sido uno de los más frecuentemente empleados para explicar el dinamismo de la vida cristiana. Este modelo puede encontrar apoyo en la compleja galaxia de metáforas del código de la vida: nacer, renacer, nueva creatura, filiación, morir, resucitar (co-resucitar), injertar, desvestirserevestirse, renovarse, cuerpo-miembros, crecimiento (niñosmaduros). No podemos olvidar, sin embargo, que junto al código biológico encontramos, particularmente en Pablo, otros muchos códigos (jurídico, cultual, social etc.) que orientan hacia universos simbólicos muy diversos y que, en todo caso, no justifican una interpretación substancialista de la transformación indicativa del cristiano. El mismo hecho de la pluralidad de imágenes empleadas indica claramente que estamos ante un evento del que sólo se puede hablar en términos analógicos y metafóricos, cuyo alcance real en cada caso deberá ser ulteriormente precisado. Por otra parte, no se debe olvidar que la transformación del cristiano se encuadra en la línea de la fe y de la promesa (Rom 4), que Pablo contrapone a la línea de la descendencia fisiológico-etnográfica o según la carne (fuvsiı, Gál 2,5). Entre los peligros de una comprensión demasiado substancialista podemos citar el de un cierto determinismo espiritualísticosacramental y la transposición del discurso moral al orden trascendente, tan próximo a las entelequias conceptuales como alejado de la realidad concreta del hombre histórico, con el consiguiente peligro de universalización y esclerotización de la moral43. En este contexto debe encuadrarse la reacción de tipo actualista de algunos autores, como a V. Furnish, según el cual “la par- 43 Tal peligro aparece subyacente, por ejemplo, en la obra de G. MONTAGUE, Maturing in Christ: Saint Paul’s Program for Christian Growth, Bruce, Milwauke 1964. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 81 ticipación del cristiano en la muerte y resurrección de Cristo es mal interpretada cuando se la concibe como ‘unión mística’ con Cristo. El cristiano mantiene su identidad como creyente; su ser no se queda fundido con el de Cristo, sino que más bien pertenece a Cristo”44. Las categorías empleadas para describir la asociación del creyente con Cristo serían, según Furnish, relacionales, no místicas. Se trataría, pues, de simple relación de “pertenencia”45. La cuestión es sólo saber a quién pertenece46. Furnish excluye lógicamente la idea de “crecimiento” propuesta por W. A. Beardlee, ya que el quehacer ético cristiano no consiste en el desarrollo de las potencialidades innatas, sino en “una respuesta repetida a las siempre nuevamente repetidas intimaciones de Dios”47. Las lógicas prevenciones frente al modelo ontológico-místico quedan, a nuestro parecer, suficientemente superadas desde el modelo del personalismo religioso, que proclama el primado de la responsabilidad. El mensaje moral de Jesús está dirigido a la persona (cf. las numerosas expresiones juánicas “el que viene a mí”, “el que es atraído por el Padre” etc.) y es, en cuanto tal, inseparable del sistema vital de relaciones entre Dios y el hombre. Enclavada en ese sistema vital y orgánico, la ética cristiana es necesariamente una ética religiosa y, en cuanto tal, una ética del crecimiento y de la perfección responsable. Una moral que pretendiese encerrar el quehacer moral en el marco de un determinismo biológico o dentro de las fronteras inmóviles de la ley, 44 V.P. FURNSH, Theology und Ethics in Paul, Abingdonm Press, Nasville 1968, 176. 45 V. FURNISH interpreta en este sentido las expresiones que integran el prefijo syn (Rom 6). 46 De igual modo la expresión sthvkete ejn kurivw≥ de Fil 4,1 significaría “estar firmemente anclados”, relacionados con el Señor, para hacer su obra (to; e[rgon tou` kurivou). La metáfora de la liberación de la mujer de la ley del marido expresaría el cese de una relacionalidad y el comienzo de otra nueva (cf. Rom 7,4). Ibid. 178. 47 Según Furnish, esto iría contra el principio paulino de que hay que dejar de lado toda realización pasada (Fil 3,3ss.) (ib 239). Tenemos que anotar que Furnish no ha advertido que en el texto citado se trata de obras realizadas desde la “confianza en la carne” (e[cwn pepoivqhsin ejn th/` sarkiv). Para Furnish ni siquiera las imágenes del atletismo, militarismo etc. probarían el “crecimiento” (ib 240). 82 LORENZO ÁLVAREZ VERDES sustituyendo la responsabilidad creadora por la obligatoriedad (deontologismo), no sería ni bíblica ni cristiana48. b) Historia y escatología. A evitar los riesgos de determinismos ontologistas o de inmovilismos legalistas ha contribuido en modo decisivo la focalización hermenéutica en la dimensión histórica del evento salvífico (indicativo cristológico-antropológico). La pedagogía y condescendencia de Dios se han plegado a los esquemas de la historia (DV 12) y seguirán haciéndolo hasta el fin de los tiempos. La historicidad nunca podrá ser entendida como un anclaje en el pasado, que impide a la Palabra de Dios ser “viva” en el presente, al contrario, ha de ser considerada como el antídoto contra todo intento de esclerotización de la moral o de fuga hacia lo a-histórico49. Esta revalorización de lo histórico ha ayudado a la moral a revisar su clásica dependencia de las categorías filosóficas y de la ley natural. Desde una correcta hermenéutica de la historia es posible también proceder a una adecuada comprensión de la escatología. A diferencia de la visión estoica del tiempo, centrada en el eterno presente, la visión bíblica parte de la linearidad del tiempo, en donde la memoria del pasado y la proyección hacia el futuro son elementos constitutivos del presente. La escatología necesita, sin embargo, una correcta interpretación que permita superar los malentendidos históricos que han llegado a transformarla en factor invalidante de la ética cristiana. J. T. Sanders50 y J. L. Houlden51, siguiendo las huellas de 48 La clásica distinción entre teología moral (moral de mínimos) y teología espiritual supone la introducción de criterios de distinción ajenos a la dinámica relacional y vital. De hecho, la separación de la teología moral con relación a la dogmática -con el paralelo alejamiento de la Biblia - supuso un repliegue de la misma dentro de los estrechos límites de la ley. Por eso, el moralista debía ser ante todo buen conocedor de la ley, y el candidato a profesor de moral debía hacer su especialización en una Facultad de Derecho. Cf J.A. SELLING “Gaudium et Spes: A Manifesto for Contemporary Moral Theology“, en LAMBERIGTS, M & KENIS, L, Vatican II and ist Legacy, University Press, Leuven 2002, 146. 49 CH E. CURRAN, “The Role…”, a.c., 185. 50 J. T. SANDERS, Ethics in the New Testament, Fortress Press, Philadelphia 1975. 51 J.L. HOULDEN, Ethics and the New Testament, Mowbrays, London & Oxford 1973, 8 ss. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 83 A. Schweitzer52, no han tenido dificultad en afirmar explícitamente la necesidad de prescindir de la ética del N.T. si queremos construir una ética con el grado de autonomía y realismo que exige la sociedad actual: “Jesús, escribe Sanders, no presentó una ética válida para hoy… Debemos huir del peligro de pretender modernizarlo… Dejémoslo que continúe siendo el judío de la Palestina de hace 2000 años; dejémoslo con sus ilusiones escatológicas, destrozadas por la rueda del destino que fue la cruz… De este modo, llegaremos incluso a apreciarlo más”53. A nivel filosófico tampoco faltan autores que se sienten incómodos con una ética que recurre a la escatología. Baste recordar el ensayo de H. Jonas54 titulado “El principio responsabilidad”, en el que rompe una lanza por una ética fundada en la responsabilidad, frente a la ética de E. Bloch55 fundada en el principioesperanza. H. Jonas considera la utopía como un peligro y un error: “El error de la utopía anida en su antropología, en su concepción de la esencia humana”. Con la utopía, dice, se pretende ahuyentar la ambigüedad, ignorando que la ambigüedad es congénita a la naturaleza humana. De hecho, la utopía, en su pretensión de eliminar la ambigüedad, no introduce la figura del hombre auténtico sino la del “homunculus” de la futurología socio-económica. El entusiasmo, pues, por la utopía del futuro del hombre, debe ceder el puesto a la responsabilidad, que se apoya en los hechos del pasado: “debemos aprender del ‘pasado’ lo que es el hombre, o mejor, lo que 52 A. SCHWEITZER, The Quest of the Historical Jesus: A Critical Study of its Progress from Reimarus to Wrede, Adam & Carles Black, London 1954 (orig. alemán en 1906). 53 J. T. SANDERS, “The Question of the Relevance of Jesus for Ethics Today”, en: CH. E. CURRAN –R.A. MCCORMICK, S.J., The Use of The Scripture in Moral Theology (Readings in Moral Theology 4), Paulist Press, New YorkRamsey 1984, 62. IDEM, Ethics in the New Testament, o.c.,1 ss. En ambos casos Sanders se apoya en la obra de H.J. CADBURY, The Peril of Modernizing Jesus, The Macmillan Company, New York 1937, 86-119. 54 H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Inaudi, Torino 1990. 55 E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Bd. I-III, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1970 (11959). 84 LORENZO ÁLVAREZ VERDES puede ser positiva y negativamente; nadie encarna teleológicamente un fin inmanente a su naturaleza”. Se debe, pues, trabajar por mejorar las condiciones del hombre, sin ceder ni al optimismo ni al pesimismo y sin el cebo de la utopía56. La utopía de un futuro del que depende el sentido de la vida es evidentemente un problema filosófico, en cuanto comporta una determinada comprensión antropológica, y a este nivel es normal que se ofrezcan diversos sistemas de interpretación. No podemos, sin embargo, olvidar que la teología moral se mueve en el ámbito de la fe, ofreciendo el proyecto-hombre propuesto en la revelación, en el que el principio esperanza y el principio responsabilidad no sólo no se excluyen sino que se integran: la responsabilidad cristiana es una responsabilidad esperante. Contra Jonas, estamos convencidos de que las utopías y sueños de futuro no sólo no eclipsan su autenticidad sino que son el motor que la propulsa y realiza. La utopía futurística podría crear problemas éticos si la categoría de “futuro” debiera ser entendida en sentido puramente linear y temporal; pero el futuro de que habla el N.T. es un futuro a-local y absoluto que, en definitiva se identifica con lo absoluto de Dios. La futuridad es ante todo de orden operativo y manifestativo (Col 3,2): el proyecto-hombre, en cuanto insertado en lo absoluto, no puede fijar sus “límites” en el marco de la historia, donde la lucha permanente entre la luz y las tinieblas hace imposible su plena manifestación. El situar la meta más allá de las fronteras del mundo presente (Fil 3,20), no significa, sin embargo, huir de la historia sino dar sentido a la historia y a la responsabilidad moral con la que ésa se construye57. Entendida de este modo, la dimensión escatológica del indi- 56 H. JONAS, o.c., 279ss. J. GNILKA, “Apokaliptik und Ethik. Die Kategorie der Zukunft als Anweisung für ethisches Handeln”, en: MERKLEIN (Ed.), Neues Testament und Ethik, zum 70. R. Schnackenburg, Herder, Freiburg i. Br. 1989, 464-481. En la llamada “actitud escatológica, dice Gnilka, más allá del lenguaje metafórico de estrellas que caen y de destrucción del mundo, queda “la orientación de la existencia cristiana hacia el futuro absoluto, que constituye el impulso del obrar moral” (481). 57 LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 85 cativo cristiano está destinada no sólo a dar razón de nuestra esperanza sino a solucionar los problemas prácticos que pueden surgir en la aplicación de los textos bíblicos a materias concretas, como la sexualidad, el matrimonio, el celibato, la ecología etc. 2. Las mediaciones hermenéuticas: a) Mediaciones operativas generales En su iter hermenéutico para descubrir las valencias del texto bíblico, aplicables a la problemática moral de nuestros días, el moralista cuenta con la ayuda imprescindible de las mediaciones operativas humanas: la razón, la experiencia, la tradición. El recurso a estas mediaciones no es alternativo a la actitud de fe que exige la Palabra de Dios sino su complemento necesario. a) El recurso a la razón, entendida en el sentido amplio de actividad intelectiva, ha acompañado el mensaje bíblico desde el mismo momento de su encarnación como palabra escrita. La Biblia es el resultado de un largo proceso de aprehensión, selección y asunción del material ético esparcido en las diversas culturas. Los Santos Padres desde los primeros siglos abordaron el estudio del material bíblico sintonizando con el pensamiento de la filosofía popular vigente. La misma insistencia del Concilio Vat. II en la necesidad de tener presente, en el estudio de la Revelación, el factor humano es una clara confirmación de la necesaria auxiliaridad de la razón en el proceso hermenéutico. Esto tiene especial aplicación en el análisis y valoración de los universos simbólicos operantes sea a nivel de sujeto que a nivel de texto. La razón tiene la capacidad de reconocer la singularidad de tales horizontes y de integrarlos en la dialéctica del proyecto hermenéutico global58. El recurso a la razón no puede, sin embargo, hacerse con talante absolutista y excluyente sino con 58 Desde este punto de vista consideramos inaceptable la actitud exclusivista de aquellos autores que otorgan a la razón y a los métodos científicos la exclusiva del juicio de validez del material ético de la Biblia, como lo han hecho, por ej., H.L. Houlden y J.T. Sanders. 86 LORENZO ÁLVAREZ VERDES la conciencia de la contingencia y fragmentariedad del conocer humano, ya que, como escribe R. Hays, la racionalidad siempre será “un aspecto contingente del mundo simbólico concreto”59. b) En la experiencia se colocan especialmente las mediaciones simbólicas y afectivas que dicen relación con el “corazón razonante” (reasoning heart)60. Sólo, efectivamente, en el marco de la experiencia íntima “personal” se pueden percibir ciertas “razones” que saltan fuera del cuadro del silogismo ético. K. Rahner cita, a este propósito, el discernimiento por el que una persona decide seguir una determinada “vocación”, como la vocación religiosa o sacerdotal61. La experiencia, como factor hermenéutico, es no sólo de caráter invidual sino también comunitario. c) La tradición (entendida en sentido específicamente cristiano) representa el bagaje cultural que se ha ido coagulando durante la historia a través de la vivencia cultual, la reflexión teológica y la narrativa de la vida cristiana. Expresión de esta tradición son la definiciones dogmáticas, la doctrina de los 59 R. HAYS, o.c., 210. WILLIAM C. SPOHN, “The Reasoning Heart: An American Approach to Christian Discernement”, en: R. P. HAMEL and K. R. HIMES, OFM (eds.), Introduction to Christian Ethics, Paulist Press, New York and New Jersey 1989, 563-582. Hic 563; J. M. GUSTAFSON (Can Ethics be Christian, University Press, Chicago 1975, 92) habla de “sentidos del corazón”, que fundarían “una vida moral cualitativamente diferente” (carácter), y funcionarían no por vía de razonamiento sino por una especie de captación intuitiva. Cf. J. EDWARDS, Religious Affections, Banner of Truth Trust, Edinburgh 1961, vol II. S. HAUERWAS, por su parte, pone estas “afecciones”, como algo inseparable de la narrativa de Jesús, y configuradoras, a través de la imitación, del carácter de los cristianos (Truthfulness and Tragedy, Notre Dame, Ind. 1977, cc. 3 y 4); IDEM, A Community of Character. Toward a Constructive Christian Social Ethic, Notre Dame 1981, 48ss.; IDEM, “Toward an Ethics of Character”, en R. P. HAMEL and K. R HIMES (eds), Introduction to Christian Ethics, o.c., 151-62. Nosotros podemos seguir empleando el término clásico de “virtudes” (tema ampliamente desarrollado por Sto Tomás), si bien acentuando su conexión con la narrativa de Jesús y de la tradición. 61 K. RAHNER, The Dynamic Element in the Church, cap. 3, : Herder, Freiburg-New York 1964. El a. coloca el discernimiento de la vocación religiosa en el ámbito de la ética existencial, contradistinta de la “ética esencial” (centrada en los principios). 60 LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 87 Concilios, las aportaciones científicas de los teólogos y la vida de los santos. Este sentido englobante (orgánico-vital) ha sido frecuentemente ignorado por la moral, demasiado preocupada de las normas y principios y poco interesada, en cambio, en lo vital, tal como se manifiesta, por ejemplo, en la vida de los santos. La “tradición” así entendida no sólo es el cauce por el que nos ha llegado el “traditum” sino que constituye un criterio hermenéutico de inestimable valor en cuanto nos ofrece relecturas del texto bíblico que, aunque alejadas de nuestro marco de comprensión actual, son siempre testimonio de la capacidad hermenéutica y de las técnicas de que se ha ido sirviendo la comunidad cristiana a lo largo de la historia para actualizar en su vida el núcleo fundamental de la fe62. b) La ley de Cristo, mediación hermenéutica fundamental de la ética cristiana La mediación por antonomasia de que se ha servido la moral de la Iglesia ha sido históricamente la ley natural, considerada como expresión innata de la voluntad de Dios63. A la ley natural venían a sumarse las leyes positivas reveladas y las promulgadas ulteriormente por la Iglesia, teniendo siempre en 62 S. H. HAUERWAS insiste en el papel particular que desempeña la tradición en orden a hacer posible lo que él llama ‘conversación del uno con el otro y con Dios a través de las generaciones”. Además, añade el autor, la tradición nos enseña cómo comenzar nuestra lectura “con simpatía imaginativa y obediencia de espíritu” (Moral of Character, o.c., 210). 63 J.A. SELLING, a.c. 148. Como prueba bíblica se solía aducir Rom 2,15, cuando dice que los paganos llevan escrita dentro sí mismos el contenido de la ley (to; e[rgon tou` novmou grapto;n ejn tai`ı kardivaiı aujtw`n). Los paganos hacen a partir de la naturaleza lo que exige la ley de Moiosés (ta; tou` novmou). La contraposición fuvsiı-novmoı era en la filosofía estoica un “topos”. El logos que gobierna el universo es el mismo que gobierna la razón e inscribe en ella su ley (novmoı a[grafoı). Por ello, el sabio no necesita de las leyes de los hombres (U. WILCKENS, La carta a los Romanos, I, Edic. Sígueme, Salamanca, 169 ss.). La Const. Gaudium et Spes 46, consciente del peligro de una comprensión fisicalizante y estática más bien que personalista y dinámica del clasema “ley natural”, ha preferido definir las fuentes de la reflexión ética cristiana en términos de “evangelio-experiencia humana”. 88 LORENZO ÁLVAREZ VERDES cuenta que la Iglesia representaría la “auctoritas” definitiva en orden a su interpretación y aplicación64. La Const. DV, al centralizar la autorrevelación de Dios en Cristo-persona, ha querido poner de relieve el carácter isotópico de la relación vital del creyente con Dios en Cristo. Antes que legislador, Dios es fuente de la vida que llama al hombre a la comunión con Él (DV 2), como lo indica con claridad la cita juánica (1 Jn 1,2-3) con la que los Padres conciliares abren la Const. Dei Verbum: “lo que hemos visto y oído, esto os anunciamos para que también vosotros viváis en esta unión nuestra que nos une con el Padre y con su Hijo Jesucristo” (DV 1). Esto es exactamente cuanto hemos querido poner de relieve al hablar de “ética del indicativo”. El programa moral cristiano es ante todo un programa de “respuesta”, un intercambio vital personal. En el A.T. encontramos una amplia legislación, que debiera haber sido interpretada y vivida desde este encuadramiento de base, recordado en el “prólogo histórico” que precede a la formulación de los preceptos (cf Ex 20,2; Dt 5,4). La ley era ante todo, un “signo” y, como tal, estaba esencialmente referenciada al significado (la manifestación salvífica de Dios). Si Pablo pudo llegar a ver la “torah” en clave de negatividad, fue solamente porque los judíos, cosificando la ley y, en cierto modo divinizándola, le habían arrancado su condición de “signo”, es decir, su función representativa de la relación personal de Dios con el hombre. Habían llegado así a una torah reducida a puro “precepto” y a una respuesta del hombre vista como pura “obligación”. De este modo, el precepto eclipsaba al Dios personal, mientras la “obligación” eclipsaba la persona humana en cuanto tal65. Hay que reconocer que esta visión “per- 64 Sobre la concentración de la “auctoritas” en la tradición viva de la Iglesia, a partir de las teorías de la escuela francisacana y del nominalismo, remitimos a nuestro reciente artículo “La Dei Verbum, una constitución clave para la coprensión del Concilio Vaticano II, StMor 41 (2003) 211-242, 224ss. 65 Es significativo, por ejemplo, que en el A.T. y en el judaísmo esté ausente cualquier tipo de conceptualización de categorías tan fundamentales para la moral, como las de conciencia y prudencia; el motivo es claro: frente a una ley “divinizada” no caben instancias hermenéuticas, sino simple aplicación y observancia. Cf. L. ALVAREZ VERDES, “La conciencia moral en S. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 89 vertida” de la ley no ha estado tan ausente de los tratados de moral tradicional cristiana. La lectura conciliar de las relaciones del hombre con Dios en clave de “kononía” personal es una invitación implícita a superar toda moral de cuño deontológico-legalista. A pesar de todo, la ética cristiana tiene que hacer las cuentas no sólo con un vasto material bíblico de carácter normativo sino sobre todo con la afirmación paulina de que el cristiano está llamado a “cumplir la ley de Cristo” (Gál 6,2), más aun, a “identificarse” con la ley de Cristo (hacerse e[nnomoı Cristou`, 1 Cor 9,23). ¿Representa esto una especie de “bautismo” del legalismo tan duramente combatido por Pablo? En estudios anteriores66 hemos tenido ocasión de analizar las diversas hipótesis formuladas por los autores sobre el significado exacto de la expresión “ley de Cristo”. Descartamos de antemano la interpretación de W. D. Davies, según la cual Cristo no haría más que proponer una nueva torah: “Pablo, el apóstol de la libertad cristiana frente a la esclavitud del legalismo, volvería a ser el clásico catequista de estilo rabínico”, que contempla al Mesías como el restaurador de la torah67. Resulta extraño atribuir la etiqueta de “rabinismo” a Pablo, el apóstol que tan fuertemente había contrapuesto la nueva alianza instaurada por Cristo (alianza de “espíritu”) a la alianza antigua o alianza de “código” (2 Cor 3,6). Por razones diferentes descartamos también la identificación de la “ley de Cristo” con el agape o con la ley del Espíritu68. Nuestra propuesta hermenéutica del lexema “ley de Cristo” pasa por el paralelismo semántico entre las expresiones novmoı tou` Cristou` (Gál 6,2) y nou`ı Cristou` (1 Cor 2,16; cf. Rom 12,2). Para ello tomamos como base el texto de de 1 Cor 2,16: “Porque ¿quién conoce el modo de pensar del Señor (nou`n Kurivou), para Pablo”, en, IDEM, Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo, Edacalf, Roma 200, 157-187. 66 L. ALVAREZ VERDES, o.c., 226-251. 67 W. DAVIES, Paul and Rabbinic Judaism, London 31970, 129. J.C. O’NEILL prefiere considerar la expresión de Gál 2 como interpolación postpaulina (The Recovery of Paul’s Letter to the Galatians, London 1972). 68 Ibid. 234 ss. 90 LORENZO ÁLVAREZ VERDES poder darle lecciones? Pues bien, nosotros poseemos el modo de pensar de Cristo” (hJmei`ı de; nou`n Cristou` e[comen). Algunos autores, como R. Reitzenstein69, han querido dar a la expresión nou`ı Cristou` de 1 Cor 2,16 un contenido semántico idéntico a pneu`ma Cristou`, por motivos teológicos y literarios. Nuestra respuesta a este tipo de razonamiento es bien sencilla: si Pablo hubiera querido entender nou`ı como equivalente de pneu`ma, le hubiera bastado dejar de lado la lectura de los LXX y retomar el texto hebraico que lee precisamente “ruâch”70. Si Pablo en 1 Cor 2,16 no ha seguido ese procedimiento (como en otras partes) habrá sido por razones bien precisas. Por otro lado, el sintagma nou`ı Cristou` tampoco puede entenderse como la “potencia racional” de Cristo que, en cuanto tal, sería intransferible71. De ahí nuestra interpretación del nou`ı de Cristo, como la constelación de principios y criterios de valor que sirvieron a Jesús de tejido axiológico de su praxis mesiánica72. Con ese mismo espesor alcanzaría a todos los creyentes que, insertados en Cristo, han entrado en posesión de su nou`ı73. 69 “Noûs debe ser entendido aquí (tanto en 1 Cor 2,16 como Rom 7) como aquel flúido divino, otorgado solamente al hombre en gracia, y que hace de él un pneumatikós” (R. REITZENSTEIN, Die hellenistischen Mysterienreligionen, Leipzig 21920, 338). 70 El texto hebreo de Is 40,13 es el siguiente: mî tiken ‘et rûach Yhwh? Cf. J. JEWETT, Paul’s antrhropological terms, E.J. Brill, Leiden, 363. Sobre la imposibilidad de identificar nou`ı con pneu`ma en 1 Cor 2,16 Cf. T. J. DUPONT, Gnosis. La connaissance religieuse dans les Épitres de Saint Paul, Paris 1949, p. 154, 170 ss. 71 Cf. J. WEISS, Der erste Korintherbrief, Göttingen 1910, 68: “Noüs bezeichnet hier (in 1 Cor 2,16) nicht das Organ des Denkens, sondern den Inhalt, seine Heilsgedanken”. 72 De hecho ni los LXX ni la literatura intertestamentaria usan nunca nou`ı en el sentido de facultad racional, sino más bien como conjunto de ideas y de creencias, que nosotros podemos denominar con el término de carácter o disposición. Por eso se sirven del término con una gran libertad sea para traducir los vocablos leb, rûach etc. sea simplemente adoptando el uso del término en el lenguaje vulgar. Quizá la única excepción sea Sab 9,15: nou`ı = pensamientos. 73 A. SCHLATTER, Die Theologie des Judentums nach dem Bericht des Josephus, Mohn, Gütersloh 1932, describe el nou`ı como la constelación de pensamientos y de creencias que proporcionan al sujeto los criterios nece- LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 91 La participación en el nou`ı de Cristo, realizada a nivel indicatival, capacita al cristiano para una renovación (ajnakaivnwsiı) de su propio nou`ı, lo que le permitirá realizar el discernimiento (dokimavzein) necesario a nivel ético concreto (Rom 12,2). Esta proyección pragmática e imperativa del nou`ı de Cristo a través del nou`ı renovado del hombre es lo que legitima, a nuestro modo de ver, la equiparación entre la “mente de Cristo” y la “ley de Cristo”. De ahí la coincidencia fundamental entre “tener la misma actitud” de Cristo (frwnei`n ejn Cristw/`, Fil 2,5) y “estar identificados con la ley de Cristo” (e[nnomoı Cristou`, 1 Cor 9,21). La ley de Cristo, así entendida, constituye el criterio hermenéutico de base de todo ulterior esfuerzo hermenéutico en torno a las normas morales de la Sagrada Escritura. Esto no significa replegarse en un fundamentalismo que ignora la dramaticidad de las situaciones históricas concretas, sino que permite abordarlas decididamente haciendo uso de todo el propio potencial imaginativo, sin dejarse aprisionar por los estrechos límites histórico-culturales de las formulaciones legales, dadas en clave “proposicional”. Un ejemplo plástico de la capacidad creadora de la “ley de Cristo” (ennomía crística) es el que nos ha dejado Pablo cuando, agobiado por las controversias entre fuertes y débiles, entre judaizantes y partidarios de la apertura al paganismo, opta por una actitud de ilimitada “flexibilidad”, acomodándose a los judíos y a los no judíos, a los débiles y a los fuertes, aceptando en cada caso los criterios morales pertinentes: “con los judíos me porté como judío… observando la ley. Con los que no tienen ley me porté como libre de la ley. Con los débiles me porté como débil” (9,20-22). Y todo esto, añade Pablo, lo he hecho, no porque me considere un sin-ley (a[-nomoı) sino precisamente porque me siento identificado con la ley de Cristo (e[nnomoı Cristou`, 9,21). La colocación central de esta afirmación no deja lugar a duda que Pablo considera la ennomía crística como presupuesto hermenéutico de todos sus comportamientos, y que ése quiere que sea también (“seguid mi ejemplo”, 11,1) el presupuesto hermenéutico del cristiano y particularmente del mora- sarios para los juicios y para la acción. La interpretación de Schlatter es aceptada plenamente por J. JEWETT, Paul’s anthropological terms. Study of their use in conflict settings, E.J. Brill, Leiden 1971,361.167. 92 LORENZO ÁLVAREZ VERDES lista, para resolver los problemas concretos que van surgiendo en la interpretación de la normativa bíblica o eclesiástica. III. LA SAGRADA ESCRITURA EN LA SISTEMATIZACIÓN DE LA MORAL Los criterios y mediaciones hermenéuticas que hemos señalado (modelos éticos, parámetro indicativo-imperativo, mediación fundamental de la ley de Cristo) deberán ser operativos en cualquier proyecto moral que reconozca la función vital de la Sagrada Escritura. A partir de esta premisa cabe preguntarse si tal “operatividad” alcanza solamente a la actitud fundamental de la fe y a la proyección que ésta debe tener en el tratamiento de los problemas concretos o debe también hacerse presente a nivel de sistematización general de la teología moral74. La respuesta está evidentemente condicionada por el problema del método. P. Lehman, por ejemplo, postula para la ética cristiana una metódica que él llama intuitiva, incompatible con la metódica racional empleada por la ética filosófica. Ello se debería a la incompatibilidad entre las perspectivas antropológicas subyacentes a ambas. Para Lehmann el operador de la ética cristiana no es el hombre sino Dios, en cuanto Dios es quien comienza y determina la humanidad del hombre. Sería, pues, por las acciones de Dios por donde debería comenzar metodológicamente el discurso ético cristiano75. Los problemas que tal tesis crea son evidentes. En primer lugar ¿cómo puede el moralista, partiendo del estudio de las acciones de Dios, llegar a la problemática moral del hombre real si para ello no dispone más que de las analogías de la Biblia? En segundo lugar ¿a qué título la reflexión ética cristiana puede descartar o ignorar las fuentes racionales que la misma Sagrada Escritura ha aceptado y usado en la compilación de su material ético?76. 74 Para la primera parte nos hemos servido especialmente de la Const. Dei Verbum y del Decreto Optatam totius; parala segunda nos servirá de guía principalmente la Const. Gaudium et Spes. 75 P. LEHMANN, Ethics in a Christian Context, o.c., 274. 76 Desde A. ALT (The Origins of Israelite Law. Essayson Old Testament History and Religion, Doubleday, Garden City 1958) a nuestros días, los estu- LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 93 La referencia que más arriba hacíamos al carácter de “estructura formal” que lo ético representa para el hombre y que, en cuanto tal, es anterior a la configuración material de cualquier tipo de ethos concreto, incluido el cristiano77, nos obliga a descartar las propuestas que postulan para la ética cristiana un método radicalmente diferente del de las restantes éticas, pues ello llevaría o a la separación completa o a la mera yuxtaposición de la reflexión ética cristiana y de la reflexión ética racional. El método deberá ser necesariamente integrador, comenzando por la comprensión del hombre y la toma de conciencia de sus problemas concretos78. Sólo así podrá en el momento de la valoración ponerse a la escucha de la Palabra revelada, cuyo juicio o crisis reclama el hombre desde su ethos cristiano. De la superación de la “heterogeneidad” metódica se han preocupado en modo particular los moralistas que defienden la autonomía teónoma (A. Auer, Fr. Böckle, J. Fuchs79, K.W. Merkx80). Por otra parte, creemos que deba excluirse la pretensión de buscar en la Biblia la plantilla para una “sistematización” concreta, por la simple razón que la Biblia no ofrece tal plantilla ni a nivel teológico ni a nivel ético. A lo sumo se puede hablar de “criterios” predominantes en la selección y organización del material, criterios que, por lo demás, no son en absoluto homogéneos. Los criterios de estructuración, por ejemplo, de los diosos de la Biblia han puesto de relieve la dependencia de gran parte del material revelado con relación a las culturas vecinas. Cf. E. OTTO, Theologische Ethik des Alten Testaments, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln 1994. 77 Lo “ético” en cuanto tal debe ser visto primeramente como fenómeno humano, antes que como reflexión crítica y, por tanto, es anterior a la aplicación de cualquier método científico. 78 G. ROSSI, “Riflessioni sul metodo in teologia morale”, Riv. di Teologia Morale 12 (1980) 358. 79 A. AUER, Autonome Moral und christlicher Glaube, Patmos, Düsseldorf 1966; F. BÖCKLE, Fundamentalmoral, Kösel, München 1977; J. FUCHS, Für eine menscliche Moral. Grundfragen der theologischen Ethik, 4 vol, Herder, Freiburg-Wien. 80 K.W. MERKX, Hacia una ética de la fe. Moral y autonomía, Tópicos ‘909, Santiago de Chile: Centro Ecuménico Diego de Medellín, 1999. 94 LORENZO ÁLVAREZ VERDES libros históricos del A.T. son distintos entre sí y con relación a los de los proféticos y sapienciales. En el N.T. encontramos la misma variedad de sistematización de acuerdo con la idea central básica teológico-moral de cada autor. Así, en los sinópticos, se puede advertir un predominio del mensaje escatológico del Reino, con una concentración ética en lo esencial: la conversión y adhesión a Jesús. En Pablo, en cambio, se puede constatar una centralización en el indicativo cristológico-antropológico, con las implicaciones categoriales que esto conlleva para la vida de la Iglesia en el mundo. En Juan, por su parte, se advierte un retorno a lo esencial: la fe y el amor, es decir, un repliegue de lo categorial a lo trascendente, con el trasfondo del “hombre venido de lo alto”81. Todo ello pone de relieve la dificultad de establecer un criterio unificante de toda la reflexión bíblica, más allá del criterio por antonomasia de la centralidad de la persona de Cristo y de la fe en Él. La ética cristiana, en cuanto ciencia, se encuentra con una doble tarea: la de superar las limitaciones que una pseudoautonomía podría oponer a una verdadera “presencia” de la moral bíblica, y la de llegar a una verdadera integración del material bíblico con el material ético que procede de la “experiencia humana” (GS 46), es decir, del ámbito de la persona humana: espiritual, psicológico, físico, social. Para tal sistematización, sólo la persona en cuanto “inteligente” (en el sentido zubiriano) puede ser el sujeto y el punto de referencia último de la misma. Creemos en este sentido iluminadoras las palabras de la Const. GS 46, cuando expone los criterios de sistematización por ella seguidos: “Después de haber expuesto la dignidad de la persona humana y la misión tanto individual como social a la que ha sido llamada en el mundo entero, el Concilio, a la luz del evangelio y de la experiencia humana, llama ahora la atención de todos sobre algunos problemas actuales más urgentes, que afectan profundamente al género humano: … el matrimonio y la familia, la cultura humana, la vida económica-social y política, la solidaridad de los pueblos y la paz”. 81 I. DE LA POTTERIE, “Le problème oecuménique du canon e de le Protocatholicisme”, Axes 4 (1972/4) 7-20. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 95 Se aboga, pues, por una sistematización regida por la “inteligencia”, que arranca necesariamente de la “persona”, que sólo porque “re-ligada” se siente ob-ligada. Re-ligación / ob-ligación, dos elementos inseparables, que llevarán, en primer lugar, al estudio de la eticidad en cuanto estructura formal a la cual la persona se siente constitutivamente “religada”, para pasar después al análisis de los ulteriores contenidos que concretizan y especifican la “religación” como ethos “cristiano”, un ethos que lleva en sí, inseparablemente unidas, la dimensión religiosa o teológica (condición indicativo-imperatival del cristiano) y la dimensión humana (ámbito de la razón). Éste debería ser el contenido de lo que tradicionalmente se llama moral fundamental. Aquí se ofrece un amplio espacio para el recurso a la función iluminante de la Biblia, sin que ello implique introducir en la estructuración general esquemas bíblicos prefijados, como el de promesa-cumplimiento, alianza, llamada al Reino etc. Para la segunda parte (moral especial) continúa siendo central la “persona” que, desde su “experiencia” (de alegrías y esperanzas, de tristezas y angustias, GS 1) busca la iluminación adecuada para la resolución de sus problemas concretos. El punto de partida es la “experiencia” humana que, por lo mismo, constituye también el hilo conductor para una adecuada sistematización de la reflexión moral. La mediación operativa seguirá siendo la “inteligencia”, pero una inteligencia renovada (Rom 12,2), de la que el teólogo moralista no podrá nunca despojarse en aras de un pretendido “consenso” con aquellos que abordan el diálogo a partir de ethos diferentes82. Aquí es donde se hará particularmente necesaria la labor hermenéutica que permita ver y asumir como “cristiano” cuanto de justo y bueno ha descubierto la inteligencia de los hombres (Fil 4,8). 82 No creemos, pues, que al teólogo moralista le esté permitido, para discutir los problemas concretos y para llegar a un “consenso”, comenzar por desprenderse del bagaje específico que le otorga la fe. 96 LORENZO ÁLVAREZ VERDES Conclusión Una mirada retrospectiva, desde la atalaya de una experiencia de 40 años, nos permite comprobar que la recepción del Concilio no ha sido homogénea ni totalmente positiva. Era difícil suponer que con la promulgación oficial de los documentos conciliares habrían de aflorar nuevos cielos y nueva tierra para la vida de la Iglesia, a través de una recepción connatural y pacífica. Desde el principio del postconcilio se pudo efectivamente entrever en el horizonte una combinación de luces y sombras. Y esto por varias razones: 1) Los textos conciliares llevaban, como es lógico en documentos elaborados por consenso, las huellas de la pluralidad (a veces oposición) de mentalidades de los autores de los mismos. De ahí que, junto a expresiones de una gran fuerza innovadora, se encuentren formulaciones que pueden ser entendidas desde un horizonte de comprensión anclado en el pasado. Por la misma razón, es fácil encontrar conceptos no adecuadamente desarrollados en una perspectiva orgánica. 2) La promulgación de los textos conciliares representó el triunfo de la mayoría, pero no se podía esperar que la minoría se iba a resignar a seguir siendo perdedora, sobre todo teniendo en cuenta que sus representantes iban a disponer de la práctica totalidad de las atalayas de difusión de la “verdad”. De ahí, la recepción plural de los documentos conciliares: recepción optimista y casi idealista por parte de algunos y recepción, por parte de otros, que va del rechazo a la aceptación selectiva y de la relectura integrista a la utópicamente progresista83 . Por lo que toca a nuestro tema (la S. Escritura, alma de la reflexión teológico-moral), no podemos olvidar que los docu- 83 Por una relectura progresista se decantó, por ejemplo, la Revista Concilium que, creada para difundir la doctrina del Concilio, decidió en un Congreso celebrado en Bruselas en 1970, optar por una línea de “superación” del Concilio (dépasser le Concile): Il libro del Congresso, Brescia 1970. Para una exposición más completa de las diversas posiciones de rechazo del Concilio en las décadas post-conciliares remitimos al estudio de D. MENOZZI, “L’opposition au Concile” (1966-1984), en: G . ALBERIGO. – J.-P . JOSSUA (Eds), La réception de Vatican II, Du Cerf, Paris 1985, 429-457. LA CENTRALIDAD DE LA SAGRADA ESCRITURA... 97 mentos de referencia obligada (Dei Verbum y Gaudium et Spes) fueron de los más duramente debatidos, teniendo como inicio de su historia el “retiro”, por parte del Concilio, de los pertinentes esquemas “pre-conciliares”: De fontibus revelationis y De ordine morali. Por lo que se refiere a la Const. Dei Verbum podemos hablar de una recepción en general positiva, que en los primeros años post-conciliares llegó a crear en la comunidades eclesiales un gran entusiasmo por la Biblia. Tal entusiasmo, sin embargo, iría diluyéndose con el pasar de los años. Esto se ha debido principalmente al hecho de que mientras la DV ha estimulado los estudios especializados de la Sagrada Escritura a nivel analítico-exegético y a nivel de síntesis de teología y de ética bíblicas84, no ha logrado que los especialistas realizaran aquella síntesis superior que permite conectar la Biblia con la teología sistemática y, en nuestro caso, con la teología moral. De hecho, sea en los numerosos “manuales”85 que se han ido publicando a partir de los años 70’, sea en estudios de síntesis personales o de grupo (obras de colaboración, semanas de Biblia o de Moral), sea incluso en los documentos oficiales de la Iglesia sobre la materia (como el Catecismo de la Iglesia Católica y la 84 Sobre la numerosa producción de ética bíblica del Nuevo Testamento cf. L. ALVAREZ VERDES: “La ética del Nuevo Testamento. Panorámica actual”, StMor 29 (1991) 421-454. Editado posteriormente en: IDEM, Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo, Edacalf, Roma 2000; 25-60. 85 Entre los manuales más conocidos en el mundo latino (directamente o en traducción) podemos citar: A. GÜNTHOR, Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, 3 vol., Ed. Paoline, Roma 1974-1977; M. VIDAL GARCÍA, Moral de actitudes, 3 vol., Ed. P.S., Madrid 1974-1979; B. HÄRING, Free and faithful in Christ. Moral Theology, Seabury Press, New York, 1978-1979; E. CHIAVACCI, Teologia morale, 3. vol., Assisi 1980-1990; R. RINCÓN-E. LÓPEZ AZPITARTE-FCO. J. ELIZARI, Praxis cristiana, 3 vol., Ed. Paulinas, Madrid 1980-1986; GERMAIN GRISEZ, The Way of the Lord Jesus, 3 vol., Chicago, Quincy (Illinois), 19831997; GUIDO GATTI, Corso di Teologia morale, 4. vol., Leuman, Torino 19871992, JEAN MARIE AUBERT, Abrégé della morale catholique, Desclée, Paris 1987; K. H. PESCHE, Christian Ethics Moral Theology in the Light of Vatican II, 2 vol., Alcester, Dublin 1999; T. KENNEDY, Doers of the Word. Moral Theology for humanity in the third millenium (2 vol.). St Paulus, London 2002. Información sintética sobre estas obras en G. ROSSI, a.c., 61-72; R. GERARDI, Storia della morale, EDB, Bologna 2003, 495 ss. 98 LORENZO ÁLVAREZ VERDES Enc. Veritatis Splendor) hay más de yuxtaposición que de verdadera integración. Ello se ha debido, ante todo, a la idea misma de “especialización” exigida por la ciencia. En nuestro caso la dificultad se acentúa por tratarse de una materia situada en la encrucijada de dos ciencias: la Sagrada Escritura y la moral. Si se ha podido hablar de peligro de “profanación” por parte del teólogo sistemático que pone sus manos inexpertas sobre el texto sagrado86, con no menos razón se puede hablar de “osadía” por parte del especialista bíblico que pretende pontificar en nombre de la Biblia en materias nuevas y complicadas como son las que la ciencia va proponiendo cada día al moralista. A pesar de todo, el aforisma de la DV sigue resonando con insistencia siempre nueva: la Sagrada Escritura debe ser “el alma” de la ética cristiana. Ello exige un perenne esfuerzo integrador por parte del moralista, sin reduccionismos racionalistas87 ni sobrenaturalistas88, en la convicción de la capacidad inagotable que la Palabra de Dios tiene de iluminar a todo hombre (Jn 1,9) para conducirlo a la plena realización de su humanidad. LORENZO ÁLVAREZ VERDES, C.Ss.R 86 C. ROBERT, “Chronique de thélogie morale fondamentale”, RevScRel 29 (1955) 283. Cf. J.M. GUSTAFSON, “The Changing Use of the Bible in Christian Ethics”, en: CH. E. CURRAN –R.A. MCCORMICK, S.J., The Use of The Scripture in Moral Theology (Readings in Moral Theology 4), Paulist Press, New YorkRamsey 1984, 140: “Biblical ethics is a complex task for which few are well prepared; those who are specialists in ethics generally lack the intensive and proper training in biblical studies, and those who are specialists in biblical studies often lack sophistication in ethical thought”. 87 Es la tentación que no pocos autores han visto latente en la llamada “moral autónoma” (B. Schüller, J. Fuchs, A. Auer, F. Böckle). 88 El peligro de un reduccionismo sobrenaturalista, que parte en definitiva de una concepción pesimista del hombre, se puede fácilmente detectar en la llamada “ética de la fe” (G. Ermecke, B. Stöckle, K. Kilpert). Cf. J.-M. AUBERT, “Débats autour de la moral fondamental”, StMor 20 (1982) 195-222. StMor 42 (2004) 99-114 MARCO DOLDI IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE DEL CONTATTO DELLA TEOLOGIA MORALE CON IL MISTERO DI CRISTO E LA STORIA DELLA SALVEZZA Introduzione “Nel riordinamento degli studi ecclesiastici – indica il decreto conciliare Optatam Totius sulla formazione sacerdotale – si abbia cura in primo luogo di disporre meglio le varie discipline filosofiche e teologiche e di farle convergere concordemente alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo, il quale compenetra tutta la storia del genere umano, agisce continuamente nella chiesa e opera principalmente attraverso il ministero sacerdotale” (14). Poco più avanti, alla teologia morale, inserita a pieno titolo all’interno delle discipline teologiche, il concilio dedica parole di notevole importanza. “Parimenti tutte le altre discipline teologiche vengano rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la storia della salvezza. Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (16). Questo testo, divenuto il costante riferimento per tanti studiosi, può essere maggiormente compreso nel confronto con quello della Gaudium et Spes 22, dove, nell’intento di tratteggiare la vicenda dell’uomo all’interno della storia della salvezza, si afferma che esiste un legame profondo tra il mistero salvifico di Cristo e il mistero rivelato dell’uomo. Ancora, su un piano più ampio, Optatam Totius 16 si comprende alla luce delle indicazioni della Dei Verbum circa lo studio della Sacra Scrittura, mediante la quale il teologo moralista entra in contatto con il mistero vivente di Cristo (cfr. 24). Come anche si comprende alla luce del capitolo V della Lumen 100 MARCO DOLDI Gentium dove si afferma che l’agire è specificato dalla carità di Cristo, cosicché il discepolo viva nel compimento della legge, la perfezione evangelica, cioè la santità cristiana (cfr. 42). È questo, seppure in sintesi, lo sfondo che aiuta a comprendere adeguatamente come l’uomo, raggiunto da Cristo nei tornanti della storia della salvezza, sia abilitato ad un agire morale in cui Cristo è insieme modello di perfezione e fonte di grazia. Al minimalismo delle leggi morali viene offerto un cammino, per così dire, del massimo, dove il punto di partenza e la meta resta la Persona di Cristo. Così alla teologia morale è affidato il compito di esprimere due verità centrali: l’altezza, cioè, la grandezza della chiamata che i fedeli hanno ricevuto in Cristo e l’urgenza che essi vi rispondano portando opere caratterizzate dalla carità e dalla santità per il bene del mondo. Il riferimento a Cristo, anziché chiudere il credente in un ambito protetto, lo spinge ad operare in ogni ambiente per il bene dell’uomo. Nell’esprimere tali verità, la teologia morale necessariamente guarda alla dogmatica per determinare il ruolo di Cristo nei confronti dell’uomo chiamato ad agire nel mondo: tale ruolo non può essere compreso solo a livello di un buon esempio, ma ben più in profondità. Non è questo il momento per richiamare con ampiezza tali dati teologici, che sono già stati ampliamente trattati1. Piuttosto siamo invitati a domandarci come si sia svolta in questi quarant’anni l’attualizzazione dell’orientamento conciliare, in modo particolare per quello che riguarda il contatto della teologia morale con il mistero di Cristo e la storia della salvezza. La domanda è molto impegnativa, tuttavia è assolutamente doveroso offrire una risposta. Concretamente procederò nei seguenti momenti: subito evidenzierò la molteplicità dei progetti di rinnovamento, secondo una recente ricerca (parte prima). A motivo di una lacuna qui contenuta indicherò, invece, la portata reale della linea cristologica, testimoniata da numerosi autori (parte seconda). Infine, cercherò di cristallizzare gli elementi 1 Mi permetto rimandare ad alcuni capitoli del mio testo Cfr. DOLDI M., Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani. Bilancio e prospettive (città del Vaticano 2000). IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 101 strutturanti del rinnovamento della morale nel contatto con il mistero di Cristo e la storia della salvezza (parte terza). 1. Molteplicità di progetti Recentemente A. Bonandi ha avuto l’idea “di presentare, per quanto possibile in modo organico, gli itinerari principali della recente teologia morale fondamentale cattolica, tentandone anche una valutazione, prima ampiamente analitica, poi invece sintetica”. Così scrive lo studioso nel suo testo “Il difficile rinnovamento. Percorsi fondamentali della teologia morale postconciliare”2, dove richiama i testi di teologia morale pubblicati dalla fine degli anni ’70 al termine del secolo. Ogni testo è presentato nella sua interezza e, qua e là, commentato. Il periodo postconciliare è diviso da Bonandi in alcune fasi. La prima, che ruota attorno agli anni ‘70, registra tra le diverse iniziative anche quella denominata “la prospettiva cristocentrica”. Qui il riferimento è all’opera di D. Capone3, a cui si riconoscono tra i meriti quello di aver ripulito l’antropologia dalle incrostazioni essenzialistiche, produttrici di una visione cosificata dell’agire, verso un personalismo inteso come permanente relazione, come situazione di chiamata e risposta, in cui l’uomo è costituito persona. Ma non mancherebbero i limiti: “l’entusiasmo per l’incontro con la testimonianza biblica e la riflessione teologica sulla centralità di Cristo nell’esperienza e nella concezione cristiana di Dio e dell’uomo – afferma Bonandi – rischiano di svalutare le mediazioni necessarie per raccordare la verità Cristo e la verità del giudizio morale su un problema settoriale, e di nascondere la parzialità e l’insufficienza di un procedimento di deduzione teoretica quando la verità (morale) – Cristo deve informare lo sviluppo di una disciplina teologica”4. 2 BONANDI A., Il difficile rinnovamento. Percorsi fondamentali della teologia morale postconciliare (Assisi 2003) p. 5. 3 Cfr. CAPONE D., Introduzione alla teologia morale (Bologna 1972) e ID., L’uomo è persona in Cristo. Introduzione antropologica alla teologia morale (Bologna 1973) 4 BONANDI A., Il difficile rinnovamento… p. 29. 102 MARCO DOLDI Una seconda fase del rinnovamento della teologia morale sarebbe quella relativa agli anni ’80. In questo periodo Bonandi fa emergere e identifica diversi progetti di rinnovamento; tra questi il primo è denominato “Cristocentrismo, tomismo e neogiusnaturalismo nella concezione dei beni umani”5. Al riguardo sarebbe significativa l’opera dello statunitense G. Grisez “The Way of the Lord Jesus”6, perché si presenta come il testo di morale fondamentale per gli studenti dei seminari cattolici, evidentemente di oltre oceano. Accanto a questo progetto, l’autore ne presenta ben altri undici, ma, in prima istanza, non appare che nessuno di questi tenga adeguatamente conto del contatto vivo con Cristo e il mistero della storia della salvezza7. La terza fase coincide con l’ultimo decennio del secolo ed è finalmente testimone di attuazioni complessive del rinnovamento conciliare. Con sorpresa notiamo l’assenza di qualsiasi progetto svolto sotto il segno della cristologia; invece, in questi anni ci sarebbe la preoccupazione di sviluppare la spiritualità in teologia morale, la coscienza esistenziale e la complessità della realtà sociale, l’etica aretaica, la fenomenologia della fede in rapporto all’azione della coscienza. Grazie a questi contributi – a giudizio dell’autore – si potrebbe così “considerare globalmente chiusa la fase tumultuosa del rinnovamento della teologia morale”8. 5 Cfr. BONANDI A., Il difficile rinnovamento… pagg. 94-108. GRISEZ G., The Way of the Lord Jesus. Volume One. Christian Moral Principles (Chigago 1983). 7 Sono: Trascendentalismo ed ermeneutica, antropologia teologica e teologia morale (K. Demmer); Tomismo delle fonti della morale cristiana (S. Pinckaers); Una rivisitazione incerta della manualistica (es. K. H. Pescheke); Provocazioni delle scienze umane alla teologia morale (es. AA. VV., Iniziazione alla Pratica della Teologia IV); Approccio di teologia della liberazione (A. Moser – B. Leers); Proposta di metodo nello spirito di B. Lonergan; Teologia morale tra decisionalità fondamentale e decisione razionale (F. Furger); Teologia morale come mediazione tra fede e ragione pratica (es. R.M. Gula); Cose antiche e cose nuove: difficoltà di una sintesi (es. H. Weber); Teologia morale tra coscienza individuale e cultura civile (K. Demmer); Tra autonomia del soggetto e liberazione sociopolitica (es. M. Vidal). 8 BONANDI A., Il difficile rinnovamento… p. 274. 6 IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 103 Se il pensiero dell’autore è stato correttamente compreso, sorge spontanea la domanda sul perché questo accurato e complesso bilancio non abbia tenuto conto dei molti teologi moralisti italiani e stranieri, i quali hanno considerato il cristocentrismo in morale come la via privilegiata del rinnovamento. Possiamo forse pensare che l’autore abbia considerato non sufficientemente significativi questi sforzi. Di fatto, fin dall’inizio, presenta il suo personale orientamento che, sono sue parole, “muove da un moderato trascendentalismo neoscolastico – ben rappresentato nella teologia morale contemporanea dal pensiero di K. Demmer – verso una fenomenologia dell’agire di Gesù Cristo e della Chiesa (si potrebbe aggiungere che l’agire di cui si tratta è credente, non immediatamente nel senso preciso di coscienza cristiana, ma in quello fondamentale per cui il credere è forma originaria dell’agire), agire che attua la libertà personale già implicata nella fede, a sua volta evocata e offerta nella prassi”9. Per questo, egli osserva a Capone che la fondazione teologica, espressa in termini di cristocentrismo presenta difficoltà, tra le quali quella di mettere in contatto la centralità di Cristo con la verità del giudizio etico su un qualche aspetto del vivere umano. 2. La portata della linea cristologica Davvero non mancano dal Concilio ad oggi studi di rilievo, che pongono la figura di Cristo come significativa per l’uomo chiamato ad agire nel mondo. Siamo davanti ad una produzione letteraria molto ampia, che contiene riflessioni cristologiche di spessore diverso (2.1.). Questi studi incoraggiano ad individuare meglio gli sforzi di alcuni autori che hanno posto la teologia morale in contatto con il mistero di Cristo e della storia della salvezza (2.2.). 9 BONANDI A., Il difficile rinnovamento… pp. 12-13. 104 MARCO DOLDI 2. 1. Numerose testimonianze A motivo della vastità degli studi occorre porre qualche condizione alla ricerca. Così fa, ad esempio, L. Melina nel suo contributo “Bilancio e prospettive del cristocentrismo in morale”10, dove pone due premesse metodologiche per interrogare i differenti modelli e delineare la fisionomia di una reale fondazione cristologica della morale. Innanzitutto, il principio cristocentrico deve porsi come un orizzonte, un punto di vista dal quale illuminare il dinamismo morale della vita cristiana. Inoltre, lo stesso principio deve essere capace di assicurare l’unità interna della disciplina scientifica: “dovrà – dice l’autore – trattarsi davvero del fondamento ultimo che sostiene ogni altro principio e riferimento”11. Questi principi permettono a Melina di individuare diversi progetti tipicamente cristologici: Il cristocentrismo come affermazione di un modello personale (ad es. F. Tillmann, B. Haering); L’antropologia come necessaria mediazione del cristocentrismo (ad es. K. Demmer); La fondazione ontologica della morale cristiana in Cristo (ad es. D. Capone e R. Tremblay); Cristo norma personale e concreta (ad es. H. U. von Balthasar e coloro che ne hanno ripreso il pensiero). Infine, egli stesso prospetta un cristocentrismo delle virtù e dell’agire eccellente. Lo studio di Melina è dunque una prima testimonianza positiva sul fatto che non pochi teologi moralisti si siano interrogati sul ruolo della persona di Cristo in ordine all’agire e all’individuazione delle norme concrete. Così si può ancora ricordare il bilancio di R. Tremblay “Cristo e morale. Breve sguardo storico a partire da Optatam Totius 16”12, dove l’autore registra due tendenze: “la prima è 10 Cfr. MELINA L., Bilancio e prospettive del cristocentrismo in morale in ID., Cristo e il dinamismo dell’agire. Linee di rinnovamento della Teologia Morale fondamentale (Roma 2001) pp. 91-111. 11 MELINA L., Bilancio e prospettive del cristocentrismo… p. 93. 12 Cfr. TREMBLAY R., Cristo e morale. Breve sguardo storico a partire da Optatam Totius 16 in ID., L’“Innalzamento” del Figlio fulcro della vita morale (Roma 2001). IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 105 segnata da una controreazione nel senso che, in virtù di alcuni avvenimenti che seguirono immediatamente il Concilio, si è preferito porre Cristo alla fine di un percorso sintonizzato prioritariamente con l’humanum e le sue esigenze etiche. La seconda tendenza, che si è imposta più tardivamente e che determina praticamente l’ultimo decennio della “recezione”, si inscrive più direttamente nella traiettoria tracciata per esempio dalla costituzione conciliare Gaudium et Spes: la strada dell’uomo e del suo agire è il Cristo”13. Le due tendenze sono significativamente indicate con l’espressione “Il Cristo al seguito dell’uomo” e “L’uomo al seguito di Cristo”; in quest’ultima corrente l’uomo, capace di concepire la norma morale a partire da un’attenta riflessione sul reale, ha il suo punto di ancoraggio immediato nella persona concreta del Figlio di Dio incarnato, morto e risuscitato e nella grazia che da lui deriva. Molteplici sono secondo l’autore le vie utilizzate per rendere conto teologicamente della indicazione conciliare. “Gli uni preferiscono radicare le loro riflessioni nella teologia classica della grazia cristica e, di là, articolare i rapporti che questa intrattiene con l’humanum o la “natura”. Altri tentano di stabilire il carattere singolare, universale e panistorico della persona del Cristo messa in causa dall’Illuminismo, per potervi fondare l’antropologia e l’agire morale che ne deriva. Essi lo fanno ricorrendo, per esempio, alla categoria biblica della predestinazione e al Cristo prolungato nel suo corpo vivente, la Chiesa. Altri infine, fissano la loro attenzione sul Cristo pasquale, la cui consistenza, dal punto di vista dell’identità propriamente filiale di Gesù e della sua “proesistenza”, è progressivamente rivelata dalle differenti tradizioni neotestamentarie. Da là cercano di costruire un quadro nel quale inserire un ritratto dell’uomo e della sua vita morale”14. Senza entrare specificatamente nel merito di questi due bilanci, è già importante rilevare come gli autori richiamati 13 14 TREMBLAY R., Cristo e morale. Breve sguardo storico… p. 12. TREMBLAY R., Cristo e morale. Breve sguardo storico… p. 16. 106 MARCO DOLDI documentino l’esistenza di tanti sforzi tesi a sviluppare in diversa maniera le indicazioni conciliari. 2. 2. Il mistero di Cristo e la storia della salvezza La condizione metodologica che pongo nella scelta degli autori è quella non più della generale presenza del rapporto cristologia e morale, ma quella del contatto vivo della teologia morale con il mistero di Cristo e la storia salvifica15. In primo luogo, vorrei richiamare il contributo del moralista Dionigi Tettamanzi. L’uomo immagine di Dio in Cristo Già negli anni ‘70 Tettamanzi16, accogliendo, da una parte le sfide del secolarismo e da un’altra le indicazioni del Vaticano II, aveva individuato il rinnovamento dell’etica cristiana nel principio della conversione antropocentrica, da cui scaturisce un’adeguata riflessione sull’uomo nella sua dimensione corporale e spirituale. Vent’anni più tardi nell’opera “Verità e Libertà”17 continua la riflessione considerando in profondità il mistero dell’uomo. Non si tratta, però, di una speculazione astratta, ma di una contemplazione alla luce dei dati biblici e della tradizione. Innanzitutto, egli presenta un preciso modello antropologico caratterizzato dalla categoria dell’immagine di Dio in Gesù Cristo. L’antropologia è toccata dalla cristologia nei suoi costitutivi essenziali; appare, così, l’uomo in quanto creato da Dio e in dialogo con Lui, mediante Gesù Cristo. All’uomo compete, pertanto, una funzione teologale, ma anche comunitaria e cosmica, essendo costituito in dialogo con gli altri uomini e con l’universo. L’immagine divina, presente nell’uomo, è condizio- 15 Circa il rapporto più in generale tra cristologia e morale segnalo il testo ZUCCARO C., Cristologia e morale. Storia interpretazione prospettive (Bologna 2003). 16 Per un’esposizione più completa rimando a: DOLDI M., L’uomo immagine di Dio in Cristo nella riflessione morale di Dionigi Tettamanzi in ScC 2 (1998) 187-212. 17 TETTAMANZI D., Verità e Libertà. Temi e prospettive di morale cristiana (Casale Monferrato 1993). IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 107 nata dalle fasi della storia della salvezza: creazione, peccato, intervento di Gesù Cristo, tutti elementi che costituiscono la storicità dell’uomo. Ancora, l’uomo è considerato psicofisicamente uno, in modo che la condizione corporale e l’interiorità non siano contrapposte, ma formino un’unità. A questo primo livello, Tettamanzi pone la categoria dell’immagine di Dio in Gesù Cristo, come fondante l’esistenza antropologica. Da tale categoria scaturisce l’impegno morale per l’uomo. Il compito morale non s’impone all’uomo estrinsecamente, ma lo raggiunge intimamente, perché si fonda sullo stesso essere dell’uomo, cioè sull’immagine di Dio che specifica l’uomo; in quanto è immagine di Dio in Gesù Cristo, l’uomo necessariamente deve manifestare la gloria di Dio in Gesù Cristo. L’imperativo morale fluisce dalla struttura ontologica dell’uomo, consegue al suo indicativo: dice la sua verità. Sorge, però, la grave domanda se l’uomo sia, di natura sua, orientato a ricevere il dono dell’immagine di Dio in Cristo; è chiaro che, soltanto se egli è determinato a divenire immagine di Dio in Cristo, tale immagine aderirà all’uomo non in modo superficiale, ma profondo, ontologico. Tettamanzi risponde a questa domanda con alcune riflessioni di ordine cristologico; dalla verità che l’uomo è immagine di Dio in Gesù Cristo risale alla vocazione che l’uomo ha ricevuto in Cristo. Esiste un piano eterno di Dio, nel quale l’uomo è inscindibilmente legato a Cristo, Creatore e Redentore. L’autore, precisamente, parla di compredestinazione18, intesa come la chiamata di Gesù Cristo, Unigenito e Primogenito del Padre, ed insieme dell’uomo ad essere conforme all’immagine di Dio. Cristo è l’Esemplare e il Principio unico nel quale l’uomo è chiamato a diventare immagine piena e perfetta di Dio, mediante una dinamica di assimilazione. Infine, l’autore trae le conseguenze da quanto ha affermato: se l’uomo antropologicamente è immagine di Dio in Gesù Cristo, poiché il piano eterno di Dio prevede la sua piena conformazione all’immagine di Dio nel Figlio, ne deriva che l’uomo deve effettivamente imitare Dio in Gesù Cristo, secondo il dinamismo 18 Cfr. BIFFI G., Alla destra del Padre (Milano 1970) 86. 108 MARCO DOLDI morale. Dal donum – chiamata divina – consegue un preciso mandatum: l’imitazione. Per la precisione due delle grandi tradizioni neotestamentarie – quella di Paolo e di Giovanni – aiutano a comprendere come l’uomo, chiamato alla comunione trinitaria (Giovanni), ad essere-in-Cristo (Paolo), debba anche riprodurre l’amore proprio del Figlio per il Padre (Giovanni), a vivere-in-Cristo, imitando il suo esempio (Paolo). La prospettiva morale è la conseguenza del modello antropologico presentato in precedenza da Tettamanzi: l’uomo, creato ad immagine di Dio e raggiunto da Cristo, perché da sempre chiamato a conformarsi perfettamente all’immagine del Figlio, attua tale conformazione mediante l’imitazione di Cristo. Egli si interroga su quale sia, in profondità, la ragione ultima dell’imperativo morale fondamentale, che proviene da Dio in Cristo. Perché Gesù Cristo è legge per il cristiano? Tettamanzi risponde a questa domanda fondamentale, richiamando il ruolo che il Padre ha affidato a Cristo nei confronti dell’uomo. Gesù Cristo è legge morale, perché è il Verbo incarnato, Creatore e Redentore di ogni uomo. In virtù dell’incarnazione, Gesù Cristo rivela e rappresenta in modo pieno il pensiero e il volere del Padre. Egli manifesta il piano eterno secondo il quale Dio ha creato l’uomo, orientandolo verso Cristo. In Cristo il Padre ha pensato e voluto ogni realtà: è il Primogenito al quale tutto deve adeguarsi. Gesù Cristo è legge non solamente perché diviene uomo come tutti, ma in quanto presente con l’uomo nel piano di Dio, dall’eternità. Tettamanzi così sintetizza: il Verbo incarnato è cuore dell’ordine ontologico e dell’ordine morale. In Gesù Cristo, Verbo incarnato, l’uomo si trova già normato da Dio, perché è precisamente l’homo Christus Jesus la norma prima ed eterna voluta dal Padre per l’uomo. Precisamente, dall’eternità Dio ha pensato al Verbo incarnato come centro di tutto l’ordine esistente e, quindi, anche dell’uomo. La formula paolina essere in Cristo è utile per comprendere la nuova situazione ontologica del cristiano, dalla quale scaturisce l’esigenza morale: dal momento che il cristiano è in Cristo, può e deve vivere in Cristo, secondo l’inscindibile rapporto tra essere ed agire. In definitiva, l’uomo è legato da sempre a Cristo, che riconosce anche come maestro, di cui è discepolo, come modello, di IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 109 cui è imitatore, come vita da cui riceve energia. La morale cristiana dipende interamente dalla verità di Cristo, dall’esempio di Cristo modello, dalla vita di Cristo. In definitiva e precisamente: la vocazione del cristiano, la sua meta e quindi anche la norma essenziale della sua esistenza è essere immagine vivente di Cristo e della sua vita virtuosa. Alla luce di tutte queste considerazioni, l’autore può, a buon diritto, affermare: che la morale cristiana e Gesù Cristo sono assolutamente inscindibili: la morale cristiana viene radicalmente falsificata se la si separa dalla persona, dalla vita, dalla missione di Gesù Cristo. Il mistero dell’uomo dalla Croce alla Trinità Vorrei ora fare riferimento al teologo moralista R. Tremblay; il motivo che mi spinge a richiamare qualche tratto del suo pensiero è duplice: egli ha consacrato oltre 25 anni a studiare i fondamenti cristologici della morale, offrendo numerosi testi. Inoltre, con questa scelta desidero rendere un atto d’omaggio alla scuola cristologica sviluppata dall’Accademia Alfonsiana, di cui Tremblay è esponente di rilievo. L’intento dell’autore è quello di offrire un progetto morale che – davanti allo slogan ricorrente “Dio sì! La morale no!” – non spaventi l’uomo, ma, al contrario, lo attiri e lo seduca. Paradossalmente il punto di partenza della ricerca del fondamento ultimo della morale cristiana è ciò che si presenta come la realtà meno attraente che ci sia: la Croce. Eppure seduce, perché la sua ragion d’essere si trova nella decisione del Padre che dona il suo Figlio (cfr. Gv. 3,16), nella volontà del Figlio di giungere alla pienezza della sua risposta d’amore al Padre e del suo dono totale agli uomini, nella testimonianza dello Spirito – simbolicamente fuoriuscito dal cuore trafitto – che è l’Esegeta vivente dell’amore trinitario. La Croce è come la scala (cfr. Gn. 28,10-17) o la macchina (S. Ignazio d’Antiochia) che porta al cuore del mistero del Dio amore. Ora, di fronte ad una tale opera, che vede impegnata la Trinità nelle sue Persone, sorge la domanda chi sia in realtà l’uomo, oggetto di tanta dedizione, e quale sia il suo compito nel mondo. Il prologo della Lettera agli Efesini ci orienta verso la risposta, perché documenta la decisione eterna del Padre di renderci figli adottivi nel Figlio. 110 MARCO DOLDI Ora, l’autore nota che siamo davanti ad “una antropologia originariamente filiale che implica un’etica della impeccabilità e della santità, antropologia collegata rispettivamente alle persone del Figlio e del Padre con le quali la creatura umana è chiamata ad entrare in comunione per grazia”19. È fondamentale notare che la decisione divina è simultaneamente fondamento dell’antropologia e dell’etica, perché rivela l’identità filiale dell’uomo e la sua chiamata alla santità. Metodologicamente tali dati dogmatici appartengono in pieno alla riflessione morale, come ha domandato il Concilio. Il compito di mostrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo è svolto dall’autore in modo dettagliato, studiando attentamente le tradizioni neotestamentarie. Esse documentano come Cristo sia divenuto solidale con l’uomo, avendolo raggiunto là dove egli è – in un mondo preciso – con quello che egli è – nella sua situazione di peccato – per donargli mediante la Croce quello che egli è: figlio amato dal Padre. In questo modo l’uomo torna ad essere capax Dei. Tutto questo è stato possibile perché l’uomo era preparato a ricevere da Cristo il dono della filiazione, al piano della creazione: Egli è l’Omega – cioè il compimento dell’uomo – in quanto è l’Alfa. Ma, allo stesso tempo, Egli è Alfa – cioè Creatore dell’uomo – in quanto Omega. In definitiva, la creazione dell’uomo, cioè dell’essere umano in quanto tale, “trae la sua condizione di possibilità dalla Croce gloriosa del Figlio”20. Il piano eterno del Padre ha preso forma nella storia della salvezza passando attraverso la croce gloriosa del Figlio. “Si capisce perché c’è d’ora in avanti nel nostro mondo un nuovo giardino (cf. Gv 19,41) nel quale è piantato un nuovo albero, l’albero della croce vivente nella carne stigmatizzata di Gesù e palpitante della gloria filiale (cf Ap 22,14) accordata dal Padre nel “vigore della forza” dello Spirito (cf. Ef 1,19-20)”21. Dalla Croce sorge una morale nuova, frutto dell’antropolo- 19 TREMBLAY R., “Senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5) in ID., L’“Innalzamento” del Figlio fulcro della vita morale (Roma 2001) pp. 24-25. 20 TREMBLAY R., “Senza di me non potete… p. 34. 21 TREMBLAY R., La croce, il sorgere di una morale teofanica in ID., L’“Innalzamento” del Figlio fulcro della vita morale (Roma 2001) p 77 IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 111 gia filiale, che è caratterizzata dal dono radicale all’altro; essa si caratterizza per un “duplice abbandono di sé, richiamatesi l’un l’altro, cioè l’abbandono di sé a vantaggio della gloria di Dio e l’abbandono di sé a vantaggio dei fratelli, di preferenza i più indifesi”22. Tale morale è di ordine teo-fanico, anziché antropofanico: “il credente accetta di non vantarsi, di non “glorificarsi davanti a Dio” (cf. 1Cor 1,29) cercando la propria gloria in se stesso o nel suo entourage per lasciare tutto il posto al Padre e farne risplendere la gloria nel mondo”23. Il comportamento morale consiste nel rendere gloria al Padre, piuttosto che a se stessi e si fonda sulla verità che l’uomo è partecipe dell’Essere stesso del figlio, Essere che consiste nel rinviare al Padre (cf Gv 5,42-43). Il credente, che è essenzialmente figlio, accoglie l’Essere divino del Figlio nella sua dimensione relazionale orientato al Padre e con il suo agire nel mondo lascia trasparire la gloria del Padre. La morale è di tipo filio/patro-fanico. Inoltre, la morale filiale comporta l’apertura di sé a vantaggio dei fratelli. L’evento della Croce, prefigurata nell’episodio della lavanda dei piedi (cf. Gv 13, 1-20) è paradigmatico per l’agire del credente. Qui è presente l’Essere di Dio come Agape, apertura all’uomo nel servizio da schiavo. Precisa Tremblay: “La morale cristiana condensata nel servizio da schiavo per amore, diventa quindi, anch’essa, rivelatrice del volto di Dio”24. Così il servizio da schiavo, rappresentato dalla lavanda dei piedi non è per i credenti un atto morale accanto agli altri, “ma è l’espressione per eccellenza della loro comunione con l’essere filiale di Gesù che si irradia sul Golgota, dopo essersi già manifestata nel cenacolo”25. 22 TREMBLAY R., La croce, il sorgere di una morale… p. 70 TREMBLAY R., Realizzare nel mondo la relazione Padre-Figlio in ID., Voi, luce del mondo…La vita morale dei cristiani: Dio fra gli uomini (Bologna 2003) p. 52. 24 TREMBLAY R., La “lavanda dei piedi” di Gv 13,1-20 in ID., Radicati e fondati nel Figlio. Contributi per una morale di tipo filiale (Bologna 1997) p. 137. 25 TREMBLAY R., La dimensione teologale della morale in ID., Radicati e fondati nel Figlio. Contributi per una morale di tipo filiale (Bologna 1997) p. 120. 23 112 MARCO DOLDI Stando così le cose, Tremblay non teme di indicare la morale di tipo filiale come l’elemento maggiore della nuova evangelizzazione: avendo attribuito una tale dignità all’agire dell’uomo in forza dell’amore che è Dio, non può che toccare il cuore dell’uomo contemporaneo, spesso indurito e disattento all’amore, proprio perché non conosce la verità dell’amore. 3. Linee strutturali A conclusione di questo percorso, che ha evidenziato in modo necessariamente sintetico il pensiero di due teologi moralisti, è possibile indicare alcuni punti, che divengono fondamentali, a motivo della fedeltà alle indicazioni conciliari. L’attualità del cristocentrismo. Da qualche parte si vuole dimostrare che la morale cristocentrica sia un paradigma superato26. Il cristocentrismo sarebbe stato una comprensibile reazione al pensiero neoscolastico, che predominava nei manuali pre-conciliari, ma, successivamente, sarebbe divenuto inutile, a motivo della sua mancanza di scientificità. Riteniamo di non condividere questa posizione: infatti, si tratta di stabilire la qualità del cristocentrismo: se esso è inteso come un semplice riferimento alla Sacra Scrittura, riferimento che si risolve in un accumulo di testi o in un richiamo generale alla sequela di Cristo per motivare gli atteggiamenti di fondo del credente, certamente tale cristocentrismo si rivela fallimentare, perché insufficiente. Ma, se al cristocentrismo si permette di mostrare – attraverso le diverse tradizioni neotestamentarie ed attraverso l’accoglienza di queste nella riflessione viva della Chiesa – il ruolo fondante di Cristo nei confronti dell’uomo e del suo agire, allora il cristocentrismo risulta essere il vero fondamento della morale cristiana. Dove comincia la riflessione morale? Forse qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che molte delle riflessioni svolte da 26 Si veda per esempio DEMMER K., Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana (Cinisello Balsamo 1989) pp. 83 e ss. IL RINNOVAMENTO POSTCONCILIARE 113 Tettamanzi e da Tremblay siano di ordine dogmatico e, pertanto, non appartengano alla morale; questa comincerebbe quando si approfondisce in modo sistematico l’agire dell’uomo. Personalmente ritengo che, sulla base della Optatam Totius 16, la teologia morale debba in primo luogo riflettere, proprio con l’aiuto dei dati teologici, su chi sia l’uomo raggiunto da Cristo nei costitutivi del suo essere così da ricevere il dono della filiazione e debba continuare indicando la qualità filiale del suo agire, che si concretizza nell’agire morale, indicandone la qualità filiale. Quale è il primo compito della teologia morale? Lo abbiamo già indicato alcune volte: quello di mostrare l’altezza della vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo. Qui bisogna spendere energie per mostrare la bellezza della chiamata in Cristo, una chiamata – direbbe Capone – di ordine sostanziale, perché il Padre chiamando l’uomo nel Figlio lo destina alla filiazione. Diventa importante approfondire il legame di Cristo con l’uomo, studiando in quali tornanti della storia della salvezza Egli intervenga per attuare il disegno del Padre. La questione antropologica appartiene quindi alla teologia morale. Si tratta di indicare quale sia l’identità e il volto dell’uomo, chiamato ad agire nel mondo. E su questo non possono esserci dubbi: attraverso la venuta di suo Figlio, Dio fa di noi i suoi figli adottivi (cfr. Gal 4,4-7; Rom 8,14-17). Con la Scrittura precisiamo che questo rapporto è reale: Dio fa di noi i suoi figli, grazie ad una scelta che dipende esclusivamente dalla gratuità del suo amore; ancora, Egli stabilisce con noi un nuovo legame di parentela, comunicando a noi l’Essere divino che costituisce il Figlio. L’essere filiale ci trasforma al punto che acquisiamo la capacità di chiamare Dio col nome di Abbà. Infine, ricordiamo che la comunicazione dell’essere filiale è opera dello Spirito personale del Figlio, realmente presente nel cuore dei credenti. La cristologia e l’agire concreto dell’uomo. Nel periodo post conciliare non è mancato chi ha riservato a Cristo solo una menzione all’inizio della trattazione, per tralasciarne poi il ruolo e adoperarsi in una trattazione prevalentemente – se non meramente – filosofica. Questo ha portato alcuni a ritenere che la centralità di Cristo non permetterebbe di giungere alla concretezza della vita morale. 114 MARCO DOLDI In realtà, anche la parte sistematica della morale deve svolgersi sotto il segno di Cristo. Atto morale, libertà, coscienza, legge morale, etc. sono da presentarsi come le modalità di esercizio della vita filiale. Di qua la riflessione continua per indicare un cammino di autentica perfezione. Una morale teofanica. Diveniamo sempre più consapevoli che la morale non è costituita essenzialmente dalle norme e dalle leggi; essa prima di tutto è manifestazione dell’agire di Dio, o meglio ancora è manifestazione del suo Essere-Agape. Lavanda dei piedi, Croce, ma anche Eucarestia rivelano, attraverso il Figlio che ne è la causa, il volto di un Dio che esce da se stesso e si mette a servizio dell’uomo, assumendo la condizione di servo, offrendo se stesso nella sofferenza sino in fondo, nel consegnarsi come cibo per essere masticato e divenire nutrimento dell’uomo. La morale assume, così, prospettive e panorami inediti, quali lo Spirito del Figlio indica al credente in un dinamismo di imitazione del Padre, di perfezione evangelica, di santità cristiana. Morale e testimonianza. Sappiamo che da tempo la morale ha una cattiva reputazione, perché è intesa come un insieme di precetti scomodi, come un’umiliazione della libertà. A ben guardare le cose, si deve dire tutto il contrario! L’evento della croce trova la sua ragion d’essere nella libertà del Figlio che ha scelto di mostrare al mondo il suo grande amore per il Padre e per l’uomo: nessuno l’ha costretto, perché egli solo ha il potere di dare la vita (cf. Gv 10,18). Analogamente, la vita morale del credente sarà costantemente sotto il segno di una libertà che si fa dono e servizio degli ultimi, continuando il gesto d’amore del Figlio, direbbe Capone, il mandato del Padre nel mondo. Così vissuta la morale diverrà segno credibile del Dio amore per l’uomo del terzo millennio. MARCO DOLDI ————— L’autore è docente di Teologia Dogmatica e Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione di Genova, della quale è anche Direttore. ————— StMor 42 (2004) 115-145 TERENCE KENNEDY C.SS.R. PATHS OF RECEPTION: HOW GAUDIUM ET SPES SHAPED FUNDAMENTAL MORAL THEOLOGY Reception became a lively topic of research only after debates began on how the Second Vatican Council was to be implemented. Its first phase was kerygmatic, an enthusiastic welcome for a new vision of Christian existence. Once the uniqueness of the Conciliar event was recognised a process of assimilation and rejection commenced. This involved a multistage discernment of the Council’s impact on the Church’s ongoing tradition at all levels and in all spheres of life. Not just a question of exegeting the Council’s sixteen documents, it equally involved integrating the effects of its celebration, its Wirkungsgeschichte into her history down the ages. The Spirit is the primary agent encouraging the Church to nourish herself at the fount of the Council’s richness. The sustenance she assimilated into her bloodstream invigorated all God’s people, as testified by new vitality in her official teaching, by the depth of theological reflection, and by charismatic initiatives in spirituality and service of the world.1 Of course it would be utterly presumptuous to pretend to draw up a balance sheet of all aspects of the Council’s reception up to now. The Pastoral Constitution Gaudium et Spes shaped the nascent discipline of fundamental moral theology by rethinking the Church’s relationship to the world. This essay examines the theological reception of that document and its influence on the coming into existence of a new research community and discipline, namely, fundamental moral theology. Gaudium et Spes and moral theology are like the two foci of an ellipse marking 1 See Giles ROUTHIER, La réception d’un Concile, Cerf, Paris 1993. Also Hermann J. POTTMEYER, “A New Phase in the Reception of Vatican II,” in The Reception of Vatican II, G. ALBERIGO et al. (eds.), The Catholic University of America Press, Washington, D.C. 1987, 29-34. 116 TERENCE KENNEDY out the enlarged territory in which fundamental moral theology emerged. The argument will unfold in this order: I. Christian Morality and Church-World Problems; II. Gaudium et Spes’s Contribution to a New Moral Vision; III. Its Deeper Reception into Moral Theology; IV. Renewing the Foundations of Moral Theology; and V. Reception, Renewal and the Sources of Moral Theology. I. Christian Morality and Church–World Problems Rereading Gaudium et Spes after nearly forty years still sets one afire with hope. It has the style of the Spiritual Exercises that touches the deepest sentiments of our times. Before the Council Yves Congar said. “This is what the Church needs to do – to go into retreat. The Council ought to be a time of retreat for the Church, a time to re-examine herself as she faces her responsibilities… in the light of the principles she accepts as the pattern of her life: the Gospel, the revelation of God, and the demands of Jesus Christ.”2 Gaudium et Spes was not on the Council’s original agenda. It emerged out of Pope John XXIII’s project for a pastoral Council to renew the Church’s life ad intra and to respond to the needs of the world ad extra.3 The last doc- 2 Ecumenism and the Future of the Church, Priory Press, Chicago 1967, 76. See the commentaries; F. Gil HELLÌN, Concilii Vaticani II Synopsis “Gaudium et Spes”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003; M. LAMBERIGTS and L. KENIS, (eds.), Vatican II and its Legacy, Leuven University Press, Leuven 2002; G. TURBANI, Un Concilio per il mondo moderno: La redazione della constituzione “Gaudium et Spes” del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2000; Peter HÜNERMANN (ed.), Das II Vaticanum: Christlicher Glaube im Horizont globaler Modernisierung, Ferdinand Schrönigh, Paderborn 1998; Continuity and Change in the Human Condition “Gaudium et Spes”, 30 Years Later, in S.M., XXXV (1997) 1 (whole issue); Gottard FUCHS and Andreas LIENKAMP (eds.), Visionen des Konzils: 30 Jahre Pastoralkonstitution “Die Kirche in der Welt von heute”, LIT, Münster 1997; L. SARTORI, Introduzione alla Gaudium et Spes, Messaggero, Padova 1995; G. ALBERIGO (ed.), Storia del Concilio Vaticano II, 5 vols., Il Mulino, Bologna 1995-2001; The Moral Theology of Vatican II and its Reception, in S.M., XXIV (1986) 1 (whole issue): H. VORGRIMLER (ed.), Commentary on the Documents of Vatican II, Vol. 5, Herder and Herder, New York 1969 (hereafter Vorgrimler); Enrico CHIAVACCI, 3 PATHS OF RECEPTION 117 ument promulgated by the Council, it brought his desire to fulfilment in a way nobody foresaw. His idea of aggiornamento is an organic concept, a metaphor taken from biology. Plant and animal species all include a number of varieties that modify a basic common structure allowing them to survive in differing habitats. A time can come when a species’ survival requires a radical change of type. A species ceases to be “an intelligible solution to a problem of living in a given environment”4 when that environment changes beyond a certain limit and the alternatives are either extinction or evolution. When evolution occurs, the resultant species is a new solution to a new problem of living. Why was the Church so badly adjusted to the contemporary world–environment that such an adjustment was necessary? This question furnishes the premise for all that follows. Gaudium et Spes arose precisely out of the Church’s confronting that challenge. Out of that same experience moralists realised that they now had to direct their renewal to a clearer and more precise aim, i.e., to securing moral theology’s epistemological status as a theological science.5 This put a radically new demand on it, one never so directly faced in its whole history as casuistry, but now necessary for survival. The Council’s struggle with this question in each of its four sessions brought the need for it to put a critical account of its identity into sharp focus. The Council Fathers grasped intuitively that they had to overcome the contempt and pessimism of “the flight from the La Constituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Vita e Pensiero, Milano 1967; Y. M-J. CONGAR, et al (eds.), L’église dans le monde de ce temps, 3 vols., Cerf, Paris 1967; GROUP 2000, The Church Today, Newman Press, Westminster, Md. 1967; Philippe DELHAYE, Le dialogue de l’église et du monde d’après Gaudium et Spes, J. Duculot, Gemloux 1967; S. Quadri (ed.), La Chiesa nel mondo contemoraneo, Borla, Torino 1967; A. FAVALE (ed.), La Constituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ElleDiCi, Leumann (TO) 1966; G. BARUÁNA (ed.), La Chiesa nel mondo di oggi, Valsecchi, Firenze 1966 (hereafter Baráuna). 4 This is Bernard Lonergan’s definition of a species as reported in B. C. BUTLER’s essay on “The Aggiornamento of Vatican II,” in Searchings, Geoffrey Chapman, London 1974, 257. 5 For background see O. BERNASCONI, Morale autonoma ed etica della fede, EDB, Bologna 1981. 118 TERENCE KENNEDY world”6 spirituality that had dominated the Church’s attitude to secular reality for centuries. To do this they had to recast the Church’s relationship to the contemporary world. There is still no authoritative history of the origins of the split between Church and world.7 Congar noted how a monastic mentality permeating medieval culture judged things not for their intrinsic worth but solely in terms of salvation. Such a mentality would never permit the world to develop its full potential and achieve its true identity. F. Houtard has sketched how this Church–world dialectic operated.8 The primitive Church looked outward to evangelising the world: Constantine began a process of symbiosis that led to the two-power theory of Christendom: Modernity grew out of the differentiation and separation of secular institutions whereby they won independence and autonomy from the Church. Rebellion against a Christendom model that subjugated all civil and cultural institutions to ecclesiastical surveillance was inevitable. In time politics, commerce, economics, philosophy, science, art and ethics liberated themselves from her hegemony. Philippe Delhaye stresses how these institutions had to battle Church authority in order to be born and to stay in existence. Once outside the Church’s sphere of influence, they usually bitterly resisted having anything to do with her. Church and world had grown so far apart that the power of God’s word to manifest the intrinsic worth of human progress, its ultimate purpose, and how the whole universe comes to salvation in Christ was being rendered largely irrelevant to Western culture. This betrayed an enigma at the heart of modern moral theology. The victory of political and human liberty, human rights, and the new experimental sciences all happened because modernity broke out of the traditional medieval, hierarchical world- 6 Ph. DELHAYE explains, “la spiritualité en cours est ancore fortement imprégnée de augustinisme qui, dans la ligne des èscrits johanniques, voit surtout dans la monde ceaux qui refusent l’Evangile de Jésus (Mundus eum non cognovit ; non rogo pro Mundo) ”, in “ Les points forts de la théologie moral à Vatican II, ” S.M., XXIV (1986) 1, 30. 7 Yves CONGAR, “La chiesa e il mondo,” in Comprensione del mondo nella fede, AA.V.V., Dehoniane, Bologna 1969, 129-130 especially. 8 L’église et le monde. A propos du Schéma XVII, Cerf, Paris 1964. PATHS OF RECEPTION 119 view. Moral theology, however, continued to use methods essentially tied to that worldview and so refused to take these finding seriously. These new movements were accused of supporting secularism and could not be trusted because they systematically excluded faith, God and religion from science. But secular society proceeded to consecrate humanistic values as the cornerstone of the new democratic state. At Vatican II the Church had to interrogate herself whether her view of history and of social change might not be distorted. Could it be blocking her perception of the Gospel values hidden deep down in the foundations of modernity? The pre-Christian philosophies of Plato and Aristotle had enriched the Church. Why should she stand aloof and alienate herself from similar conquests of the human mind occurring during the period of Christian history?9 Thus a number of deeply rooted moral presuppositions that regulated the Church’s action in the world had to be rectified. The manuals defined morality as a set of rules or obligations externally imposed on individuals, and this in terms of sin and not of happiness and fulfilment. The lay state was thereby devalued to an inferior style of life where salvation was gained by avoiding sin rather than by love as in religious life. The neoscholastic version of natural law based on quite rationalistic and ahistorical notions of immutable nature was employed to justify this morality, a universe where the natural and supernatural existed on separate levels. The Council never thought it had the task of criticising such theories in themselves. Freely accepting the world’s present reality, it declared, “And so mankind substitutes a dynamic and more evolutionary concept of nature for a static one”(5).10 But a Gospel vision of a world in movement was set to revolutionise how moral theology understood its mission. Determined to address all humanity (2) the Council Fathers discovered that current language resonating Scriptural 9 Ph. DELHAYE develops this point in Dialogo Chiesa-mondo, Cittadella, Assisi, 1968, 64 and 75. 10 Numbers in brackets henceforth refer to GS. Citations will be from Austin FLANNERY, Vatican Council II, Vol. I., Eerdmans, Grand Rapids, Michigan 1992 edition. 120 TERENCE KENNEDY insights fulfilled its purpose of proclaiming the Gospel to the world much better than strictly technical terminology. II. Gaudium et Spes’s Contribution to a New Moral Vision The Constitution’s title underlined the Council’s pastoral intent. It centred attention on the practical attitude the Church should assume to the contemporary world. The note attached to the title states that the pastoral and doctrinal dimensions of ecclesial action are inseparable. Moral theology’s relation to pastoral realities was turned on its head. Previously morals became pastoral by applying principles, thereby extending them to real life situations, but the Council calls for a constant doctrinal–pastoral interaction or, in current terminology, a praxis–theory dialectic where science arises out of and never loses contact with the situation as its starting-point.11 The Council sought to find an alternative to the centuries old meaning of the word “world.” Of the four senses available – creation, the theatre of human activity, all that opposes itself to God, or ta panta as the final destiny of the universe12 – the Council Fathers chose to form their notion from a phenomenology of the actual transformations in progress.13 A conception of the world as existing in and through time, i.e., as history, resulted. “Therefore, the world which the Council has in mind is the whole human family seen in the context of everything that envelops it: it is the world as the theatre of human history, bearing the marks of its travail, its triumphs and failures”(2). Charles 11 Anton RAUSCHER writes of this methodology, “il punto di partenza non è costituito immediatemente dai principii generali, che verrano poi applicati alla realtà concreta, ma è messo piuttosto in primo piano lo sforzo di comporre, anzitutto, un quadro generale delle condizioni sociali, il più fedele possibile,” in “I fondamenti naturali della vita sociale,” in Baráuna, 296. 12 See Y. CONGAR L’église dans le monde de ce temps, Tome III, Cerf, Paris 1967, 38-41, and J. RATZINGER, “Il cristiano e il mondo d’oggi,” in Comprensione del mondo nella fede, AA.V.V., Dehoniane, Bologna 1969, 159-177. 13 See Ph. DELHAYE, op. cit. 69f. PATHS OF RECEPTION 121 Moeller14 emphasises the many possibilities this definition contained with its frank acceptance of the mixture of defeats and conquests that mark human affairs indelibly. By conscientiously avoiding naive optimism the Council affirms the world’s inevitable ambiguity. The Church is joined to the world, inserted in it, lives immersed in it and not over against it; it shares its joys and sorrows, trials and triumphs. Christians are, “The bearer of a message of salvation meant for all men” on their pilgrim way to “the kingdom of the Father”(1). The Council throws further light on this statement from the dogma of creation. It has in mind, “The world, which in the Christian vision has been created and is sustained by the love of its maker, which has been freed from the slavery of sin by Christ, who was crucified and rose again in order to break the stronghold of the evil one, so that it might be fashioned anew according to God’s design and brought to its fulfilment”(2). J. Ratzinger15 notes how the ancient Greeks could conceive of a faber, a demiurge forming the matter of the world but not of a God who “got his hands dirty” by bringing the universe into being ex nihilo for love of us. Through Christ’s Pasch the present world is standing on the brink of its final consummation, the realisation of its vocation. The eschatological tension written into history means that our final goal can never be fully attained by human effort today, but that every step forward is sustained by faith and hope. Salvation history can be summarised as unfolding in the four phases of creation–sin–redemption–eschatology that evokes St. Paul’s idea of the divine mysterion (cf. Col 1; Eph 1; Rom 8: 30). The world is thus defined through the unfolding of the mysterion, God’s plan for humanity’s final fulfilment in Christ. This is the framework within which moral theology has to be elaborated. Human history is analysed anthropologically in the first three chapters of Part I of the Constitution. The human person is always the central consideration and is treated according to, i. its dignity, ii. its life in society, and iii. the significance of its 14 See VORGRIMLER, 89-91. “Il cristiano e il mondo di oggi” in Comprensione del mondo nella fede, AA.V.V.,Dehoniane, Bologna 1969, 184. 15 122 TERENCE KENNEDY earthly activity. Chapter four describes the mutual “give and take” that should typify Church– world exchanges. There is an inner logic in these four chapters derived from a vision that has been retrieved from the Scriptures and the Fathers of the Church. Walter Kasper formulated this axiom: the world “is a reality that God has finalised to Jesus Christ.”16 Human history has only one concrete final end, the Kingdom of the Father. It receives its ontological consistency from God through Jesus Christ and so is permeated by his Will. Objectively the world is oriented and directed to God so that all people, whether Christian or non-Christian, enjoy the possibility of salvation. Each chapter in Part I ends with a Christological paragraph that points their teaching on the human person, on society and on earthly activity, to their recapitulation in Christ. In this limited space it is possible to discuss but one governing principle from each chapter, a theme deemed necessary for renewing moral teaching according to the mind of the Council. Chapter one’s conception of the human person as imago Dei leads to the trade mark assertion of the whole Pastoral Constitution; “it is only in the mystery of the Word made flesh that the mystery of man truly becomes clear” (22). As a “partner in the paschal mystery” every human person shares Christ’s destiny of death and resurrection. Z. Alszeghy interprets this chapter as a Gospel of grace.17 Our creaturely status means not just temporary dependence of origin on God but a permanent state, a vocation to be God’s companion, co-operating with Him to build up the world for the coming of the Kingdom. In Scripture being created “in justice” means that God acts in people so that they can know and love each person in the Trinity. As imago each human person is God’s viceroy in the universe, one through whom God achieves his purpose. Their vocation puts God’s plan for creation into action. By abolishing the power of sin, pouring out the Spirit into their heart, Christ 16 Quoted by Francesco SCANZIANI, “La Chiesa nel mondo: Attualitá di alcuni principi ispiratori della Gaudium et Spes,” in La rivista del clero italiano, LXXXIV(2003)10, 713. 17 “La dignita’ della persona umana,” in La Constitutione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, A. Favale (ed.), ElleDiCi, Leumann (TO) 1966, 427,429, 447-449. PATHS OF RECEPTION 123 has made them “capable of fulfilling the new law of love”(22). Redemption gives them a new role as personal collaborators with Christ, cooperating with the action of the Holy Spirit to bring about “a new heaven and a new earth.” Gaudium et Spes challenges moral theology to restore the tract on grace to its rightful place so that human action may once again be understood through its relation to the divine persons. Chapter two emphasises human solidarity between all the world’s peoples, because God intends to save people not as individuals but in society, as his chosen people. GS 34 furnishes the theological justification for the Church’s social teaching and for the corporate character of the human vocation and effort. “In his fatherly care for all of us, God desired that all men should form one family and deal with each other in a spirit of love.” This reality has three dimensions. Vertically, all form a community in God’s sight since all are created in God’s image and so are destined to God as their ultimate supernatural end. On the horizontal plane, community with God produces effects in people’s behaviour toward each other. Love of God must be realised in love of neighbour. Thus love animates the growing interdependence that people experience, otherwise the expansion of technology will become an impossible tyranny if not redeemed by the power of neighbourly love. The third dimension is the Christian interpretation of the unity of God and neighbour. Otto Semmelroth puts the Council’s position this way: “Man’s likeness to God does not found a community solely because all individuals are created in God’s image, but because mankind, multiple in unity, is an image, even if an imperfect one, of the one God in three persons.”18 Human persons can find themselves only by meeting with and giving themselves to others. People are made for communion with each other and God. The spontaneous total self-giving of the divine persons is an ideal that human persons only learn to imitate laboriously. Christ “has opened up new horizons closed to human reason by implying that there is a certain parallel in the union existing between the divine persons and the union of the sons of God in truth and love.” Charity is therefore the supreme principle of all human relationships and 18 VORGRIMLER, 167. 124 TERENCE KENNEDY community, the foundation on which both the Church’s social teaching and moral theology are built. Principles such as the dignity of the person, the common good, human rights, and human duties flow from it, as the Council makes evident (23-32). This principle has penetrated deeply into the practice of moral theology today to correct old errors and to bring the Church’s social teaching within its jurisdiction. The “need to transcend an individual morality”(30) signals a sea–change in the way the Church wants to live the Gospel. It criticises “a merely individualistic morality” for thinking that one can practise charity without involvement in social institutions. Conscience told one how “to save one’s soul” without any qualms about the social destiny of humanity. But participation in the social domain is an essential element of Christian doctrine. A piety that conceived faith’s salvific power in terms of the modern “self” put the Church, as it were, “on the wrong foot” with the world. Moral theology was accustomed to reinforce this situation strenuously. The Council on the other hand asserted that all morality is by nature social. John Paul II in his encyclical Sollicitudo Rei Socialis drew the obvious conclusion. The Church’s social teaching, “belongs to the field, not of ideology, but of theology and particularly of moral theology” (SRS 41). This bequeaths moral theology an immense future task. Chapter three confronts the modern ideal of progress, the making of a better world by developing human wealth and resources. Here human activity is taken as the power to transform the material universe, dominion over creation through science and technology. Beginning from the person’s “total vocation” (35) the Council underlines the value of work and the autonomy of temporal institutions and sciences. The things of this world are more than materials to be used for moral and religious purposes, “occasiones moralitatis sive pietatis” as in the Middle Ages. They have an ontological consistency of their own previous to any religious or moral consideration. Alfons Auer says, “People nowadays no longer wish their dealings with the world to be purely meditative or philosophical, they want to shape the world for their own use and get the best out of it.”19 19 VORGRIMLER, 189. PATHS OF RECEPTION 125 While defending the autonomy of secular institutions and their intrinsic value, these are to be integrated into man’s vocation to eternal life as part of God’s plan. Human persons must refer themselves and everything that they transform by their deeds to the Creator. This means that they have to put into effect the intrinsic relation that links them and things to God consciously. This is the condition for glorifying God on this earth. The Council wants to heal the split between faith and life by restoring the intrinsic value of earthly realities. “The fundamental law of human perfection, and consequently of the transformation of the world, is the new commandment of love… the way of love is open to all men… and the effort to establish a universal brotherhood will not be in vain.” Earthly progress has to be distinguished from the growth of God’s Kingdom, and yet they are deeply joined. In the Eucharist, “natural elements, the fruits of man’s cultivation, are changed into his glorified Body and Blood,” a foretaste of the heavenly banquet. There we will rediscover the fruits of work “cleansed this time from the stain of sin, illuminated and transfigured, when Christ presents to the Father an eternal and universal kingdom” (39). This Kingdom is already present in the world as it awaits its consummation at Christ’s coming. As with the first two chapters moral theology cannot ignore the sacramental and eschatological dimensions of human effort and so needs to reinstate them as constitutive of human action, historically considered. The first three chapters can be summarised as what the Church offers the world. The fourth also addresses what the world offers the Church, i.e., how she can learn from “the other.” There are four areas in which the Church receives from the world: i. the treasures of culture, especially self-knowledge and the truth about the human person; ii. language as a gift cultures offer to the Church, a means not just of expression but also of being and identity. In this spirit priests and theologians are invited to listen to the voices of the age; iii. the Church as an agent for unity in the world. But the world also creates unity in families, culture, the economy, politics and international relations. The world is not just the matter from which the Church forms the people of God, but it also prepares that unity. The Church takes from the world organisational forms and means of communication that she uses in her evangelising mission; iv. the 126 TERENCE KENNEDY Church as she learns from opposition and persecution. Questions put to the Church serve not only to purify her motives: they may also open her mind to new realities and the need for dialogue. This openness to “the other,” says Congar, flows out of the Church’s catholicity as an expression of Christ’s pleroma.20 III. Its Deeper Reception into Moral Theology The Constitution constructed its approach to the Church–world relationship along an anthropology-Christology axis. This implies a certain view of ecclesiology and the Church’s mediating task in the world. In Gaudium et Spes the Church achieved consciousness of her identity through her relationship to the world. Exactly on this point a paradigm shift in Catholic thinking occurred.21 Post-tridentine theology employed juridical categories to underpin its theory of the Church as a perfect society. It defended her authority against the Reformers’ attacks, a stance reinforced in the age of Revolution when ecclesiology was presented nearly always as apologetics. Struggling to find a new locus for the Church in the world, Vatican II chose theological anthropology,22 not law, as its starting-point from which to explain her presence in human history. Long-dormant concepts from patristic and medieval theology began to play an active role again. These formed an original synthesis, an ecclesiology very different from the baroque ideal of a Church founded on public 20 VORGRIMLER, 220-221. See Peter HÜNERMANN, “Die Frage nach Gott und der Gerechtigkeit: Eine kritische dogmatische Reflexion auf die Pastoralkonstitution,” in Das II Vaticanum: Christliche Glaube im Horizont globaler Modernisierung, P. Hünermann (ed.), Ferdinand Schrönigh, Paderborn 1998, 125 f. Unfortunately space does not permit a discussion of the God–question in GS. 22 This means that Christian anthropology is the proximate foundation of moral theology, a point often overlooked in debates after the Council. It is quite impossible to derive moral principles from Christology alone without the mediation of a theological anthropology. Nor does GS begin philosophically or with a natural ethic and then work toward Christ. It is theological at every stage. 21 PATHS OF RECEPTION 127 law. The title, Jesus Christus, caput hominum, head of all humanity without exception was the key to the Council’s thought, a conception dear to St. Thomas Aquinas. It is clear that the anthropology-Christology axis was the Council’s only formal perspective on ecclesiology. Having established this patristic intuition in Lumen Gentium the Council then extended it in Gaudium et Spes to the way the Church lives out her identity in history. Time, secular society and the whole human dimension of life thereby acquire new meaning for faith and moral theology. For a Church “with a human face,” the humanum focuses her attention on the urgent tasks of salvation history. This shift to theological anthropology carries with it a new mental framework in which moral theology has to be conceived, elaborated and taught. Enrico Chiavacci23 gives a rather dramatic illustration of how this shift actually works out in the case of marriage. The post-tridentine Church viewed it as a sacrament ad intra, a formal structure in Catholic culture, an institution regulated by canon law. Today we treat it more ad extra as an anthropological reality with biological, psychological, cultural, social, political, legal and religious dimensions. These sciences provide the knowledge necessary for theologians to arrive at an informed faith–judgement on the matter. What effect did this new awareness of the humanum have on moral theology as an ecclesial discipline? The official call for renewal in moral theology was proclaimed not by Gaudium et Spes but by Optatam Totius on the training of priests. Special care was to be paid to three matters: i. its scientific presentation, ii. its nurture by Scripture, and, iii. the vocation of the laity “to bring forth fruit in charity for the life of the world’ (OT 16). Apart from this the Council does not mention moral theology explicitly, as Congar observed.24 Bernard Häring agreed but argued the importance of every Council state- 23 “La teologia della ‘Gaudium et Spes,’” in Il Concilio venti anni dopo, N. Galantino (ed.), A.V.E., Roma 1986, 7. 24 He noted this lack in the Council in his speech to the Third International Congress on the Lay Apostolate, Rome, 1967. 128 TERENCE KENNEDY ment for the renewal of moral theology.25 The 1985 Extraordinary Meeting of the Synod of Bishops’ established a hermeneutic for interpreting the organic relationship linking the Council’s documents, the four Constitutions being the key to all the rest. This Synod marked the crossing of a threshold in the reception of Gaudium et Spes which now had to be thought of in terms of communio, God’s Covenant with the world by which he draws it into union with himself. Introducing Part II of Gaudium et Spes, the Council indicates how the status of moral theology might be formulated in openness to the world. “We must seek light for each of these problems from the principles which Christ has given us.”(46) We recognise here the document’s Christocentricism. It then distinguishes two spheres in which these principles are to be actuated. Ad intra, inside the Church they provide guidance for the conscience of the faithful; for humanity ad extra, they are the Church’s contribution to a common search, an appeal to truth in finding genuine solutions to humanity’s problems. Part II of the Constitution on urgent questions concerning marriage, economy, and politics pertains to special morals and so falls outside our scope here. The function of the above principles is to “enlighten.” They yield a sapiential grasp of the truth more from spiritual insight than by rigorous reasoning. “In this way the faithful will receive guidance and all men will be enlightened in their search for solutions to so many complex problems.” Moral theology has to treasure these Gospel insights, pressing them into service of God’s intention in the world. In practice moralists found that two of Gaudium et Spes’s key categories, the signs of the times and dialogue, equipped them with new methods that would give moral theology a prophetic voice in a changing society. Several senses of the phase “the signs of times”(4 and 11) are to be excluded. They are not a direct reference to Matthew 16:31, describing the inability of Jesus’ hearers to acknowledge God’s final judgement on the 25 See Auf dem Weg zu einer christlichen Moraltheologie, Verlag der St. Paulus–Mission, Remscheid 1969, especially chapter 2, “Der Einfluss des Vaticanum II auf die Moraltheologie,” 28-42. PATHS OF RECEPTION 129 world already present in himself. Nor can they refer to God’s presence or absence in history as chronos, as in the ancient Roman proverb, vox temporis, vox Dei. They cannot be simply “read-off” empirically from a kairos as God’s intervention from what we see before us. They are events pregnant with Gospel significance. Without Scripture they cannot be understood, a difficulty that led J. Ratzinger to declare, “we have no rules of kerygmatic hermeneutics.”26 The signs of the times are concerned precisely with perceiving the presence of Christ’s action in the world. How do the Church and the Scriptures escape being prisoners of the historical past? The text speaks of “discernere”(11) thereby balancing off the Christological-historical with the pneumatological–kairological dimension. The Church thus returns to the wisdom tradition of discerning spirits. “Because ‘the Lord is the Spirit’ (2 Cor 3:17) and remains present through the Spirit, the Church has not only the chronological line with its obligation of continuity and identity, it also has the moment, the kairos, in which it must interpret and accomplish the work of the Lord as present.”27 The Council intended that the Church should detect indications of God’s presence in the events, the needs, and the aims of an age. She can grasp the ultimate questions motivating it. This approach requires solid holiness and closeness to God so as to bring about the aggiornamento so desired by the Council. Obedience to the Spirit is in no way a compromise with the spirit of the age. Dialogue was an ideal inspired by Paul VI’s 1964 encyclical Ecclesian Suam. It had a decisive effect on the second half of the Council and transformed the way method was thought of in moral theology. Certain conditions are necessary for dialogue, especially mutual respect. Two partners with differences, perhaps even hostile to each other, have to find some common ground of agreement for conversation to take place. John XXIII wanted to reach “all men of good will,”(22) by using the medicine of mercy and not condemnation. Dialogue should bring 26 27 VORGRIMLER, 116. Ibid. 130 TERENCE KENNEDY about reciprocity, give and take on both sides. The Church “benefits from the experience of past ages, from the progress of the sciences, and from the hidden riches in various cultures”(44) contained in literature, art and architecture. On her part she has dedicated all the richness of her doctrine to the service of humanity and its progress. She is “the handmaid of humanity”28 The Council chose the humanitas of the human person as the platform it could share with everyone. It proceeded to see the person in terms of Christ’s service even to laying down his life. This anthropological emphasis has borne abundant fruit in programmes of inculturation and evangelisation. As regards method, “moral reflection in an interdisciplinary context… is especially necessary in facing new issues”(VS 30). The Council encouraged theologians, “while respecting the methods and requirements of theological science, to look for a more appropriate way of communicating doctrine to the people of their time” (62). Both dialogue and the signs of the times improved moral theology’s communication with the laity and with people outside the Church but made the question of method more pressing and urgent than ever. The reaction to Gaudium et Spes has been twofold.29 Positively, a sense of inspiration, a new beginning and a ready reception of, in the words of John Paul II, “dialogue with other philosophies, cultures and religions.”30 The Council injected new content and methods into moral theology but never spelt out the shape these should assume. Negatively, the fact that the Constitution in its final stages was composed in haste without adequate reflection on crucial themes (e.g. the corrosion of sin in human history, and with Christ at the end and not as the first premise of each chapter) has stalled and even put in doubt the reception of some points into the Church’s life.31 Theologians 28 These ideas occur in Paul VI’s discourse closing the Council, Dec. 8th. 1965. 29 For some of the tensions in the preparation of GS see J. KOMONCHAK, “Augustine, Aquinas or the Gospel sine glossa? Divisions over Gaudium et spes,” in A. Ivereigh (ed.), Unfinished Journey, 102–118. 30 JOHN PAUL II, encyclical letter Novo Millennio Ineunte, 56. 31 As examples see Peter SMULDERS, in Baráuna 308-313 and 328-330: PATHS OF RECEPTION 131 have learnt that they cannot simply utilise it as a quarry for building materials for there is no easy one-to-one formula for translating it into moral theology.32 Reception is a long, tortuous process that takes many paths and diversions. IV. Renewing the Foundations of Moral Theology We now turn to the second focus in our ellipse, moral theology. Semantics play a crucial role in dialogue and often stimulates inquiry into the proper name for a discipline. The Council spoke only of “moral theology”(OT 16). “Christian ethics”, “theological ethics”, or simply “ethics” are titles used for moral theology that have entered the Catholic vocabulary only since the Council. “Christian ethics” is a Protestant term and signifies the extension of dogmatic principles, particularly justification by faith, to the moral life. “Theological ethics” is a systematic reflection on Christian moral practices. It assumes its formal perspective from secular philosophy and is often classified under the rubric of “religious ethics”. “Ethics” has of recent come to mean the minimum criteria or norms needed to maintain civil peace and coherence in pluralistic societies. The floating use of these terms has not paid due regard to the traditions that define them. The birth of fundamental moral theology can only be properly understood against the background of history, i.e., the programme of renewal launched before the Council and subsequently the Council’s platform for the reform of that tradition to make it fruitful into the future. The Council’s teaching is binding for all branches of Catholic thought, for philosophy and theology in general and for and J. RATZINGER’s commentary on GS chapter 1; and his “Church and World: An Inquiry into the Reception of Vatican Council II,” in Principles of Catholic Theology, Ignatius Press, San Francisco 1987, 278-293. 32 J. SELLING treats “the first part of the constitution as substantially representing the main lines of basic or fundamental moral theology,” in M. Lamberigts and L. Kenis (eds.), Vatican II and its Legacy, Leuven University Press, Leuven 2002, 154. The idea that GS Part I proves the groundplan for fundamental morals seems to be a rather simplistic absorption of its content. 132 TERENCE KENNEDY each of their specialisations. What should be said of fundamental moral theology with regard to Gaudium et Spes? It will not suffice to identify specific themes where their mutual interests overlap. A formal perspective on the whole field is required. Fundamental moral theology is relatively new as a science, the term only coming into common usage about the time of the Council, with no one binding definition. “Fundamental” suggests a response to the critical problem and its history since the Enlightenment. Moral theology was inflicted with the same crisis that swept through all the major branches of knowledge over the last century or so. It was brought before the bar of reason and interrogated about its credentials in that tribunal. In other cases this required the founding of a new science, e.g. physics or mathematics brought forth the philosophy of physics or of mathematics33. These newly invented sciences of their nature enjoy a relative autonomy since without the practice of physics or mathematics they would lack an object for their reflection. Like other disciplines moral theology has had to get used to unsettling and difficult investigations into its foundations while its normal activities went on. In fact ordinary business proceeded in many disciplines without their being unduly disquieted by the inquiries under way. It is, however, much harder to dissociate moral principles from their practice because publicly doubting practical principles de facto changes how people live and may undermine their very way of life.34 We see here one cause for the peculiar crisis in moral thought and its application that developed after the Council. 33 A recognised analysis is given by W. PANNENBERG, Theology and the Philosophy of Science, DLT, London 1976. 34 ST. THOMAS AQUINAS (S.T., I–II, 94, 5) argues that natural law can be added to but not be subtracted from. This allows for a hermeneutic of historical change and cultural growth without humanity’s basic qualities being corrupted. Further, doubt raises the question of moral systems, e.g., probabilism, which set up second–order sciences to establish the moral certainty needed for action. Being second–order sciences likens them to fundamental moral theology. St. Alphonsus says that moral theology is always to be directed to practice, “tota ad praxim est dirigenda” (Theologia Moralis, II, 689). Casuistry was undermined by its almost complete dependence on legal principles as was a juridical ecclesiology. PATHS OF RECEPTION 133 In the theological field fundamental moral’s relation to moral theology is like that of fundamental theology to dogmatic theology. Some moralists see fundamental theology as their primary and natural dialogue partner.35 This implies a paradigm–shift from an axiomatic science to a hermeneutic of current moral philosophies from a faith perspective.36 Some hold that transcendental philosophy can found this new discipline critically by applying criteria gleaned from advances in the philosophy of science. Fundamental moral would then rationally establish moral foundations, while moral theology proper discusses categorical principles and particular moral issues. It is obvious that each theory interprets Gaudium et Spes in its own way, on the basis that the Council encouraged such philosophical openness and plurality. The renewal of moral theology started some generations before Vatican II from initiatives internal to the discipline ratified by Optatum Totius.37 The renewal has been so complex, varied and difficult that it would be premature to venture an exhaustive history of the project. Optatam Totius 16 inserted moral theology into the Council’s overall pastoral project through its reworked relationship with the world. By raising the question of its, “scientific presentation,” as its first objective the Council released moral theology from its casuistic past, thereby making, perhaps not completely consciously, its epistemological status the hinge to all further developments. This situated fundamental moral at the eye of a gathering storm. The first effect of the renewal was the disappearance of the old casuistic manuals. The void their collapse left had to be filled 35 Fundamental theology’s difficulty in receiving GS makes a mediated reception in fundamental moral a fortiori very complicated. Cf. F. G. BRAMBILLA, “Antropologia teologica” in La Teologia del XX secolo, vol. 2, G. Canobbio e P. Coda (eds.), Città Nuova, Roma 2003, 178-186. 36 Thomas GERTLER, “Mysterium hominis in luce Christi: Genese und Intention der Pastoralkonstitution,” in Visionen des Konzils, G. Fuchs and A. Lienkamp (eds.), LIT, Münster 1997, 52. K. Demmer’s contributions in this area are notable. 37 See one account in A. FERNANDEZ, La reforma de la teologia moral: Medio siglo de historia, Aldecoa, Burgos 1997. 134 TERENCE KENNEDY from other, mostly outside, resources, such as current moral philosophies or other forms of moral theology. Two authors have helpfully proposed schemas for interpreting developments since the Council. Vicente Gomez Mier38 analyses this period as bringing about a paradigm-shift from casuistry to systematics, from an act-centred to a person-centred morality, from a closed Church-centred mentality to openness to the world. Alberto Bonandi39 examined twenty-eight manuals that tried to put the renewal into effect. He visualises it traversing three phases – from displacement of the old casuistry into a time of uncertainty and fragmentation, followed by a period characterised by contrary and conflicting currents, until a new certainty about how to proceed systematically was ushered in by Veritatis Splendor. After the collapse of the casuistic manuals, moralists had recourse to themes recommended by the Council. They first drew on Biblical, personalist and Christocentric40 themes, writing manuals that aimed to give seminarians a unified and spiritual vision of the subject. The weakness that pervaded this approach was its so-called, “supernaturalism.”41 While providing motivational ideals and exalted goals as in the Beatitudes, the approach was undermined by its incapacity to demonstrate how concrete behavioural norms could be rationally established. Others tried to renew moral theology beginning from the fresh experiences of the world, the social sciences, or liberation in Latin America. These many, varied and fragmentary approaches only increased the evidence that the foundations of the science needed to be reworked, critically established, and justified in a new system. 38 La refundación de la moral catolica. El cambio de matriz disciplinar después del Concilio Vaticano II, Verbo Divino, Estella 1995. 39 Il Difficile Rinnovimento, Cittadella, Assisi 2003. 40 W. Kasper criticises OT for falling into a sort of idealist Christocentrism that harmed seminary education by proposing this vision as the stating-point and not as its final synthesis or “recapitulation”. See his “La prassi scientifica della teologia,” in W. Kern, H. Pottmeyer and M. Seckler (eds.), Corso di teologia fondamentale, Vol. 4., Queriniana, Brescia 1990, 298301. 41 BONANDI 300-301. PATHS OF RECEPTION 135 A turning–point was reached with the publication in 1977 of Franz Böckle’s manual, with the symbolic title of Fundamentalmoral.42 It was a sign that the time was ripe to give the discipline a new shape. His starting-point was practical reason, whose function it was to establish the norms of morality as expressions of personal freedom. Moral theology was essentially about normative morality, with questions such as agency and conscience falling into second place. The specific character of Christian morality was one of these secondary considerations. The question took the form: does Christian morality add any norms over and above those of the Menschenbild? The rationale for proposing morality in this way was to give moralists, particularly in secular universities, a common platform for sharing in dialogue with non-believers. The mentality underlying this approach shows just how difficult it was to break out of the naturalism that pervaded the intellectual inheritance of casuistry. Was this truly the humanitas the Council wanted as the meetingpoint for believers and non-believers, without asking either side to compromise their convictions? Two ways of founding fundamental moral theology came to prevail: a faith ethic that derived all its principal insights from revelation; or an autonomous morality founded in practical reason. At this stage “never the twain did meet.” Others, of course, glimpsed the possibility of reviving the long tradition of practical reason, but within a personalist vision of Christian morality. After the Council the magisterium encouraged moralists “to foster dialogue with modern culture”(VS 36) and praised their work for the Church (VS 29). In 1993, however, it felt it necessary to intervene with the encyclical Veritatis Splendor so as to correct “a genuine crisis,” because the discipline’s “foundations … are being undermined by certain present–day tendencies.” This encyclical never mentions fundamental moral theology by name but addresses “the very foundations of moral theology” and “certain fundamental questions regarding the Church’s moral teaching” (VS 5). It launches its argument by quoting GS 22 to show how Christ reveals the depths of the human person and so guides the 42 Kösel-Verlag. München 1977. 136 TERENCE KENNEDY search for meaning. Unlike the Council, the aim of the encyclical was to repulse positions that it saw as contradicting Christian moral principles, positions it considered were being welcomed and accepted as part of fundamental moral’s identity. Chapter one praises the retrieval of the link between Christ and the Decalogue as a real break-through because it succeeded in connecting a personalist with a normative ethics. God’s Covenant in Christ is normative for all humanity and so Christian morality is specific because it flows out of a personal commitment to Christ in faith. Chapter two takes up the questions of normativity and specificity in Christian morality, the two major areas of debate since the Council. It criticised a number of theories – autonomy, fundamental option, conscience and proportionalism – for espousing “anthropological and ethical presuppositions” that detach “human freedom from its essential and constitutive relationship to truth”(VS 4). These theories were used to bring the epistemological status and methodology of moral theology into line with the rules for what constitutes a science today. They took over premises from the main currents in moral philosophy, i.e., Kantianism and utilitarianism, and embedded them in its foundations. The third chapter outlines the encyclical’s pastoral implications for “the new evangelisation” under the traditional rubric of the Church’s sharing in the triple munera of Christ as priest, king and prophet. Martyrdom as the supreme witness to moral goodness and sanctity is not only stressed but also projected as an ideal to which God may call those he loves. The Catechism of the Catholic Church had preceded the encyclical and gave, “ a complete and systematic exposition of Christian morality”(VS 5) mainly in virtue categories that did not satisfy the aspiration to introduce a Biblical morality into catechesis.43 The reception of Gaudium et Spes in Veritatis Splendor is much disputed among theologians. It is not a case of reiteration, nor simply of recontextualisation, but of differing horizons of 43 In a talk at a Vatican Symposium celebrating ten years of its publication Cardinal Ratzinger pointed out that the section on morality was the hardest and most problematic section to write in the catechism. PATHS OF RECEPTION 137 meaning.44 This is evident from how these two documents envisage finality. The Constitution’s main horizon is set by a humanistic appreciation of the whole universe arriving at its last end in God. Veritatis Spndor is narrower, concerned solely with the happiness of the human person and the means to achieve it. The Constitution tries to open doors to the world; the encyclical braces itself against external attackers who were already breaking into the citadel. The particular strategies that the above theories espoused to assimilate current philosophies in moral theology failed not just because they fell short of the “integral vocation”45 attributed to the human person in Gaudium et Spes (22). Veritatis Splendor critiqued them in the strictly ethical terms of natural law and beatitudo, ideas it insisted were essential to moral theology. These terms re–echo responses to disputes typically associated with the neoscholastic revival. And so the encyclical refutes the objection of physicalism against natural law; it teaches that a fundamental option cannot be separated from intentions and circumstances in the real world; and that proportionalism is false because it does not respect the intrinsic relation between action and the transcendent end of the human person.46 44 Two almost diametrically opposed interpretations are M. ELSBERND, “The Reinterpretation of Gaudium et Spes in Veritatis Splendor,” in M. Lamberigts and L. Kenis (eds.), Vatican II and its Legacy, Leuven University Press, Leuven 2002, 187-205, and G. ANGELINI, “I sentieri impervi della morale. Dalla Gaudium et Spes alla Veritatis Splendor,” in C. Ghidelli (ed.), A trent’anni dal Concilio Edizioni Studium, Roma 1995, 347-380. Elsbernd in reality excludes the crisis in moral theology from her comparison of the two documents. The resultant textual confrontation hardly provides an adequate hermeneutic. Angelini highlights how the crisis determined the subsequent terms of discussion and points out that “la rimozione dell’interrogativo morale” (p.350) is not sufficiently adverted to in GS. A. CARRASCO ROUCO emphasises the continuity in the Church’s teaching in “Iglesia, Magisterio y Moral,” in Comentarios a la Veritatis Splendor, G. Del Pozo Abejon (ed.), BAC, Madrid 1994, 429-474. 45 See Thomas GERTLER’S background comments in “Mysterium hominis in luce Christi,” Visionen des Konzils, G. Fuchs and A. Lienkamp (eds.), LIT, Meunster 1997, 56, note 18. 46 It would be wrong to presume that VS is the once–for–all reception of GS into moral theology. This essay considers fundamental moral without 138 TERENCE KENNEDY The change in vocabulary between these two documents also reflects divergent focal interests. The encyclical is addressed to bishops on the subject of the moral principles taught in seminaries. It switches the focus of attention back ad intra, to intraecclesial preoccupations, but without wishing to turn moral theology in on itself intentionally. It rather aims to recover from historical sources principles often overlooked in seminary education since the Council, principles it finds useful in answering difficulties raised by secular ethics. The encyclical highlights moralists’ need to consult the traditional philosophical and theological sources of their teaching more thoroughly. It also presumes the validity of the distinction between general and particular morals, though this is never stated outright.47 The logical result of taking this position is to collapse the distinction between fundamental and categorical morality, the very conception some scholars rely on to establish fundamental moral theology as a science. A pragmatic but unsatisfying solution quite often invoked is to consider these two pairs of terms as actually equivalent. There is a danger that this position might develop a blind–spot in intellectual perception whereby the difference between the scholastic and the critical idea of science is neither noticed in fact nor adverted to in theory.48 Thomistic principles entering into any detailed analysis as in B. JOHNSTONE’s, “Erroneous Conscience in Veritatis Splendor and the Theological Tradition,” in J. Selling and J. Jans (eds.), The Splendor of Accuracy, Pharos, Kanpern, Netherlands 1994, 114-135. 47 The encyclical distinguishes reflection on “the many spheres of human life” from “ on the whole of the Church’s moral teaching,” on “fundamental truths.” Such terms can be interpreted variously. The question, “do the commandments of God which are written on the human heart and are part of the Covenant, really have the capacity to clarify the daily decisions of individuals and entire societies?” (VS 4) fits St. Thomas’s general-particular logic better than distinguishing between the foundation and application of a science as if the two might be successfully separated. 48 This issue is at the heart of many tensions in theology. There is a vast difference between the medieval conception of science and the modern idea of system, a difference it is not possible to analyse here. See W. KASPER, “La prassi scientifica della teologia,” in Corso di teologia fondamentale,” Vol 4., W. Kern, H. Pottmeyer and M. Seckler (eds.), Queriniana, Brescia 1990, especially 291–314. PATHS OF RECEPTION 139 remain overall firmly entrenched and active in moral theology, providing the comprehesion of what the encyclical considers, if we use these terms, fundamental moral theology should be.49 The encyclical deals with history by claiming that the magisterium, “has achieved a doctrinal development analogous to that which has taken place in the realm of the truths of faith”(VS 28). This teaching is based on a sapiential discernment of a fatal fault–line in contemporary culture. By upholding the unbreakable link uniting truth and freedom, the encyclical sets the outer parameters for the future dialogue between Christian morality and contemporary ethics. IV. Reception, Renewal and the Sources of Moral Theology. The paths that Gaudium et Spes travelled to became part of moral theology are multiple: the Council event itself awoke moralists to the epistemological demands of their science; institutions and sciences that had developed outside the Church’s influence helped to fill in blind–spots in the Catholic worldview in recent centuries: dialogue and the signs of the times were the methods appropriate for reaching the contemporary world; the 49 There is a hidden issue here. We can reflect on doing moral theology to ensure that it follows scientific criteria, i.e., deeper reflection within its own order that is not a second-order creation of a new science, the way some see fundamental moral. Second-order sciences are certainly possible, e.g. the philosophy of science or mathematical logic, and perform well for pure sciences. It is a moot point whether the same can be achieved for human matters as treated in moral theology whose object might be so manipulated as to destroy its essential characteristics. The temptation is to transform it into from a practical into a speculative science. The relation between prudence and the science of ethics has been debated since Aristotle. The choice is between adding another science to justify the foundations of morality – this corresponds with the modern diversification of the sciences – or, of reconciling various types of knowledge that has been the traditional task of ordering wisdom in metaphysics. See E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma 1989, and, “Il metodo della filosofia pratica secondo Aristotele,” in Studi sull’etica di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1990, 23-63. 140 TERENCE KENNEDY integral vocation of the human person, the social nature of all morality, the human capacity to transform the world introduced themes central to the study of morality; the Church’s twofold mission i.e. to preach the Gospel and to serve the world must both be considered in their own right in moral theology; eschatology and not ecclesiology became the reference-point for the promotion of earthly realities: critique of the Pastoral Constitution showed that its reception would not be automatic; with the collapse of casuistry moralists tried to assimilate the best points of contemporary ethics into moral theology; the magisterium intervened by upholding the principle of the unbreakable unity of truth and freedom as a guiding principle in moral theology; contemporary intellectual challenges heightened moralists’ awareness both of the traditional and new sources of their science. It is now time to take stock of where reception and renewal have taken fundamental moral theology today. Bonandi identifies two still outstanding issues that reveal its current status. I). Because of the turn to the subject in philosophy there is need to face the subject–object relation afresh. This problem has bedevilled not only discussions on Church–world relations but the history of moral theology as well. While Gaudium et Spes was being written, Yves Congar touched the tender nerve in the whole issue. It is that of an epistemology of separation that can infect every sphere of human thought and activity. Congar treated the problem through its symptoms, declaring that there is nothing so against revelation as to divide God from his creation, the Church from the world, and the human agent from the cosmos in which it is inserted.50 Gaudium et Spes has an integrated vision of God, the human person and the universe that, as it were silently and without drawing attention to itself, radically cured this disease with the balm of revelation. Had moral theology taken the Council’s vision seriously and understood it as profoundly as it should have, Bonandi’s difficulty would not exist. II). What type of theology do we need so that fundamental moral theology may take due account of the contributions of 50 Y. CONGAR, “La Chiesa e il mondo” in Comprensione del mondo nella fede, AA.V.V., Dehoniane, Bologna 1969, 134. PATHS OF RECEPTION 141 Scripture, history, fundamental and dogmatic theology, culture, spirituality, world religions and secularisation? If moral theology treats these specialisations solely in their own terms, it will inevitably become fragmented, as is already happening. It is necessary to start from a comprehensive, unified vision of theology as science51 for morals to preserve its theological character. But under which precise formality should moral theology approach these disciplines? Not as knowledge or belief sought for its own sake, nor as the exercise of pure thought alone. When knowledge and belief become action they are defined as practice, “faith working through love” (Gal 5: 6) in St. Paul’s words. Moral theology is not speculative but practical theology because it is constituted as a science of faith working through practical reason. On the two wings of faith and reason52 not only does the mind ascend to God, but when faith engages practical reason it also moves us, directing our actions to the ever faithful God who never ceases to draws us to himself, for “it is precisely on the path of the moral life that the way of salvation is open to all” (VS 3). Practical reason resolves problems arising from conflicts of interpretation between moral traditions such as we have witnessed already in the interaction of reception and renewal. While an account of the recovery of practical reason is out of place here,53 we need to note that it is the source that generates moral theology as a science. The confronting of premises in a given system or tradition with each other ad intra, or with those of an outside system or tradition ad extra is a continuing hermeneutic process that can only be elaborated culturally and linguistically over time.54 Practical reason illumined by faith 51 See W. PANNENBERG’S, Theology and the Philosophy of Science, DLT, London 1976, 423-440. He emphasises the common origins of moral and pastoral theology in the Church’s praxis. 52 This image introduces the Pope’s encyclical Fides et Ratio. See also numbers 25, 68 and 98. 53 See F. VOLPI, “La rinascita della filosofia pratica in Germania” in Filosofia pratica e scienza politica, C. Pacchiani (ed.), Fransisci, Padova 1980, 11-97. 54 See Alasdair MACINTYRE on this much– disputed theme, in Whose Justice? Which Rationality? University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana 1988, chapters XVIII and XIX. His is a contemporary rendition of Aristotelian dialectics, thereby demonstrating its continuing fruitfulness. 142 TERENCE KENNEDY thus opens our minds to the historical nature of the world as presented in Gaudium et Spes. Dialectics and hermeneutics are needed in order to discern the truth or falsity of moral premises and to translate them from one system or tradition to another. Such an approach issues in a comprehension of moral theology as both theory and praxis.55 Moral theology draws on resources both ad intra and ad extra, its field of action being precisely the interface between Church and world where these forces meet. When history radically transforms this relationship, as has happened, the sources of our knowledge also change. This means that a new configuration of these sources is required for morals to satisfy the demands of systematic theology.56 Now the crucial question posed by the “scientific presentation” of moral theology mandated by the Council is what conception of autonomous reason is acceptable in constituting it as a science. Gaudium et Spes affirms the validity of autonomy in the sciences (36), but never addresses its ethical significance as such. Veritatis Splendor applied the Pastoral Constitution’s teaching to moral theology, warning however that autonomous reason can never be conceived in separation from God the Creator and Redeemer. This leads to the critical point in the renewal of moral theology; the idea that autonomous reason rightly conceived and the morality of Biblical revelation both have only one last end to be achieved through history both sacred and profane. “It is the same God who is at once saviour and creator, Lord of human history, and of the history of salvation”( 41). Gaudium et Spes’s central affirmation is: “The Lord is the goal of human history, the focal point of the 55 Practical sciences such as law and medicine have two branches, theory and practice. Thus there is the philosophy of law and then jurisprudence; there are medical textbooks studied at university and there is the practice of medicine in a hospital. Moral theology studies moral theory and the practice of casuistry. See S. TOULMIN and A. JONSEN, The Abuse of Casuistry. A History of Practical Reasoning, University of California Press, Berkeley 1988, for a pragmatist’s account of its revival. 56 See W. KASPER, “La prassi scientifica della teologia,” in Corso di teologia fondamentale, Vol. 4., W. Kern, H. Pottmeyer and M. Seckler (eds.), Queriniana, Brescia 1990, 311-314. PATHS OF RECEPTION 143 desires of history and civilisation, the centre of mankind, the joy of all hearts, and the fulfilment of all aspirations” (45). Certainly the assumption of the dialectics of practical reason into moral theology is accompanied by considerable difficulties. Moralists searching for a method to interiorly restructure their discipline were faced with great tensions for they had to account for all the sources of their discipline. They were quick to heed Gaudium et Spes‘s summons to treat the urgent problems facing the world “in the light of the Gospel and of human experience”(46). But this restructuring occurs within the movement of humanity toward God, under the influence of Holy Spirit’s attractive power drawing everything recapitulated in Christ into the Kingdom of the Father. Ultimately, therefore, the Spirit working through practical reason reorganises and configures the sources of morality in this field of attraction to God. Our knowledge of how all the sources or fontes of moral theology are integrated and “hold together” cannot but be sapiential57. Only in this field of God’s attractive love can moralists perceive how to rationally elaborate the sources discovered through the processes of reception and renewal. Among these sources the following are to be listed: i) Fidelity to revelation and to Sacred Scripture as the “soul of theology”(DV 24), ii) Fidelity to the Church’s tradition and her teaching magisterium, iii) Human experience which gives access to novelty, to the new realities arising out of human progress and the new sciences. Because these novelties do not fit the established categories they become a strong stimulus toward working out a new relationship with the world. iv) Moral theology’s own internal resources from which it 57 See Helmut HOPING, “Die Kirche im Dialog mit der Welt und der sapietiale Charakter christlicher Lehre,” in Das II Vatikanum. Christliche Glaube im Horizont globaler Modernisierung, P. Hünermann (ed.), Ferdinand Schöningh, Paderborn 1998, 83-99. M. SECKLER in his essay on “Il significato ecclesiologico del sistema dei ‘Loci Theologici’,” has the revealing subtitle “Cattolicità gnoseologica e sapienza strutturale,” in Teologia Scienza Chiesa, Morcelliana, Brescia 1988, 171. 144 TERENCE KENNEDY draws in answering these challenges, particularly practical reason. Under the stimulus of these new experiences moral theology is provoked to re-elaborate its premises, to assimilate valid principles from outside itself, and so to reshape itself systematically under the impulse of the Spirit. Fundamental moral theology can now be defined as a systematic and critical faith reflection on all the sources of moral theology. That definition embraces everything that is human. Gaudium et Spes was the midwife that brought fundamental moral theology to birth and delivered it safely into a world of critical rationality. In its genetic inheritance is inscribed the theory and practice of Christian existence. This inheritance has been enriched by the philosophy, science, art, literature and culture of today. In its wisdom Gaudium et Spes as midwife taught moral theology that all this inheritance belonged to Christ, the moral message for which the world is hungering. Gaudium et Spes’s task, made effective through its ever–deeper reception into the bloodstream of Church life, will ensure that this new discipline grows in strength, wisdom and maturity. The process of reception has opened up new horizons for understanding the authentic sources of moral theology valid today – previous discussion on its scientific status in terms of fontes being either inadequate or abortive.58 But such a discussion must come at the right moment, the kairos when the Spirit enables and empowers practical reason to respond to the deepest human needs of the age. Both the magisterium and moral theology heed the Spirit’s voice intuitively and instinctively, in their own special ways. The magisterium draws attention to how Christ, The Alpha and Omega, has laid down the foundations of morality and shown their implications. Moralists drawing on the same sources discern the first principles of a sci- 58 See M. VIDAL, Nueva Moral Fundamental, Desclée De Brouwer, Bilboa 2000, 919-979; R. BRUCH, “Die Ausbildung der Lehre von den Erkenntnisquellen der Moraltheologie im 17. und 18. Jahrhundert,” in Moralia Varia: Lehrgeschichtliche Untersuchung zu moraltheologischen Fragen, Patmos, Düsseldorf 1981, 11-30; P. HÜNERMANN, “Neue Loci Theologici. Ein Beitrag zur methodischen Erneuerung der Theologie,” in Cr St, 24(2003)1, 1-21: M. Seckler, op. cit. 171-206. PATHS OF RECEPTION 145 ence of faith working through practical reason. Fundamental moral is a relatively youthful personality among the theological specialties, one still searching out its place in the register of theological sciences. Like the boy Jesus in the Temple, just twelve years old, instructing the masters of Israel, it brings new insights to the ageless wisdom of theology. “And all who heard him were amazed at his understanding and his answers” (Lk 2: 47). Its growth will display characteristics both of continuity and discontinuity. It will carry forward the values of reason and revelation enshrined in the general morals from the past. It will grow into a mature science by realising Gaudium et Spes’s aspiration to incorporate the truths discovered by modern critical philosophies into an original synthesis. By doing so it will restore and renew God’s covenant with his world. TERENCE KENNEDY, C.SS.R. StMor 42 (2004) 147-168 GIOVANNI RUSSO LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 1. Preliminari: luci ed ombre Il Vaticano II si è manifestato fin dall’inizio come una grande “rivoluzione” nella Chiesa cattolica. Non è stato percepito, almeno all’inizio, come un semplice “rinnovamento”, ma come un profondo cambiamento di prospettiva, quasi una rivoluzione copernicana. Così è stato percepito da parte di coloro che avevano preparato gli schemi, da parte del clero, delle altre denominazioni cristiane, da parte della società1. Una grande “luce” si è accesa, sia nel guardare il mondo con positività e speranza cristiana, sia nella consapevolezza della Chiesa di saper essere Lumen gentium: in Cristo risorto la Chiesa può essere segno di un’aurora nuova, capace di animare percorsi di pace e di ecumenicità non solo tra le varie comunità cristiane, ma anche per l’ecumene del globo. I Pontefici hanno sposato in pieno questa prospettiva, orientando progetti e riforme in forte sintonia con il Vaticano II. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II anche il nome dei Papi ha portato con sé la peculiarità e il desiderio di voler continuare nei solchi del Vaticano II. Nello stesso tempo forti sono state le ansie e le paure che hanno accompagnato quanti hanno avuto un ruolo di responsa- 1 Rinviamo ad alcuni bilanci fondamentali: G. ALBERIGO (ed.), Storia del Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1995-1999; R. LATOURELLE (ed.), Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), 2 voll., Cittadella, Assisi 1987; R. FISICHELLA (ed.), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, S. Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000; P. POUPARD, Il concilio Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1987; T. STENICO, Il Concilio Vaticano II. Carisma e profezia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997. 148 GIOVANNI RUSSO bilità nella Chiesa, nelle altre comunità cristiane o nella vita pubblica. La paura di perdere la propria identità, di confondere la propria specificità, di perdere i propri “confini”. Oggi si ritorna al bisogno di “riaffermare” le proprie identità, le proprie peculiarità. E il senso di “comunità” con gli altri credenti e con la vita pubblica e secolare ha subito un ripensamento. L’ecumenismo, stando anche alle affermazioni di Giovanni Paolo II al Card. Kasper, è più arduo e faticoso2. Molto si è discusso se la svolta del Concilio è stata una svolta pastorale o dottrinale. Certamente ci sono stati tentativi, anche nella teologia morale, di procedere a una evoluzione della dottrina morale della Chiesa, suscitando reazioni che si sono dimostrate a lungo termine rilevanti e, molto spesso, negative3. La Chiesa non può cambiare la sua dottrina, che è Cristo Gesù e non una serie di teorie e principi morali. La Chiesa, sempre fedele a Cristo, può rinnovare il mondo. La teologia morale della Chiesa non è la somma delle opinioni della maggioranza dei teologi, ma lo sforzo – guidato dallo Spirito – di avvicinarsi alla verità morale. Certamente, però, la Chiesa si è fatta più “vicina” al mondo, visto con simpatia, come il luogo dell’incarnazione del Verbo e il campo di Dio. L’etica della vita ha avuto un forte impulso positivo, grazie all’animazione dei Papi e alla progettualità delle Congregazioni della Curia Romana. Si pensi al ruolo della Congregazione della Dottrina della Fede, ai Pontifici Consigli per la Famiglia, Giustizia e Pace, Pastorale della salute, Cor Unum, all’istituzione della Pontificia Accademia per la Vita, alla Commissione Interdicasteriale per il Catechismo della Chiesa Cattolica4. 2 Lettera al Card. W. Kasper, 3 Novembre 2003. Un panorama della problematica è rintracciabile in V. GÓMEZ MIER, La rifondazione della morale cattolica, Dehoniane, Bologna 2001. 4 Una raccolta della documentazione è l’Enchiridion della famiglia. Documenti magisteriali e pastorali su famiglia e vita 1965-1999, EDB, Bologna 2000. Un testo meno recente, ma prezioso, è quello di P. Verspieren (ed.), Biologia, medicina ed etica. Testi del Magistero cattolico, Queriniana, Brescia 1990. 3 LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 149 Dal punto di vista sia teologico che magisteriale il bilancio si manifesta in tutta la sua ricchezza con interventi, sulla vita nascente, sul rapporto medico-paziente e sulla bioetica clinica in genere (v. malattie terminali), sulle biotecnologie, sulla bioetica di fine vita e sull’eutanasia. 2. Il ruolo positivo della teologia cattolica nella strutturazione dell’etica della vita (bioetica) Negli anni ’60 la teologia morale cattolica, ha avuto una grande “primavera”, grazie all’impulso del paradigma alfonsiano, strutturatosi presso l’Accademia Alfonsiana. Poche istituzioni accademiche e teologiche della Chiesa hanno dimostrato lo sforzo “progettuale” dell’Accademia Alfonsiana, la cui istituzione ha rappresentato – e continua a rappresentare – un faro nella Chiesa5. Grandi personalità scientifiche si sono succedute tra i docenti; ma non si pensi solo ai nomi di fama universale come B. Häring e D. Capone. Qui figure di spicco hanno dato origine a una scuola di pensiero attenta all’uomo, al fondamento biblico, alle scienze umane e al migliore personalismo, alla pastorale. Qui si sono formate quantità innumerevoli di teologi di ogni continente, cresciuti con una forte sensibilità di dialogo col il mondo, di moderazione teologico-morale, di forte sensibilità per il sociale, di rispetto per le posizione differenziate, e, mi sia consentito, anche di affetto per il Magistero della Chiesa. Bernard Häring fu tra le personalità scientifiche che parteciparono, insieme ad altri teologi cattolici e protestanti (Ramsey, Hawerwas, Le Roy Walters, Fuchs, McCormick, Branson, Curran e Reich) all’istituzione del Kennedy Institute presso la Georgetown University di Washington, dove l’etica della vita si costituì come riflessione organica di quel campo che – sotto la spinta dell’oncologo V.R. Potter – sarà chiamato “bioetica” e che da qui si diffonderà in tutto il mondo6. 5 A. SCOLA et al., Accademia Alfonsiana. Cinquant’anni di storia, quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense (inaugurazione dell’anno accademico 1999-2000), Accademia Alfonsiana, Roma 1999. 6 Riferimenti diretti a queste affermazioni si possono trovare in varie 150 GIOVANNI RUSSO Il Vaticano II è senz’altro all’origine di un cammino dell’etica della vita che non potrà più fermarsi, ma che piuttosto si configura sotto la categoria dello “sviluppo”. È dal Concilio che è nata quella spiccata sensibilità, nella teologia morale cattolica, per i problemi della vita nascente, della bio-medicina in genere, della sofferenza umana e della malattia, delle biotecnologie, della procreazione assistita, dei trapianti, ecc. Alcune frontiere erano già presenti prima del Concilio: come la sperimentazione umana (si pensi a interventi “selvaggi” negli Stati Uniti o nel nazismo), l’eutanasia, l’inseminazione intracorporea, la contraccezione, e altre tematatiche7. Ma fu il Vaticano II a spingere i teologi a riflettere e a confrontarsi su questi temi in maniera sistematica, suscitando interesse scientifico e confronto con altre posizioni. Senza il Vaticano II non avremmo la bioetica di oggi. Gli studi di Kelly e i più recenti di Reich hanno documentato un preciso movimento di pensiero che ha dato origine a quel campo di studio dell’etica brochures del Kennedy Institute. La lista più completa è in The Joseph and Rose Kennedy Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics, Monographic Issue, Washington, DC 1974. Inoltre, si vedano i resoconti storici diretti dello stesso primo direttore del “Center for Bioethics” del Kennedy Institute, Dr. LeRoy Walters, pubblicati in Bioethics at Georgetown School of Medicine and the Kennedy Institute of Ethics, in “Georgetown Medical Bulletin” 37(1984), 2-68 [spring], 6-8, 53-54, in partic. p. 6, sul ruolo dei teologi nella fondazione stessa del Kennedy Institute. 7 Alcune visioni d’insieme dal punto di vista storico sono rinvenibili in: D. CALLAHAN, The Development of Biomedical Ethics in the United States, in Id. – G.R. Dunstan (Eds.), Biomedical Ethics: an Anglo-American Dialogue, The New York Academy of Sciences, New York 1988; D.F. KELLY, The Emergence of Roman Catholic Medical Ethics in North America: An Historical, Methodological, Bibliographical Study, Edwin Mellen Press, New YorkToronto 1979; R.A. McCORMICK, Salute e medicina nella tradizione cattolica, Edizioni Camilliane, Torino 1986; W.T. REICH, La bioetica negli Stati Uniti, in Viafora C. (Ed), Vent’anni di bioetica. Idee, protagonisti, istituzioni, Fondazione Lanza-Gregoriana, Padova 1990, 143-175; G. RUSSO (ed.), Storia della bioetica. Le origini, il significato, le istituzioni, Armando, Roma 1995; L. WALTERS, Religion and Renaissance of Medical Ethics in the United States: 1965-1975, in E.E. Shelp (Ed.), Theology and Bioethics. Exploring the Foundations and Frontiers, D. Reidel Publishing Co., Dordrecht-BostonLancaster-Tokyo 1985. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 151 della vita che oggi va sotto il nome di bioetica8. I primi centri di bioetica, un po’ in tutto il mondo sono sorti per iniziative di filosofi e teologi cattolici. Il manuale di Häring9, gli studi di Pellegrino e Thomasma sulla personalità del medico e sulla centralità del paziente come persona10, il saggio McCormick su salute e malattia nella tradizione cattolica11, l’Encyclopedia of Bioethics di Reich12, gli studi di Callahan13 – nati dal dialogo al Kennedy Institute e all’Hastings Center – sono il segno di un solco pionieristico tracciato dal cattolicesimo postconciliare. Senza la recezione del Vaticano II, non avremmo avuto il “vettore” della bioetica che ha rinnovato il ruolo della morale nella vita pubblica. È dallo slancio conciliare che i cattolici Andrè Hellegers e Daniel Callahan hanno dato origine ai suddetti primi centri di bioetica14. Certo, non bisogna chiudere gli occhi sulle fatiche nel dialogo con il Magistero dei citati pionieri, il che indica che – fin dalle origini – la svolta conciliare in teologia morale ha richiesto un discernimento che a tratti si è manifestato problematico. 8 D.F. KELLY, The Emergence of Roman Catholic Medical Ethics, cit.; W.T. REICH, La bioetica negli Stati Uniti, cit.; ID., Il termine “bioetica”. Nascita, provenienza, forza, in “Itinerarium” 2(1994), n.3, 33-71, 52. 9 B. HÄRING, Etica medica, Edizioni Paoline, Roma 31973. 10 E.D. PELLEGRINO – D.C. THOMASMA, For the patient’s good: the restoration of beneficence in health care, Oxford University Press, New York 1988; ID., Helping and healing: religious commitment in health care, Georgetown University Press, Washington, D.C. 1997; ID., The virtues in medical practice, Oxford University Press, New York 1993; ID., The Christian virtues in medical practice, Georgetown University Press, Washington, D.C. 1996. 11 R.A. McCORMICK, Salute e medicina nella tradizione Cattolica, cit. 12 W.T. REICH (ed.), Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., Free Press, New York 1978. 13 D. CALLAHAN, The Catholic case for contraception, Macmillan, New York 1969; ID., Abortion: law, choice, and morality, Macmillan, New York 1970; Ethics and population limitation, Population Council, New York 1971; Knowledge, value, and belief, edited with H. Tristram Engelhardt, Jr., Hastings Center, Hastings-on-Hudson (NY) 1977. 14 W.T. REICH, Modelli di bioetica. Potter e Kennedy Institute a confronto, in G. Russo (ed.), Bioetica fondamentale e generale, Sei, Torino 1995, a partire da p.31. 152 GIOVANNI RUSSO Il cammino che ha portato all’inizio alla Humanae vitae e successivamente alla Donum vitae, alla Veritatis splendor e alla Evangelium vitae indica che l’indirizzo del vettore è segnato dal Magistero e che i teologi moralisti sono chiamati a un dialogo costruttivo. Non sembra negabile che dai solchi del Vaticano II sia nato un germoglio che vede la vocazione del teologo moralista nell’affermazione della sua libertà. È dalla teologia conciliare che è nata l’affermazione della libertà del teologo. Questo orientamento ha portato all’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990) e sui criteri circa la manifestazione pubblica della libertà di pensiero15. Il Vaticano II non ha inteso cambiare il ruolo di guida del Magistero nella dottrina morale, ma certamente ha indicato una Chiesa carismatica e ministeriale dove il teologo possa serenamente manifestare le proprie convinzioni, fermo restando il ruolo guida della gerarchia16. Ci sembra non trascurabile che non sempre la manualistica della teologia morale della vita fisica abbia mostrato un’apparato argomentativo robusto. Il dibattito sull’embrione precoce, sull’aborto, sull’indisponibilità della vita in tutte le sue fasi è stato spesso effettuato riportando posizioni e opinioni diverse, ma senza offrire ragioni convincenti e giustificazioni etiche rigorose. Un esempio tra tutte la posizione del teologo australiano Norman Ford sulla natura dell’embrione umano prima della formazione della stria primitiva, che lo porta a concludere che l’embrione precoce non essendo ancora una realtà individuale stabile (perché può dare origine al fenomeno della gemellanza omozigotica) è semplicemente un soggetto umano “potenziale”, ma non ancora in atto e quindi non meritevole di protezione17. Ma anche il problema posto, da alcuni teologi di area anglosassone, 15 Sull’argomento si veda: G. RUSSO (ed.), Magistero e morale: metodi e dinamiche del confronto. Contributi al Seminario di studio del 17 maggio 2003, in “Itinerarium” 11(2003)n.25, 87-126. 16 R. FRATTALLONE, Magistero della Chiesa, etica e bioetica, Coop. S. Tom., Messina 2003. 17 N.M. FORD, When did I begin? : conception of the human individual in history, philosophy, and science, Cambridge University Press, CambridgeNew York 1988. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 153 dell’eticità della procreazione assistita in vitro anche semplicemente omologa; e dell’accusa di “fiscalismo” nella volontà del Magistero (Donum vitae) di mantenere congiunti l’atto unitivo e quello procreativo nella inseminazione intracorporea. È stata comunque la teologia morale scaturita dal Vaticano II che ha portato al fiorire di tutta una manualistica nei vari continenti, dando origine a diversi paradigmi. Gli autori della manualistica che si sono manifestati nel panorama cattolico sono molti e di rilievo. Ricordo solo alcuni nomi rilevanti: Häring, Pellegrino-Thomasma, Callahan, Reich, McCormick, Curran, Bockle, Fuchs, Sgreccia, Tettamanzi, Malherbe, Goffi, Demmer, Verspieren, Grisez, Vidal, Schockenhoff, Bompiani, Leone, Bellino, Viafora, Spinsanti, Lorenzetti, Chiavacci, Carrasco De Paula. 3. Istituzioni cattoliche pionieristiche sorte dai solchi del vaticano II È stata forte l’istituzionalizzazione della bioetica ad opera di filosofi e teologi cattolici stimolati dalle prospettive del Vaticano II. Notevoli anche i centri di bioetica, che, sin dall’inizio, sono sorti per lo più nell’ambito cattolico. Cito alcune istituzioni che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo di primo piano. a) L’Hastings Center L’Hastings Center, nei pressi di New York, può considerarsi il luogo dove venne posta la prima pietra nella costruzione della bioetica. Quando Potter nel 1971 pubblicò il suo Bioethics: Bridge to the Future, alle spalle dello Hastings Center ci stavano già alcuni anni di esperienza organizzativa e di impegno attivo, più sul versante sociale e politico che accademico, essendo stato fondato nel 1969. Prima del 1967 non esisteva una formazione sistematica etica nel campo della biologia e delle scienze della salute, se non nelle facoltà di medicina e di infermieristica delle università cattoliche statunitensi. Fuori dell’ambiente americano, però, le università pontificie romane avevano sempre dato una significativa consistenza all’etica biomedica con la cosiddetta “medicina 154 GIOVANNI RUSSO pastorale”. A partire dal 1967 un movimento di formazione umanistica ed etica nelle scuole mediche diventa comune. Inoltre, gli Human Values in Medicine, ossia i valori umani nella medicina, entravano nei corridoi del Congresso americano, stimolati da alcuni casi di abuso nella sperimentazione umana, ma più importante ancora, nello stesso anno, 1967, i National Institutes of Health (Istituti Nazionali di Sanità) diedero mano alla fondazione di un comitato istituzionale per il controllo della ricerca sui soggetti umani. A detta di Daniel Callahan, filosofo cattolico che stava per fondare un centro apposito, l’Hastings Center, “quell’evento fu lo spartiacque dove l’interesse etico generale della gente incontrò quello dei professionisti in medicina”18. In questo contesto, nasce nel 1969 un centro apposito di ricerca, l’Hastings Center, la cui strutturazione e risonanza furono di tal rilievo, sia negli ambienti di interesse pubblico che in quelli accademici, da strutturare organicamente la bioetica a partire dal giugno 1971, quando fu pubblicato il primo numero di “Hastings Center Report”, definito da Reich “un giornale chiave nel campo bioetico”19 e da Toulmin “uno strumento primario in bioetica”20, i cui articoli furono – e sono – assai comunemente citati dai mass media, ristampati in libri e riviste e usati come materiali didattici nell’insegnamento universitario della bioetica. Il centro è un punto di riferimento per lo stesso governo degli Stati Uniti. Una strutturazione che sorprese gli stessi fondatori Daniel Callahan e Willard Gaylin, quando dopo appena due anni potevano affermare che “l’incidenza del Centro è stata eccezionale. Quando iniziò [...] c’erano solo una manciata di persone in tutta la nazione, insegnanti di qualcosa vagamente chiamata bioetica. Ora ce ne sono ben più di 300, docenti in istituti superiori, facoltà mediche, scuole di legge”21. Oggi l’Hastings Center 18 D. CALLAHAN, The Development of Biomedical Ethics in the United States, in Id. – G.R. Dunstan (Eds.), Biomedical Ethics: An Anglo-American Dialogue, 1-3, 2. 19 W.T. REICH, La bioetica, 157. 20 S. TOULMIN, Medical Ethics in Its America Contest: An Historical Survey, in D. Callahan G.R. Dunstan (Eds.), Biomedical Ethics, 7-15, 11. 21 THE HASTINGS CENTER., Recent Activities: 1973, extracommerciale, Hastings-on-Hudson, N.Y., 1973, 3. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 155 conta circa 20.000 membri associati, fra cui 1.500 docenti universitari. I successi bioetici ottenuti dallo Hastings Center nei suoi 35 anni non possono essere tutti enumerati. Senz’altro si sono ottenuti dei risultati di cui il Centro va fiero, non ultimi quelli relativi alla richiesta del Senato Statunitense per la revisione dei codici etici. È notorio poi il ruolo decisivo di consulenza che l’Hastings Center svolse nella risoluzione del Caso Karen-Ann Quinlan che, per la sua emblematicità e diffusione, è diventato un esempio ormai classico per il dibattito sull’accanimento terapeutico e sulla interruzione di cure che implicano la morte di un paziente in stato di coma grave e irreversibile22. b) Andre Hellegers e la fondazione del Kennedy Institute Il Kennedy Institute è il luogo dove la bioetica si enucleò come disciplina. Andre Hellegers, fisiologo dell’embriologia umana di origine olandese (1926-1979), docente fino al 1967 nella John Hopkins University di Baltimora, e cattolico della Commissione Pontificia di Studio della Famiglia, la Popolazione e i Problemi della Natalità (1964), è all’origine del Kennedy Institute of Ethics nella università gesuita di Georgetown a Washington DC. L’ostetrico aveva avuto un ruolo considerevole a Roma, come membro del comitato esecutivo della suddetta commissione pontificia, incaricata di aiutare Paolo VI nel discernimento dei problemi sollevati nelle famiglie cattoliche dopo l’affermazione delle tecniche contraccettive di Pincus, inventore della “pillola”. Il Center for Population Research, presto assunse il volto e gli interessi dello Hastings, però con strutturazione accademica, essendo un “Istituto Universitario di Servizio alle Comunità Accademiche, Governative e Pubbliche”23. Intanto erano usciti nel 1970 The Patient as Person e Fabricated Man di P. Ramsey e 22 P. QUATTROCCHI, La bioetica. Storia di un progetto, in C. Vella - P. Quattrocchi - A. Bompiani, Dalla bioetica ai comitati etici, Editrice Ancora, Milano 1988, 55-97, 78-79. 23 GEORGETOWN UNIVERSITY, Center for Population Research, brochure, Washington, DC, 1974, 3. 156 GIOVANNI RUSSO l’idea di una “bioetica” di Potter24. Nel 1971, col contributo della famiglia Kennedy, fonda il The Joseph and Rose Kennedy Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics, come si chiamò all’inizio, con un preciso programma, come lui disse: “Noi stiamo lavorando per sviluppare la bioetica come una disciplina”25. L’istituto fu costituito da tre centri: il Center for Bioethics, il Center for Population Research e i Laboratories for Reproductive Biology. E si circondò di ricercatori come Walters, Beauchamp, Childress, Reich; di teologi come Häring, McCormick, Curran, Hawerwas, Branson e Joseph Fuchs. Il Centro di Bioetica fu affidato a Leroy Walters (che promosse il primo repertorio bibliografico di bioetica (la Bibliography of Bioethics), fu strutturato un master in bioetica all’interno della Facoltà di Filosofia e, subito dopo, un corso di dottorato. Il Kennedy Institute ha svolto un prezioso ruolo didattico di iniziazione alla bioetica di studiosi e docenti di ogni parte del mondo. Vanno segnalati i ricercatori che più hanno enucleato accademicamente la bioetica. Innanzitutto, W.T. Reich, editore della prima opera di sintesi della bioetica, cioè la Encyclopedia of Bioethics (1978). La persona che ha portato la bioetica oltre oceano e che ha coordinato eccelsamente la direzione del Kennedy Institute dopo Hellegers, è il Dr. Edmund Pellegrino, medico, filosofo della medicina universalmente apprezzato, giustamente ritenuto tra i pionieri della bioetica, il più distinto nella genesi e nella organizzazione accademica della bioetica nella Georgetown University26. Il Dr. Pellegrino è stato coordinatore anche del Center for Clinical Bioethics nella Facoltà di Medicina27. Anche Tom Beauchamp, filosofo protestante, è tra i docenti del Kennedy fin dai primordi28. 24 HELLEGERS, in Cahiers de la bioéthique, 1: La bioéthique, Presses de l’Université, Laval 1979, 13. 25 Citato da S. KATT, The Kennedy Institute: A New Approach to Problems, in “Georgetown Today”, Special Issue, July 1974, 1.3. 26 Bioethics at Georgetown School of Medicine and the Kennedy Institute of Ethics, in “Georgetown Medical Bulletin” 37(1984), 2-68 (spring), 2-5. 27 GEORGETOWN UNIVERSITY, Center for the Advanced Study of Ethics, brochure, Washington, DC, 1989, 5. 28 Per uno sguardo a questi pionieri della bioetica rinviamo al nostro LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 157 c) La bioetica cattolica in Europa Dopo l’affermazione negli Stati Uniti, la bioetica trova adesioni un po’ ovunque, soprattutto in Europa e in Canada. In Europa la prima apparizione del termine “bioetica”, risale al giugno 1973 (esattamente il 15), in Italia, presso l’Istituto di Ecologia Animale ed Etologia dell’Università di Pavia. Il Dr. Menico Torchio, devotissimo cattolico, professore di Biologia marina di quell’Università e direttore della Stazione Idrobiologica ed Acquario di Milano, pubblica un saggio sulla rivista “Natura” che portava il titolo: “Rapporti uomo-Natura secondo le principali metafisiche orientali, loro implicazioni bioetiche ed ecologiche”29. È assolutamente importante notare che quest’articolo aveva perfette connotazioni potteriane nella concezione della bioetica. Non si parla di bioetica con focus medico, né di problematiche legate alle biotecnologie. L’articolo di Torchio cammina sulla scia di quell’impostazione che Potter edifica sui fondamenti di Leopold. Torchio diede origine al “Gruppo Cattolico di Bioetica”. Il primo centro di bioetica in Europa fu costituito in Spagna nel 1975: l’Instituto Borja de Bioética di Barcellona. La sua genesi istituzionale fu nella Facoltà di Teologia, oggi però è costituito in istituto autonomo. Senz’altro in Europa il Borja fu all’avanguardia grazie a personalità come i gesuiti Manuel Cuyas e Francesc Abel30. Inoltre, nella storia della medicina e della bioetica, la Spagna ha avuto personalità come Diego Grazia, ottimo cattolico e docente di storia della medicina nell’Università Complutense e accademico della Real Academia de Medicina, disce- Bilancio di venticinque anni di bioetica. Un confronto con i pionieri, Elledici, Leumann (TO) 1997. 29 M. TORCHIO, Rapporti uomo-Natura secondo le principali metafisiche orientali, loro implicazioni bioetiche ed ecologiche, in “Natura” 64(11973)2, 101-132. Pubblicato esattamente il 15 giugno 1973 dall’Editrice Succ. Fusi, Pavia. Il corsivo nella citazione è nostro. 30 Cfr. F. ABEL, Dinamismo del diálogo bioético en una España en transición, in Guerra de Macedo C. (Ed.), Bioética, numero especial de “Boletin de la Oficina Sanitaria Panamericana” 108(1990),542-549. 158 GIOVANNI RUSSO polo di Pedro Laín Entralgo31. Il suo sistema di pensiero segue tre principali indirizzi: storia, teoria della medicina e filosofia. Come storico della medicina si è interessato soprattutto delle tappe storiche antiche (la grecità e il giuramento di Ippocrate), della storia della medicina medievale e di alcune correnti odierne. Nel secondo settore, la teoria della medicina, Gracia ha appuntato i suoi interessi ai rapporti essenziali che legano la medicina e l’antropologia, intesa come scienza dell’uomo in quanto uomo, evidenziando come la pratica del medico, la malattia, la guarigione e la morte del malato non sono fatti di ordine semplicemente fisico-chimico, bensì di ordine “umano”. Nell’ultimo settore, la filosofia, Gracia è legato strettamente al pensiero del suo maestro, Xavier Zubiri, che si muove tra esistenzialismo, fenomenologia e neoscolastica. A Londra, sotto il coordinamento dei vescovi cattolici, nasce il Joint Committee on Bioethical Issues e, nel 1977, il Roman Catholic Linacre Center32. Quest’ultimo, che ha avuto un forte impatto culturale, è stato ed è diretto dal Dr. Luke Gormally, con la collaborazione scientifica di Agneta Sutton. Si tratta di un centro composto in massima parte da docenti nel campo biomedico, filosofico, teologico e legale. Il loro lavoro è effettuato in collaborazione con una vasta rete di scienziati e specialisti clinici. Gli studi pubblicati hanno concentrato l’attenzione sui problemi relativi al prolungamento della vita, l’eutanasia, l’etica dell’assistenza sanitaria, la diagnosi prenatale e la fertilizzazione in vitro, la genetica. L’impostazione di pensiero è propriamente cattolica, ed ha avuto un buon impatto sociale e politico, contribuendo anche a livello di consulenze governative. Nel 1980 si affermano le iniziative di etica medica del Centro Sevres di Parigi e, dopo qualche anno, viene data organica struttura al Departement d’Ethique Biomedicale du Centre Sevres, sotto la direzione di Patrick Verspieren. Il Dipartimento ha organizzato significativi colloqui e seminari, concentrando la ricerca particolarmente nei campi della sperimentazione, delle nuove 31 D. GRACIA, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993. 32 Cfr. D. THOMASMA (Ed.), Medical Ethics in Europe, in “Theoretical Medicine” 9(1988),243-388, 254-255. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 159 frontiere della procreazione assistita e della genetica, dell’astenzione delle terapie, delle cure palliative. Riguardo a queste ultime, hanno riscosso notevole successo i colloqui del 1983 e del 1984. Il Dipartimento dispone di una buona biblioteca (Centro di Documentazione Bioetica), rilevante per la raccolta di documenti ufficiali e non ufficiali nel campo della bioetica, apparsi anche nell’enchiridion “Documenti di biologia, medicina ed etica: testi del magistero cattolico (1990)”33. I membri del Dipartimento godono particolare stima nell’Europa francofona, essendo stati chiamati come esperti in Gruppi di lavoro ministeriali e in Comitati Etici Nazionali. Il Centre d’Etudes Bioéthiques dell’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, investe importanza notevole in centro Europa. Nato come sviluppo di una cattedra di filosofia della medicina, nel 1983, promuove la bioetica come disciplina accademica: benché non si possa ridurre la ricerca a dei dibattiti esclusivamente scientifici e tecnologici, pena la riduzione dell’uomo a puro oggetto meccanico, si vuole promuovere in campo biomedico una scienza con coscienza34. Sotto la direzione di J.F. Malherbe, il centro si è impostato secondo una focalizzazione biomedica. Nell’Università di Tubinga, nel 1985, è costituito l’Interfaculty Center for Ethics in the Sciences and Humanities con la collaborazione della facoltà cattolica e protestante di Teologia, della facoltà di Filosofia, di Medicina e di Biologia. Esiste dal 1991 un “Postgraduate programme” per la formazione e la preparazione didattica, come anche un “European Network of Biomedical Ethics” che documenta bene l’attività bioetica in Europa35. d) La bioetica in Italia Un’indagine genetica della storia italiana del movimento che ha portato alla strutturazione della bioetica, ha mostrato come 33 Biologia, Medicina ed Etica, cit. J.F. MALHERBE, Centre d’Etudes Bioéthique, Bruxelles 1985, 5. 35 Cfr. G. RUSSO, Bioetica e correnti di pnsiero in Europa, in E. Sgreccia – G.P. Calabrò (eds.), I diritti della persona in prospettiva bioetica e giuridica, Marco Editore, Lungo di Cosenza 2002, 157-169. 34 160 GIOVANNI RUSSO fin dal 1961 un forte movimento con sensibilità etica nella medicina, iniziato già con Agostino Gemelli fin dal 1950 con la rivista “Medicina e Morale”, abbia un poco alla volta consegnato le sue ricerche ad una vera e propria opera scientifica che ha attivato specificamente la bioetica36. Generalmente si suole riportare la nascita della bioetica vera e propria agli anni ottanta, precisamente quando dalla cattedra di etica biomedica della Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica, di cui era titolare il Prof. Sandro Spinsanti, si passò nell’anno accademico 1983-1984 all’istituzione di una cattedra vera e propria di bioetica, affidandola al Prof. Elio Sgreccia. Alcuni studiosi dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Firenze, E. Gadler e B. Chiarelli, tracciando una nota storica circa alcuni aspetti e problemi della bioetica italiana, riconducono più a monte l’iniziativa ufficiale, nel 1982, quando la rivista “Medicina e Morale”, passando dall’uscita quadrimestrale a quella trimestrale, assume il sottotitolo di “Rivista Trimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica”37. L’iniziativa per l’istituzione di un Centro di Bioetica non si fece aspettare. Il primo centro di bioetica (1985) avviene presso l’Università Cattolica, dove la bioetica aveva visto la sua preistoria non nei bagliori della nuova sensibilità di una rivista o dell’istituzione di una cattedra, o frutto di una moda culturale vigente, ma dal quel vasto “movimento” che da 25 anni aveva concentrato tutte le sue attenzioni sui problemi etici della medicina38. Fra gli scopi che il centro (e ora anche l’Istituto) si prefigge “quello di un costante riferimento ai criteri di scientificità propri della visione cattolica della vita e quindi della fedeltà al magistero della Chiesa” 39. 36 G. RUSSO, Sessualità ed embriopoiesi nella genesi della bioetica in Italia, ITST, Messina 1992. 37 E. GADLER - B. CHIARELLI, Nota storica III: Aspetti e problemi della bioetica in Italia (Analisi critica dei testi italiani di bioetica), in “Problemi di Bioetica” 6(1990),7-33, 7. 38 Istituzione del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, in “Medicina e Morale” 35(1985),274-280, 276. 39 Statuto, art.3. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 161 L’opera di Sgreccia e dei suoi collaboratori, in particolare Antonio Giuseppe Spagnolo, Maria Luisa Di Pietro, Laura Palazzani, Vincenza Mele e, recentemente, il nuovo direttore dell’Istituto di Bioetica, Ignacio Carrasco De Paula, è un’opera che vede la bioetica con una fondazione etica strutturalmente aperta alla metafisica. Un pensiero che è stato chiamato “personalismo ontologico”, che si inscrive in una concezione generale della vita e dell’etica e che pone l’uomo e la persona come realtà positiva e centrale della riflessione bioetica40. Tale bioetica si propone dunque in primo luogo di giustificare il valore centrale della persona come criterio di discernimento tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è eticamente lecito, sulla base di una antropologia ontologicamente fondata (il riconoscimento della sostanzialità dell’essere della persona) e di una metafisica finalistica (il riconoscimento della “legge naturale” come ordine della realtà). Su tale base la bioetica personalista formula i principi (il valore fondamentale della vita, il principio di totalità o principio terapeutico, il principio di libertà e di responsabilità e il principio di socialità e di sussidiarietà) ed elabora le norme specifiche in vista delle circostanze dell’azione particolare. Sulla scia della corrente di pensiero sgrecciana, altri centri si sono mostrati particolarmente dinamici nella strutturazione italiana della bioetica. Citiamo il centro del San Raffaele di Milano, il Centro Internazionale Studi Famiglia, che ha visto tra i suoi direttori Sandro Spinsanti, e che ora coordina – nell’Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale di Roma – la rivista “Janus”. Altri centri di significativo interesse sono: la Fondazione Lanza di Padova, l’Istituto Siciliano di Bioetica (ISB) di padre Salvatore Privitera e del prof. Salvino Leone, la nostra Scuola Superiore di Specializzazione in Bioetica e Sessuologia di Messina che rilascia un diploma di specializzazione con l’Università Pontificia Salesiana, il Camillianum di Roma con le sue attività nel campo della pastorale sanitaria. 40 L. PALAZZANI, Modello argomentativo per una valutazione bioetica nella prospettiva personalistica, in C. Viafora (a cura di), Centri di bioetica in Italia. Orientamenti a confronto, Fondazione Lanza-Gregoriana, Padova 1993, 3754. 162 GIOVANNI RUSSO 4. Il dialogo tra le diverse prospettive Uno dei risultati migliori dell’etica della vita sorta dal Vaticano II è quello del dialogo instauratosi tra i diversi paradigmi di bioetica, al punto che lo stesso Giovanni Paolo II, in Evangelim vitae (n.27), loda e incoraggia il confronto con altre prospettive di impostazione secolare. a) Qualità della vita versus sacralità della vita Un primo modello fondamentale di bioetica è quello che mira a risolvere problemi di bioetica alla luce dei paradigmi di sacralità della vita, o, dal versante opposto, di qualità della vita. Di per sé, questi due paradigmi non dovrebbero essere letti in forma antagonista, perché il paradigma di “sacralità della vita” non esclude quello di “qualità della vita”, e viceversa. Se questi due paradigmi sono stati presentati in forma alternativa, ciò dipende dagli steccati innalzati dai due rappresentanti di questi paradigmi: la bioetica “religiosa” da un lato, con la riflessione sulla “sacralità della vita”, e la bioetica “laica”, che ha fatto del concetto di “qualità della vita” un cavallo di battaglia. La posizione di Peter Singer, in campo secolare forse la più rappresentativa, intende elaborare una “nuova” impostazione dei valori etici nel campo della vita, abbandonando il principio fondamentale dell’etica tradizionale, il principio della “sacralità della vita”. Non esisterebbe una dignità dell’uomo che è talmente “sacra” da stabilire una gerarchia di valori a priori. È l’individuo che elabora la gerarchia di doveri in caso di conflitto nelle varie circostanze in cui si trova ad agire41. Non c’è dunque spazio per un principio della “sacralità della vita”. Esiste, piuttosto il principio della “qualità della vita”. Quest’ultima è il “vivere bene” nella ricerca della massimizzazione del benessere (principio utilitarista) e nel rispetto dell’autonomia dell’individuo. 41 Per una critica a questa impostazione, si veda: L. PALAZZANI, Dall’etica “laica” alla bioetica “laica”: linee per un approfondimento filosofico-critico del dibattito italiano attuale, in “Humanitas” 46(1991)513-546, 544. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 163 b) Principialismo Un altro modello di bioetica, forse il più diffuso, è quello cosiddetto dei principi: il principialismo di Beauchamp e Childress42. In tale ottica i principi normativi nel campo della bioetica sono stabiliti in funzione della prassi biomedica. Ci si ritrova ad abbracciare concezioni “contrattualistiche” basate su un accordo di base circa alcuni principi e norme che siano condivisibili mediante la stipulazione di un contratto o sul bilanciamento dei doveri in questione43. I principi della bioetica, stabiliti di Beauchamp e Childress, sono quattro: rispetto dell’autonomia (respect for autonomy), beneficità (beneficence), non-maleficenza (non-maleficence) e giustizia (justice). Questi quattro principi sono interpretati e giustificati nel contesto di due tipi di teorie etiche: la teoria utilitaristica e la teoria deontologica. Una deontologia che è una deontologia pluralista che ammette più doveri che devono essere bilanciati in funzione delle circostanze concrete al fine di cogliere il dovere o il principio “emergente” (overriding) nella situazione. La interpretazione utilitaristica, poi, prescrive il maggior bene e il minor male per il maggior numero di persone, ove il bene e il male si definiscono in base al “piacevole” e allo “spiacevole”. La moralità dell’azione dipende dalle conseguenze non della singola azione in sé bensì dell’azione in rapporto a un “codice generale” o a un “sistema di regole” (whole-code approach) che si identificano con la massimalizzazione dell’utilità sociale. Clouser e Gert hanno evidenziato come il principialismo manca di una teoria unificata e sistematica da cui derivino i principi e che connetta i principi tra loro in modo armonioso e integrato: tale mancanza sta all’origine del conflitto tra i princi- 42 T.L. BEAUCHAMP - J.F. CHILDRESS, Principles of Biomedical Ethics, Oxford University Press, New York 41993. Sull’etica dei principi si veda anche: T.L. BEAUCHAMP - L.B. MCCULLOUGH, Medical Ethics: The Moral Responsabilities of Physicians, Prentice-Hall, Englewood Cliffs,1984; J.F. CHILDRESS, Who Should Decide? Paternalism in Health Care, Oxford University Press, New York 1982. 43 T.L. BEAUCHAMP, Principialismo, in G. RUSSO (ed.), Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, Elledici - Velar - Cic Edizioni Internazionali, Leumann (TO) - Gorle (BG) - Roma 2004. 164 GIOVANNI RUSSO pi, conflitto, secondo gli autori, irrisolvibile44. Ogni principio infatti non “riassume” la teoria, bensì nasconde implicitamente diverse teorie contrastanti: è una sorta di “surrogato” della teoria che rimanda a diverse teorie per essere spiegato. c) Il paradigma dell’esperienza Un altro paradigma della bioetica, è quello di Reich, denominato paradigma dell’esperienza45. Nasce come reazione al paradigma dei principi di Beauchamp e Childress. Il limite del principialismo è che, enfatizzando le caratteristiche astratte di un’etica universale (come i diritti, l’eguaglianza, la dignità), esso ha escluso gran parte dell’esperienza morale particolare di soggetti morali coinvolti, come il particolare legame vissuto dai genitori, l’amicizia nella vita professionale, l’attitudine delle donne a “prendersi cura”, ecc. In altri termini, la ricchezza, la varietà e la poliedricità della vita morale non è incasellabile nel rigido schematismo astratto dei principi. Contro l’astrattezza dei principi si rivendica la priorità dell’esperienza. Seguendo la via indicata da Jonsen e Toulmin (nuova casistica)46, alcuni autori, che si riferiscono al paradigma dell’esperienza, stanno seguendo ora più vigorosamente le implicazioni della casistica per la bioetica47. d) Il paradigma basato sulle virtù Infine, il paradigma basato sulle virtù. Si rifà ad Aristotele, a Tommaso d’Aquino, e, in bioetica oggi, a Pellegrino e Thomasma48. In etica medica, questo modello risale alla tradi- 44 K.D. CLOUSER - B. GERT, A Critique of Principlism, in “The Journal of Medicine and Philosophy” 2(1990)219-236, 227. 45 W.T. REICH, Il paradigma bioetico basato sull’esperienza, in G. RUSSO (ed.), Bioetica fondamentale e generale, 165-168. 46 A.R. JONSEN – S. TOULMIN, The abuse of casuistry: a history of moral reasoning, University of California Press, Berkeley 1988. 47 L.B. HOFFMASTER - B. FREEDMAN - G. FRASER (Eds.), Clinical Ethics: Theory and Practice, Humana Press, Clifton 1989. 48 The virtues in medical practice, cit.; ID., The Christian virtues in medical practice, cit. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 165 zione dello stesso Ippocrate. La teoria delle virtù si è diffusa tra i moralisti contemporanei in corrispondnza dell’abbandono della teoria deontologica neo-kantiana e della teoria teleologica utilitaristica. Anch’esso enfatizza l’attenzione sull’esperienza e sul soggetto, in quanto personalità morale. Il rilievo è posto sull’esperienza e sulla personalità di colui che agisce più che sull’atto in sé, o sui principi. La domanda centrale è la seguente: che tipo di persona dovrei essere? come mi dovrei comportare per agire bene? Nel caso del medico e dell’infermiere, il “guarire” e il “curare” è la loro attività specifica: se il medico e l’infermiere “guariscono” e “curano” sono “buoni” (virtuosi) professionisti in quanto il loro agire realizza il fine specifico intrinseco all’azione. Le virtù sono dunque quei “tratti del carattere” e della personalità del professionista, ciò che rende il professionista un buon professionista. Edmund D. Pellegrino, americano, è il rappresentante più forte di tale orientamento. Senza persone virtuose l’etica professionale non può avere successo, tanto più nella professione medica in quanto la vulnerabilità e la dipendenza della persona malata nei confronti del medico fa sì che questi debba “aver fiducia” (trust) non tanto nei suoi diritti, quanto nel tipo di persona che il medico “è”. Pellegrino ritiene che la determinazione delle virtù del medico (virtuous physician) sia strettamente connessa alla determinazione del bene medico: il medico virtuoso è dunque colui che è “abitualmente disposto” ad agire per il bene del paziente. Tali “disposizioni abituali”, o virtù, del medico sono: la benevolenza, la fedeltà alla fiducia, la compassione, l’empatia, l’onestà intellettuale, la competenza, la prudenza49. La scelta stessa della professione di medico e di infermiere implica una “promessa pubblica” di agire per il bene del paziente: è una sorta di “impresa morale” che implica il superamento dell’egoismo nel servire altruisticamente gli altri. La bioetica delle virtù, pertanto, privilegia il bene del paziente, anziché l’autonomia del paziente e l’utilità sociale. 49 Per maggiori dettagli si veda un nostro recente volume: Il medico. Identità e ruoli nella società di oggi, Elledici, Cic Edizioni Internazionali Leumann (TO) - Roma 2004. 166 GIOVANNI RUSSO e) Il paradigma bioetico Vangelo della vita Infine il paradigma bioetico Vangelo della vita, che si rifà all’Enciclica di Giovanni Paolo II e che alcuni autori – in particolare Livio Melina50 – hanno proposto come un modello specifico in piena sintonia con l’indirizzo conciliare. Un paradigma ancorato alla persona stessa di Gesù, che, anzi, coincide con il suo stesso essere, con l’annuncio della persona stessa di Gesù: “Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è un’illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste nell’annuncio della persona stessa di Gesù [...]. È allora dalla parola, dall’azione, dalla persona stessa di Gesù che all’uomo è data la possibilità di ‘conoscere’ la verità intera circa il valore della vita umana; è da quella fonte che gli viene, in particolare, la capacità di ‘fare’ perfettamente tale verità (cf Gv 3,21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana. Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento”51. Nel paradigma Vangelo della vita la vita è “progetto”. Esso corrisponde a un disegno del Creatore, a una precisa vocazione e chiamata. La vita è chiamata a conformarsi a questo disegno; la condizione del successo, e quindi del progresso della vita, è il riconoscere che la libertà dell’uomo nel realizzare questo progetto è appesa al filo dell’obbedienza. L’uomo ne è signore, ma Dio soltanto ne è signore in maniera assoluta. Anche in situazioni precarie, la vita è sempre un bene, perché è realtà sacra e inviolabile. Perciò la vita va accolta e rispettata, difesa e protetta, servita, anzi contemplata nel grande Mistero della Vita. E 50 L. MELINA, Corso di bioetica. Il vangelo della vita, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996; ID., Vangelo della vita. Paradigma bioetico, in G. RUSSO (ed.), Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, cit. 51 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, 29-30. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELL’ETICA DELLA VITA (BIOETICA) 167 poiché è quel talento di valore importante da trafficare, occorre prendersi cura della vita e promuoverla52. 5. Conclusioni e interrogativi problematici L’etica della vita dopo il Vaticano II ha trovato ampi spazi più nella riflessione filosofica secolare che nella teologia morale. Abbiamo assistito a una grande “primavera” nella teologia morale della vita, grazie all’impulso di paradigmi bioetici saldamente fondati sulla dottrina cattolica personalista. La svolta teologica operata dal Concilio è senz’altro all’origine del successo istituzionale della bioetica cattolica. Tra gli esponenti dei paradigmi più noti troviamo, come già indicato, molti cattolici, mentre le università pontificie pur avendo prodotto molto sono state poco vivaci sia nella proposta di nuovi modelli, sia nella strutturazione di un dibattito critico e costruttivo con altri modelli maggiormente affermati. Di fronte all’attacco sistematico alla teologia della persona ad opera della filosofia di Tristam Engelhardt, Jr., abbiamo assistito a molte reazioni critiche – e ben fondate – ma quali proposte? Inoltre, la teologia morale postconciliare è riuscita a mantenere il passo con l’utilitarismo e il contrattualismo imperanti in bioetica? Ma la lacuna più rilevante è a nostro avviso quella di una insufficiente proposta “teologica”53, con riferimenti sui fondamenti cristologici quasi assenti54. La bioetica cattolica ha camminato bene dal punto di vista dell’antropologia filosofica, ma 52 G. RUSSO, Significato della “Evangelium vitae” per la bioetica, in ID. (ed.), Evangelium vitae. Commento all’enciclica sulla bioetica, Elle Di Ci, Leumann 1995, 141-167. 53 Ottimo lo studio di S. LEONE, La prospettiva teologica in bioetica, Istituto Siciliano di Bioetica, Acireale (CT) 2002 e quello di G. COSTA, Fondamenti biblici della bioetica, Coop. S. Tom., Messina 2003. 54 Credo che occorra sviluppare la prospettiva proposta dall’enciclica Evangelium vitae. Interessante saggio, che apre la strada in questo senso, è quello di R.TREMBLAY, Cristologia e bioetica, in G. RUSSO (ed.), Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, cit. 168 GIOVANNI RUSSO non si è occupata molto dei dimensioni proprie della teologia. Comunque, se i frutti della prima stagione del Concilio sono stati di buona qualità filosofica, occorre ora camminare per un cammino più propriamente teologico. GIOVANNI RUSSO StMor 42 (2004) 169-199 GUIDO GATTI LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 1. La Gaudium et Spes: una visione personalistica della famiglia 1.1. La teologia morale della famiglia, prima del Concilio Il Concilio si è occupato della famiglia, e quindi anche dell’etica familiare, soprattutto nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes. Ma la sezione, tutto sommato abbastanza breve, di questo costituzione pastorale, che il Concilio ha dedicato alla famiglia rappresenta, per la storia della teologia morale familiare, una specie di pietra miliare o, se si preferisce una specie di confine tra due epoche diverse. Il concilio Vaticano II ha lasciato una sua orma profonda e un chiaro stimolo al rinnovamento in tutti i settori e in tutti i capitoli della teologia, ma con riferimento specialissimo alla teologia morale della famiglia. Si potrebbe quasi dire che, più che una svolta, il Concilio rappresenti, per la morale familiare, una specie di vero e proprio inizio. Se si escludono infatti alcune opere di singoli pionieri, la manualistica tradizionale non contemplava nessun trattato, esplicitamente dedicato alla teologia della famiglia. Qualcosa di quello che, dopo il Concilio sarebbe confluito in una serie di saggi sempre più numerosi di vera e propria teologia della famiglia, veniva incluso (e questa inclusione la dice lunga sul mondo in cui la TF veniva concepita dalla morale preconciliare) nella sezione riservata al sesto e nono comandamento e, in parte, in una trattazione, di stampo quasi esclusivamente giuridico, dedicata al matrimonio. In particolare, tutti i manuali riportavano fedelmente la tradizionale dottrina dei tre fini del matrimonio, e precisamente, nel loro preciso e rigoroso ordine gerarchico tradizionale: la pro- 170 GUIDO GATTI creazione al primo posto, poi, in posizione subordinata, l’educazione della prole, il mutuo aiuto tra i coniugi e il c. d. “remedium concupiscentiae”1. Dal 1945 in poi, i manuali citavano a questo proposito, oltre alla Casti Connubii di Pio XI, un più recente decreto del S. Ufficio del 1 aprile del 1944, che riaffermava ancora una volta l’ordine gerarchico dei tre fini e quindi la dipendenza e la subordinazione degli altri due al primo, condannando espressamente anche solo l’idea di una qualche forma di “aequa principalitas”. 1. 2. Il Concilio: una attenzione nuova alle trasformazioni socioculturali della famiglia Il fatto che il discorso conciliare sulla famiglia fosse inserito in un documento, passato alla storia, in base al suo incipit, come testimonianza di gioia e di speranza, ci dice che lo sguardo che i Padri conciliari intendevano gettare sulle vicende e i problemi della famiglia del nostro tempo era anzitutto uno sguardo di speranza, volto a mettere in risalto più gli aspetti positivi che quelli negativi, delle vicende attuali di questo istituto. Di qui la valutazione ottimistica, o almeno prevalentemente benevola, delle trasformazioni sociologiche e culturali che la famiglia veniva subendo in quegli anni: tali trasformazioni “portano turbamenti non lievi alla vita familiare” – riconosce il Concilio – , ma “se da questi turbamenti provengono difficoltà che angustiano le coscienze, – aggiungeva – molto spesso rendono manifesta in maniere diverse la vera natura dell’istituto stesso” (GS 47). Più che una precisa descrizione, questa constatazione era un invito alla ricerca teologica a tenere maggiormente in conto le 1 Così ad esempio, anche in edizioni appena anteriori al Concili, alcuni tra i più noti teologi moralisti del tempo : J. AERTNIS – C. A. DAMEN, Theologia moralis, Torino, Marietti 1950. S. S. GENICOT – I. SALMANS, Institutiones theologiae moralis, Bruges, Desclée de Brouwer 1949. B. MERKELBACH, Summa theologiae moralis, Bruges, Desclée de Brouwer 1949. H. NOLDIN, Summa theologiae moralis, Barcelona-Oeniponte, Herder 1951. PRUEMMER, Manuale theologiae moralis, Barcellona – Innsbruck, Herder 1961. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 171 trasformazioni socioculturali della famiglia contemporanea nella elaborazione del suo specifico discorso morale. La teologia morale non ha mancato di accogliere questo appello alla valorizzazione delle trasformazioni socioculturali della famiglia: non pochi trattati di teologia morale della famiglia cominciano, da allora, proprio con una indagine di questo genere, magari compiuta da specialisti, attuando così una qualche forma di interdisciplinarità. In questo modo, non viene soltanto precisata meglio la materia circa quam, e quindi l’ambito preciso della problematica, ma nello stesso tempo vengono vagliate, ed eventualmente accolte, le istanze positive, presenti nella Gaudium et Spes. Di fatto, la morale familiare, non può ignorare quanto la famiglia tradizionale fosse debitrice, per quanto riguardava la sua coesione e il ruolo che svolgeva nella vita nei suoi membri, nei confronti di quella forza di coesione che le veniva dalla funzione securizzante che, sul piano economico e sociale, essa svolgeva nei confronti dei suoi membri. Se ci pensiamo bene, una parte non piccola della stessa provvidenziale efficienza educativa della famiglia tradizionale, si inscriveva all’interno dei fortissimi legami di solidarietà e di cointeressenza che la compattava. Al confronto con la saldezza ed efficacia di questi legami, quelli dell’appartenenza alla più larga società erano meno diretti e più lontani, quando pure non percepiti come alieni ed ostili. All’interno della famiglia, i sentimenti spontanei di amore e di affetto reciproco normalmente non mancavano, venivano anzi percepiti e vissuti come qualcosa di ovvio e di naturale, sostenuti come erano dalla reale solidarietà di destino e di vita: essi non erano recepiti quindi dalla riflessione teologica come un vero e proprio problema morale. Ora, nel corso dell’ultimo secolo, la famiglia è venuta perdendo sempre di più, nell’ottica e negli effettivi interessi dei suoi membri, questa forza di coesione spontanea che le veniva dalla sua funzione socio-economica. Oggi, almeno all’interno delle società economicamente sviluppate, capaci di offrire a ogni persona, nella sua precisa individualità, garanzie economiche e sociali, un tempo impensabili, la famiglia non può più contare su quella forza di coesione, e deve affrontare quindi tutta una serie di problemi nuovi e spes- 172 GUIDO GATTI so drammatici, che costringono a guardare al matrimonio e alla famiglia in modo nuovo e con categorie interpretative almeno in parte diverse. La coesione della famiglia è affidata a una rete intricatissima di attese reciproche di natura affettiva, di rapporti sentimentali che, con la loro, non raramente ambigua valenza costituiscono il molto più profondo, ma anche più problematico sostrato del vissuto familiare. Meno assillata da problemi economici, la famiglia nucleare è oggi più facilmente alle prese con problemi più complessi, e spesso più sofferti, di carattere affettivo. Questo significa che ad avere assunto una rilevanza nuova, all’interno del vissuto familiare è oggi la persona in quanto tale, con i suoi valori, ma anche con il suo complesso e insondabile mondo interiore. Questo mondo complesso e oscuro non cancella i problemi strutturali che la famiglia presenta alla teologia morale, essa piuttosto li esaspera, ma fa sì che essi si presentino appunto come problemi delle persone. I beni e i valori morali della famiglia, che la teologia morale è chiamata a illuminare e difendere sono, perfino nella loro non eliminabile dimensione giuridica, valori della persona in quanto tale. Ma la GS non si è limitata a rimandare la riflessione di fede sulla famiglia a una attenzione più acuta alle trasformazioni socioculturale che la famiglia aveva attraversato e stava tuttora attraversando. 1.3 La G. S.: una visione “personalistica” della sessualità e del matrimonio Al di là del suo generico, e forse un po’ volontaristico, atteggiamento globale di ottimismo, che pervadeva del resto tutto il Concilio, così come un po’ tutto il vissuto ecclesiale (e forse non solo ecclesiale) di quegli anni, il guadagno principale del Concilio, per quanto riguarda la concezione della famiglia, è costituito dalla recezione di alcune preziose intuizioni che la più avvisata teologia morale della famiglia stava portando avanti, con un itinerario contrastato, già da qualche decennio, e che aveva avuto, tra gli altri suoi protagonisti, Dietrich von LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 173 Hildebrand2, Herbert Doms3, Jean Guitton4, Jean J. Allmen5, Pierre Grelot6, B. Haering7. La più importante delle intuizioni che il concilio ha recepito in questo campo, mi pare sia la nuova attenzione alla concezione personalistica del matrimonio e dell’amore coniugale, che sottostà a tutto il discorso conciliare sulla famiglia e sulla vita familiare. Questa concezione traspare anzitutto dalla delicatezza e nobiltà del linguaggio con cui si parla di queste realtà, lontano dalla brutalità del gergo giuridico di molta parte della manualistica preconciliare (ricordo quanto negativamente mi colpiva, nella scuola di morale, l’uso di espressioni come, “ius in corpus”, oppure “usus matrimonii” o ancora ”remedium concupiscentiae”, che peraltro erano parte di una tradizione che veniva da lontano). Il linguaggio non è mai uno strumento neutrale; anzi non è mai solo uno strumento. Il Concilio ignora ogni riferimento alla tradizionale gerarchia dei fini del matrimonio. Già si direbbe che obliteri con questo lo stesso problema di una gerarchia. Al posto di una gerarchia c’è una specie di rimando interno di ognuno di essi ad ognuno degli altri nella unità indissolubile di una realtà personale e personalizzante. Secondo il Concilio, sia l’apertura alla procreazione, che l’esigenza della piena fedeltà e dell’indissolubilità del matrimonio hanno la loro radice e il loro fondamento nell’intima unione delle persone dei coniugi, instaurata dal Matrimonio (GS 48). Questa intima unione è anzitutto una realtà personale: un fatto di amore: “Proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà (voluntatis affectu), quell’amore abbraccia il bene di tutta la persona e perciò ha la possibilità di arricchire di 2 D. von HILDEBRAND, Il matrimonio, Brescia, Morcelliana 1931. H. DOMS, Significato e scopo del matrimonio, Roma, Cathedra 1946. 4 J. GUITTON, L’amour humaine, Paris, Montaigne 1948. 5 J.J. ALLMEN, Maris e femme d’après S. Paul, 1951. 6 P. GRELOT, La coppia umana nella sacra scrittura, Brescia, Vita e Pensiero 1962. 7 B. HAERING, La Legge di Cristo, Brescia, Morcelliana 1957. 3 174 GUIDO GATTI particolare dignità (nobilitare valet)” i sentimenti dell’animo e le loro manifestazioni fisiche” (GS 49). “L’autentico amore coniugale è così assunto nell’amore divino ed è sostenuto ed arricchito dalla forza redentiva del Cristo” (48). Questo amore è vissuto all’interno di una storia coinvolgente di comunione di vita che impegna ad una sua autenticazione e a una sua crescita progressiva: “L’uomo e la donna… prestandosi mutuo aiuto e servizio con l’intima unione delle persone e della attività, sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente lo raggiungono”(48). L’atto coniugale, senza perdere il suo costitutivo orientamento alla trasmissione della vita, diviene linguaggio di questo amore, capace di esprimerlo e di approfondirlo: “Questo amore […] conduce i coniugi al libero e mutuo dono reciproco e pervade tutta la loro vita. Questo amore trova la sua espressione e il suo linguaggio più alto nell’intimità coniugale. L’atto coniugale viene così nobilitato e visto come linguaggio dell’amore…” (49). Questo amore “è espresso e sviluppato dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio […] Ne consegue che gli atti con i quali gli sposi si uniscono in casta intimità sono onorabili e degni e, compiuti in modo veramente umano favoriscono la mutua donazione che essi significano” (49). L’amore coniugale infatti ”ha la possibilità di arricchire di particolare dignità i sentimenti dell’animo e le loro manifestazioni fisiche (49). 1. 4. Il personalismo nella teologia postconciliare della famiglia Rileggendo i testi di etica familiare del dopoconcilio, si ha l’impressione che, al di là delle diverse posizioni e delle diverse accentuazione di carattere dottrinale, risalenti in genere alla diversità delle impostazioni adottate dai diversi autori in sede di morale fondamentale, la lezione sia stata diligentemente appresa da tutti teologi moralisti. Questa centralità del vissuto personale ha fatto spesso parlare di una concezione personalistica della realtà del matrimonio e della famiglia. L’aggettivo “personalistico” non va naturalmente inteso qui in riferimento a una qualche precisa filosofia morale, ma solo a una specie di intuizione-guida che fa della persona il valore fon- LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 175 damentale e quindi in qualche modo la misura, di tutto il vissuto morale. Pur in possesso da sempre, per il solo fatto di essere persona, di tutta la sua dignità di centro e scopo dell’universo creato e della sua storia, la persona è un essere in divenire, chiamato ad attuarsi in pienezza con le sue scelte libere, nel corso di una intera storia di vita. Ogni indicazione etica si rifà ultimamente al Fiat della Genesi, inteso proprio nel senso (solo alla persona umana appunto riferibile), di un imperativo a “diventare se stessa”. Tutte le istituzioni, tutte le norme etiche e le direttive di vita trovano in questo farsi della persona il loro fondamento e la misura della loro validità. Naturalmente questa attenzione, almeno in parte nuova, della morale familiare alla centralità della persona, nell’ambito del vissuto morale, porta con sé il pericolo di un cattivo soggettivismo, che abbandonerebbe la famiglia all’imprevedibile e non raramente tempestosa storia del vissuto psicologico dei suoi membri, invece di porsi come loro guida. I valori etici sono valori della persona, ma di una persona chiamata a realizzarsi, nella luce di questi valori, anche attraverso il governo del mondo, per sé ambiguo, della sua soggettività. La teologia morale del dopoconcilio si è generalmente qualificata come ermeneutica di questi valori e quindi delle esigenze più profonde della persona, chiamata a realizzare la sua vocazione ad essere in pienezza, all’interno di una famiglia. Si tratta di valori che non vanno pensati come contrapposti e imposti alla persona dal di fuori delle sue attese più profonde e più vere, e che tuttavia chiedono alla persona di superare la istintualità e i desideri più superficiali ed immediati, per vivere alla verità più profonda di cui e per cui è fatta. L’ermeneutica della persona è un discorso che comincia con l’indicativo, ma sfocia inevitabilmente nell’esortativo e nell’imperativo. Si è detto dell’obliterazione da parte della GS e, di conseguenza anche da parte della teologia morale, della tradizionale concezione gerarchica dei fini del matrimonio. Ma la teologia postconciliare, almeno quella più avveduta, ha sottolineato spesso che il superamento della subordinazione 176 GUIDO GATTI delle diverse finalità del matrimonio alla finalità procreativa non significa l’introduzione di una qualche gerarchia dei fini di segno semplicemente opposto, ma l’affermazione dell’unità dei fini (o forse meglio dei significati) del matrimonio all’interno dell’organica unità del vissuto coniugale. Come nota il Majdanski, “La molteplicità dei fini non li contrappone reciprocamente tra loro, ma al contrario, essi sono collegati mutuamente, intimamente, per la loro indole naturale, quindi dalla volontà del Creatore”8. Lo stesso autore parla in proposito di “armonia” e perfino di “unità”9. 1. 5. Ispirazione teologale e cristica dell’etica della famiglia nel postconcilio D’altra parte l’impostazione personalistica del discorso teologico sul matrimonio e sulla famiglia, lungi da portare a una trattazione etica neutrale e quindi indipendente rispetto al messaggio evangelico, si è rivelata ricca di una sua valenza propriamente teologale e specificamente cristica, sacramentale ed ecclesiale. Si direbbe che le discussioni, tipiche della teologia morale del postconcilio, sul rapporto tra una morale puramente ma pienamente umana e la morale specificamente cristiana, e quindi su quello che è stato chiamato il problema dello “specifico cristiano” della morale cristiana, abbiano avuto, nell’ambito della morale coniugale e familiare, meno ricadute che in altri ambiti della morale. Individuare le valenze specificamente cristiane della stessa dimensione umana del vissuto familiare è stato, in questo campo, forse più facile che in altri. Come ha fatto notare B. Haering, “la verità dell’amore ha molte cose da dirci sull’essere liberi e fedeli in Cristo. Noi non saremmo capaci di concepire alcuna verità intorno all’amore creativo e redentivo di Dio nostro Padre e di Cristo, nostro fratello, se non avessimo le fondamentali esperienze d’amore che ci provengono dagli istituti del matrimonio e della famiglia”10. 8 K . MAJDANSKI, Comunione di vita e d’amore. Teologia del matrimonio e della famiglia, Milano, Vita e pensiero 1980, 139 9 K . MAJDANSKI, Ibidem 10 B. HAERING, Liberi e fedeli in Cristo, Roma, E. P., 1990, vol II, 587-588. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 177 Anche la stessa sessualità può essere vista in questa luce: “La nostra ricerca – continua B. Haering – non sarebbe completa se non considerassimo anche la sessualità umana (e le sue manifestazioni principali) come via verso un’unità più piena, come un modo di conoscersi l’un l’altro nell’amore e di condurci l’un l’altro verso la pienezza dell’amore, entro una comunità che riflette l’amore di Dio uno e trino”11. La particolare dignità di cui – secondo il Concilio – l’amore arricchisce gli atti le espressioni dell’amore coniugale porta a vedere nella sessualità una forma di linguaggio, il linguaggio appunto dell’amore e quindi, nello stesso amore coniugale, soltanto una forma incarnata di una tensione all’amore che va al di là della materia e della corporalità, al punto da far dire a J. Guitton che in questa luce l’universo in cui viviamo diventa “una macchina per fabbricare dei” e che, evidentemente nella misura in cui la stessa verginità fosse vissuta come condizione di amore, “i vergini sarebbero la punta estrema dell’evoluzione cosmica”12. Anche nel linguaggio della teologia morale vera e propria, espressioni analoghe, non prive di un certo lirismo, a proposito dell’amore coniugale e della famiglia, non sono più tanto rare, dopo il Concilio. 1.6. Il ruolo fondante del sacramento del matrimonio Il ricupero di questa dimensione teologale e cristica ha portato la riflessione teologico-morale a riscoprire il ruolo fondante che ha, nella vita della famiglia cristiana, il sacramento del matrimonio, di cui i coniugi stessi ne sono ministri. Si ricupera così l’idea, cara allo Schillebeeckx13, che sia proprio la realtà umana del matrimonio, con la sua consistenza terrena a entrare nella storia della salvezza. Essa è segno efficace di grazia non in forza di una qualche celebrazione sacra accesso- 11 B. HAERING, Ibidem. J. GUITTON, La famiglia e l’amore, Cinisello Balsamo, E. P. 1974, pgg 23 e 33 13 E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio, realtà terrena e mistero di salvezza, cit., 437-453. 12 178 GUIDO GATTI ria, ma in quanto immagine e quindi anche partecipazione della dimensione nuziale della salvezza e del Regno. Si apriva così alla riflessione teologico-morale la strada di una ricomprensione dell’ethos coniugale cristiano a partire dal sacramento del matrimonio, inteso come “legge nuova della coppia cristiana”14. Questo ha portato tra l’altro a prestare un’attenzione maggiore al carattere consacratorio e permanente di questo sacramento, pure già intuito da Agostino, e più tardi dal Bellarmino15 e originalmente sviluppato dallo Scheeben16. 1. 7. Chiesa e famiglia Un ultima conseguenza della nuova focalizzazione del carattere specificamente cristico della morale cristiana della famiglia, mi pare sia stata una migliore comprensione del rapporto esistente tra la famiglia cristiana e la chiesa. Da modello dell’intimità coniugale, in forza del suo rapporto sponsale con Cristo, la chiesa aveva finito per diventare maestra e legislatrice della famiglia, portatrice di un magistero morale vincolante e preciso, e di un diritto che rischiava di ridurre la famiglia da soggetto ad oggetto della vita ecclesiale. La teologia morale postconciliare ha ricuperato il ruolo fondante dell’unione sponsale di Cristo con la Chiesa nei confronti dell’etica coniugale e familiare. Naturalmente tutte queste dimensioni specificamente teologali della realtà familiare non sono sempre immediatamente traducibili in una normativa precisa: ma riscoprire il senso profondo dell’impegno morale, non è meno importante della determinazione precisa delle sue norme. La teologia morale in quanto cristiana non può ignorare il fatto che tutta la vita cristiana è sviluppo di ciò che è germinal- 14 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 49. 15 S. ROBERTO BELLARMINO, De controversiis christianae fidei, III, De matrimonio, Coloniae Agrippinae, 1615,2,6. 16 M. J. SCHEEBEN, I misteri del cristianesimo, Brescia, Morcelliana 1949, 442. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 179 mente contenuto nel battesimo, esplicitazione di ciò che è espresso come possibilità di grazia e di salvezza negli altri sacramenti e tensione verso la pienezza dell’incontro con Cristo, prefigurativamente realizzato nell’eucaristia. La vita morale cristiana deve ritrovare il carattere di sviluppo di un germe vitale intrinseco più che di sottomissione a una normativa estrinseca. Come ha detto la Conferenza episcopale italiana in un bel documento del 1975 sull’evangelizzazione in rapporto al sacramento del matrimonio... “I sacramenti della fede, in quanto alimento e sorgente della vita nuova, con la loro celebrazione promulgano la legge di Cristo e con il dono dello Spirito l’incidono nel cuore”17. Questo vale in particolare per la morale coniugale; essa trova nel sacramento del matrimonio con il suo carattere consacratorio e quindi in certo modo permanente, il suo principio vitale e il suo esemplare assiologico: “Il sacramento del matrimonio, effondendo il dono dello Spirito che trasforma l’amore sponsale, diventa legge della nuova coppia cristiana... al sacramento deve essere ricondotta, come a suo fondamento e a suo costante sostegno la vita morale della coppia cristiana nei suoi molteplici valori e impegni, anche quelli radicati nella stessa natura dell’uomo18. D’altra parte fondare l’etica coniugale sul sacramento del matrimonio non significa escludere, ma ricuperare alla sua autenticità e pienezza, i valori umani del matrimonio, primo tra tutti l’amore coniugale con il suo significato unitivo e la sua missione procreativa ed educativa. Allo stesso modo, il ruolo della famiglia e il modello etico della vita familiare cristiana non possono essere compresi nella loro pienezza se si prescinde dal rapporto tra la famiglia e la chiesa. La famiglia esercita un compito specifico o ministero nella chiesa; essa genera i suoi figli alla fede, alla grazia, e quindi anche alla chiesa oltre che al mondo; con ciò rende feconda la chiesa; ma essa offre alla chiesa anche il suo modello di convi- 17 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 50. 18 CCONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 49 e 50. 180 GUIDO GATTI venza e di rapporti comunitari; per ciò la chiesa è chiamata a strutturarsi come famiglia di Dio. Ma a sua volta trova nella chiesa il mistero di quella presenza di Cristo e di quella intimità con lui di cui alimenta la sua vitalità cristiana; per questo anch’essa è chiamata a strutturarsi e vivere come “ecclesia domestica”. D’altra parte sia la chiesa che la famiglia sono unite in una comune “diakonìa” nei confronti del grande mondo e in una comune tensione verso la piena rivelazione del Regno che impedisce loro ogni autocompiacimento e ogni mitizzazione di sé e della propria vita intima. L’agape che lo Spirito suscita in loro è fatto non per essere consumato nel loro ambito chiuso, ma per abbracciare tutto il mondo e per diventare il fermento rinnovatore di tutta la convivenza umana, tutta quanta chiamata a trasformarsi in famiglia dei figli di Dio e a costituire il suo Regno. 1.8. Teologia morale e spiritualità della famiglia Del resto, la teologia morale postconciliare si è coraggiosamente aperta alla considerazione di un “ministero ecclesiale degli sposi”, e di una specifica “spiritualità coniugale”; ha parlato dello stato coniugale come di una condizione cui si accede attraverso una vera e propria vocazione, che è quindi anche una chiamata a una specifica forma di santità coniugale. Particolare attenzione è stata data ai compiti e alle responsabilità educative dei genitori nei confronti dei figli, in particolare per quanto la difficile educazione della fede. Ci si è occupati della preghiera in famiglia, magari auspicando la creazione di una specifica liturgia familiare. L’attenzione della morale a questo genere di problemi, estranei al tradizionale campo d’indagine della manualistica, poteva sembrare un indebito sconfinamento. Essa si è rivelata in realtà un prezioso stimolo ad affrontare in maniera più critica ed approfondita il problema ineludibile del raccordo tra i contenuti normativi dell’etica cristiana e la sua fondazione di senso e di motivazione ultima, da riporre almeno ultimamente nel mistero di Cristo. È il problema dello “specifico cristiano” della morale cristiana che ha agitato per qualche anno il campo dell’etica fondamentale, sollevando, tra l’altro, anche qualche problema epi- LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 181 stemologico e di raccordo tra la teologia morale e gli altri settori della ricerca teologica, come l’ermeneutica biblica e soprattutto la dottrina spirituale. D’altronde, oltre al campo delle altre discipline teologiche, l’impostazione personalistica, costringe la ricerca teologicomorale a confrontarsi anche con altri settori del sapere: quello che si era detto sopra per la sociologia vale evidentemente anche per la psicologia e le scienze dell’educazione. In campo filosofico può valere ad esempio per la fenomenologia. Il discorso teologico morale viene così sollecitato a diverse forme di inter- e di transdisciplinarità. 2. Problemi morali della famiglia, emersi nel dopoconcilio 2. 1. La regolazione delle nascite: dalla GS alla Humanae Vitae Accanto a problemi di principio e di impostazione abbastanza generale, il Concilio aveva sollevato anche problemi normativo molto precisi, tra cui, in primo piano quello del controllo delle nascite, allora attualissimo per la risonanza che stava avendo, anche tra i cattolici, il contraccettivo orale, da poco scoperto e già messo in commercio; il problema era stato presentato in termini abbastanza generali ma, naturalmente, con una attenzione a quest’ultima forma di contraccezione, che molti pensavano compatibile con la morale cattolica. Il Concilio aveva affrontato coraggiosamente questo problema, e lo aveva impostato nell’ambito della più generale visione della procreazione, vista non più come fine primario del matrimonio, all’interno della classica visione gerarchica dei fini, ma piuttosto come “coronamento del matrimonio e dell’amore coniugale (GS 48) e come “preziosissimo dono” del matrimonio stesso (GS 50). Il Concilio aveva esaminato con grande attenzione ed esposto con leale oggettività la gravità del problema del controllo delle nascite19, indicando principi di soluzione molto generali e, 19 “…Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma il carattere stesso di patto indissolubile tra persone e il bene 182 GUIDO GATTI proprio per questo, in certo senso indiscutibili20, ma dovette affidare la determinazione più precisa di carattere normativo, alla parola ultima al Pontefice. Paolo I, che aveva avocato a sé la soluzione di questo scottante problema, nominò a questo scopo una commissione di esperti; ma, contro il parere della maggioranza di questa commissione decise, nel senso che sappiamo, con la enciclica Humanae Vitae. I teologi moralisti, alcuni dei quali aveva trattato abbastanza liberamente il tema, in quel periodo che potremmo scherzosamente chiamare di interregno, si trovarono di fronte a una serie di alternative, sia di carattere più propriamente teoretico, che pratico-pastorale. Alcuni dissentirono più o meno apertamente dalla sostanza delle affermazioni pontificie. Lo fecero appoggiandosi al fatto che, per sé, il documento non pareva impegnare in modo chiaro e solenne l’infallibilità pontificia, oppure affermando il diritto dei coniugi a concedere l’ultima parola in proposito alla loro coscienza personale, attribuendo così ad essa, quella infallibilità, che veniva in qualche modo negata, almeno a livello pratico, alla parola del Papa. Quelli che, vincendo ogni difficoltà teorica e pratica, accettarono l’insegnamento del Papa, si trovarono di fronte un duplice ordine di problemi: il primo, di indole più teorica, consisteva nella necessità di chiarire, meglio di quanto l’enciclica stessa dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità” (GS 50) ll concilio sa che spesso i coniugi, nel dare un ordine armonico alla vita coniugale, sono ostacolati da alcune condizioni della vita di oggi e possono trovare circostanze nelle quali non si può aumentare , almeno per un certo tempo, il numero dei figli e non senza difficoltà si può conservare la fedeltà dell’amore e la piena familiarità di vita. Là dove infatti è interrotta l’intimità della vita coniugale non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli: allora corrono serio pericolo anche l’educazione dei figli e il coraggio di accettarne altri.”(50). 20 “Ora la chiesa ricorda che non può esserci vera contraddizione tra le leggi divine del trasmettere la vita e del dovere di favorire l’autentica comunione coniugale” (51). LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 183 avesse fatto, le ragioni del suo insegnamento, mostrare, tra l’altro, l’esistenza di una sostanziale coincidenza, o almeno compatibilità, tra l’insegnamento dell’enciclica e la concezione personalistica dell’amore coniugale e del matrimonio presente nella GS. Il secondo problema, che da secoli era stato svolto nella chiesa proprio dalla teologia morale era quello di trovare le modalità concrete per risolvere gli innumerevoli problemi di coscienza delle moltissime copie, che trovavano difficile, quando non proprio impossibile, l’obbedienza al dettato del Papa. Per quanto riguarda il problema teoretico, si trattava di spiegare in modo convincente la negatività della contraccezione, senza ritornare alla concezione gerarchica dei fini del matrimonio, che caratterizzava l’approccio preconciliare all’etica della coniugalità, e quindi senza rinnegare la svolta personalistica del Concilio cui, del resto, l’enciclica stessa si era ripetutamente richiamata. 2. 2. Il “paradigma del linguaggio” Una indicazione preziosa, a dire la verità era già contenuta nel testo stesso dell’enciclica e precisamente nel riferimento alla natura espressiva dell’atto coniugale. L’enciclica infatti, mentre parlava di “processi biologici”, e di “leggi biologiche che fanno parte della persona umana” (HV 10), chiedendone il rispetto, parlava anche di “significati dell’atto coniugale”, vedendo quindi quest’ultimo come un atto in certo senso linguistico, portatore di significati, e precisamente di un significato unitivo e di un significato procreativo (HV 12), considerati come inseparabilmente presenti nella funzione biologica e nel suo esercizio: “usare di questo dono divino, distruggendo il suo significato e la sua finalità è perciò contraddire al piano divino” (HV 13). Diversi teologi moralisti puntarono quindi, per aiutare a comprendere, se non proprio a dimostrare, la verità contenuta nell’insegnamento papale su quello che B. Haering chiamò il “paradigma del linguaggio”. L’atto coniugale non era dunque soltanto un atto produttore di risultati e valutabile in ragione di questi: era un atto espressivo di significati, e quindi valutabile eticamente anche in rap- 184 GUIDO GATTI porto alla sua effettiva fedeltà a questi significati, e quindi a quella che potremmo chiamare la sua veracità. Il paradigma del linguaggio era già stato usato, se pure in diverso contesto, dal Doms, e fu subito valorizzato da G. Martelet in due volumetti che seguirono immediatamente l’enciclica21. Il paradigma fu ripreso e sviluppato, magari con sfumature diverse anche da altri autori. Originale a questo proposito fu l’impostazione di B. Haering: nel suo manuale “Liberi e fedeli in Cristo”, egli pone la morale familiare all’interno del II volume dedicato a “La verità che vi farà liberi”, che tratta oltre che della veracità nel comunicare, della morale della bellezza e della gloria. L’etica della famiglia e del matrimonio è inserita in un settore intitolato “la verità che libera e il linguaggio sessuale”, che comprende a sua volta un capitolo intitolato “la fecondità come costitutivo intrinseco del linguaggio sessuale”22. Il “paradigma del linguaggio” introduce, come si vede, una concezione di portata più generale di quella dell’atto coniugale: essa mette in risalto un settore specifico, e forse anche una dimensione più generale del vissuto morale, che comprende certamente, oltre a quello del linguaggio coniugale, altri campi dell’agire morale, come quello appunto della comunicazione e in particolare della confessione di fede: settori in cui l’agire umano può essere valutato eticamente non soltanto, e magari non principalmente, in ragione dei suoi effetti, quindi in quanto atto pragmatico, quanto in ragione dei suoi significati, in quanto atto espressivo della persona, al di là quindi di ogni concezione puramente conseguenzialistica dell’etica normativa. 21 G. MARTELET, Amore coniugale e rinnovamento conciliare, Assisi, Cittadella 1968. IDEM, L’esistenza umana e l’amore, Assisi, Cittadella 1968. 22 B. HAERING, Liberi e fedeli in Cristo, vol II, cap. X, Roma, E. P. 1980. Tra gli autori che utilizzano il c. d. “paradigma del linguaggio”, oltre ai già ricordati, segnaliamo anche: D. TETTAMANZI, Matrimonio cristiano oggi, Milano, Ancora 1975. A. GUINDON, The Sexual Language (An Essay on Moral Theology), Ottawa; Univ. Press 1976, LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 185 2. 3. Il ruolo della coscienza personale Ma il problema più largamente affrontato fu di natura più pratica: cosa dire, sia a livello di catechesi etica, che di gestione del sacramento della penitenza, nei confronti dei coniugi che si trovavano in difficoltà, che parevano e forse erano veramente insuperabili. Il concilio aveva prospettato in maniera chiarissima, la portata di tali difficoltà. Esse erano divenute ancora più serie, almeno dal punto di vista psicologico, durante quel periodo che abbiamo chiamato di “interregno”. Molte coppie di credenti si erano abituate a considerare come lecite almeno certe forme di contraccezione e la smentita dell’enciclica parve loro orami come qualcosa di assurdo o per lo meno di impraticabile. Sintomo di una simile situazione di non accettazione, almeno pratica, furono le reazioni dell’opinione pubblica di tutti i settori, di cui si era fatta portatrice la stampa. Le indicazioni pratiche che i moralisti proposero agli sposi e ai confessori furono fondamentalmente due. Alcuni teologi moralisti risposero a questa situazione di non accettazione pratica da parte di tanti fedeli con una qualche forma di legittimazione di quello che venne considerata una “obiezione di coscienza”. Venne rivalutato quindi il ruolo della coscienza, cui fu, almeno in questo campo, affidata una valutazione etica di ultima istanza. Dal resto il ruolo e la dignità della coscienza erano state fortemente sottolineate dal Concilio e si doveva inoltre tenere conto, nel valutare il facilmente prevedibile rifiuto dell’enciclica da parte di molti fedeli, della difficoltà che questi fedeli avrebbero certamente incontrato nella comprensione degli argomenti portati dall’enciclica a sostegno delle sue affermazioni, soprattutto se si tiene conto del peso esercitato dal rifiuto quasi unanime dell’opinione pubblica e dei media che la formavano. C’era naturalmente, in una simile soluzione, il pericolo di fare della coscienza, più che una interprete della norma, una specie di legislatore morale alternativo, sacrificando così il carattere vincolante della norma morale, proprio in quanto 186 GUIDO GATTI naturale e non arbitraria, alla maniera delle leggi positive. E c’era il rischio di dimenticare il carattere non raramente contorto del procedimento euristico coscienziale e il pericolo non irreale della razionalizzazione e dell’autogiustificazione. 2. 4. Il “principio di gradualità” Altri moralisti, invece, maggiorando qualche cenno contenuto nella stessa enciclica23, e ripreso con più chiarezza dal Papa in un famoso discorso alle Equipes Notre Dame24, diedero corpo a quello che in poco tempo fu chiamato “principio di gradualità”. Esso consisteva appunto nel riconoscimento che la capacità di restare fedeli al dettato dell’enciclica, anche nel caso di una sincera adesione e di una reale buona volontà, non era così facile da poter essere subito interamente possibile: cadute dovute a fragilità più che a cattiva volontà potevano essere preventivate: la valutazione della colpevolezza doveva quindi tenerne adeguatamente conto: la pastorale in proposito non doveva perciò essere rigida ed ossessiva. La legge della gradualità fu argomento dibattuto, ma fondamentalmente dai Padri, al Sinodo dei Vescovi sulla famiglia25: esso, pur con qualche puntigliosa precisazione26, fu ripreso e accolto dalla esortazione apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. 23 “Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l’esempio […] egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso e paziente con le persone” (HV 29). 24 “Le leggi morali, lungi dall’avere la freddezza inumana di una oggettività astratta, sono là per guidare la coppia nel suo cammino […] Il cammino degli sposi, come tutta la vita umana, conosce delle tappe, e fasi difficili e dolorose hanno pure il loro posto” (AAS 62 (1970) 435-6) 25 A questo argomento fu dedicata la proposizione n. 7: nel processo di conversione a Cristo, “si danno gradi diversi. Si tratta infatti di un processo dinamico […] che procede a poco a poco verso l’integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore assoluto e definitivo in tutta la vita personale e sociale degli uomini. È necessaria pertanto una guida pastorale e pedagogica”. 26 La legge della gradualità – ad esempio – non doveva essere confusa con una qualche forma di gradualità della legge (cfr: FC 34) LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 187 In questo documento, Giovanni Paolo II diede del principio di gradualità una insuperabile formulazione di carattere generale: “L’uomo, chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene secondo tappe di crescita” (FC. 34). L’ampiezza del riferimento non permette di escludere da esso nessun campo del vissuto morale. Accolto in teologia morale come principio generale, esso ha dato luogo a settori almeno in parte nuovi di ricerca, aventi come oggetto la realtà dello sviluppo morale, affrontata con gli strumenti della fenomenologia o della psicologia e ispirati a preoccupazioni pedagogiche27. 2. 5. Una prospettiva più vasta: la psicologia dello sviluppo morale e la sua rilevanza teologica Va detto a questo punto che l’accettazione diffusa da parte dei teologi moralisti del c. d. “principio di gradualità”, anche senza esserne stata l’unica causa, potrebbe avere un certo influsso, o almeno una certa consonanza nei confronti di due orientamenti tipici della ricerca teologico-morale degli ultimi anni: quello della nuova, diffusa e certamente seria riscoperta della morale aretalogica nella sua versione rigorosamente tomasiana28, e quello del nuovo interesse suscitato dalle ricerche sulla psicologia, e sulla pedagogia dello sviluppo morale. Mi sembra troppo noto il primo indirizzo perché occorra parlarne, anche perché l’accettazione coerente di questo indirizzo comporta un ripensamento radicale della morale fondamen- 27 Cfr ad es.: Ch BRUSSELMANS (et al.) Toward Moral and Religious Maturity, Morristown (N. J.), Burdett 1980; A. ARTO, Crescita e maturazione morale, Roma, LAS 1984; A. GUINDON, Le Développement moral, ParisOttawa, Desclée-Novalis 1989. B. M. KIELY, Psicologia e teologia morale. Linee di convergenza, Torino, Marietti 1982. A una metodologia largamente antropologica ci pare ispirato il testo di morale fondamentale di G. Angelini (G. ANGELINI, Teologia morale fondamentale, Milano, Glossa 1999. 28 Ci limitiamo a ricordare qui alcuni nomi notissimi di studiosi che hanno abbracciato questa strada, come quelli di S. Pinkaers, M. Rohnheimer, A. Rodrigues Luno, G. Abbà. 188 GUIDO GATTI tale, che non tutti, pur condividendo certe sue istanze, sono disposti ad accettare fino in fondo. Quanto al secondo indirizzo, esso comporta più che un ripensamento radicale del discorso morale una particolare attenzione alla dimensione evolutiva ed educativa del vissuto morale. Di fatto, anche se l’esperienza morale occupa nella vita uno spazio più ampio di quello dell’educazione, anche se viene vissuta normalmente al di fuori del rapporto disimmetrico tra educatore ed educando, essa ha sempre l’aspetto di un processo di plasmazione della personalità, è sempre una forma di educazione, un “e-ducere”, cioè far emergere, dall’uomo tutte le possibilità di umanità che in esso sono potenzialmente racchiuse: Facendo il bene morale, l’uomo fa se stesso in quanto persona; modifica l’orientamento di fondo e perfino le strutture della sua personalità. L’esperienza morale ha quindi sempre una dimensione educativa, almeno nel senso di autoeducazione, di plasmazione della propria personalità etica, una educazione in cui il soggetto è insieme educatore ed educando. La pedagogia che sostiene e stimola questa crescita dell’amore non può essere che una pedagogia di gradualità, che si faccia mediazione dell’appello morale dei valori, adeguandolo al livello di maturità raggiunto da soggetto e al ritmo di crescita che gli è concretamente possibile. Essa raggiunge la libertà del soggetto, là dove essa si trova, la interpella per come essa è in concreto, segnata sempre da condizionamenti, solo parzialmente e gradualmente superabili. Essa realizza le possibilità di bene del soggetto, solo proponendogli obiettivi concretamente possibili. Le norme che rispecchiano l’ordine morale oggettivo, al di là della formulazione necessariamente assoluta, nella misura in cui sono rivolte a una persona concreta in una situazione concreta, senza perdere la loro oggettività, divengono appello ad un cammino che non potrà essere che graduale: esse non sono dirette a proteggere valori impersonali, ma a far crescere la persona: l’insegnamento morale della chiesa non è al servizio che di questa crescita. La stessa proclamazione della verità oggettiva non è primariamente servizio ad una verità astratta, ma alla concreta verità dell’uomo in divenire. LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 189 2. 6. L’indissolubilità del matrimonio nel nuovo contesto socio-culturale In un passato non molto lontano, le trattazioni teologicomorali dedicate al tema della famiglia e del matrimonio costituivano un capitolo settoriale della teologia morale, concentrato su una problematica morale ben delimitata, con richiami abbastanza generici alla dottrina dei sacramenti in genere e all’etica dei rapporti interpersonali. Ma da qualche tempo a questa parte la teologia morale si viene facendo sempre più consapevole del fatto che i problemi dell’etica coniugale e familiare si danno di fatto solo nel contesto delle trasformazioni culturali, sociali ed economiche del nostro tempo e possono essere affrontati, compresi e risolti solo all’interno di questo contesto. Ci sono in particolare alcuni grandi vettori della vita e del pensiero del nostro tempo che influenzano in maniera così profonda le problematiche attuali dell’etica familiare da non poter essere, lasciate solo sullo sfondo del discorso specificamente morale, pena la sua irrilevanza. Alcuni di questi vettori riguardano ancora più direttamente il modo di pensare e di concepire il senso della vita e quindi le coordinate del vissuto morale: pensiamo alla secolarizzazione e all’innegabile declino del peso sociale e culturale della religione nel nostro mondo Altri, come lo sviluppo della scienza e della tecnica, la globalizzazione dell’economia e della comunicazione, con le trasformazioni materiali, sociali e culturali che esse comportano, influenzano più o meno pesantemente quei cambiamenti nel modo di vivere e di essere della famiglia di cui si è detto all’inizio. È in questo contesto che la teologia morale deve affrontare oggi quel pesantissimo problema morale, o almeno anche morale oltre che pastorale, che è quello del divorzio e quindi dell’allargarsi impressionante del numero delle convivenze irregolari tra gli stessi credenti. Alla chiusura del Concilio, alcuni paesi tradizionalmente cattolici, come l’Italia, la Spagna, il Portogallo conservavano il riconoscimento civile della indissolubilità del vincolo coniugale, così come difesa dall’ordinamento canonico e confermata a 190 GUIDO GATTI livello dottrinale, ancora dallo stesso Concilio29. Nei primi anni del dopoconcilio, la profonda rivoluzione culturale che era in atto già da anni, per non dire da decenni o da secoli, in cui, in fondo, il Concilio stesso si era in qualche modo inserito, recependone alcune istanze e respirandone l’atmosfera, esplose con inaspettata violenza. Il ’68 ne fu un po’ il simbolo. L’Europa portò a compimento, a tappe forzate quella secolarizzazione della cultura e della vita che aveva preso le mosse dall’illuminismo. Uno degli aspetti più significativi e carichi di conseguenze etiche di questo rush finale del processo storico di secolarizzazione fu la legittimazione civile del divorzio, nei paesi tradizionalmente cattolici come l’Italia (1970) il Portogallo (1977) e la Spagna (1981) e comunque l’allargarsi imponente del fenomeno anche nei paesi in cui già da tempo esso era legittimato. Tutto questo non poteva non avere profonde conseguenze sul costume e sul vissuto concreto delle famiglie: già la sola possibilità della rottura legale del vincolo e della possibilità di un nuovo matrimonio, civilmente riconosciuto contribuiva ad ampliare le difficoltà emergenti nella vita coniugale e a renderle rapidamente ingestibili. Per la teologia morale si pone oggi, in termini sempre più drammatici, quello che fino ad allora era stato un problema relativamente ristretto e quasi solo teorico. La gravità del problema emerge soprattutto nel sacramento della confessione: molti membri di queste nuove coppie, naturalmente irregolari per la chiesa, chiedono l’assoluzione sacramentale e, con essa, la possibilità di ricevere l’eucaristia, che la chiesa, continua a ritenere di non poter concedere. La teologia morale ha affrontato questo problema, aprendo due nuovi fronti di ricerca. Il primo è costituito da un ripensamento di quella prassi benevola delle chiese orientali, mai recepite, ma neppure mai, espressamente condannate dalla chiesa cattolica, che prende il nome, di “oikonomia”. 29 “È Dio stesso l’autore del matrimonio: …Questo vincolo sacro non dipende dall’arbitrio dell’uomo. L’istituto del matrimonio ha stabilità per ordinamento divino”(GS 48) LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 191 Il secondo propone una nuova visione della prassi penitenziale antica, anche occidentale, in proposito: secondo qualche studioso30, la Chiesa dei primi secoli avrebbe considerato la rottura del vincolo alla stregua di un atto di peccato uguale a ogni altro, perciò singolare e perdonabile, nonostante la definitività delle sue conseguenze giuridiche e sociali, tra cui la fine di un rapporto coniugale legittimo e l’inizio di un altro. Mi pare che nessuna di queste due proposte ottenga a tutt’oggi un consenso capace di giustificarne l’adozione sul piano pratico. Su questo piano continuarono a valere o l’osservanza, spesso dolorosa e lacerante delle tradizionali indicazioni ecclesiastiche o la pura e semplice disobbedienza, motivata spesso, più da considerazioni emotive che da giustificazioni teoretiche. 2. 7. Etica del matrimonio e inculturazione Vorrei infine accennare qui ad un problema radicalmente diverso e, per tanti aspetti, di assai più difficile soluzione di quelli visti finora. Esso coinvolge le nuove cristianità sorte in contesti culturali molto diversi da quelli tradizionalmente cristiani; tale diversità coinvolge profondamente anche il matrimonio e la famiglia. Si tratta di popolazioni che custodiscono da secoli o da millenni strutture familiari (come certe forme di poligamia, o il c. d. “matrimonio per gradi”, o una rigida subordinazione della donna, o, al contrario, forme di matrimonio c. d. clanico, di matriarcato e di parentela matrilineare) che sembrano difficilmente conciliabili con quella che, da sempre, riteniamo la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia. Anche in questo caso il problema presenta due facce complementari. Il primo di natura eminentemente pratica, riguarda anzitutto il che cosa fare a livello canonico e pastorale, in quelle situazioni in cui il divario tra l’eredità culturale di queste popoli e la 30 G. CERETI, Matrimonio e indissolubilità. Nuove prospettive, Roma, Bologna EDB 1971. 192 GUIDO GATTI concezione cristiana del matrimonio sia troppo evidentemente incolmabile, almeno nell’immediato. Il ricorso al principio di gradualità e quindi il privilegiamento di una pastorale della tolleranza, naturalmente accompagnata da un serio impegno educativo, volto a superare magari in tempi lunghi una situazione troppo profondamente radicata per poter essere risolta da un giorno all’altro, sembrerebbe la via più ragionevole, anche se non sempre facile da praticare31. Ma dietro il problema pastorale se ne nasconde uno più preoccupante di natura teoretica. Viene cioè spontaneo chiedersi se l’occidente cristiano, nel suo sforzo, sia pure ispirato alla più magnanima gradualità, di iniziare le popolazioni neoconvertite, a quell’unica forma di matrimonio e di famiglia che esso ritiene corrispondente al disegno di Dio, non stia operando, ancora una volta, una forma di violenza e di genocidio culturale. Non si rischia di confondere un determinato modello culturale di famiglia, per di più considerato nella sua forma ideale, non sempre interamente raggiunto nella realtà, come quello che corrisponde in assoluto al progetto di Dio? Il problema, trattato spesso negli studi di missiologia e antropologia culturale32, tocca, come si vede, anche la teologia 31 “Stabilire correttamente i limiti della morale cattolica, anche quando operano dolorose incisioni e impongono radicali rinunce è certo un obbligo dei pastori; ma è pure loro obbligo agevolare il passaggio degli uomini alla salvezza senza esigere drastiche e non necessarie separazioni dal loro contesto sociale” (P. V. VANZIN, Missione e missiologia, in CONGRESSO INTERNAZ. DI MISSIOLOGIA, Evangelizzazione e culture, Roma, Ed. Urban. 1975, 5. 32 Cfr. ad es.: M.K. MAYERS, Christianity confronts Cultur, Grad Rapids, Mich., Zondervan 1987: CONGRESSO INTERNAZ. DI MISSIOLOGIA, Evangelizzazione e culture, Roma, Ed. Urban. 1975. PONT. UNIVERS. URBANIANA, Dizionario di missiologia, Bologna, Dehoniane 1993. U. CASALEGNO (a cura), Antropologi e missionari a confronto, Roma, LAS 1988. La Chiesa e le trasformazioni sociali dell’Africa nera, Milano, Vita e Pensiero 1961. SETTIMANA DI MISSIOLGIA DI LOVANIO 1960, Familles anciens, familles nuovelles, Bruxelles, Desclée de Brouwer 1961. L’argomento è presente anche in un delizioso libretto di B. Haering: (La mia Chiesa d’Africa, Casale Monferrato, PIEMME 1994); che mette in rilievo, tra l’altro, i “perché” e magari gli aspetti positivi del matrimonio a tappe (pg. 29), della poligamia (pg. 32), e del ruolo della donna (pg. 33). LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 193 morale elaborata nei paesi di tradizione cristiana, la quale deve comunque, a sua volta affrontare il problema, dei nuovi modelli culturali del matrimonio e della famiglia vissuti, ma anche teorizzati, all’interno di una società ampiamente secolarizzata, quale è quella in cui viviamo. Non si tratta naturalmente di mettere in questioni conquiste di consapevolezza etica che hanno le loro chiare radici nella stessa parola di Dio, ma di saper distinguere ciò che nella tradizionale concezione cristiana del matrimonio e della famiglia appartiene veramente al progetto di Dio, da quelle che ne sono le forme culturalmente condizionate, tenendo conto che ogni cultura sta sempre davanti alla parola di Dio come segnata da una storia di peccato e sempre bisognosa di una ulteriore conversione. 3. Problemi aperti 3.1. L’influsso della globalizzazione economica sulla famiglia Dal concilio ci separano ormai decenni carichi, di eventi di portata mondiale, che hanno inciso profondamente sul vissuto della famiglia, creando nuove possibilità e alimentando nuove speranze, ma anche creando nuovi problemi. Senza ignorare le prime, per poterne attuare le promesse, la teologia della famiglia deve guardare con vigile attenzione alle seconde, per poter offrire alle famiglie cristiane orientamenti lungimiranti. Tra le realtà solo recentemente emerse a livello di consapevolezza ecclesiale, come portatrici di problemi etici molto seri va incluso quel dinamismo di dimensioni planetarie, che viene abitualmente indicato con il termine secolarizzazione. Esso presenta anche alla ricerca teologico-morale e alla pastorale della famiglia problemi non indifferenti. La secolarizzazione infatti influisce fortemente sulla vita quotidiana della famiglia, sul ruolo dei suoi membri, sulla qualità dei rapporti affettivi al suo interno e sui suoi assetti giuridici e sociali, sul suo influsso educativo e socializzante nei confronti delle nuove generazioni. La globalizzazione è anzitutto una realtà economica: in 194 GUIDO GATTI quanto tale, essa tende a produrre una specifica forma di insicurezza economica, che ne rappresenta l’aspetto più chiaramente visibile e temuto. Essa dà origine infatti a una specie di “lotta di classe” mondiale tra tutte le nazioni; in questa lotta non ci sono più posti al sicuro per i primi arrivati, quali che siano i loro meriti storici e le posizioni già conquistate. La risposta ai nuovi spietati concorrenti può consistere soltanto in un aumento di efficienza produttiva e quindi di flessibilità. La globalizzazione addensa quindi oscure minacce di drastico ridimensionamento sulle sudate e legittime conquiste di sicurezza sociale godute finora da questi paesi e costringe a scoprire che in un mondo, abitato da miliardi di non-garantiti, nessuno, per quanto privilegiato, può evitare di dover scendere in campo a difendere e riconquistare ogni giorno il fragile benessere, cui le rispettive popolazioni si sono tanto rapidamente abituate. L’esigenza di essere competitivi sui mercati mondiali porta all’abbattimento dei salari, diminuisce l’occupazione, produce nuove stridenti disuguaglianze di reddito, di opportunità economiche e di tenore di vita. Di tutte le istituzioni umane, la famiglia sembra essere la più fragile e la più esposta a questo inasprimento del carattere competitivo della realtà economica. L’insicurezza del posto di lavoro spinge la famiglia a cercare una garanzia contro lo spettro della disoccupazione del capofamiglia, e in ogni caso un sostanzioso complemento al reddito familiare, nella ulteriore diffusione del lavoro fuori casa della donna. Diminuiscono così i momenti di convivenza, ma anche le possibilità di gestione comunitaria del menage familiare. La scarsa presenza dei genitori con i figli è spesso negativamente segnata dalla fretta, dalla persistenza delle preoccupazioni professionali e di carriera all’interno degli stessi momenti di vita familiare, dall’oscura consapevolezza della precarietà di tutto il vissuto familiare. Uno dei risultati di questa precarietà, che da economica tende a diventare esistenziale, è indubbiamente l’ulteriore diminuzione del tasso di natalità, nei paesi di più antica industrializzazione e quindi una perdita della funzione di rafforzamento della coesione familiare che la presenza dei figli garantiva in LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 195 passato. Il figlio è visto spesso, in un simile contesto economico e culturale, come un impedimento alla libera espansione del proprio tenore di vita. La madre, per poter dare al bambino l’amore accogliente e incondizionato che genera quella fiducia di base che fa da sostegno a tutta la sua successiva crescita umana avrebbe bisogno del sostegno di una cultura che apprezzi incondizionatamente la trasmissione della vita; la cultura del mondo industriale avanzato non alimenta un simile apprezzamento. Lo stesso desiderio del figlio, che spinge non poche coppie alla ricerca di un figlio ad ogni costo, sembra spesso ispirata, più che a un autentico servizio nei confronti della vita, a una qualche forma di pretesa consumistica, che vuole il figlio come un oggetto di appagamento per i genitori, piuttosto che come un valore in se stesso. D’altra parte, la precarietà del lavoro provoca facilmente sul capofamiglia ripercussioni negative di carattere psicologico ed educativo. Egli soffre della sua condizione di insignificanza e di impotenza, in un mondo in cui il valore delle persone è abitualmente misurato dal loro reddito e dal loro potere economico. In questa situazione egli rischia di essere deprivato della sua autorevolezza educativa nei confronti dei figli e vede frustrata la capacità di guida nei loro confronti. 3.2. Comunicazione massmediale e famiglia Ma la globalizzazione non è soltanto un fatto economico: essa ha una sua dimensione culturale costituita dall’allargarsi e dall’infittirsi della rete mondiale di comunicazione. È in riferimento a questa nuova realtà che si parla oggi del nostro mondo come di un “villaggio globale”. Purtroppo la comunicazione massmediale non si svolge nello spazio asettico di una società innocente. Anch’essa si trova sottoposta alla competizione globale, costretta a perseguire obiettivi di audience, che possono essere raggiunti soltanto lasciandosi condizionare da una domanda che, in una specie di circolo vizioso, sembra imporre una corsa al “sempre più trasgressivo”. Un po’ tutti i membri della famiglia, ma soprattutto i figli evidentemente meno difesi, sono facilmente vittime dell’influsso diseducativo di queste forme di comunicazione. 196 GUIDO GATTI La presenza ingombrante della televisione e della “rete” altera già di per sé il ritmo tradizionale della convivenza familiare, spegnendo in radice i necessari momenti di confronto e ottundendo in questo modo l’influsso educativo dei genitori nei confronti dei figli. Essa finisce per mettere in questione la stessa convivenza familiare, per farne emergere i disagi, le tensioni e le inefficienze latenti. Così la comunicazione globale sembra essere corresponsabile, in misura non irrilevante, di quella specie di “cortina di ferro” che passa all’interno di moltissime famiglie e che sembra separare, in modo sempre meno valicabile, i genitori dai figli. Viene meno così ogni forma di positiva identificazione dei figli con i genitori, screditati dal confronto con la suggestione dei media. I ragazzi e i giovani (che passano normalmente diverse ore al giorno di fronte alla TV o al computer) appartengono a un mondo culturale altro da quello dei genitori. 3.3. La degradazione della convivenza sociale La fine del tradizionale localismo spontaneo produce il venir meno di quell’apprendistato della vita sociale che era offerto in passato dalle convivenze di breve raggio, di loro natura più responsabilizzanti. I giovani sono portati a cercare nuove forme di aggregazione, come il “branco” o il “muretto”, legate ai canoni della cultura giovanile, forgiata dai “media”. L’anonimato sostituisce la forza coesiva del vicinato: l’individuo appartiene al mondo, ma in una maniera così diluita e impersonale che non mette minimamente in questione il fondamentale individualismo che impregna la cultura del mondo in cui vive. La famiglia si trova quindi ancora più sola di fronte ai problemi educativi, tagliata fuori dalla cultura giovanile, estranea al suo gergo e ai suoi idoli. Qualcosa di simile coinvolge anche l’educazione religiosa, soprattutto in campo cristiano, dove la trasmissione religiosa ha bisogno di convinzioni profonde e di esempi convincenti. Di qui l’abbandono della fede e della pratica religiosa, sempre più diffusi tra i giovani. Questo abbandono può avere ripercussioni drammatiche in LO SVILUPPO POSTCONCILIARE DELLA MORALE DELLA FAMIGLIA 197 quelle famiglie in cui i genitori hanno investito nell’educazione religiosa dei figli una parte importante delle loro speranze: essi vedono nella loro incapacità di trasmettere quella fede di cui vivono ai loro figli una specie di fallimento del loro matrimonio. E tutto questo può contribuire a mettere in crisi la loro armonia coniugale. Ci si può chiedere a questo punto se la famiglia esistita in un passato non poi molto remoto sia qualcosa di definitivamente scomparso, sostituito ormai ma da un modello completamente diverso, con cui ci si debba comunque rassegnarsi a fare i conti. Non è dato ancora sapere verso quale futuro stia muovendosi la famiglia e con la famiglia il complesso mondo dell’uomo. GUIDO GATTI Bibliografia A. AUTIERO, Amore e coniugalità, Torino, Marietti 1980 Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001. G. CAMPANINI, L’amore coniugale, Roma, Sales 1967 IDEM, Comunità familiare e società civile, Brescia, La Scuola 1970. IDEM, Matrimonio e famiglia nella riflessione contemporanea, Roma, Città Nuova 1977. IDEM, La coppia e l’amore, Milano, Libreria della famiglia 1978. IDEM, Famiglie piccole e fragili, Vicenza, Rezzara 1998 CENTRO DE ESTUDIO Y PLANIFICACION MISIONERA, Familia nueva, Madrid, El perpetuo socorro 1983. G. CERETI, Matrimonio e indissolubilità. Nuove prospettive, Roma, Bologna EDB 1971 E. CHRISTEN, Ehe als Sacrament, Zürich, Benzinger 1973. G. CONCETTI, Sessualità, amore e procreazione, Milano, Ares 1990 IDEM (a cura), Matrimonio, famiglia e divorzio, Napoli, Ed. Dehoniane 1971 G. 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Il metodo perciò sarà prevalentemente dialettico ed ermeneutico, riaprendo il dibattito in corso da tempo su questo tema ed offrendo un’interpretazione dei testi dell’Insegnamento sociale come un contributo a questo dibattito. Vorrei cominciare con una variante di un racconto tratto dal famoso ciclo medievale dal titolo “Ricerca del santo gra’al”. Questo racconto ci fa riflettere sulla stessa idea di una questione e così serve come punto di partenza della nostra indagine sulla questione sociale. C’era una volta un re che aveva la fama d’essere un uomo saggio, tanto che la gente veniva da tutte le parti per porgli domande e chiedergli consigli. Sennonché, un giorno il re dichiarò solennemente: “Da anni, sto rispondendo alle domande ed alle questioni più varie, ma in tutti questi anni nessuno mi ha mai posto la domanda più importante del mondo.” Poi, alzando un sacco pieno di monete d’oro disse “ Dichiaro, dunque, che darò tutte queste monete a chi riesce a farmi la domanda più importante del mondo”. Subito arrivarono studiosi, professori, filosofi e posero domande come: “Come si può sapere che si è raggiunta la verità?” “Perché l’uomo deve soffrire e morire?”, “Cosa bisogna fare per migliorare il mondo?” e così via. A ciascuna domanda rispose il re: “la Sua è una domanda importantissima, ma non è la domanda più importante del mondo.” Alla fine, venne un frate itinerante, vide il re, gli pose una domanda e subito il re s’alzò e diede il sacco di monete al frate, dichiarando: “Finalmente, qualcuno che mi ha saputo porre la doman- 202 MARTIN MCKEEVER da più importante del mondo: solo questo povero frate ha saputo chiedermi: Tu, che cosa stai vivendo? (What are you going through?). “Interrogando” la questione sociale Questo racconto ci ricorda che ci sono vari tipi di questioni. C’è, per esempio, la domanda speculativa che mira a capire meglio qualcosa. C’è la domanda pratica che mira a fare qualcosa. E c’è la domanda come atto d’immedesimazione, d’empatia, vale a dire la domanda tramite la quale l’essere umano è capace di trascendere se stesso e vedere il volto sofferente dell’altro. Prima di pensare ad eventuali risposte alla questione sociale, possiamo brevemente interrogare la questione stessa. Storicamente parlando, il termine “questione sociale” emerge nel contesto della rivoluzione industriale di fronte alle sofferenze dei poveri, nei nascenti centri urbani. È importante notare, però, che questa situazione ha provocato domande e risposte ben diverse. C’è chi si chiede “Ma quale questione sociale? Le cose sono così e basta!” C’è chi, addirittura, scrive dotti saggi spiegando perché la povertà sia una necessità della natura1. C’è invece, chi si chiede: “cosa possiamo fare per questa gente, distribuire cibo, vestiti, medicinali?” Altri ancora si chiedono “Cosa si può fare per cambiare questa situazione in modo permanente? Quali leggi servirebbero per proteggere i poveri dallo sfruttamento?” Ancora più radicali sono quelli che si chiedono “come organizzare gli operai come forza di rivoluzione sociale?” Naturalmente c’è anche chi si chiede “ma io, in quanto cristiano o cristiana, cosa devo fare di fronte a queste sofferenze?” Tra gli stessi cristiani le risposte sono varie: c’è chi crede che la fede imponga un impegno sociale e chi crede che la fede si limiti alle cose spirituali e quindi non riguardi la questione sociale. Cosa possiamo concludere da queste domande introduttive? Principalmente tre cose: i. la questione sociale non è una sola, bisogna sempre chiarire di quale questione sociale stiamo par- 1 Per qualche esempio veda J. MILBANK, Theology and Social Theory. Beyond Secular Reason. (Oxford, Blackwell, 1990) 42-45. QUALE QUESTIONE SOCIALE? 203 lando, ii. la questione sociale non è patrimonio esclusivo dei cristiani e iii. mentre nasce, se nasce, da un atto di immedesimazione, essa comporta necessariamente aspetti pratici e teorici. Considerazioni ermeneutiche Il nostro compito, però, come indicato nel titolo di questa conferenza, non è di riflettere in generale sulla questione sociale ma di studiarne la trattazione nell’Insegnamento sociale postconciliare. Questo progetto pone volutamente stretti parametri ad una ricerca che altrimenti sarebbe sconfinata. In modo particolare due temi importantissimi cadono fuori da questi parametri: l’humus popolare nel quale nasce la prima risposta ufficiale della Chiesa2 alla questione degli operai, e l’Insegnamento sociale non ufficiale che continua ad emergere anche nel periodo postconciliare. Muovendoci all’interno di questi parametri sarà opportuno fare qualche considerazione ermeneutica sulla lettura dell’Insegnamento sociale postconciliare. Non vorrei ripetere qui la storia della nascita e l’evoluzione della cosiddetta Dottrina Sociale della Chiesa o, meno formalmente, ma forse più precisamente, l’Insegnamento sociale ufficiale. Il nostro studio focalizza il periodo postconciliare e quindi si basa su documenti come: Populorum progressio, 1967, Paulo VI; l’Octogesima adveniens, 1971, Paulo VI; Justitia in mundo, 1971, Sinodo dei vescovi; Evangelii nuntiandi, 1975, Paulo VI; e le tre grandi encicliche sociali di Giovanni Paulo II: Laborem exercens, 1981, Sollicitudo rei socialis, 1987, e Centesimus annus, 1991; (è chiaro che ci sono molti altri documenti, sia del magistero romano sia dei vescovi locali che potrebbero essere considerati parte del corpus ma che per moti- 2 Cf. J.A. COLEMAN, “Retrieving or Re-inventing Social Catholicism” in Catholic Social Thought, Twilight or Renaissance, J.S. BOSWELL, F.P. MCHUGH, J. VERSTRAETEN (eds.), (Leuven: Leuven University Press, 2000) 265-270; per uno studio approfondito sul caso specifico della Germania veda A. LIENKAMP, Theodor Steinbüchels Sozialismusrezeption. Eine christlich-sozialethische Relecture (Paderborn\München\Wien\Zürich: Ferdinand Schöningh, 2000) 107-392. 204 MARTIN MCKEEVER vi di tempo non sarà possibile trattare qui). Sarebbe profondamente errato, a mio avviso, tentare un’interpretazione di questa parte del corpus dell’Insegnamento sociale, senza almeno fare riferimento al rapporto strettissimo tra questi documenti e quelli precedenti. In primo luogo bisogna prendere in considerazione la stessa Gaudium et spes, la quale, in quanto Costituzione Conciliare, serve come punto di riferimento insuperato per la tormentata questione del rapporto chiesa-mondo. Per quanto riguarda i documenti pre-conciliari, è difficile sopravalutare la loro importanza per una corretta interpretazione dei documenti successivi. Molti di questi documenti, infatti, si capiscono come una continuazione dell’Insegnamento sociale che risale almeno alla Rerum Novarum di Leone XIII del 1891. Questo legame si esprime sia nelle ricorrenze cronologiche (1891, 1931, 1971, 1991) sia in quelle tematiche (la povertà, il lavoro, l’equo salario, i sindacati ecc.). Un principio ermeneutico fondamentale, dunque, sarà quello di interpretare questi testi postconciliari alla luce dell’Insegnamento precedente. Lascio aperta l’interessante possibilità di un’evoluzione nella dottrina sociale. Una seconda considerazione ermeneutica concerne la forma letteraria dei testi. Non si tratta qui della semplice, ma importante, distinzione tra generi diversi come la costituzione conciliare, l’enciclica, o l’esortazione apostolica. La forma letteraria nel senso più largo del termine racchiude aspetti come lo stile, il vocabolario, la struttura, direi quasi “l’idioma” di questi testi. Studiando questo corpus si può facilmente anche parlare di fattori come l’autocomprensione degli autori, di processi redazionali, di codici interpretativi ecc., insomma di tutta la teoria ermeneutica che riconosciamo così necessaria per l’interpretazione della Santa Scrittura. Solo alla luce di considerazioni di questo tipo, infatti, si può spiegare la forma definitiva, a volte logora e prolissa, che assumono questi testi. Una terza considerazione ermeneutica sarebbe la valutazione del contesto storico-culturale del periodo 1964-2004. Quali sono stati gli avvenimenti e le tendenze culturali salienti di questo periodo, dal punto di vista dell’Insegnamento sociale? Ritengo che sia necessario considerare almeno i seguenti fattori storici e culturali: la guerra fredda e la “corsa agli armamenti”, i QUALE QUESTIONE SOCIALE? 205 movimenti studenteschi del 1968, le rivoluzioni in vari paesi dell’America Latina e la politica della cosiddetta “sicurezza nazionale”, il crollo del sistema sovietico, la postmodernità e, “last but not least”, l’immancabile fenomeno della globalizzazione. Ciascuno di questi temi meriterebbe una conferenza a sé, per il momento dobbiamo accontentarci di notare quanto essi siano controversi e quanto siano diversi tra loro. Se la dottrina sociale nacque come una risposta alla questione degli operai in Europa alla fine del 800, l’Insegnamento postconciliare deve considerare una gamma enorme di questioni in un contesto culturale sempre più complesso. Si pone di nuovo il problema: quale questione sociale? Come se non bastasse, bisogna aggiungere fattori ecclesiali assai controversi, come la ricezione del Concilio, il rinnovamento della teologia, il dibattito sulla teologia della liberazione3. Un’ultima considerazione ermeneutica…quale potrebbe essere una chiave di lettura interpretativa di questi documenti nel contesto del nostro convegno? Vorrei proporre un modo di capire la questione sociale in tale chiave. Devo riconoscere in partenza che il termine “la questione sociale” è audace e merita qualche parola di giustificazione. Se prendiamo la locuzione “questione sociale” letteralmente, colpisce che ci sia ben poco nel mondo umano che cada al di fuori di questa categoria. La condizione degli operai, la povertà, l’assicurazione sanitaria, il diritto di formare associazioni sono manifestamente delle questioni sociali. Ma non lo sono forse la fame nel mondo, i problemi della famiglia, le tematiche della bioetica, la guerra, l’ecologia? Esse rappresentano altrettante questioni sociali. A rigor di termini, in quanto l’essere umano è intrinsecamente un essere sociale, non c’è questione umana che non sia anche una questione sociale. È importante, allora, notare che l’uso della parola “sociale” per far riferimento ad uno solo dei tanti temi sociali, è assai arbitrario e rischia d’essere riduttivo. Detto questo, che senso ha usare il termine “questione sociale”? Ritengo che ci sia un modo di capire “la questione sociale” che abbracci questi moltissimi temi specifici e che possa servire 3 Cf. M. McKEEVER “Frühling in Medellín? Dreißig Befreiungstheologie” Theologie der Gegenwart 46 (2003) 162-169. Jahre 206 MARTIN MCKEEVER come chiave di lettura del corpus postconciliare. Mi servo qui della formulazione felice di un autore americano, teologo ed economista, B.W. Dempsey. Già negli anni sessanta egli scrisse: «Nella nostra generazione la rivoluzione e l’insoddisfatta opinione che rende possibile l’espansione delle idee rivoluzionarie, non sono limitate alle forme dell’organizzazione politica. Ogni istituzione sociale è in discussione e l’interna questione della natura dell’uomo, il numero, qualità e l’origine dei suoi diritti, se ne esista qualcuno, e l’istituzione sociale che si adatti maggiormente a quest’uomo, famiglia, comunità civili, organizzazioni industriali, sono tutte messe in questione allo stesso tempo. Potremmo dire che se le precedenti generazioni avevano a che fare con le questioni sociali, la nostra è chiamata a confrontarsi con la questione sociale»4. Seguendo questa logica, possiamo dire che la questione sociale si riferisca non alle tante questioni della società umana ma alla questione sulla società umana. In altre parole la questione sociale si riferisce al perché ed al come della stessa società, che include la questione su quale sia la giusta forma di società per gli esseri umani. Si capisce che questo modo di interpretare la questione sociale riprenda la domanda teorica sulla società che risale all’antichità e che si presenta in primo luogo come un problema di teoria e pratica politica. La differenza, come ci fa notare Dempsey, è che nel nostro tempo questa questione si pone in un contesto nel quale, per i motivi storici e culturali ai quali abbiamo già accennato, tutto è messo in discussione. Servendoci di questo modo di interpretare la questione sociale come chiave di lettura, possiamo ora affrontare i documenti chiedendoci: come viene formulata questa questione sociale nei documenti? quali risposte vengono date a questa questione? quali sfide ne derivano? 4 Citato in L. SALUTATI, Finanza e debito dei paesi poveri, una economia istituzionalmente usuraria (Bologna: Edizioni Dehoniane Bologna, 2003), 168. QUALE QUESTIONE SOCIALE? 207 La questione sociale nell’Insegnamento post-conciliare Dove possiamo trovare un’articolazione della questione sociale, intesa in questo modo, nell’Insegnamento postconciliare? Un esempio ben conosciuto è la formulazione che troviamo nella Centesimus annus 42 dove si legge: «Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai paesi del terzo mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?». Si nota subito che in questo testo affrontiamo “la questione sociale” in quanto si tratta qui non dei tanti problemi della società ma del problema fondamentale sulla giusta forma di società. Segue la famosa risposta dove si legge: «Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libertà creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa, di “economia di mercato” o semplicemente di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta a servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa». Vale la pena di soffermarsi un minuto su questa risposta alla questione sociale. La prima cosa da notare è che una forma di “capitalismo” viene approvata come la forma giusta per la società umana. Perché tra virgolette? Perché il testo stesso preferisce un termine quale “economia di mercato” e perché i fattori menzionati (il ruolo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata, della responsabilità per i mezzi di produzione e la libera creatività) sono solo alcune delle caratteristiche del capitalismo come 208 MARTIN MCKEEVER sistema sociale. Il capitalismo reale, per usare l’espressione di Luigi Lorenzetti, ne ha anche altre meno attraenti (brama di guadagno, consumismo, sfruttamento ecc.) che sono oggetto di fortissima critica nella stessa CA (36). Concludere sulla base di questo paragrafo, che l’Insegnamento sociale abbia approvato il capitalismo tout court come la giusta forma della società mi sembra un’interpretazione riduttiva. Questo si nota già dalla seconda parte del testo citato: si parla di una forma di capitalismo “decisamente” inaccettabile che viene caratterizzato da ciò che manca, vale a dire un assetto giuridico che gestisca la libertà economica verso la realizzazione della libertà integrale della persona umana, per sua natura etica e religiosa. La domanda dalla quale parte il testo, ricordiamocelo, era: “crollato il comunismo, possiamo proporre il capitalismo come modello?” La risposta non manca di ambiguità: sì in quanto manifesta queste caratteristiche economiche, no se manca questo assetto giuridico. Il problema è che nelle società capitaliste attuali si trovano, generalmente, le caratteristiche economiche menzionate, ma non si trova un tale assetto giuridico. Quindi secondo la logica del testo dobbiamo “certamente” accettare un tale sistema per un motivo e “decisamente” rigettarlo per un altro motivo. Ma se fosse possibile trovare un sistema con le caratteristiche economiche che non mancasse di un tale assetto giuridico, sarebbe corretto chiamarlo capitalismo? La visione della giusta forma della società umana che sostiene queste affermazioni è dunque quella di un’economia di mercato che condivida una visione etica e religiosa della libertà umana e che si organizzi istituzionalmente per promuovere e proteggere questa libertà. Questa è la risposta, assai idealistica, dell’Insegnamento alla questione sociale come questione sulla società che troviamo nel paragrafo della CA. Partendo da questo testo illustrativo, possiamo adesso considerare il rapporto tra questa risposta specifica e quella più diffusa nell’Insegnamento postconciliare. Analisi della risposta alla questione sociale Il giudizio ambiguo sulle forme esistenti del capitalismo si basa naturalmente su tutta una serie di riflessioni teologiche, QUALE QUESTIONE SOCIALE? 209 antropologiche, etiche, giuridiche e pragmatiche sparse nei documenti postconciliari. Vorrei proporre un’analisi dei motivi di questa risposta alla questione sociale alla luce dell’Insegnamento nel suo insieme. Partendo da considerazioni storico-pragmatiche, si possono individuare motivi più profondi di tipo teologico-antropoligico ed etico-giuridico. Nei tre tipi di ragionamento, ritengo che sia possibile capire perché la risposta alla questione sociale sia così ambigua. Considerazioni storico-pragmatiche Scrivendo nel periodo immediatamente successivo al crollo del sistema sovietico totalitario, si comprende la convinzione del Papa che il socialismo reale, come risposta alla questione sociale, si sia dimostrato fallace e distruttivo. Non esita, infatti, nella Centesimus annus ad insistere sull’aspetto pragmatico di questo giudizio: un motivo per rigettare il socialismo reale è che non funziona, che è inefficiente (CA, 24). La relativa efficienza del sistema capitalistico sembra dipendere proprio da fattori come l’impresa, il mercato, la proprietà privata ecc. La riluttanza ad approvare il sistema capitalistico sulla base di queste considerazioni pragmatiche dipende, in ultima analisi, da considerazioni teologiche ed etiche che vedremo in seguito. Vale la pena ricordare, però, che esistono anche problemi pragmatici legati al sistema capitalistico. Sin dal Concilio, sia nei paesi del terzo mondo che nei paesi economicamente più sviluppati, si è duramente criticato il funzionamento del sistema capitalistico. Ne sono un esempio, il dibattito sul concetto di sviluppo, lo scandalo del debito estero dei paesi poveri, i gravi problemi ecologici e l’accesa discussione, ancora in corso, sulla globalizzazione5. Su questi temi le opinioni possono essere diverse ma il punto è che l’Insegnamento sociale postconciliare non può ignorare i grandi problemi pragmatici che accompagnano il capitalismo come forma di economia, a livello globale. Sono da tener presenti queste considerazioni per capire la risposta cauta e riser- 5 Cf. il recente numero (42\1) monografico di Studia Moralia (giugno 2004) sul tema della globalizzatione. 210 MARTIN MCKEEVER vata dell’Insegnamento verso il capitalismo come sistema, malgrado il fallimento del socialismo. Considerazioni teologico-antropologiche Una simile tensione si nota anche sotto l’aspetto teologicoantropologico. Giovanni Paolo II vuole rigettare il socialismo reale non solo perché inefficiente ma anche perché fondamentalmente errato a livello antropologico (CA, 13) Questo giudizio antropologico si basa su una visione dell’uomo come creato ad immagine di Dio, quindi dotato di una dignità inalienabile e di diritti fondamentali. Un sistema come il socialismo reale, che neghi questa visione dell’uomo e lo riduca ad un mero fattore economico, deve essere rifiutato dal punto di vista dell’antropologia cristiana. Su questo punto non c’è ambiguità alcuna. L’ambiguità inizia quando si applica la visione teologicaantropologica al sistema del capitalismo reale. Mutatis mutandis si possono usare gli stessi principi teologici ed antropologici per fondare una critica della visione dell’uomo che sottostà al capitalismo reale. Un documento come Sollicitudo rei socialis (13, 14) parla senza mezzi termini di questi aspetti inaccettabili della cultura capitalistica in quanto questa forma di cultura rappresenta una variante di un’ideologia materialista incompatibile con un’antropologia cristiana. Solo una nuova cultura di solidarietà può far fronte ai massicci cambiamenti sociali in corso. Considerazioni etico-giuridiche Strettamente collegata all’impostazione teologico-antropologica dell’Insegnamento postconciliare è una visione etico-giuridica. Dal punto di vista della teologia morale questo è forse l’aspetto più importante e più interessante. Anche qui emergono forti tensioni all’interno della posizione del magistero. Da una parte, vengono riconosciuti ed apprezzati i benefici materiali e culturali che la cultura moderna, liberale, capitalista ha reso possibili (CA, 46). In modo particolare principi politico-giuridici come lo stato di diritto, la democrazia, i diritti civili ed umani sono riconosciuti come un autentico contributo agli Stati individuali ed all’emergente comunità globale. Il fatto che il mondo sia uscito dalla tragedia delle guerre mondiali è da attribuire a QUALE QUESTIONE SOCIALE? 211 questa tradizione politica. D’altra parte, questa tradizione politica si definisce espressamente laica e spesso non condivide la visione etico-giuridica cristiana. La risposta valutativa al sistema liberale, moderno, capitalistico è per questo motivo di nuovo ambiguo. L’Insegnamento condivide e approva certi aspetti del sistema, ma avverte la mancanza di un fondamento alla visione etico-giuridica che vada al di là del consenso sociale e riconosca l’autorità suprema della legge naturale e divina (CA, 21). Unendo queste varie considerazioni pragmatiche, teologiche, antropologiche, giuridiche ed etiche, possiamo capire perché il sistema capitalistico non venga considerato la risposta giusta alla questione sociale, nonostante si sia dimostrato più efficace del sistema rivale. La sfida delle sfide: una rilettura continua ed aperta della Gaudium et spes Essendo essenzialmente di natura pastorale, i documenti dell’Insegnamento postconciliare non sono privi di sfide particolareggiate. Non mi sembra esagerato affermare che in quest’Insegnamento ogni questione sociale specifica costituisca già in se stessa una sfida diversa, sia a livello d’impegno pratico sia a livello d’analisi e di comprensione. Non vorrei soffermarmi qui su sfide concrete riguardanti la povertà, la disoccupazione, il lavoro, il debito internazionale, lo stato sociale, la famiglia ecc. Nell’ottica particolare di questa presentazione ci interessa soprattutto la sfida che deriva dalla questione sociale come questione sulla giusta forma per la società. Vorrei suggerire, in conclusione, che l’articolazione magistrale di questa sfida, dalla quale sorgono tutte le sfide particolari nell’Insegnamento postconciliare, si trova già nel pensiero del Concilio Vaticano II6. Una sfida, ci dice il vocabolario, è una provocazione ad una prova… conosciamo gesti cavallereschi come quello di “gettare il guanto”. L’idea di una sfida implica allora uno sfidante ed uno 6 Per una ricca e estesa trattazione del Concilio Vaticano II vede il numero monographico di Asprenas (50, 2003). 212 MARTIN MCKEEVER sfidato. Spero di non cadere troppo nell’istrionico suggerendo che nella promulgazione della Gaudium et spes la Chiesa, tramite il Concilio, getti il guanto all’umanità intera e, in primo luogo, a se stessa come popolo pellegrino inserito nella storia di quest’umanità. In questo documento lapidare del Concilio, la Chiesa stessa è sfidante e sfidata. La sfida verso se stessa consiste nell’essere fedele alla sua missione evangelizzatrice. Essere Chiesa vuol dire vivere nello Spirito come sacramento di salvezza per il mondo, consapevole che la risposta definitiva alla questione sociale, come ad ogni questione umana, può solo arrivare da Dio. Allo stesso tempo, però, la vocazione missionaria della Chiesa, che è la sua ragione d’essere, non può vivere in isolamento dal mondo che sta cambiando ad un ritmo impressionante. La sfida consiste essenzialmente nell’impegno quotidiano di vivere come comunità credente in un contesto sociale e culturale che spesso non condivide questa fede. Questa sfida diviene particolarmente impegnativa alla luce dei processi di socializzazione tramite i quali il modo di rapportarsi tra le nazioni va trasformandosi. Parte integrante e costitutiva della missione della Chiesa è leggere questi segni dei tempi, tutt’altro che tranquillizzanti, alla luce della rivelazione di Cristo (GS, 4) In modo particolare quando un sistema economico-politico-sociale, come quello dominante, conduce ad una perpetuazione e ad un’esacerbazione dell’ingiustizia nel mondo, compito della Chiesa profetica rimane il confronto e la denuncia. La sfida che la Gaudium et spes offre a tutta l’umanità, cristiani inclusi, deriva dalla tensione tra la questione sociale e le risposte che abbiamo visto a livello teologico, etico, antropologico e giuridico. Per quanto sia ricca e valida la visione teologico-antropologica della Chiesa, essa non costituisce un modello concreto di sistema sociale. La Chiesa riconosce la necessaria mediazione istituzionale di strutture politiche e sociali sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Il lavoro di costruzione e manutenzione di queste strutture spetta a tutti gli uomini insieme e quindi richiede una collaborazione tra credenti e non-credenti (GS, 43, 44). L’Insegnamento sociale può e deve offrire il suo giudizio etico sull’evoluzione dei sistemi sociali concreti, alla luce della propria visione antropologica e teologica, ma non può assumersi la responsabilità che spetta alle strut- QUALE QUESTIONE SOCIALE? 213 ture sociali e politiche. La “sfida delle sfide”, nell’Insegnamento postconciliare, è trovare il modo adatto per contribuire al processo di costruzione sociale, guidati dalla propria visione teologica-antropologica (GS, 33). Tornando, in conclusione, al racconto con il quale abbiamo iniziato quest’indagine possiamo dire che i cristiani, di fronte alle sofferenze dell’umanità devono porsi una domanda simile a quella del frate itinerante e poi collaborare con gli altri nella ricerca di risposte teoriche, pratiche ed empatiche. Solo in questo modo possiamo evitare che le parole eccelse con le quali inizia la Gaudium et spes divengano lettera morta: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». MARTIN MCKEEVER, C.SS.R. 215 TAVOLA ROTONDA QUALE TEOLOGIA MORALE PER IL XXI SECOLO? Basilio Petrà La domanda può evidentemente avere molte risposte secondo i punti di vista che assume chi intende rispondere. Se il “quale” del titolo si riferisce agli ambiti “nuovi” di applicazione della teologia morale allora la risposta può essere facile giacché si tratta di enumerare aree disciplinari nuove o con nuovi sviluppi e in pratica la stessa nomenclatura accademica con la sua evoluzione presente e futura può aiutare a risolvere il problema (si pensi a discipline nuove come la bioetica, la business ethics, l’etica della comunicazione informatica ecc). Nel caso in cui “quale” si riferisse alla forma della teologia morale, ovvero alla sua identità o al suo principio formale, mi pare che dopo il Concilio Vaticano II essa abbia una forma decisamente teologica e cristocentrica. Il suo oggetto proprio non è tanto l’agire umano quanto l’agire del cristiano, ovvero l’esplicitazione dell’essere nuovo del cristiano, in quanto ri-creato in Cristo e ri-costituito nella sua verità. Come la tradizione orientale ha da secoli insegnato l’agire cristiano coincide formalmente con il vivere in Cristo; attraverso questo vivere di filius in Filio l’uomo –immagine di Dio in Cristo- si fa sempre più partecipe della vita trinitaria in Cristo e nella Chiesa per la potenza dello Spirito. Se poi “quale” si riferisce alla mediazione filosofico-antropologica che deve essere adottata o della quale necessiterebbe la teologia morale nel secolo XXI per parlare ai fedeli e agli uomini del secolo, allora si potrebbe rispondere che dopo il Concilio, la linea prevalente – specie nel Magistero – sembra essere quella che vede la convergenza tra personalismo e ontologia derivata in vario modo da Tommaso. Certo non mancano, tra i teologi, tentativi diversi (filosofia trascendentale, fenomenologia, ermeneutica…), non ultimo quello di cercare di fare a meno di un linguaggio filosoficamente connotato per la convinzione che possa bastare a se stesso un linguaggio di tipo biblico, sapienziale o 216 TAVOLA ROTONDA spirituale. Quale di queste linee si svilupperà è difficile a dirsi perché non conosciamo ancora i filosofi del XXI secolo, cioè i pensatori che provocheranno linguisticamente la teologia; si può dire che forse saranno filosofi “planetari” e “globalizzati” ma, come è chiaro, ciò non aggiunge molto alla nostra conoscenza. E potrei continuare articolando ulteriormente il “quale” della teologia morale nel XXI secolo. Tuttavia, se permettete, vorrei modificare un po’ la domanda per poter affontare quella che a parer mio costituisce la vera questione in ambito morale per la Chiesa del XXI secolo. La formulerei così: cosa può fare la teologia morale nel secolo XXI per superare lo iato che il secolo XX ci lascia in eredità tra norme cattoliche di comportamento e ethos dei fedeli, morale cattolica e sensibilità etica dei fedeli? Parlando di ethos mi riferisco qui proprio alla sensibilità etica dei nostri fedeli, indico cioè quel tipo di comportamento che è sentito come moralmente corretto o irreprensibile anche quando non sia osservato. Inoltre, per fedeli intendo coloro che vogliono restare nella chiesa e si considerano credenti. Tale iato è intimamente collegato alla crisi che la morale cattolica ha visto crescere e infine esplodere nel secolo scorso1. Infatti, la morale cattolica è entrata in crisi non tanto a livello formale e di principi generali quanto a livello normativo e non riguardo a tutte le norme ma solo riguardo a quelle che hanno perso forza ed evidenza per la ragione dei fedeli. Sottolineo: solo per certe norme, non per altre. La crisi – tanto per fare un esempio – non si è avuta a livello di etica sociale (una controprova: quanti teologi moralisti dopo il concilio sono stati richiamati per questioni di etica sociale, economica o politica? prescindo qui dal problema del marxismo e della rivoluzione, che ha consistenti e più ampie dimensioni ideologiche) ma a livello di alcune norme concernenti la vita sessuale e familiare, e in parte la vita fisica. Dico in parte 1 La dimostrazione storica di questa affermazione cerco di fornirla nel mio saggio: Teologia morale in G.Canobbio-Piero Coda (edd.), La Teologia del XX secolo. Un bilancio. 3. Prospettive pratiche, Città Nuova, Roma 2003, 97193. TAVOLA ROTONDA 217 giacché tra norme sessuali/familiari e norme protettive della vita vi è questa differenza: i fedeli possono abortire ma non mettono ordinariamente in discussione la giustezza generale della norma al punto che si può dire che vi è su ciò una fondamentale base di evidenza che non può essere annullata facilmente; questi stessi fedeli usano la contraccezione o usano magari i metodi naturali con mentalità contraccettiva e non capiscono perché fanno male, specie se hanno già figli. Molte norme tradizionali sessuali/familiari ormai non sono più chiare né dotate di sufficiente evidenza per i nostri fedeli (aggiungerei per gli stessi preti e per qualche vescovo); quelle sulla vita mantengono maggiore evidenza, offrono perciò maggiore resistenza. Dall’Humanae vitae in poi lo iato è andato crescendo prevalentemente, come si sa, proprio nell’ambito normativo sessuale/familiare. Ci sono comportamenti sessuali e familiari che oggi appaiono non solo possibili ma talvolta addirittura doverosi ai nostri fedeli e che sono direttamente contrari a norme ribadite in modo autorevole dal magistero. La teologia morale nel tentativo di varcare questo iato si è divisa. La divisione si è bene espressa poi intorno alla Veritatis splendor. Da una parte la teologia che mettendo insieme elementi biblico-teo-cristologici, personalistici e di provenienza tomista ha ribadito le norme magisteriali, accusando la coscienza autonoma di aver piegato alla libertà l’ordine morale oggettivo; dall’altra, la teologia che vede la vita morale della persona in termini interpersonali, storico-dinamici e cognitivo-ermeneutici e che ha affrontato le reazioni magisteriali tentando nuove vie. Naturalmente non mancano rappresentanti di vie di mezzo, più o meno felici. L’effetto di questa divisione è interessante. Si è diffusa una sorta di timidezza dinanzi a certe norme e alla loro fondazione. Tanto i teologi dell’una parte quanto quelli dell’altra, e aggiungerei quelli che stanno in mezzo, specie in Italia ma non solo, evitano di coinvolgersi troppo in discorsi normativi controversi. I primi si limitano, quando necessario, a ripetere o ad applicare con maggiore o minore abilità queste norme; gli altri o si pronunciano privatamente/in ambiente sicuro oppure preferiscono non pronunciarsi direttamente sulle norme. La teologia morale così – per alcune ed importanti aree – ha oggi molte difficoltà nell’assolvere alla sua funzione di elabora- 218 TAVOLA ROTONDA re criticamente le norme di comportamento per il cristiano fondandone insieme il carattere umano (razionale) e la coerenza con la rivelazione. Mentre così si indebolisce in alcuni ambiti la concreta capacità normativa, cresce invece la coltivazione degli orizzonti valoriali e virtuosi, fioriscono le sottolineature onto-teo-cristologiche e teologali dell’agire morale, le riflessioni sulle dimensioni spirituali e sacramentali della vita morale. In tal modo si assiste a una strana situazione riguardo alle norme alle quali qui mi riferisco: da una parte, l’ufficialità magisteriale variamente ripetuta e difesa; dall’altra, i magisteri paralleli più o meno clandestini di vari teologi; tra l’una e l’altra una pastorale che si barcamena tra le due sponde facendosi forte – più o meno correttamente – degli spazi offerti dal foro interno. E intanto cresce lo iato tra quello che la gente vive e l’ufficialità della morale cattolica. Come dunque superare questa distanza, come riconciliare l’ethos dei fedeli e il magistero? E più precisamente, può la teologia morale di questo secolo XXI fare qualcosa per sanare questo iato? Per rispondere a questa domanda mi sembra necessario fare un piccolo percorso, chiedendoci prima perché finora la teologia morale non c’è riuscita. La mia risposta può essere semplice e forse troppo diretta, ma lo esige il caratter di questa comunicazione. Ebbene, la teologia morale cattolica non c’è riuscita perché alcune norme non sono difendibili se non andando decisamente contro la sensibilità etica divenuta (culturalmente) ordinaria anche per la nostra gente in cose nelle quali essa ritiene di poter dire la sua opinione. Accusare la cultura dicendola non cristiana, relativistica o dominata dal desiderio e i fedeli dicendoli succubi di una tale cultura è solo apparentemente una risposta. Innanzitutto perché la nostra gente non manca di percezione dell’intrinsecamente illecito; per esempio se dico che la truffa è immorale, tutti sono d’accordo, anche i truffatori. In alcune cose ammette anche che qualcosa sia prima facie intrinsecamente illecito, anche se non sempre vede l’illiceità in singoli casi come ad esempio nella bugia. In altri ambiti invece non vede la radice stessa di un’illiceità: “non vede”, ciò significa che non coglie né l’evidenza né la forza degli argomenti proposti dal TAVOLA ROTONDA 219 magistero e dai teologi che lo difendono. Anzi “vedono” la forza di altri argomenti. L’esempio della contraccezione è solo il primo che potrebbe esser fatto. Inoltre, va detto che, come mostrano le vicende della preparazione dell’HV, alcune norme non appaiono difendibili anche a persone esperte e competenti – perché non corrispondono più alle nuove consapevolezze antropologiche –. Ai membri della Commissione pontificia sulla regolazione della natalità era chiaro che nella storia del magistero certe norme non erano nate per una sorta di partenogenesi dalla verità ma per la mediazione di visioni della sessualità (del rapporto sessuale) fondate su una antropologia pre-scientifica e su un’esegesi inadeguata, e per la mediazione di un’etica pre-personalista e che non potevano essere più sostenute. A partire dall’HV il magistero ha chiesto alla teologia morale una difesa d’ufficio di certe norme, mettendola in profondo disagio. Lo sforzo fatto per sostenere la dottrina dell’HV da parte di molti teologi moralisti è stato grande e benemerito, ma bisogna dire che il carattere intrinsecamente illecito di ogni e qualsiasi tentativo di evitare attivamente il concepimento anche per giusti motivi – cioè per motivi non esplicitamente immorali- non è riuscito a diventare evidenza per le coscienze per quanto ben intenzionate. Non si può dimenticare per altro che nella logica di Paolo VI il motivo che conduce alla riaffermazione della norma è che il magistero non può aver sbagliato2. Proprio questo è il vero problema: la teologia morale non potrà fare molto per superare lo iato tra norme e ethos dei fedeli se non potrà ripensare anche alcune determinate norme alla luce delle nuove consapevolezze antropologiche, come in passato ha ripensato le norme sull’usura o sulla schiavitù. Non so quello che voi pensiate ma personalmente sono stato sorpreso dal fatto che la VS (79-81) per rivendicare l’esistenza dell’intrinsecamente illecito, cioè l’esistenza di atti intrinsecamente non ordinabili al bene (o ai beni dell’uomo) richiama testi (GS 27) nei quali vengono enumerate cose che per secoli sono state non solo tollerate ma ritenute conformi all’ordine divino. 2 Un principio assai caro a Paolo VI: cfr. il mio Preti sposati per volontà di Dio? Saggio su una Chiesa a due polmoni, EDB, Bologna 2004, 64-65. 220 TAVOLA ROTONDA Così facendo, consapevolmente o meno, da una parte VS afferma sì l’esistenza di atti simili ma dall’altra implicitamente riconosce che anche il magistero ha avuto storicamente problemi cognitivi nel cercare di stabilirli. La teologia morale deve in altre parole recuperare la propria capacità di pensare e di ri-pensare anche le norme nella duplice e simultanea fedeltà alla crescente consapevolezza sull’uomo e alla verità sempre meglio conosciuta della rivelazione stessa. Ciò esige da parte dei teologi morali l’osservanza della regola base del pensare teologico, cioè pensare vivendo la Chiesa e nella Chiesa; esige anche qualcosa però, ex parte (romani) magisterii, un qualcosa che indicherei così, senza aggiungere commenti: attitudine umile, sobria, disposta all’autocritica, non onnipresente ovvero capace di valorizzare il principio di sussidiarietà nei confronti di istituzioni ecclesiali di ricerca e insegnamento morale (si ricordi il magistero delle facoltà di teologia in passato). Il superamento di questo iato non è cosa da poco, come si può capire. Va tuttavia realizzato per il bene della Chiesa e della salvezza dell’uomo, giacché rimanendo rischia di portare allo svuotamento proprio di quel che il magistero vuole difendere, la sua autorità e credibilità; e quando il magistero perde di autorità è difficile che la perda solo nell’ambito morale. Brian Johnstone Nella teologia morale dei secoli precedenti c’era il problema della separazione tra soggetto e oggetto. D’un lato troviamo una teologia morale che colloca la morale in determinati oggetti considerati come delle entità che precedono la coscienza del soggetto. Dall’altro vediamo una teologia morale che, pur non escludendo l’oggettivo, conferisce una certa priorità pratica alla coscienza del soggetto. Questa divisione è perdurata nella teologia morale cattolica fino al Concilio Vaticano II. Ne troviamo le prove nei documenti del Concilio e nei testi successivi, specialmente nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Prendiamo il testo della Gaudium et Spes, che al n. 16, sulla dignità della coscienza, dice: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla TAVOLA ROTONDA 221 quale invece deve obbedire”. Il concetto prescelto è “la legge”. Pertanto, assistiamo ad una continuità con quel tipo di teologia morale che rende fondamentale il diritto oggettivo. Tuttavia, ci viene detto che la legge si scopre nell’intimo del soggetto morale; non si tratta dunque di un oggetto separato ed esterno. Poi, però, vediamo come non è il soggetto a creare o dare questa legge. E ancora, il legame viene preservato dal diritto morale oggettivo. “Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato.” Il testo continua lungo la stessa linea di argomentazione. Traspare l’elemento soggettivo (nell’intimità del cuore). Il linguaggio della legge viene sostituito con il linguaggio più personale della “voce” e del “cuore”. La parola scelta per collegare l’elemento soggettivo con l’elemento oggettivo è “dignità”. Il soggetto è chiamato ad obbedire alla legge, ma questa obbedienza è l’espressione della dignità personale del soggetto. Certo, rimane la questione di spiegare cosa si intenda con la parola “dignità”. Il testo continua: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità.”(Di nuovo viene indicato l’intimo elemento soggettivo). “Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale”. (Qui si tratta della verità oggettiva e della dimensione sociale della coscienza). È nel trattare l’argomento della coscienza erronea che possiamo notare una notevole sfumatura. Il testo conciliare dice: “Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato”. 222 TAVOLA ROTONDA Si ammette il fatto che a volte la coscienza può sbagliare. Tuttavia, quando si tratta di ignoranza invincibile la coscienza non perde la sua dignità. Il testo sta chiaramente dando una certa priorità alla coscienza del soggetto. Anche la dignità viene collegata allo stato di coscienza del soggetto anziché alla conformità di questa alla legge oggettiva esterna. Nei testi corrispondenti del Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 1776 si nota un certo ritocco significativo dei testi conciliari con l’aggiunta di alcuni testi complementari. Per esempio, la frase “Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità” è stata omessa. Nel testo leggiamo invece: “La dignità della persona umana implica e esige la rettitudine della coscienza morale”. (No. 1780). Qui la “dignità” consiste nel conformarsi della coscienza alla legge oggettivamente morale. Viene dunque data precedenza all’elemento oggettivo sull’elemento soggettivo che nel testo conciliare godeva invece di una certa priorità. Non voglio dire che uno dei testi sia corretto mentre l’altro non lo è. Cito questi testi semplicemente per dimostrare che il problema della relazione fra soggetto e oggetto e, più particolarmente, fra le dimensioni soggettive ed oggettive della coscienza, persiste ancora. Identiche tensioni vanno notate in relazione ad altre tematiche. Per esempio, la nozione dell’“opzione fondamentale” appartiene chiaramente alla sotto-tradizione orientata al soggetto. Una critica a questa teoria viene da coloro che desiderano sostenere l’ordine morale oggettivo o la legge, concepita come previa ad ogni opzione da parte del soggetto. Il concetto della “coscienza creativa” appartiene alla linea orientata-al-soggetto della teologia morale; l’opposizione ad essa viene, ancora una volta, dai sostenitori dell’ordine morale oggettivo. E qui calzerebbero vari altri esempi della linea orientata al soggetto: “autonomia,” “metodo trascendentale,” “attitudini.” D’altra parte, la linea orientata al oggetto, parla del oggetto concepito come un’ entità che esistesse separata e prima del soggetto, con la propria moralità che si impone sul soggetto: le parole sono “la legge,” “l’obbligo,” “l’ordine morale”. Se vogliamo poter suggerire una teologia morale per il ven- TAVOLA ROTONDA 223 tunesimo secolo, uno fra i problemi da risolvere è il seguente: come fare per superare la separazione fra soggetto ed oggetto e sviluppare così una teoria morale coerente quale base per la nostra teologia morale? Suggerisco che un modo per farlo sarebbe quello di prendere per fondamentale il concetto del dono. È nel dare e ricevere i doni che il soggetto e l’oggetto diventano inseparabilmente correlati. Questa nozione del dono occupa un posto significativo nei documenti del Papa Giovanni Paolo II che trattano delle questioni morali, e soprattutto in quelli che trattano della bioetica3. La mia proposta per una teologia morale per il ventunesimo secolo si basa su questa nozione di “dono”. Ma prendiamo in considerazione altri possibili candidati per la posizione di “nozione fondamentale nella teologia morale”: in primo luogo consideriamo la “persona”, ed in seguito i tre attributi che sono necessari alla persona: la dignità, la libertà e la responsabilità. In questo mio breve commento, non essendo possibile fornire un’analisi estesa dovrò limitarmi ad alcune brevi osservazioni. Nessuno metterà in dubbio che la nozione di “persona” sia fondamentale. Ma, qual è il contenuto di questo concetto? È questo il punto. Cosa significa “essere una persona?”. Così anche, chiunque scrive sulla teologia morale e sull’etica, soprattutto in merito alle grossolane violazioni della dignità della persona che avvengono nella nostra epoca, insisterà sul fatto che la dignità, e più specificatamente la dignità personale, è fondamentale. Ma, di nuovo, il problema sta nel determinare quale sia il contenuto della parola “dignità”. Implica “degno di rispetto”, ma cosa è insito nel rispetto? Fondamentalmente, è un richiamo al rispetto per la libertà altrui. Così, ancora una volta, dobbiamo 3 Evanglium Vitae, n. 19. “Sì, ogni uomo è ‘guardiano di suo fratello’, perché Dio affida l’uomo all’uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un’essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com’è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l’accoglienza dell’altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità”. 224 TAVOLA ROTONDA porci la domanda: libertà per che cosa? Perfino la nozione di responsabilità diventa insufficiente, poiché di per sé non risponde alla domanda: responsabilità di che cosa? Certo, potremo dire: responsabilità dell’“altro”. E questo ci lascerà ancora alle prese con la domanda: quale forma occorre dare a questa responsabilità? La nozione “dono” invece, ha molto di più da offrire per quanto concerne il contenuto. La nostra stessa esistenza, il nostro essere, è di per sé un dono del Dio creatore. L’essere creato si contrappone al semplice non-esistere: nessun principio potrebbe essere più fondamentale. Ma il dono implica chiaramente un rapporto, un rapporto fra il ricevere ed il successivo rendere grazie. Il dono originale è del tutto gratuito, del tutto immeritato, pertanto il donare gratuitamente il dono diventa la forma ideale di qualsiasi relazione. Avendo ricevuto da Dio il dono fondamentale dell’essere, riceviamo un dono sovrabbondante che noi chiamiamo grazia, e che significa “capacità di entrare nelle relazioni donatrici di Dio. Avendo noi ricevuto, nella creazione e nella grazia, siamo altresì capaci di dare agli altri. Ogni negazione fondamentale del dono è un attacco all’essere (alla vita) altrui, è un’aggressione all’altrui vita spirituale donata attraverso il tentativo di pervertire la coscienza. Pertanto potremmo interpretare “la persona” come colui che è capace di dare e di ricevere doni, gratuitamente, con la libertà. La “dignità” indica questa realtà unica per ogni persona, di aver ricevuto un essere del tutto personale ed insostituibile nel mondo. Questa persona è capace di ricevere in modo unico, ma anche di dare in modo unico. Libertà di, significa la libertà positiva di dare doni all’altro. Libertà da, significa rimuovere ciò che può impedire questo donare, sia nell’intimo del soggetto che nelle strutture sociali. La responsabilità di, significa, a sua volta, capacità di rispondere ai doni iniziali di Dio nel partecipare al donare divino e pertanto nel dare agli altri per promuovere l’altrui capacità di diventare a sua volta un migliore ricevitore o donatore di doni. “Virtù” si riferisce a quella data capacità (teologica) di dare dei doni genuini, con l’aggiunta capacità acquisita del saper discernere ciò che non è un dono genuino, e del sapere come dare quel dono. “Coscienza” significa la capacità di discernere quali doni dare e come darli. Il diritto naturale è eret- TAVOLA ROTONDA 225 to dalla ragione pratica che cerca di scoprire quali siano i veri doni per l’altro, riflettendo sulle altrui inclinazioni umane fondamentali. Vi sono alcune cose oggettive che non possono mai diventare dei doni, e esistono dei modi di agire che non diventano mai una donazione. (Dare un tozzo di pane ad un bambino affamato può essere un dono, dargli una pietra non lo sarà mai). L’atto etico ideale, come disse il filosofo Derrida, è donare gratuitamente la vita per l’altro. Ovviamente, è ciò che di meglio in assoluto ha detto e fatto Gesù stesso quando gratuitamente ha dato la sua vita per gli altri. Qualche anno fa ho scritto un articolo sull’etica della risurrezione. Un biblista ha criticato quest’articolo dicendo che ciò che ho scritto era di prendere i testi biblici che riguarda la risurrezione è di usare questi testi per giustificare argomenti etici che avevo già accettato per altri ragioni. Credo che lui aveva ragione. Nondimeno, esiste un rapporta fra le resurrezione, e, infatti tutta la cristologia, e la teologia morale. Vorrei suggerirvi una soluzione. La resurrezione non è un atto etico, nel senso umano della parola. Il dono di se stesso di Gesù nel giardino di Gethsemani e sulla croce, è, invece, l’atto etico umano ideale. Tutte le qualità dell’ atto etico si trovano in quest’atto di donare: la libertà piena, la gratuità, anche l’autonomia, non assoluta, ma sempre in rapporto con la volontà del padre. L’atto di Gesù non è un esempio di una categoria generale “dono,” è l’atto originario. Con questo atto etico ideale, si può iniziare le riflessione della teologia morale. Sembra che questo dono di se stesso di Gesù fosse fallito. Gli uomini non l’hanno accettato; in fatti l’hanno ucciso. Ma la forza del donare divino non era fallito; ha risuscitato Gesù dei morte, da dono definitivo divino. 226 TAVOLA ROTONDA Dennis J. Billy Ritengo che la lettera apostolica di Giovanni Paolo II sulla Chiesa all’alba del nuovo millennio, Novo millennio ineunte, sia un punto di partenza adeguato per una discussione sulla teologia morale cattolica nel ventunesimo secolo. Pubblicata in occasione della chiusura ufficiale dell’anno giubilare del 2000, questa lettera offre una visione complessiva delle sfide che la Chiesa deve affrontare in questo periodo critico della sua esistenza. Perno di questa lettera è una sfida che il Papa sottolinea in modo particolare: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (n. 43). Radicata nel termine conciliare communio, un concetto teologico ricco di molte sfumature e radicato esso stesso nella nozione neotestamentaria della koinonia, negli ultimi anni questa frase è emersa come paradigma del modo in cui la Chiesa comprende se stessa. Nella mia presentazione desidero approfondire il senso che queste parole del Papa hanno per i teologi morali cattolici. Quale rilevanza ha per loro la “spiritualità di comunione”? Cosa possono fare perché la Chiesa di domani diventi “la casa e la scuola della comunione”? Nella sua lettera apostolica, Giovanni Paolo II insiste non soltanto sull’importanza del concetto di una “spiritualità di comunione”, ma anche sul suo significato pratico (n. 43). Mette in guardia contro un’azione prematura e poco ponderata che non sia in grado di promuovere valori cristiani autentici. La “spiritualità di comunione” deve diventare il principio guida a tutti i livelli della formazione cattolica, a casa, nella scuola, in parrocchia, nel noviziato, nel seminario, all’università. Ovunque avvenga una formazione dei cristiani, questa deve avere per principio sottostante una “spiritualità di comunione” capace di plasmare la visione del mondo e di incitare all’azione (n. 43). Un’azione che non derivi da questo spirito sottostante, da questa modalità di vita – anche se intrapresa a nome della Chiesa e per il suo bene – non potrà essere considerata autenticamente “cattolica”. Ciò che queste considerazioni implicano per la teologia morale cattolica non va sottovalutato. I teologi morali debbono TAVOLA ROTONDA 227 accertare che stiano svolgendo il loro servizio alla Chiesa in un’atmosfera che promuova i principi fondamentali della “spiritualità di comunione”. Per riuscirci è molto importante che vedano la loro vocazione di teologi morali prima di tutto come inserita nel contesto della comunità ecclesiale cattolica. Tuttavia, questa preoccupazione di primaria importanza non dovrà urtare contro la loro posizione di studiosi in seno alla comunità accademica, tanto meno dovrà coesistere con essa senza però approvarla. Al contrario, soltanto se ottempereranno alla loro responsabilità primaria al livello locale ed universale della comunità di fede riusciranno ad affermare la loro identità di teologi cattolici distinguendosi così da altri studiosi della materia. Ma cosa comporta questa responsabilità primaria? Mantenere una posizione “priva di presupposti” nei confronti dello studio di una qualsiasi struttura di fede religiosa è cosa impossibile; la teologia cattolica non fa eccezione. I teologi morali cattolici partono dai principi dottrinali e morali della fede cattolica posti dall’insegnamento del magistero, facendone il loro punto di partenza. Fin dall’inizio del loro impegno teologico dichiarano questi presupposti per poi affrontare problematiche e concetti che vi si riferiscono direttamente. Così facendo, di solito ne condividono molte argomentazioni circa la natura della rivelazione, il ruolo della ricerca teologica ed i vari livelli dell’insegnamento cattolico ufficiale. Ciò non significa che sposeranno questi insegnamenti con atteggiamento acritico o che eviteranno di sottoporli ad un rigoroso vaglio storico ed analitico. Un tale comportamento sarebbe una remissione professionale, anzi, sarebbe rendere un disservizio al magistero, ai fedeli cattolici, e a chiunque fosse interessato ad un’equilibrata valutazione accademica del pensiero morale cattolico. Nel praticare una “spiritualità di comunione”, i teologi morali cattolici debbono affermare quanto sono importanti i vari livelli dell’insegnamento magisteriale per il bene del corpo di Cristo, la Chiesa. Pertanto debbono fare del loro meglio per sondare quell’insegnamento ed esaminarlo partendo da vari punti di vista, teologici e scientifici. Per farlo bene debbono vedere non soltanto i punti di forza impliciti nell’argomentazione seguita, ma anche i possibili punti deboli. Secondo me i teologi morali cattolici debbono avvicinarsi all’insegnamento del magistero con un desiderio interpretativo che, ad intervalli 228 TAVOLA ROTONDA appropriati e rilevanti, alterni conflittualmente il proprio atteggiamento fra la fiducia implicita ed il sospetto di un dubbio, esitante ma qualificante. Il primo atteggiamento permetterà loro di prestare orecchio alla verità che troveranno espressa in una determinata posizione magisteriale. Senza questa fondamentale apertura all’insegnamento della Chiesa non sarebbero in grado di ascoltare e di capire la verità che si cela in una determinata posizione teologica. Non sarebbero neppure capaci di accogliere questa verità con l’umiltà attiva richiesta dal discepolo di Cristo. Il secondo atteggiamento, per contrasto, li aiuterà a riconoscere i vari modi in cui le posizioni magisteriali possono dimostrarsi carenti o bisognosi di miglioramenti, costringendoli ad essere estremamente onesti con se stessi e con l’insegnamento magisteriale che hanno ricevuto l’incarico, e perfino il mandato, di studiare. I migliori teologi morali cattolici saranno capaci di mantenere un totale equilibrio, una vera “via media” di fronte a quel coincidere di vedute contrapposte. Guardando all’insegnamento magisteriale con questi “occhi interpretativi” variabili, raggiungeranno un’apprezzabile profondità di prospettiva e saranno in grado di fornire alcune utili sfumature teologiche, permettendo così all’insegnamento magisteriale di maturare i propri intenti e possibilmente anche di svilupparli. A questo processo gioverebbe immensamente un’atmosfera di collaborazione pratica fra vescovi e teologi morali alimentata da una “spiritualità di comunione”. Fare della teologia morale in uno “spirito di comunione” genuino richiede la delicata fusione fra una visione contemplativa ed una visione pratica. Il fatto che si concentrino sugli aspetti pratici dell’azione umana nel mondo non esime i teologi morali dal dover promuovere questo importante atteggiamento contemplativo nella loro vita. Ogni formula dottrinale possiede una dimensione morale, e viceversa. Allo stesso modo, l’azione stessa della contemplazione incide sul modo in cui il teologo morale esercita la funzione della ragione pratica, e viceversa. Visto in quest’ottica, contemplare la presenza della Trinità nel proprio cuore non è qualcosa di sussidiario nel discorso morale cattolico, bensì è parte integrale di una continua dialettica fra queste due importanti dimensioni dell’esperienza umana. Le cosiddette guerre metodologiche che si sono avute nella teologia TAVOLA ROTONDA 229 morale cattolica durante il periodo post Vaticano II sono state causate, almeno in parte, dall’aver trascurato questa importante dialettica fra il contemplativo ed il pratico. Un’altra implicazione delle parole di Papa Giovanni Paolo II per i teologi morali riguarda il rispetto che questi debbono avere per chi dissente dalle loro posizioni. Vivere una genuina “spiritualità di comunione” significa lottare per l’unità nella diversità. Nel passato la teologia morale cattolica ha tratto molti benefici dalle varie scuole di disciplina morale fiorite nel rispetto dell’ortodossia. Il magistero deve senz’altro esercitare la sua funzione di controllo dottrinale e morale, ma non vi è alcuna ragione per cui non dovrebbe esistere un sano grado di diversità per chi ha la vocazione di sviluppare una comprensione critica dell’insegnamento morale cattolico. Posti i limiti globali dell’ortodossia, ai teologi morali deve essere concesso un certo margine nel modo di assimilare, analizzare e perfino presentare le dichiarazioni ufficiali del magistero. Un tale sano scambio di opinioni può giovare molto all’andamento della chiesa in tanti ambiti del discorso morale cattolico. D’ogni modo, una genuina “spiritualità di comunione” non lascia alcuno spazio agli aspri antagonismi personali che ogni tanto si sono avuti fra i teologi morali a causa di determinate diversità di metodologia che li hanno portati ad assumere posizioni divergenti su argomenti morali concreti nell’applicazione di sani principi cattolici. La stessa cosa può dirsi sull’argomento, per quanto concerne il rapporto fra teologi e vescovi. In un ambiente spirituale e teologico governato da un’autentica “spiritualità di comunione” non rimane spazio per profondi antagonismi personali o istituzionali. Un’altra implicazione che le parole del Papa hanno per i teologi morali è l’accento posto sul carattere relazionale dell’esistenza cristiana. Ogni dimensione della “spiritualità di comunione” che il Papa sviluppa sottolinea la necessità che sia basata su relazioni autentiche basate sull’amore. Queste relazioni hanno le loro radici nel mistero della Trinità stessa, una realtà che i mezzi umani non riescono a misurare. I teologi morali cattolici debbono avere a cuore questa qualità relazionale dell’esistenza umana durante le loro ricerche, e questo non soltanto quando trattasi del discorso morale cattolico all’interno della Chiesa, ma anche nella loro partecipazione ecumenica e nelle discussioni interreligiose. Tuttavia dovranno sempre tenere a 230 TAVOLA ROTONDA mente che il linguaggio teologico presenta delle limitazioni intrinseche e che qualsiasi tipo di analisi scientifica critica del mistero dell’amore umano implica comunque un certo rischio. Per studiare questo fenomeno potranno attingere alla scienza della psicologia e alle scienze sociali, ma stando attenti a non permettere che queste discipline privino il loro discorso di altre valide fonti dell’intelletto umano. Anche le conoscenze ottenute attraverso le scienze classiche e le belle arti possono essere di valido aiuto nella loro ricerca per una comprensione globale e vitale del mistero dell’amore umano. Tuttavia, anche con queste fonti permangono i limiti di quanto l’immaginazione umana è in grado di rivelare. Perciò, i teologi morali dovranno tenere presente che la teologia apofatica (o “negativa”) può utilmente complementare le percezioni ottenute dall’approccio catafatico (o “positivo”) al sapere teologico. Anche se questi due modi di fare della teologia vengono normalmente riservati a sondare i misteri della Divinità, possono (e debbono) essere adattati in modo appropriato per intendere i misteri della creazione voluta da Dio. Poiché gli esseri umani sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, ne consegue che si potrà attingere ad un’uso analogo di questi approcci per sondare alcuni aspetti del mistero delle relazioni autentiche nell’amore. L’ accento energico che Giovanni Paolo II pone sulla “spiritualità di comunione” è un altro modo per parlare dello stretto rapporto fra la spiritualità cristiana e la morale. I teologi morali hanno appena incominciato a riscoprire la connessione intrinseca fra bontà e santità nella tradizione cristiana. È il Papa stesso a riconoscere che i fedeli non debbono “…accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale” (n. 31). Al contrario, debbono essere introdotti ai modi per vivere la loro relazione vitale con Cristo, resa possibile dal loro battesimo e sostenuta dai sacramenti e da una vita di preghiera. Nei tempi passati, a volte i teologi morali hanno fatto l’errore di pensare che la morale fosse qualcosa che poteva essere imposta dall’alto senza rivolgersi ai profondi aneliti spirituali del cuore umano. Se invece sottolineeranno l’importanza dell’integrazione di queste dimensioni spirituali e morali nella vita del cristiano, i teologi morali avranno aiutato i fedeli ad approfondire la propria relazione con Cristo e a giungere così ad una migliore valutazione delle loro TAVOLA ROTONDA 231 responsabilità inerenti al fatto che sono discepoli di Cristo. In altre parole, bontà e santità vanno insieme. La vita morale dei fedeli cristiani deriva dal loro rapporto con Cristo e, in ultima istanza, a questo rapporto fa ritorno. Qual è il futuro della teologia morale cattolica? Uno dei “segni dei tempi” nel mondo contemporaneo è che “si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera” (n. 33). Per Giovanni Paolo II, insegnare “l’arte della preghiera” significa aiutare gli altri a vedere che tutti siamo chiamati a promuovere un atteggiamento contemplativo rivolto alla vita che un giorno sfocerà in un incontro a faccia a faccia con il divino, al quale i teologi sono soliti riferirsi come alla “visione beata”. Se a quest’esigenza non verrà prestata un’attenzione adeguata, i fedeli la cercheranno altrove e potrebbero tramutarsi in “cristiani a rischio” (n. 34). Oggi più che mai la comunità cristiana deve essere presentata come il luogo in cui “…l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero ‘invaghimento’ del cuore” (n. 33). Perché questo accada, per qualsiasi discorso teologico cattolico, soprattutto laddove assume aspetti che si concentrano più specificatamente sulla natura e lo scopo dell’autentico agire umano, è sommamente importante, in via del tutto prioritaria, stabilire una genuina “spiritualità di comunione” con tutti i suoi annessi e connessi.