“Terra Iberica”
Collana diretta
da Patrizia Botta
Sezione II,
“Ricerca”
2
A10
215
Collana “Terra Iberica”
diretta da
Patrizia BOTTA
Comitato di redazione
Elisabetta VACCARO (Capo-Redattore)
e
Carla BUONOMI
Francesca DE SANTIS
Aviva GARRIBBA
Debora VACCARI
Sezione II, “Ricerca”, n. 2
Direzione e Redazione
Cattedra di Letteratura Spagnola
Dipartimento di Scienze del Libro e del Documento
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Roma “La Sapienza”
Sede di Villa Mirafiori
Via Carlo Fea, 2
00161 Roma
[email protected]
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Obra publicada com apoio do Instituto Camões/Portugal.
Opera pubblicata con il contributo dell’istituto Camões/Portogallo.
La Collana “Terra Iberica” è volta ad accogliere lavori di iberistica (ispanistica e lusitanistica)
di livello universitario, e ha per logo una mappa antica della Penisola tracciata da Tolomeo. A
promuoverla è la Cattedra di Spagnolo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Roma “La Sapienza” (Dipartimento di Scienze del Libro e del Documento).
La Collana si articola in tre Sezioni:
-
Sezione I, “Didattica”, maneggevole e in piccolo formato, per il materiale finalizzato alle attività di insegnamento iberistico sia di Laurea Triennale che di Laurea
Specialistica (testi in lingua, dispense, brevi saggi, grammatiche, esercizi, ecc.).
-
Sezione II, “Ricerca”, per i risultati di singole ricerche (monografie e miscellanee
di un solo autore) o di ricerche collettive (atti di convegni e libri a firma plurima).
-
Sezione III, “Il Traghetto”, per le traduzioni di importanti opere letterarie iberiche
non ancora diffuse in Italia e che necessitano di essere ‘traghettate’ dalla lingua originale, elaborate sia dal “Master di II° livello in Traduzione specializzata” (che la
Cattedra coordina) sia da traduttori esperti in campo iberistico.
Le proposte di pubblicazione vanno rivolte alla Direzione o alla Redazione della Collana.
Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 2007
DANIELA DI PASQUALE
Metastasio al gusto portoghese
Traduzioni e adattamenti
del melodramma metastasiano
nel Portogallo del Settecento
Laurea Triennale in “Lingue e Culture del Mondo Moderno”
Laurea Specialistica in “Traduzione Letteraria e Tecnico-scientifica”
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Roma “La Sapienza”
A Eugenio
5
6
Premessa
PREMESSA
Lo studio che qui viene presentato è stato tratto dalla mia tesi di
Dottorato in Letterature Moderne Comparate, svolta nel triennio
2003–2006 presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione
Linguistica e Culturale dell’Università di Genova.
Il lavoro completo (intitolato Da Auson a Lusus. Uso, abuso e riuso
del teatro settecentesco italiano in Portogallo tra XVIII e XIX secolo)
comprende approfondimenti sulla ricezione portoghese del Goldoni e
dell’Alfieri, oltre che sulle influenze della produzione teatrale italiana
in Almeida Garrett, António José da Silva e Manuel de Figueiredo.
Per tutte le trascrizioni in lingua delle parti comiche che seguono
l’analisi delle singole opere si è deciso di attualizzare l’ortografia
originale secondo la norma vigente e di modificare in parte la
punteggiatura, la cui assenza in numerosissimi casi avrebbe reso
difficoltosa la lettura e la comprensione dei testi.
L’Autrice
7
8
Premessa
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio la Biblioteca Nazionale di Lisbona, l’Istituto degli
Archivi Nazionali della Torre do Tombo, la Biblioteca da Ajuda e la
Fondazione Calouste Gulbenkian per avermi agevolato nell’accesso
alle collezioni riservate di manoscritti, testi a stampa e atti risalenti al
XVIII secolo. Un sincero ringraziamento al personale bibliotecario e
non delle suddette strutture, sempre pronto ad accogliere ogni mia
richiesta con grande sollecitudine e professionalità.
Ringrazio il Professor Giuseppe Sertoli dell’Università di Genova
per aver giudicato positivamente l’idea di questo progetto di ricerca e
per avermi dato la possibilità di frequentare il corso di Dottorato da lui
coordinato, senza il quale non sarebbe stato possibile realizzare il
presente lavoro.
Infine, un ringraziamento particolarmente sentito per il sostegno e
per l’orientamento va ai miei supervisori, la Professoressa Amina Di
Munno e il Professor Luigi Surdich. Grazie ancora per l’appoggio e
per i preziosi suggerimenti.
Roma, novembre 2006
9
10
Premessa
INDICE
Introduzione ...........................................................................
I.
13
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo
del Settecento .............................................................
21
II.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII ...............
II.1. Questioni preliminari ..........................................
II.2. Alessandro nell’Indie ..........................................
II.3. Adriano in Siria ..................................................
II.4. Zenobia ...............................................................
II.5. Artaserse .............................................................
II.6. Demofoonte .........................................................
II.7. Ipermestra ...........................................................
II.8. Temistocle ...........................................................
II.9. Didone abbandonata ...........................................
II.10. Demetrio ...........................................................
II.11. Siroe ..................................................................
II.12. Issipile ...............................................................
II.13. Semiramide .......................................................
II.14. Antigono ............................................................
II.15. L’Olimpiade ......................................................
II.16. Dubbie attribuzioni ............................................
89
89
98
139
151
177
203
226
240
251
268
296
313
326
353
352
371
III.
Conclusioni ................................................................
383
IV.
Appendice cronologica...............................................
409
V.
Bibliografia ................................................................
425
11
12
Premessa
INTRODUZIONE
L’influenza dei modelli letterari italiani è costante nella letteratura
portoghese sin dalle epoche più remote. A partire dalla ricezione delle
Laude di Jacopone di Todi, per passare all’elaborazione dei canoni
stilistici delle Tre Corone, all’uso di Sá de Miranda del modello
stilnovistico e alla relazione Castel Branco–Tasso, fino al legame tra
l’opera di Baldassar Castiglione e la sua resa lusitana in Rodrigues
Lobo, il rapporto di continuità tra le due letterature è sempre stato
particolarmente evidente, arrivando a toccare la sua più alta incidenza
durante il Settecento e durante quella corrente letteraria a tutti nota
con il nome di Illuminismo, così ricca di voci e di sfumature. Benché
il Portogallo recepisca quasi sempre con qualche decennio di ritardo
l’eco delle correnti culturali e letterarie del resto d’Europa (sia a causa
della sua condizione d’isolamento geografico, sia per la peculiarità di
un contesto e di una tradizione rivolti più all’Occidente dei
possedimenti oltre Atlantico o al Sud degli imperi coloniali della costa
africana), tanto che la fondazione della settecentesca Accademia
Lusitana (1756) registra un ritardo di oltre mezzo secolo rispetto al
suo diretto modello romano, la penetrazione del melodramma tardosecentesco e di quello riformato dal Metastasio, così come
l’accoglimento della commedia goldoniana e la struttura e le
implicazioni delle tragedie dell’Alfieri trovano nella produzione
teatrale lusitana una vasta risonanza.
Nella prima metà del XVIII secolo l’introduzione dell’opera
italiana in Portogallo assume un ruolo talmente rilevante da non poter
essere considerata una semplice moda, bensì la definizione di
un’epoca, di una mentalità e di una cultura. L’accoglimento della
letteratura drammatica italiana inizia infatti negli anni Trenta del
secolo, distinguendosi immediatamente per l’accuratezza formale e
sostanziale delle edizioni mono e bilingui destinate alla
rappresentazione di corte. Le traduzioni delle opere del Metastasio
circolano già dal 1736 tra gli ambienti colti, formando una vera e
propria scuola di stile che, se da un lato intende mantenere l’appoggio
del pubblico aristocratico, dall’altro cerca di creare consensi ed
aspettative anche tra le classi sociali meno abbienti, esigenza che
13
Introduzione
14
accentuerà quella vena comico–ironica — ópera jocosa si chiamerà
infatti — che costituisce uno dei modi d’essere del carattere iberico.
La fedeltà traduttiva dei primi esemplari, nei quali si segnalano solo
strategie testuali di semplificazione lessicale, portoghesizzazione di
titoli e nomi dei personaggi, sembra ancora il tentativo di rispettare i
dettami di verosimiglianza propugnati dall’Illuminismo arcadico.
Tuttavia, il carattere iberico, in ritardo rispetto agli sviluppi della più
pura mentalità dell’Auflklärung centro-europea, cederà ancora per
tutto il Settecento al desiderio della rappresentazione spettacolare di
puro effetto scenico e dell’atmosfera leggera e facile al riso ereditata
dalla Commedia dell’Arte e dal vicino teatro barocco spagnolo. Gli
esiti di queste imitazioni porteranno via via alla creazione del genere
degli adattamenti al gusto portoghese del teatro metastasiano e del
melodramma in generale, prevalentemente di paternità anonima, e nei
quali molto nettamente possiamo ravvisare un calco del teatro dei
corrales castigliani, che sono in Portogallo i vari pátios destinati alla
rappresentazione teatrale pubblica. La stessa formula di comedia nova
apposta sui frontespizi della maggior parte delle infedeli traduzioni
lusitane che iniziano ad aumentare a partire dalla seconda metà del
secolo, non può non richiamare alla memoria la comedia nueva messa
a punto dallo spagnolo Lope de Vega dove, esattamente allo stesso
modo delle traduzioni portoghesi del nostro teatro, «tendono ad
incontrarsi […] la cultura dotta e la popolare, il linguaggio umile e il
letterario»1. Con la differenza sostanziale che vede, soprattutto nella
maggior parte degli adattamenti portoghesi dell’opera metastasiana,
un semplice giustapporsi delle parti comico–grottesche alla fabula
drammatica originaria, spesso senza alcuna relazione tra le due
componenti, ma in un’intrusione isolabile e a sé stante. Di
conseguenza, la figura del gracioso, che a differenza del teatro di
Calderón de la Barca viene qui affidato solo al personaggio del criado,
presenta evidenti affinità con il suo corrispondente spagnolo in Lope
de Vega laddove «è in funzione del suo padrone, è il suo inerente, il
suo doppio parodico»2, cioè in quei momenti in cui gli adattamenti
1
Teatro del «Siglo de Oro». Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca, a c. di
M. Socrate, M. Profeti, C. Samonà, vol. I, Garzanti, Milano, 1989, p. XXXVI.
2
Ivi, p. XLV.
Introduzione
15
prevedono un contatto tra servi e personaggi principali, svolgendo
quel ruolo interno all’intreccio originale che abbiamo definito di
decodificazione delle azioni degli eroi e di avvicinamento allo
spettatore. Tuttavia, normalmente il gracioso portoghese svolge un
ruolo esterno all’azione primaria, imbastendo una trama a parte
completamente estranea al contesto generale della rappresentazione
teatrale, una trama fatta sostanzialmente di sketch ridicoli, spesso al
limite del volgare e con risvolti di esplicita violenza fisica, del tutto
simili alle caratteristiche dell’azione del fool shakespeariano. Da qui le
nostre considerazioni di una mancanza di qualsiasi intento di critica
sociale in questa figura oppositiva al rango dei personaggi tragici, un
controaltare ironico, di saggezza o di semplice buon senso alla
Goldoni che gli adattamenti, in generale, sembrano non seguire
affatto. Questo «coefficiente di rilassamento»3, come definì Franco
Meregalli il gracioso calderoniano, definizione che noi applichiamo
anche al servo dell’adattamento portoghese del testo metastasiano, è
quindi il perno attorno al quale viene costruito l’accomodamento «ao
abuzo com que o Povo costuma gostar do Teatro»4, motivato
unicamente da ragioni di natura economica, cioè da quell’agognato
riscontro di pubblico che permise la trascuratezza della maggior parte
delle edizioni di questo particolare sottogenere del teatro de cordel
costituito dall’adattamento del teatro italiano ao gosto português.
In sostanza, in una fusione tra Barocco e Illuminismo, tra
spettacolo e realismo, tra meraviglia e scetticismo, al confine tra
sentimento tragico e parodia del genere operistico nasce un ibrido
letterario a metà strada tra la volontà di rimaneggiamento arbitrario e
l’esigenza di omologazione alla cultura ricevente. Un’omologazione
che richiede la messa in ridicolo della vanagloria nobiliare e la
sottolineatura della scaltrezza degli umili servi.
Dunque, questo continuo richiamarsi delle opere del teatro
portoghese del XVIII secolo ai canoni dell’opera italiana dell’epoca e
questo costante riferimento – per calco o per deviazione dalla norma
dovuta a specifico contesto – alla struttura e ai contenuti dei modelli
3
77.
4
Franco Meregalli, Introduzione a Calderón de la Barca, Roma-Bari, Laterza, 1993, p.
José da Costa Miranda, Apontamentos para um futuro estudo sobre o teatro de
Metastasio em Portugal no século XVIII, p. 134.
16
Introduzione
metastasiani ha di fatto segnato un’epoca, pur senza condizionare del
tutto l’originalità e la peculiarità della resa lusitana delle singole
opere.
Tra le condizioni che hanno potuto garantire il successo del teatro
italiano nel Portogallo del Settecento riteniamo sia da segnalare
l’attività della Real Mesa Censória, l’istituto di controllo dei testi
stampati in Portogallo e delle copie provenienti dall’estero. Questo
ente censorio voluto dal marchese di Pombal (1699-1782), e dalle
finalità radicalmente opposte a quelle proprie della censura
inquisitoriale precedente, non registra infatti nei suoi atti alcun testo
teatrale, né in traduzione dall’italiano né di autori portoghesi, eccetto
pochi casi e almeno non prima D. Maria I, che regnò dal 1777 al 1792.
A ciò si aggiunga che, per tutta la prima metà del Settecento, si assiste
ad un aumento tale delle pubblicazioni e dell’ingresso di nuovi testi
dall’estero, che il numero degli esaminatori della censura diviene in
sostanza del tutto insufficiente ad assicurare un completo controllo
sulle opere. Una situazione che permise alle varie officine librarie
dell’epoca di occuparsi non solo della stampa e dell’edizione di opere
straniere, ma soprattutto della loro traduzione, divenendo così fulcro
dell’attività letteraria (dalla produzione alla vendita) e tenendo le
redini delle correnti culturali del momento. Emerge pertanto dallo
studio dell’attività di queste stamperie l’andamento della fortuna, della
decadenza e, soprattutto, della qualità della letteratura teatrale
portoghese del XVIII secolo.
Non bisogna naturalmente dimenticare che la mole impressionante
di opere appartenenti all’ambito di nostro interesse ― teatro italiano
originale, tradotto e adattato ― deve anche essere ricondotta alla
politica del Magnanimo D. João V (1689-1750) il quale, attraverso una
serie di provvedimenti in favore del teatro e dell’opera in musica,
diede grande impulso alla produzione teatrale del suo paese, anche se
solo come rifacimento e adattamento di testi già esistenti, e
all’ingresso in Portogallo di opere originali metastasiane in quantità
eccezionali. A testimonianza di tale afflusso di opere e di idee, basti
citare quei registri doganali manoscritti di carichi di testi provenienti
dall’Italia e approvati alla circolazione che andremo ad illustrare nelle
prossime pagine. La presenza di titoli della letteratura teatrale italiana
in questi documenti è ulteriore prova di un interesse del pubblico
Introduzione
17
portoghese non attribuibile semplicemente alla tendenza del momento,
la quale voleva il nome di Metastasio circolare un po’ per tutta
Europa, ma conferma un’attenzione ben più specifica e una
conoscenza ben più analitica della letteratura teatrale di casa nostra,
soprattutto per la presenza di autori meno conosciuti all’estero come
Zeno, Maffei e il Chiari, e di autori minori quali il Diodati, il Fagiuoli
e il Gigli, tutti rigorosamente in lingua originale.
Il ruolo centrale delle strutture teatrali operanti sul territorio
portoghese (Teatro da Ajuda, Ópera do Tejo, Teatro da Rua dos
Condes, Teatro de Queluz, Teatro de Salvaterra e São Carlos), si è
inoltre specificato attraverso una suddivisione delle rappresentazioni
di corte e del teatro pubblico, da cui è derivata una visione d’insieme
ben precisa sull’attività teatrale compresa tra il 1728 e il 1808.
Cercando quindi di descrivere lo stato del teatro portoghese nel
XVIII secolo, le motivazioni che spinsero all’attività di rifacimento e
riscrittura dei testi italiani, le leggi di mercato e le peculiarità
dell’estetica della ricezione lusitana, la posizione dei traduttori, il
concetto di adattamento al gusto portoghese e il ruolo fondamentale
della figura dei graciosos (ed è per questo che riteniamo parte
fondamentale del presente lavoro la fedele trascrizione delle parti
comiche inedite inserite all’interno delle traduzioni delle opere
metastasiane), questo lavoro ha avuto sempre come suo principale
punto di riferimento la prospettiva comparatista dello specifico
confronto testuale, nella convinzione che il travaso delle specifiche
operistiche italiane all’interno della produzione teatrale portoghese
abbia in qualche modo rinforzato le fondamenta di un felice legame
interculturale, mai interrotto, tra Italia e Portogallo.
18
Introduzione
ABBREVIAZIONI*
BN
Biblioteca Nazionale di Lisbona
FCG
Fondazione Calouste Gulbenkian
BA
Biblioteca da Ajuda
IANTT
Istituto degli Archivi Nazionali/Torre do Tombo
BAC
Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Lisbona
UC
Archivio generale dell’Università di Coimbra
*
La sigla che segue l’abbreviazione della struttura indica la collocazione dei documenti
presso la detta struttura.
19
20
Introduzione
CAPITOLO I
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
O retardamento de um fenómeno cultural, no conjunto da Literatura
Comparada, apresenta sempre particularidades ideológicas que se não devem
desprezar. Por um lado, parece ser inevitável um repisar do caminho já por
outros seguido, para que se aproximem idênticas surpresas perante os já
resolvidos paradoxos ou superadas incorrecções. Por outro, acontece que um
fenómeno cultural adiado agudiza, porque as tomou de uma forma sumariada,
as tensões dogmáticas dos primeiros movimentos. Acrescente-se ainda que,
cronologicamente afastado do epicentro criativo, pressente e reage já a um
contemporâneo movimento de síntese ou de nova superação antitética1.
Se pensiamo che ancora nel 1874 Júlio César Machado nel suo
celebre testo sui teatri di Lisbona poteva affermare che «em S. Carlos
não há surpresas. Sabe-se de cor as óperas… e os camarotes»2,
sorprende alquanto la constatazione che questa dichiarazione
compiaciuta fosse pronunciata molto tempo dopo il momento di
massimo splendore del nostro teatro in terra lusitana. Se infatti è
innegabile che il Settecento costituisca il secolo di più stretta
vicinanza, influenza ed imitazione dei drammi metastasiani così come
delle commedie goldoniane tra gli adattatori portoghesi, è altrettanto
inconfutabile l’esigenza, sostenuta a più riprese da studiosi del passato
come l’italiano Giuseppe Carlo Rossi o il portoghese José da Costa
Miranda, di approfondire in maniera decisamente più dettagliata ed
analitica la mole impressionante di documenti a sostegno della tesi
sull’influenza marcante delle rappresentazioni teatrali nostrane. Del
resto, anche se non sembra che l’abate Trapassi fosse a conoscenza dei
rifacimenti e degli stravolgimenti subìti dalle sue opere in Portogallo,
già dall’epistolario metastasiano emergono chiari riferimenti alla corte
lusitana. Ci resta infatti traccia di una sorta di commissione da parte di
1
Maria Luísa Malato da Rosa Borralho, Manuel de Figueiredo. Uma perspectiva do
neoclassicismo português (1745-1777), IN-CM, Lisboa, 1995, p. 136.
2
Júlio Cêsar Machado, Os teatros de Lisboa, com ill. de Rafael Bordalo Pinheiro,
conforme a 1ª ed. [1874-1875], Frenesi, Lisboa , 2002, p. 13.
21
Capitolo I
22
re D. José I (1714-1777) per l’opera dell’Ezio, in una lettera del
gennaio 1755 inviata a Giuseppe Bonechi, poeta che Metastasio riuscì
ad introdurre proprio alla corte di Lisbona3. Quale fosse lo stato e la
considerazione internazionale di cui godesse la corte portoghese in
ambito culturale, teatrale, e musicale in particolar modo, è inoltre
confermato da una corrispondenza di Nicolò Porpora con lo stesso D.
José I, scritta, tuttavia, su commissione del Metastasio nel 1754. Vi si
descrive la corte di Lisbona come “illustre asilo di belle arti” e il re
che vi presiede come «benefica mano che le raccoglie, che le onora,
che le fomenta»4, tanto da auspicare che inedite composizioni per
cembalo dello stesso Porpora potessero trovare accoglimento in quella
sede.
Allo stesso modo, l’epistolario goldoniano ci offre interessanti
spunti di collegamento tra l’attività del commediografo veneziano e la
corte di Lisbona, quando si parla, ad esempio, di una probabile
commissione giunta dal Portogallo attraverso Don Vicente de Sousa
Coutinho e regolarmente pagata, benché non se conoscano le
circostanze specifiche. Nella missiva del 24 settembre 1765, Goldoni
3
Questo lo stralcio della lettera che più ci interessa: «D’ordine di cotesto vostro generoso
monarca raccorciai e ridussi al comodo del real suo teatro di Lisbona il mio Ezio. L’onore
d’un tal comando mi pareva che avesse superato d’uno spazio immenso il corto merito
d’averlo eseguito, quando improvvisamente mi vidi tre giorni sono portare in casa una
magnifica argenteria, ricca di quanto esige il bisogno e il lusso d’una tavola elegante. Un
testimonio così poco comune del real gradimento per l’ubbidienza mia, immaginatevi qual
tumulto di contento, di riconoscenza e di confusione mi ha risvegliato nell’animo. Ho
procurato di spiegarlo, in voce e in iscritto, a questo ministro signor Freyre, e di pubblicarlo
per gloria mia nella città e nella Corte. Vi prego d’imitarmi in Lisbona, e di render
testimonianza de’ grati miei ossequiosissimi sentimenti; se per vostro mezzo potessero mai
giungere sino al trono, io ve ne sarò tenuto come d’un singolar beneficio» in Metastasio, Tutte
le opere, a cura di B. Brunelli, vol. III, Mondadori, Milano, 1951, p. 957.
4
Recita infatti la suddetta missiva: «Nicolò Porpora al re Giuseppe di Portogallo – 1754 –
Sacra Real Maestà quando fra gli applausi dell’Europa tutta sentesi aperto nella reggia di
Lisbona un illustre asilo per le belle arti, è debito di qualunque non infelice seguace di quelle
l’offerir qualche tributo alla benefica mano che le raccoglie, che le onora, che le fomenta. Io,
non affatto incognito cultore della meno austera delle medesime, soddisfo a questo dovere
deponendo a piè del trono della Sacra Real Maestà Vostra in atto del più sommesso e
profondo rispetto queste poche mie sonate di cembalo al pubblico ancora ignote: nelle quali,
quando si desideri ogni altro pregio, troverassi almeno quello d’una certa maturità ch’è il più
tardo frutto dell’esperienza e degli anni. Fra tante e tante mie fatiche sarà la presente quella di
cui andrò più che d’ogni altra superbo se, giungendo a meritarmi un solo de’ clementissimi
reali sguardi, giustificherà l’ambizione che mi stimola a professarmi della Sacra Real Maestà
Vostra l’umilissimo servo N. P.» in Metastasio, op. cit., vol. V, p. 747.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
23
accenna infatti ad un errore nel pagamento di un’opera ordinatagli dal
Portogallo, avendo ricevuto cento scudi in più rispetto alla fattura da
lui stesso emessa. L’errore, dovuto a svista del commediografo, si
risolverà con la riscrittura della ricevuta contenente una somma di
pagamento maggiorata esattamente di cento scudi5. Si tratta, in ogni
caso, di un rapporto intavolato molto probabilmente all’inizio dello
stesso anno, come si ricava da una lettera spedita da Parigi allo stesso
Coutinho presumibilmente nel febbraio 1765:
Eccellenza
Una caduta che ho fatto l’ultimo giorno dell’anno, con qualche ammaccatura,
mi ha impedito di poter esser in persona da V.E., per aver l’onore di
presentarle l’ossequio mio ed assegurarle un anno felice. Spero di poter
adempire in breve questo mio dovere, e frattanto ringraziandola umilmente
della lettera di Lisbona che ha avuto la bontà d’inviarmi, mi prendo l’ardire
di supplicarla di trasmettere l’inclusa risposta. La mando aperta a V.E.
supplicandola di leggerla e farla poi sigillare. Ella sentirà di che si tratta, e
sentirà altresì ch’io ho dimandato il mio congedo per Pasqua prossima, e che
finalmente l’ho ottenuto dai gentiluomini della Camera. Sono con profondo
ossequio di V.E. umiliss.mo devot.mo oblig.mo servitore6.
L’analisi che qui si tenta, primo abbozzo di un’illustrazione propedeutica ad indagini sicuramente più esaustive che anche noi
auspichiamo si realizzino con profitto, tiene necessariamente conto della
produzione editoriale relativa e del lavoro incessante delle oficinas
livrárias portoghesi, botteghe artigiane che nel XVIII secolo si occupavano
non solo della stampa, della rilegatura e della vendita diretta di libri, ma
5
Ecco il testo integrale della lettera: «A don Vicente de Sousa Coutinho. 24 settembre
1765. Ieri solamente ho aperto il sacco che V.E. mi ha fatto l’onor di mandarmi, e ci ho
trovato dentro cento scudi di più di quello io credeva ci fosse. Il mio inganno è derivato
dall’aver veduto accanto allo spago del sacco un bullettino con questa marca 1200 scudi.
L’inganno è stato per me piacevole, ma mi è dispiaciuto aver dato a V.E. una ricevuta di 1200
scudi e non di 1300, onde correggo il fallo e Le mando ora la ricevuta a dovere. Nello stesso
tempo Le invio lettera per il Sr. Fransi con dentro tutto quello che mi domandano, e mi è
riuscito di far in un solo foglio una fattura che meritava di copiare, e di rimandar tutta l’opera.
Invio tutto ciò prestamente, perché mi hanno fatto premura, affine di poter essi mandar
l’opera sarciata a chi deve metterla in musica. Spero che posterdì avrò l’onore d’inchinarla a
Versaglia, o a Parigi, o a Fontanablò. Frattanto ho l’onore di protestarmi ossequiosamente di
V. Ex.a humiliss.mo devotis.mo obligat.mo servitore» in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a
cura di G. Ortolani, vol. XIV, Mondadori, Milano, 1956, p. 351.
6
Ivi, pp. 329-330.
Capitolo I
24
anche della copiatura, e sovente della traduzione, dei testi in lingua
straniera7. Queste officine divennero dunque fulcro di una concezione
della divulgazione culturale e letteraria che permetterà alla nostrana
letteratura teatrale (e non) di penetrare in modo duraturo nel tessuto
sociale portoghese. Un fermento reso possibile anche grazie al
potenziamento di tutte le attività artigiane affermatosi proprio in quegli
anni. Basti ricordare che già a partire dal regno di D. João I (1385-1433)
vennero nominati ventiquattro rappresentanti artigiani, due per ogni
mestiere, con il ruolo di rappresentanti stabili del Comune di Lisbona. La
partecipazione di tali delegati al governo della città comportò, negli anni,
attivi ed effettivi interventi ed una presenza importante grazie alla quale
gli artigiani arrivarono a disporre, nel 1492, di una sede propria,
l’Hospital Real de Todos-os-Santos di Lisbona, meglio nota come “Casa
dei Ventiquattro”. La loro autorevolezza venne presa in tale
considerazione che dal 1499 al 1506 e poi dal 1598 al 1639 tali portavoce
passarono da semplici delegati delle congregazioni artigiane a
rappresentanti del popolo tout court.
Cifra della rilevanza assunta dalle officine librarie dell’epoca e
dell’attenzione dei censori nei confronti di ogni minima pubblicazione
uscisse dai loro torchi è un documento emesso dalla “Casa do
Despacho da Santa Inquisição” nel 1766, in cui editori di Metastasio e
di Goldoni come Francisco Borges de Sousa (O mais heroico segredo
ou Artaxerxes, 1764; Opera Nova Vencer-se he maior valor, 1764;
Mais vale amor do que hum reyno ou Demofonte em Tracia, 1783;
Dido desemparada, destruição de Cartago, 1790; Vencer-se he maior
valor ou Alexandre na India, 1792; A dama dos encantos, 1788; A
esposa persiana, 1792; O mentirozo por teima, s.d.), Manuel Coelho
Amado (Themistocles, 1775), e António Rodrigues Galhardo (O
cavaleiro de bom gosto, 1770), poi registrati nel 1767 come titolari di
oficinas de prelo a Lisbona, vengono citati insieme ad altri dodici
tipografi per vietare loro di intraprendere qualsiasi altra attività, sotto
pena di pesanti ammende pecuniarie e detentive, qualora risultassero
privi delle necessarie licenze di stampa. L’atto è custodito negli
7
Cfr. Fernando Guedes, Os livreiros em Portugal e as suas associações desde o século X
até aos nossos dias, Editorial Verbo, Lisboa , 1993, p. 13.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
25
Archivi della Torre do Tombo e ne riportiamo qui di seguito uno
stralcio da una pubblicazione del 1987 di Fernando Guedes:
Termo que assignão os Impressores para não imprimirem nem consentirem
nas suas officinas se imprima papel de qualidade algua pena de hu mes de
prizão irremissivel e cem mil reis de condenação pagos da cadea.
Aos trinta dias do mes de Dezembro de mil settecentos sessenta e seis annos
em Lisboa nos Estaos e Casa do Despacho da Santa Inquizição estando ahy
na audiencia de manhã os Senhores Inquizidores mandarão vir perante sy os
Impressores abacho assignados moradores nesta Cidade de Lisboa, e sendo
prezentes lhes foy ditto que por constar no Santo Offiçio não serem bastantes
todas as providencias que se tem dado para evittar as furtivas impressoens de
papeis que se dão ao prello sem as perçizas licenças assentou o Conselho
Geral e ordenou que todo o Impressor ou Compozitor que fosse
comprehendido na culpa de imprimir ou consentir que na sua officina se
imprima papel algu de qualquer qualidade que seja sem as licenças
neçessarias tenha a pena de um mes de prizão irremissivel e cem mil reis de
condenação pagos da cadea e para que esta rezolução chegue a noticia de
todos, nenhum possa della allegar ignorançia são chamados a esta Meza os
donos e Administradores de todas as officinas de prello desta Corte, aonde
para constar a todo o tempo que ficão sabedores da ditta rezolução do
Conselho Geral lhe he lida esta noteficação, que sendo por cada hum ouvida
e entendida todos assignarão, de que fis este termo de mandado dos Senhores
Inquizidores. Estevão Luis de Mendonça o escrevy.
(Seguem-se as assinaturas:)
Miguel Rodrigues
António Rodrigues Galhardo
Manoel Pereira da Silva
Thomás de Aquino Bulhoens
Francisco Borges de Sousa
Joaquim Joze Florêncio Gonçalves
Filipe Jozé Leão
Miguel Manescal da Costa
Francisco Rodrigues da Silva
Caetano Ferreira da Costa
João Bauptista
Luiz de Sousa Halva
Joseph António da Silva
Manuel Coelho Amado
João António da Costa8
8
Cfr. Fernando Guedes, O livro e a leitura em Portugal. Subsídios para a sua história,
séculos XVIII e XIX, Editorial Verbo, Lisboa, 1987, pp. 281-282.
Capitolo I
26
Ma uno degli stampatori più noti all’epoca e di cui esistono notizie più
precise è Francisco Luís Ameno, della cui esistenza apprendiamo
ulteriori dettagli da un testo del 1967 di Ângela Maria Barcelo da
Gama9. Originario di Trás-os-Montes, dove nacque nel 1713, Ameno,
dopo avere abbandonato il corso di Diritto Canonico dell’Università di
Coimbra, si trasferì a Lisbona nel 1727, lavorando come insegnante di
lettere e di grammatica latina ed aprendo, dal 1745 al 1747,
un’officina libraria (tipografia e commercio di libri) all’inizio di Rua
das Gávias, accanto alla Chiesa di Loreto, meglio nota come Chiesa
degli Italiani. Nel 1748 si trasferisce in Rua da Atalaia, vicino alla
travessa Dos Fiéis de Deus, mentre dopo il terremoto del 1755, e con
il nome di Tipografia Patriarcal, troviamo la sua attività in Rua da
Procissão e in Rua do Jasmin. Considerato uno dei migliori tipografi
di Lisbona, come ci testimonia anche Francisco Bernardo de Lima
nella «Gazeta Literaria» del novembre 1761 («bem conhecido no reino
pela elegancia da sua Tipografia»)10, Ameno svolse anche attività di
traduttore, avvalendosi dell’uso di vari pseudonimi (Fernando Lucas
Alvim, Luca Moniz Cerafino e Nicolau Siom). Tra l’altro, sempre
nella suddetta pubblicazione periodica, ma relativa al mese di luglio,
troviamo traccia del suo grado di conoscenza delle lettere italiane:
Imitão-se, e às vezes igualão-se os Vidas, os Tassos, e os Guarinis, e
desprezão-se os ingegnosos corruptores da Poesia italiana. Podemos contar
entre os muitos, que nos nossos tempos a illustrão não só Maffei, e
Metastasio, mas também Algarotti, Frugoni, Bettinelli, Caprailla, Triveri,
Scarselli, a Senhora Gozzi conhecida pelas suas Tragedias, e as Damas
Agnesi em Milam, Bassi em Bolonha, e Andighelli em Napoles11.
Ameno cessò l’esercizio probabilmente nel 1793, ma la sua attività
di editore e traduttore viene citata in un altro periodico portoghese, la
«Gazeta de Lisboa» che fu pubblicata dal 1715 al 1820, e nella quale i
riferimenti ai testi editati da Ameno compaiono con una certa
9
Cfr. Ângela Maria Barcelo da Gama, Impressos, editores e livreiros em Lisboa no séc.
IBL, Coimbra, 1967, pp. 14-15.
10
Francisco Bernardo de Lima, Gazeta Literaria ou Notícia exacta dos principaes
escriptos, que modernamente se vão publicando na Europa, Porto, Novembro de 1761, p.
281.
11
Ivi, p. 37.
XVIII,
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
27
frequenza, sebbene riferiti il più delle volte ad opere diverse dal
teatro12.
Un’altra fonte da cui attingere per lo studio sull’afflusso di opere
nostrane in Portogallo è costituita dai cataloghi di libri presenti nelle
officine librarie di Lisbona e riguardanti un arco di anni ben
determinato (1771-1777), indubbiamente indice e spia effettiva di
quali testi, e in quali quantità, è possibile annoverare nel computo
delle opere fondanti il gusto italianizzante in Portogallo. Tali elenchi
vennero pensati come listino degli esemplari posseduti in una data
stamperia e di conseguenza esposti o fatti circolare tra il pubblico di
possibili acquirenti. Nel Catalogo de Livros del gennaio 1771
relativo alla Stamperia Regia di Lisbona amministrata da Francisco
de Paula da Arrabida, oltre agli autori italiani più famosi come
Dante, Boccaccio o Ariosto13, notiamo nella sezione intitolata Poetae
12
Francisco Luís Ameno appare sulla «Gazeta de Lisboa» in almeno quattro occasioni:
«Em casa de Francisco Luís Ameno, na entrada da rua das Gaveas, da parte onde mora o
Illustrissimo e Excelentissimo Senhor Marquez da Marialva, se achará os livros e papeis
seguintes: A apologia a favor do padre António Vieira contra a Arte de Furtar; Serman de N.
Senhora das Maravilhas, pregado na Sé de Bahia, com a ocasião do desacato feito a Imagem
da mesma Senhora, pelo R. P. António de Sá da Companhia de Jesus» (16 de Novembro de
1745, p.248); «Em casa de Francisco Luiz Ameno, na entrada da rua das Gaveas da parte do
Loreto, e na loja de Bento Soares no adro de S. Domingos, se achará um papel intitulado:
Vieira Defendido, em que se refutam os fundamentos, com que em uma Dissertação, que há
pouco se publicou, se pertendia mostrar, que o livro Arte de furtar era obra do padre António
Vieira da Companhia de Jesus e se corroboram os da Carta Apologetica, em que se prova o
contrário» (25 de Outubro de 1746, p. 256); «O Diálogo Apologetico, que com o título de
Vieira Defendido mostra que não é este venerado Padre o Author do livro que se imprimiu
com o título Arte de furtar. Vende-se em casa de Francisco Luiz Ameno, morador à entrada
da rua das Gavias, da Banda da Igreja do Loreto e na loja de Bento Soares no adro de S.
Domingos» (28 de Fevereiro de 1747, pp. 257-258); «Saiu impresso um livro intitulado: Voz
Sagrada, Política, Rhetorica, e Métrica, ou Suplemento às vozes saudosas da eloquência, do
espírito, do zêlo, e eminente sabedoria do P. António Vieira. Vende-se na oficina de Francisco Luiz Ameno na rua da Atalaya, junto à travessa dos Fieis de Deus» (12 de Novembro de
1748, p. 270).
13
Per completezza d’informazione, riportiamo qui di seguito gli autori italiani, non
specificamente legati al teatro del Settecento, presenti nel citato catalogo: Luigi Alamanni,
Francesco Algarotti, Lodovico Ariosto, Giuseppe Averani, Pietro Bembo, Ercole Bentivoglio,
Giuseppe Berneri, Francesco Berni, Bartolomeo Beverini, Giovanni Boccaccio, Guidubaldo
Bonarelli, Jacopo Bonfadio, Scipione Caetano, Tommaso Campailla, Annibale Caro, Barone
Caracciolo, Niccolò Carteromaco, Giovanni della Casa, Ludovico Castelvetro, baldessar
Castiglione, Ansaldo Cebà, Celio Magno e Orsato Giustiniano, Cesellio Filomastige,
Gabriello Chiabrera, Stefano Colonna, Angelo di Costanzo, Giuseppe Antonio Costantini,
Giovanni Mario Crescimbeni, Dante Alighieri, Ludovico Dolce, Girolamo Fracastoro,
28
Capitolo I
recentiores & Epistolographi varium linguarum, la presenza significativa di autori minori del nostro teatro settecentesco, come Pietro Chiari (di cui è presente l’edizione veneziana delle Commedie in
versi del 1756, quella bolognese del 1759, una seconda edizione
veneziana del 1763, oltre a quattro tragedie in versi edite a Veneza
nel 1755), Scipione Maffei (Il suo Teatro, cioè la Tragedia, la
Commedia, e il Dramma, non più stampato, aggiunta la spiegazione
d’alcune antichità pertinenti al Teatro, Verona, 1731), testi teorici
come il Della ragion poetica, e della tragedia del Gravina (Venezia,
1731), le Poesie Drammatiche di Apostolo Zeno (Venezia, 1744, in
dieci tomi), e un’opera stampata a Venezia nel 1746 e in tre volumi
dal titolo Teatro Italiano o sia scielta di Tragedia per uso della
scena, etc. premessa un’Istoria del Teatro, e difesa di esso. Ma
soprattutto, un dato che si rileva con maggiore attenzione, quattro
opere di Metastasio (Poesie, Opere Drammatiche, e altre date in
luce dal Calzabigi, Parigi, 1755, 9 voll.; Poesie, giusta le correzioni
fatte dall’Autore nell’edizione di Parigi coll’aggiunta della Nitteti, e
del Sogno, Torino, 1757, 10 voll.; Opere Drammatiche, Napoli,
1757, 6 voll.; Tragedies, Opera, traduites en François, Vienne,
1751, 12 voll.) e cinque testi di Goldoni (Commedie, nuova edizione
corretta dall’Autore, di Commedie non più stampate arricchita, di
rami esprimenti il carattere della Commedia adornata, fino al
presente sono pubblicati tom. X con più tom. 2 di Componimenti
diversi, Venezia, 1757, 10 tomi; Commedie, Venezia, 1753, 8 voll.;
Nuovo Teatro Comico, Venezia, 1757, 10 tomi; Commedie Scielte,
Venezia; Nuovo Teatro Comico, Venezia, 1757, 6 voll.). Il dato
sicuramente più evidente è la presenza di tali opere esclusivamente,
o quasi, in lingua italiana, il che lascia presupporre una conoscenza
Girolamo Gigli, Cinthio Giraldi, Antonio Francesco Grazzini, Giovan Battista Guarini,
Lauriso Tragiense, Cavalier Marino, Jacopo Mazzoni, Metoneo Pietro Aretino, Francesco
Petrarca, Angelo Poliziano, Luigi Pulci, Francesco Saverio Quadrio, Gregorio Redi,
Francesco Redi, Giovan Battista Ricchieri, Onorato Gentile Ricci, Paolo Rolli, Giulio
Sabbatini, Jacopo Sannazzaro, Margherita Sarocchi, Sforza d’Oddia, Vincenzo Sgrilli, Luigi
Tansillo, Bernardo Tasso, Torquato Tasso, Alessandro Tassoni, Ginnesio Vaccalerio, Varano,
Giovanni Zappi, Perlone Zipoli, Geronimo Zoppio.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
29
della medesima lingua piuttosto diffusa, almeno tra gli ambienti
colti. Fu infatti lo stesso Luís António Verney a sollecitare nel 1746
lo studio di italiano e francese quali lingue dell’Europa colta e
illuminista14. Nel catalogo della medesima stamperia riferito all’anno
successivo (1772), oltre ad un’altra edizione veneziana del 1758
delle Commedie in prosa del Chiari, Goldoni è presente con altre tre
edizioni: Teatro Comico, o siano le sue prime cinquanta Commedie,
Pesaro, 1753, 10 tomi; Nuovo Teatro Comico, che contiene quaranta
commedie, Bologna, 1757-1764, 10 tomi; Continuazione del Nuovo
Teatro Comico, Bologna, 1762, tomo I. Più interessante è il catalogo
che la stamperia pubblica nel 1777 sotto l’amministrazione di
Francisco Tavares Nogueira, sia perché comprende una sezione
interamente dedicata a testi greci e latini tradotti in italiano15, di cui
vengono riportati i nominativi dei traduttori (prassi completamente
ignorata dai traduttori portoghesi di Metastasio e di Goldoni), sia per
la quantità di autori italiani (se ne contano ben 120) elencati in
un’apposita sezione dedicata a Poeti, Romanzi, Dizzionari,
Grammatiche, &c. Italiani, la quale comprende anche traduzioni
italiane di opere straniere (Milton, Moliere, Ossian, Racine,
Cervantes)16, oltre ai cosiddetti minori del teatro italiano: ancora il
Chiari (Commedia da Camera, o sia Dialoghi Familiari, Venezia,
1770; Il Poeta, o sia Avventure di Oliviero de Vega Poeta Spagnolo,
Venezia, 1757; La ballerina onorata, Venezia, 1757; La Francese in
14
Si veda il Verdadeiro Método de Estudar, ed. org. pelo Prof. António Salgado Júnior,
vol. 1, Estudos Linguísticos, Lisboa, Sá da Costa Editora, 1949, alla pagina 274: «quem hoje
quer ter muitas notícias boas com facilidade, deve entender Francês e Italiano».
15
Tra questi Anacreonte, Eschilo, Falaride, Eliodoro, Luciano, Lucrezio, Marco Aurelio,
Omero, Ovidio, Sofocle, Stazio, Tacito, Virgilio.
16
Nello specifico: Milton, Il Paradiso Perduto, poema inglese tradotto in verso sciolto da
Paolo Rolli con la vita del Poeta, e con le annotazioni sopra tutto il Poema di Gio. Addison,
aggiunte alcune osservazioni critiche, Parigi, 1758, 2 tomi; Moliere, Opere Teatrali tradotte
nuovamente nella Italiana favella, Modena, 1756, 4 tomi; Ossian, antico poeta celtico
trasportato dalla Prosa Inglese in verso italiano da Melch. Cesarotti, Ediz. II accresciuta,
Padova, 1772, 4 tomi; Racine, L’Ester Tragedia volgarizzata dal Card. Annib. Albani, Roma,
1720; Vita, e azioni dell’ingegnoso Cittadino D. Chisciotte della Mancia Scritta da Mich.
Cervantes Saavedra, trad. in Ital. dal Franciosini, Venezia, 1755, 2 tomi.
30
Capitolo I
Italia, Napoli, 1759; La commediante in fortuna, Napoli, 1755; La
giuocatrice di Lotti, Napoli,1758; La zingara, Memorie Egiziane,
Napoli, 1758, ma anche un testo dal titolo Commedie rappresentate
né Teatri Grimani di Venezia dall’an. 1749 di Egerindo Criptonide,
Venezia, 1758), Ottaviano Diodati (Biblioteca Teatrale Italiana
scelta, e disposta con un suo capitolo in verso per ogni Tomo per
servir di trattato completo di Drammaturgia, Lucca, 1762), le
commedie del Fagiuoli in un’edizione fiorentina del 1734, poi Il D.
Pilone, ovvero il Bacchettone falso, e la Sorellina di D. Pilone,
Commedie di Girolamo Gigli (Venezia, 1764), il Teatro tragico di
Michele Giuseppe Gorini Corio (Milano, 1745) e, infine, un Teatro
Comico Fiorentino, raccolta di Commedie antiche di Autori
Fiorentini (Firenze, 1750), che conferma ulteriormente, nella sua
minuta specificità, l’interesse del pubblico portoghese per tutto ciò
che fosse teatro, e teatro italiano in particolare. Di Goldoni venne
aggiunto solo un volume dal titolo Opere Drammatiche Giocose,
edito a Venezia nel 1770. Altri due librai, stampatori ed editori di
origine francese molto noti nel XVIII secolo, Giovanni Batista
Reycend e Francisco Rolland, elaborarono propri cataloghi dai quali
è possibile ricavare ulteriori notizie sulla consistenza effettiva degli
autori italiani a Lisbona. Il primo aveva messo in vendita nel 1772
presso la libreria situata in Largo do Calhariz (na Esquina da Bica
Grande) oltre ad una Merope con varie lezioni del Maffei datata
1763, l’edizione torinese in dieci volumi e quella veneziana in sette
delle Opere del Metastasio, così come L’amore artigiano del
Goldoni (edizione 1762). A sua volta, il Rolland dispone nel 1773
dell’edizione bolognese (1762) delle commedie goldoniane, nel 1774
dichiara di essere in possesso del Nuovo Teatro Comico pubblicato
nel 1768, e nel 1777 (fig. 1) arriva a disporre di una fornita sezione
di Livros Italianos (49 voci), tra cui spiccano ancora le commedie
del Chiari e di Goldoni, ma anche un testo sui Teatri moderni
contrarj alla professione cristiana, libri due del P. Concina, in
conferma delle sue dissertazioni de spectaculis Theatralibus, Roma,
1755.
Tracce sicure dell’ingresso di opere italiane appartenenti al genere
teatrale, ma non solo, emergono inoltre da alcuni documenti di
carattere amministrativo legati all’ambito degli atti doganali,
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
Figura 1. (BN, B. 954//5 P).
31
Capitolo I
32
custoditi presso l’Archivio Nazionale della Torre do Tombo e
piuttosto rilevanti per l’analisi della richiesta effettiva di privati o
addetti al settore librario. Innanzitutto, un documento datato 12
settembre 1796, in cui tale Bernardo André Durante dichiara di aver
ricevuto da Venezia “um caixotinho de livros” contenente, tra gli
altri, 43 volumi in ottavo e privi di stampe delle commedie e delle
memorie di Goldoni (fig. 2). In secondo luogo, una relazione del
primo settembre 1815 (e tale data dimostra che l’influenza italiana
continuerà fino ai primi decenni dell’Ottocento) riguardante alcuni
libri che vedova Bertrand e figli (una delle famiglie di librai
portoghesi più note) «tem na Alfândega desta cidade vindos de
Itália17 e que pertendem despachar», per un totale di 14 titoli, tra i
quali segnaliamo, al punto otto, le commedie di Goldoni in ottavo
(fig. 3). Una portaria del 26 ottobre 1816 registra, inoltre, l’arrivo di
“quatro fardos vindos de Génova” indirizzati ai mercanti Borel e
figli, nello specifico 91 titoli tra i quali 18 volumi dell’Opera del
Metastasio (fig. 4). In più, tra i documenti dell’Archivio Nazionale
inerenti ai processi istituiti contro i librai e a riprova della portata del
fenomeno teatrale italianizzante (sebbene dal punto di vista della sua
proibizione), riteniamo particolarmente interessante un atto (fig. 5)
relativo a commedie e intermezzi rappresentati presso il Teatro do
Corpo da Guarda di Porto18 dal 24 aprile all’11 dicembre del 1778,
firmato dal direttore del medesimo teatro, Fellippo Boselli. Esclusi
gli autori anonimi (per un totale di 5 voci su 21) e tre opere di autori
portoghesi (tra l’altro opere ispirate al teatro italiano quali l’Adriano em
17
Precisamente da Genova, come si evince dalla dichiarazione introduttiva: «Dizem
Viuva Bertrand e Filhos que tem na Alfândega desta Cidade, vindo de Génova hum fardo com
os livros mencionados na relação junta, que pertendem despachar e como precisam de
licença».
18
Dell’importanza del Teatro di Porto, per quanto riguarda le rappresentazioni italiane e
italianizzanti, ci parla José da Costa Miranda quando afferma: «no curto período que medeia
os meses de Setembro e Novembro de 1774 localizam-se, relacionado com a cidade de Porto,
nada menos de cinco requerimentos com pedidos de licença para serem levadas à cena cinco
versões portuguesas, diferentes, de outras tantas comédias de Goldoni. Medida eloquente de
crença que empresários e actores confeririam aos textos do autor veneziano e da larga
aceitação que lhes seria tributada pelo público.» in José da Costa Miranda, Estudos LusoItalianos, Lisboa, Icalp, 1990, p. 262.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
Figura 2. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143).
33
34
Capitolo I
Figura 3. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
Figura 4. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143).
35
36
Capitolo I
Figura 5. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 177).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
37
Siria, Adolonimo em Sidonia e il Precipicio de Faetonte di António
José da Silva), le restanti opere sono tutte di Goldoni e del Metastasio
(12 su 21)19, oltre ad un Tamorlão na Persia di Apostolo Zeno. Il
processo relativo fu istituito con tutta probabilità su volere di D. Maria
I, come emerge da un precedente documento manoscritto del 20
novembre 1778 (fig. 6), nel quale la regina esigeva l’intervento della
censura in questi termini:
Dona Maria por Graça de Deos Raynha de Portugal e dos Algarves, daquem,
e dalem mar, em Africa Senhora de Guiné &c Mando a vos Juiz do Crime da
Cidade do Porto, que vos informeis com a maior indagação, segredo, e
cautella, se o Impressario do theatro dessa Cidade tem posto em Scena
algumas Pessas de Theatro, por minimas que sejam, sem que estas tenham
obtido a aprovação desta Real Meza Censoria, para se poderem representar, e
de tudo, que achareis me darei conta na mesma Meza, cumpri-o assim A
RAYNHA Nossa Senhora o Mandou pelo Deputados da Real Meza Censoria
abaixo Assignados.
Infine, dalle raccolte della Biblioteca da Ajuda è emerso un altro
documento che ci permette di sottolineare con sempre maggiore
sicurezza la situazione di accoglimento privilegiato di cui godeva il
nostro teatro settecentesco in terra lusitana, illuminando con intensità
sempre più grande il nostro cammino verso il fermo e preciso
delineamento della tesi sull’influenza preponderante e schiacciante
della drammaturgia italiana su tutte le altre suggestioni esterne. Si
tratta di un resoconto spese siglato Genova 27 ottobre 1766 (fig. 7) e
attestante l’invio da parte di Antonio Zucchi di Milano a D. Pedro
José da Silva Botelho, direttore dei Teatri Regi, di otto abiti teatrali
destinati alla rappresentazione dell’Enea nel Lazio (non sappiamo se
dello Jommelli, di Goldoni o di Pietro Chiari), che giunsero, i primi
sei, con la Nave Maria capitanata dal danese Pietro Schmerkell, e le
due vesti per Venere e Vulcano con l’imbarcazione Principe di
Brunsvich, per un costo totale di oltre tre mila zecchini. È,
19
Si tratta, per Metastasio, di A esposa persiana, Dido desamparada, A Olimpiade,
Demofoonte em Tracia, e per Goldoni di O Amor da Pátria, Os Amantes zelosos, O amante
militar, O mentiroso, O criado de dois amos, O convidado de pedra, A Peruviana, A família
do antiquario.
38
Capitolo I
Figura 6 . (IANTT, Real Mesa Censória caixa 177).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
Figura 7. (BA, 52-XIV-35 N. 79).
39
Capitolo I
40
certo, una piccolissima spia di quanto sostenuto più sopra, ma è
comunque documento probatorio sia dell’assiduità dei contatti
commerciali tra Italia e Portogallo in materia di rappresentazioni
teatrali, sia dei fitti scambi epistolari tra il direttore dei Teatri Regi e i
consoli portoghesi a Genova, che si preoccupavano quindi di inviare
in madrepatria non solo cantanti, ballerini, musicisti e partiture,
«como também guarda-roupas e adereços, instrumentos, papel de
música e até as mechas para as velas que iluminavam o teatro, porque
as que eram importadas do Maranhão produziam demiasiado fumo»20.
Sotto il regno D. João V (1707-1742)21 si assiste dunque al periodo
di maggiore splendore dell’influenza teatrale italiana, come dimostra
la costruzione voluta dal re del famoso Pátio das Comédias ubicato
all’inizio dell’odierna Rua Augusta, in piena baixa lisboeta, il ritrovo
teatrale più frequentato dell’epoca e sicuramente di grande affluenza
fino al 1735. Il suo impegno conobbe tuttavia fasi alterne, a causa
dell’acuirsi del rigore inquisitoriale che cercava di «cobrir todos os
campos da vida social e não [fazia] excepções em matéria de denúncia
ou de suspeição»22 e poiché, dopo il 1742 (anno in cui D. João V venne
colpito da emiplegia), per volere della devotissima moglie Marianna
d’Austria, vennero proibite tutte le rappresentazioni teatrali ed ogni
spettacolo pubblico o di corte. Si riprenderà a pieno ritmo solo durante
il regno di D. José I, «o timorato Jozé, que unicamente ocupou os seos
dias em cassar aos veados nas Mattas de Salvaterra, e em ouvir novos
Muzicos, e fazer reprezentar Operas»23.
20
Manuel Carlos de Brito, Estudos de história da música em Portugal; Lisboa, Editorial
Estampa, 1989, p. 115.
21
La figura di questo re magnanimo e dissoluto susciterà un vivace interesse anche in
anni successivi alla sua morte, quale simbolo di sperpero delle ricchezze del Regno. Così
infatti ce lo descrive un anonimo viaggiatore francese: «Dizem huns dos Portuguezes, que foi
este hum Grande Rey, hum Tito, hum Trajano, outros pelo contrario dizem, que foi hum
homem indigno do sceptro, pelo mal uzo que d’elle fez. […] o dinheiro, que mais util e
justamente devia circular nos Povos, e nas Providencias de Portugal, vem unicamente servir
ao luxo, e à embriaguez de Muzicos e Cantores Italianos e Portuguezes, gente vil, e de
nenhum proveito» in Cartas de hum Viajante Francez, a hum seu Amigo rezidente em Pariz,
sobre o caracter e estado presente de Portugal, traduzida da Lingoa Franceza na Portugueza
Por hum Portuguez assistente em Pariz, Pariz 1784, pp. 91-93.
22
Joaquim Veríssimo Serrão, História de Portugal, vol. V, A Restauração e a Monarquia
Absoluta (1640-1750), Editorial Verbo, Lisboa, 1980, p. 368.
23
Cartas de hum Viajante Francez, op. cit., p. 100.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
41
Il rinnovamento di quest’ultimo periodo fu indubbiamente
agevolato dall’accorpamento, avvenuto nel 1767, dei tre gradi di
censura ― Inquisizione del Sant’Uffizio, Tribunali Ordinari e
Desembargo do Paço (Suprema Corte di Giustizia) ― in un’unica
istituzione denominata Real Mesa Censória, competente
prevalentemente nella censura dei libri. Prima della Mesa Censória
esistevano dunque tre gradi di censura e solo quando tutti e tre questi
gradi avessero espresso giudizi unanimi, il testo sottoposto ad esame
avrebbe potuto o meno disporre della licenza necessaria alla sua libera
circolazione. L’apparato censorio che precedette la creazione della
Mesa Censória si avvaleva comunque della giurisprudenza relativa al
Regimento do Santo Officio da Inquisição dos Reynos de Portugal
risalente al 1640 che, in merito al delitto di detenzione di libri
«hereges ou de alguma impia ceita»24, imponeva chiaramente, oltre
24
Si tratta del Título XIX del Livro III del medesimo Regimento, intitolato Dos quem lem,
& retem livros de hereges, ou de alguma impia ceita, i cui cinque articoli così recitano: «1.
Toda a pessoa de qualquer estado, qualidade, & condição, que seja, que contra a prohibição da
Bulla da Cea do Senhor, & dos Editaes da Fé, que o S. Officio manda publicar, de proposito
ler, & reter livros hereticos, na forma, que está declarado no Catálogo Romano, & no deste
Reyno, alem de encorrer nas censuras posta pela Bulla da Cea do Senhor, & Breves
Apostolicos, & pelos sobreditos Editaes, será havida por suspeita na Fé, & condenada a fazer
abjuração de leve; salvo se da qualidade dos livros, & da pessoa, & mais circunstancias do
delicto, ouvesse tão vehemente suspeita de heresia, que pareça aos Inquisidores, que deve
haver mayor abjuração; & terá as mais penas, que elles arbitrarem, & tudo isto haverá lugar,
ou os livros sejam impressos, ou escritos de mão. 2. E se os livros hereticos forem de
proposito compostos pela mesma pessoa, em cujo poder forem achados, & for como autor
deles, não dando cauza, & defeza legitima, que o escuze, se procederá contra ele na forma de
direito, como contra herege; conforme ao que fica declarado no tit. 2 deste livro, pela grande
presupção, que contra ele rezulta. E da mesma maneira será reputado por Autor do livro,
aquelle, que retever livro de mão heretico, sem nome de autor, & não der, nem mostrar donde
lhe veyo. 3. A pessoa, que trouxer, ou mandar trazer a terra de catolicos livros hereticos, ou de
arte magica, sortilegios, & feitiçaria, alem, de encorrer nas penas de excomunhão, como
fautor de hereges, na forma do Breve de Clemente VIII, perderá os taes livros, & será
condenada em pena pecuniaria, & outras arbitrarias, que parecer aos Inquisidores, conforme à
qualidade da pessoa, & graveza da culpa; & as mesmas penas terão os que trouxerem, ou
mandarem trazer livros de Astrologia judiciaria, na forma das constituições de Sixto V &
Urbano VIII. 4. Qualquer herege, Iudeu, ou infiel, que vivendo em terra de Catholicos
divulgar nella algũs tratados de seus hereziarchas, ou o Talmud dos Iudeus, ou o Alcorão dos
Mouros, ou outros semelhantes, será condenado em perdimento de todos os livros, & nas mais
penas arbitrarias commensuradas a sua culpa. 5. Os Impressores, que sem approvação, &
licença do S. Officio imprimirem algũ livro, ou qualquer outra escritura, alem de encorrerem
em pena de excomunhão mayor, serão privados por hum anno do exercicio de seu officio, &
condenados em pena pecuniaria, confórme às circunstancias da culpa, & perderão os livros, &
42
Capitolo I
alle consuete pene pecuniarie, il sequestro dei suddetti volumi e la loro
messa al rogo, onde evitare ogni possibile utilizzo. In tutto ciò era
palese la dipendenza dello Stato e del re dall’apparato inquisitoriale
della Chiesa, nonostante la progressiva inefficacia di tale sistema
dovuta a un aumento delle pubblicazioni e dell’importazione di opere
che rese di fatto impossibile avere esaminatori in numero sufficiente
per assicurare una fiscalizzazione efficiente25. Dunque, con un decreto
del 5 aprile 1769, il marchese di Pombal trasferisce la censura dei libri
dal Sant’Uffizio alla Real Mesa Censória, costituita da membri di
nomina regia ma anche della gerarchia ecclesiastica e
dell’Inquisizione, abolisce l’Indice dei libri proibiti e stabilisce la
messa al rogo di molti testi approvati dai precedenti inquisitori,
soprattutto quelle opere destinate alla divulgazione di «ignorância e
supestições grosseiras, ao passo que outros, até então condenados
como perigosos para a religião e bons costumes, passaram a ser
autorizados»26. Oltre a concedere licenze di vendita, stampa, ristampa
e rilegatura di libri e fogli volanti, a partire da un decreto emesso il 10
luglio 1769, la Mesa Censória inizia a controllare l’afflusso di opere
presso le biblioteche private, arrivando essa stessa a costituire una
propria biblioteca con oltre 50.000 volumi di argomento
prevalentemente storico e letterario e corrispondenti ai testi mandati
alle stampe con l’autorizzazione della Mesa Censória, oltre alle opere
di appoggio alla valutazione censoria e ai libri provenienti dalla scuole
gesuitiche ormai estinte. La struttura di questo istituto comprendeva
fasi di giudizio ben distinte e scrupolose: un segretario esperto in
lettere aveva il compito di ricevere i libri destinati all’esame, i quali
venivano debitamente registrati e, in seguito, presentati alla
“conferenza dei libri”. A questo punto un presidente eletto dirigeva la
riunione dei “deputati” per l’analisi del contenuto dell’opera che un
determinato stampatore aveva espresso l’intenzione di pubblicare.
Questa passava poi ai singoli censori, i quali emettevano
escrituras, que assi imprimirem, os quaes serão queimados, para que se não possa uzar
delles.»
25
Maria Adelaide Salvador Marques, Pombalismo e cultura média, in “Brotéria”, n. 115
(2-4), Agosto-Outubro 1982, p. 182.
26
António José Saraiva, A Inquisição Portuguesa, Publicações Europa-América, Lisboa,
1964, p. 126.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
43
successivamente il loro parere all’assemblea dei deputati, che
comunque si riservava la decisione finale sulla bocciatura o licenza di
stampa. Il segretario aveva infine il compito di comunicare l’esito agli
stampatori richiedenti, mentre, nel frattempo, un porteiro veniva
distaccato presso la dogana della capitale portoghese con il compito di
registrare l’entrata in paese di tutti i libri provenienti dall’estero.
Come si vede, un sistema ben articolato e funzionante in ogni suo
grado, che rese praticamente impossibile la circolazione clandestina di
opere o documenti di qualsiasi genere. Ciononostante, sotto il
successivo regno di D. Maria I, esso venne completamente abolito. Su
indicazione di una bolla di papa Pio VII, la reggente crea infatti con
decreto del 21 giugno 1787 la “Commissione Generale sull’Esame e
Censura dei Libri”, il cui esecutivo era a maggiortanza ecclesiastica e
nella quale l’Inquisitore Generale (allora D. José Maria de Melo,
vescovo dell’Algarve) aveva il potere di procedere direttamente contro
chi vendesse o anche solo possedesse libri considerati proibiti. Tale
commissione ebbe comunque vita breve, estinta nel 1794 per il ritorno
al triplice apparato censorio del XVI secolo, che permarrà grosso modo
fino al 1832. Ufficialmente il 3 agosto 1833 il Desembargo do Paço
cede gran parte dei suoi compiti alla Segreteria di Stato degli Affari
del Regno27.
Con l’istituzione della Real Mesa Censória venne comunque
rovesciata la concezione che fino ad allora aveva animato la censura
inquisitoriale, passando dalla messa all’Indice dei libri proibiti di quei
testi che la Chiesa riteneva minacciosi dal punto di vista della
propagazione ed efficacia del dogma religioso, all’accettazione dei
medesimi scritti (scientifici soprattutto, ma anche filosofici e letterari)
che servivano la causa dell’Illuminismo, e alla censura delle opere di
spiccato indottrinamento catechetico. L’espulsione dal territorio
portoghese della Compagnia di Gesù (1759) è ulteriore riprova
dell’intento di rinnovamento e divulgazione della cultura messe in atto
dalla politica pombalina, sebbene il motivo di tale decisione fosse da
attribuirsi, molto più pragmaticamente, a problemi di gestione della
27
Cfr. la relazione dell’équipe della Direzione dei Servizi di Archivistica ed Inventario
della Torre do Tombo, intitolata Real Mesa Censória. Inventario preliminar, Lisboa, Março
de 1994.
Capitolo I
44
politica colonialista, e in particolare al conflitto tra gli interessi del
regno che Pombal rappresentava e l’indipendenza assoluta di cui
godevano le missioni gesuitiche presso le colonie brasiliane.
Per quanto riguarda la ricezione del nostro teatro in Portogallo, è
comunque innegabile che la proliferazione delle traduzioni
goldoniane, ad esempio, così come la messa in scena delle commedie
più celebri dell’autore veneziano, si dovesse anche alla benevolenza
suscitata dal contenuto morale di tali commedie, approvato da censori
che acconsentivano alla loro edizione portoghese in virtù di un
rispecchiamento dei tempi non sconveniente né riprovevole, tanto che,
come ci illustra uno studio di José da Costa Miranda, molte
compagnie teatrali lusitane optavano per un testo goldoniano proprio
in quanto garanzia di incensurabilità28.
È proprio in questo contesto che si inserisce il discorso sulla
corrente teatrale italianizzante, le cui conseguenze in termini di
rinnovamento ebbero effetto non solo sui repertori della drammaturgia
in generale, ma anche su innovazioni di ambito architettonico e
musicale. È un fatto noto che le corti e le dimore nobiliari, luoghi di
aggregazione aristocratica in cui le rappresentazioni teatrali
acquisivano maggiore dignità letteraria e culturale rispetto ai teatri
pubblici tra XVII e XVIII secolo furono oggetto di profonde modifiche
architettoniche volte all’ampliamento e alla costruzione di giardini,
parchi e saloni che rispecchiassero in qualche modo la grandezza e la
magnificenza delle singole famiglie, desiderose di ostentare gusto e
possedimenti. I palazzi signorili del Settecento, ampliati e abbelliti,
28
Ecco il passaggio integrale in J. Da Costa Miranda, Estudos, cit., pp. 328-329: «De
facto, o conteúdo moral que, nas comédias de Goldoni se oferecia, quer aos censores, quer ao
público em geral, ou, talvez melhor, o conteúdo moral que, nas comédias de Goldoni se
procurava encontrar, motivaria, muito favoravelmente, os censores na sua benignidade,
ultrapassando, acaso, alguns aspectos a que os mesmos censores, por força de outras suas
preocupações e incumbências, não deixariam de ser sensíveis. Mas a interpretação,
generalizada, que se criara acerca de uma permanente moralidade contida nas comédias de
Goldoni, absorvera alguns outros pormenores, e influiria, largamente, na escolha dos
repertórios das grandes como das pequenas companhias teatrais portuguesas, estáveis ou de
circunstância, que se fixaram em Lisboa ou percorreram, com certa periodicidade, mesmo se
com instável êxito, o interior do país, durante o século XVIII. Acenar logo com o nome de
Goldoni relativamente ao texto dramático depositado para exame da censura prévia, era como
que garantir-se, antecipadamente, da sua aprovação, e contar com um autor estimado que
assegurava uma regularidade de repertório».
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
45
non solo divennero luogo di incontro privilegiato per assistere alle
rappresentazioni teatrali, ma anche momento di illustrazione concreta
delle abilità artistiche degli architetti più famosi dell’epoca29.
Queste nuove esigenze di spettacolarità implicarono di
conseguenza un potenziamento degli studi musicali e un proliferare
sorprendente di nuove composizioni, incremento esemplato in maniera
particolare da un musicista italianizzante come Carlos Seixas, debitore
della produzione di Domenico Scarlatti. Anche quest’ultimo, del resto,
ebbe modo di conoscere da vicino la realtà lusitana grazie al suo
incarico in Vaticano nel 1714 su richiesta dell’ambasciatore
portoghese Manuel Pereira de Sampaio, l’uomo che, oltre a
distinguersi «pelo seu fasto e elegância, pela distribuição de ricos
presentes e pelas avultadas gorjetas à criadagem»30, nel Carnevale del
1743 prese in affitto alcuni “palchetti de’ teatri” di Capranica e
Aliberti, come ci rivela un documento rinvenuto nella Biblioteca da
Ajuda relativo al conto pagato dallo stesso ambasciatore31.
Successivamente Scarlatti fu impiegato come maestro di cappella alla
corte di Lisbona, dove rimarrà dal 1720 al 1729. Non dimentichiamo
inoltre un grande compositore come Marcos António da Fonseca,
meglio noto come Marcos Portugal, autore nel 1808 delle musiche per
il Demofoonte di Metastasio e famoso anche in Italia con il nome di
Marc’Antonio Portogallo. Il Portugal soggiornò a Napoli dal 1792 allo
scopo di apprendere e rielaborare quella musica operistica che lo
porterà alla composizione di opere serie e buffe di grande successo. La
formazione italiana fu anche alla base del genio creativo del
compositore portoghese Francisco António de Almeida, mandato da
D. João V a perfezionarsi a Roma. Qui, nel 1722, de Almeida fece
cantare un componimento sacro in italiano dal titolo Il Pentimento di
29
Uno degli architetti italiani più in voga nel Portogallo del Settecento fu il toscano
Niccolò Nasoni, di cui sappiamo che morì a Porto nel 1773 e che si trasferì in Portogallo, su
invito di D. João V, nel 1732. A lui si deve la torre e la chiesa a pianta ellittica di São Pedro
dos Clérigos, costruita tra 1732 e 1763 e il Palácio do Freixo, commissionato dal decano della
cattedrale di Porto, Jerónimo de Távora e Noronha.
30
Grande Enciclopédia Portuguesa e Brasileira,vol. XXVI, Editorial Enciclopédia
Limitada, , Lisboa – Rio de Janeiro, 1942, p. 893.
31
Il documento in questione è stato catalogato dalla Biblioteca da Ajuda con registro
numero 46-XIII-9 f. 134 e intitolato Conta paga por Manuel Pereira de Sampaio em Roma
referente aos “palchetti de teatri” para o Carnaval, nos teatros de Capranica e Aliberti 1743.
Capitolo I
46
Davide. Fu poi allievo di Giuseppe Ottavio Pitoni (1657-1743) e nel
1726 eseguì l’oratoria italiana Giuditta. Rientrato a Lisbona nel 1729,
eseguì al Paço da Ribeira il divertimento pastorale intitolato Il trionfo
d’amore, mettendo in pratica tutti gli insegnamenti appresi in Italia.
L’influenza italiana in Francisco António de Almeida emerge inoltre
da una rapida scorsa dei titoli delle sue opere, tra cui La pazienza di
Socrate (1733), La finta pazza (1735), Le virtù trionfanti (1738),
L’Ippolito (1752) e, soprattutto, La Spinalba (1739)32.
Tuttavia, per tracciare un breve excursus storico dell’avvento del
genere operistico in Portogallo, dobbiamo partire dall’esecuzione delle
serenate di corte che non prevedevano scenari o abiti complicati e
costosi, e dalla tradizione cinquecentesca dei vilancicos (canzoni
popolari eseguite durante le festività natalizie) nella loro forma sempre
più drammatizzata. Le prime basi per una differenziazione e
separazione tipologica tra teatro privato e teatro pubblico furono poste
già nel XVI secolo dai dizidores, attori di compagnie teatrali itineranti
che inizialmente si spostavano di casa in casa per rappresentare i loro
repertori, e che in seguito specializzeranno il loro intrattenimento nei
due distinti filoni delle rappresentazioni signorili e del divertimento
pubblico33. Benché nella cronologia operistica proposta da Joaquim
José Marques34 venga datata la prima rappresentazione di un’opera
italiana in Portogallo al 1720, con la Cantata Pastorale, serenata da
cantarsi nel giorno di S. Giovanni Evangelista nel Regio Palazzo di
Giovanni quinto re di Portogallo, presupponendo in seguito che tutte
le ricorrenze festive abbiano comportato il canto di serenate italiane35,
32
Cfr. Verbo. Enciclopédia Luso-Brasileira de cultura, edição século XXI, vol. 2, Editorial
Verbo, Lisboa – São Paulo, 1998, p. 137.
33
«Sabe-se por referências documentais que em casas particulares como as do Conde de
Vimioso, do Conde Redondo e de Linhares, havia representações em que as companhias
ambulantes de Comediantes, chamados também os dizidores de ditos (papéis), corriam de
domicílio em domicílio, levando a sua farsa, o seu entremez, as danças, folias e tramóias.
Estes comediantes afirmavam-se pela duplicidade das suas acções, oscilando entre a esfera
privada (representações para particulares/casa/paço) e a esfera pública (algum pátio ou adega
de feição mais popular). São eles o veículo de transição para o teatro ao ar livre, fazendo-o
descer à rua ou à praça pública» in Maria Alexandra T. Gago da Câmara, Lisboa. Espaço
teatrais setecentistas, Livros Horizonte, Lisboa, 1996, pp. 17-18.
34
Joaquim José Marques, Cronologia da ópera em Portugal, A Artistica, Lisboa, 1947.
35
Tra queste Le Ninfe del Tago, serenata fatta cantare il dì 27 dicembre 1723, nel
Palazzo di Lisbona per il nome della Sacra Real Maestà di Giovanni V, re di Portogallo
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
47
Mário de Sampaio Ribeiro, nel suo intervento al ciclo di conferenze
sulla storia del teatro portoghese tenutesi nel 1947, colloca
l’esecuzione della prima opera italiana in Portogallo addirittura nella
primavera del 1682, in occasione dell’incontro tra il re di Sardegna
Vittorio Amedeo II e la principessa D. Isabel Luísa Josefa, dei quali
era stato progettato il matrimonio. Che non si trattasse di una vera e
propria opera è testimoniato dallo stesso Sampaio Ribeiro quando
sostiene la mancanza di teatri e apparati attrezzati alla
rappresentazione di opere di tutto punto, ma che si trattasse
indubbiamente di musica italiana è innegabile, a giudicare dalle
testimonianze di scherno e di riprovazione nei confronti di tale
espressione musicale da parte del pubblico, il quale sembrò non
apprezzare realizzazioni musicali considerate «lamuria pegada ou
caramunha de criança rabugenta»36. Lo studioso continua citando O
prisioneiro afortunado di Domenico Scarlatti, cantato nel 1699, e una
Acis e Galatea del 22 ottobre 1711, entrambe rappresentati al Paço da
Ribeira con varie repliche. Per il Marques, inoltre, si tennero quattro
drammi per musica del de Almeida tra il 1733 e il 1736 (La pazienza
di Socrate, La finta Pazza, Riso di Democrito, Le virtù trionfanti). È
invece Teófilo Braga a riportare un esteso elenco di opere italiane
eseguite in Portogallo, comprendendo anche composizioni di autori
portoghesi italianizzanti rappresentate nei maggiori palcoscenici del
Settecento (Teatro da Ajuda, Ópera do Tejo, Teatro da Rua dos
Condes)37, ma anche in quelli regi di Queluz e Salvaterra38.
(1723); Dramma Pastorale, da cantarsi nel regio Palazzo il fortunato giorno 31 Marzo, in cui
annualmente si celebra l’inclita nascita della signora infanta di Spagna D. Marianna Vittoria
(1726); I sogni amorosi, serenata a sei voci, fatta cantare nel Real Palazzo di Lisbona, li 22
ottobre 1728 per gli anni felicissimi della Sacra Real Maestà di Giovanni V, re di Portogallo.
36
Mário de Sampaio Ribeiro, “Teatro da Ópera em Portugal”, in A evolução e o espírito
do teatro em Portugal, 2° ciclo (1ª série) de conferências promovido pelo “Século”, 1947,
Lisboa, 1948, p. 80.
37
Il primo venne inaugurato il 4 novembre 1739 e diretto dall’architetto italiano Jacopo
Azzolini; il secondo fu inaugurato il 31 maggio 1755 e si avvalse della collaborazione del
decoratore italiano Giovanni Carlo Bibiena, mentre, prima di lui, Giovanni Berardi si occupò
delle stampe dei libretti d’opera destinati al pubblico; in seguito il Bibiena verrà sostituito
dallo stesso Azzolini. Il Teatro da Rua dos Condes vide la presenza costante dal 1735 della
compagnia Paghetti, la quale fondò una Academia de Música in Praça da Trindade e il cui
repertorio era completamente votato all’opera italiana.
38
Il Teatro di Queluz, che fu diretto dall’architetto Ignácio de Oliveira, mandato da D.
João V a Roma per perfezionarsi presso i maestri Benedetto Letti e Paolo Mattei, era
48
Capitolo I
Decisamente importante, inoltre, l’attività svoltasi nella già citata
Ópera do Tejo, inaugurata il 2 aprile del 1755 (per altri il 31 marzo)39
con l’opera di Metastasio Alessandro nell’Indie, per la quale il
maestro di equitazione Carlos António Ferreira fece muovere sulla
scena ben 25 cavalli, grazie anche alle dimensioni spettacolari della sala
(60 metri di lunghezza per 32,40 metri di altezza, con 38 loggioni e 600
posti in platea). Le musiche originali furono commissionate a David
Perez, noto compositore napoletano giunto a Lisbona nel 1752 dietro
ingaggio di cinquantamila franchi all’anno da parte del re D. José I40 (al
quale lo stesso Teófilo Braga attribuisce il merito dello sviluppo e
dell’apprezzamento dell’opera italiana in Portogallo almeno fino al
1778)41. Alla corte di D. José, Perez fu stimato insegnante42, con una
specializzato nella rappresentazione lirica, prima di derivazione italiana, poi, su modello di
quella, di provenienza portoghese. Mário de Sampaio Ribeiro spiega che «Queluz era da Casa
do Infantado e no seu palácio também se representaram numerosas óperas (é notável que a
grande maioria delas, de autores portugueses), mas nunca lá houve um teatro propriamente
dito. Os espectáculos começaram por se realizar na “Sala de Música”, em 1761, e só em 1778,
depois de D. Maria I ser rainnha, se levantou um teatro de madeira, no lugar onde se vê hoje o
chamado palacete. No entanto as representações também se efectuaram em pavilhão adrede
armado no parque» in A evolução e o espírito do teatro em Portugal, op. cit., p. 89. Il teatro di
Salvaterra fu fondato nel 1735.
39
Cfr. Maria Alexandra T. Gago da Câmara, op. cit., p. 53.
40
«[Perez] veio para Lisboa ensinar canto às princesas, pelo que ganhava 50.000 francos
por ano» in Joaquim Veríssimo Serrão, História de Portugal, vol. VI, op. cit., p. 282.
41
Cfr. Theophilo Braga, História do Teatro Portuguez. A comédia e a ópera, século XVIII,
Imprenza Portugueza Editora, Porto, 1871, p. 360.
42
L’importanza del musicista napoletano emerge anche dall’epistolario metastasiano,
dove troviamo due lettere indirizzate al Perez, la prima, mentre il musicista si trovava a
Venezia, è datata 28 ottobre 1750 e in essa il Metastasio scrive: «si è parlato in campagna
frequentemente di voi e se ne fa in teatro spessa ed onorevole menzione, nell’andar
osservando le bellezze del vostro Vologeso, e nel declamare contro la svogliatezza di questo
paese, orami reso insensibile a tutti gli allettamenti delle belle arti» (è la lettera n. 423
dell’edizione citata di Tutte le opere di Metastasio, p. 582). La seconda, indirizzata a Lisbona
il primo ottobre 1761, è prova non solo degli stretti legami che, pur nella distanza lusitana,
esistevano tra i due autori, ma anche della consapevolezza del Metastasio della fama
raggiunta dalle sue opere in Portogallo: «Con quella discreta e comoda libertà che la vostra
compiacenza, le mie occupazioni e le impertinenze di mia salute mi concedono, eccomi,
gentilissimo signor Perez, a pagare quella specie di debito di cui mi ha caricato la vostra
parziale cortesia specialmente nell’ultima obbligatissima vostra lettera dello scorso luglio,
piena di mille da me non meritate affettuose espressioni. Una così dichiarata propensione d’un
uomo del vostro valore ha dritto di solleticar la mia vanità, alla quale noi altre cicale di
Parnaso siamo naturalmente soggette. Non ardisco di andare investigando qual sia la deità da
cui mi assicurate ch’io son riguardato con fausto aspetto. Una tale scoperta potrebbe far
degenerare in superbia la vanità, e la superbia in delirio, offritele voi per me i miei divoti
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
49
produzione musicale che, oltre a decine di lavori teatrali, comprendeva
prevalentemente composizioni sacre.
Ma la moda delle serate in musica è raccontata anche da D.
Francisco Xavier de Meneses, quarto conte di Ericeira, in alcune
pagine del suo celebre diario relative al biennio 1731–1733, dove
l’influenza teatrale italianizzante ci viene tramandata dal racconto
degli spettacoli allestiti in occasione di ricchi convivi tra nobili e
interpretati da attori e da musicisti italiani presenti fin da allora in
Portogallo. L’importanza di queste pagine per una visione più precisa
della fortuna del teatro italiano in Portogallo è espressa anche da José
da Costa Miranda quando sostiene che
para uma elucidação acerca dos primórdios da implantação, nesse século
XVIII, da ópera italiana em Lisboa, as anotações de D. Francisco Xavier de
Meneses tornar-se-iam definitivas, possibilitando acompanhar as diligências
então encaminhadas, descobrindo aspectos ou pormenores reveladores num
processo inesperadamente longo: reflexo, certamente, de uma estagnação que
deveria pesar sobre o espectáculo teatral, condenado a um flagrante
imobilismo, alimentado por condicionalismos legais.43
Risale infatti al 6 gennaio 1733 la conferma della presenza della
compagnia italiana dei Paghetti presso i salotti dell’alta società del
momento, e la descrizione del clima frivolo ed esteriore caratteristico
incensi ed i supplici voti miei per la continuazione di così alto ed inaspettato favore: voti ch’io
mando a voi con quello stesso indirizzo che si leggeva una volta sull’ara dell’Aeropago
d’Atene, cioè Ignoto Deo. L’ultima vostra lettera non trovò in Vienna il signor duca don
Giovanni di Braganza, onde non ho potuto eseguire ancora la commissione di recargli i vostri
complimenti, che saranno senza fallo graditi a proporzione della stima e dell’affetto con cui
mi ha sempre parlato della meritevolissima vostra persona. Egli è tuttavia all’armata, dove
non meno che in città, fa per consenso comune molto onore alla sua nazione. Felice voi che
sotto cotesto tiepido e ridente cielo non sentite, come già noi sentiamo, le minacce del
sollecito inverno, che va giò contrastando le sue ragioni al povero autunno con apparenze di
rimanere vincitore. Dopo trenta e più anni di soggiorno in questo clima non solo l’ostinato suo
rigore non mi divien famigliare, ma sempre mi sorprende al suo ritorno con tutte le grazie
della novità. Se il signor baron d’Ortigosa ingrassa ancora sulle sponde del Tago, non
trascurate di riverirlo ed abbracciarlo per me prendendo della sua circonferenza quanto è
permesso alla corta misura delle vostre braccia. Addio, caro signor Perez, non vi stancate di
amarmi e di credermi con esemplare ostinazione…» in Ivi, vol. IV, pp. 229-230.
43
José da Costa Miranda, D. Francisco de Meneses, As Aves Muzicas: uma silva jocoséria, documento curioso sobre os primeiros tempos da ópera em Lisboa, Separata do
“Boletim de filologia”, tomo XXIX, p. 282.
Capitolo I
50
degli incontri di un’aristocrazia che ormai faticava ad allontanare da
sé l’ombra delle nuove idee illuministiche44:
Continuam com grande aplauso e concurso as duas musicas Italianas filhas
do Paquete que se mudam para melhores casas a boa vista e também duram
os bailes e serenatas45.
Altri due resoconti (rispettivamente del 10 marzo e del 13 ottobre
1733) confermano ulteriormente la tesi circa l’atmosfera italianizzante
diffusa e assunta inizialmente come scelta di rango e sinonimo di
sensibilità raffinata al passo con le più aggiornate correnti europee.
Due annotazioni del conte di Ericeira che testimoniano non solo
l’opzione a favore della musica italiana in generale, ma anche la
mondanità di tali aristocratici convivi, in sintonia con l’individuo
portoghese del Settecento che, come ha sostenuto lo studioso di teatro
José Oliveira Barata, «exteriorizava na festa não o que de facto era
mas sim o que gostaria de ser [e que] através da “representação”
procura preencher o horror vacui»46:
A senhora Dona Ana de Moscovo convidou 40 Senhoras em Domingo 8 para
ouvirem Muzicas Italianas, e estava a casa muito alumiada com muitos, e
bons instrumentos e refresco muito abundante, durou a festa até uma hora da
noite, e no mesmo algumas Senhoras que não foram convidadas estiveram
numa quinta de Belém com musica e merenda em que entrou a Senhora
Condessa de Vila Nova e a sua família47.
44
È Teófilo Braga a spiegare il crescere vertiginoso della moda teatrale nel XVIII secolo,
nelle sue forme più spettacolari, sontuose, esteriori, in termini strettamente politici, nel
tentativo di «não deixar chegar aos ouvidos do povo o rumor da Revolução» (in Theophilo
Braga, op. cit., p. 4), da cui la sontuosità degli scenari ordinata da D. João V che, almeno in
questo modo, costruiva di sé un ideale di potenza e magnificenza, benché il tutto poi, afferma
ancora Teófilo Braga, si stemperasse in meschini intrighi dietro le quinte tra dilettanti di teatro
presuntuosi e i cosiddetti “castrati” italiani molto in voga all’epoca.
45
D. Francisco Xavier de Meneses, 4° Conde de Ericeira, Diário (1731-1733),
apresentado e anotado por Eduardo Brazão, Separata de “Biblos”, vol. XVIII, Coimbra Editora,
Coimbra, 1943, p. 129.
46
José Oliveira Barata, História do Teatro Português, Universidade Aberta, Lisboa, 1991,
pp. 208-209.
47
D. Francisco Xavier de Meneses, op. cit., p. 147.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
51
Quarta-feira principiam as serenatas das musicas Italianas de Paquete com
mais instrumentos na casa da Trindade de Rodrigo de Sousa48.
La presenza di attori francesi ed italiani in territorio portoghese era
quindi una delle conseguenze dell’inizio di una campagna di reazione
al secentismo barocco (spagnolo soprattutto) a livello culturale, prima
ancora che a livello politico. Tale dichiarazione d’intenti, latentemente
manifestata dall’assenza di attori e autori castigliani, portò a quella
che Duarte Ivo Cruz definì “mistura di ingredienti francesi ed
italiani”, impedendo quindi il risvegliarsi di un teatro originale
portoghese di ampio respiro. La tesi politica di una preferenza
francese ed italiana come reazione al centralismo della corte di Madrid
è certamente condivisibile sul piano delle strategie messe in atto sia da
D. João V, il quale rispose all’insufficienza dei palchi improvvisati di
Lisbona con la costruzione del Teatro da Ajuda come teatro lirico
stabile, sia dal marchese di Pombal, il quale permise la circolazione
dei libretti teatrali in gran numero, grazie all’attenuazione dell’attività
censoria nei confronti di testi che solo un secolo prima campagne
puritane svoltesi in molte parti d’Europa avrebbero cassato come
luogo di corruzione e deviazione delle anime. Nella sua Introdução à
História do Teatro Português, Duarte Ivo Cruz esemplifica tali
concetti illustrando la fortuna di cui godette non solo il Teatro da
Ajuda (in attività fino al 1868), ma anche il Teatro di São Carlos, dove
ebbe inizio il filone aristocratico della moda operistica, l’Academia da
Trindade (fondata nel dicembre del 1735), spazio privilegiato per la
rappresentazione di un teatro di carattere più popolare, il Teatro da
Rua dos Condes e il Teatro do Salitre49. A sostegno di tale
affermazione, interviene anche Giuseppe Carlo Rossi, il quale, in un
suo testo del 1967, sosteneva che, mentre la prima metà del Settecento
portoghese aveva utilizzato il teatro italiano solo con intenti di natura
letteraria, viceversa nella seconda parte e fino al primo Ottocento si
assiste ad un’interpretazione e ad un uso di tale teatro in chiave
psicologico–politica, ossia come strumento di cui avvalersi per
48
Ivi, p. 190.
Duarte Ivo Cruz, Introdução à História do teatro Português, Guimarães Editores,
Lisboa, 1983, pp. 89-90.
49
52
Capitolo I
propugnare la ribellione all’assolutismo di ogni sorta, politico o
religioso che fosse50.
È chiaro che il rallentamento forzato che seguì al terremoto di
Lisbona del 175551 segnò inevitabilmente una battuta d’arresto allo
svolgersi delle rappresentazioni teatrali di qualsiasi genere. Ciò che
accadde il primo novembre 1755 sconvolse a tal punto la capitale
portoghese da essere ricordato durante i secoli a venire. Il tremendo
terremoto fece allora da spartiacque tra un prima e un dopo
nell’allestimento delle rappresentazioni teatrali, tanto è vero che,
come ribadiscono studiosi quali Manuel Carlos de Brito52 o Maria
Alexandra Gago da Câmara, si assistette ad un drastico arresto delle
rappresentazioni drammatiche, riprese solo dopo il 1763. Si ebbe in
effetti la sola esecuzione di un Siroe metastasiano e di un Solimano
musicati da David Perez e rispettivamente messi in scena nel 1756
e nel 1757 al Real Teatro de Salvaterra, oltre ad un Enea in Italia
nel 1759, sempre con musiche del Perez, presso il Real Teatro da
Corte. Nonostante l’importanza e l’influenza di tale genere di
intrattenimento fosse profondamente radicata presso la società
portoghese dell’epoca, ci fu, in sostanza, un crollo drastico. Inoltre,
dopo il terremoto e fino alla costruzione del teatro nazionale di São
Carlos, che diverrà il centro diffusore della cultura operistica in
50
Cfr. Giuseppe Carlo Rossi, La letteratura italiana e le letteratura di lingua portoghese,
Società Editrice Internazionale, Torino, 1967, p. 73
51
L’eco della calamità occorsa il primo novembre 1755 è anche in una lettera del
Metastasio indirizzata a Carlo Broschi, detto il Farinello, allora a Madrid. In essa il Metastasio
esprime tutta la sua desolazione per la catastrofe, con la tipica scrittura tragico–patetica ricca
di accorate esclamazioni: «Oh quanti moti e di quanto diversa specie mi ha sollevati
nell’animo, caro gemello, l’ultima vostra gratissima lettera del 10 scorso novembre! Amore,
tenerezza, confusione, riconoscenza, terrore, ammirazione, e mille altri che si sentono ma non
si possono esprimere. Io ho provato nel mio interno tutto lo sconvolgimento della infelice
Lisbona. Che orrore! Che flagello! Che miseria! Povera umanità!» in Metastasio, op. cit., p.
1075.
52
«Com o terramoto de 1755 dá-se um hiato de uns nove anos na actividade
operática da corte, que virá a ser retomada numa escala um pouco mais modesta, pelo
que se refere sobretudo aos cantores e aos teatros, embora o repertório fosse
prefeitamente actualizado em relação ao que se produzia em todos os restantes teatros
italianos da Europa» in Manuel Carlos de Brito, op. cit., p. 78.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
53
Portogallo nel XIX secolo, alla distruzione del Teatro do Paço da
Ribeira sopravvissero solo gli edifici del Teatro do Salitre, del
Teatro do Bairro Alto (che già dal 1733 aveva portato sulle scene il
teatro delle marionette di António José da Silva) e del Teatro da
Rua dos Condes53, che tuttavia non riuscirono ad assolvere con la
medesima importanza il ruolo di fulcro della cultura teatrale che il
Paço da Ribeira pomposamente aveva rappresentato, e che il
Marques aveva descritto come “templo da arte”:
Cantaram-se apenas quatro óperas, neste singular teatro, mas, com tal
explendor e riqueza artística, que eclipsou quanto havia de maravilhoso e
surpreendente em todos os teatros da Europa. O teatro dos Paços da Ribeira
era o primeiro teatro lírico da Europa! Nem os afamados teatros de Florença,
Nápoles, Berlim, Milão e Madrid, podiam ter comparação com o majestoso
teatro de Lisboa, segundo o testemunho dos historiadores e viajantes do
século passado!54
Un’ulteriore testimonianza della mediocrità della produzione
teatrale portoghese posteriore al terremoto è in alcune missive scritte
nel 1784 da un anonimo viaggiatore francese (fig. 8). La sedicesima
lettera è infatti dedicata ai divertimenti più in voga in Portogallo e
contiene passaggi eloquenti sulla realtà teatrale lusitana, descritta
secondo un giudizio di fondamentale disapprovazione, sia per lo stato
in cui versavano gli edifici destinati alle rappresentazioni, sia per la
53
«Os memorialistas que dele falam dizem-no uma espelunca, não obstante seus três
andares de camarotes, além das “forçuras”, antiga designação das frisas. Apesar das suas
deficências, quando se fundou a “Sociedade para a substistência dos teatros públicos da
corte”, foi destinado para o exclusivo das óperas e comédias Italianas», così in Mario de
Sampaio Ribeiro, “Teatro de Ópera em Portugal” in A evolução e o espírito do teatro em
Portugal, op. cit., p. 84.
54
Joaquim José Marques, Cronologia da ópera em Portugal, A Artística, Lisboa, 1947, p.
97.
54
Figura 8. (BN, F. 1245).
Capitolo I
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
55
qualità degli attori, poco alfabetizzati e di scarso talento, recuperando
per meriti e valore solo la competenza di orchestre e danzatori:
Dos Theatros Portugueses, no Reino, só há fixos, e estaveis em Lisboa, e no
Porto. A Arquitectura, e fabrica d’estes Theatros, he mizerrima, e muito peior
que a dos Theatros Francezes, contra cuja mesquinhez tanto chamou o nosso
Voltaire. Os seos Actores, e Comediantes são todos gente de baixa plebe,
sem sombra de instruição alguma. Apenas sabem ler, e por isso são
lamentaveis os papeis que apparecem no Theatro Potuguez, no genero
tragico, e no alto Comico. Em vão procurareis aqui os Barons, os
Champmeles, as Couvreiers, as Clauiroces, e outros brilhantes adornos da
nossa scena. Os Comicos Portuguezes, no Serio, e Sublime, ou fazem rir, ou
dormir. Porém em huma coiza nos levão vantagem os Portuguezes, e hé na
excelente Orquestra dos seos Theatros. Já vos disse, que a Nação Portugueza
era imminente na Muzica, assim vocal, como instrumental. Com effeito só
pelas agradaveis e bem executadas simphonias, e aberturas dos Theatros
Portuguezes, se fasem elles tolleraveis. O mesmo vos digo das Danças, e
Pantomimas, em que esta Nação he inimitavel. As Pessoas que se
representão, são quasi todas traduzidas dos Tragicos e Comicos da França,
Italia e Castelha. Porém que mizeraveis, e pessimas as tradusoens! Succedeome ver representar aqui algumas Pessas de Voltaire, Methastasio, Goldoni
que tinha lido nos originaes, e não as conhecer, senão depois de me dizerem,
que erão aquellas. Quasi todas estas Pessas, dizem no frontispicios
“traduzida, segundo o gosto do Theatro Portuguez” o que consiste
unicamente em lhe imbutirem, se são Tragedias, ou Operas, dois ridiculos
buffoes ou graciosos que dizem mil sensaborias, e frivolezas, com que fazem
perder ao drama muita parte do seu interesse e viveza55.
Dodici anni più tardi, J.B.F. Carrère compone un Panorama de Lisboa
con parole del medesimo calibro di quelle espresse dal viaggiatore
francese del 1784, descrivendo la situazione riscontrata nel Teatro da
Rua dos Condes (che lo stesso Mário de Sampaio Ribeiro definì
«teatro sórdido e lúgubre onde tudo estava subordinado ao constante
avolumar dos lucros de empresários pouco escrupolosos»)56 e in quello
di São Carlos, in questi termini:
Lisboa possui dois teatros: um, destinado às comédias portuguesas; o outro,
reservado à ópera italiana. A sala do primeiro é estreita, apertada, decorada
com mau gosto: a do segundo é mais ampla – foi construída recentemente à
55
56
Cartas de hum Viajante Francez, op. cit., pp. 76-77.
Mario de Sampaio Ribeiro, op. cit., p. 90.
Capitolo I
56
custa de uma sociedade. A comédia portuguesa é detestável, a ópera italiana
tem um elenco muito bom […] Os actores são maus e o guarda-roupa é bom.
As danças e a música são óptimas e constituem os excelentes intermédios que
oferecem os dois teatros de Lisboa. Ali se dão muito bons espectáculos de
ópera italiana, além dos do teatro do rei, que possui o melhor elenco da
Europa. Os actores não sabem declamar e o tom da voz é constante e,
portanto, monótono. Os cantores do teatro do rei como os do teatro público
são castrati. Em Portugal o estudo da música é muito cultivado e com
verdadeiro êxito. Existem excelentes compositores, boa escola e muito belas
vozes. As modinhas deliciam não só os nacionais mas tembém os
estrangeiros […] O povo dança o fofa, ou a chula, cujo movimentos são
lúbricos e, consequentemente, indecentes, motivo por que toda a mulher
honesta se recusa a assistir a tais danças57.
Anche Carrère conferma più avanti, a proposito della proliferazione
impressionante di libretti e argomenti d’opera, la pessima qualità delle
traduzioni portoghesi, definite mutilazioni degli originali rese ancor
più incomprensibili dal successivo esame censorio58. Dello stesso tono
è l’impressione suscitata dagli spettacoli teatrali nel conte di SaintPriest, giunto in terra lusitana al seguito delle truppe francesi che
aiutarono gli spagnoli nell’occupazione del Portogallo. Vi si recò nel
1762 raccontando nei suoi Mémoires dell’allestimento di uno
spettacolo in ambiente aristocratico, durante il quale venne inscenato
il Mahomet di Voltaire e L’Epreuve di Marivaux. Il Saint-Priest ci
lascia traccia di quanto ormai fosse diffusa la moda teatrale fra le
classi di alto rango, le quali si dilettavano ad interpretare
personalmente ruoli teatrali con scarsa competenza:
O conde de Lavrian, ministro plenipotenciario da Sardenha, lembrou-se de
organizar, entre os ministros estrangeiros, um espectáculo. Pela minha parte
acedi da melhor vontade e montámos um teatro em casa do embaixador de
Espanha, que então estava ausente. Escolhemos a tragédia de Voltaire
Mahomet e por complemento L’Epreuve de Marivaux. O papel de Mahomet
foi-me distribuído, assim como o de Pasquino na segunda peça. Para o papel
de Palmira convidáramos uma rapariga francesa que tinha talento. Aliás, a
nossa platéia não era muito exigente, composta, como foi, por tudo o que
havia de mais distinto nos dois sexos da corte portuguesa. Depois do
57
J.B.F. Carrère, Panorama del Lisboa no ano de 1796, trad. pref. e notas de Castelo
Branco Alves, Biblioteca Nacional, Série Portugal e os Estrangeiros, Lisboa, 1989, p. 42.
58
Cfr. Ivi, p. 112.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
57
espectáculos todos os assistentes foram convidados para uma ceia em minha
casa, à qual se seguiu um baile que durou toda a noite59.
Ma particolarmente rilevante è un altro passaggio del Saint-Priest,
relativo al teatro di corte di Queluz:
Os ministros estrangeiros eram convidados para a ópera italiana da corte, sem
que tivessem ali lugar marcado. O cardeal-patriarca nunca faltava aos
espectáculos, assistindo em camarote privativo para ele e sua comitiva. A
música era perfeita, os actores italianos e os papeis femininos
desempenhados por castrados. Escolhiam-se os mais jovens e os mais bonitos
e, no palco, a ilusão era completa. O rei fazia uma grande despesa a contratar
na Itália artistas distintos, donde resultava que a ópera era excelente. Os
bailados é que não correspondiam e os homens dançando disfarçados em
mulheres davam uma ilusão menos favorável. No meu tempo, o primeiro
dançarino era cego. Acostumavamo-nos a ver a medida dos seus passos
regulada pelas proporções do palco. O príncipe D. Pedro, irmão e genro do
rei, oferecia-lhe, bem como à rainha e às suas filhas, uma ou duas festas por
ano na sua casa de campo em Queluz, distante uma lêgua de Lisboa. O corpo
diplomático era convidado e a rainha e suas filhas cantavam para a
assistência. A segunda destas princesas tinha uma voz encantadora e possuía
uma excelente escola. As outras irmãs não tinham talento notável e a rainha,
que estava velha, cantava muito alto e desafinada, o que não impedia que
fosse admirada e cumprimentada. O concerto durava pelo menos três horas e
havia que o escutar de pé, pois na sala só havia cadeiras para a família real.
Os senhores portugueses para descansarem apenas podiam ajoelhar. Quanto a
mim, quando me sentia cansado, ia sentar-me, sem cerimónias, no chão da
antecâmara. Nesta corte, como na de Espanha, não se conhece o que sejam
cadeiras nas salas, e talvez, por isso notei que os velhos servidores tinham ali,
mais que noutros países, as pernas tortas60.
Alcuni grafici relativi all’attività teatrale che abbiamo ricavato
dalle nostre ricerche, supportati da alcuni testi di base quali la História
do Teatro Portuguez di Teófilo Braga (1871), la cronologia operistica
del Marques (1947), gli studi di Manuel Carlos de Brito (1989) e il
testo sugli spazi teatrali di Maria Trindade Gago da Câmara (1996),
che tra l’altro hanno contribuito alla formulazione dell’elenco delle
rappresentazioni contenuto nell’Appendice Cronologica in fondo al
59
Portugal nos Séculos XVII & XVIII. Quatro testemunhos, apr. trad. e notas de CasteloBranco Chaves, Lisóptima Edições, Lisboa, 1989, p. 152.
60
Ivi, pp. 155-156.
Capitolo I
58
volume, illustrano in un arco temporale che va dal 1728 al 1808 il
grado di proliferazione e l’attecchimento del teatro nostrano in
Portogallo con maggiore chiarezza. Dal punto di vista delle singole
strutture, ciò che emerge da un’analisi dell’andamento della
distribuzione delle rappresentazioni teatrali nei vari teatri di corte e
pubblici è un netto superamento delle rappresentazioni private rispetto
agli spettacoli ad affluenza popolare, in un rapporto di 200 a 98 che
indica senz’altro come la diffusione della moda operistica di matrice
italiana abbia subìto un processo di affermazione dall’alto verso il
basso, si sia cioè imposta a partire dagli ambienti nobiliari e,
conseguentemente, tra il popolo:
70
61
60
57
52
44
50
teatro di corte
teatro pubblico
40
30
20
10
17
11
11
1
12
9
11
3
3
6
0
T. do Paço da Ribeira
Academia da Trindade
T. nas Hortas do Conde
T. Novo da Rua dos
Real Teatro da Corte
T. do Bairro Alto
Real Teatro de Salvaterra
T. do Salitre
Real Teatro da Ajuda
Opera do Tejo
Real T. da Corte - Casa da
T. de S. Carlos
T. de Queluz
Real Camara
n° delle rappresentazioni
Attività teatrale per singole strutture
1728-1808
luoghi delle rappresentazioni
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
59
Dal punto di vista dell’evoluzione dell’attività teatrale, nell’arco
degli ottanta anni preso in esame, possiamo osservare con chiarezza
come gli effetti dell’inclinazione per le arti e per le lettere tipica dei
regni di D. João V prima, e di D. José I successivamente, abbia influito
sul progredire del numero delle rappresentazioni teatrali in generale,
grosso modo in costante aumento fino al 1773, per poi subire una
prima fase di drastico declino da attribuirsi all’intransigente politica
antilluminista ed antipombalina dei primi anni del regno di D. Maria I,
in particolare tra 1777 e 1782, ed una seconda fase di arresto sul finire
del secolo, per naturale esaurimento di una moda ormai abusata e
superata dai primi giovani impeti preromantici:
n° delle rappresentazioni
Evoluzione dell'attività teatrale
1728-1808
14
13
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
1728
1738
1748
1758
1768
1778
1788
1798
1808
asse temporale
Infine, e ad ulteriore riprova di quanto sostenuto più sopra, ossia,
per ciò che riguarda la nostra affermazione di una prevalenza delle
rappresentazioni in ambito nobiliare rispetto agli eventi a
partecipazione pubblica, i grafici seguenti mostrano esattamente
questa discrepanza, benché non molto accentuata, nel corso del secolo
preso in considerazione. Per cui, mentre il teatro di corte registra due
picchi di concentrazione degli allestimenti intorno al 1751–1755 e
verso il 1783, il teatro con target popolare dimostra di essersi sempre
Capitolo I
60
mantenuto stabile su valori medi e medio–bassi, con tre picchi
significativi: nel 1737, dato che gli anni Trenta del Settecento
costituiscono la prima grande ondata d’ingresso in Portogallo di opere
italiane; nel 1773, cioè una generazione dopo il disastroso terremoto
del 1755, presumibilmente il tempo occorso per la ricostruzione della
città; e intorno al 1791, successo di fine secolo e sorta di canto del
cigno della voga italianizzante nella letteratura drammatica
portoghese:
Tipologia delle rappresentazioni teatrali
n° delle rappresentazioni
Teatro di corte
1728-1808
13
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
1728
1738
1748
1758
1768
1778
asse temporale
1788
1798
1808
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
61
n° delle rappresentaz
Teatro pubblico
1728-1808
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
1728 1738 1748 1758 1768 1778 1788 1798 1808
asse temporale
Ma l’aspetto che qui ci interessa analizzare, nonostante la
prevalenza delle rappresentazioni italianizzanti più o meno fedeli
destinate al teatro di corte che emerge da questi grafici, è il vastissimo
corpus di opere metastasiane adattate al gusto portoghese che
possiamo annoverare tra la literatura de cordel e cioè non tra le opere
dei letterati, ma tra la produzione di traduttori frettolosi che diedero il
via ad una serie di edizioni poco curate a vari livelli (grafico,
contenutistico, di riconoscibilità del testo di partenza, ecc.) e pensate
unicamente per riscuotere successo di pubblico. Un’efficace
descrizione di cosa fu il teatro de cordel è nella História de Portugal
di Damião Peres, il quale lo descrive
constituído pelas numerosas peças que, uma vez representadas, eram
impressas e vendidas pelas ruas ou à portas das lojas, atadas num cordel […]
apregoadas pelos cegos e outros bufanheiros61.
Del resto, una traccia della consapevolezza di questa sorta di
omologazione alle caratteristiche della cultura ricevente che è
l’adattamento al gusto portoghese emerge in qualche modo anche
61
Damião Peres, História de Portugal, vol. IV, Portucalense, Porto, 1928-1954, p. 487.
Capitolo I
62
dall’epistolario metastasiano, in particolare da una lettera indirizzata a
Giovanni Ambrogio Migliavacca del 13 gennaio 1755:
L’Ezio quest’anno fa fortuna. Il re di Portogallo vuol vederlo sul nuovo suo
teatro, ha voluto ch’io a quest’uso lo accorci e lo guernisca d’una picciola
«licenza» nel fine: e per questa leggierissima cura, che non merita il nome di
lavoro, mi ha fatto dono d’un’argenteria, ricca di quanto esige il bisogno ed il
lusso d’una tavola elegante di dodeci persone, la munificienza è veramente
reale, ed io non posso mostrarne maggior gratitudine che pubblicandola62.
Questa attività dell’accorciare e del guernire, che in parte lascia
presagire il lavoro ben più oneroso della riscrittura creativa tipica
degli adattamenti portoghesi che subirà il teatro di Metastasio, viene
descritta come intervento che non meriterebbe nemmeno la
designazione di lavoro, salvo poi precisare all’amico Giuseppe
Bonechi la difficoltà dell’aggiustamento di un’opera quando non se ne
conosca esattamente l’uso, ossia l’occasione prescelta da colui che
Metastasio definisce “generoso monarca”:
Da questo ministro portoghese mi fu ordinata una «licenza» per l’Ezio: ma
non poté egli dirmi a qual solennità se ne destinava la rappresentazione: onde
io fui costretto ad evitare ogni espressione che ne determinasse l’uso più ad
uno che ad un altro giorno. Parla in essa il profondo rispetto del riverente
scrittore: e ciò ch’ei dice è per qualunque stagione63.
E il riferimento a questo “riadattamento” dell’Ezio da parte
dell’autore stesso, un’azione che potremmo definire di legittimo
adattamento al gusto portoghese, ovviamente priva di travestimento
comico, è anche in una corrispondenza del 13 gennaio 1755
indirizzata ad Antonio Tolomei, nella quale il Trapassi sottolinea
ancora una volta la felice sorpresa per l’argenteria ricevuta in dono dal
re portoghese a pagamento dell’opera:
La maestà fedelissima del re di Portogallo vuol che si rappresenti il mio Ezio
nel nuovo suo teatro, ed io per suo ordine l’ho un poco scorciato e dotato
d’un breve complimento nel fine che noi chiamiamo «licenza». Per così
picciola cura, che non giunge alla graduazione di lavoro, mi ha fatto dono
d’una argenteria che contiene quanto esige il bisogno e il lusso di una tavola
62
63
Metastasio, op. cit., p. 980.
Ivi, p. 1015.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
63
elegante. Pregate il Cielo che il re cristianissimo, in contrassegno di
gradimento di qualche condescendenza delle mie muse, mi mandi un de’ suoi
cuochi, e poi venite a Vienna, e sarete da me servito in Apolline64.
Nonostante il nostro interesse si focalizzi prevalentemente sugli
adattamenti dell’opera metastasiana, occorre sottolineare che tutto il
corpus di testi portati alla luce dalle strutture lisbonesi più fornite in
questo senso, la Biblioteca Nazionale e l’archivio della Fondazione
Calouste Gulbenkian su tutte, è costituito da esemplari in lingua
originale, così come da traduzioni fedeli, partiture musicali e disegni
di scenari, di molti altri autori del nostro teatro settecentesco. Per
quanto riguarda la Biblioteca Nazionale, oltre a due opere di Pietro
Chiari65 e al Della ragion poetica del Gravina66, vi sono anche testi del
Goldoni in traduzione portoghese e francese, e dell’Alfieri, che, sia in
lingua originale che in traduzione, è per lo più presente con copie
edite in Francia.
L’archivio della Biblioteca de Arte della Fundação Calouste
Gulbenkian dispone, a sua volta, di una discreta quantità di opere
catalogate come teatro de cordel e comprendente 31 adattamenti di
Metastasio e 15 di Goldoni, oggi integralmente consultabili on
line67. Tra questi si segnala l’edizione in lingua italiana del
metastasiano Alessandro nell’Indie (1755) per l’accuratezza
dell’edizione, che si giustifica ovviamente con la sua destinazione
agli ambienti di corte, e le due edizioni (1787 e 1788) de La bella
selvaggia di Goldoni, a cui José Mascarenhas ha recentemente
dedicato un ampio studio di analisi68. Inoltre, da una pubblicazione
64
Ivi, p. 979.
L’amore senza fortuna o sia memorie d’una donna portoghese scritte da lei medesima,
pubblicate dall’abate Pietro Chiari, Firenzi, a spese del Colombani, 1765, 2 tomi, (BN RES.
6325//1 P); Farsa em muzica intitulada O Maerquez de Tulipano ou O cazamento inesperado
[manoscritto], 8 marzo 1791, 21 f., teatro in 2 atti, in verso, traduzione di “Il Marchese
Tulipano ossia Il Matrimonio inaspettato”, pubblicato a Lisbona, off. de Simão Thaddeo
Ferreira, 1740, ed. bilingue portoghese-italiano, rappresentato nel Teatro da Rua dos Condes
nel 1790, con musica di Paisiello, copia autografa di António José de Oliveira (BN F.R. 804).
66
Gianvincenzo Gravina, Della ragion poetica libri due, Napoli, presso il De Bonis,
1731, 1 v. (BN L. 2052 P.).
67
Ai documenti catalogati come teatro de cordel si può accedere dal sito:
http://www.biblarte.gulbenkian.pt
68
José Mascarenhas, La bella selvaggia de Carlo Goldoni na versão setecentista de
Nicolau Luiz da Silva, prefácio de A. Ventura, Lisboa, Edições Colibri, 2003.
65
64
Capitolo I
di José da Costa Miranda69, già citato come eminente esperto di
influenze italiane nella letteratura portoghese, si ricavano preziose
informazioni sugli esemplari conservati in altre strutture e istituzioni
portoghesi, quali la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di
Lisbona, l’archivio generale dell’Università di Coimbra e, soprattutto,
la Biblioteca da Ajuda70. In quest’ultima struttura trovarono
accoglimento libretti di drammi per musica e partiture manoscritte di
paternità goldoniana, benché sotto nome arcadico di Polisseno Fegejo.
Ma si potrà comprendere con maggiore chiarezza quanto finora
sostenuto, esaminando il seguente elenco, relativo a tutti i testimoni
legati al teatro italiano del Settecento tuttora presenti in Portogallo.
Testi in lingua italiana
1) Alessandro nell’Indie, dramma per musica, Napoli, 1 v., 1732 (BN
L. 5268 P.).
2) La Nitteti, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro
dell’Ajuda, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, in
Lisbona, nella Stamperia Reale, 1740, 85 pp. (BN L. 5616//4 P.).
3) La clemenza di Tito, dramma per musica da rappresentarsi
nell’estate dell’Anno MDCCLV sul gran Teatro nuovamente
eretto alla Real Corte di Lisbona, per festeggiare il felicissimo
giorno natalizio di sua maestà fedelissima D. Giuseppe Primo, Re
di Portogallo, la poesia è del celebre Sig. Ab. Pietro Metastasio, la
musica è del Sig. Antonio Mazzoni, Lisbona, nella Regia
Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, 52 pp., con 8
stampe che mostrano gli scenari del libretto (BN M. 382 P.).
69
José da Costa Miranda, Teatro italiano, manuscrito (século XVIII): sobre alguns textos
existentes em bibliotecas e arquivos portugueses, separata do “Boletim da Biblioteca da
Universidade de Coimbra”, vol. XXXIII, Coimbra, 1976.
70
All’interno del Catálogo de Música Manuscrita della Biblioteca da Ajuda sono
comprese 17 opere del Goldoni e 23 partiture relative che, per ragioni di spazio, qui non
verranno citate per esteso.
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
65
4) Alessandro nell’Indie, dramma per musica da rappresentarsi nel
gran teatro… alla Real Corte di Lisbona nella Primavera dell’anno
MDCCLV, Pietro Metastasio Romano, musica di David Perez,
Lisbona, nella Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale,
1755, 53 pp., con 9 stampe che rappresentano gli scenari del
libretto (BN F. 8404).
5) Alessandro nell’Indie, dramma per musica da rappresentarsi nel
gran teatro nuovamente eretto alla Real Corte di Lisbona, nella
Primavera dell’anno 1755 per festeggiare il felicissimo giorno
natalizio di sua maestà fedelissima D. Maria Anna Vittoria […],
Lisbona, nella Regia Stamperia Sylviana, e dell’Academia Reale,
1755, 66 pp. (FCG TC 771).
6) Amor contadino, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo
Pastor Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel
Carnovale dell’anno 1764, Lisbona, nella Stamperia Ameniana, 69
pp. (BAC E 803 D/52).
7) L’Arcadia in Brenta, dramma giocoso per musica di Polisseno
Fegejo Pastore Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di
Salvaterra nel Carnovale dell’anno 1764, Lisboa, nella Stemperia
Ameniana, 77 pp. (BAC E 803 D/53).
8) Semiramide riconosciuta, dramma per musica da rappresentarsi
nel nobil Teatro del Bairro Alto, Metastasio, musica di David
Perez, Lisbona, Stamperia di Pietro Ferreira, 1765, 133 pp. (BN
M. 117 P.).
9) La calamità de’ cuori, dramma giocoso per musica da recitarsi nel
Teatro da Rua dos Condes nel anno del 1766, Lisbona, nella
Stamperia di Pietro Ferreira, Impressore de la F.R.N.S., 79 pp.
(UC Misc. DCIII n. 9723).
10) La cascina, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo
Pastore Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel
carnovale dell’anno 1766, Lisbona, nella Stamperia di Michele
66
Capitolo I
Marescal da Costa, Impressore del Sant’Offizio, 78 pp., musica di
Giuseppe Scolari (UC Misc. DLXVI n. 9503).
11) Notte critica, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo P.
A. Da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnevale
dell’anno 1767, Lisbona, nella Stamperia di Michele Marescal da
Costa, Impressore del S. Offizio, 98 pp., musica di Niccolò
Piccinni (UC Misc. DLXIX n. 9538).
12) Il viaggiatore ridicolo, dramma giocoso per musica da
rappresentarsi nel Teatro del Bairro Alto di Lisbona, nell’estate del
corrente anno, poesia del rinomato avvocato Carlo Goldoni, in
Lisbona, nella Stamperia Reale, 1770, 72 pp. (BAC E 803 D/80 e
BN L. 5392//1 P).
13) La clemenza di Tito, dramma per musica da rappresentarsi nel
Real Teatro dell’Ajuda, poeta abate Metastasio, musica di
Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1771, 75 pp. (BN L.
5615//5 P.).
14) Semiramide, dramma per musica, poesia dell’Abate Metastasio,
musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1771, 72
pp. (BN L. 24492 P.).
15) Ezio, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro
dell’Ajuda, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, in
Lisbona, nella Stamperia Reale, 1772, 74 pp. (L. 5615//7 P.).
16) La betulia liberata, dramma sacro del Sig. Abate Pietro
Metastasio, Lisbona, nella Stamperia Reale, 1773, 40 pp. (BN L:
5619//2 P.).
17) La Fiera di Sinigaglia, dramma giocoso per musica da
rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnevale del
1773, Lisbona, nella Stamperia Reale, 66 pp., musica di Domenico
Fischietti (UC Misc. DLXVIII n. 9524).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
67
18) L’Olimpiade, dramma per musica, poesia dell’Abate Metastasio,
musica di Jommelli, Lisbona, nella Stamperia Reale, 1774, 88 p.
(BN 5616//5 P.).
19) Il trionfo di Clelia, dramma per musica, poesia dell’Abate
Metastasio, musica di Jommelli, Lisbona, nella Stamperia Reale,
1774, 70 pp. (BN L. 57485 P.)
20) Demofoonte, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro
dell’Ajuda, poeta Abate Metastasio, musica di Jommelli, in
Lisbona, nella Stamperia Reale, 1775, 88 pp. (BN L. 5615//6 P.).
21) L’Arcifanfano, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel
Teatro di Rua dos Condes dedicato al molto illustre Sig. David
Perez Maestro rinomatissimo di musica all’attual servizio di S. M.
Fedelissima, Lisbona, nella Stamperia di Pietro Ferreira, Impressore
de la F.R.N.S., 1778, 116 pp. (UC Misc. DLXXIII n. 9593).
22) Pietro Metastasio, La Passione di Gesù Cristo Signor Nostro,
oratorio sacro da cantarsi nella Casa dell’Assemblea delle Nazioni
Straniere la notte del 28 marzo 1786, musica di Niccolò Jommelli,
nella Stamperia Reale, Lisbona, 1786 (BN L. 5392//3 P).
23) Antigono, dramma per musica, Il Natale di Giove, cantata, 17--, 1
v. (BN L. 5268 P.)
24) Catone in Utica, dramma per musica, Il Ciro riconosciuto, 17-(BN L. 5268 P.).
25) Il Demetrio, La Didone abbandonata, Il Demofoonte, L’Ezio, Il
Giuseppe riconosciuto, La passione di Gesù Cristo, 17--, 1 v. (BN
L. 5269 P.).
26) Vittorio Alfieri, Tragedie, Parigi, presso Aut. Ag. Renouard, 1806,
6 v. (BN L. 5242 P. – L. 5247 P.).
27) Vittorio Alfieri, Tragedie, terza edizione lucchese, Lucca,
Tipografia di Francesco Bertini, 1817, 2 v. (BN L. 8072 P.).
68
Capitolo I
Testi a stampa in traduzione portoghese monolingue
1) Alexandre na India, drama para a musica para se representar em
Lisboa, do Senhor Pedro Metastasio, música de Caetano Maria
Schiassi, Lisboa, 1736 [?], 11 pp. (BN F. 6812).
2) Demetrio, drama para musica do Senhor Abbade Pedro
Metastasio, musica do Senhor Caetano Maria Schiassi, em
Bolonha, na Estamparia de Joseph Lonje, 1739, 144 pp. (BN L.
5619//5 P.).
3) Antigono em Thessalonica, Abbade Pedro Metastasio, trad.
Fernando Lucas Alvim, Lisboa, Off. Patriarcal F.L. Ameno, 1755
(BN L. 46241//1 P.).
4) O pai de familias, comedia em tres actos, Off. de Manoel Coelho
Amado, 1755, 46 pp. (BN H.G. 6671//9 V.).
5) Comedia A mais heroica virtude, ou Zenobia em Armenia,
composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora
novamente traduzida , e accrescentada, segundo o gosto do
Theatro Portuguez, no anno de 1755, 34 pp. a 2 col. (FCG TC
652).
6) Mais vale amor do que hum reyno: opera Demofoonte em Tracia,
composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio,
Lisboa, Off. Manoel António Monteiro, 1758, 38 pp. (BN L.
46946 P.).
7) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na
lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio [sic], Lisboa, Off. de
Manoel Antonio Monteiro, 1758, 36 pp. a 2 col. (FCG TC 12).
8) Mais vale amor do que hum reino, Opera Demofoonte em Tracia,
composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora
novamente traduzida, accrescentada, e disposta segundo o gosto
do Theatro Portuguez, para se representar no Arrayal de Nossa
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
69
Senhora do Cabo, nas festas do Cirio de Lisboa, anno de 1753,
Lisboa, Off. de Manoel Antonio Monteiro, 1758, 32 pp. a 2 col.
(FCG TC 743).
9) A clemencia de Tito, opera composta na lingua italiana pelo
Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de Manoel Antonio
Monteiro, 1761, 23 pp. a 2 col. (FCG TC 88).
10) Abbade Pedro Metastacio, Linceo e Ipermestra, trad. por***, Of.
De Francisco Luís Ameno, Lisboa, 1761 (BN L. 47000 P).
11) Opera nova intitulada Vencer-se he mayor valor, traduzida do
Italiano em o Portuguez idioma, e ornada ao gosto dos Lusitanos
Theatros, por M.C. de M.M., Lisboa, Off. de Francisco Borges de
Sousa, 1764, 48 pp. a 2 col. (FCG TC 224).
12) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na
lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Jozé
de Aquino Bulhoens, 1764, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 116).
13) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na
lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de
Francisco Borges de Sousa, 1764, 36 pp. a 2 col. (FCG TC 409).
14) Comedia O mais heroico segredo ou Artaxerxe, composta na
lingua italiana pelo Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Francisco
Borges de Sousa, 1764, 36 pp. a 2 col. (BN L. 3569 A.).
15) Antigono em Thessalonica, opera do Senhor Abade Pedro
Metastasio, Lisboa, Off. Joseph da Silva Nazareth, 1768, 1 v. (BN
L. 24612 P.).
16) Comedia do Senhor Carlos Goldoni intitulada O cavalheiro de
bom gosto, Lisboa, Off. de António Rodrigues Galhardo, 1770, 34
pp. a 2 col. (FCG TC 214).
17) Demetrio, drama composto em italiano pelo Senhor Abade Pedro
Mestazio [sic], traduzido na lingua portugueza por hum dos
70
Capitolo I
respeitosos apaixonados de seu author, Coimbra, Off. Pedro
Ginioux, 1771, 112 pp. (BN L. 45719 P.).
18) Comedia intitulada A viuva sagaz, ou Astuta, ou As quatro nações,
composta pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida segundo o
gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Manoel Coelho
Amado, 1773, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 13).
19) Themistocles, opera composta em Italiano por Pedro Metastasio, e
traduzida em Portuguez por ***, Lisboa, Off. de Manoel Coelho
Amado, 1775, 38 pp. a 2 col. (FCG TC 242).
20) Comedia intitulada A herdeira venturosa, composta pelo Doutor
Carlos Goldoni, Advogado Veneziano, traduzida no idioma
Portuguez para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa,
Off. de Manoel Coelho Amado, 1775, 35 pp. a 2 col. (FCG TC
213).
21) A herdeira venturosa, Lisboa, Off. de Manoel Coelho Amado,
1775, 35 pp. a 2 col. (BN F.G. 795).
22) Comedia intitulada A mulher amoroza, composta pelo Doutor
Carlos Goldoni, Advogado veneziano, traduzida no idioma
Portuguez para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa,
Off. Luisiana, 1778, 34 pp. a 2 col. (FCG TC 212).
23) O aventureiro honrado, comedia do Doutor Carlos Goldoni,
Lisboa, Off. Luisiana, 1778, 31 pp. a 2 col. (FCG TC 215).
24) A espoza persiana tragicomedia que no idioma Italiano compoz o
erudito Poeta o Doutor Carlos Goldoni, traduzida em Portuguez
para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, onde se executou
muitas vezes com aprovação dos Expectadores, Lisboa, Off. de
Chrispim Sabino dos Santos, 1780, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 90).
25) Comedia A mais heroica virtude, ou Zenobia em Armenia,
composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
71
novamente traduzida, e accrescentada, segundo o gosto do Theatro
Portuguez, Lisboa, Off. de Crespim Sabino dos Santos, 1782, 36
pp. a 2 col. (FCG TC 92).
26) Composições dramáticas, trad. João Cordeiro da Silva, Lisboa,
Off. Simão Thaddeo Ferreira, 1782, 1 v. (BN L. 5270 P.).
27) Dido desemparada, destruição de Cartago, opera segundo o gosto
do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Crespim Sabino dos Santos,
1782, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 112).
28) Linceo e Ipermestra, opera composta em italiano, Lisboa, Off. de
Francisco Luiz Ameno, 1783, 1 v. (BN L. 5398 P.).
29) Mais vale amor do que um reino, opera Demofoonte em Tracia,
composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, agora
novamente traduzida, accrescentada, e disposta segundo o gosto
do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa,
1783, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 238).
30) Comedia famoza intitulada Vencer odios com finezas, do insigne
Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves,
1785, 38 pp. a 2 col. (FCG TC 94).
31) Comedia nova intitulada O Herôe da China, composta em italiano
pelo insigne Abbade Pedro Matastazio [sic], poeta cesario, e agora
novamente traduzida no idioma Portuguez, Lisboa, Off. de
Domingos Gonsalves, 1785, 29 pp. a 2 col. (FCG TC 218).
32) Comedia nova intitulada Laura reconhecida, do insigne Abbade
Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de José da Silva Nazareth, 1785, 56
pp. a 2 col. (FCG TC 66).
33) Comedia nova intitulada Semiramis reconhecida, do insigne
Abbade Pedro Matestacio [sic], e posta ao gosto do Theatro
Portuguez, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1785, 40 pp. a 2
col. (FCG TC 3).
72
Capitolo I
34) Comedia nova intitulada Ircana em Hispan, segunda parte da
Esposa persiana, Lisboa, Off. de Jozé da Silva Nazareth, 1786, 46
pp. a 2 col. (FCG TC 723).
35) Comedia famoza intitulada Emira em Suza e fugir à tirannia para
imitar a clemencia, composta em italiano pelo Abbade Pedro
Metestacio [sic], Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1787, 37
pp. a 2 col. (FCG TC 29).
36) Comedia nova intitulada A Gricelda ou A rainha pastora, do
Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves,
1787, 37 pp. a 2 col. (FCG TC 20).
37) Olimpiade, opera dramatica do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa,
Off. de Domingos Gonsalves, 1787, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 219).
38) Comedia nova intitulada As rigorozas leis da amizade cumpridas
em Olimpiade, do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa, Off. de
Filipe da Silva e Azevedo, 1787, 44 pp. a 2 col. (FCG TC 709).
39) A bella selvagem, comedia nova composta no idioma Italiano pelo
Doutor Carlos Goldoni, e traduzida na lingua Portugueza, para se
reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. de Felippe da
Silva e Azevedo, 1787, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 114).
40) Emira em Suza e fugir à tirannia para imitar a clemencia,
comedia famoza composta em italiano pelo Abbade Pedro
Matestacio, Lisboa, Off. de Domingos Gonçalves, 1787, 39 pp.
(BN L. 27069 V.).
41) Comedia nova intitulada A dama dos encantos do Doutor Carlos
Goldone [sic] traduzida em portuguez por Bazilio..., Lisboa, Off.
de Francisco Borges de Sousa, 1788, 39 pp. a 2 col. (FCG TC
68).
42) A bella selvagem, comedia nova composta no idioma Italiano pelo
Doutor Carlos Goldoni, e traduzida na lingua Portugueza, para se
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
73
reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. de Simão
Thaddeo Ferreira, 1788, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 140).
43) Dido desamparada, destruição de Cartago, opera segundo o gosto
do Theatro Portuguez do Abbade Pedro Matestasio, Lisboa, Off.
De Francisco Borges de Sousa, 1790, 30 pp. A 2 col. (FCG TC
564).
44) Comedia nova do insigne Abbade Pedro Matastasio intitulada O
principe pastor ou Cyro reconhecido, Lisboa, Off. de Simão
Thaddeo Ferreira, 1790, 30 pp. a 2 col. (FCG TC 220).
45) A valeroza Judith ou Bethulia libertada, drama composto no
idioma Italiano pelo inseigne Abbade Pedro Metastazio, Porto,
Off. de Antonio Alvarez Ribeiro, 1790, 22 pp. a 2 col. (FCG TC
522).
46) Comedia nova intitulada A viuva sagaz, ou Astuta, ou As quatro
nações, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida
segundo o gosto do theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Simão
Thaddeo Ferreira, 1790, 32 pp. a 2 col. (FCG TC 586).
47) Comedia nova intitulada A viuva sagaz, ou astusa, ou as quatros
nações, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1790, 32 pp. a 2
col. (BN F.G. 789).
48) Comedia nova intitulada Os dois amantes em Africa, ou A escrava
venturosa, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, no Idioma
Italiano, e traduzida em Portuguez, Lisboa, Off. de José de Aquino
Bulhoens, 1791, 47 pp. a 2 col. (FCG TC 35).
49) Comedia A mais heroica virtude ou Zenobia em Armenia,
composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Metastasio,
agora novamente traduzida, e accrescentada, segundo o gosto
do Theatro Portuguez, Lisboa, 1791, 39 pp. A 2 col. (FCG TC
39).
74
Capitolo I
50) Comedia nova intitulada Os dois amantes em Africa, ou a escrava
venturosa, Lisboa, Off. de José de Aquino Bulhoens, 1791, 47 pp.
a 2 col. (BN F.G. 789).
51) Comedia nova intitulada Vencer-se he maior valor ou Alexandre
na India, do Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Francisco
Borges de Sousa, vende-se em casa de João Henriques, 1792, 47
pp. (BN RES. 3882 V.).
52) Comedia nova intitulada Vencer-se he maior valor ou Alexandre
na India, do Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Francisco
Borges de Sousa, 1792, 47 pp. a 2 col. (FCG TC 106).
53) Comedia nova intitulada A esposa persiana, do Doutor Carlos
Goldoni, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1792, 39 pp.
a 2 col. (FCG TC 14).
54) Comedia nova intitulada A esposa persiana, Lisboa, Off. De
Francisco Borges de Souza, 1792, 39 pp. a 2 col. (BN F.G. 789).
55) Demofoonte em Tracia, Pietro Metastasio, Lisboa, Of. João
António Reis, 1793, 39 pp. (BN L. 16208 V.).
56) Mais vale amor do que hum reino, opera Demofoonte em Tracia,
composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora
novamente traduzida, accrescentada e disposta segundo o gosto do
Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Jozé Aquino Bulhoens, 1794,
39 pp. a 2 col. (FCG TC 81).
57) Comedia nova intitulada A esposa persiana, 17--, 32 pp. a 2 col.
(BN F. 5082).
58) O aventureiro honrado, comedia do Doutor Carlos Goldoni, 179-,
29 pp. a 2 col. (BN F.G. 789).
59) Alexandre na India, opera composta na lingua italiana pelo
Abbade Pedro Matastasio, 1801 [?], 24 pp. a 2 col. (FCG TC 556).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
75
60) Comedia nova intitulada A Gricelda ou A rainha pastora, do
Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo
Ferreira, 1802, 31 pp. a 2 col. (FCG TC 676).
61) A liberdade, cançoneta de Metastasio, imitação de J. J. Rousseau,
trad. Basilio da Gama e de hum Anonimo, Lisboa, Typ. Lacerdina,
1810 (BN L. 3713//13 P.).
62) A doente fingida e o medico honrado, Lisboa, Imp. Joaquim
Rodrigues d’Andrade, 1817, 1 v. (BN L. 5504 P.).
63) Themistocles, drama, Pedro Metastasio, Lisboa, Imp. Regia, 1818,
97 pp. (BN L. 46354 P.).
64) Orestes, Lisboa, Imp. Regia, 1819, 1 v. (BN L. 5248 P.).
65) Orestes, Lisboa, Imp. Regia, 1820, 98 pp. (BN L. 46956 P.).
66) O tratado da tirannia, traduzido do Italiano em Português por um
amigo da liberdade, Paris, Thèophile Barrois Fils, 1832, 165 pp.
ill. (BN S.A. 26537 P.).
67) A doente fingida e o medico honrado, Lisboa, Typ rollandiana,
1834, 109 pp. (BN L. 5658//5 P.).
68) Conspiração dos Pazzis, tragedia, trad. António Pereira Zagallo,
Porto, Typ. Commercial Portuense, 1838, 66 pp. (BN L. 5389//8
P.).
69) Demofoonte em Thracia, opera composta na lingua Italiana pelo
Abbade Pedro Metastasio, poeta cesario, traduzida em Portuguez
por Fernando Lucas Alvim, Lisboa, Typ. de Antonio Lino de
Oliveira, 1838, 32 pp. a 2 col. (FCG TC 563).
70) O casamento de Lesbina, drama jocoso para se representar em
musica no novo Teatro do Bairro Alto de Lisboa, 18-- , 45 pp. (BN
L. 46241//2 P.).
76
Capitolo I
71) Farnace em Eraclea, opera do insigne Abbade Pedro Metastasio,
s.d., 24 pp. a 2 col. (FCG TC 706).
72) Comedia intitulada O mais heroico segredo, ou Artaxerxe,
composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Matestasio, s.d.,
40 pp. a 2 col. (FCG TC 583).
73) A creada agradecida e a madrasta endiabrada, comedia do
insigne Goldoni, Lisboa, Off. de Antonio Gomes, s.d., 39 pp. A 2
col. (FCG TC 61).
74) Comedia nova intitulada O mentirozo por teima, do Doutor Carlos
Glodoni [sic], Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, s.d., 40
pp. a 2 col. (FCG TC 8).
75) O casamento de Lesbina, drama jocoso para se representar em
musica no novo Theatro do Bairro Alto de Lisboa, musica de
Bonarelli, s.d., 47 pp. (UC Misc. DLXXXV n. 9640).
Copie manoscritte in traduzione portoghese monolingue
1) Comedia intitulata O feudatorio, 1781, 61 f., comédia em 3 actos,
tradução de Il feudatario, cópia autógrafa de António José de
Oliveira (BN F.R. 724).
2) Nova comedia A dama bizarra, 1781, 52 f., comédia em 5 actos,
tradução de La donna bizzarra, cópia autógrafa de António José
de Oliveira (BN F.R. 574).
3) Comedia intitulada A criada mais generoza, comédia em 3 actos,
1781, 42 f., cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R.
798).
4) Comedia nova intitulada O verdadeiro amigo, 20 Abr. 1782, 56 f.,
comédia em 3 actos, tradução de Il vero amico, cópia autógrafa de
António José de Oliveira BN F.R. 803).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
77
5) Comedia nova intitulada A pupila, 6 Set. 1782, 38 f., comédia em
5 actos, tradução de La pupilla, cópia de António José de Oliveira
(BN F.R. 802).
6) Comedia nova intitulada O homem vencedor, traduzida por A. J.
de Paula, 6 Out. 1782, 65 f., comédia em 5 actos, cópia autógrafa
de António José de Oliveira (BN F.R. 573).
7) Décio no Oriente ou Zenobia, tragicomedia, 1783, 38 f.,
tragicomédia em 3 actos em verso, cópia autógrafa de António
José de Oliveira (BN COD. 1390//2).
8) Opera nova intitulada Irene na Selecia, 3 Fev. 1783, 36 f., ópera
em 3 actos, parece tratar-se de uma adaptação da Peça Sirio in
Seleucia de Pietro Metastasio, cópia autógrafa de António José de
Oliveira (BN COD. 1386//2).
9) Opera intitulada Farnace em Eraclea, 8 Fev. 1783, 71 f., ópera
em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN
COD. 1384//2).
10) Drama intitulado Alexandre na India, do Abbade Pedro
Metastasio, traduzida em portuguez, 28 Mar. 1783, 57 f., drama
em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira
(BN COD. 1385//1).
11) Opera nova intitulada Izipile em Lennos ou Os erros de Learco
premeado, 25 Abr. 1783, 48 f., ópera em 3 actos, em verso, cópia
autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1378//5).
12) Comedia intitulada A viuva infatuada, 10 Maio 1783, 45 f.,
comédia em 3 actos, tradução de La donna di testa debole o sia La
vedova infatuata, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN
F.R. 574).
13) Drama Trágico e Heroico intitulado Izipile em Lennos ou O
levante das Amazonas, 28 Maio 1783, 29 f., drama em 3 actos,
78
Capitolo I
adaptação de Issipile de Pietro Metastasio, cópia autógrafa de
António José de Oliveira.
14) Novo drama intitulado Demetrio em Siria, 9 Jun. 1783, 58 f.,
drama em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira
(BN F. 111).
15) Tragedia de Belizario, composta por Pedro António Pereira, 20
Nov. 1783, 43 f., tragédia em 5 actos, em verso, cópia autógrafa de
António José de Oliveira (BN COD. 1377//2).
16) Comedia intitulada Semiramis reconhecida em Babilonia, 2 Fev.
1784, 62 f., comédia em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de
António José de Oliveira (BN COD: 1395//6).
17) Opera intitulada Achilles em Sciro, he do Senhor Pedro
Metastacio, P. Cezareo, 29 Fev. 1784, 33 f., ópera em 3 actos,
tradução de Achille em Sciro, tradução de Manuel Pereira da Costa
ou Francisco Luís Ameno, cópia de António José de Oliveira (BN
COD. 1377//6).
18) Drama comico intitulado Aquilis disfarçado, 20 Maio 1784, 47 f.,
drama cómico em 3 actos, cópia autógrafa de António José de
Oliveira (BN COD. 1377//7).
19) Opera intitulada Filinto perseguido e exaltado, 28 Jun. 1784, 49 f.,
ópera em 3 actos, representada nos Teatros de Bairro Alto e
Mouraria, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 3624).
20) Comedia intitulada Mulher sabia e prudente, tradução de Fr. José
de Santa Rita, 15 Ago. 1784, 49 f., comédia em 3 actos, tradução
de La moglie saggia, cópia Autógrafa de António José de Oliveria
(BN f.R. 805).
21) Opera intitulada Adriano em Syria, 28 Set. 1784, 36 f., ópera em 3
actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD.
1389//4).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
79
22) Comedia nova intitulada A caza do café ou O maldizente, 20 Nov.
1784, 58 f., comédia em 3 actos, tradução de La bottega del caffè,
cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1386//7).
23) Comedia intitulada A familia de antiquario ou A sogra e a nora, 2
Dez. 1784, 59 f., comédia em 3 actos, cópia autógrafa de António
José de Oliveira (BN F.R. 572).
24) Comedia intitulada A dalmatina, 1785, 72 f. Comédia em 5 actos,
em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R.
801).
25) Opera famoza intitulada Antigono em Tezalonica, seo auctor he o
Abb.e Pedro Metastacio, 20 Mar. 1785, 37 f., ópera em 3 actos,
em verso, cópia de António José de Oliveira (BN F.R. 803).
26) Opera intitulada A clemencia de Tito, composta por Pedro
Metastasio, e traduzida por… em versos portugueses, 21 Abr.
1786, 42 f., ópera em 3 actos, cópia de António José de Oliveira
(BN COD. 1384//5).
27) Tragicomedia intitulada Catao em Utica, por Joaquim Soares
Crice, 12 Mar. 1788, 50 f., tragicomédia em 3 actos, em verso,
cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 802).
28) Drama jocozo O amor artifice, 13 Maio 1788, 29 f., drama jocoso
em 3 actos, tradução de L’amore artigiano, cópia autógrafa de
António José de Oliveira (BN F. 111).
29) Drama jocozo O falador imprudente ou A donzela espirituoza, 20
Jan. 1790, 32 f., drama jocoso em 3 actos, em verso, adaptação da
peça Il chiacchierone (F.R. 572)
30) Comedia O mentirozo por teima, traduzida por o P.e Mel. Joze
Penalvo, 2 Maio 1790, 99 f., comédia em 3 jornadas, tradução de
Il bugiardo, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.
111).
80
Capitolo I
31) Comedia nova intitulada A senhora prudente ou O marido ciozo, 20
Set, 1790, 58 f., comédia em 3 actos, tradução de La donna prudente,
cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 798).
32) Drama O lunatico iludido, adornado de muzica, traduzido do
idioma italiano, representou-se em o Theatro do Salitre desta
Corte, 10 Dez. 1791, 58 f., drama em 3 actos, em verso, versão
portuguesa de Il mondo della luna, cópia autógrafa de António
José de Oliveira (BN F.R. 804).
33) Comedia A mais heroica virtude ou Zenobia em Armenia, 20 Ago.
1792, 40 f., comédia em 3 actos, cópia de António José de Oliveira
(BN COD. 1377//3).
34) Drama intitulado Ciro reconhecido, drama para muzica para se
representar em Lisboa no Theatro da Rua dos Condes no anno de
1740, 20 Set. 1793, 33 f., drama em 3 actos, cópia autógrafa de
António José de Oliveira (BN COD. 1387//4).
35) Le gelosie villane, drama jocozo em muzica para se reprezentar em
o Real Theatro de S. Carlos no anno de 1793, 2 Out. 1793, 27 f.,
drama jocoso em 2 actos, adaptação de Il feudatario, cópia
autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1396//2).
36) Fra i due litiganti il terzo gode, drama giocozo per muzica da
representarsi nel Reggio Teatro di S. Carlos della Principessa
l’Autunno dell’anno 1793, 25 Out. 1793, 26 f., drama jocoso em 2
actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD.
1386//4).
37) Opera A clemência de Tito, do Abb.e Pedro Metastacio poeta
cezareo, e traduzida em portuguez por Fernando Lucas Alvim, 24
Nov. 1793, 32 f., ópera em 3 actos, cópia autógrafa de António
José de Oliveira (BN COD. 1390//1).
38) Opera intitulada Antigono em Thessalonica, do Abb.e Pedro
Metastisio [sic], e traduzida em portuguez per Fernando Lucas
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
81
Alvim, 2 Dez. 1793, 27 f., cópia autógrafa de António José de
Oliveira (BN F. 111).
39) Drama jocozo intitulado O cazamento de Lesbina, 24 Fev. 1794,
19 f., drama jocoso em 3 actos, tradução de Le nozze ou Le nozze
di Dorina, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R.
804).
40) Comedia nova intitulada O honrado negociante, 1795, 49 f.,
comédia em 3 actos, tradução de I mercatanti, cópia autógrafa de
António José de Oliveira (BN F.R. 800).
41) Drama intitulado Demetrio em Siria, composta em italiano pelo
Senhor Abbade Pedro Metastacio, Poeta Cezareo, 1795, 45 f., drama
em 3 actos, cópia de António José de Oliveira (BN COD. 1370//5).
42) Comedia nova intitulada O cavalheiro jucundo, 1796, 58 f.,
comédia em 5 actos, tradução de Il cavaliere giocondo, cópia
autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 798).
43) Drama serio do Abb.e Pedro Matestacio e novamente ordenada
segundo o Theatro Portuguez com o título de A suposta espoza
abandonada, 1796, 38 f., drama em 3 actos, em verso, cópia
autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 573).
44) Il mercato di Monfregozo, drama giocoso per muzica da
raprezentarsi nel Regio Teatro de S. Carlos della Principessa
l’estate dell’anno de 1795, drama jocoso em 2 actos, adaptação de
Il mercato di Malmantile, 1796, cópia autógrafa de António José
de Oliveira, 24 f. (BN COD. 1397//9).
45) Comedia nova intitulada Alexandre na India, 1797, 51 f., comédia
em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira
(BN COD. 1395//4).
46) Novo drama intitulado Demetrio na Siria, 1797, 69 f., drama em 3
actos (BN COD. 1395//3).
82
Capitolo I
47) Attilio Regulo, drama heroico em 3 actos de Metastazio, traduzido
em portuguez por M.B. du Bocage, 26-28 Dez. 1832, 32 f., cópia
de M.J.L. Carvalho (BN COD. 12111).
48) O velho bizarro, comedia nova, 1825 [?], 46 f., cópia, comédia em
2 actos (BN COD. 12284).
Testi bilingui o in traduzione diversa dal portoghese
1) Adrianus in Syren: und dem glomürdigsten, opera, poesia de
Metastasio, traduzida por Antonio Prokoff, música de Antonio
Caldera, Wien, Gedruckt bey Johann Peter van Ghelen, 1732, 75
pp. (BN L. 6226//3 P.).
2) Farnace, dramma per musica dedicato alla nobiltà di Portogallo /
drama em musica dedicado à nobreza de Portugal, Impr. Giuseppe
Longhi, Bologna,. 1735 (BN F. 6812).
3) L’Artaserse dramma per musica / Drama para musica Artaxerxe,
Pietro Metastasio, Lisboa Occidental, Off. de António Isidoro da
Fonseca, 1737, 125 pp. (BN L. 2162//2 A.).
4) Demofoonte drama per musica / Drama para musica Demofonte,
Pietro Metastasio, música de Gaetano Maria Schiassi, Lisboa
Occidental, Off. de António Isidoro da Fonseca, 1737, 119 pp.
(BN F. 6812).
5) A Olimpiade drama para musica / L’Olimpiade, Pietro Metastasio,
Lisboa Occidental, Off. de António Isidoro da Fonseca, 1737, 117
pp. (BN H.G. 15033//6 P.).
6) Le pére de famille, comédie en trois actes et en prose, Avignon,
Chez Etienne Bleichnarr, 1758, 1 v. (BN L. 5490 P.).
7) Le veritable ami, comédie en trois actes en prose, Avignon, Chez
Etienne Bleichmarr, 1758, 1 v. (BN L. 5490 P.).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
83
8) Pamela, comédie en prose, Paris, De Bonnel, 1759, 1 v. (BN L.
5490 P.).
9) Il Tempio dell’eternità / O Templo da Eternidade, Porto, 1768
(BA 154-III-69).
10) L’amor artigiano / O amor artifice, dramma giocoso per musica
da rappresentarsi nel Nobil Teatro del Bairro Alto nella Primavera
del 1766, Lisboa, Stamperia di Pietro Ferreira Stampatore de la
F.R.N.S., 169 pp. (BAC E. 803 D/74).
11) A liberdade do Senhor Pedro Metastasio, com a tradução franceza
de M. Rousseau de Genebra e a portugueza de Termindo Pastor
Arcade, Lisboa, Regia Officina Typografica, 1773, 15 pp. (BN L.
10652//5 V.).
12) Il Conclave del MDCCLXXIV dramma per musica / The Conclave
of MDCCLXXIV, Roma – London, E. and C. Dilly, 1775, 125 pp.
(BN L. 23002 P.).
Partiture musicali a stampa
1) Giovanni Paisiello, Due arie serie e un rondò, Venezia, 1775, 15
f., 3 parti (BN M.P. 1319//1 V.).
2) Francesco Bianchi, Rondò caro oggetto, musica per il Demetrio,
Venezia, presso Antonio Zatta, 1780, 11 f. 9 parti (BN M.P.
1319//3 V.).
3) Niccolò Jommelli, La passione di Gesù Cristo signor nostro,
oratorio sacro da cantarsi nella casa dell’Assemblea delle Nazioni
Straniere la notte del 28 Marzo 1786, Lisboa, Stamperia Reale,
1786, 23 pp., ill. (BN M. 109 P.).
4) Giovanni Paisiello, Duetto serio, “Ne’ giorni tuoi felici”, con
recitativo, all’attual servizio delle L.L.M.M., per la sig.ª Anna
84
Capitolo I
Morichelli Bosello, per L’Olimpiade rappresentato nel Real teatro
di S. Carlo di Napoli, Napoli, Francesco Roncaglia, 1786, 13 pp.,
ill. (BN M.P. 1319//6 V.).
5) Wolfang Amadeus Mozart, La clemenza di Tito, “Ah! Perdona al
primo affetto”, duettino, 1791, 2 f. (BN M.P. 1381//6 V.).
6) Girolamo Crescentini, Dodici canzonette ou douze petits airs
italiens avec acompagnement de piano ou harpe, musique du
célébre Crescentini, paroles de Metastasio, avec la introduction
française par Mr. Dieu la Foi, Paris, a la Typographie de la Siréne
chez Carli, ca 1805, 2 v., testo bilingue italiano/francese, errore di
impaginaziopne a p. 25, Livre 1: n. 1 “Tu mi chiedi o mio tesoro”;
n. 2 “Dove rivolgo o dio”; n. 3 “Languir d’amore”; n. 4 “O teneri
pensieri”; n. 5 “Ecco quel fiero istante”; n. 6 “Dal dì ch’io vi
mirai”; Livre 2: n. 7 “Clori la pastorella”; n. 8 “Numi! Se giusti
siete”; n. 9 “Non v’è più barbaro”; n. 10 “Ch’io mai vi possa”; n.
11 “Per valli per boschi”; n. 12 “Se spiegar potessi” (BN C.I.C.
27//2 A. Col. Ivo Cruz).
Partiture musicali manoscritte
1) David Perez, Artaserse, 258 f., tra 1748 e 1778 (BN F.C.R.
156//14).
2) David Perez, Zenobia, “Voi leggete in ogni core”, tra 1751 e 1778,
5 f. (BN F.C.R. 156//15).
3) David Perez, Ipermestra, scena e duetto, tra 1754 e 1760, 24 pp.
(BN M.M. 217//14).
4) João de Sousa Carvalho, La Nitteti, 1766, 2 vol., partitura
autografa (BN F.C.R. 149//24).
5) David Perez, Demetrio, Salvaterra, 1766, 16 f. (Bn F.C.R. 156//1).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
85
6) La gelosia, cantata, autore non identificato, tra 1760 e 1780, 10 f.
(BN M.M. 189//5).
7) João de Sousa Carvalho, Duetto, “Ah non dirmi ingrato amante”,
con violini, viola e basso, 1778, 16 f., fogli sciolti (BN M.M.
336//5).
8) António da Silva Gomes e Oliveira, Aria La tortora innocente
palpita per timor, con violini, viola, traversieri, trombe da caccia e
basso, Queluz, 1779, 16 f. (BN M.M. 304/713).
9) Bernardo Ottani, La gelosia, cantata, tra 1780 e 1820, 4 f. (BN
M.M. 208//2).
10) Bernardo Ottani, Inno a Venere a tre voci, tra 1780 e 1820, 9 f.
(BN M.M. 208//5).
11) Bernardo Ottani, La scusa, cantata, tra 1780 e 1820, 4 f. (BN
M.M. 208//4).
12) Giovanni Paisiello, Antigono, Napoli, Real Teatro di S. Carlo,
1785, partitura del I atto, 113 f. (BN M.M. F.C.R. 149//17).
13) Giovanni Paisiello, Ne’ giorni tuoi felici, duetto con recitativo, tra
1786 e 1820, 21 f. (BN F.C.R. 149//32).
14) Giovanni Paisiello, Cari accenti del mio bene, recitativo e terzetto
per la Didone, tra 1794 e 1830, 37 f. (BN F.C.R. 149//33).
15) Giovanni Paisiello, Didone Atto Primo, 1794, 136 f. (BN F.C.R.
149//18).
16) Niccolò Jommelli, L’Isacco, oratorio a cinque voci con strumenti,
17--, 2 vol. (BN C.I.C. 79//1-2 Col. Ivo Cruz).
17) Marcos Portugal, Il Demofoonte, al Real Teatro di S. Carlo di
Lisbona, 1808, 344 pp., atto I (BN M.M. 231).
86
Capitolo I
Illustrazioni a stampa di scenari
1) Giovanni Berardi, Alessandro nell’Indie, (…nel terminar del
dramma… vedesi scender dall’alto il luminoso Tempio della
Gloria… Sul liminare del tempio saranno il Senno et il Valore
intenti a custodire l’ingresso, nell’interna parte vedransi disposte
ordinariamente le immagini delle più illustri herojne, et eroi
dell’antichità, e nel più distinto luogo quella della Regina…),
Lisboa, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755,
stampa ad acquaforte, 16,7x22,5 cm, basata sullo scenario disegnato
da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4927 P.).
2) Jean Baptiste Dourneau, Alessandro nell’Indie (atto terzo, scena
X, parte interna del Tempio di bacco magnificamente illuminato, e
rivestito di ricchissimi tappeti, dietro de’ quali al destro alto,
vicinissimi all’Orchestra, andranno a suo tempo a ricovrarsi Poro,
e Gandarte, in modo che rimangano celati a tutti i personaggi, ma
scoperti a tutti gli spettatori…), Lisbona, Regia Stamperia
Sylviana, e dell’Acacdemia Reale, 1755, stampa ad acquaforte,
17,1x22,5 cm, basata sullo scenario disegnato da Carlo Sicinio
Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4926 P.).
3) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto
primo, scena XI, Gran padiglione d’Alessandro vicino all’Idaspe,
con vista della Reggia di Cleofide sull’altra sponda del fiume),
Lisboa, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755,
stampa ad acquaforte, 17,7x22,6 cm, basata sullo scenario
disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4921
P.).
4) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto
secondo, scena XI – scena XV, appartamenti nella reggia di
Cleofide), Lisboa, regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia
Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 17,5x22,7 cm, stampa basata
sullo scanario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena (BN E.
4924 P.).
La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento
87
5) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto terzo,
scena I – scena IX, portici de’ Giardini Reali), Lisbona, Regia
Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, stampa ad
acquaforte, 17,8x22,7 cm, stampa basata sullo scenario disegnato
da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4925 P.).
88
Capitolo I
CAPITOLO II
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Metastásio chegou até nós, e por uma forma qualitativa e quantitativa
digna de se mencionar, em uma altura na qual se tentaria uma renovação
da cena portuguesa, uma sua possível “europeização”, com
aproveitamento de todas as situações ocasionais ou desencadeadas, que se
iam apresentando1.
II.1.
Questioni preliminari
La storia del teatro metastasiano in Portogallo è la storia della
composizione dei suoi rifacimenti, delle motivazioni che portarono
a storpiature di senso o a soppressioni di contenuti oggi
improponibili e che solo un’analisi sociologica del pubblico
lusitano del Settecento e della contingenza storica in cui si trovava
il Paese potrebbero spiegare. Non è difficile trovare giustificazioni
alle riscritture dei drammi del poeta cesareo nelle varie analisi
condotte dai maggiori studiosi del nostro teatro, seppur non riferite
specificamente alla realtà lusitana settecentesca, così come non
mancano le opinioni circa i vari rifacimenti che all’epoca e ben
oltre circolavano un po’ in tutta Europa. Da un punto di vista
prettamente sociologico, si assiste ad un protrarsi nel Settecento
delle esigenze dello spettatore–tipo del secolo precedente, che
aveva contribuito notevolemente al successo del melodramma,
dimostrando nei suoi confronti un apprezzamento e un’adesione
particolarmente evidenti. Tuttavia, a causa di tale successo di
pubblico, il dramma in musica subì un processo di ulteriore
volgarizzazione, grazie anche a quella sua fruibilità socialmente
trasversale che portò Claudio Varese a parlare dei libretti teatrali
come di “prodotti di consumo” «frettolosamente ricalcati sui
1
José da Costa Miranda, Apontamentos para um futuro estudo sobre o teatro de
Metastásio em Portugal no século XVIII, Sep. Estudos Italianos em Portugal, 36, Lisboa,
p. 147.
89
90
Capitolo II
modelli tragici e comici spagnoli di successo»2. In questo senso, il
teatro italiano tradotto e rappresentato in Portogallo nel corso del
Settecento non fece che riproporre, in ritardo, tutte le caratteristiche
del melodramma secentesco, e quel carattere di caotica
mescidazione letteraria descritto efficacemente da Paolo Gallarati:
la divaricazione dei registri stilistici toccava vertici inauditi, oscillando
con disinvoltura dal grottesco caricaturale delle scene comiche alla
sublimità aulica delle parti serie e dello sfarzoso surrealismo mitologico: i
lazzi clowneschi di personaggi fissi, strettamente imparentati con le
maschere della commedia dell’arte, venivano in tal modo liberamente
alternati alla nobiltà curiale dei protagonisti in uno spettacolo
disordinatamente composito3.
Alla domanda di un pubblico sempre più affascinato dagli
esibizionismi teatrali e dagli eccessi patetico–drammatici tanto
invisi al Metastasio, rispondeva una drammatugia ormai rassegnata
ad assecondare uno spettatore medio culturalmente disinteressato e
al quale la natura stessa dell’opera in musica poteva fornire
adeguate risposte in termini di mero intrattenimento ed evasione.
Di questo parere è ancora il Gallarati quando ritiene responsabili di
tale decadimento le caratteristiche stesse del genere librettistico, in
grado di rispondere alla diffusa richiesta di spettacolarità e
leggerezza:
il ruolo strumentale del testo per musica e, segnatamente, del libretto
operistico, ne fa un prodotto linguistico di natura particolare, dove quello
che conta non è tanto la ‘qualità’ letteraria, valore ovviamente ben accetto
ma secondario, bensì altri elementi molto più decisivi nel colpire
l’immaginazione del compositore e nel determinare la fisionomia globale
dello spettacolo: il taglio della drammaturgia, il rapporto tra le varie
forme di versificazione e i contenuti del discorso, tra versi sciolti e rimati;
la natura e varietà delle immagini, la disposizione dei contrasti e delle
peripezie e, sul piano più propriamente linguistico la peculiarità
dell’impianto ritmico e metrico che condiziona per spontanea filiazione la
dialettica ritmico–prosodica del canto, col suo enorme potere connotatorio
2
Claudio Varese, Scena, linguaggio e ideologia dal Seicento al Settecento. Dal
romanzo libertino al Metastasio, Bulzoni Editore, Roma, 1985, p. 165.
3
Paolo Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, EDT/Musica,
Torino, 1984, p. 7.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
91
e, in fondo, la stessa invenzione melodica. Questo spiega come mai,
soprattutto nell’Ottocento, indiscutibili capolavori del teatro musicale
abbiano potuto nascere in simbiosi con prodotti letterari francamente
scadenti ma dotati delle qualità indispensabili alle esigenze della
drammaturgia operistica, soddisfatte dal poeta nella più completa
dedizione4.
Pertanto se, da un lato, la tragedia aristotelica non riusciva più a
soddisfare le esigenze di una società dai profondi mutamenti come
quella settecentesca, persistendo solo tra ristrette cerchie di
estimatori, dall’altro, ad incrementare ancor di più la produzione
dei rifacimenti di valore discutibile contribuirono le spinte da parte
di compagnie e impresari teatrali interessati quasi unicamente ad un
discorso di tornaconti economici. È in tal senso che possiamo
leggere una riflessione di Costantino Maeder:
le leggi di mercato spietate, l’insicurezza economica, i tempi di
produzione, le esigenze del pubblico o del committente, tutto ciò favorì
un altro tipo di fenomeno intertestuale. La riduzione a libretto di opere
famose consentiva al poeta di concentrarsi sulla sola versificazione e sul
rifacimento del testo di base. D’altro canto l’impresario poteva già sperare
su un tutto esaurito alla prima: un libretto imperniato su una trama nuova,
creata da un librettista sconosciuto al grande pubblico poteva
compromettere il successo di tutta la stagione che dipendeva dalla
«prima» o dalle prime rappresentazioni. Opere basate su soggetti nuovi,
se non ideati da un librettista o da uno scrittore di grido, erano quindi rare.
Si potrebbe desumere che tale procedimento sia segno di decadimento
della cultura lirica e di per sé spia di cattiva qualità5.
È chiaro che anche l’opera metastasiana (così ben accolta dal al
pubblico portoghese, come ha già rilevato il Miranda)6 fu soggetta
a questa forzatura obbligata del testo originale entro parametri
rispondenti a criteri meramente commerciali. Una situazione di cui
4
Ivi, p. 3.
Costantino Maeder, Metastasio, l’«Olimpiade» e l’opera del Settecento, Il Mulino,
Bologna, 1993, p. 168.
6
«Nada consta, no já citado “Catálogo dos Livros Defesos", sobre Metastásio e os
seus textos, fossem estes de que índole fossem [...] os temas de que Metastásio se ocupava
e as características que imprimia às suas obras, em nada feririam, de um modo geral, as
convicções, religiosas e políticas, da sociedade portuguesa, de então» in J. da Costa
Miranda, Apontamentos, cit., pp.131-132.
5
Capitolo II
92
era a conoscenza lo stesso abate romano e alla quale egli non riuscì
comunque a porre rimedio7. Nel caso specifico di questa sorta di
ibrido letterario che è l’adattamento al gusto portoghese, la sua
proliferazione durante tutto il secolo si deve non solo in quanto
specchio di una società che amava identificarsi con i valori assoluti
elaborati dal teatro metastasiano (l’eroismo, la gloria, l’onore,
l’amore, ecc.), ma soprattutto perché poteva deliberatamente
accentuarne la sottile vena ironica che il testo originale lasciava
appena percepire. Sembra cioè che questi adattatori abbiano intuito
quelle possibilità di sdrammatizzazione latenti nel dramma
metastasiano e quella sorta di sottofondo comico che il Nicastro8
riteneva volontario in Metastasio e recentemente sottolineato anche
da uno studio di Alberto Beniscelli. A proposito della Didone
abbandonata, Beniscelli mette infatti in luce una sfumatura
larmoyant che indicherebbe un indubbio sostrato comico:
su suggerimento desanctiano, molti tra i più autorevoli critici metastasiani
— Claudio Varese e Walter Binni su tutti — hanno segnalato nella
Didone abbandonata la presenza di ampie zone di comicità, certificabile
anche in precedenti esperimenti quali l’Endimione; ed a sua volta Franco
Gavazzeni ha potuto documentare con accuratezza le disuguaglianze
stilistiche del testo. Certamente la Didone è opera disomogenea ove si
considerino, in raffronto alla solennità dell’assunto, la medietà delle
triangolazioni sentimentali, gli slittamenti dei protagonisti dal linguaggio
7
Un’altra osservazione del Gallarati ci conferma tale situazione: «Fuori di Vienna,
innanzi tutto, i drammi di Metastasio subivano frequenti alterazioni attraverso
spostamenti, tagli, inserzioni di arie e recitativi diversi secondo una prassi teatrale così
radicalmente estranea alle concezioni moderne da ammettere la pratica diffusa del
“pasticcio”, cioè d’un’opera che riuniva, sotto un titolo comune, brani di musicisti e,
talvolta, anche di poeti diversi. Questo fatto indusse Metastasio a promuovere e sostenere
alcune accurate edizioni delle proprie opere che, fissate in volumi, si sottraevano ai
condizionamenti di esecuzioni specifiche e fornivano una lezione definitiva di testi
notissimi ma diffusi, sovente, solo in versioni spurie, abbondantemente corrotte.» in P.
Gallarati, op. cit., p. 57.
8
«Si tratta di un elemento di cui lo scrittore si serve con coscienza, al fine di superare
le rigide barriere tra generi diversi; ciò non significa un ritorno a ibridi accoppiamenti di
ruoli contrastanti, come avveniva nel melodramma barocco, ma un impasto sottile di toni,
che smussano le loro punte più acute, per dare vita ad un amalgama fuso ed omogeneo
(non diversamente da quanto accade nella contemporanea comédie larmoyant, su cui non
a caso il giudizio del Metastasio è completamente positivo).» in Guido Nicastro,
Metastasio e il teatro del primo Settecento, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 87.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
93
lirico a quello prosaico, la stessa presenza di un personaggio "basso"
come Iarba, cavato direttamente dalla tradizione del melodramma
secentesco. […] Non è di poco conto che tra i primi a comprendere e
rilanciare nel cuore del teatro settecentesco l’esempio della Didone vi
fosse Carlo Goldoni. Non soltanto l’autore comico riprenderà nel suo
Impresario della Smirne la sigla metateatrale dell’Impresario delle
Canarie, l’intermezzo composto da Metastasio al fine di distanziare anche
parodisticamente gli eventi della Didone con la luce proveniente dai ritmi
della vita vissuta. Ma soprattutto, rovesciando nel momento cruciale della
sua riforma teatrale il rapporto tra finzione e realtà, spezzando persino il
filtro distanziante della parodia, egli individuerà «nei bellissimi e
dolcissimi versi della Didone» l’archetipo patetico-linguistico che
l’avrebbe aiutato, in lunga gittata, a scandagliare i mobili territori del
quotidiano9.
L’attività di riscrittura dell’originale metastasiano è, lo abbiamo
detto, affidata a traduttori spesso contemporaneamente editori delle
proprie opere, di cui oggi si sono perse le tracce, ma tramandatici
per lo più da testimoni di copie manoscritte opportunamente datate.
In ogni caso l’anonimato del traduttore–adattatore (assenza totale di
indicazione o al limite presenza delle sole iniziali) corriponde
anche all’assenza di qualsiasi prefazione esplicativa sull’attività
traduttiva operata nel testo specifico, nonchè di qualsiasi
riferimento alla storia del testo in territorio lusitano e della
motivazione delle aggiunte o soppressioni arbitrarie. Solo in un
caso specifico abbiamo rinvenuto una testimonianza diretta sul
lavoro di traduzione. Si tratta di un’avvertenza contenuta nel primo
tomo di una collezione presente nell’Archivio Osório Mateus
dell’Università di Lisbona, pubblicata nel 1783 e dal titolo
Composições Dramaticas do Abbade Pedro Metastasio traduzidas
no idioma Portuguez e Offerecidas à Serenissima Senhora D.
Maria Anna Infanta de Portugal por João Carneiro da Silva (fig.
9), contenente tra l’altro la dissertazione di Ranieri de’ Calzabigi e
comprendente le opere Artaxerxes, Adriano na Syria e Demetrio. Il
traduttore in questione, João Carneiro da Silva appunto,
«estimulado mais da grande paixão, que tive às referida
9
Alberto Beniscelli, Felicità sognate. Il teatro di Metastasio, Il Melangolo, Genova
2000, pp. 34-36.
94
Capitolo II
Figura 9. Centro de Estudos de Teatro, Arquívo Osório Mateus,
Universidade de Lisboa.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
95
Composições, que da vanagloria de Traductor», motiva così
l’opzione in favore del Metastasio, giustificando il proprio lavoro
solo con la presenza di un target di lettori monolingui:
não he em verso esta Tradução, porque por mais sublime que fosse, nunca
poderia igualar, nem ainda assemelharse ao Original, e nesse caso foi
melhor nem intentalla. Não tenho a vaidade de lisongear-me de que seja
exacta; antes creio, e confesso que apparece bem defeituosa. Quem
conhecer a grande
difficuldade da perfeita versão de hum idioma para outro diverso,
desculpará os defeitos, que nesta encontrar. E como he só para os que não
tiverem intelligencia da Lingua Italiana, sempre estes me ficarão devendo
esse disvélo, e o fazer-lhes gostar por este meio de humas tão excelentes
Obras, que tem encantado as pessoas de melhor gosto de todas as Nações,
para della fazerem as grandes estimações, que logrão felizmente10.
Utilizzando un’espressione che Luciana Borsetto usò per
definire l’attività traduttiva del Cinquecento, anche al lavoro di
rifacimento al gusto portoghese è indubbiamente possibile
applicare il concetto di “estetica della ricezione” («un’estetica
all’interno della quale la funzione espressiva dell’opera viene
completamente subordinata a quella comunicativa»)11, e vedremo
come la scarsa accuratezza editoriale di questi prodotti letterari si
associ indissolubilmente ad un decadimento del testo teatrale
riscontrabile tanto dal punto di vista lessicale, con una netta
semplificazione del linguaggio melodrammatico, quanto dal punto
di vista della manipolazione e ricreazione arbitraria di scene e
personaggi. È quindi possibile parlare di vera e propria riscrittura
creativa del testo metastasiano, nella quale il prototesto di
riferimento viene semplicemente utilizzato come griglia, schema o
canovaccio sul quale costruire liberamente un metatesto che
assecondi gli orizzonti di attesa del pubblico. In altre parole, il
mero divertimento a discapito della riconoscibilità delle origini
10
Composições Dramaticas do Abbade Pedro Metastasio traduzida no idioma
Portuguez e offerecidas à Serenissima D. Maria Anna Infanta de Portugal por João
Carneiro da Silva, tomo primeiro, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, anno 1783,
s.p.
11
Luciana Borsetto, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel
Rinascimento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1990, p. 262.
96
Capitolo II
culturali del testo di partenza. È naturale, quindi, che tali
rifacimenti rielaborassero i riferimenti culturali presenti nel testo di
partenza italiano tenendo conto delle esigenze di una cultura
ricevente dalle limitate richieste culturali. La tendenza al
rimaneggiamento dell’opera metastasiana a partire dalla seconda
metà del Settecento fu dunque avviata da quelle esigenze di
operabilità12 e di messa in scena di cui dovettero preoccuparsi
soprattutto gli adattatori che si trovavano a dover trasporre sulle
tavole del palcoscenico la perfetta pagina metastasiana. Un’efficace
descrizione del fenomeno dei “drammi metastasiani aggiustati” è in
un testo di Andrea Chegai:
le rappresentazioni metastasiane che nel testo divergono dagli originali
poetici sono le naturali conseguenze (e, come in un circolo vizioso,
l’origine stessa) di una drammaturgia stratificata e continuamente
modificabile: una sorta di gigantesco ipertesto, solo in parte fissato sulla
carta dei libretti ― il grosso si estendeva infatti nel bagaglio professionale
di letterati specializzati nella tecnica del patchwork librettistico ― , cui
attingere di volta in volta, in un clima di totale consenso da parte del
pubblico dell’opera. […] Per far virare la prassi operistica verso altri lidi
si dovettero attendere stimoli più incisivi, sul piano dei soggetti impiegati,
delle forme e delle risorse spettacolari; ma difficilmente ci si spinse a
rinnegare del tutto la tradizione precedente: se non altro per un debito di
riconoscenza, visto che il teatro metastasiano, in virtù della propria
irripetibile docilità strutturale, non aveva opposto resistenza
all’aggressione di germi atti a determinare il suo stesso dissolvimento (i
pantomimi, l’ampliamento corale), che in altri contesti si svilupperanno
come alcuni dei tratti innovativi di maggior rilievo13.
12
Il termine operabilidade viene proposto con efficacia da Maria João Brilhante,
quando sostiene, a proposito della traduzione teatrale, che «não se trata apenas de dar a
conhecer un texto de uma outra cultura; de procurar, através dele, alargar o campo
artístico, ideológico, político da cultura de chegada [...] trata-se igualmente de restituir o
carácter operável do texto, por vezes por uma companhia de teatro ou por um actor [...] de
fecundar a cultura teatral que passa a integrar, na sua língua, o simile desse “clima verbal”
e das operações que ele prevê». (Maria João Brilhante, Traduzir teatro: a questão da
operabilidade, in Literatura e Pluralidade Cultural, actas do 3° congresso Nacional da
Associação Portuguesa de Literatura Comparada, Edições Colibri, Lisboa, 1991, p. 485).
13
Andrea Chegai, L’esilio di Metastasio. Forma e riforma dello spettacolo d’opera
fra Sette e Ottocento, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1998, pp. 38-39.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
97
Considerazioni che in parte riscattano i giudizi fin qui espressi sui
risultati delle traduzioni dell’opera di Metastasio, se non a livello di
rispetto del testo di partenza e fedeltà corrispondente nel testo di
arrivo, quantomeno a livello di conoscenza di quel concetto di teoria
della traduzione che, molto tempo dopo, è stato definito
“omologazione”. Un concetto non del tutto assente nelle traduzioni
portoghesi del teatro settecentesco, almeno a livello di quelle che sono
le tecniche che lo rendono possibile: compensazione, spostamento ed
esplicitazione. Gli stessi concetti che José Mascarenhas, nella
spiegazione di quello che fu il lavoro del “traduttore traditore”
settecentesco, definisce deslocar e alterar, termini fondamentali
all’interno dell’elenco da lui stesso elaborato sulle caratteristiche
imprescindibili di tutti gli adattamenti al gusto portoghese:
– introduzir dois ou três graciosos, à maneira do teatro espanhol,
frequentemente criados chocarrões, de vida desbragada, viciosos na
linguagem e no comportamento cénico, como forma de cativar um
público heterogéneo, ainda muito influenciado pela comédia espanhola de
capa e spada;
– deslocar, para a nomenclatura nacional, localidades de outros países:
por exemplo, substituir o eixo Veneza-Mestre-Treviso pelo de LisboaAlmada-Azeitão;
– alterar nomes de personagens estrangeiras, procurando correspondentes
portugueses ou simplesmente outros nomes com maior associação
cómica;
– introduzir novas cenas, cortar a extensão de solilóquios ou diálogos
mais longos ou, ainda aumentar as falas de determinada personagem,
dando-lhe um maior peso dramatúrgico, solilóquios próprios e outras
contracenas;
– separar, de um lado, escritores e intelectuais que tentam trazer para
Portugal, através da tradução literal, obras de grandes escritores
estrangeiros [...] e, do outro, tradutores/adaptadores, escriturados ou
assalariados texto a texto, ligados a companhias ou a salas de teatro, como
o próprio Nicolau Luís e os demais escritores daquelas salas;
– ignorar na edição, frequentemente, o nome do autor estrangeiro a que se
refere a obra mas, também, de igual forma, o nome do tradutor/adaptador;
– traduzir a prosa para verso e vice-versa, e alterar a medida do verso;
– adaptar, às exigências da censura, os diálogos, as temáticas e o enredo
de tudo o que pudesse ser motivo de recusa censória, expurgando
questões do foro religioso ou político14.
14
José Mascarenhas, op. cit., pp. 50-51.
Capitolo II
98
II.2.
Alessandro nell’Indie
Un fitto scambio epistolare con Carlo Broschi, detto il Farinello,
e con il Calzabigi, mette in luce un’attività dell’abate romano di
trasposizione dell’Alessandro nell’Indie per la rappresentazione
madrilena che ci consegna un Metastasio particolarmente sensibile
al problema degli adattamenti in terra iberica e, soprattutto, al
corrente di quel problema che egli stesso chiamò “circoncidere e
pettinare” secondo il gusto. La corrispondenza sullo specifico
adattamento spagnolo, che ha inizio il 15 dicembre 1753 e che
sembra concludersi con un’ultima missiva a Ranieri Calzabigi il 31
maggio 1754, riesce a mettere bene in evidenza la figura di un
Metastasio quasi adattatore di se stesso:
A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID
Vienna 15 Dicembre 1753.
[…] Ho già circonciso il primo atto dell’Alessandro: oh che macello!
Ne ho già tagliati 266 versi e tre arie.
Caro gemello, questo mestiere ingratissimo non si fa che per voi. Il
farsi eunuco di propria mano è sacrificio che ha pochi esempi: pur si fa, e
si procurerà che non se ne risenta lo spettacolo se non con vantaggio15.
A RANIERI CALZABIGI ~ PARIGI
Vienna 15 Gennaio 1754.
[…] In questo tempo io ho corretto il mio Alessandro nell’Indie. Ne
ho raccomodati i primi due, e quasi affatto rinnovato l’atto terzo, di modo
ch’io ne sono presentemente molto più soddisfatto. Mi spiacerebbe molto
che fosse già impresso nell’antica maniera. Avvertitemi subito se siete in
tempo di farne uso, e io ve ne manderò la copia per la medesima strada
dei signori Schmithmer. La nuova edizione sarebbe per questa via ancora
molto distinta dalle precedenti16.
15
16
P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 878.
Ivi, p. 885.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID
Vienna 23 Febbraio 1754.
[…] Io vi mando per la posta dunque il mio Alessandro nell’Indie
circonciso e pettinato a vostro e a mio gusto17.
A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID
Vienna 4 Febbraio 1754.
È qualche settimana che, avendo terminato e messo in netto l’Alessandro,
dissi al signor conte d’Azlor che attendeva l’occasione di qualche spedizione per
mandarlo; poiché non avendomi voi affrettato non credeva necessario di mandarlo
per la posta in difetto di corriere. Ieri mi disse che vi sarà l’opportunità a
momenti, onde preparo la lettera e il piego. Troverete in primo luogo l’opera
dell’Alessandro nell’Indie più corta di quello che finora è stata di 561 versi e nove
arie, ma accresciuta di moto, d’interesse e di vivacità, particolarmente nel terzo
atto tutto affatto rimpastato di nuovo. Qual maledetto lavoro sia stato questo, può
ben comprenderlo unicamente il mio caro gemello a forza di talento e
d’esperienza, o qualcuno di quelli che hanno avuta la disgrazia di comporre opere,
ma non già tutti. Io vi ringrazio che mi avete fatto perfezionare un’opera ch’era
piena di fuoco e di poesia, ma che languiva nel terzo atto, e che io senza lo
stimolo di compiacervi non avrei mai raccomodata, siccome ora ho fatto, e in
maniera che, se si farà una decente impressione delle opere mie, spero che mi farà
meno disonore nell’abito della presente riforma. Troverete di più in un
quinternetto a parte tutte le uscite, l’entrate, le passate e le situazioni dei
personaggi, secondo io le ho stabilite sul mio tavolino quando ho composta
l’opera. E questa fatica è utilissima per l’esecuzione delle azioni, particolarmente
nell’Alessandro, che n’è ripieno. Quando non v’è imbarazzo, non lo guarderete
addosso, e quando le azioni s’intricano, vi solleverà dalla pena di pensarvi su18.
A RANIERI CALZABIGI ~ PARIGI
Vienna 31 Maggio 1754.
[…] Fidatevi della mia esperienza su i vantaggi che hanno ritratti i miei
drammi da’ cambiamenti, aggiunte o accorciamenti che io vi ho fatti, e
particolarmente nell’Alessandro. Quella parlata appunto, per cagion d’esempio,
dell’artifiziosa Cleofide, io mi sono avveduto che sul teatro raffredda il corso
dell’azione, e colorisce troppo svantaggiosamente il carattere di Cleofide; onde si
sbadiglia nell’uditorio finché la gelosia di Poro non viene a solleticarlo e a
giustificare a titolo di vendetta gli eccessivi favori de’ quali è prodiga Cleofide
con Alessandro. Il terzo atto poi mancava di moto e di chiarezza, e presentemente
17
18
Ivi, p. 901.
Ivi, pp. 893-894.
99
Capitolo II
100
è una catastrofe delle più vive ch’io abbia mai scritto, e delle meno oscure. Né per
insinuarci, in grazia degli scolari, la famosa più che rara risposta di Poro, io vorrei
frapporre ozio al violento corso dell’azione. Per gli sciocchi poi che misurano il
merito del libro dal numero de’ versi, v’è il suo rimedio. Relegate al fine
dell’opera a cui appartengono, o del volume che l’include, i versi e le arie risecate
dall’autore; e tutti vi troveranno il conto loro; oltre di che io prenderò appunto
questo motivo nella lettera che vi scriverò da stamparsi, e l’editore e l’edizione
non ne risentiranno svantaggio19.
La prima copia di un dramma metastasiano rappresentato in
Portogallo corrisponde anche ad uno dei testimoni più antichi che si
possono contare tra le traduzioni del poeta cesareo. Si tratta
dell’Alexandre na India del 1736 (fig. 10), rappresentato solo sette
anni dopo la prima romana (26 dicembre 1729), a dimostrazione
del rapido dilagare fin negli estremi confini d’Europa della fama
del Trapassi. Il testo in questione presenta una traduzione a fronte
molto fedele all’originale a livello sintattico e tematico, ma con
evidenti manipolazioni a livello di scelte lessicali. In questo senso
si rileva quella che sarà una costante nella maggior parte dei testi
che qui proveremo ad analizzare, quel fenomeno dell’esplicitazione
per cui, laddove il linguaggio dell’originale italiano risulta
fortemente allusivo, metaforico, immaginifico, si ha l’opzione del
traduttore portoghese in favore di termini decisamente più espliciti,
denotativi, di minor impatto emotivo. Citiamo solo alcuni esempi
di tali scelte traduttive:
rivale – namorado
sete – ambição
allori – triunfos
sudori – trabalhos
germogliar – nascer
mendicando una morte – procurando a morte
arcani – segredos
Dite – Inferno
l’amiche sponde – favorável o mar
io ‘l suono intesi/de’ metalli – eu ouvi o som/das trombetas20
19
20
Ivi, pp. 927-928.
Alexandre na India, drama para musica para se representar em Lisboa na
Sala da Academia na Praça da Trindade no anno de 1736, spassim.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Figura 10. (BN, F. 6812)
101
102
Capitolo II
Figura 13. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca da Arte, TC
771).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
103
Una possibile ragione di questa scelta a favore della
semplificazione lessicale potrebbe avere a che fare con un
atteggiamento del pubblico portoghese poco incline a voli pindarici
d’ogni sorta e probabilmente desideroso di assistere a dialoghi
caratterizzati da concretezza e semplicità di immagini, come pure
occorre tener conto del fatto che la traduzione a fronte avrebbe
potuto svolgere semplicemente la funzione parafrastica di
comprensione generale del testo.
Il secondo esemplare su cui richiamiamo l’attenzione del
lettore è il libretto tutto italiano di un Alessandro nell’Indie
(fig. 11) appositamente trascritto per la rappresentazione nel
contesto della corte regia lisbonese e stampato presso la Regia
Stamperia Sylviana e dell’Accademia Reale nel 1755, il quale
testo, oltre a segnalarsi per l’accuratezza editoriale che trova
giustificazione unicamente nel suo destinatario privilegiato (a tal
punto da includere nel frontespizio non solo nomi e titoli
dell’autore del dramma ma anche dei compositori di licenza e
musica), contiene un apparato iconografico relativo alle scenografie
allestite su disegno del Bibbiena.
La storia editoriale di questo fortunato dramma di Metastasio
prosegue con un esemplare dalla modesta fattura pubblicato nel
1764 presso l’officina libraria di Francisco Borges de Sousa e dal
titolo emblematico di Vencer-se he mayor valor (fig. 12), titolo che
di primo acchito non permette un’individuazione dell’ennesima
traduzione dell’Alessandro nell’Indie, reso noto infatti solo da una
scorsa dei nomi degli Interlocutores e, chiaramente, dalla lettura
del testo. Ci troviamo di fronte ad un prodotto che presenta tutte le
caratteristiche elencate dal Mascarenhas per gli adattamenti al
gusto portoghese, a partire dall’indicazione di genere, quell’Opera
Nova che segnala da sé la consapevolezza della realizzazione di un
rifacimento o di una riscrittura nuova, appunto, quindi differente,
rimaneggiata, rielaborata rispetto non solo al testo di partenza
italiano ma anche rispetto alle traduzioni portoghesi che l’hanno
preceduta. A ciò si aggiunge naturalmente la scelta di mutare
completamente il titolo dell’originale metastasiano, con quella frase
(“Vincere se stessi è il valore più grande”) che non racchiude
semplicemente la morale sottesa al dramma in oggetto (morale che
104
Capitolo II
Figura 12. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC
224).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
105
quasi sempre viene ripresa e ribadita a conclusione dell’ultima
scena)21, ma che ha soprattutto funzione di titolo tematico, per
usare la terminologia di Genette, di modo che allo spettatore possa
arrivare immediatamente il messaggio sul contenuto dell’opera che
si accingeva ad essere rappresentata. E, tuttavia, accanto ad un uso
didattico–moralizzante del teatro italiano in terra lusitana, sta
fondamentalmente nell’accostamento della componente comico–
triviale rappresentata dai criados o graciosos al gusto portoghese
tutta l’eversività originale del teatro portoghese. In questo senso, il
costante scontrarsi dell’impostazione seria ed impegnata con
l’intrusione del comico e del leggero tipico del carattere iberico,
non fa che riprendere e ricordare le caratteristiche del genere semi–
serio napoletano che ha inizio nel primo Settecento, di cui non solo
il ricorso all’agnizione e al travestimento costituiscono punti di
contatto fondamentali, ma anche una soluzione tematica quale il
matrimonio finale di tutti i personaggi in scena dopo più o meno
tribolate peripezie. Del resto, non dev’essere stato un caso il fatto
che a Lisbona circolassero a metà del XVIII secolo e con una certa
frequenza opere di autori significativi del teatro buffo napoletano
quali Alessandro Scarlatti, Pergolesi, Jommelli, Traetta e,
soprattutto, Paisiello.
Ma una prima discrepanza che possiamo segnalare tra questa
traduzione del 1764 e l’originale italiano riguarda senz’altro la
struttura complessiva degli atti e la suddivisione interna delle varie
scene. Laddove il testo di partenza presupponeva la presenza di 15
scene per i primi due atti e 10 scene per il terzo ed ultimo atto, la
versione portoghese propone una struttura duplicemente tripartita, e
in questo senso molto più equilibrata, in cui ad ognuno dei tre atti
corrispondono solo tre lunghe scene, che accorpano la quantità di
scene metastasiane suddividendole semplicemente attraverso un
cambio di scenario o l’ingresso e l’uscita di un personaggio
all’interno di una medesima scena (con la sola eccezione della
21
Si vedano a questo proposito le battute finali della traduzione (p. 48):
Gandarte. E esta acção aqui findou,
Donde aprenda todo o humano
Todos.
Os virtuosos costumes,
Que devem ter os honrados.
Capitolo II
106
seconda scena del terzo atto interamente dedicata ad un dialogo tra
graciosos ovviamente non presente nell’originale). In pratica, gli
atti del testo di arrivo si susseguono secondo il seguente schema:
Testo di arrivo
ACTO I
Scena I
Scena II
Scena III
→
→
→
Testo di partenza
ATTO PRIMO
Scene 1-5
Scene 6-10
Scene 11-15
ACTO II
Scena I
Scena II
Scena III
→
→
→
ATTO SECONDO
Scene 1-4
Scene 5-11
Scene 12-15
ACTO III
Scena I
Scena II
Scena III
→
→
→
ATTO TERZO
Scene 1-8
graciosos
Scene 9-10
La trama centrale (che racconta della generosità di Alessandro
Magno nei confronti di Poro e Cleofide, sovrani delle Indie, vinti
ma infine perdonati per i sotterfugi sleali escogitati da entrambi con
l’aiuto del traditore greco Timagene) se non presenta mutamenti a
livello contenutistico, contiene però inserimenti di dialoghi, a volte
molto lunghi, che tendono a caricare di estremi accenti patetici i
discorsi dei personaggi e a caratterizzarli in termini decisamente
più melodrammatici che tragici, rispettando in questo l’edizione
veneziana del Bettinelli datata 1733-1758, in realtà rigettata dal
Metastasio e ricorretta per l’edizione parigina del 1780-82 (vedova
Hérissant). In altre parole, quelli che a prima vista sembrano
mutamenti di atteggiamenti ed azioni che attribuiscono agli
interlocutori in scena caratteristiche della personalità via via più o
meno spostate verso toni di eccessivo lamento o commiserazione di
sé, di cui un esempio è la coloritura dell’impulsività di Poro, tratto
del carattere che nella versione portoghese emerge con più forza
della sua ben nota gelosia, arricchita nel testo in traduzione di
accenti di violenta ira ed esasperata impulsività che non troviamo
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
107
nell’edizione parigina del Metastasio, si spiegano in realtà con la
comunanza della lezione bettinelliana. In questo senso è rivelatrice
già la prima battuta del dramma, laddove la passionalità del re
indiano tocca vette di una drammaticità lacerante vicina al suicidio,
e che riprende appunto la variante degli anni Trenta:
EDIZIONE
BETTINELLI
1733-58
Atto I, scena I
Poro
Fermatevi codardi! Ah!
Con la fuga
Mal si compra una vita.
A chi ragiono?
Non ha legge il timor. La
mia sventura
I più forti avvilisce, io la
ravviso.
Le calpestate insegne,
Le lacere bandiere,
L’armi disperse, il
sangue, e tanti e tanti
Avanzi dell’insana
Licenza militar tolgono il
velo
A tutto il mio destino. È
dunque in cielo
Sì temuto Alessandro
Che a suo favor può fare
ingiusti i numi?
Ah! Si mora, e si scemi
Della spoglia più grande
Il trionfo a costui. Già
visse assai
Chi libero morì.
(in atto di uccidersi22
22
23
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena I
Poro
Soldados vis, esperai,
A fuga detende,
infames,
Vede ganhais no socego
O que perdeis no
resgate;
Não se defende fogindo
Da vida a jóia
admirável,
Que o salvá-la com
deshonra
He perdê-la com ultraje.
Mas a quem fallo? A
quem chamo?
Quando vejo, infeliz
trance!
Que não tem leis o
temor
Impresso em peitos
cobardes.
Já vejo minha desgraça,
Como minha em tal
combate
Nos peitos mais
valorosos
Infunde fraqueza
grande.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 311 e 1443-1444.
Ivi, p. 311.
EDIZIONE
HÉRISSANT
1780-82
Atto I, Scena I
Poro
Fermatevi codardi! Ah!
Con la fuga
Mal si compra una vita.
A chi ragiono?
Non ha legge il timor. La
mia sventura
I più forti avvilisce. È
dunque in cielo
Sì temuto Alessandro
Che a suo favor può fare
ingiusti i numi?
Ah! Si mora, e si scemi
Della spoglia più grande
Il trionfo a costui… Ma
la mia sposa
Lascio in preda al rival?
No, si contrasti
(ripone la spada nel
fodero
L’acquisto di quel core
Sino all’ultimo dì23.
108
Capitolo II
Debaixo dos pés
prostradas
As insignias militares,
As armas dispersas,
rotas
As bandeiras, vivo o
sangue,
E tão supremos despojos
da militar liberdade?
O meu infeliz destino
Conhecer todos me
fazem.
É possivel que assim
seja
Tão temido este
Alexandre,
Que, para o favorecerem
Do Ceo as Sacras
Deidades,
Dando auxílio às
injustiças
Injustas queirão chamarse!
Eu mais remedio não
sinto,
Que o morrer, co’ a
morte aparte
O mais soberbo triunfo
Com que pode laurearse,
Já muito viveo quem
morre
Liberto24.
Il venenoso ciume che caratterizza la figura del Poro portoghese
rende immediatamente l’idea di un amore per Cleofide
caratterizzato da una gelosia irosa che, tuttavia, non accieca il re
indiano, al contrario, lo rende perfettamente consapevole della
24
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, traduzida do Italiano em o
Portuguez idioma, e ornada ao gosto dos Lusitanos Theatros, por M.C. de M.M., Lisboa,
Off. Francisco Borges de Sousa, 1764, pp. 3-4.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
109
portata distruttiva, velenosa appunto, di un sospetto continuamente
alimentato e quasi coltivato con masochistico piacere, come
saranno quasi tutte le elucubrazioni del Poro portoghese, spesso al
limite dell’illogicità.
Una seconda differenza, questa volta più a livello di efficacia
della costruzione sintattica che lessicale, è l’incipit della risposta di
Poro ad Alessandro riguardo le sue origini e la sua identità, qui
celata sotto le mentite spoglie del guerriero Asbite. In questa
occasione è il testo portoghese a perdere in forza oratoria, in
eloquenza di energico impatto emotivo rispetto ad entrambe le
edizioni originali:
EDIZIONE
BETTINELLI
1733-58
Atto I, Scena I
Aless.
Guerrier, chi sei?
Poro
Se mi richiedi il nome,
Mi chiamo Asbite; se il
natal, su ‘l Gange
Io vidi il primo dì; se
poi ti piace
Saper le cure mie, per
genio antico
Son di Poro seguace e
tuo nemico25.
25
26
ÓPERA NOVA
1764
EDIZIONE HÉRISSANT
1780-82
Acto I, cena I
Atto I, scena II
Alex.
Quem és, Soldado, me
dize?
Poro
Se perguntas, (ah
Pezares!)
(À p.)
Qual é meu nome, é
Asbites;
Se pertendes te declare
Donde tive o
nascimento?
Saberás que foi no
Ganges:
E se o que faço também
Saber desejas? Só sabe
Que sou, por força de
génio,
Um teu inimigo
grande;
E sou Soldado de Poro
Aless.
Guerrier, dimmi: chi sei?
Poro
Nacqui sul Gange;
Vissi fra l’armi; Asbite
ho nome:
Non so che sia timor; più
della vita
Amar la gloria è mio
costume antico;
Son di Poro seguace e
tuo nemico26.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1445.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 312.
Capitolo II
110
Por natureza. Isto
baste27.
È evidente che il verso portoghese riesce a stemperare la
coincisione perfetta della declamazione italiana, in un concatenarsi
di elucidazioni dalla minore efficacia e dalla scarsa immediatezza
emotiva, soprattutto a causa dell’incalzare delle ipotetiche retoriche
«Se perguntas.... Se pertendes.... se o que faço...», molto meno
dirette e taglienti del nostrano «Nacqui... Vissi.... Amar...».
Allo stesso modo, un passaggio rifiutato nella versione
definitiva in corrispondenza della quarta scena del primo atto, uno
scambio di battute di una certa consistenza tra Cleofide e Poro, non
solo non aggiunge nulla di significativo alla trama di fondo del
testo, ma non costituisce altro che un rinnovarsi di promesse di
fedeltà insieme ad un ampio sfogo dei moti della passione e della
gelosia più cieca, rasentando spesso lo psicologismo più infruttuoso
e monotono. Un passaggio quindi che, se da un lato ci rivela un
traduttore conoscitore degli aspetti più reconditi della personalità
umana, e in questo forse troviamo un merito, dall’altro non fa che
calcare fortemente sul patetismo più stucchevole e sull’insistente
reiterarsi di elucubrazioni mentali dei personaggi più tormentati,
che poco corriponde alla perfetta ed incisiva concinnitas
metastasiana finale:
EDIZIONE BETTINELLI
1733-58
Atto I, Scena VI
Acto I, cena II
Poro
(Ecco l’infida!) Io vengo,
Regina, a te di fortunati eventi
Felice apportator.
(con ironia amara
Cleof. (rasserenandosi
Numi! Respiro.
Che rechi mai?
Poro
Aqui vejo a desleal. (À p.)
Dai-me esforço, Deoses Sacros.
Rainha, a dar-te notícias
De sucessos muito faustos
À tua presença venho.
Cle.
E quaes são?
27
ÓPERA NOVA
1764
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., pp. 4-5.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Poro
Per Alessandro al fine
Si dichiarò la sorte. A me non resta
Che una vana costanza,
Che un inutil ardir.
Cleof.
Son queste, oh Dio,
Le felici novelle?
Poro
Io non saprei
Per te più liete immaginarne. Il solo
Inciampo al vincitor com me si toglie;
Onde potrai fra poco
In lui destar gl’intepiditi ardori,
E far che, ossequioso,
Del donato Oriente
Venga a deporti al piè tutti i trofei.
Cleof.
Ah! Non dirmi così, che ingiusto sei.
Poro
Ingiusto! È forse ignoto
Che, quando in su l’Idaspe
Spiegò primier le pellegrine insegne,
Adorasti Alessandro? E che di lui
Seppe la tua beltà farsi tiranna?
Forse l’India no ‘l sa?
Cleof.
L’India s’inganna.
Io non l’amai; ma, dall’altrui ruine
Già resa accorta, al suo valor m’opposi
Con lusinghe innocenti, armi non vane
Del sesso mio. D’onde sperar difesa
Maggior di questa? Era miglior
consiglio
Forse nell’elmo imprigionar le
chiome?
Coll’inesperta mano
Trattar l’asta guerriera? Uscendo in
campo,
Vacillar sotto il peso
D’insolita lorica, e farmi teco
Spettacolo di riso al fasto greco?
Torna, torna in te stesso: altro pensiero
Chiede la nostra sorte
Poro
Eu tos declaro:
Que por parte de Alexandre
Já se declarou o fado;
E que a mim só me ficou,
Entre tão grandes trabalhos,
Uma vã constância, e um
Arrojo inútil, e insano.
Cle.
E dize, as novas felices
São estas, que me tens dado?
Poro
Mais agradáveis notícias
Para o teu gosto reparo
Não podia descobrir
Meu vigilante cuidado:
Com a minha infeliz sorte
Ao vencedor Soberano
Para os triunfos que emprende
Se tira todo o embaraço.
Brevemente poderás
Com mais reverente agrado
Renovar o antigo amor,
E fazer que tributário
Se sacrifique os despojos
Do Oriente conquistado.
Cle.
Ah, não me falles assim,
Porque és injusto, e tirano.
Poro
Injusto! Pois por ventura
Não é público a este estado,
Que desde a primeira vez,
Que desse Alexandre Magno
Se virão suas bandeiras
Tremolar no Idaspes claro,
Lhe rendeste adorações?
E que vencê-lo, e domá-lo
Soube a tua formosura?
Toda a Índia sabe o caso.
Cle.
Engana-se a Índia toda,
Nunca de mim foi amado:
Só me quiz fazer prudente
111
Capitolo II
112
Che quel di gelosia.
Poro
Qual è? Pretendi
Che d’Alessandro al piede
Io mi riduca ad implorar pietade?
Vuoi che sia la tua mano
Prezzo di pace? Ambasciador mi vuoi
Di queste offerte? Ho da condurti a
lui?
Ho da soffrir tacendo
Di rimirarti ad Alessandro in braccio?
Spiègati pur, ch’io l’eseguisco e
taccio28.
28
29
Com os alheios trabalhos;
Ao seu valor só me oppuz
Com lisonjeiros recatos,
Que são as mais fortes armas
De um sexo débil, e fraco.
Onde poderia achar
Do que este melhor reparo?
Seria melhor conselho
Occultar meus louros raios
Debaixo de um elmo duro?
Ou sem exercício o braço
Servir-se da dura lança,
Como inútil aparato?
E oprimida com o peso
Das armas sair ao campo?
Ou finalmente, contigo
Fazer-me objecto de escarneo
À vaidade dos Gregos,
E ao valor dos mais Soldados?
Ora torna, torna em ti,
Outros conceitos mais altos,
Que os do teu ciume, pede
O nosso mísero fado.
Poro
Pois pertendes que eu aos pés
Desse inimigo tirano
Lhe vá implorar piedade?
Queres que o preço mais grato
Da paz seja a tua mão?
Ou que em tantos sobresaltos
Seja o próprio mensageiro
Destes iníquos contratos?
E hei–de soffrer, sem fallar,
Ver de Alexandre nos braços
Aquella, que no meu peito
Tem amor já colocado?
Manda-me, que eu te seguro
Que tudo farei calando29.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 1447-1448.
Ivi, p. 1450.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
113
Altre varianti sembrano costruite inizialmente allo scopo di
caratterizzare con una coloritura più o meno accentuata, a seconda
delle finalità, sfumature della personalità dei personaggi in azione.
È un fatto, ad esempio, che Poro venga dipinto, in materia d’amore
e di gelosia, con i tratti tipici della fragilità femminile, con
l’inquietudine tormentata dell’amante incerto e sospettoso che
attinge livelli di un martirio psicologico molto meno accentuato nel
Metastasio finale. Si tratta di una serie di rimproveri dell’amico
Gandarte a Poro riguardo la sua fragilità psicologica e
comportamentale, rimprovero che invece dell’indignazione per
tanto ardire, induce il re a confermare ed esasperare maggiormente
le ragioni della propria condotta:
EDIZIONE BETTINELLI
1733-58
Atto I, Scena IX
Gand.
Fermati. E vuoi
Per vana gelosia
Scomporre i gran disegni? A gli occhi
altrui
Debole comparir? Vedi che sei
A Cleofide ingiusto, a te nemico.
Poro
Tu dici il vero, io lo conosco, amico.
Ma che perciò? Rimprovero a me
stesso
Ben mille volte il giorno i miei
sospetti;
E mille volte il giorno
Ne’ miei sospetti a ricadere io torno
Se possono tanto
Due luci vezzose,
Son degne di pianto
Le furie gelose
D’un’alma infelice,
D’un povero cor.
S’accenda un momento
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena II
Gand.
Espera, Senhor. E queres,
Por uns mal nascidos zelos,
Desordenar os desígnios
Dos nossos altos projectos?
Pertendes todos te tenhão
Por fraco? Eu o não tolero.
Considera com Cleofide
És ingrato, és desattento,
E que, obrando assim, te fazes
Inimigo de ti mesmo.
Poro
Não te enganas no que dizes,
A verdade eu bem conheço,
Pois que das minhas suspeitas
A mim próprio reprehendo;
Mas mil vezes cada dia
Tropeço no que suspeito.
Não posso mais demorar-me,
Acabem-se os meus desvelos,
E à vista de Cleofide
Tenhão fim meus pensamentos.
Matão-me os zelos, ardo como louco
Capitolo II
114
Chi sgrida, chi dice
Che vano è il tormento,
Che ingiusto è il timor30.
Neste fogo infernal do mal violento,
E das chamas, que exhla o
sentimento,
Nem sequer respirar me deixa um
pouco:
Oh inferno de amor! Onde não toco
C’um limitado alívio ao meu
tormento,
Até nos mesmos fumos me sufoco:
Se remedio não tenho ao mal tirano;
E me sinto morrer com tanta incúria,
Sirva-me o mesmo mal de desengano:
À vista do inimigo sinta a injúria,
Que se mais me augmentar do fogo o
dano,
Abraze-o deste inferno a mesma
fúria31.
Sempre all’interno di quella tecnica che abbiamo definito
dell’esplicitazione, si assiste alla frequente sostituzione dell’aria a
fine scena con un recitativo chiarificatore dei sentimenti del
personaggio, allo scopo di ribadire o sottolineare ogni sfaccettatura
dei segreti dell’animo e mostrando spesso una ridondanza non
necessaria all’economia del testo. Un primo esempio è la reazione
di Poro alla spada datagli in dono da Alessandro, reazione che la
traduzione portoghese svolge con una quantità di contenuti non
presenti né nell’edizione veneziana né in quella parigina:
EDIZIONI BETTINELLI E
HÉRISSANT
Atto I, scena II
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena I
Poro
Vedrai di questa spada il lampo,
Come baleni in campo
Sul ciglio al donatore.
Conoscerai chi sono:
Poro
He forçoso aceitar-te
A dádiva, que me ofereces,
Inda que ao depois alcances,
Que a que foi tua defensa
30
Ivi, p. 1450.
31
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 11.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Ti pentirai del dono;
Ma sarà tardi allor32.
115
Seja estrago do teu sangue;
Quando por feridas tantas
Esta espada te declare
Qual é o uso que dela
Faz Asbites, pois que ha–de
Em teu damno procurar
As ocasiões de arruinar–te.
Tu saberás como esgrimo
Esta espada rutilante
Quando morda esse teu peito
Como mortífero áspide.
De quem sou prova bem certa
Te ha–de dar, e deste lance,
Que vanaglorioso fizeste,
Te arrependerás, mas tarde;
Reconhecendo que a espada,
Que liberal me offertaste,
Ha–de ser em tua ofensa
Um vivo raio de Marte33.
Stesso discorso per l’aria a conclusione della terza scena del
medesimo atto, cantata da Alessandro per rispondere alla proposta
di Timagene sulla necessità di tenere prigioniera Erissena, sorella
di Poro, versi resi in portoghese come segue:
EDIZIONI BETTINELLI E
HÉRISSANT
Atto I, scena III
Aless.
Vil trofeo d’un’alma imbelle
È quel ciglio allor che piange:
Io non venni insino al Gange
Le donzelle a debellar.
Ho rossor di quegli allori,
Che non han fra’ miei sudori
Cominciato a germogliar34.
32
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena I
Alex.
O ilustre peito, que o valor
inflama,
Não consegue no débil a vitória,
Antes perde o brazão da heróica
chama,
Se no torpe da acção desdoura a
glória;
É Herói só aquele a quem a fama
Ivi, p. 313.
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 6.
34
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 314-315.
33
Capitolo II
116
Lhe dá lugar no templo da
memória,
Regolando as acções da
heroicidade
Pelo puro brazão da eternidade35.
Caso ancor più eclatante è la versione dell’aria che precede
l’ottava scena del primo atto, laddove non solo muta il lessico e la
costruzione rimata del verso, ma cambiano totalmente i concetti
espressi dal personaggio di Cleofide nel placare le gelosie
dell’amato Poro. Se, infatti, nel testo di partenza la regina delle
Indie si difende con gli argomenti della sua stessa passione per
Poro, la traduzione portoghese evita sostanzialmente temi
eccessivamente intimistici e sentimentali, per affidare
l’argomentazione della propria onestà ai valori assoluti che devono
albergare negli animi nobili, con tanto di riferimenti alla mitologia
greca e metafore belliche:
EDIZIONI BETTINELLI E
HÉRISSANT
Atto I, scena VII
Cleofide. [...]
Se mai turbo il tuo riposo,
Se m’accendo ad altro lume,
Pace mai non abbia il cor.
Fosti sempre il mio bel nume;
Sei tu solo il mio diletto;
E sarai l’ultimo affetto,
Come fosti il primo amor36.
35
36
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena II
Cle. [...]
Desterra do ciúme a vil torpeza,
Que é, no peito do nobre, acção
impura,
Que manchar com infâmia a
formosura,
É as leis macular de uma
nobreza;
Se nasceo de Cupido esta vileza,
Que dos peitos leaes é guerra
dura,
Foi só para quebrar a fé segura,
Que no Templo se achasse da
firmeza:
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 6.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 320.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
117
Se é infame dos zelos a
maldade,
Um Soberano Herói, que assim
adoro;
Não deve macular a heroicidade,
Antes deve advertir, quando lho
imploro,
Que não violenta as leis da
lealdade
Quem sabe conservar as do
decoro37.
Altri segni di questa esplicitazione sono evidenti nella
semplificazione delle strutture sintattiche e nello scioglimento
delle figure retoriche più complesse. Si veda il caso della battuta di
Timagene che racconta la sua nascita in quella stessa terra greca
che vide i natali di Alessandro:
EDIZIONI BETTINELLI E
HÉRISSANT
Atto I, Scena IV
Timagene
Sotto un istesso cielo
Spuntò la prima aurora
A’ giorni d’Alessandro, a’ giorni
miei38.
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena I
Tim.
Observa,
Que assim eu, como Alexandre,
Nascemos na mesma terra39.
Presupponendo un pubblico non in grado di cogliere sensi e
sfumature di concetti che in Metastasio la forma breve e complessa
rende efficaci ed affascinanti al tempo stesso, il nostro traduttore
opera diversi cambiamenti nelle sfaccettature della personalità dei
singoli personaggi, dando al testo una costante atmosfera di
leggerezza, una mancata discesa agli inferi più reconditi della
passionalità umana, con tutti i suoi eroici impeti e con tutta la sua
37
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 10.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 315.
39
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 7.
38
118
Capitolo II
carica distruttiva, smorzando decisamente la problematicità
dell’animo umano che in Metastasio aveva tanta parte. È questo il
caso di un dialogo tra Gandarte ed Erissena ancora nel primo atto,
dove, mentre il primo si strugge dal profondo per la
consapevolezza di un amore non ricambiato, la seconda ammette
con dolore la percezione di un nuovo sentimento per Alessandro,
senza per questo rinnegare l’amore di un tempo. Si tratta di un
dialogo che nel testo in traduzione si trasforma in superficiale
rassegnazione per la mutevolezza dell’amore femminile, un
discorso sopra le righe e a tratti caratterizzato da un sarcasmo
amaro di dubbio gusto ed espresso addirittura dalla stessa Erissena,
beffarda schernitrice di un realismo delle pasisoni umane che forse
in Metastasio era lasciato all’interpretazione del pubblico:
EDIZIONE BETTINELLI
1733-58
Atto I, Scena X
Gand.
Non ti sovviene
Quante volte, pietosa al mio
tormento,
mi promettesti amor?
Eriss.
Sì, me ‘l rammento.
Gand.
Ed or perché, tiranna,
Hai piacere d’ingannarmi?
Eriss.
E chi t’inganna?
Gand.
Tu, che ad altri affetti,
Dovuti a me, senza ragion
comparti.
Eriss.
Dunque, per bene amarti,
tutto il resto del mondo odiar
degg’io?
ÓPERA NOVA
1764
Acto I, cena II
Gand.
Tu, cruel,
Que empregas os teus afectos
Em outrem, quando só dignos
São dos meus amantes termos.
Eric.
Logo, por amar-te a ti,
E aceitar os teus excessos,
Igualmente a todo o mundo
Supponho aborrecer devo?
Gand.
Quem jamais no mundo ouvio
Do que ao meu igual successo!
Eric.
Gandarte, se é que procuras
Amor puro, amor sincero,
Em que consentir não possa
Nas finezas companheiro,
Ama-te só a ti próprio,
Não busques segundo emprego,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Gand.
Chi udì caso in amore eguale al
mio?40
119
Que já hoje não se encontra
Tão raro procedimento.
Deixa a formosura logre
Com perenes privilégios
Abundantes sacrifícios
No altar do seu respeito;
Que aceitar só os teus votos,
Quando mais victimas tenho,
É diminuir a glória
Do maior procedimento.
Se procuras que te adorem
Debaixo dos teus preceitos,
Tão cega fidelidade
Não se encontra nestes tempos. (V.)
Gand.
Há caso maior do que este!
Há coração mais protervo,
Que o que mancha uma fé pura
Com traidor procedimento!
Porém que digo? se alcanço,
Que todo o femenil peito,
Sendo vário nas firmezas,
Só nas mudanças é certo41.
Infine, ecco l’ingresso dei graciosos.
Coincidentemente alla fine della decima scena del primo atto, il
traduttore–adattatore decide di introdurre un lungo scambio di
battute tra i servi dei personaggi principali (per un totale di dieci
colonne di versi) in cui vengono attuate tutte le classiche procedure
della comicità teatrale del noto triangolo familiar–amoroso tra
padre, figlia e pretendente: equivoci, canzonature, travestimenti e
sotterfugi. Il tutto raccontato attraverso lo stravolgimento
linguistico di finte parlate africaneggianti (un lungo scambio di
battute in cui la parlata del servo Calote, travestito da spirito
dell’aldilà di razza nera, sostituisce al singolare il plurale, la
consonante vibrante alveare sonora r alla laterale l o alla dentale d,
quest’ultima spesso sostituita dalla dentale sorda t, così come muta
fricative con affricate, z per s, scambia le vocali e con a ed a con o
40
41
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 1450-1451.
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 12.
120
Capitolo II
e, infine, il suono lh con y), giochi di parole, storpiature e
risignificazioni di nomi propri in base a combinazioni di senso
finalizzate alla messa in ridicolo del personaggio e, soprattutto,
allusioni poco sottili a situazioni erotico–sentimentali proprie della
farsa più popolaresca. È per questa caratteristica dell’intromissione
dei criados che si può parlare di lascito del teatro barocco e non
ancora delle caratterizzazioni–tipo della servitù goldoniana. Ma è
soprattutto in questo tratto del tutto originale dell’adattamento al
gusto portoghese che si attua la massima coincidenza con il teatro
elisabettiano del secolo precedente, laddove è indubbia una diretta
filiazione dei graciosos portoghesi dal fool specificamente
sheakespeariano. I punti di contatto sono molteplici e
soprendentemente combacianti, addirittura sovrapponibili se si
tiene conto delle riflessioni e delle ricerche condotte in questo
campo da Roberta Mullini e confluite nel suo studio del 1983.
L’immagine del fool, il folle di origine cortigiana e medievale,
corrisponde infatti a quella del gracioso, definito appunto louco
negli adattamenti da noi analizzati in ben ventisei occorrenze e che
riunisce in un’unica definizione l’immagine del bobo, il buffone di
corte, del clown, il campagnolo goffo, e del jogral, il giullare,
ovvero lo iocularis, il giocoliere di parole. Il fool analizzato dalla
Mullini è, insomma, il medesimo incarnato sotto molti aspetti dal
gracioso portoghese, soprattutto nella sua definizione di stage–
fool, e che non solo ha «la libertà di dire ciò che pensa»42, ma che
è anche trasposizione teatrale del «sempliciotto astuto che dice la
verità celandola tra facezie e stramberie»43 con il ruolo
fondamentale di “chiosatore del reale”44, di fou glossateur che si
esprime eminentemente attraverso malapropismi. La contiguità
delle caratteristiche inerenti ai “folli” del teatro shakespeariano
elaborati da Mullini è talmente calzante alle modalità con cui viene
descritto il gracioso degli adattamenti che andremo ad analizzare
nel dettaglio, da poterne elencare schematicamente e con una certa
sicurezza i punti di contatto: impiego ludico della parola, funzione
42
Roberta Mullini, Corruttore di parole. Il fool nel teatro di Shakespeare, Clueb,
Bologna, 1983 (ed. 1990), p. 13.
43
Ivi, p. 12.
44
Ivi, p. 31.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
121
di commento, monologo di autopresentazione, ammiccamenti,
canto, travestimento paralinguistico, diminuzione di status,
enunciazione
di
proverbi,
accumulazioni
retoriche,
personificazione di peccati, bassa estrazione sociale, travestimento
iconico, critica ironica del reale, gesticulatio, costruzione di una
trama secondaria, ininfluenza dell’azione comica nella trama
primaria,
funzione
di
metapersonaggio,
involontaria
incorporazione nella fabula.
I tre elementi comici in gioco nella traduzione dell’Alessandro
nell’Indie rivelano il carattere dei propri personaggi sin dal loro
primo comparire, attraverso la condizione imprenscindibile per
questo tipo di interlocutori del nomen omen, per cui
immediatamente ci si presenta Trapaça, serva di Cleofide, appunto
come trappe, trappola, truffa, burla, imbroglio o inganno, e nel
gergo portoghese, anche menzogna (Trapacinha embusteira viene
definita ad un certo punto, come a dire “Furfantella imbrogliona”),
suo padre Enredo, che in questo testo non è colui che intrappola
nella propria rete (en-rede), né colui che ordisce l’intrigo o
l’intreccio e trama della narrazione, come più correntemente vuole
l’accezione del termine, bensì colui che se enreda, che cade nella
propria rete, finendo per incappare in situazioni complicate ed
imbarazzanti a causa della sua stessa credulità e, infine, Calote,
nome che permette al traduttore di spaziare all’interno di
molteplici espressioni idiomatiche con un’insistenza forse
eccessiva. Il termine infatti possiede di per sé una gamma di
significati piuttosto ampia e variegata: si va dal debito contratto
senza possibilità di estinzione (e qui nel significato del termine
francese culotte, pedina del domino che non può essere giocata), al
chiodo, utilizzato soprattutto nell’espressione pregar calote, molto
insistita nel testo e che assume tanto il significato di non pagar
debito quanto quello di piantar chiodi, entrambi i sensi relativi ad
un personaggio truffaldino e petulante. Qui, infatti, l’adattatore si è
potuto sbizzarrire nelle più diverse combinazioni espressive, que
um calote pregue, se o calote pega, pregue um calote ao jarreta,
caloteira, pregar-lhe um gran calo, este pano está pregado, come
pure il lungo scambio di battute tutto dedicato a questo gioco di
parole («Cal. […] Pregue a este Calote um calo./Alex. Um
122
Capitolo II
calo!/Cal. Sim, dos mais grandes,/Que pode haver./Alex. Falla
claro./Cal. É que aquela mocetona/Caze com este morgado./Alex.
Pois o cazar é calote?/Cal. É dos mais extraordinários,/Que se
prega a um triste homem/Nestes tempos arrastados»)45.
Tuttavia l’elemento centrale e motore dell’azione dei tre criados
(che riportiamo integralmente qui di seguito e che si sviluppa ad
intervalli lungo i tre atti dell’opera) è unicamente la motivazione
economica, la spinta ad agire sia per l’intento di Calote di unirsi in
matrimonio con Trapaça, sia per la strenua difesa dei beni
raccimolati in tanti anni di servitù da Enredo. Perno dell’azione
comica è quindi la brama di arricchimento che Calote concretizza
attraverso il furto e che in Enredo si esprime con un’avarizia
estrema che arriva fino a sacrificare il futuro matrimoniale della
propria figlia. Si vedano a questo proposito passaggi come «Enre.
[…] Você de Cleofide é serva,/E com mais estimação,/Porque eu
tenho mais riqueza./[…] Não sabe que estou mais rico?»46, o la
stessa affermazione di Calote che giustifica la propria richiesta di
unirsi a Trapaça con la possibilità di raggiungere una situazione
economica più favorevole, attraverso il furto che anche la serva
dovrebbe commettere ai danni del padre: «Cal. Pois que vai, minha
Trapaça,/O meu amor te protesta,/Que para gozar-te amante/Arme
ao velho tres mil petas»47. Già Giuseppe Carlo Rossi si era
espresso su questi graciosos dell’Alexandre na India:
a relação dos três graciosos entre si é diferente: o mais velho deles não é
rival do mais novo mas o pai da rapariga, costuma dificultar o amor do
jovem pela filha ora pela natural desconfiança dos velhos, ora porque
quer casá-la com outro homem. Está neste último caso a refundição do
Alessandro nelle Indie, também já no título dada com um tom moral:
Vencer-se é maior valor, ou Alexandre na India (1789); a peça
portuguesa é conduzida com tão extraordinária mobilidade psicológica e
dramática, numa série ininterrupta e rapidíssima de situações, num jogo
contínuo das falas curtas ou, se longas, desembaraçadíssimas, numa
atmosfera de tão bom humor, que o leitor acaba por esquecer
completamente o ponto de partida do original. Não hesito em declarar
45
Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 48.
Ivi, p. 12.
47
Ivi, p. 17.
46
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
123
esta peça uma pequena obra prima: suponho que, se for possível uma
dupla representação ao mesmo tempo, diria «pirandelliana», do original
metastasiano e desta adptação, teria um sucesso certo48.
A margine di queste riflessioni sui graciosos ci preme collocare
un’annotazione che indubbiamente riguarda tutte le situazioni e gli
intrecci messi in atto dai criados di tutti gli adattamenti che in
seguito andremo ad analizzare. Si tratta della linea di continuità
che lega queste figure originali ai tipici personaggi del teatro
vicentino del XVI secolo, non solo nei modi e nelle forme in cui si
esprimono ed agiscono i popolani e popolari personaggi usciti
dalla penna di Gil Vicente, ma soprattutto nei contenuti di quelle
situazioni e di quegli intrecci a cui continuamente si richiamano le
trame rocambolesche, farsesche e comico–grottesche dei nostri
adattamenti al gusto portoghese. Una somiglianza e una linearità
particolarmente evidente nel costante tentativo di portare al centro
della scena uno spaccato della società lusitana dell’epoca e del
temperamento iberico sanamente e scopertamente istintuale,
primitivo, genuinamente basso–corporale e contrario ad ogni
edulcorante rappresentazione moralista dei tipi rappresentati.
Insomma, una quotidianità fatta di espressioni poco auliche ed
esternazioni molto prosaiche, frasi, motteggi, atteggiamenti ed
azioni popolaresche al limite dello scurrile, ma quanto ci potesse
essere di più conforme alla realtà e alla normalità quotidiana tanto
dell’epoca di Vicente, quanto dell’età degli adattatori al gusto
portoghese. E quanto i nostri traduttori del Settecento abbiano
attinto dai modelli dell’inventore del teatro portoghese appare
chiaro sin dalla prima entrata in scena del servo Calote, ramazza in
mano, come la Lediça dell’Auto da Lusitânia (1532) che
cominciava appunto la sua azione varrendo:
48
G. C. Rossi, A evolução e o espírito do teatro em Portugal, op. cit., p. 308.
Capitolo II
124
LEDIÇA
Muito tenho por fazer
E não tenho feito nada:
Está a logea por varrer,
Os meninos por erguer
E enha mãe ensobradada49.
Infine, il rimpianto per le tabernas sempre secas del nostro
Calote non potrà richiamare alla memoria il Pranto de Maria
Parda (1522) per «tam pouco ramos nas tavernas e o vinho tam
caro?»50. Un’indubbia derivazione almeno a livello espressivo, se
non addirittura di costruzione tipologica di questo genere di
personaggi.
49
50
Obras de Gil Vicente, Lello & Irmão Editores, Porto, 1965, p. 427.
Ivi, p. 1309.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Opera Nova intitulada Vencer-se é
Mayor Valor (1764)
Que falam de uma tal sorte,
Que não há quem os entenda,
Venhão cá ao fim do mundo
Fazer uma viva guerra?
Não sabe dela se seguem
Mil distúrbios, mil misérias?
O rico torna-se pobre,
O que tem vida sem ela;
As honras tão mal seguras,
E as liberdades tão prezas?
A fome sempre contínua,
A sede, que desespera;
E, inda para mais desgraça,
Sempre secas as tabernas!
Mas cá me está parecendo,
Que a tal gente como esta
Vossa excelência auxilia,
E ampara vossa insolência:
Porque como Gregos são,
Vossa suprema Deidade
É desta gente patrono;
Porque há muito que se observa,
De que a vossa devoção
Faz a muita gente Grega.
Em fim, quer faça, quer não,
O que pedir–lhe quizera
É, que a huma certa mocinha
De Cleofide humilde serva,
Que é Trapaça, cujo nome
Com grandeza desempenha,
Que, além de ser rapariga,
É mui forte trapaceira,
Resguardasse com cuidado
De alguma Grega tragédia;
Pois bem sabe que a velhaca
Me anda cá mudando as Cenas.
Se conhece que o meu nome
É Calote, com destreza
Faça que um calote pregue
A Trapacinha embusteira.
Mas ela aqui se encaminha,
Valha-me vossa decência,
Que como oráculo seu
Verei se o calote pega.
Acto I, cena II
(Sahe Calote com vassoura para
varrer o Templo)
Cal. Tal occupação não quero,
Eu me arrenego com ela,
Já que assim todos os dias
Hei–de andar com tal moléstia.
Que o Senhor Poro meu amo
Me fizesse esta graceta!
Eu bem sei que não he má,
Que as mais horas são libertas;
Mas melhor fora se acaso
Co’ a pensão andasse a renda;
Mas a despesa infalível,
E duvidosa a receita:
Isto é fé, que sempre vive,
E esperança, que não chega.
Mas em fim, se isto ha–de ser
Vamos varrendo, e paciência.
Senhor Dom Baco, Patrono
De toda a Índia terra,
A quem muita gente boa
Rende cultos, faz ofertas,
E eu, mais devoto que todos,
Com profunda reverência
(Faz o que dizem os versos)
Em terra ponho os joelhos,
Abaixo-lhe esta cabeça,
No peito lhe ponho a mão,
Beijo-lhe a outra, etcetera.
(Levanta-se)
Se esta bacanal Deidade
Tanto aos humanos sujeita,
Que aqueles que tem juízo
Os está mudando em bestas,
Como consente que os Gregos,
Gente vil, gente cruenta,
125
126
(Esconde-se detraz do Ídolo)
(Sai Enredo, e Trapaça)
Enr. Não há mais que replicar,
Neste Templo sem detença
Hei–de deixá-la fechada,
Dando à chave volta e meia.
Não cuide, por ver-me velho,
Ha–de ser namoradeira;
Porque sua honrada Mãe,
Que Baco em descanço tenha,
Como mulher tanto de honra,
Era sezuda, e honesta,
Nem tratou nunca de andar
Bem como andão nestas eras
As raparigas da moda,
Que o tempo introduz por sécias,
Com macaquices às portas,
E mil momos às janelas.
Você andar com Calote
Atrevida, e desinquieta,
Sem ver que é um varredor
Deste Templo e sem que tenha
Mais que malícias no couro,
Nunca chelpa na algibeira!
Se ele é criado de Poro,
Você de Cleofide é serva,
E com mais estimação,
Porque eu tenho mais riqueza.
Não vê que a Cleofide há annos
Sirvo na sua despensa,
Ofício sem alcavalas,
Não mais que uma sisa inteira?
Não sabe que estou mais rico?
Pois como assim, velhaqueta,
Sem reparar no decoro
Quer fugir da obediência?
Trap. Meu Paizinho, como assim
Tantos martírios me ordena?
Certamente que isso nasceu
Da sua pouca prudência.
Enr. Pois que quer, que eu a
Capitolo II
consinta?
Não assino; mais depressa
Hei–de convertê-la em cinzas,
E reduzi-la a misérias;
E ao velhaco de Calote
Prometo que o leve a breca.
Cal. A Sagrado está alcolhido.
Não se lhe dá do jarreta.
(Detraz do Ídolo)
Enr. O Calote...
Trap. Ora Senhor,
Porque está com essa teima,
Se se não sabe se é vivo
Depois que foi para a guerra?
Enr. Oh más balas o apanhem!
Cal. Oh máo estupor tu tenhas.
(À p.)
Enr. Pois em quanto eu averiguo
Se essa notícia é certa,
Fechadinha ficará
Neste Templo.
Trap. Que impaciência!
Cal. Deixa-te estar, rapariga,
Não tomes tão grande pena. (À p.)
Trap. Paizinho...
Enr. Mais me não diga,
Aguarde a que logo venha;
E no entanto fecho a porta,
E a chave vai na algibeira.
(Vai-se fechando a porta)
Trap. Oh desgraçada de mim!
Como o peito não rebenta
Vendo tanta sem-razão,
E uma tão grande insolência!
(Sai Calote)
Cal. Certamente é desaforo
Ver que um Pai origem seja
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
De que sua própria filha
Tal desacato cometa.
Trap. Ai, que é isto?
Cal. Não é nada,
É uma moça donzela
Com um homem conversando
Às escuras sem candeia.
Trap. Não, o Templo está aceso,
Que as luzes bem alumeão.
Cal. Mas é às portas fechadas,
E o Pai a filha cá deixa.
Trap. Do crime foi ignorante,
Por cuidar que só me encerra.
Cal. Se ele não tem a culpa,
Pode ser que tu a tenhas.
Trap. A culpa minha será
Por assim me expôr a estas,
Tão somente por eu crer
Suas mudáveis finezas.
Cal. Mudável eu! Sou mais forte,
Que uma parede bem velha,
Mais rijo do que uma linha,
E mais teso que uma cera.
Pois constante! Mais que todos,
E por ti, oh rica prenda,
Hei–de fazer tudo quanto
For do teu agrado, ou queiras.
Trap. Sim, as palavras são boas.
Cal. E as obras serão perfeitas.
Trap. A quantos riscos se expõe
A mulher, que se sujeita
A querer bem a um homem!
Cal. Ora digo-te que és nescia.
E a quantos mais fortes riscos
Um aflicto homem se chega:
Já expondo a sua vida;
E talvez que a dama esteja,
Ou para o querer dormindo,
Ou para a traição desperta;
Não, filha, cá de saiotes
Não se fia nestas eras.
Trap. Não se fia, porque os homens
Prevaricão as finezas.
Cal. Nisso não falemos nós,
127
Queres-me tu?
Trap. Que cegueira!
Pois não vê o que padeço
A seu respeito?
Cal. Que eu creia
tantas finezas é justo;
Mas quem mais ama receia.
Trap. Como estavas aqui dentro?
Cal. Porque vim mais que depressa
Varrer o Templo, e, bispando
Essa tua gentileza,
Me escondi detraz de Baco,
Sem olhar a indecência;
Que inda que fosse detraz,
Como é Deos, é coisa certa,
Como tal estava livre
Que abrisse a porta travessa.
Daí ouvi maldade
Daquele ginja, e por ele
Hei–de lograr os teus mimos,
E ir-lhe sacando as moedas.
No Templo há uma estrada,
Que eu tão somente sei dela,
Que ao quarto vai dar de Poro,
Que ele com toda agudeza
Mandou fabricar segura,
Porque assim na escura treva
Da noite passasse ao quarto
De Cleofide, e assim espera,
Que, valendo-me da estrada,
Pregue um calote ao jarreta.
Trap. Espera, que passos sinto.
Cal. Será ele, pois não temas,
Ajuda com fingimentos
Todas as minhas ideias,
E em breve tempo verás
Como são minhas finezas.
(Entra pelo Templo, e sai pela
porta Enredo)
Enr. Trapaça!
Trap. Querido Pai?
Enr. Estás cá?
128
Trap. É boa essa!
Enr. Ando com muito cuidado
Na tua grande esperteza;
Porque vejo andares solta,
Se preza não te tivera.
Esses olhos não me mentem.
Trap. Ai que loucura!
Enr. Ah cadela!
Queres cazar?
Trap. Já me enfadão
Tão grandes impertinências.
Enr. Sim Senhora, bem conheço
Toda a sua sizudeza.
Ora diga, que é bonita,
Quer cazar?
Trap. É boa teima!
Enr. Oh lá como se empespinha51,
Se cora, e se faz vermelha!
Isso é já costume em todas,
Que se fazem de manteiga,
Todas pêssegos, alcorca,
Beijoim, e mais canela;
E por cumprir seu desejo
Padecem dores de pedra,
Mal de angúrria, hypicondria,
Mil comixões, sarna, lepra,
Muitos flatos vitorinos52,
Com mil dores de enxaqueca,
Ah mulheres, como sois
todas finas embusteiras!
Trap. Eu não vi lingua tão má
Em idade tão provecta.
Enr. Eu não vi lingua mais boa,
Que diz verdades sinceras.
Has–de cazar ao meu gosto.
Trap. Tal não farei.
Enr. Ah cadela!
Onde estou, que enfurecido
Não te arranco essas orelhas!
Ha–de cazar ao seu gosto,
Ou ao meu?
51
Termine dal significato oscuro.
52
V. nota precedente.
Capitolo II
Trap. Se é que me aperta,
Protesto que ao meu me caze
Sem mais outra dependência.
Enr. Ó cachorra, eu lhe protesto,
Que lhe arranque essas goelas.
Trap. O Deos Baco me socorra.
Enr. Hei–de matá-la, embusteira,
No Templo lhe hei–de cascar.
(Foge Trapaça para dentro do
Templo, Enredo vai atraz dela, e
lhe sai ao encontro de dentro do
Templo Calote em traje de preto)
Cal. Teros mão, sioros veya.
Enr. Ai que me mata Plutão!
Cal. Prutão sar Deosa do inferna,
Mim sar otra coizia.
Trap. Ai meu Pai, que coisa é esta?
Vamos o embuste alentando,
Que este é Calote. (À p.)
Cal. Ó ronzera,
Este sar vozo Paizio?
Trap. É meu Pai.
Cal. Boa estar essa!
Anra cá, veio marito,
Porque con tar prisença,
Como já carrero veio,
Esse Deosa não respeita?
Enr. Ai que de tamanho susto
Nos calções o medo me entra.
Cal. Sára já, marito, sára,
Vozo cuira que sá beza?
Eu sar arma de Carote,
A quem vozo não respeta,
Que por os sioro Baco
Vem ser arma mandadera.
Enr. Senhor Baco, eu me sufoco.
Senhor cachorro, ai que pena!
Eu não sei o que lhe diga.
Cal. Mim sar cachorro? Pois reva.
(Dá-lhe Calote).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
129
Trap. Ah Senhor quem quer que é,
Use da sua prudência,
Porque o susto de meu Pai,
Que fale bem lhe não deixa.
Cal. Vozo sar uma santia,
Vozo Pai sar um carera.
Anda vozo cá commigo.
Enr. Que, que é isto, ó alma preta?
Cal. Ó cachorro, vozo zomba?
Enr. Tu com ele lá te avenhas;
Se tu gostas de catinga
Esse negro tição cheira.
Cal. Cara os bocca, home marito,
Deitáos ahi já por tera;
Reguinga vozo, por Baco...
Enr. Aqui estou à penitência.
(Investindo-o Calote)
Cal. Já rebruça se are pouro,
Sem repricaro umas letra.
Trap. Coitado do pobre velho
A que miseria que chega! (À p.)
Enr. Ah Senhora alma, repare
Que o vento aqui me inquieta,
E sofrê-lo já não posso,
Porque estou à paravéla.
Cal. Care os bocca, care os bocca.
Aonde estão as moedas? (A Trap.)
Trap. Na algibeira da cazaca.
(A Cal.)
Cal. Da cazaca? Pois espera.
Enr. Ó lá, que é isso? Que é isso?
Não consinto na conversa.
Cal. Revanta, revanta já.
Enr. Aqui estou, que mais ordena?
Enr. Se eu zombo me leve a breca.
Cal. Vozo rembra de Carote?
Enr. Tal Calote me não lembra.
Cal. Sabe vozo sou su arma?
Enr. E que se me dá que o seja?
Cal. Sabe vozo o que era busca?
Enr. Alguma alma caloteira.
Cal. Busca revá voza fia,
Para rá cazá com era.
Enr. Pois as almas do outro mundo
Com as deste já se enredão?
Bem avisados estamos
Se ellas dão agora nessa.
Cal. Deza estar, que eu faro à moza.
Anra cá vozo, donzera,
Que commigo zá secura.
Enr. Donde a rapariga leva?
Cal. Quero vozo estar cararo!
Trap. Ora está galante a peta! (À p.)
Meu Paizinho cale a bocca.
Enr. Ora ha maior impaciência!
Como é alma de Calote
Ir com ela não regeitas?
Cal. Sar uns arma muito rinda.
Enr. Pela cor se vê que é bella.
Cal. Ó vaiaco care, care,
Que se não cara reveras
Que os revará os pleto
Onde ninguem más os veza.
Menina, vozo sar mia?
Trap. Meu Paizinho, ora veja
O que quer que lhe responda?
(Deita-se de barriga para baixo)
(Levanta-se)
Cal. Que se rispa essos cazaca.
Enr. Despir-me? Para que festa?
Trap. Paizinho, faça-lhe o gosto,
Porque mal lhe não suceda.
Enr. Mal haja a alma de Calote,
Que inda morto me atormenta!
Cal. Está rispido?
Enr. Estou despido.
Cal. Vejamo nozo a argibera.
Enr. Isso não consinto.
Cal. Maro!
Ora que os quebro os cabeça.
Enr. Rebentarei de paixão
Se a bolsa esta alma me leva.
130
Capitolo II
Cal. Isto que sar?
Enr. É dinheiro.
Cal. Bero, bero.
Enr. A bolsa venha.
Cal. Os borsa sar para os fia
Quando mim cazar com era.
Enr. Não convenho no contrato,
Que é usura manifesta.
Cal. Vozo querer vai commigo?
Trap. Em quanto a mim sou de
cera.
Cal. Ora anda vozo.
Trap. Pois vamos.
Enr. Isso não, alma bregeira,
Moça bonita, e dinheiro
Ninguem o tem nestas eras.
(Pega neles)
Cal. Rarga vozo, canzarrão,
Oia poi que os reva os breca.
Enr. Não, não largo.
Cal. Não os rarga?
De Prutão are aos caverna
Vir cos pleto.
Enr. O Deos Bacante
Hoje aqui me favoreça.
Cal. Duas arma re repente
Dem castigo a estos veia.
(Foge Enredo para dentro do
Templo, saem dous pretos, que
pegão nele)
Enr. Ai, ai de mim! Que inda vivo
Já os dialhos me levão.
Senhora alma de Calote,
Que Baco no abismo tenha,
Compadeça-se de mim,
Assim Plutão lhe conceda
Andar cá por este mundo
Furtando bolsas alheias.
Cal. Anda vozo já deplessa.
Enr. Por mim não rogas, Trapaça?
Trap. Em choros estou desfeita.
Senhora alma do outro mundo,
Que deve ter consciência,
Salve a vida de meu Pai,
Meu desarranjo conheça.
Cal. Menina, já mim não pore
Dar os vida essa embustera.
Ravayo vozo aos abismo.
Enr. Pois assim com indecência
Desatende minha filha?
É coisa de gente preta.
Trap. Que desgraçada que sou!
Cal. Revaio canaia à pleza...
Enr. A Deos, filha.
Trap. A Deos, Paizinho.
Enr. Oh mal hajão as moedas!
Que este he inferno maior,
Que a lembrança me atormenta.
(Levão os pretos a Enredo)
Cal. Pois que vai, minha Trapaça,
O meu amor te protesta,
Que para gozar-te amante
Arme ao velho tres mil petas.
Trap. Has–de tu cazar commigo?
Cal. Pois como assim te receias?
Se vês que já tenho o dote,
Que he o que nestas tormentas
Transporta a porto seguro
Quem nestas barcas navega.
Trap. Pois vai-te, e vem sempre
ver-me.
Cal. Eu usarei das ideias
Em que andão sempre os amantes
Por lograr de amor as prendas.
Trap. Pois adeus.
Cal. Adeus, que eu vou-me
Já com toda a ligeireza
A ver se meus companheiros
O que eu lhes disse fizerão.
Trap. Urdiste já outro embuste?
Cal. Disse-lhes que, com cautela,
Tapando a teu Pai os olhos,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Com bem subtil agudez
O ponhão livre em Palácio
Sem que ele a história perceba.
Trap. Anda, vai, não te demores.
Cal. Eu parto já à carreira.
Trap. Vou segura em teu amor?
Cal. Podes ir como huma penha.
Trap. Em te adorar sou de bronze.
Cal. Em te querer sou de pedra.
Trap. Em querer-te leal, se bem
discorro,
Sou mais firme, meu bem, que um
grande calo.
Cal. Eu, na minha firmeza, sou de
ferro,
E, cativo de amor, nunca sou forro.
Trap. Se eu firme te não for, pois
por ti morro,
Na maior falsidade sinta o erro.
Cal. E se eu falso te for, seja eu tão
perro,
Que por perro me ladre um vil
cachorro.
Trap. Hei–de mais firme ser que o
próprio barro.
Cal. Mais amante hei–de ser do que
foi Pirro.
Amb. Que livre assim serei de vil
catarro.
Trap. Se traidora te for...
Cal. Se eu for esbirro...
Amb. Engolir nunca possa um
duro escarro,
Nem sofrer na garganta um
brando sirro53.
Acto II, cena III
(Apozentos Reais no Palácio de
Cleofide, um bofete coberto com um
pano, e uma cadeira ao pé)
53
Opera Nova intitulda Vencer-se
he mayor valor, op. cit., pp. 12-17.
131
(Sai Calote, e Trapaça)
Cal. Com que, menina, teu Pai
De todo está encaixado,
Que foi alma do outro mundo,
Que lhe pregou um tal calo?
Trap. Os Soldados bem fingirão
Seu astucioso engano;
Pois, feito o velho Cupido,
O puzerão em Palácio.
Dando gritos, gente acode,
Entrou a contar o caso,
E não só ele, mas todos
Por verdade o acreditarão.
Anda de todo louquinho,
Sendo o seu maior cuidado
As suas ricas moedas,
Que de repente voarão.
Cal. Aos mofinos, minha rica,
Dissera que não é pecado,
Castigando-lhe a miséria,
O pregar-lhe um grande calo.
Trap. Sempre é levar o alheio.
Cal. Maldita a razão te eu acho.
De que aproveita a um mofino
Ter o dinheiro guardado?
De condenação lhe serve
Mais do que gloria, e descanço.
Tomára eu poder chegar
A certos, que agora calo,
Que eu, no tormento em que vivem,
Lhes dera alívios dobrados.
Trap. Também tu, dando-me
alívios,
Me dás grandes sobressaltos;
Porque se meu Pai te vê
Ficamos perdidos ambos.
Cal. Dizes bem, vou-me depressa,
Antes que venha a este quarto,
E, pilhando-me no enredo,
Saiba todo o nosso engano.
Mas tudo faço por ver-te,
Que sem ti ando berrando.
Trap. Coitadinho, és bem amante.
132
Capitolo II
Cal. Que sou amante é bem claro;
Mas coitado, isso só tu
Poderás asseverá-lo.
Trap. Cala-te, não sejas tolo.
Cal. Isso é o mesmo que ser asno.
Acceito-te o bom concelho,
Que é de amigos desengano;
Porém quero me dês outro,
Por não viver enganado,
E é se posso neste amor
Viver com algum descanço?
Trap. Socegadinho bem podes
Dar alívio ao teu cuidado,
Porque amor, que é por destino,
Não o vence o tempo, o ano.
Cal. Pois em prémio desse amor
Dá-me cá um grande abraço.
Trap. Abraços? Pois isso he
prémio?
Que lhe parece o contrato!
Meu menino, ha–de advertir,
Que os tempos estão mudados,
E que já hoje não paga
O que come adiantado.
Cal. Pois não sejão por diante,
Disso não façamos caso,
Dá-mos aqui por detraz,
E não hajão mais espantos.
Trap. Como é louco, e descortez!
Cal. E tu de génio damnado,
Pois por cousinhas tão poucas
Fazes um motim tamanho.
Ora menina...
Trap. Ai, Calote,
Que ambos perdidos estamos!
Por aquele corredor
Vem meu Pai muito apressado.
Cal. Ó filha, que em grandes
pressas
Por teu respeito me acho.
Mas em fim, como fugir
Não posso, em aperto tanto,
Debaixo deste bofete
Verei se reservo o fato.
Reveste-te de valor,
Que, neste lance apertado,
Veremos se por astúcias
A nós ambos põem a salvo
Esse Deos, que sem ter mitra
Protege ao que toma o bago.
(Mette-se debaixo do bofete)
Trap. Ai de mim que estou
tremendo
Em lance tão apertado.
Cal. Olhe porque se amofina!
Grande consolo tenhamos
Que se a ti um pão te espera,
Eu não escapo do vergalho.
(Sai Enredo)
Enr. Ai minhas ricas moedas,
Meus dobrões tão estimados!
Eu sem vós, e vós sem mim,
Ambos de dois acabamos.
Trap. Chora tu pelas moedas,
Que eu cá choro os meus pecados.
Enr. Ai que morro! Ai que me
aflijo!
Que me mato, e que me arranho!
Trap. Meu Paizinho, isso é
loucura,
Se não há remédio ao damno
Para que ha–de assim matar-se
Com excessos temerários?
Cal. Se isto sucedera a alguns
Que conheço, e não declaro,
Desesperados de todo
Se tinhão já enforcado.
Enr. Ah filha, que eu já de louco
Confesso não sei que faço.
Trap. Ora cale-se, não vê,
Que de o ver assim me mato.
Enr. Eu de pena, e sentimento
(Chora)
Todo em choros me desfaço.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Trap. Eu, pelo ver tão sentido,
(Chora)
No mesmo mal o acompanho.
Enr. Ai, velho, todo infeliz!
Trap. Ai, meu Pai, e meu
descanço.
Cal. Não chorem tanto, malditos,
Que me estão annuncios dando
De que me chorão no enterro,
Pois me tem amortalhado.
Enr. Ai que morro! (Soluçando)
Trap. Ai que rebento! (O mesmo)
Cal. Oh raios vos nunca partão!
Trap. Ora basta, meu Paizinho,
Não dê a si tão mau trato;
Repare, na sua falta,
Fico eu ao desamparo.
Enr. Ah filha, que é grande pena!
Trap. É desgosto inconsiderado.
Mas ha–de a gente por isso
Matar-se? Isso não, que Baco
Manda ninguém se amofine
Pelos sucessos humanos,
Que importa a perda, Paizinho?
Vossa mercê por acaso
Não lhe ficou mais dinheiro?
Pegue a labia, e haja engano. (À p.)
Diga, Senhor, por ventura
De todo ficou exausto?
Enr. Não, filha, inda nesta bolsa
Tenho uns quatro tostanaços
Com que ainda com fartura
Possa passar alguns annos.
Trap. Pois então porque se mata?
Deixe desgostos tamanhos,
O dinheiro leve a breca,
E vamos vivendo ambos.
Enr. Dizes bem, querida filha,
Eu o teu conselho abraço,
Porque coisas sem remedio
Não tem alívio no pranto.
O que eu agora queria
Dever ao teu agazalho,
É que benigna me desses
133
Na cabeça um par de estalos.
Trap. Ai, sim Senhor, porque não?
Sente-se aqui, e, encostando
Sobre o bofete a cabeça,
Verei se bichos lhe acho.
Enr. Ah filha, quanto a velhice
Preciza destes regalos!
Trap. Ora sente-se, e encoste-se.
Enr. Aqui me tens encostado.
(Senta-se Enredo na cadeira,
que Trapaça lhe põe arrimada
ao bofete, de forma, que lhe
fique a cazaca junto a elle, na
qual estará a bolsa)
Vai catando com amor.
Trap. Veja se pode ir roncando.
Cal. Dize-lhe tu que ele durma,
Que eu a vigia lhe faço.
Enr. Quanto me lembra tua Mãe
Nestes amorosos tratos!
Trap. Não se lembre agora disso.
Enr. Era ela o meu encanto.
Foi a honra das matronas,
E de amor exemplo raro!
Foy tão linda: porém ai,
Que de saudades me mato!
Trap. Que tem, Paizinho? Que tem?
Enr. Foi melancolico arranco,
Que, do coração nascendo,
Todo me faz em pedaços.
Trap. Arrote, Paizinho, arrote.
Enr. Eu arroto. (Arrota)
Trap. Vai passando?
Enr. Outro vai. Má queixa é esta!
Ela ha–de mim dar cabo.
Trap. Ora deixe-se de mais.
Veja se dorme.
Enr. Isso faço. (Dorme)
Cal. O velho inda se recorda
Dos tempos, que são passados.
Mas vejamos se refresco
Esta lembrança, que trago,
134
Capitolo II
Deito fora a mão, e busco
O que está para este lado,
Para ver se acaso topo
O que desejo. Oh! Que guapo
Foi este acontecimento!
A bolsa pilhei, por Baco,
Que não há cão perdigueiro,
Que me compita no faro.
(Deita a mão por baixo do
pano e tira a bolsa que
Enredo tem na algibeira)
Trap. Dorme, Paizinho?
Enr. Que queres?
Trap. Dizer-lhe, que do trabalho
Me dê alguma coizinha
Para uma fitta.
Enr. Acertado
Me parece o peditorio (Levanta-se)
A bolsa tiro, e te pago,
Que he dela? Nesta algibeira
Não está; cá deste lado (Buscando)
Menos; pois nos calçõens
Também a bolsa não acho.
Onde o dinheiro meti?
Arrenego do diabo.
Trap. Ai, Senhor, não acha a bolsa?
Por certo que é caso raro.
Enr. Pode ser que me caísse
Donde me estava catando.
Trap. Não, Senhor, lá não caiu.
Enr. Eu vou ver.
Cal. Ai meus pecados!
Enr. Aqui não está, cairia
Cá para baixo do pano?
Trap. Oh desgraçada de mim!
Que nos apanha no laço.
Enr. Que diabo será isto?
Este pano está pregado,
Não o posso levantar
Por mais forças que lhe faço.
(Depois de buscar ao pé do
bofete, quer levantar o pano,
e Calote lhe pega por dentro,
não o deixando levantar
por qualquer parte, que
o queira fazer)
Trap. Eu estou quase mortal;
E, por não ver um tal caso,
Sem nenhuma ceremonia
Vou-me daqui abalando. (Vai-se)
Enr. Ora há caso similhante?
Aqui de certo é engano!
Mas ah, que o bofete bole!
Aqui está algum velhaco.
Pois protesto que não saia
Para fora deste quarto,
Que, pondo-me agora em cima
Hei–de daqui vigiá-lo.
(Senta-se em cima do bofete)
Cal. Veja que se arrisca à queda
O que sobe a lugar alto.
Enr. Quem será que esteja aqui?
Cal. Será o Cáqui Romano.
Enr. Não bula com o bofete.
Cal. Pois vá-se com dez mil dardos.
Enr. Deste lugar me não tiro,
E a gritos extraordinários
Chamarei gente, que acuda
A tão grande desacato.
Acudam todos! (Gritando)
Cal. Maldito,
Cala a bocca, não dês ralhos.
Enr. Ó lá da Guarda Real,
Venhão depressa Soldados.
Cal. Já que por Soldados chamas,
Vê se te soldão os cascos,
E com esta quebradura
Ficarás mui bem soldado.
(Atira Calote com o bofete
ao chão, e Enredo, o qual
ficará debaixo do mesmo
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
135
bofete, e vai-se Calote)
Enr. Quem me acode, quem me
acode,
Que quebrei pelo espinhaço.
(Sai Trapaça)
Trap. O que é isto, meu Paizinho?
Enr. São os teus enganos falsos.
Ajuda-me a levantar,
Que estou aqui rebentando.
(Tira-lhe o bofete, e levanta-se)
Trap. O que foi isto, Senhor?
Não me contará o caso?
Enr. O que foi, filha cadela?
Foi teu proceder tirano,
Que por teu respeito os homens
Me estão pondo a mim de rastos.
Trap. Que homens? Que é o que
diz?
Enr. O que estava ali debaixo,
Que a bolsa surripiou
Com teus fingidos enganos.
Trap. Certamente isso é loucura.
Enr. Se de louco tenho flatos,
Como louco te hei–de dar
Quatrocentos mil sopapos.
Trap. Pois por outras tantas vezes
Fugirei aos seus enfados.
Enr. E eu por mais vezes farei,
Que te quebre esse espinhaço.
(Vão-se, correndo hum atraz do
outro) 54
Acto III, cena II
54
Ivi, pp. 28-31.
(Sai Trapaça, e Enredo com uma
trouxa)
Enr. Filha, já que a desventura
Nos quiz pôr em tal ruina,
Que todo o Palácio está
Cheio de Grega Milícia,
É justo com vigilância
Guardar a nossa roupinha;
Porque isto de Soldadesca,
Em qualquer terra, que habita,
Tudo quanto vê c’os olhos
Com as mãos ligeira pilha.
Que como é gente soldada,
E tem quebrado na china,
Anda procurando a solda
Para a rotura das tripas;
Assim que aqui ponho a trouxa,
E vou-me depressa, ainda
Ao meu quarto, a ver se livro
Mais alguma roupa fina.
(Calote ao bastidor)
Cal. Para aqui, se não me engano,
Veio o Pai, e mais a filha;
Mas ter mão, que eles cá estão;
Aqui por-me-hei à vigia,
Para ver se acaso o velho
Deixa só a rapariga.
Enr. Toma sentido, Trapaça,
Nesta trouxa.
Trap. Pois espia
Hei–de ser deste negócio?
Enr. Sim, em quanto a ansia minha
Vai buscar mais outras coisas,
Aonde possa escondidas
Livrá-las sem sobressaltos
De tão ligeiras arpías.
Cal. Para ajuntar às moedas
Temos mais umas coisinhas;
Vou fabricar engano,
E verei se a faço limpa. (Vai-se)
136
Capitolo II
Enr. Toma sentido, Trapaça,
Que eu já volto à tua vista. (Vai-se)
Trap. Desgraça grande por certo
É a que hoje aqui se admira;
Pois Poro se vê sem coroa
Na mais contraria desdita;
Gandarte dizem que morto,
E toda a mais gente aflita.
Negras guerras, roubadoras
De posses, honras, e vidas,
Que são os fructos, que assim
De qualquer guerra se tira.
E haverá quem as deseje?
( Sai Calote)
Cal. Eu por mim não, minha rica,
E só pazes, e mais pazes
Com a tua cara linda.
Trap. Que vens tu aqui buscar?
Não vês a quanto te arriscas?
Cal. Venho buscar essa trouxa,
E ver tua bizarria.
Trap. Pois não te basta o dinheiro?
Cal. Isso é seres mui tolinha.
Pois he–de te receber
Sem que leves bem camizas?
Deixa ir adiante o dote,
Quando vês que assim te livras
De andares eternamente
À demanda com partilhas.
Trap. E como has–de tu levá-la,
Sem que o velho isso presinta?
Cal. Já tenho dous camaradas
Prevenidos para a sisa;
Não ha–de pagar despacho,
Porque é de casa a justiça.
Trap. Quando teremos descanço
Na nossa amorosa lida?
Cal. Eu to digo: quando o velho
De todo estiver sem china.
Trap. Ora não lhe tires mais,
Que isso é acabar o ginja.
Cal. Inda mais lhe hei–de tirar.
Trap. Que lhe has–de tirar?
Cal. A filha.
Por ella morro, e padeço
Novecentas mil malinas.
Trap. E que finezas me fazes?
Cal. São vulgares, e sabidas.
Inda queres faça mais
Do que estar por ti na Índia?
Trap. Forte fineza por certo!
Cal. Não he das mais pequeninas.
Mas vejamos nós se o velho
Tem na trouxa alguma mina.
(Vay tirando da trouxa o que dizem
os versos)
Isto é capa, e isto é saia,
Lençol isto, isto rodilha.
Trap. Ai, Calote! Eu sinto passos,
Ata a trouxa, e te retira.
Cal. Ato a trouxa, e fujo à pressa.
(Vai metendo tudo na trouxa à
pressa, e deixa de fora a saia)
Trap. A saia de fora fica.
Cal. Já agora de fora irá.
Vou-me embora, adeus, menina.
(Vai a entrar, e sai Enredo com
outra trouxa, e Calote lhe volta
as costas, nunca mostrando-lhe a
cara)
Enr. À pressa outra trouxa trago.
Mas que é isto? Onde caminha?
(A Cal.)
Cal. Démos nas mão do inimigo.
(À p.)
Trap. Ai de mim, que estou
perdida! (À p.)
Senhor Pai, este Soldado,
Sem consciência maldita,
Vem attender aos meus choros,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Levando a trouxa fugia.
Enr. Ó magano, porque causa
Me furta a fazenda minha?
Cal. Eu não lhe furto a fazenda.
Enr. Não ma furta? Ora esta é
linda!
Pois diga, senhor tratante,
Que é isso?
Cal. É galantaria.
Enr. Galantaria lhe chama?
A desculpa é genuina!
Minha filha não o diz?
Cal. Não se creia em sua filha.
Enr. E porque não hei–de crê-la?
Cal. Porque tem muito má lingua.
Trap. Rebentando estou de riso,
Quando o susto me amofina.
Eu em que pára o successo
Vou a esperar a notícia. (Vai-se)
Enr. Volte a cara para mim,
Saiba ter mais cortesia.
Cal. A cara não voltarei.
Enr. Pois porque a cara não vira?
Cal. Temo dela se namore,
Que é muito formosa, e linda.
Enr. Hei–de vê-la.
Cal. Não verá,
Que esta saia ha–de cobri-la.
(Andará Enredo atraz de Calote
fazendo diligencia por lhe ver
a cara, e Calote lhe dará
sempre as costas, e, metendo
pela cabeça a saia, que ficou
de fora, ficará com a cara coberta)
Enr. Ó velhaco, assim commigo
Joga agora as escondidas?
Cal. Não senhor, outro he o jogo.
Enr. Que jogo? Comigo brinca?
Cal. Jogamos ambos dois jogos
Em diversas parcerias;
Porque você cá comigo
Joga nesta mão sabida
137
Uma forte arrenegada,
E eu com você jogo o pilha.
Enr. Ó ladrão, largue o meu fato,
Que se não...
Cal. Arre, seu ginja.
(Pega Enredo em Calote por
detraz, e este lhe dá hum coice,
que o deita no chão)
Enr. Ó lá! A besta dá coices?
Cal. Isto é manha.
Enr. É malicia.
Ou ha–de largar o fato,
Ou hei–de fazê-lo em cinza.
Cal. Ah camaradas da guarda
Acudi já com mil pipas.
(Saem dois Soldados)
Enr. Ai, coitado, que me cerca
Toda a canalha inimiga.
Cal. Camaradas, dai o saque
Com astúcia, e valentia,
Levando ao mofino velho
Essas duas trouxazinhas.
(Levão os Soldados as trouxas)
Adeus, meu velho pateta,
Tolo, besta, e sevandija,
Saiba ha–de fazê-lo em quartos
Quem os seus chavos lhe tira. (V.)
Enr. Há desgraça similhante?
Há desventura maligna,
Que possa ter competências
Assim co’ a desgraça minha?
Oh mal haja a minha sorte,
Pois vejo nesta ruina
Que tarde logra a ventura
Quem só nasceu com desditas.
(Vay-se)55
55
Ivi, pp. 43-44.
Capitolo II
138
Cena III
(Sai Trapaça, que traz pela mão
a Enredo, appressados)
Trap. Paizinho, ande, vamos ver
Este desposorio magno.
Enr. Se caza a Rainha, digo,
Que são as mulheres falsas56.
[...]
(Sai Calote)
Cal. E porque mais memoravel
Se faça em tudo, um criado
Do Senhor Poro, a quem Jove
conserve por muitos anos,
A teus pés te pede humilde,
Que lhe concedas mui franco,
Que aquela fera Trapaça
Pregue a este Calote um calo.
Alex. Um calo!
Cal. Sim, dos mais grandes,
Que pode haver.
Alex. Fala claro.
Cal. É que aquela mocetona
Caze com esse morgado.
Alex. Pois o cazar é calote?
Cal. É dos mais extraordinários,
Que se prega a um triste homem
Nestes tempos arrastados.
Alex. Pois se ela gosta o concedo.
Cal. E ela está já rebentando.
Enr. Ora inda os Supremos Deoses
Derão vida a tal magano?
Cal. Pois então não dizes nada?
Queres, rapariga?
Trap. Aguardo
Que a mão me dês. (Dão as mãos)
Enr. Não consinto.
Cal. Peior; que temos embargos.
56
Ivi, p. 46.
Enr. Tem você com que sustente
Mulher, filhos, e criados?
Cal. Tenho quinhentas moedas
Que lhe furtei com engano
Quando em traje de alma preta
Me vio no Templo de Baco.
Tenho mais outras duzentas
Que a passeio fui sacando
Quando você ao bofete
Nunca pode erguer o pano;
Tenho mais duas trouxinhas
Com mil trastes já usados,
Que tirei quando vossê
Queria esconder o fato;
E agora tenho a Trapaça,
Meu alívio, e meu descanço.
Enr. Roubaste-me honra, e fazenda,
E não morres enforcado?
Ó cão! E quem se vingará
De tão feros desacatos?
Mas não quero mais castigo
Do que é ver-te já cazado.
Cal. Não vê que para os seus netos
O dote fui ajuntando.
Enr. Hão–de ser muito bonitos
Se forem o meu retrato,
Porque bem conhecem todos
Seu avó, que é...
Trap. e Cal. Um asno57.
57
Ivi, pp. 47-48.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.3.
139
Adriano in Siria
I graciosos dell’Adriano in Siria, opera composta dal Metastasio
nel 1732 e mutata per la rappresentazione madrilena in quantum
metastasiana fragilitas patitur58, come l’abate romano ebbe a dire
all’amico Farinello in una lettera del 16 dicembre 1752, propone,
secondo il parere del Joly, anche nella versione metastasiana momenti
di mal celata ironia dei protagonisti e della sorte, attraverso i quali è
possibile una doppia lettura dell’opera, quella seria e drammatica
richiesta dal genere, e quella giocosa, ilare, ironica appunto che
s’intravvede in certi passaggi e battute dei personaggi, soprattutto
laddove appaiono «tanto meno sinceri quando lo sono di più»59.
Questa considerazione ci permette allora di congetturare che anche
l’adattatore portoghese dell’Adrianno em Syria abbia potuto avvertire
le latenti potenzialità di riscrittura comica offerte dal testo di partenza,
o meglio, la tensione ironica di fondo insita sin nel primo atto
dell’opera del Trapassi. Che dire, infatti, della scena in cui Adriano
viene a sapere dell’arrivo di Sabina, l’amata di un tempo ed ora
dimenticata e sostituita con Emirena, in un atteggiamento che in
qualche modo ricorda i classici sketch dell’amante colto in flagrante?
Atto I, scena VII
Aquilio. Signor…
Adriano.
Che fu?
Aquilio.
Dalla città latina
Giunge…
Adriano.
Chi giunge mai?
Aquilio.
Giunge Sabina.
Adriano. Sommi dei!
Emirena.
(Qual soccorso!)
Adriano.
E che pretende?
Per sì lungo cammin… Senza mio cenno…
Non t’ingannasti già?
Aquilio.
Senti il tumulto
Del popolo seguace,
58
P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 770.
Jaques Joly, Dagli Elisi all’inferno. Il melodramma tra Italia e Francia dal 1730 al
1850, La Nuova Italia, Firenze, 1990, p. 68.
59
Capitolo II
140
Che la saluta Augusta.
Adriano.
Aquilio, oh Dio!
Va, conducila altrove: in questo stato
Non mi sorprenda. A ricompormi in volto
Chiedo un momento. Ah, poni ogni arte in uso.
Aquilio. Signor, viene ella stessa.
Adriano.
Io son confuso60.
E come giudicare il comico dietro-front di Adriano che, entrando nelle
stanze di Emirena, vi trova inaspettatamente Sabina («Adri. Emirena,
mio ben… (Numi, che dissi!) (vuol partire/Sab. Perché fuggi,
Adriano? Un sol momento/Non mi negar la tua presenza, e poi/Torna
al tuo ben, se vuoi»)?61 O il rapido scambio di battute tra l’imperatore,
Sabina ed Aquilio, allorché si presenta l’occasione di ascoltare le
ultime preghiere di Emirena, mentre poco prima Adriano aveva
nuovamente promesso amore e fedeltà all’afflitta Sabina?
Atto II, scena III
Aqui. (ad Adriano A’ piedi tuoi
L’afflitta prigioniera
Inchinarsi desia. Non ti ritrova,
E lung’ora ti cerca.
Sab. (Ecco la prova).
Adri. No, Aquilio: io più non deggio
Emirena veder. Tempo una volta
È pur ch’io mi rammenti
La mia fida Sabina.
Sab.
(O cari accenti!)
Aqui. È giustiza, è dover. Ma che domanda
La povera Emirena? A lei si niega
Quel che a tutti è concesso? È serva, è vero;
Ma pur nacque regina.
Adri. Veramente, Sabina,
par crudeltà non ascoltarla.
Sab. (si turba)
Oh Dio!
Adri. L’udirò te presente:
che potresti temer? Resta, e vedrai..
60
61
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 540.
Ivi, p. 550.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
141
Sab. Oh! Questo no. Già m’ingannasti assai. (s’alza) 62
L’adattamento al gusto portoghese di quest’opera è stato analizzato
da Giuseppe Carlo Rossi in una copia anonima con data 28 settembre
1784 di un testo risalente esattamente a quarant’anni prima, la cui
paternità il lusitanista milanese attribuisce a Francisco Luís Ameno,
ma che, in realtà, è la trascrizione manoscritta dell’Adriano em Syria
del 1746 di António José da Silva, meglio noto come O Judeu.
Nonostante l’errore di attribuzione, rimangono valide le
considerazioni espresse dal Rossi circa la traduzione della trama
principale. Lo studioso, infatti, mette in evidenza tutte le discrepanze
rispetto al Metastasio originale a partire dalla presenza del solo
perdono di Osroa da parte di Adriano, in luogo della resa del regno al
nemico pensata dal poeta cesareo. Rileva, inoltre e chiaramente, la
sfasatura tra la suddivisione atti/scene nei due testi, vistosamente
ridotta nel testo portoghese, così come la soppressione delle licenze
presenti invece nelle edizioni italiane, il passaggio dai versi
dell’originale alla prosa dell’adattamento, fatta eccezione per cori e
arie rese solitamente in versi ottonari, l’accentuazione dell’atmosfera
amorosa e l’aggravamento della perfidia di Aquilio a causa del suo
amore per Sabina63. I luoghi comuni che ci permettono di confermare
di essere di fronte ad una traduzione dell’opera metastasiana da parte
di O Judeu, chiaramente solo per quanto riguarda la fabula centrale,
sono innanzitutto le didascalie di localizzazione e composizione delle
scene, la cui precisa equivalenza sintattica e lessicale non può
attribuirsi al caso, soprattutto se consideriamo che solitamente il luogo
di maggiore libertà creativa di un adattamento è costituito proprio
dall’informazione scenografica:
62
Ivi, pp. 552-553.
G. C. Rossi, Ancora due traduzioni settecentesche portoghesi dal Metastasio, Annali
dell’Istituto Universitario Orientale, Sezione Romanza, Napoli, 1971, pp. 367-382.
63
Capitolo II
142
ADRIANO IN SIRA
1732
Atto I, scena I
ADRIANO EM SYRIA
António José da Silva
1746
Acto I, cena I
Gran
piazza
d’Antiochia
magnificamente adorna di trofei
militari, composti d’insegne, armi ed
altre spoglie de’ barbari superati.
Trono imperiale da un lato. Ponte sul
fiume Oronte, che divide la città
suddetta. Di qua dal fiume Adriano,
sollevato sopra gli scudi da’ soldati
romani, Aquilio, guardie e popolo. Di là
dal fiume Farnaspe ed Osroa con
seguito di Parti, che conducono varie
fiere ed altri doni da presentare ad
Adriano64.
Praça de Antioquia, com uma ponte
sobre um rio, a um lado um trono
imperial, e junto dele Adriano levantado
sobre os escudos dos Soldados
Romanos: Aquilio, guardas e povo, da
outra parte do rio: Osroas, Farnaspe, e
Chichelo com acompanhamento dos
Parthos, que conduzem varias feras, e
outras dádivas para oferecer a
Adriano66.
Atto III, scena IX
Acto III, cena II
Luogo magnifico del palazzo imperiale;
scale, per cui si scende alla ripa
dell’Oronte; veduta di campagna e
giardini sull’opposta sponda. Sabina
con seguito di matrone e cavalieri
romani, Aquilio, indi Adriano65.
Lugar magnífico do Palácio Imperial,
escadas ornadas de estatuas, pelas
quais se sobe ao alto do monte Oronte.
Vista das Náus em o rio; de campanha,
e jardim em cima da rocha, que cerca o
rio. Saem Sabina com acompanhamento
de matronas, e Cavalheiros Romanos,
Aquilio, e Beringela67.
In secondo luogo, ritroviamo un’uguaglianza quasi da traduzione
letterale in molte delle battute dei personaggi principali, pur nel
passaggio da poesia a prosa, come i seguenti casi possono illustrare:
64
P. Metastasio, op. cit, vol. I, p. 531.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532.
66
António José da Silva, Theatro Cómico Portuguez, vol. III, Lisboa, na Of. De Francisco
Luís Ameno, 1759, p. 375.
67
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532.
65
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
ADRIANO IN SIRA
1732
Atto I, scena I
Adriano
Valorosi compagni,
Voi m’offrite un impero
Non men col vostro sangue
Che col mio sostenuto, e non so
come
Abbia a raccoglier tutto
De’ comuni sudori io solo il frutto.
Ma, se al vostro desio
Contrastar non poss’io, farò che
almeno
Nel grado a me commesso
Mi trovi ognun di voi sempre
l’istesso.
A me non servirete:
Alla gloria di Roma, al vostro
onore,
Alla pubblica speme,
Come fin or, noi serviremo
Insieme68.
Atto III, scena I
Sabina
Digli ch’è un infedele;
Digli che mi tradì.
Senti: non dir così:
Digli che partirò;
Digli che l’amo.
Ah! se nel mio martìr
Lo vedi sospirar,
Tornami a consolar;
Ché prima di morir
Di più non bramo69
68
ADRIANO EM SYRIA
António José da Silva
1746
Acto I, cena I
Adriano
Valerosos Soldados, e companheiros,
vós me ofereceis um Impero, não menos
com o vosso sangue adquirido, que com
o meu sustentado, procurando, que dele
(sendo comum o trabalho) seja só meu o
fruto: mas se não puder inteiramente
cumprir com o vosso dezejo, farei ao
menos, que neste magestoso grão que
me entregais, sempre o mesmo me
acheis. Para mim não quero a vanagloria
de me servires; só sim, que empregais
esse cuidado em segurar a glória de
Roma, a grandeza do vosso nome, e a
pública esperança70.
Acto III, cena I
ARIA
Sabina
Dize-lhe, que he ingrato,
Dize-lhe, que he traidor,
Ouve, que fero rigor!
Não, não lhe digas tal,
Dize-lhe só que parto,
Mas sempre o sey amar.
E se no meu tormento
O vires suspirar,
Torna-me a consolar,
Que antes de morrer,
Quero esta gloria achar71.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532.
Ivi, pp. 562-563.
70
A. J. da Silva, Theatro Cómico Portuguez, op. cit., vol. III, p.376.
71
Ibi, pp. 428-429.
69
143
144
Capitolo II
Naturalmente le considerazioni del Rossi non tralasciano la
riflessione sui due servi di questo adattamento, Beringela
(“melanzana”) e Chichelo (probabilmente da chicho “carne di maiale”
o “rimasugli di carne da insaccare, consumati cucinandoli alla brace”),
a proposito dei quali non solo sottolinea l’esplicita qualificazione di
Gracioza e Graciozo apposta sul frontespizio dall’adattatore, ma
soprattutto il loro linguaggio fortemente scurrile, ambiguo, e la
parodia dei modi fintamente affettati e aristocratici dei minuetti e della
ridicola poeticità di Chichelo. Ritornano tutti i tratti standard del tipo
del servo louco, il commentatore ironico dei tormenti dei personaggi
di rango superiore («Chichelo. Que cara de Polifemo!»)72, il
chiosatore di buon senso («Chichelo. [...] este moçosinho tem bom
coração»)73, il tempestivo rammentatore degli eventi in corso
(«Chichelo. Ah Senhor, tu cuidas em conversar, ou em morrer?»)74, il
rappresentante degli stereotipi sulla superficialità femminile
(«Chichelo. [...] é mulher, a quem custa o guardar segredo»)75,il
confidente fidato del personaggio dell’intreccio principale, come nella
scena che vede Osroa, re dei Parti, preoccupato di una possibile
sconfitta contro il rivale Adriano:
Osroa. Que temor me acobarda? Vencido estou, mas não prizioneiro.
Chichelo. Mas perto está o fogo das barbas; pois se te conhecem, cedo estarás
vencido, e
prizioneiro.
Osroa. Não, Chichelo, ainda se deixou caminho ao meu furor: tema o Romano as
minhas iras, sempre me ha de achar o mesmo para a sua ruina.
Chichelo. E que pretendes?
Osroa. Ver abatida a sua soberba às mãos do meu furor76.
A ciò dobbiamo aggiungere l’atteggiamento schietto e sfacciato della
serva, la quale fa riferimento già nel primo atto alla realtà di una vita,
quella delle donne del popolo in genere, decisamente scanzonata, allegra,
libertina, ovviamente allo scopo di veicolare il messaggio del contrasto
72
Ivi, p. 377.
Ivi, p. 381.
74
Ivi, p. 402.
75
Ivi, p. 381.
76
Ivi, pp. 381-382.
73
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
145
tra i tormenti di Sabina per l’amore non ricambiato e la spensieratezza
con cui viene vissuta la relazione di coppia nelle classi subalterne:
Vem a pobrezinha [Sabina] de Roma a esta terra, sofrendo os descomodos
dos caminhos para ver o seo bem, e no cabo acha o seo mal, e a sua pena. Por
isso nós outras vivemos mais alegres; porque a cada passo agarramos o nosso
Adonis para zombarmos delle, sem os embelecos da constancia. O ponto he
haver o bixo, aparecer o aceno; sahir o escarro; que logo entramos na dança
sem se nos dar respeito77.
Dopodichè António José da Silva ci propone tutta una serie di
convenzioni di genere riconoscibilissime e quasi tipizzazioni dei soliti
criados, dall’accenno a mettere per iscritto la promessa di matrimonio,
elemento della prova che ritroveremo nell’adattamento della Zenobia
del 1755, al parallelismo con le vicende dei protagonisti primari della
vicenda metastasiana; dai pesanti e volgari commenti sulle abitudini
proprie dei padroni (alla domanda su cosa stesse facendo Farnaspe, il
padrone di Chichelo, questi così risponde: «Suponho que se está
lavando, que é um porcalhão»)78, al conflitto grottesco cibo versus
amore, o meglio, appagamento dei bisogni primari di contro a quello
dei sensi, reso esplicito da una battuta di Chichelo come: «Mas não, eu
só sem amo, que a barriga me sustente, enamorado em jejum! Isso
não, vá com o diabo, que não quero tais amores»79. Ma è l’azione
parallela tra i due servi, incentrata sull’insistente corteggiamento
dell’uno e sulla finta ritrosia dell’altra, a fornici un ulteriore metro di
giudizio che ci consente di ascrivere quest’opera di António José da
Silva all’ambito degli adattamenti al gusto portoghese dell’opera
italiana: le frequenti allusioni comiche alla sfera sentimentale che
infrangono la tensione tragica della scena80, i giochi comico–verbali, il
77
Opera intitulada Adiranno em Syria, copiada aos 28 de Setembro de 1784, p. 9.
Ivi, p. v24.
79
Ivi, p. v28.
80
Si legga a questo proposito l’ultimo intervento della prima scena del terzo atto:
«Chichelo. Aqui andará o diabo fazendo das suas? Elles querem casar, elles querem
descasar: elles chorão, elles rim. O certo he, que só eu sey tratar o Senhor Cupido. Não ha
cousa, como não dar confiança a hum rapaz cego.
RECITADO
Se elle a mim me fizera gaifonas,
Com formosas taponas
78
146
Capitolo II
tema della fame ancestrale dei servi e delle preoccupazioni sulla loro
incolumità fisica. Si aggiunga, inoltre, il risalto delle diverse
sfaccettature del reale ruolo giocato da questo particolare tipo di
criado: da un lato, la figura di un vero e proprio spettatore in scena
che letteralmente si siede sul palcoscenico per assistere alle vicende
dei personaggi principali («Chichelo. [...] Mas ai aqui vem Adriano
com El–Rei Osroas: vejamos em que isto pára; desta cadeira me
valho»)81, sottolineando con commenti superflui la vicenda man mano
che procede («Chichelo. Aonde irá parar isto!»;82 «Chichelo. Eu não
entendo esta tramoia»)83; dall’altro, non il goldoniano confidente,
aiutante di buon senso che indirizza al giusto fine padroni poco
accorti, bensì il gracioso iberico interessato unicamente al proprio
utile, anche a discapito della felicità dei suoi referenti superiori. È
questo il caso di uno scambio di battute tra Emirene, l’infelice
principessa dei Parti, combattuta tra l’amore per il connazionale
Farnaspe e l’obbligo di cedere alla proposta di matrimonio
dell’imperatore Adriano, che le consentirebbe di liberare il padre
Osroas dalla prigionia del romano, e Chichelo, il cui consiglio non si
orienta affatto verso una situazione di lieto fine che possa consentire a
tutti i personaggi in gioco di trovare soddisfazione alle proprie
esigenze, come prevede il lieto fine dell’opera gioco-seria, ma che,
O cusinho muy bem lhe esfrangalhara,
E quanto mais guinchára,
Eu então com mais ancia sim lhe déra,
Que o sangue pelo rabo lhe escorrera.
ARIA
Mas qual o cão raivoso,
Se algum rapaz o assanha,
Os dentes lhe arreganha
Fazendo-lhe am,am,
Logo o rapaz lhe foge,
Temendo o seu ladrar.
Assim ao Deus Cupido
Os dentes lhe arreganho,
E vendo que me assanho,
Às trancas logo dá.» in Ivi, p. 444.
81
Ivi, p. 434.
82
Ivi, p. 435.
83
Ivi, p. 443.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
147
senza alcuna reale partecipazione per le vicende dei protagonisti,
risponde unicamente a preoccupazioni individualistiche:
Acto III, cena I
Emirene. Oh infeliz, a que conselho devo obedecer?
Chichelo. O que eu der.
Emirene. Quem me responde?
Chichelo. É um criado de Vossa Alteza. (Sai debaixo da cadeira)
Emirene. Tu aqui?
Chichelo. E bem contra minha vontade; pois saio espremido, e entrei medroso.
Emirene. Ouviste a minha desgraça?
Chichelo. Não acaba de entender, que seu Pai está tonto?
Emirene. Oh que tambem eu perco o juízo!
Chichelo. Não, se isso é achaque que se pega, eu não quero perder o pouco que
tenho.
Emirene. Que hei–de fazer?
Chichelo. Casar com Adriano.
Emirene. Tu me aconselhas isso, sabendo o que a Farnaspe quero?
Chichelo. Pois caze com Farnaspe.
Emirene. Estás louco!
Chichelo. Já se me pegaria o achaque84.
Il testo secondario dell’intreccio tra criados non presenta invece
particolari discrepanze rispetto ad altre situazioni comiche incontrate
in quasi tutti gli adattamenti al gusto portoghese.
António José da Silva, Adriano em Syria (1746)
Acto I, cena II
(Sai Chichelo)
Chic. Como já lhe conheço as manhas, bem posso entrar na compra.
Ber. Mas vamos ver alguma coisa desta terra, em que sou nova, que me dizem há
nella bons feitios.
Chic. Um dos feitios, que quer entrar na compra e mais na venda, sou eu.
Ber. Pois não me serve pelo preço.
Chic. Antes é em bom comodo; porque se dá de graça.
Ber. Não desgosto dessa sua.
84
Ivi, pp. 440-441.
Capitolo II
148
Chic. Nem eu da vossa mercê! Ora chegue–se para cá!
Ber. Não; desvie–se.
Chic. Já me não quer?
Ber. Não trago troco, com que o possa comprar.
Chic. Aceiteme, se me quer, e não me fale em trocos, que não lhe peço demazias.
Ber. De donde viria esta criança.
Chic. Da roda dos engeitados!
Ber. Pois é justo que de mim o seja.
Chic. Melhor será, que nessa roda dos engeitados, encontre eu o da fortuna.
Ber. Somente se for para lha desandar.
Chic. Ah tirana! Já sei que se declara por minha inimiga.
Ber. E em que o julga?
Chic. Em que podendo–me fazer venturoso, somente me promete desgraças.
Ber. Não me desagrada o tal moçozinho. (À Parte)
Chic. É possível que desejando V.m. achar nesta terra algum feitio, que lhe sirva;
e agora dando–se–lhe este de tão boa vontade, V.m. o não queira, com tanta
ingratidão?
Ber. Quem lhe disse que o não queria?
Chic. Esse desdem me desengana!
Ber. Não tenha desconfiança, que eu aceito o partido.
Chic. Com que ajuste?
Ber. Olhe isto! Basta eu dizer que o quero (lograr). (À Parte)
Chic. Aceito, e verei….. mas ainda assim receio a sua constância.
Ber. O que diz?
Chic. Bom seria, que nessa mão de papel levasse assinada a promessa.
Ber. Não sei se pede muito.
Chic. Antes peço pouco, ainda que valha muito.
Ber. Aqui está.
Chic. Aceito, e digo.
Minuete
Chic.
85
Esta mãozinha
Que neve ostenta
Se quer mostrar,
Posto que é branca,
Como bem creio,
Muito receio;
Que a sorte em branco
Me venha a deixar. (Vaise) 85
Ivi, pp. 393-396.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
149
Acto II, cena II
(Sai Beringela)
Ber. Minha ama86 está asustada com este motim, e quer saber se Emirene se iria.
Mas aqui tenho quem me diga. Senhor Chichelo.
Chic. Que diz senhor Vamanca?
Ber. Fale bem.
Chic. Eu não sei que isto seja falar mal, pois tudo vai dar no calçado velho.
Ber. Não me dirá se o Príncipe Farnaspe está na terra?
Chic. Não senhora não direi.
Ber. Porquê?.
Chic. Porque me pede que o não diga.
Ber. Sabe se ele fugio.
Chic. Nem ele era capaz de o fazer, nem eu de o chocalhar.
Ber. Pois que faz?
Chic. Suponho que se esta lavando, que è um porcalhão.
Ber. Ora fale com termo.
Chic. Com termo lhe falo. Ah perra, que raivas me fazes!
Ber. Também você me não faz pouca raiva com os seus disparates.
Chic. Pois já que lhe dei o mal, dar–lhe–ei o remédio.
Ber. E qual é?
Chic. Ir as ondas se tem raivas.
Ber. Ora cale–se, que não estou para graças; responda ao que lhe digo.
Chic. E que me diz?
Ber. Se fugiram Farnaspe, e Emirene, que vos ha–de sabê–lo!
Chic. Elles não o fizeram; porque os seguraram.
Ber. Ai mofina de mim.
Chic. Não te asustes por isso, pois já que eles não abalaram, nós bem podemos
ser firmes.
Ber. E prenderam-nos.
Chic. Não, que eles iam soltos, e livres.
Ber. Eu não o entendo. (Faz que se vai)
Chic. Pois isso é claro. Espere menina.
Ber. Deixe–me que o vou dizer.
Chic. A quem?
Ber. Já o queria saber!
Chic. Não te has –de ir sem o dizer. (Pegando–lhe)
Ber. Agora não.
Chic. Não, por força não vais.
86
Si riferisce a Sabina, promessa sposa romana di Adriano.
Capitolo II
150
Dueto.
Ber. Sempre ateimas qual cachorro,
Que a sua bela cachorrinha
Sempre está dizendo xó,
Bonitinha anda cá!
Chic. Sempre irada qual saloya
Ao seu burro, sem que esbarre,
Te verei dizendo arre,
Arre, arre, arrelá.
Ambos. Oh que teima, que tormento,
Tão sem gosto, sem contento
Eu me sinto suportar87.
Atto III, cena I
(Saem Chichelo e Beringela)
Chic. Com que emfim V.m. me deixa com esse desdém!
Ber. Senão tenho outro, que quer que lhe faça?
Chic. Ora, volta essas duas estrelas da alva, que na madrugada dessa carinha,
sem consciência, quando esperava me dessem um bom dia, me deixão as boas
noites.
Ber. Não sabe que sirvo a Senhora Sabina? E que ella por ordem de Adriano se
ausenta?
Chic. Tudo sei.
Ber. Pois então para que se queixa, sem motivo da minha ausência? Hei–de ficar
desanrranjada?
Chic. Não ficará! Antes será do meu rancho, se quiser seguir as bandeiras de
amor.
Ber. Seguir as bandeiras, isso não: só porque me não digam que sou moça de
Soldado.
Chic. Ora menina tem dó de mim, não me deixes no mar do meu pranto
flutuando na tormenta da tua ausência.
Ber. Não me detenha com esses ditos, que por aí me não perca.
Chic. Pois cuidei que o anzol do meu afeito a pilhasse no mar do meu amor.
Ber. Olhe que se pode afogar, não nade tanto.
Chic. Não importa, que eu não me afogo em pouca água.
Ber. Não o posso mais ouvir: fique–se embora, e saiba que…
Chic. Que?
Ber. Que só de você levo…
Chic. Ora dize o que levas! És muito bonita!
87
Ivi, pp. 424-426.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
151
Aria
Ber. Levo uma pena,
Que me atormenta
Tão rabugenta
Tão rezinguenta,
Que nada quer.
Não sei que é
Se é Saudade,
Não sei dizer.
Sei que me mata,
Pois sem reparo
Eu nunca paro,
Nem posso estar
Aqui, aí, alí, acolá
Ai que será. (Vai–se)
Chic. Espera não fujas: ouve que te darei o remdio. E foi–se! Mas eu também
quero ir que… Mas não, eu só sem amo, que a barriga me sustente, enamorado
em jejum! Isso não, vá com o diabo, que não quero tais amores: alto abalo, isto
ha–de ser88.
II.4.
Zenobia
Un adattamento della Zenobia che Metastasio compose nel 1740, e
che ebbe particolare successo, dato il numero di copie da esso tratte
che circolarono in Portogallo nel XVIII secolo, è l’esemplare datato
1755 e che presenta una titolazione ormai a noi familiare: Comedia A
Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia (fig. 13). Da
questo testimone venne ricavata la copia a stampa del 1782 (fig. 14),
che presenta interpolazioni manoscritte nelle ultime due pagine, un
altro testimone del 1792 firmato in calce da Manoel Joaquim Maya
(fig. 15), due esemplari manoscritti, uno intitolato A Constante
Zenobia, datato 1797 e che registra un solo personaggio in più rispetto
all’originale metastasiano (il pastore Cloardo, padre di Egle) e il
secondo del 20 agosto 1792, conservato dalla Biblioteca Nazionale di
Lisbona e che segnaliamo sia per il mutamento dei nomi di due
personaggi (Egle con Alcina e Zopiro con Ergasto), sia per la presenza
88
Ivi, pp. 431-434.
152
Capitolo II
di tre criados: Capateta (forse da ca, “qua” + pateta, “sciocco,
imbecille”), serva di Zenobia, Barulho (“baccano, confusione”), servo
di Radamisto, e Carolho (forse forma per carolo, “bastonata sulla
testa” o “nocciolo”). All’interno di una traduzione della Zenobia
pressocché fedele all’originale italiano, i tre servi portoghesi
imbastiscono una ridicola trama di equivoci e burle l’uno ai danni
dell’altro che, ancora una volta, si basa sul tema della conquista
femminile da parte di due contendenti di uguale rango. Anche in
questo caso, motivo centrale del contendere e dell’opzione di Capateta
in favore dell’uno o dell’altro servo è la rilevanza economica dei beni
posseduti, come si può leggere nell’intervento della criada rivolto a
Carolho, sicuramente spia di questo atteggiamento nei confronti del
denaro: «Como V.m. falou em rendimentos, queria saber a quanto
chegam cada anno as rendas da sua casa, porque eu sou mui clara»89.
Elemento del resto presente nel già citato referente vicentino del
Cinquecento, in particolare in quell’Auto da Alma in cui il diabo
seduce l’alma con la lode dei beni materiali:
DIABO
[...]
O ouro para que he,
E as pedras preciosas,
E brocados?
E as sedas pera que?
Tende por fé,
Que p’ra as almas mais ditosas
Forão dados.
Vêdes aqui hum collar
D’ouro mui bem esmaltado,
E dez anneis.
Agora estais vós p’ra casar
E namorar:
Neste espelho vos vereis,
E sabereis
Que não vos hei de enganar.
E poreis estes pendentes,
Em cada orelha seu:
89
Commedia A mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia, copiada aos 20 de Agosto
de 1792, p. 11.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
153
Figura 13. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 652).
154
Capitolo II
Figura 14. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 92).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
155
Figura 15. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 92).
156
Capitolo II
Isso si;
Que as pessoas diligentes
São prudentes.
Agora vos digo eu
Que vou contente daqui90.
Naturalmente non manca l’insistito gioco di parole sui nomi propri
dei tre personaggi comici («Cap. Como é o seu nome? / Car. Carolho
para servir a V.m. / Cap. O nome é descarolhado. (À parte) / Car. E
como é a sua graça. /Cap. Capateta para lhe obedecer. / Car. A graça é
pesada»)91 così come non mancano i battibecchi caricaturali dei due
personaggi maschili, come il seguente, dalla facile comprensione:
Car. Oh ladrão, passe para cá o meu vestido.
Bar. Oh ladrão, ponha para ali o meu habito.
Car. Você é que me fez o roubo.
Bar. Você é que me fez o furto.
Car. Não sabe que este vestido é meu?
Bar. Não sabe que é meu esse habito?
Car. Pois troquemos!
Bar. Pois troquemos.
Car. Dispa-se você lá.
Bar. Dispa-se você primeiro.
Car. Eu digo que não quero.
Bar. Pois eu também digo que não quero.
Car. Dá cá, ladrão. (Pega nele)
Bar. Toma lá, patife. (Da–lhe)
Car. Irra, irra, isso não vai de valha, tomar-me o vestido, e dar–me em cima
muita pancada.
Bar. Pois já está vingado; porque quem dá, e toma nasce-lhe uma alcorcova. O
magano he fraco como uma abobora mas eu hei–de calá-lo como um melão.
(À parte)92
Chiaramente la traduzione più interessante è l’adattamento al gusto
portoghese del 1755 già citata, interessante per la presenza di altri
criados, la cui azione questa volta entra in contatto con i personaggi
principali, coinvolti però singolarmente, pur non entrando nel merito
90
G. Vicente, op. cit., p. 85.
Commedia a mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 11
92
Ibidem.
91
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
157
della trama primaria dell’opera che narra di una principessa
d’Armenia di cui Metastasio mette alla prova le virtù coniugali nei
confronti dello sposo Radamisto, principe d’Iberia, contro un’amore
per Tiridate, principe dei Parti, costantemente represso. Lo schema
tripartito Zenobia–Radamisto–Tiridate si rispecchia allora nel
triangolo Corriola–Bonifrate–Tarelo, di cui sono i rispettivi servi, e di
cui riproducono in versione comico–popolare i dubbi e le
problematiche. Coriola, pianta ampiamente diffusa in Portogallo ma
anche fischio, schiamazzo, o «jogo que por meio de uma fita se furta o
parceiro»93, diviene così l’oggetto del contendere tra il serio e il faceto
di Bonifrate, il fantoccio, il burattino, e Tarelo, il chiacchierone
(dall’arabo takallam, “colui che parla”), l’«homem intrometido que
fala de tudo sem nada saber (Beira)»94.
Ma prima ancora di giungere allo specifico dei graciosos, è
oppurtuno evidenziare alcuni aspetti della traduzione della trama
primaria che, pur non mutando significativamente il contenuto
centrale della vicenda, possono far luce sull’atteggiamento traduttivo
dell’adattatore settecentesco. Innanzitutto, osserviamo l’ambiguità del
titolo portoghese, A Mais Heroica Virtude, che a tutti gli effetti
dovrebbe essere riferita alla condotta di Zenobia nei confronti dei suoi
doveri di figlia e di moglie, ma che, in realtà, un’intervento di Egle nel
terzo atto rivolto a Tiridate per indurlo a salvare sia Zenobia che il
rivale Radamisto, rimanda a Tiridate stesso, come si nota dalla
tensione finale della battuta che parla appunto di “azione eroica”: «...
adverte que a piedade, ainda para com os inimigos, é uma acção
heroica»95. Se invece analizziamo la prima battuta di questa
commedia, noteremo certamente scelte lessicali orientate verso una
terminologia decisamente più semplificata e colloquiale, oltre,
naturalmente, alla semplificazione, anzi allo stemperamento della
struttura sintattica di cui, oltre alla battuta riportata nella tabella che
93
Guiilherme Augusto Simões, Dicionário de espressões populares portuguesas,
Publicações Dom Quixote, Lisboa, 2000, p. 199.
94
Ivi, p. 632.
95
Commedia A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, composta na lingua
Italiana pelo abbade Pedro Metastasio: agora nuovamente traduzida, e accrescentada, segundo
o gosto do Teatro Portuguez, no anno de 1755, Lisboa, Na Officina dos Herdeiros de Antonio
Pedroso Galram, p. 28.
Capitolo II
158
segue, un caso emblematico è la semplificazione sintattico–lessicale di
un complesso intervento di Radamisto nel primo atto («Da’ sollevati
Armeni / Creduto traditor, sai già che astretto / Fui poc’anzi a
fuggir»)96 reso con la lineare «Já sabes, que há pouco tempo fui
obrigado a fugir de Armenia, por me julgarem traidor»97:
ZENOBIA
1740
Atto I, Scena I
Zopiro
No, non m’inganno, è Radamisto. Oh,
come
Secondano le stelle
Le mie ricerche!
Io ne vo in traccia; e il caso,
Solo, immerso nel sonno, in parte
ignota,
L’espone a’ colpi miei. Non si
trascuri
Della sorte il favor: mora!
L’impone
L’istesso padre suo. Rival nel trono
Ei l’odia, io nell’amor. Servo in un
punto
Al mio sdegno e al mio re98.
A MAIS HEROICA VIRTUDE
1755
Acto I
Zopiro
Não, não me engano; é Radamisto: oh
como as estrelas favorecem os meus
desígnios! Eu ia a procurá–lo, e o meu
accaso neste oculto lugar o expõem
adormecido aos meus golpes; não se
perca o favor da sorte. Morra pois, que
esta é a vontade do proprio pai; ele o
aborrece competidor no Throno, e eu no
amor, ao mesmo tempo sirvo à minha
ira, e ao meu Rei99.
In questo testo il traduttore portoghese mette in pratica la lezione
oraziana ripresa da un teorico di teatro del Settecento come Correia
Garção, quel não ensanguentar o teatro che equivaleva al non
portare sulla scena azioni eccessivamente cruente e esemplificato qui
dall’attenuazione della forza lessicale della versione di
un’espressione come “gli trafisse il petto”100 in “lhe tirou a vida”101.
96
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 926.
Commedia A Mais Heroica Virtude,ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 2.
98
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 925.
99
Commedia A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 1.
100
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 961.
101
A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 28.
97
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
159
Affrontando a questo punto il discorso sui tre graciosos di questo
adattamento, ciò che qui si deve rilevare come fattore distintivo
rispetto alle proposte di comicità precedentemente analizzate è, in
primo luogo, un eccessivo patire per le sofferenze dei protagonisti
primari della vicenda metastasiana originale, frequentemente ribadito
da esclamazionni di cordoglio e di afflizione, diversamente
dall’indifferenza sostanziale che separava la realtà dei servi da quella
di prìncipi e re che abbiamo trovato nell’adattamento analizzato nel
precedente paragrafo. In secondo luogo, occorre considerare con
particolare attenzione la figura di Tarelo, rivale in amore di
Bonifrate, ma che qui svolge a tratti la funzione quasi goldoniana di
coscienza ludica o intelligenza sarcastica del propio padrone Tiridate,
oltre ad essere consigliere del medesimo, con soventi strizzatine
d’occhio dirette al pubblico nei numerosi “a parte” che sottolineano
la sagacia dell’uno e la disattenzione dell’altro. Un esempio di quella
che forse è la prima occorrenza di un servo dai contorni decisamente
meno superficiali e dal ruolo più sfaccettato è la domanda che
Tiridate rivolge a Tarelo circa la conoscenza o meno da parte di
Corriola della sorte dell’amata Zenobia:
Tir. Sabe ela que inda é viva?
Tar. É bem certo Senhor, que a não buscaria depois de morta.
Tir. O que te pergunto é, se tem Corriola alguma certeza de que Zenobia
vive?
Tar. Parece que não ouve (À part.) Ela não me disse que era morta, só me
segurou havia uma grande temporada, que a buscava como agulha em
palheiro102.
Eccezion fatta per questo aspetto del personaggio di Tarelo, non
mancano ovviamente tutti i classici elementi della comicità esplicita
tipica dei graciosos di questi adattamenti: il riferimento al denaro e
alla posizione economica come elemento decisivo nella scelta del
marito da parte di Corriola; l’affermazione della necessità di
mantenere le proprie libertà femminili anche dopo il matrimonio; la
gelosia tra i due pretedenti quale fattore scatenante degli scontri fisici
e verbali; il gusto sadico della figura femminile di questo triangolo
102
Ivi, p. 16.
160
Capitolo II
comico–amoroso nel creare equivoci di senso o d’identità negli altri
personaggi, equivoci atti a creare nei due servi rivali scaramucce e
battibecchi che rivelino l’importanza della donna come oggetto
d’amore; l’impazienza dei personaggi “alti” del dramma nei confronti
delle vicende ridicole dei criados.
A tutto ciò si deve aggiungere un altro elemento d’innovazione
significativa che è l’introduzione del fattore che suppostamente
dovrebbe scatenare l’agnizione risolutiva finale, costiutito da una
lettera falsificata in cui Corriola avrebbe certificato la sua promessa di
matrimonio a Tarelo. La lettera, redatta ovviamente in stile comico, si
smentisce da sè per il semplice fatto che la supposta autrice non è in
realtà in grado né di leggere né di scrivere, il che ci permette di
considerare l’aggiunta di questo elemento come una particolare
parodia del genere serio, dove l’elemento dell’agnizione portava
spesso alla risoluzione conclusiva della vicenda.
L’isolabilità dell’azione dei tre graciosos di questa Zenobia
portoghese, che ci ha permesso di considerare il loro interagire come
una sorta di commedia a sé, ci consente, inoltre, di riportare
fedelmente i momenti del loro intervento in scena: l’incontro di
Corriola e Bonifrate con Egle e l’arresto da parte dei soldati nel primo
atto (pp. 5–9), le scene insieme a Tarelo del secondo atto (pp. 12–16)
e, infine, la lunga parte conclusiva del terzo atto (pp. 29–33).
Comedia A Mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia (1755)
Acto I
Bon. Sio, ó menina, ó menina não ouve? V.m. será por acaso alguma Pastora
destes montes?
Elhe. Superflua é a tua pergunta, quando este traje mostra ser esse o meu
nascimento.
Bon. Pois eu duvidava, que podesse ser parto do campo tanta beleza. Pergunta
mais a minha ignorância: sua mercê guarda porcos, ou guarda cabras?
Elhe. Posto que me não occupe nesse exercício, não o desprezo.
Bon. Bonita menina, nunca sua mercê foi mal criada. Agora quisera saber aonde
estamos, e que grande povoação é aquela, que ao longe se vê?
Elhe. Este sítio com estas cabanas é por algum tempo habitação das humildes
Pastoras; aquela é a Real Cidade de Artaxata; e o acampado Exercito, que junto
ao rio se divisa, é de Tiridates.
Cor. Não te canses, Príncipe: que já não podes conseguir o que desejas.
(À parte)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
161
Bon. Não me dirá se por aqui vamos direitos?
Elhe. Para onde?
Bon. Seguindo a nossa derrota.
Elhe. Se mais não te explicas, mal posso responder-te.
Bon. Alguma cousa falando mais claro, lhe seguro, que esta moça é uma das
mulheres mais delicadas, que eu conheço; o que não pode duvidar-se como
também que temos andado muito, e com abundância de infelicidades, sem
podermos achar o que procuramos com bastante disvélos.
Elhe. Agora me ocorre, que pode esta serhuma criada de Zenobia, e ele criado de
Radamisto, com os quaes partiram na fuga.
Cor. Minha rica Pastorinha, eu já não me atrevo a dar passada; quero que me
digas se poderei aqui descansar sem o receio de que algum bicho nos persiga,
porque é cousa, de que sempre tive medo.
Bon. Isso é que em ti agora me parece ser bicho: tu não tens visto a quantas
medonhas feras por esses horrendos caminhos asugentou com desmarcada
temeridade o meu assalvajado valor? Então de que temes?
Cor. Eu sempre ouvi dizer, que huma vez cahia a casa.
Bon. Ora não sejas agourenta, descansa um pouco, para logo continuarmos a
nossa jornada.
Cor. Ainda mal, que o nosso cuidado não nos permitte sossego.
(Senta-se em uma pedra)
Elhe. Bem podes aqui descansar sem susto; e se esta camponeza te merece
alguma atenção, dize-lhe o motivo, que te obriga a andar por estas montanhas.
Cor. Ai, sim, pois porque não, minha vida... (Levanta-se)
Bon. Cale a bocca, bacharela, deixe-me falar, que sou mais velho. Não me dizem
nada? (À parte) Menina, faça V.m. de conta, entendo que tem feito de conta, que
para castigo das minhas culpas ando embrenhado por este deserto na companhia
desta mona, que já fatigada não pode bulir-se; arre com ela; forte lesma! Muita
paciência hei–de mister.
Cor. Ouvio? Não seja tolo. Se as quer tanger, vá comprá–las: queria que eu,
sendo uma Dama tão melindrosa, andasse tanto como elle maxacha103 e
queixando-me de dor de peito.
Bon. Já sey que é muito máo o teu achaque: nada me dizes de novo; não te
enfades, pois é certo que eu não posso deixar de sentir quando tu padeces, minha
flor.
Cor. Sim, Senhor, diga-me dessas, que eu já o creio.
Elhe. Parece-me, que se não casão muito bem.
Bon. Eu espero, que brevemente sejamos muito bem casados, se por disgraça
esta Senhora não se descer da burra; que isto de mulheres são os bichinhos mais
inconstantes, que criou a natureza: porque se hoje dizem que sim, já amanhã
103
Probabilmente accrescitivo di macha, mula.
162
Capitolo II
dizem que não; e deste modo descaradas sem pejo algum, fazem zombarias de
um homem cheio de barbas; e o peior é que algumas a festa nos fazem de
coitadinhos. Oh, como dizem bem! Pois todo aquelle que destas se fia ha–de ser
coitado, ainda que não queira: quando isto me lembra estou quase quase em
pontos de não casar-me.
Cor. Ai, pois se você tem esse receio (Levantando-se) não queira tomar tal
estado, posto que eu não sou dessas, não Senhor.
Bon. Ora pois: eu assim o entendo, porque não há regra sem excepção. Sei que
tenho na tua pessoa uma constante Corriolla; pelo que não hei–de deixar-te, não.
Cor. Também, Santas Paschoas; está em tempo de escolher a seu gosto, (Sentase) não hei–de rogá–lo por certo.
Elhe. Estes são sem dúvida os mesmos criados de Radamisto, e Zenobia (À
parte) Eu queria retirar-me, e sinto não me queiram descobrir a causa dos seus
trabalhos; ou ao menos os seus nomes.
Bon. Ora espere, que eu me resolvo; como julgo, que é mulher de todo o
segredo, isso lhe direi eu: tome sentido. Bonifrate é o meu nome, e da minha
companheira o seu he Corriola.
Elhe. Não se enganou o meu coração (À parte) Corriola, vem cá, dá-me um
abraço, que eu te dou notícias de Zenobia, tua Ama.
Cor. Que dizes? Oh que feliz encontro! (Levanta-se) como a conheces? Toma
mil abraços. (Abraçam-se)
Bon. Oh que ditoso accaso. Diga mais alguma coisa, que estou almejando por
ouvi–la. Pela vida dos cabritos do senhor seu Pai dé um regabofe a este triste
coração.
Elhe. Também sei, que teu Amo se chama Radamisto.
Bon. Como assim! É possível? Oh que gosto! Onde está esse infeliz peregrino?
Cor. Conta-me o que é feito da minha rica Princeza.
Elhe. Teve a sua vida em mui grande perigo.
Cor. Coitadinha; e como? Dize-me como foi?
Elhe. Posto ser dilatada a narração do sucesso, e faltar-me o tempo, só te posso
dizer, que estando eu na margem do rio Araxe divisei dois vultos na sua corrente;
um deles era uma vestidura de Zenobia, e o outro era ela mesma, a quem logo
socorri, e livrei, tendo em seu peito uma penetrante ferida; trouxe-a para a minha
cabana, dei-lhe dos meus vestidos pastoris, tratei dela com extremoso cuidado,
curei-a como se fosse coisa minha; e vive, posto que bem aflita, por não saber do
seu perdido Esposo, ao qual sem sossego vai procurando.
Bon. Isso é certo? Oh meu desaventurado Radamisto, (Chora) aonde irá dar
comtigo o teu Bonifrate? E Zenobia aonde estará?
Elhe. Da minha companhia se apartou não há muito tempo: deu-me discretas
excusas para que a deixasse ir só; tive com ela boa amizade; descobrio-me todos
os seus infortunios; e eu fiquei invejando a sua rara virtude.
Cor. Coitadinha! (Chora) e foi só, sem saber caminho, nem carreira? Bem sei eu
quem tem a culpa de todos estes desarranjos: o certo é, que ninguém se livra de falsos
testemunhos: Radamisto não era capaz de matar ao senhor seu sogro, daí durmir.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
163
Bon. O mesmo afirmo eu Bonifrate: os Armenios estão muito mal informados;
meu Amo não podia cometer semelhante delicto, sabendo muito bem que
Mitridates o escolheo para Esposo de sua filha, negando-a no mesmo tempo a
outro Príncipe.
Cor. Pobre Tiridates, que ficou chuchando no dedo! Tenho muito dó dele, e
julgará que Zenobia o deixou por desprezá–lo. Como se engana se isso cuidar!
Queixe-se do senhor defunto, o qual, aqui para nós, faltou como um negro à sua
palavra.
Bon. Ó rapariga, não fales em coisas do outro mundo, que se me arripião quantos
cabelos tenho no corpo.
Cor. De sorte que eu não sinto, que a minha menina casasse com Radamisto:
porém é certo que Tiridates também a merecia.
Elhe. Zenobia me informou das condições desse Príncipe; que todas o fazem
digno da maior estimação; eu me compadeço muito da sua infelicidade, pois
ainda que sou uma rustica, também me acompanhão nobres sentimentos.
Cor. O teu nome saber quisera, para o trazer impresso na memória.
Elhe. É mui afável o teu génio, pois tanto lisongeias uma Pastora, que de pouco
pode servir-te. Elhe é o meu nome; nestes montes fui criada, aquela cabana é às
vezes o meu aposento, aonde podes descansar, se quiseres.
Cor. Como posso eu sossegar? Não é possível: devo por–me já a caminho, a ver
se algum Nume nos depara minha Ama, pois cheia de saudades por vé–la
suspiro.
Bon. E eu também de boa vontade darei ainda o que não tenho, só por ver meu
Amo o senhor Radamisto. (Chora)
Elhe. Pois, Corriola, eu vou buscar meu Pai, que anda no monte: adeus. Dá-me
um abraço. Se conseguires o gosto de ver Zenobia, segura-lhe que eu muito
desejo se acabasse já a causa do seu martírio.
Cor. Também tu, se por acaso lhe tornares a falar, dize-lhe que nós cuidadosos a
buscamos; e que por eu cansar no caminho, não podemos segui–la. Adeus, linda
Pastora. (Abraçam-se)
Elhe. O Cheu conceda a todos igual descanso. (Vai-se)
Bon. Pela parte que me toca não deixo, de lhe ficar muito obrigado. Corriola, à
vista do que se passa, é preciso acabar de correr a lebre: façamos das fraquezas
forças, vamos andar, e desandar esses emboscados bosques, pode ser que a sorte
jamais favorável nos restitua esta gente perdida; mas o peior será, se ainda não
souber um do outro; que tudo pode ser.
Cor. Tal não levo à paciência, separar–se Radamisto de Zenobia. Ah, permitam
os Numes não ficasse ele em poder dos seus inimigos! Não me lembrou
perguntar a Elhe uma coisa tão precisa; sou uma tonta.
Bon. Também nós não ficamos sabendo como foi aquilo... aquilo da ferida, foi
bom esquecimento da nossa lembrança!
Cor. Infeliz Princeza! Que de sustos, e pezares tem passado por aquela alma
inocente! Vamos Bonifrate, que mais hora, menos hora tudo saberemos; mas ai
que vem... Soldados! Aqui me escondo, antes que me vejam. (Esconde-se)
164
Capitolo II
Bon. Espera tola, não fujas! Eu como ainda não sei de que cor é o medo, hei–de
ver o que eles querem.
(Sai um Sargento e dois Soldados)
Sarg. Oh! Criado meu Amo.
Bon. Oh meus Senhores, outro tanto. Convém fazer-me um pouco mais tolo do
que sou na realidade (À parte) Para quem pedem?
Sarg. Quem é você?
Bon. Quem sou eu? Está galante a pergunta! É bom não ver!
Todos 3. Diga logo quem é! (Enfadados)
Bon. Para que é tanta bulha? Não me conhecem? Não lhes estou parecendo um
homem?
Sarg. Para onde vai? Como se chama?
Bon. Isso agora é mais comprido: eu entendo que vossas mercês querem
conversar. Lá está Corriola escondida vendo em que isto pára. (À parte)
Sarg. Você não ouve?
Bon. Senhor Sargento, se quer que lhe diga a verdade, não estou muito de humor
para lhe dar ouvidos: bem podera V.m. dar-me um bocado da sua pachorra.
Sarg. Diga-me como se chama, seremos amigos.
Bon. Sim Senhor, conheço o favor que me faz: pode-se ir embora cada vez que quiser.
Sold. Este homem é malicioso, ou muito inocente.
Bon. Uma coisa dessas ha–de ser. (À parte)
Sarg. Você fale em termos, porque além de Soldados, somos homens de honra.
Bon. Muito bons para uma quadrilha. (á parte) Irmãos ficou-me a bolsa em casa,
não tenho que lhes dar.
Sarg. Eu julgo que você se faz simples.
Bon. Ainda mal, Senhor; engana-se; com este defeito saí eu já da barriga de
minha mãe.
Sarg. Ora basta de galhofa, que já me vai enfadando.
Bon. Antes eu discorro, que sua mercê se quer desenfadar comigo.
Sarg. Você como veio a este sítio?
Bon. O homem é excelente para inqueredor (À parte) Deu-me esse destempero
na cabeça.
Sarg. E que faz por aqui?
Bon. Eu agora, nada, Senhor; já hoje fiz alguma cousa, pouco foi, e por signal,
que me não cheirou muito bem; pelo que tenho meus escrúpulos do que estou
podre cá por dentro.
Sarg. Fale a propósito, quando não hei–de ensina–lo.
Sold. Este homem já não se atura. (Enfadados)
Bon. Meus Senhores, para que se enfadam? Não sabem que nunca a indiscrição
conseguio obrar acertos! Vossas mercês o melhor acordo que podem tomar é
fazerem-se na volta, e deixarem-me, que eu não tenho medo de ficar só; este é o
meu parecer por excusar-mos ceremonias.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
165
Sarg. Ou seja tolo, ou se finja, venha prezo.
Cor. Ai! Pobre Bonifrate, em que mãos está mettido! (À parte)
Bon. Que vá prezo? Assim sou eu besta. Com que autoridade faz V.m. esta
diligência?
Sarg. Lá lho dirão. (Querendo encaminhallo)
Bon. Olhe lá não digam... Eu estou vendo, que intentam fazer-me réu sem culpa.
Sarg. Homem, nós somos Soldados do Exercito de Tiridates, que andamos
descobrindo estes bosques: você não é camponês, e poderá ser alguma espia
dissimulada, ou malfeitor: assim é preciso levarmo-lo prezo, quando não,
faltamos às ordens que temos.
Bon. Faltem muito embora: nada duvido do que me diz; porém eu não vou;
porque não costumo andar de pé.
Sarg. Ha–de vir, e não queira que seja por mal. (Encaminhando-o)
Cor. Não sei que faça; para esta não estava eu aparelhada. (À parte)
Bon. Ora espere, Senhor; vire-se para lá.
Sarg. Que quer?
Bon. Eu queria, que me levasse às cabritas, se não, digo que não posso ir.
Sarg. Homem, a mostarda já me vai chegando ao nariz; não se queira fazer
criança.
Bon. Criança seria eu, se estando V.m. aqui, deixasse de querer ir a cavalo.
Todos 3. Ó patifão, ó insolente; virá desta sorte. (Empurrando-o com as armas)
Bon. Ai, ai, ai, deixem-me, que eu vou. (Largam–no) V.ms. são agarradores?
Isto é modo de prender? Às pancadas?
Serg. Pois andar; se não, o remédio está na mão.
Bon. Senhor Sargento, peço-lhe não queira dar-me este incómodo, porque eu
certamente não sou capaz de fazer mal, ainda aos meus inimigos.
Sarg. Lá mostrará a sua inocência; vamos.
Bon. Querem V.ms. levar-me ao colo, se podessem ter esse trabalho!
Sarg. Amigo, zombaria fora, em que ficamos?
Bon. Eu ainda fico em ficar.
Todos 3. Pois irá com mais violência.
(Querem levá–lo à força)
Bon. Olhe lá não vá. Só se algum carregar comigo. (Deita-se no chão)
Sarg. Ora sou seu criado: carreguem lá com ele às costas.
Bon. De aqueles não fazem V.ms. caso. (Levanta-se) Vejam bem, olhem, olhem:
eles lá vão (Aponta para uma parte e eles olham) Por aqui me safo: fora tolos.
(Vai-se depressa)
Todos 3. Aonde foi? É bom engano pega, pega. (Vão-se correndo)
Cor. Ai, Bonifrate, foge, foge, a tua industria te valha; o Cheu te livre das garras
desses mofinos; que se te prendem, ambos ficamos sem liberdade, e tu, Corriola,
bem te podes chamar a mulher mais desgraçada! Que será de mim! Que farei? O
animo me falta para estar aqui só; não sei em que me resolva.
Capitolo II
166
Oh quanto me custa caro
Este negro querer bem;
O destino a culpa tem
Do meu triste desamparo:
Sem conselho, e sem amparo,
Pobre de mim, que farei?
Como Zenobia acharei,
Se Bonifrate sózinha
Me deixa aqui? Coitadinha,
Nesta pena morrerrei.
(Vai-se)104
Acto II
(Sai Corriola)
Cor. Não posso encontrar quem me dé notícias de minha Ama. Onde estarás
minha estrella? Pode ser, que bem longe daqui; mas ainda não perco as
esperanças de ver-te, e com sossego; que só assim poderá a tua Corriola ter
alívio. Agora para mais sentir, julgo, que prenderam Bonifrate, e não sei como
poderei livrá–lo; se ele escapasse, logo aqui estava rebolindo.
(Sai um pouco antes Bonifrate vestido de mulher rustica; com capa, ou outra
coisa semelhante, e um lenço pela cabeça; e fingindo-se velha vai atravessando
o tablado)
Cor. Ó minha velhinha para onde vai? Venha cá, fale comigo.
Bon. Ai menina, que me quer? Quem me dera os seus cuidados.
Cor. Pois acha que os não tenho, por me ver assim tão moça?
Bon. Ai isso é velho, minha filha. Escute, que inda agora eu reparo em sua
mercê: não me dirá que vida é a sua, em que se occupa?
Cor. Eu agora só occupo a vida em padecer. A minha disgraça me traz por estes
bosques perdida, e sem amparo, veja deste modo eu também terei cuidados.
Bon. Ora tenha paciência; acomode-se com o tempo, e se quer vir na minha
companhia, nada lhe ha–de faltar; achará muito bom comodo no meu aposento.
Cor. Eu sim fora; mas não sei o que faça. Ai ai minha saudade. (À parte)
Bon. Quero já descobrir-me para a consolar. (À parte, e tira o lenço, e capa, e
fica em saia) Minha triste Corriola, cala–te, não chores; dá-me o apetecido
gáudio das tuas notícias.
Cor. Meu menino, meu amor, meu bonifrate, meu feitiço...
Bon. Basta, basta, não digas mais; olha que sou homem, e posso abusar dos teus
favores.
Cor. É possível que o vejo?
Bon. Pois que? Já não esperavas que eu tivesse esse gosto?
104
Ivi, pp. 5-9.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
167
Cor. Isso sim; mas como você não apareceu logo, cuidei que o tinham agarrado.
Bon. Sabes tu quem me livrou? A minha esperteza.
Cor. Sim Senhor, foi bem feita a caramunha; é magano refinado; mas esteve em
um grande precipìcio. Eu quando tal vi, o corpo me tremia como vara verdes: e
despois chorando lágrimas de punho, fui ver se por aqui achava alguém, que me
desse notícias dos nossos mal fadados; porém nada de novo.
Bon. Logo descobriremos mais campo; e agora ouve como foi a minha
escapatoria. Indo os maganos em meu seguimento, avancei a um chavascal, onde
me escondi; e fiquei tão livre deles, como se estivera metido no mais secreto
buraco da minha casa.
Cor. E para que veio assim feito um maricas disfarçado?
Bon. Acaba de ouvir-me: saindo logo da emboscada, comprei a uma camponesa
estes frangalhos, para que, no caso de encontrar os tais salafrários, podesse
passar em claro assim feito mulherengo; e dou mil parabéns à minha fortuna, em
vir dar tão sedo contigo, minha Corriola.
Cor. Pois eu mesmo em pessoa já estava resoluta a ir cuidar no seu
livramento, viesse o que viesse; era justo mostrar-lhe, que fiel lhe assistia o
meu cuidado.
Bon. Conheço, minha rica perola, o muito que devo ao teu amante disvélo. Tu
bem sabes, que podes, se quiseres, dispor de todo o meu cabedal havido, e por
haver, dando-me a fortuna de ser teu parente no primeiro degrau.
Cor. Não entendo a fineza, explique-se melhor.
Bon. Pois eu não falo gago; quero dizer que casando tu comigo, serás possuidora
de tudo quanto tenho, e espero ter; e ao mesmo tempo haverá entre nós um
parentesco mui chegado.
Cor. Eu já tive algum dia outros intentos; mas agora só você me agrada; cuide
em não desmerecer, que isso tem os homens, se chegarão a alcançar que uma
mulher os ame deveras, já a não estimam, parecendo-lhes, que muito mais
merecem, isto é quando dela não fazem logo zombaria; ao que estamos sujeitas,
mas eu não hei–de sofferê–lo, e assim cuide em andar direito.
Bon. Essa tua recommendação para mim era excusada, pois como posso, eu
deixar de andar direito, não sendo torto?
Cor. Ora vamos nós ao caso. Se eu o fizer tão venturoso, que o receba por meu
marido, não me ha–de deixar sair fora sempre, que eu quiser?
Bon. Irás sim fazer as tuas visitas, porém estar sempre fora de casa, não será
muito acertado; porque tu não és nenhuma mulher da rua.
Cor. E deixar-me-á enfeitar todos os dias?
Bon. Não terei dúvida, com tanto, que me não enfeites também a mim, que para
isso tenho o meu valé de xambre.
Cor. Ora diga-me; que me disse você, que tem, e espera ter?
Bon. Não lhe esqueceram os meus teres, e haveres. (À parte) Pois eu podia andar
na Corte tão luzido, se não fora uma muito rendosa fazenda, de que a fortuna me
dotou!
Cor. E de que consta essa boa fazenda?
168
Capitolo II
Bon. De rarissimas castas de fruta. Também estou para tomar posse de outra, da
qual ainda não tenho lucro algum; mas em tu casando comigo, que então terei
mais descanso, cuidarei no seu rendimento.
Cor. Ainda não sei o que será de mim; porque sempre ouvi dizer a minha avó,
antes que te cases, rapariga, vê o que fazes.
Bon. Ainda agora nós aí estamos? Tua avó quando tal to disse, estaria já mui
tonta. Faleremos mais devagar; e agora vamos, que é tempo, buscar a nossa
gente perdida.
Cor. Vamos; mas ai, que aí vem Tarelo!
(Sai Tarelo)
Tar. Corriola, tu por aqui? (Suspende-se)
Bon. Que? Temos mais Soldados?
(Torna depressa a pôr o lenço e a capa)
Cor. Este é uma boa coisa; é um criado de Tiridates. (Falando a Bonifrate) O
Senhor conhece-me desde pequenina, e andou comigo ao colo muitas vezes.
Quero pregar esta peça a Bonifrate. (à parte).
Bon. Não duvido; porém agora o que quer meu Senhor, qual é a sua tenção?
Tar. Eu queria fallar a esta moça, que é cá conhecimento velho; e julgo que por
ora ninguém mo ha–de embaraçar.
Bon. Pois julga muito mal; eu sou a primeira, que a não deixo falar a todos,
senão a deles.
Tar. Então serei eu um desses tais?
Bon. Não será por certo, não Senhor.
Tar. Porque? A Senhora é coisa sua?
Bon. Isso é o mesmo que dizer-me, que lhe dé contas da minha vida! Ora não
seja tolo, tome o meu conselho, e vá-se embora.
Tar. A bruxa tem má cara. (À parte) Quer vossé uma pitada de tabaco?
Bon. Ai, que quer meter-se comigo de gorra: quer-me tabaquear o caso! (À
parte) Senhor meu em uma palavra: meia volta à direita, e marche.
Cor. Ai! Não seja destemperado; não me hão–de falar as pessoas do meu
conhecimento? Venha cá, Senhor Tarelo; como lhe foi por lá, diga, diga.
Tar. Muito mal; como quem ausente estava da sua vista; mas agora na presença
de tanta graça sinto-me todo cheio de glória.
Cor. Confesso que lhe sou muito obrigada.
Tar. Como vieste aqui tão longe?
Cor. Vim buscando Zenobia, que abalou.
Bon. Se me não engano, Corriola já quis bem ao Soldadinho. (À parte) Ó
rapariga, o Senhor, pelo que mostra, tem negócio de importância: esta prática
não me serve, tenho dito.
Cor. Vossa mercê não ha–de permitir, que me tenham por grosseira: faltar eu,
nem a um negro, isso não.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
169
Bon. Como dizes que o Senhor é teu conhecido de criação, tens confiança para o
mandar embora.
Cor. Ai! Não se faça indigesta. Coitado tem manias. (À parte)
Tar. Dize-me; já te esquecias dos refinados extremos do meu agigantado afecto?
Cor. Posto que sou rapariga, não perco a memória do que lhe devo; e descanse.
Bon. Que me dizem, é bico, ou cabeça? Isto não ha–de ser assim (Tira os
vestidos de mulher, e fica nos seus) Meu Senhor, bem creio, que vossa mercê
quisesse criar esta menina como para si: porém advirta, que também agora a vou
criando, por me ser muito precisa para o bom governo da minha casa. Não sei se
me entende?
Tar. Que homem é este? Ah! Corriola, tu me enganas!
Bon. Ah seu casquilho, você faz ouvidos de mercador?
Tar. Fale bem, se acaso não está enfadado de viver.
Bon. Você abre-me os olhos?
(Chegando-se para Tarelo)
Tar. Você cuida que lhe tenho medo? pois que quer?
Bon. Se for atrevido, dar-lhe muito bofetão. (Dá-lhe)
Tar. E eu não tenho mãos?
(Lutam gritando e mete-se Corriola a apartá–los)
Cor. Ai, ai. Quem acode, que se matam! Bonifrate deixa-o; há maior atrevimento!
(Bonifrate o deixa, depois de o ter levado debaixo)
Bon. Teve boa Madrinha; ora limpe-se, que está suado.
Tar. Pergunto eu: isto foi devéras?
Bon. Não Senhor; eu estava brincando.
Tar. São muito bons os seus brincos. Que será este salvage? (À parte)
Bon. O crismá–lo era justo, para deixar de ser Tarelo.
Tar. Contente-se, que também levou o seu quinhão.
Bon. Ora pois, quem dá também apanha, porém eu fiquei de cima; e se não fora
aqui a Senhora Madrinha, havia de ficar-me entre as unhas.
Tar. Forte bruto, é bem valente! (À parte)
Cor. Ambos são muito desattentos; porém eu é que tenho a culpa de Bonifrate
ser nas suas acções tão solto.
Bon. Ah! Corriola, se eu não vivera tão prezo nos doces grilhões dos teus
agrados, não me dariam tanto incómodo semelhantes encontros.
Cor. Pois sabe o que lhe digo? Trate-me com mais respeito; se não, olhe que a
minha vontade é livre.
Bon. E então as tuas promessas?
Cor. Que promessas? Não faça caso disso, ainda estou em tempo de arrependerme. Quero desprezar Bonifrate, para melhor enganar Tarelo. (À parte)
170
Capitolo II
Bon. Esse teu fallar, Corriola, parece-me uma coisa, a que os amantes chamam
ingratidão.
Cor. Você quer que o attenda, fazendo-me destas? Estou bem fora desse negócio.
Bon. Ainda assim, eu fio-me da tua palavra.
Tar. E eu não, porque é mulher. (À parte)
Cor. Você não sabe, que o faltar também é moda?
Bon. E é moda, que anda por muito boa gente; ainda mal, mas eu não te
considero mulher de falta; por isso te quero, e estimo.
Cor. Se assim fora, não fizera desacertos na minha presença.
Bon. Ora ei–lo vai, ei–lo vai, nem sempre há em mim esse defeito, pois já fiz um
grande acerto em acertar contigo. Que digo eu, Senhor Tarelo?
Tar. Dizes bem.
Bon. Dizes bem! Irra, vossa mercê andou comigo na escola? Porém como
jogámos os murros, já entre nós há confiança, trate-me como quiser, chegue-se
para cá, dé-me cá um abraço, o passado passado.
Tar. Com você, Senhor Diabo, de longe; tem muito máos brincos. Estou
ardendo. (À parte)
Bon. Meu amigo, eu não quis mais, que dizer-lhe assim zombando, que estimava
a Corriola como cousa minha.
Tar. Isso era bastante dizer-se com termos mais políticos.
Bon. A primeira coisa que eu duvido, é que haja no mundo politica para estes
casos, nos quaes fica sem luz o mais claro entendimento.
Tar. Podia ao menos respeitar esta farda, e que sou...
Bon. Senhor Soldado, eu não duvido, que vossa mercê seja um cavalo na guerra;
não me entenda com a rapariga, tudo mais o que quiser, o dito dito; e não queira
que lho diga deveras.
Tar. Pois, Senhor Bonifrate, se outra ocasião me encontrar com Corriola, sempre
hei–de cortejá–la; já se entende, como coisa que pertence à sua pessoa. Não é
essa a minha intenção. (À parte)
Bon. Eu creio, meu grande amigalhão, que sem o seu atencioso cortejo poderá a
menina ir vivendo; eu também não lhe ficarei muito obrigado a essa lisonja; e a
maior, que me pode fazer, he passar por ela, como cão por vinha vindimada.
Cor. Há parvoice igual! Já não posso ouvi–lo: para que está com esses
despropósitos? Poderá o Senhor entender que você tem recebido de mim alguns
desmarcados favores. Va-se daí, que é um louco.
Bon. Não há dúvida, que os meus excessos são efeitos da loucura; se os meus
olhos te não vissem, Corriola, nunca Bonifrate perderia o seu bom juízo.
Tar. Por certo, que é bem empregado o seu disvélo.
Bon. Isso são favores, que lhe faz. Vossa mercê, ainda que mal pergunte, tem
ainda aqui alguma coisa que fazer?
Tar. Queria que Corriola somente me dissesse para onde vai, e também quisera
saber, se Zenobia já morreu.
Bon. Olhe, meu especial amigo, para onde Corriola vai quero eu que lhe não
importe; e se Zenobia é já defunta, ainda se não sabe coisa certa.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
171
Cor. O que é certo desapareceu; e áa bastante tempo, que a procuramos. Eu por
não vir só pedi ao Senhor quisesse acompanhar-me. Não convém dizer-lhe, que é
criado de Radamisto. (À parte)
Bon. E vim de muito boa vontade.
Tar. Não sei se o creia. Porém ela o engana. (À parte)
Bon. Como estamos na minha rabugem? Es muito enfadada.
Cor. Para isso bastante causa me tem dado; e já agora nunca estaremos bem.
Bon. Ora cala-te, que algum dia faremos as pazes. Vamos, que são horas, buscar
a nossa gente perdida.
Cor. Por mim vamos, já que não tenho outro remédio.
Bon. Vossa mercê há de ter a bondade de ficar aí como quem é. (Para Tarelo)
Tar. Eu queria acompanha–los.
Bon. Sem, sem cumprimentos, deixe-se ficar, que nós cá iremos sós.
Tar. Não Senhor, eu hei–de fazer a minha obrigação.
Bon. Eu o dispenso: não se incomode.
Tar. Senhor Bonifrate, estes são uns lances, que vem perdidos da baralha; eu
hei–de acompanhar a sua pessoa.
Bon. Senhor Taralhão, digo que não quero; e não aperte comigo.
Sou Tarelo, em conclusão,
Grande asneira é porfiar:
Fique aí, deixe-se estar,
Desprezo a sua atenção;
Pois muito me desconsola
Ter você tão má cachola,
Que pertende em caso tal,
Sendo um asno racional,
Namorar a Corriola.
(Vão-se Bonifrate, e Corriola)
Tar. Ora peguem-lhe com um trapo quente. Não vi homem mais sem
ceremonias; foi-se como quem não diz nada, falando em verso, e fez-me secar a
prosa de sorte que só me lembro de ir dizer a meu Amo o que se passa105.
Acto III
(Sai Corriola)
Cor. Coitada de mim e também de minha Ama! Tudo são sustos, martírios, e
pezares; dizem que Radamisto está prezo no Exercito de Tiridates; se Zenobia tal
coisa vem a saber, estala de pena. Bonifrate, logo que teve tão triste notícia, foi
examinar se era certa; e me disse, que o viesse esperar neste sítio. Jupiter permita
105
Ivi, pp. 12-16.
172
Capitolo II
seja engano o que se diz. Estou tremendo; mas aí vem Tarelo; eu nada lhe
pergunto, e hei–de mandá–lo à fava.
(Sai Tarelo)
Tar. Engraçada Corriola, aqui me tens atrativa vitação dos meus sentido.
(Chegando-se para ela)
Cor. Afasta-se, não me diga graças. (Com máu modo)
Tar. Ai, que a rapariga está inclinada a Bonifrate! É preciso fazer-lhe fogo. (À
parte) Tu arrufada! Porque motivo? Ora não, minha aquela; bem podes fazer-me
festa, quando venho sem descanço como amante Girasol seguindo os teos
luzeiros.
Cor. Não estou em casa; quer que seja sua? Eu querer-lhe bem! Bem mal que tal
queira, uma figa, uma bala para ele.
Tar. Olha filhinha, que não merece a minha fidelidade esse teu desabalado
desdém.
Cor. Ora diga-me, que merecimentos tem vossé, para possuir uma prenda, que
tanto vale?
Tar. Como sempre te estimei sem preço, tenho grande merecimento em não te
dar valor.
Cor. Quem o ensinou a dizer isso?
Tar. Tu ignoras que o amor também costuma formar discretos?
Cor. Então porque me persegue como um louco?
Tar. É discrição a minha loucura, quando tu dela és o motivo.
Cor. Viva mil annos: não perca o seu tempo.
Tar. Muitas vezes na perda vai o ganho: e agora o maior que posso ter, é estar na
tua presença.
Cor. Ora deixe-me, que o aborreço.
Tar. Já não me estimas, Corriolla; e só Bonifrate he o ditoso lambedor do teu
affecto.
Cor. A maior fineza que quero dever-lhe, é não fazer caso de mim, e não me
enfade.
Tar. Como posso eu cumprir tão rigoroso preceito, sem rebentar por quantas
juntas tenho neste corpo cheio de misérias, que é uma lastima.
Cor. Miserias! Lastima! Que nojo! Vá-se, vá-se, que não quero deitar pérolas à
porcos.
Tar. Por saber, que tu sempre foste muito limpa, por isso te quero para o asseyo
da minha casa.
Cor. Agradeço como se aceitara, nem vê–lo, nem cheirá–lo.
Tar. Ainda assim, não faças zombaria dos partos do meu entendimento: não
presumas, que eu tenho alguns incuráveis achaques: porque as lastimosas
miserias em que eu falo, todas me resultão da tua incostância.
Cor. Se soubera o ódio que me causa, não havia buscar occasiões de ver-me. Que
fastio! (À parte)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
173
Tar. Antes tu fazes de mim teu perrechil. Ah enganadora!
Cor. Agora o desengano, que mais quer? Que mais quer?
Tar. A muito bom tempo: sendo tu obra tão desenganada, para que deixaste
chegar um brando fogo a tão grande incêndio, em que estes bofes se abrasam?
Cor. Tenha paciência. Não se pode capacitar. (À parte)
Tar. Sempre ouvi dizer, que era só boa para a vista, com que se me não dás outro
remédio ao que padeço, de sorte, que fique sã, e escorreito, ponho-me aqui a
chorar como uma criança. (Chora)
Cor. Ainda mais esta? Quem me dera que viesse Bonifrate para saber o que há de
novo. (À parte) Olhe, quer você um bom remédio? Em me vendo feche os olhos.
Tar. Depois de ver-te, cego fico eu, inda que não queira só a tua vista tem esse
poder, e não tens dó de mim?
Cor. Eu? É o que me faltava.
Tar. É de trabalhar o ponto. (À parte) Dize-me: para que tratas tão desdenhoso a
quem nunca te soube ser falso?
Cor. Bem sei, que você é mui fino; mas eu não gosto.
Tar. Tem-se feito de muito má boca, não a posso encabrestar. (À parte) Menina
não sejas tão esquiva; que farei ainda os maiores excessos só por lograr o mimo
da tua denguice.
Cor. Já não creio nas suas parolas.
Tar. E este é o prémio que tirei dos meus quotidianos exercícios?
Cor. Para que gasta mais a sua pólvora, se me não chegam os seus tiros.
Tar. Já te não lembras, Corriola, de que só tu és o único alvo das minhas finezas?
Cor. Assim será, porém não gosto de tão boa farda.
Tar. Pois olha, se tu me queres ver desfardado, atende-me, e verás se tudo perco,
só por ganhar o teu amor; aonde tenho assentado praça; mas tu não me queres na
tua companhia. Forte ingrata!
Cor. Como posso eu dar crédito ao que me diz, se todo o homem da sua vida tem
por ofício o ser bandoleiro?
Tar. Agora a pilho. (À parte) Sem razão dúvidas do meu proceder, quando sabes,
que devo ser constante nos assaltos; e sendo assim, podes estar certa, minha joia,
que sempre hei–de ser o mesmo nos quilates de querer-te.
Cor. Não tem que ateimar, esta Corriola não se guarda para você, não por certo;
com esses bigodes queria lograr-me? Não quero, tenho dito, não me agrada.
Tar. Não pega a lábia. (À parte) E assim pagas tantos anos, que de narizes andei
no teu serviço? Não me dirás porque desmereci as atenções? Queres com o teu
desprezo tirar-me a vida? E queres que o mundo fique dizendo: Aqui morreu
Tarelo a pé firme pelo amor de Corriola? Isso é seres mui falta de compaixão;
minha vida, muda de parecer; ora sim, dá-me os teus braços. (Querendo abraçá–
la)
Cor. Ai, guarde-se para lá, é bem atrevido! Senhor Tarelo asoldado, desarme-se
desses pensamentos, que não ha–de render-me.
Tar. Serey inseparavel sentinella da tua vista.
Cor. Ponha-se em retirada, olhe não venha Bonifrate, que lhe toque a caixa.
Capitolo II
174
Tar. Quero ver se tiro algum fruto deste engano. (À parte) Em fim, tu me
desprezas, porque não sabes, que casando com Tarelo, ficas sendo a Senhora
Dona Corriola: tu julgas, que sou algum buncero106 enfeitado dos do tempo, e
que não tenho com que possa sustentar-te? Como te enganas! Além de ser tão
guapo, (olha bem para mim) (Pondo-se diante dela) sou um homem muito
branco, senhor de um grande morgado, e tenho muitos cartuchos, que vindo tu
ser dona de uma casa, que haviamos de ter, arderia logo tudo em galhofa por
esses ares. E depois iriamos vivendo de quatro calotes, por não faltar ao costume.
(À parte)
Cor. Com tudo isso, sempre o hei–de deixar na minha retaguarda; só Bonifrate
he digno de estar na vanguarda dos meos carinhos, e já anda no centro do meu
coração.
Tar. E daixas-me por um Bonifrate, figura tão ridícula?
Cor. Não seja tolo, que o meu Bonifrate é mui perfeito, e muito, muito, muito do
meu gosto.
Tar. Tanto muito para ele, e nada para mim?
Cor. Para você? Quem lhe dera muita, muita, muita pancada.
Tar. Sim Senhora, não há dúvida; mas eu te asseguro, que ainda te has–de
arrepender-te.
Cor. Sim, olhe lá, pois não.
Tar. Também se eu não fora, e mais meu Amo...
Cor. Não fale comigo, ai como é pegadiço!
(Sai Bonifrate sem ver Tarelo)
Bon. Corriola! Ó rapariga, já sei aonde está a Princeza.
Cor. Pois vamos, vamos vê–la.
Bon. Sim, eu te levo onde ela está, e depois irei assistir a Radamisto, que é certo
estar agarrado; e para que não me conheção aqueles tais Soldadinhos, mudarei de
vestido.
Cor. E é certo? Oh que pena!
Bon. Oxalá que o não fora. (Repara em Tarelo) Oi, vossa mercê também cá por
estas bandas? Para que festa?
Tar. A minha vinda agora aqui foi por acaso.
Bon. Senhor, não nos atrapalhe, deixe-nos, por caridade lho peço: não me
obrigue a que faça algum destempero.
Tar. Isso é ser muito desconfiado, meu amigo.
Bon. Eu não posso, nem quero amigos, que mo andam roendo cá por detraz¸este
Português é bem claro.
Cor. Eu se dei ao Senhor alguma audiência, foi porque você me disse, que neste
sítio o esperasse.
106
Termine dal significato oscuro.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
175
Bon. Ah Corriola, tudo neste mundo é mudável, não sei o que o meu coração
receia.
Cor. Não tem que receiar, porque eu só a você estimo.
Bon. Eu assim o quisera, já que has–de ser minha Esposa.
Tar. Agora acabo de conhecer o que são mulheres. (À parte) Como é isto de
Esposa? Vamos devagar; que se chegamos a estes pontos, hei–de lhe pôr justos
embargos. E se assim o não querias, Corriola, não me desses aquele escrito de
casamento. Isto já se não atura. (À parte).
Cor. Que escrito, mentiroso? Mostre-o lá, como pode ser verdade, se eu nunca
soube escrever!
Tar. Vista faz fé. (Tira o escrito da algibeira)
Bon. Aí nos mostra algum papel de adubos. (À parte)
Tar. Ouça bem.
(Lê o escrito)
Eu Corriola Martins, filha por parte de meu Pai de Martins Corriola, e filha de
Corriola Jerigonça por parte de minha Mãe, Neta de Escarafuncho Corriola por
parte de meu Avô, e Neta de Corriola Travada por parte de minha Avó; Bisneta
por parte de meu Bis-Avô de Basculho Corriola; e Bisneta de Corriola Pregada
por parte de minha Bis-Avó, prometo, estando em juízo perfeito, a receber por
meu primeiro, e legitimo marido a Tarelo Cornelio cavalo de Soldado.
Bon. Cavalo de Soldado?
Tar. Já fiz reparo nesta equivocação; havia de pôr Soldado de cavalo, pós
cavalos de Soldado; pouco sentido.
Bon. Não se lhe dé disso, que para V.m. tudo val o mesmo.
Tar. Besta será ele, e toda a sua geração.
Bon. Eu não o digo pelo tanto; vamos adiante.
Continûa Tarelo a ler o escrito.
Receber por meu primeiro, e legitimo marido a Tarelo Cornelio Soldado de
Cavalo, natural da sua terra; o que certifico com tre testimunhas contextas;
porque no caso, que eu queira faltar à minha palavra, o que poderá ser, me
possa obrigar em todo o tempo, procurando os meios da justiça.
Corriola Martins.
(Representa) Pois então não tem valor o escritinho. Que me diz? (Para
Bonifrate)
Cor. Eu digo que tal escrito não é meu, é um aleivoso, um falso, um indígno.
Bon. Tem mão, Corriola, não te apaixones contra um Senhor, que é da tua
criação.
Cor. Eu não hei–de enfadar-me, se tal coisa não houve?
Bon. Ora diga-me, vossa mercê esteve presente à factura desse chamado
escrito?
Capitolo II
176
Tar. Não, porém, as testimunhas me assegurarão, que Corriola o fizera escrever,
e que ela o assinara com a sua mão; que é o que me basta, ainda que o escrito não
esteja feito na fórma do estilo.
Cor. Veja você se pode haver falsidade, quando eu nem uma letra sei fazer?
Forte embusteiro!
Bon. Isto é engano do maganão. (À parte) V.m. escreveo esse papel ao pé de
alguma parede? Deixe-me ver a firma.
Tar. Não duvido que a veja; mas ha–de ser na minha mão; aqui o tem. (Mostralhe o escrito)
(Bonifrate lê um pouco e diz depois)
Bon. Olhe, a origem das Corriolas aí está muita parte dela, é família muito
antiga, tem mais de nobre, que de mecânica; porém a firma não é da rapariga;
porque ela não sabe, nem pegar na pena; espere, deixe ver as testimunhas se são
pessoas conhecidas; elas estão borradas!
Tar. Assim é, só Raposo Marmelo, que é a terceira, não está borrado.
Bon. Senhor Tarelo, isso tudo é uma história, dessas sei eu mais de meia duzia;
guarde o papelinho para mechas, e vá cuidar na sua vida.
Cor. Vá, vá, não seja mentiroso. Eu sim lhe dei o escrito; mas foi por logração.
(À parte)
Tar. Ela ainda que não queira ha–de casar comigo; justiça, e mais justiça.
Cor. Sim, espere, olhe não se queime.
Bon. Corriola vamos; fique-se embora só Tarelo. (Vão-se Bonifrate, e Corriola)
Tar. Há maior pouca vergonha! Deixar Corriola um homem tão guapo, também
posto, tão valente como eu, pelo amor daquele traste, tendo-me prometido tantas
vezes, que somente comigo havia de casar! Isto não se atura, vou queixar-me a
meu Amo, para que me vingue; mas se ele não me ajuda adeus minha esperança.
Meus amores disvelados
Vejo em fumos concluir
Porque mais não quer ouvir
Corriola os meus agrados:
De todos os meus cuidados
Este só me desconsola;
Pois fico como um patola,
Se no rigor da mudança
Vejo em fim minha esperança
Acabar em corriola.
(Vai-se.)107
107
Ivi, pp. 29-33.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.5.
177
Artaserse
L’Artaserse è il più fortunato de’ miei figliuoli. Tutti gli altri hanno corse
varie vicende; ma questo, per ostinazione della sorte, è sempre stato sulle
staffe. Anche i drammi hanno le loro costellazioni108.
Rappresentato nel 1730 per la prima volta con musiche del Vinci
presso il Teatro delle Dame di Roma, l’Artaserse riscosse enorme
successo di pubblico anche in Portogallo, dove una prima
pubblicazione bilingue, molto accurata data la sua destinazione agli
ambienti dell’Accademia di Piazza della Trinità a Lisbona, risale
addirittura al 1737, una versione chiaramente molto fedele al testo a
fronte, salvo un piccolo errorre all’altezza della IX scena del primo
atto, in cui vengono accorpate in una sola due battute rispettivamente
di Artabano ed Artaserse, ridotte cioè ad essere pronunciate dal solo
Artaserse, ed un errore di traduzione nella battuta pronunciata dal
Coro alla fine del terzo atto, dove “allora” diventa “Aurora”:
ARTASERSE
1730
Atto III, Scena ultima
ARTAXERXES
1737
Acto II, cena última
Coro
Giusto Re, la Persia adora
la clemenza assisa in trono,
quando premia col perdono
d’un Eroe la fedeltà.
La giustizia è bella allora
che compagna à la pietà109.
Coro
Justo Rey, a Persia adora,
No vosso trono a clemencia,
Quando mostra a indulgencia
A bem da fidelidade.
Parece a Justiça a Aurora
Unica co’ a piedade110.
Decisamente più rilevante è la traduzione del 1758 (fig. 16), dove
non solo troviamo l’indicazione di genere che trasforma l’opera in
Comedia e il titolo tematico di O Mais Heroico Segredo, ma anche un
altro inserimento del traduttore del triangolo dei graciosos. Di
questa versione della fortunata opera metastasiana, come abbiamo
108
P. Metastasio, op. cit., vol. IV, p. 242.
Ivi, vol. I, p. 414.
110
L’Artaserse/Arteserse, drama per musica del Signore Abb. Pietro Metastasio, in
Lisbona Occidentale, nella stamperia di Antonio Isidoro da Fonseca , anno 1737, pp. 124-125.
109
178
Capitolo II
visto dall’epigrafe, si fecero diverse copie in varie officine
librarie di Lisbona: le due che nel 1764 si devono a Francisco Borges
de Sousa e a Jozé de Aquino Bulhoens (figg. 17–18) e un’altra copia
senza data (fig. 19), testimoni senz’altro del favore di pubblico che
ottenne questa rappresentazione in particolare111.
Dall’analisi della copia del 1758 emergono particolari interessanti
che ci inducono a parlare non di una semplice traduzione o versione
del testo di partenza, bensì di una vera e propria opera a sé, la quale
certamente ha preso in prestito l’argomento di base della vicenda del
re Artaserse, alla ricerca dell’uccisore del fratello Dario ingiustamente
individuato in Arbace e non nel padre di costui, ma per poi costruire
una storia formalmente e spesso contenutisticamente il più lontana
possibile dall’originale italiano. A riprova di quanto detto, si consideri
che il traduttore portoghese appone come titolo tematico e morale
della traduzione la definizione O Mais Heroico Segredo, come sempre
ripreso nell’ultimo verso dell’opera. Un titolo che rivela uno
spostamento della focalizzazione dall’eroe legittimo che emerge dal
sottotitolo (Artaxerxes), all’eroe reale che invece emerge dalla trama:
Arbace, che per tutta la durata del dramma nasconderà il segreto del
tradimento del padre Artabano, concentrando eroicamente su di sé
colpe che non gli appartengono. In questo elemento troviamo, quindi,
un mutamento contenutistico che si aggiunge al mutamento dei nomi
di alcuni personaggi, tra cui Mandane, sorella di Artaserse e amante di
Arbace, che diventa Eritrea nel testo portoghese, così come lo stesso
Arbace, amico di Artaserse, prende il nome di Ernesto e Megabise,
generale confidente di Artabano, diventa Nicandro. Se, inoltre,
111
Tuttavia, bisogna qui registrare alcune considerazioni annotate da José da Costa
Miranda circa un parere negativo della Real Mesa Censória alla pubblicazione di traduzioni
dell’Artaserse successive al 1758: «O que, essenzialmente, se encontrou em causa, na
elaboração da sentença, não foi tanto a adulteração do texto original metastasiano: essa era
uma situação quase rotineira, combatida, se havia opportunidade para o fazer. O que esteve
em causa foram os exemplos de que o texto metastasiano, adaptado, embora, mas nisso
segundo a versão original italiana, fazia alarde: o assassinato de um rei, por "hum vassalo"
(repare-se bem!) e o projecto, "escandalosissmo." (para me servir da palavra e da grafia
usadas pelo censor) do assassinato de um outro, o seu herdeiro. […] era a existência de
condicionalismos locais, relacionados com as próprias obrigações que à Real Mesa Censória
competiam: o zelo pelos esquemas políticos do tempo, a defesa do Estado e, não menos, da
pessoa do Rei, personificando, em si, o Estado.», in J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit.,
pp. 139-140.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
179
Figura 16. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 12).
180
Capitolo II
Figura 17. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 409).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
181
Figura 18. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 519).
182
Capitolo II
Figura 19. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 583).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
183
prendiamo in considerazione le figure dei criados e del loro triangolo
comico–amoroso che vede contrapposto Paquete, servo di Ernesto, al
vecchio Ranheta nella conquista della fantesca Pipia, diventa ancora
più chiaro lo stravolgimento totale del testo di partenza. In questa
occasione, il gioco delle parti comiche si basa sul contrasto gioventù–
anziani tra il “giovane garzone” Paquete, come dal significato del
termine, e il “brontolone impertinente” rappresentato dall’invadente
Ranheta, come vuole il valore popolare della sua denominazione, nel
contendere la mano di colei che fa del “chiacchiericcio fine a se
stesso” (Pipia appunto da pipiar, “pigolare”) una costante del proprio
carattere. Tuttavia, nell’analisi del rapporto tra i tre graciosos la
caratteristica che più colpisce è il loro intercalarsi nella trama
principale dell’opera, cioè il fatto di intervenire e inteloquire con i
protagonisti principali pensati dal Metastasio, commentando e
sottolinenado situazioni o comportamenti dei propri superiori, non
rispondenti alle caratteristiche di virtù e regalità che secondo questi
servi essi dovrebbero avere (caratteristica della diminuzione di status).
Più che di una funzione di commento, si potrebbe parlare di una
decodificazione per il pubblico popolare dei discorsi aulici,
appassionati e gravi dei personaggi legati direttamente alla reale
vicenda dell’Artaserse metastasiano. Una sorta di ri–traduzione,
insomma, del messaggio profondo veicolato dal testo originale,
chiaramente in termini di avvicinamento allo spettatore meno colto e
più portato al riso facile, intenzionato ad assistere allo spectaculum,
alla mostra esagerata e assordante di motti e canzonature, alla farsa
chiassosa ed estremamente esplicita. Questo momento di astrazione
dal contesto storico–mitico e di ricaduta sul terreno popolaresco e
quotidiano spezza, interrompe, frastorna al tempo stesso in cui
avvicina, smitizza, normalizza e rivoluziona. Ecco allora che questi
graciosos potrebbero incarnare la rivoluzione, l’eversione, l’alterità e
la concretezza che giocando, divertendo, commediando irride al
potere, lo oggettivizza, lo dissacra. In realtà, tutte buone potenzialità
di critica sociale che muiono quasi sul nascere e che sfumano
gradatamente in un finale sempre identico a se stesso, quel
matrimonio tra i due giovani servi di turno che nulla dice, nulla
apporta di concreto, di rivoluzionario, appunto, di decisivo ed
originale a tutte le possibilità di rivolta interna che il testo inizialmente
184
Capitolo II
lascerebbe presupporre. Insomma, ci troviamo sempre di fronte a
quella duplicità, a quella doppia faccia della medaglia del
temperamento lusitano che sembrerebbe desiderare un che di diverso,
d’altro, e che poi si svilisce ipocritamente nell’accettazione
rasserenante delle istituzioni che si racchiude nello happy end
normalizzante. Tale funzione potenzialmente sovversiva della
decodificazione in termini popolareschi del testo metastasiano,
utilizzando spesso come forma privilegiata il ricorso a detti e proverbi
comuni anche se riadattati per l’occasione, rappresenta comunque una
forma di avvicinamento al quotidiano che si esprime anche attraverso
la proposta di quadretti di vita popolare probabilmente molto noti al
pubblico, come mostra questo divertente bozzetto sul gioco delle
carte, a cui molti potevano assistere in una qualsiasi delle famose
tascas portoghesi:
Paq. Mas do passado não ralho
de devertir-nos tratemos:
se trazes cartas joguemos.
Ranh. Eu aqui tenho um baralho.
Paq. Victor quem não é coherio112,
eu dou cartas, tu és mão.
(Assentam–se)
Ranh. Pois vamos victor e feição.
Paq. Trapaça não, victor série
trazes tentos.
Ranh. Isso he peta!
venho mui bem petrechado.
Paq. Nem um burro carregado
te desbanca meu Ranheta.
(Pega Paquete no baralho, e Ranheta lho tira da mão)
Ranh. A você Senhor, aquele
não lhe toca este baralho.
Paq. Não diz mal o espantalho
porque o baralho é só dele.
112
Forse termine per cuerio, pannolino di neonato e, per traslato, nel significato di
poppante.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
185
(Dá as cartas Ranheta)
Ranh. Jogue pois, vaza fará,
porém ganhar-lhe pertendo.
Paq. Pelas cartas que vou vendo
só dous murros ganhará:
eu jogo o meu ás de paus.
Ranh. Empato com o meu ás de ouros.
Paq. Truco.
Ranh. Não creia em agouros.
Paq. Da para trez calhaos113.
Ranh. Tem trez.
Paq. E você tem dois.
Ranh. Eu dois?
Paq. E porque, não presta?
Ranh. Aonde os tenho?
Paq. Na testa
da mesma forma que os bois;
eu agora é que dou cartas.
Ranh. Dizes bem, eu as levanto;
assim Deus te faça santo. Dá-mas boas.
Paq. Que? Eu dar-tas? Joga uma.
Ranh. Jogo um três.
Paq. Truco.
Ranh. A seis; não me envoque.
Paq. Nem a mim que ponho a nove. Pois ganhei.
Ranh. O que?
Paq. Não crês?
Ranh. Eu é que tenho ganhado.
Paq. Dois murros, sou trapaceiro.
Ranh. Tenha conta no primeiro.
Paq. Leve este de contado.
(Dá–lhe murros)
(Aqui jogarão fazendo os bichancros que lhes parecerem, e finalmente acabarão
em briga, e no furor della sairá Artabano)
Art. Que estrondo he este, ou loucura
apartai-vos.
Paq. Minha pélla!114
Eu não fui Senhor, foi elle.
113
114
Forse termine per calhaus, pietre.
Forse termine per pele, pelle.
186
Capitolo II
Ranh. Foi aquela creatura.
Art. Basta: quem veio causar
esta forte dissensão?
Paq. Eu o direi.
Ranh. Ele não.
Ambos. Tu não te queres callar.
Paq. Vierão este homem trazer.
Ranh. Trouxerão este companheiro.
Paq. Eu hei–de dizer primeiro.
Ranh. Eu primeiro hei–de dizer.
Paq. Vai e assim que se cá vê.
Ranh. Vai assim que se vio cá.
Paq. Você não se calará.
Ranh. Não se calará você.
Paq. Fui eu cá co’ o meu trabalho.
Ranh. Todo o trabalho foi meu.
Paq. Eu hei–de falar.
Ranh. Mais eu.
Paq. Vai, e puchou do baralho.
Ranh. Deixe-me falar a mim.
Paq. Eu só é que hei–de falar.
Ranh. Você não se queres calar.
Paq. Cale ele villão roim.
Art. Calem-se ambos juntamente.
Paq. Olhe está fazendo caras.
Art. Basta já.
Paq. Tu não reparas
que me está ringindo o dente?
Art. Semelhante atrevimento
Só se emenda desta sorte.
(Dá–lhe)
Paq. Senhor dá–me boa morte.
Ranh. Ai que me cobrou assento.
Art. Louco sois, e como a taes
Perdo-o tanta insolência.
Paq. Bem haja a minha demência
pela qual me perdoais,
pode haver maior portento
há mais notavel ventura,
que chegue a minha loucura
a ter tal merecimento.
Ranh. Já que em ser atoleimado
tenho carta de seguro
eu por mim protesto, e juro
que sou louco arrematado.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
187
Art. Eu também assim o entendo,
Por isso te dou soltura.
(Vai-se Ranheta) 115
Paquete arriva persino a ricoprire un ruolo decisivo nell’evolversi
della vicenda, divenendo testimone del tradimento di Artabano, padre
di Arbace/Ernesto, ma non riuscendo comunque a finalizzare questa
potenziale funzione di personaggio chiave della storia a causa delle
minacce di morte, in caso di rivelazione, che Artabano gli rivolge e
che colpiscono nel segno la pavidità tipica di questo personaggio.
Infatti, prima Paquete si nasconde furbescamente per poter origliare il
dialogo tra Ernesto e Artabano che gli permette di venire a conoscenza
del segreto, dopodichè mette a parte Pipia del medesimo segreto e si
scontra duramente con Artabano, il quale esterna in modo decisamente
schematico ed incisivo una descrizione generica del carattere dei servi,
nescios que dizem leviandades ou por malicia ou por génio, ma alla
quale Paquete risponde sorprendentemente dandoci un saggio della
sua intelligenza, confermando cioè la descrizione di Artabano, ma con
una nota a margine per il pubblico nella quale spiega la finzione
obbligata di quella funzione della stupidità, di quella
inconsapevolezza e di quell’ignoranza che i padroni si aspettano
sempre dai loro servi. Qui allora troviamo la doppia maschera di
questo tipo di personaggi, la consapevolezza della finzione, il gusto
per la finzione, la capacità di trarre vantaggio dal doppio gioco, la
comicità di chi conosce profondamente il proprio ruolo all’interno
della società, così come dell’azione teatrale:
Paq. Eu para casa, má hora;
escondido aqui debaixo
quero ver isto em que topa. (Escondese debaixo de uma mesa) 116
Pip. A El–Rei! Olhe o atrevimento!
Paq. A El–Rei mesmo em carne: então
não sou capaz! Pois que temos!
De sorte que ouço dizer
que foi meu amo hoje preso
115
Comedia O Mais Heroico Segredo ou Artaxerxe, composta na lingua Italiana pelo Abbade
Pedro Matastasio, Lisboa, Na Officina de Manoel Antonio Monteiro, anno de 1758, pp. 19-20.
116
Ibidem.
Capitolo II
188
por matador d’El–Rei Xerxe,
eu pelo amor que lhe devo
dar-lhe a vida determino.
Pip. Tu! Olhem quem!
Paq. Sim, eu mesmo
sou testimunha de vista
que elle o matou, e sei-o
porque ao mesmo matador o ouvi117.
Artax. Que cercado de pesares
dou principio ao meu governo...
Paq. El–Rei é homem como eu:
de que tenho medo? eu chego:
Senhor, Vossa Magestade...
Artax. Que queres? Não tenhas medo.
Paq. Quem eu? Tomara... mas ai,
Jã não sei o que quero. (À parte)
Senhor eu quisera...
Artax. Dize.
(Chega Artabano ao bastidor)
Art. A procurar El–Rey venho:
mas parece-me que fala
com o criado de Ernesto!
Retirado desta porta
quero ouvi-lo: oh quanto temo!
Art. Dize, fala, que pertendes?
Paq. Quero dizer-te em segredo
quem matou ao Rei teu Pai,
pois sei que Ernesto está preso,
coitado, innocentemente.
Artax. Que dizes? Eu te prometo
se lhe provas a innocência
dar-te um avultado prémio.
Art. Quem medita este insolente? (À parte)
Paq. Pois eu estando bem perto
esta madrugada vi
que a falar a Ernesto veio.
Art. Ele sabe o meu delicto:
se o descobre tudo perco.
(À parte)
Paq. Trazendo-lhe a sua espada
banhada com o sangue fresco.
117
Ivi, p. 14.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Artax. Quem? Acaba já.
(Sai Artabano, e diz)
Art. Senhor.
Artax. Artabano cobra alento,
Tens innocente a teu filho.
Art. Proverá o Ceo: tal não creio.
Paq. Olhe o carrasco do Xerxes
quando veio! Leve-o o demo.
(À parte)
Art. Pois quem disse que o delicto
não era de Ernesto?
Artax. Ao tempo
em que entravas me dizia
esse homem que sabe ao certo
quem foi o impio matador de meu Pai.
Art. Este homem é nescio:
quanto diz são leviandades,
ou por malicia, ou por génio.
Além de que é criado
do mesmo traidor Ernesto
por isso não deve ser
atendido por suspeito,
se ele mesmo já não fosse
parte neste crime horrendo;
e que venha por cautela
de fingido mensageiro
para livrar os seus crimes
a formar delictos alheios.
Antes sou de parecer
que deve ser tambem preso
para provar legalmente
a conjuração.
Paq. Requeiro
que eu tenho muito bom juizo
e mui claro entendimento
e que se me faço tolo,
não é, senão porque quero.
Artax. Oh lá à ordem de Artabano
levem logo este homem preso.
Paq. Esta é a mesma verdade:
eu falo.
Art. Vai-te já nescio.
Paq. Quem vio prisão deste lote!
189
190
Capitolo II
levo muito boa chea118,
se calo, tenho cadeia,
se fallo, terei garrota. (Levam os Guardas preso e vai–se)
Art. Toda esta industria é precisa
Para encobrir meus segredos119.
Art. Comigo agora convém
falar em certo recado.
Paq. Olhe, o passado passado
não nos fale em que Deus tem.
Art. Como foi aquella espada
que a El–Rei à pouco affirmaste
viste dar, e que observaste
estava em sangue banhada.
Paq. É que o Rei é um pateta
e em que esteve reparando?
estava dele zombando
quis meter-lhe essa peta.
Art. Não temas: dize a verdade,
senão hei–de te matar.
Paq. A mim? Salva tal lugar
eu digo tudo: olhe estava,
escondi–me... e foi... então... (Asusta–se)
Ai!
Art. Que tens?
Paq. Foi ilusão
parecia que me dava,
foi, entrou sua insolência
assim todo azafamado
disse que tinha matado.
Art. Basta. Em fim com evidência?
sabes que eu matei a El–Rei.
Paq. Sim Senhor... foi bem feito
matá-lo mesmo no leito
porque era um homem sem lei,
eu se acaso o revelava
era por livrar a vida de meu amo.
Art. Essa lida a mim somente tocava.
Já que o segredo soubeste
por tua impia maldade,
dize-me fala verdade:
118
119
Termine ignoto, forse corruttela di ceia, cena.
Ivi, p. 15.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
191
a que pessoa o disseste?
Paq. Assim Deus me dê boa sorte
como nisso não falei.
Art. Se o contrário disso sei
espera ter certa a morte.
Eu te ponho em liberdade,
sai, vai, não tenhas medo:
conserva fiel segredo,
e lá no fim da Cidade,
junto à porta, um pouco espera
por Ernesto e se o contrário
intentares temerário,
ou se eu por sonhos souber
que me és falso: quanto posso...
Paq. Basta sim, não digas mais,
que por predicados tais
me cortaria o pescoço.
Art. Vai.
Paq. Já na rua me casco:
cuidei que era desumano,
mas este amigo Artabano
para mim é bom carrasco. (À parte vai-se) 120
Normalmente i graciosos di questi adattamenti eleggono a propri
valori di vita e di condotta unicamente la ricerca del cibo, il
sotterfugio, addirittura il furto per accumulare denaro e il matrimonio
con la fantesca di turno. La quale, il più delle volte, parteggia
apertamente per l’uno o per l’altro pretendente, non sottraendosi
comunque ad altrettanti inganni ed espedienti più o meno leciti per
conseguire scopi personali, sovente relativi al possesso di oggetti
personali e al conseguimento di un matrimonio con persona
fisicamente gradevole. Inoltre, quando Pipia fa la sua prima entrata in
scena viene immediatamente caratterizzata nei termini del lamento
dovuto alla cattiva sorte, dell’esclamazione retorica e patetica dovuta
alla disgrazia occorsa al proprio padrone, benché proiettata su se
stessa in termini di un’eventuale perdita dell’impiego, dimostrando, in
altre parole, che anche nel pianto per le vicisittudini altrui, il criado
esprime sempre un disagio del tutto personale, una preoccupazione per
120
Ivi, p. 20.
Capitolo II
192
un mancato tornaconto economico o genericamente lavorativo. Ma
alle lagnanze della serva, l’astuto Paquete risponde immediatamente
con un atteggiamento altrettanto compassionevole, giocando la carta
della commiserazione delle sventure altrui in modo da suscitare in
Pipia un qualche interesse e, chiaramente, volgere la situazione a
proprio favore:
Paq. Não há uma alma danada
que me livre deste sítio.
Pip. Ai que ele cá fala: é pobre
e se não me engana o juízo,
eu já ouvi esta voz.
Paq. Que vai passando oh menino!
Pip. Não é menino, é menina.
Paq. Tanto melius. Oh feitiço
vê se me podes tirar
deste carcere mesquinho.
Pip. Tu quem és?
Paq. Eu sou Paquete
Paquete mal succedido,
Paquete das afflicções,
Paquete dos labirintos,
Paquete dos infortúnios.
Pip. És Paquete coitadinho
quem te fechou nesta casa?121
Per di più ci troviamo di fronte, in questo specifico adattamento, ad
una concezione dell’attività lavorativa non quale mezzo umano
nobilitante o serio impegno di responsabilità, bensì quale gravosa e
fastidiosa mansione sempre soggetta alla scappatoia e in una
forsennata ricerca dell’alleggerimento dell’incarico, del riposo che
segue alla fatica. La prima comparsa dell’anziano Ranheta sarà allora
assolutamente nei termini del continuo reclamo per lo sforzo e
dell’assillante richiesta di attenuazione del carico lavorativo:
Ranh. Que leve o diabo o ofício,
quebrada tivera as costas
no dia em que tomei cargo
121
Ivi, p. 8.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
193
de ser guarda destas portas:
nem de dia, nem de noite
há descanço, é forte história!
Ora feito enxota gatos,
outras vezes feito enxota
cães, ouvindo recadinhos
já de Damas ramelosas,
já de raparigas sécias,
já de encapeladas donas,
e agora de madrugada
ainda antes do Sol ser fora,
vai tal balburdia em palácio
tal gritaria, e mixórdia,
que saltei da minha cama,
sem ter ao menos uma hora
de engomar a cabeleira
e encrespar a minha volta122.
Ranh. Ora vejão que sucede,
em nome da benta hora,
fico atolito e pasmado!
há almas de maçarocas!
e para amor de um defunto
sai da minha pachorra,
em quanto páu vai, e vem
dizem que folgam as costas,
e eu no em tanto nesta mesa
quero descansar por hora123
E a proposito dell’affanosa e mai paga ricerca di cibo, o meglio, del
desiderio di una sazietà meramente corporale, troviamo sin dal primo
atto il servo Paquete alludere in più occasioni a questa impellente
necessità, intromettendosi in maniera del tutto insolita tra le battutte di
Ernesto ed Eritrea, quasi controcanto ironico al discorso che i due
amanti imbastiscono sul filo, molto più elevato, del desiderio
reciproco di una sazietà dello spirito attraverso l’amore. Paquete,
insomma, irrompe sulla scena interrompendo e rendendo difficoltosa
la comprensione del dialogo tra i due personaggi primari della vicenda
metastasiana (caratteristica del disturbo della comunicazione), in un
122
123
Ivi, p. 5.
Ivi, p. 6.
194
Capitolo II
crescendo di interferenze autoreferenziali, destinate unicamente al
pubblico spettatore e del tutto prive di connessione con la narrazione
portante del dramma:
Paq. E além disso toda a noite
levada sem mais na vela,
com dize tu direi eu,
com requebros, e toleimas
e a barriga como emplasto,
pespegado nas costelas.
Pip. Cale a boca desatento,
tem queixa! Com que não presta
ter estado à minha vista.
Paq. É boa, mais eu quisera
antes do que esses teus olhos
a olha de uma panela124.
Paq. Seja pelo amor de Deus
esta tão comprida arenga;
fora já de madrugada
com a relação aberta.
Vejamos esta Senhora
se concorda na sentença. (À parte)
Pip. Não fale por entre os dentes.
Paq. Pois então a boca me encha125.
Dopodiché, si arriva addirittura a veicolare un messaggio classista
sulla diversità di atteggiamento tra i personaggi dell’entourage di
Artaserse rispetto alle basse preoccupazioni dei graciosos, in questo
senso in rappresentanza delle classi meno abbienti più in generale. È
la battutta messa in bocca ad Artabano «Como são diversos!/Os teus
dos nossos cuidados»126 in risposta alla richiesta di Pipia di scarcerare
Ranheta e mantenere prigioniero Paquete per averle rubato un abito.
Una risposta che si riferisce certamente alle preoccupazioni riguardo il
timore d’essere riconosciuto traditore e di aver mandato a morte
ingiustamente il suo stesso figlio per celare tale segreto, ma che
esprime la realtà della differenza sociale che in tutta la commedia
124
Ivi, p. 1.
Ivi, p. 2.
126
Ivi, p. 17.
125
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
195
portoghese i tre servi non fanno che confermare attraverso un
linguaggio fortemente popolaresco e a tratti scurrile:
Paq. Eu quasi em zelos me frijo
olha como a porca os recôncovios
com que trata o negro ouriço127.
Ranh. Que mais sofrerias tu,
se lhe tiveras metido,
ou um fuso pelo ouvido,
ou um espeto pelo cu!128
È vero, tuttavia, che il più delle volte sono gli stessi criados a
trattare con sufficienza e superiorità i rispettivi padroni, quasi questi
ultimi fossero alle dipendenze dei loro problemi e dei loro equivoci
personali. Si nota a tratti una certa estraneità e quasi indifferenza per
gli accadimenti di cui sono protagonisti i personaggi dell’impianto
centrale della vicenda metastasiana, quasi un fastidio, potremmo dire
un’insofferenza per questioni tanto semplici dal punto di vista dei
servi e che i grandi e gravi eroi drammatici sembrano non riuscire a
risolvere, tutti compresi come sono nella loro grandezza e regalità:
Ranh. Por morrer um rei! É muito!
Querem do pobre dar cabo!
Morreo? Que o leve o diabo,
Que tenho eu cá co’ defunto?129
Un altro caso emblematico in questo senso è la sottolineatura
ironica di Paquete ai discorsi di Artaserse e Artabano sulla morte del
re Serse, sottolineatura cui la ripetizione della medesima frase, per
ben tre volte intercalata tra le battutte dei personaggi originali, riveste
ulteriormente di comicità:
Paq. Eu estalo por falar,
há maior pouca vergonha?
eu saio... mas que morresse
127
Ivi, p. 9.
Ivi, p. 18.
129
Ibidem.
128
Capitolo II
196
o Rei Xerxe que me emporta.
[...]
Paq. Pobre que talvez na cama
esteja dando trez voltas:
eu saio... mas que morresse
o Rei Xerxe que me importa.
[...]
Paq. Ora anda real carrasco
mete-lhe mais duas contras;
eu saio... mas que morresse
o Rei Xerxe que me importa130.
Questa sorta di dipendenza inversa dei padroni dai servi è poi
evidente nella prima controversia tra Ranheta e Paquete, in cui
Artaxerxe interviene esattamente dietro richiesta del più anziano tra i
due servi:
Ranh. Ah que d’El–Rei quem me acode
quem pega nesse patola
lá vai um rasgão na capa,
ai os canudos da volta.
Paq. Grita que eu vou-me safando;
mas esta e peior agora
(Correndo pelo tablado)
Esta porta está fechada.
Também esta, vamos à outra.
Ranh. Ah d’El–Rei.
(Sai El–Rei Artaxerxe, e Nicandro)
Artax. Quem dá vozes?
Paq. Sou eu mesmo que grito.
Ranh. Agarrem com muita força
nesse traidor, que escondido
esteve de noite em casa,
e agora com reboliço
lançando comigo em terra
se queria ir sacodindo.
Artax. Nicandro prendei esse homem
não sei o que n’alma adivinho.
Ranh. Vá preso, que é grande tunante
eu basto, deixe-o comigo.
130
Ivi, p. 7.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
197
Paq. Senhor... eu... vossas mercês...
ele... e então; eu não sei disso.
Artax. Traidor esse teu semblante,
esse temor, dão indícios
de que tu foste o agressor
do mais enorme delicto.
Paq. Eu traidor? De que morte,
não senhor: eu conto, eu digo
como foi; faça de conta.
Artax. Não quero os teus desatinos
ouvir agora: este homem
seja em custodia metido,
logo logo sem demora
porque julgo que é preciso
fazer exame no caso131.
Tuttavia, lo scherzo centrale del triangolo dei graciosos, sul quale
anche Giuseppe Carlo Rossi si è espresso in passato132, è in realtà
messo in atto da Pipia che, parteggiando naturalmente e
nascostamente per il pretendente Paquete, non lo risparmia comunque
della propria vendetta personale dopo il furto degli abiti dati
successivamente in pegno e il cui ricavato è stato speso con leggerezza
nelle immancabili taverne. È vero che inizialmente la ragazza lo aiuta
a fuggire dal carcere proprio suggerendogli di travestirsi con i suoi
stessi abiti femminili, eppure, e come sempre, l’astuto servo riesce a
volgere la situazione a proprio favore, guadagnando non solo la
libertà, ma anche il cibo che Ranheta aveva preparato per Pipia, le
vesti da vendere al banco dei pegni e il ricavato da spendere
gozzovigliando tranquillamente. A quel punto però, la figura
femminile mette in campo tutte le sue doti seduttive e la sagacia che
le è propria allo scopo di realizzare la controbeffa di un finto
131
Ivi, p. 7.
«O desvio para a comicidade é tão propositado, que a acção metastasiana se torna
irreconhecível, e até os próprio graciosos expressam repetidamente a intenção de deter a
comicidade; mas ao mesmo tempo, este desvio deixa contínuamente ver uma preocupação de
carácter ético, pois em nenhuma ocasião se deixa de salientar o tom moral a quem deve
obedecer a vida: vê-se isto quer nas considerações que encontramos na versão portuguesa a
cada passo, quer na transformação do desfecho da obra. Pois em quanto esta no original acaba
com uma intervenção genérica do coro, no tradutor conclui com um comentário moralizante
em que se justifica o título» in G. C. Rossi, A evolução, cit., pp. 306-307.
132
198
Capitolo II
incantesimo che, attraverso un anello magico, avrebbe trasformato
Paquete in fanciullo e, mediante una gonna e un cappello, avrebbe
fatto di Ranheta un’anziana signora, entrambi al solo fine di poter
entrare indisturbati a Palazzo ed incontrare l’amata serva. Ci troviamo
di fronte, allora, al carnevale degli inganni, dei travestimenti, degli
incantesimi, della feitiçaria così affine al sentire popolare che, come
accennavamo poc’anzi, ha funzione di avvicinamento al pubblico e
che gli adattatori portoghesi del Settecento avevano senz’altro letto
nella Floresta de enganos del già ricordato Gil Vicente, laddove un
escudeiro sceglie di camuffarsi da vedova per poter meglio ingannare
il Mercador della rappresentazione cinquecentesca.
Comedia O Mais Heroico Segredo ou
Artaxerxe (1758)
Pip. Eia tratar de fugir.
Paq. Como ha–de ser?
Pip. Eu to digo.
Esta saia, e esta capa
que falta me não faz, dispo.
(Dá–lhe a saia e capa)
Tu veste-te de mulher,
vai para ora saindo,
que ainda que o velho se encontre
sais sem que sejas visto.
Paq. Oh abençoada sejas
vai já depressa despindo,
ataque-me aqui detraz
pois que tal estou bonito;
depressa venha essa capa
se eu desta tratada livro
vai um Paquete de cera
ao altar de são Pipio.
Pip. Estás bello: vai–te embora
adeus.
(Vai-se)
Paq. Ele vá comigo,
vai Adão em forma de Eva
tudo em Paquete metido,
mas ai de mim meus pecados
torna o velho.
(Sai Ranheta, e diz)
Ranh. Meu feitiço
tu cobristes a cabeça
para que é com tanto brio
encobrir a quem te adora
desse templo o frontispício.
Paq. Paciênça é força fingir
é porque faz muito frio
e tenho nella humas dores
tamanhas.
Ranh. Ai muito sinto
pois não descubras meu bem,
e podes comer?
Paq. Mastigo com meu trabalho, mas
como.
Ranh. Pois toma pão cozido,
Toma presunto, e mais doce,
Pois então sou teu amigo?
Sabes que mais até trago
uma pinguinha de vinho.
Paq. Que belos amores tenho,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
pois olha, eu guardo tudo isso
vou-me antes que venha alguém.
Ranh. Não me fazes um
carinho?
Porém tá, que lá vem gente.
Paq. Pois eu fujo.
(Vai–se)
Ranh. E eu não fico.
(Vai–se)133
Pip. Como é possível Paquete
que já sem susto, nem medo
venhas outra vez ao Paço?
Não te lembra aquele negro
carcere, ou prisão mofina,
onde darias em seco,
se com minha saia, e capa
não te sacasse a passeio?
Paq. Lembra-me por meus
pecados
e só de lembrar-me tremo:
mas agora valeroso
em Palácio outra vez entro,
nem que eu fosse algum Gigante
Hercules dos nossos tempos.
Pip. Aposto eu que isso é fineza
feita cá por meu respeito.
Paq. Se te devo a liberdade,
não te verei ver ao menos?
Pip. Também deve a capa, e saia.
Paq. Nisso agora não falemos.
Pip. Que! A saia, que me custou
alguns dois mil, e dez centos,
e a capa novinha em folha!
Paq. Não fales em trapos velhos:
excusemos ceremonias
deixa-te de cumprimentos.
Pip. Não há maior insolência
a quem dei o meu asseio!
Foi a alguma trapalhona
destas Ninfas de chichelo?
Paq. Não senhora, ainda mais alto
calça dez pontos, e meio!
Foi a uma moça: uma deusa
de bigode feita ao ferro.
133
Ivi, pp. 9-10.
199
Pip. Isso faz-se bribantão?
Paq. Logo cuidas, que isto é
certo.
Pip. Pois que lhe fez?
Paq. Não a fiz,
desfi-la para remendos.
Pip. E a capa, diga!
Paq. Empenhei-a
em casa do Pasteleiro.
Não fales em ninharias,
vamos ao que importa. Eu venho
só para fallar a El–Rei.
Pip. A El–Rei! Olhe o
atrevimento!
Paq. A El–Rei mesmo em carne:
então
não sou capaz? Pois que temos!
de sorte que ouço dizer
que foi meu amo hoje preso
por matador d’El–Rei Xerxe,
eu pelo amor que lhe devo
dar-lhe a vida determino.
Pip. Tu! Olhem quem!
Paq. Sim, eu mesmo
sou testimunha de vista
que elle o matou, e sei-o
porque ao mesmo matador o ouvi.
Pip. Eu lá não me meto
nessas coisas de defuntos,
porque tenho muito medo,
o que quero é o meu fato.
Paq. Queres que diga o que
entendo?
Quando sai de Palácio,
com medo, senti-me lento
dei o fato a lavandeira,
em vindo logo, o remeto.
Pip. Dá-me logo logo o fato
se não grito pelo velho.
Paq. Cala a boca rapariga.
Pip. Venha o fato.
Paq. Volaverunt.
Pip. Sabe agora o que lhe vale
vir El–Rey, nós nos veremos.
Capitolo II
200
(Vai-se)
Paq. Coitada, se esperas fato,
já agora tem bom remedio,
passou-se para a taverna
albercado a mantimento134.
Pip. Escuse aqui de encostar-se
ninguém junto do meu quarto!
Pois não quero, que alguém passe,
e que imagine que eu dou
audiência a maganage.
Paq. Com que junto dos seus
quartos
não pode um homem encostar–se?
Pip. Eu conheço-o pela voz:
é Paquete, olhe o tratante!
Inda és vivo! A que vens cá
vens a trazer-me os meus trastes?
Paq. Trastes? Pois sua mercê
quer comigo encordoar-se?
Pip. Falo na capa, e na saia.
Paq. Antes em tal não falasses.
Pip. Quer que o obrigue por
justiça?
Paq. Cachorra, para obrigar-me
essa tua maganisse,
pode mais que mil alcaides.
Pip. Não meta o negócio a bulha.
Paq. Eu quero-o meter a pazes,
olha, sabes que me lembra,
podes comigo casar-te,
e supõem que a saia, e capa
foi cousa em que me dotaste.
Pip. Pois você queria diga,
casar comigo?
Paq. E não sabes,
que essa foi, é e será
minha última vontade.
Pip. Quero lograr este tolo
(À parte)
pois olhe a ser mais amante
você não me desagrada,
134
Ivi, pp. 14-15.
o corpo tem mui bem posto
vire-se destoutra parte:
é capaz, pois há de ser meu
marido.
Paq. Já não cabe
esta alma dentro no bucho,
estou para esfrangalhar-me.
Pip. Mas é preciso primeiro
pertender-me com visagens,
vir a fazer-me visitas,
porque nós as divindades
só concedemos favores
a quem nos dá vassalagem.
Paq. Virei de mui boamente
mas se chegar a encontrar-me
temo que algum destes guardas
outra vez me prenda, e agarre
por fardo de contrabando
ou Paquete de pilhage.
Pip. Não tenhas medo, eu te dou
uma industria de escapar-te,
agora o logro de todo (À parte)
toma este anel de tambaque
tem sentido, não o percas,
e em querendo vir fallar-me,
mete-o no dedo, e verás
que ele por modo admirável
te muda em rapaz pequeno,
e assim com este disfarce
podes entrar, e sair
sem temer que alguém te agarre,
pois escapas por criança.
Paq. Há coisa mais importante?
Venha depressa esse anel.
Pip. Toma-o, vai-te, e esta tarde
logo pelas duas horas
espero venhas falar-me.
Paq. Promptamente vou n’um pé.
Pip. Vai Paquete a encriançar-te.
Paq. Vou porque feito menino
Pipia há–de acalantar-me.
(Vai-se)
(Sahe Ranheta)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Ranh. Que traficâncias são estas?
Que histórias, que maganages?
Isso é coisa que se sofra
uma rapariga grave,
falando com tal descoco
para a rua, que salvage
era este com que falavas
que foi para aquela parte?
Pip. Eu falar que testemunho?
Eu esconjurava os ares.
Ranh. Querer negar o que eu vi!
A mim Pipia enganar-me!
Aposto aqui para nós,
que era algum estravagante
com quem a furtar-lhe o fato
anda forjando casar-se!
Pip. Eu casar, tal me não veio
ao juizo, Deus me guarde!
Mas olhe (quer que lhe diga?)
se eu resolver a casar-me,
só você Senhor Ranheta
me prenderá a liberdade
logremos este tolete. (À parte)
Ranh. Que palavra é que falaste,
que entrando pelos ouvidos
deu no coração um baque?
Pip. Digo que inda não vi quem
como você me agradasse.
Ranh. Pois se eu quero, e tu
queres
que falta para ajustar–me,
casemos minha Pipia.
Pip. Isso ainda tem seus vagares,
é preciso pertender-me
toda a hora namorar-me,
vir a casa, e assistir-me:
e porque saibas as artes
(quero uma peça pregar-lhe)
(À parte)
tenho uma saia, e hum capelo,
de Celestina Fernandes,
que foi grande feiticeira,
quem veste em si estes trastes,
fica logo transformado
201
em velha: anda cá, vou dar-te
o que te digo; pois podes
vestido neste disfarce
entrar, e sair dizendo,
se alguém chegar a observar-te
que és minha Tia, ou avó,
e que vens a visitar-me.
Ranh. Bela coisa: estou saltando
anda já, não te dilates.
Pip. Vamos, veja o que me deve,
Assim se enganão basbaques.
(À parte) 135
(Sai por uma parte Paquete, e por
outra Ranheta de saia e Capelo)
Paq. Tomara ter um espelho,
e ver esta perspectiva,
para ver se acaso o anel
me tem feito criancinha!
Eu se olho para os meus dedos
vejo cinco longariças,
se ponho a mão no nariz
encontro um barco com quilha.
As pernas são bons dois cepos,
a barriga é uma pipa:
e hei–de parecer criança?
É forte feitiçaria.
Ranh. Aqui vem Ranheta em
carne
encapelado a surdina,
barbado por natureza,
viuva por negromancia.
Ah Pipia dos meus olhos
a quanto excesso me obrigas!
Paq. Mas que bonifrate é aquele
que para aqui se encaminha?
Ranh. Aqui vem Paquete, fica,
olhem o mofino, ora irra
que sempre este demo segue
como sombra a minha dita.
Paq. É Ranheta bello traste!
135
Ivi, pp. 27-28.
202
Se este dedo me adivinha
anda por aqui alguma
travessura de Pipia.
Ranh. Mas se elle me não
conhece,
eu falo com voz sediça.
Paq. Mas se eu pareço menino,
que importa inda que me sinta.
Ranh. Você que quer aqui
dentro?
Paq. Eu queria fazer mija,
e vomecê que quer cá?
Ranh. Ai que se faz criancinha
(À parte)
eu venho ver uma moça
de quem há muito sou Tia.
Paq. Vomecê é Tia, ou Tio?
Ranh. Essa pergunta é mui
linda!
Sou Tia em carne.
Paq. Má hora só se for Tia
postiça.
Ranh. E tu quem és?
Paq. Quem, eu cá?
Eu sou Manoel da visinha
Irmão de Antonia Pardelha
neto de Salsa Parrilha:
olhe vê, tenho um pião,
sabe como o mestre ensina
a quem a lição não sabe?
Dá-lhe assim um coque em
cima. (Dá–lhe)
Ranh. Fora tolo; você cuida
que eu não conheço ainda?
Paq. Ora diga quem sou eu?
Ranh. És Paquete.
Paq. Ora é mentira:
que eu sou menino de mamã.
Ranh. De burro, que tal seja.
Paq. Isso é pulha irra,
que eu sou menino pequeno,
que quero tanger Pipia
ora apostar que eu adivinho
quem é voche? Quer que o diga?
Capitolo II
É Ranheta: ai que adivinhei!
Forrada senhora Tia.
(Aqui dilatem–se o tempo que
quiserem fallando um de criança,
outro de velha até que armem bulha,
e sai Pipia com um páu apartá-los)
Pip. Que bulha é esta? Que
estrondo?
Há quem tal motim consinta
vocês jogar os coices
isto é casa, ou estribaria?
Paq. Tudo pode ser, pois mora
sua mercê tão visinha
mui bom anel de tambaque
mui galante criancita!
Pip. É porque você fo tolo
não o pôs onde enfeitiça,
diga em que dedo o meteu?
Paq. No meninho.
Pip. E que queria
se ele deve ser metido
n’outro dedo mais acima.
Ranh. Mui boa saia, e capelo,
era o da Senhora Tia.
Pip. É porque você vestiu
a saia com contrapiza,
e em suma vocês são tolos
nenhhum me mete cobiça,
para ti dou quatro trincos,
para ti trezentas figas.
Paq. Não há mais claras finezas.
Ranh. Não há mais doces
carícias.
Pip. Sim pois você que esperava
voche de que tem cobiça!
Não é para a sua boca
Esta Senhora Pipia. (Vai–se)
Paq. Senhora Tia, seu moço.
Ranh. Adeus senhor criancinha.
(Vão–se) 136
136
Ivi, pp. 31-32.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.6.
203
Demofoonte
Un indizio circa la fortuna in Portogallo del Demofoonte, che fu
rappresentato per la prima volta a Vienna nel 1733, è dato dalla
presenza presso la Biblioteca Nazionale di Lisbona della partitura
manoscritta delle musiche e delle arie del suo primo atto, composte
per l’occasione della rappresentazione portoghese presso il Teatro di
S. Carlos dal noto compositore Marcos Portugal. A questo documento
si deve aggiungere l’edizione bilingue del 1737 che, pur
nell’inesattezza lessicale anche nella parte di testo in lingua italiana
(Demoofonte per Demofoonte, drama per dramma, representarsi per
rappresentarsi, Academia per Accademia, Piaza per Piazza e
Stamparia per Stamperia) e per qualche errore traduttivo (si veda a
questo proposito la traduzione della parte terminale dell’aria
pronunciata da Demofoonte alla fine della IX scena del secondo atto
[corsivo nostro]: «Unito fu l’errore;/ Sarà la pena unita:/Il giusto
mio rigore/Non vi distinguerà»137 tradotta con «Por vós foi com igual
horror/uma lei santa ofendida,/e do castigo o rigor/não vos
distinguirá»)138, si deve annoverare tra le copie più fedeli e più
accurate della produzione editoriale portoghese.
Ma la versione che più ci interessa analizzare, dal punto di vista
degli adattamenti al gusto portoghese, è l’interessantissima traduzione
del 1758 (fig. 20) dal consueto titolo tematico–moralizzante di Mais
Vale Amor do que hum Reyno, e dalla quale sono state tratte
successive copie nel 1783 ad opera di Francisco Borges de Sousa (fig.
21), nel 1793 ad opera di João Antonio Reis e nel 1794 per mano di
Jozé de Aquino Bulhoens (fig. 22). Di valore marginale è, invece, la
traduzione del 1838 (fig. 23) che riporta sì il nome del traduttore
Fernando Lucas Alvim, l’ormai noto Francisco Luís Ameno, ma
137
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 673.
Demoofonte / Demofonte, drama para musica para se representar em Lisboa na
Accademia na Praça da Trindade, anno 1737, Na officina de Antonio Isidoro da Fonseca, p.
81.
138
204
Capitolo II
Figura 20. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 743).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
205
Figura 21. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 238).
206
Capitolo II
Figura 22. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 81).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
207
Figura 23. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 563).
208
Capitolo II
che non si discosta granché dalla versione originale del
dramma metastasiano.
La copia che il Desembargo do Paço approva definitivamente
il 25 novembre 1758 è in realtà, come si evince dalle
informazioni presenti su frontespizio, trascrizione della
rappresentazione avvenuta durante l’Arrayal de Nossa Senhora
do Cabo, in occasione cioè delle feste del Cirio del 1753.
L’importanza di tale ricorrenza si deve certamente alle sue
origini remote, si pensa infatti che la romaria della Madonna di
Capo Espichel, che solitamente si svolge il 29 luglio, risalga al
XVII secolo. Un’occasione, quindi, che si presupporrebbe
caratterizzata da religiosa compostezza e meditazione, ma che,
evidentemente attraverso l’occasione delle rappresentazioni
teatrali, il popolo interpretava come momento di convivio e
d’intrattenimento sociale che ben poco aveva a che vedere con
liturgie e pratiche della devozione. Se comunque si considera
che le azioni e le espressioni dei tre criados di questo
Demofoonte lusitano non si caricano eccessivamente di volgarità
esplicite, come nei casi precedentemente richiamati, è possibile
attribuire la motivazione di questa patina di generale
benevolenza che coinvolge anche i servi dell’adattamento
portoghese proprio all’occasione religiosa che avrebbe fatto da
contorno alla rappresentazione teatrale. Non si può comunque
negare che il traduttore abbia appportato profondi mutamenti
anche all’evolversi della vicenda principale che, lo ricordiamo,
racconta più che la severità del re di Tracia Demofoonte, le
tormentate vicende dei due amanti Timante, figlio del re, e
Dircea, figlia di Matuzio, sposatisi segretamente ed anche
genitori del piccolo Olinto, osteggiati dalla volontà di un padre e
di un sovrano che destina il primo alle nozze con Creusa e la
seconda ad essere sacrificata sull’altare di Apollo. L’intricata
trama che Metastasio intesse con genio e passione si risolverà,
con vari colpi di scena, con il riconoscimento di Timante quale
figlio di Matuzio, e di conseguenza non sottoposto alla volontà
di Demofoonte, e di Dircea quale figlia del medesimo re e
quindi sottratta alla morte. Ma si diceva delle discrepanze
nell’evolversi della trama centrale, oltre che per l’aggiunta
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
209
dell’azione dei graciosos. In questo senso si noti che laddove nel
testo originale spetta a Dircea riportare la sentenza dell’oracolo
«Con voi del Ciel si placherà lo sdegno,/Quando noto a se
stesso/Fia l’usurpator d’un regno»139, in traduzione è lo stesso
Demofoonte a riferire l’enigma («Deixarei de ser
severo/reprimindo as iras, quando/fora entre vós descoberto/com
evidência o inocente/usurpador deste Reino»)140; così come,
laddove Metastasio affida unicamente al racconto la ribellione di
Matuzio nei confronti di Demofoonte, che salva solo le proprie
figlie dal sacrificio annuale di una vergine del regno, l’adattatore
portoghese introduce una lunga scena in cui Matuzio deve
affrontare direttamente Demofoonte con una sfrontatezza ed
un’audacia che gli varranno l’arresto immediato per ordine del
re offeso. E si legga, inoltre, la scena dell’ultimo atto in cui
Creusa stessa supplica il re di Tracia di salvare da morte certa
Dircea e Timante, omessa e solo raccontata nel testo originale,
ma presente con dovizia di particolari nella traduzione
portoghese, arricchita tra l’altro dalla dissonante, in tanto alto
contesto di suppliche, ninna nanna della serva Faisca al piccolo
Olinto:
Faisc. Eu feita Mãe de crianças,
é muito boa gracinha:
andar agora talvez
que me venha alguma dita,
mas o menino coitado
tem somno que se espreguiça
picurruxo qué xana!
venha cá que eu sou amiga,
deite-se aqui nos meus braços,
olhe não me faça mija
ora durma, ó, ó, ó, ó,
cantemos-lhe huma cantiga (Canta)
139
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 642.
Mais Vale Amor do que hum Reyno, Opera Demofoonte em Tracia, composta
na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio: Agora nuovamente traduzida,
accrescentada, e disposta segundo o gosto do Teatro Portuguez, para se representar no
Arrayal de Nossa Senhora do Cabo, nas festas do Cirio de Lisboa, anno 1753, Na
officina de Manoel Antonio Monteiro, 1758, p. 6.
140
Capitolo II
210
O menino quer nanar,
mas não o deixão dormir,
callem-se todos xiton,
e nem tugir nem mugir.
Ai li le le le le le le,
ai li le le le Corisco,
se faltares à palavra
o demo te faça em cisco141.
L’azione dei graciosos, Faisca (“scintilla”), serva di Dircea,
Corisco (“lampo”), servo di Timante, e Pantufo (“grassone”),
padre di Faisca ed inserviente di Palazzo, si svolge sui due
fronti della partecipazione sentita per le sventure dei padroni, ai
quali i servi rivolgono spesso espressioni di compassione, e sul
fronte indipendente dalla trama secondaria della conquista di
Faisca da parte di Corisco, osteggiata come al solito dal padre di
lei che, conseguentemente, cade infantilmente nei tranelli e
negli espliciti imbrogli di quello che oramai potremmo definire
perno dell’adattamento. Esiste, in altre parole, in ogni
adattamento, la figura centrale di un servo impegnato nella
conquista amorosa, ma che al tempo stesso gioca sul doppio filo
dell’inganno economico e dello scherzo atto a deridere il rivale
di turno, il quale a sua volta funge in qualche modo da motore
di quella commedia che interferisce con l’intreccio originario. È
Corisco qui la miccia che scatena la rappresentazione scenica,
come era Calote nell’Alexandre na India e Bonifrate nella
Zenobia, tutti accomunati dal ruolo di detonatori delle trame
burlesche che movimentano l’azione degli altri due servi in
gioco e tutti in conclusione vincitori appagati, nonostante i
complicati ed improbabili sotterfugi messi in atto, con il rituale
matrimonio finale. Nel caso del Demofoonte, Corisco entra
subito in scena nel primo atto presentandosi in prima persona
con il consueto gioco di parole sui nomi propri dei servi
protagonisti (Corisco, faisca, vivo raio) e qui, per la prima
volta, fornendo allo spettatore una chiave di lettura anticipata
141
Ivi, p. 32.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
sulla funzione del
controversie amorose:
proprio
personaggio,
211
risolutore
di
E aqui está também Corisco
que para amante emprezas
costume dessa faisca
sou vivo Raio da guerra142.
Ma il frequente intervento a latere di Corisco e di Faisca,
quasi controcanto all’accorato ed appassionato dialogo
d’amore dei protagonisti Dircea e Timante, poiché basa
semplicimente la sua scoperta comicità nella stonatura, forse
un po’ forzata, di espressioni triviali lontanissime dallo stile
operistico, non fa che relegare l’indicazione di genere al ruolo
di mera informazione di copertina, non trovando
corrispondenze nel testo in sé:
Faisc. Senhor Corisco bemvindo:
com que ainda de mim se lembra!
Cor. Lembro-me por meus pecados,
nem é justo que me esqueça,
pois trago essa carantonha
estampada nas ventrexas.
[...]
Cor. Só tu negra ramelosa
nunca me dizes daquelas.
Faisc. Quando falar seu Senhor
não nos dê a taramela143.
È inoltre probabile che l’idea di un travestimento ultraterreno
del Calote/anima nera dell’Alexandre na India abbia preso
spunto proprio da questo adattamento del 1758, in cui lo stesso
Corisco si prende gioco di Faisca e di Pantufo fingendosi
incarnazione del dio Apollo, inganno nel quale entrano come
involontari esecutori anche due personaggi “legittimi” della
vicenda metastasiana, Matuzio e Adrasto. In più, è in questo
testo particolarmente evidente la presenza della situazione
142
143
Ivi, pp. 2-3.
Ivi, p. 3.
212
Capitolo II
canonica per cui, grazie a circostanze esterne fortuite, l’azione
truffaldina del criado è a tal punto agevolata da permettergli
di portare a compimento senza danno o ammenda le proprie
azioni, come possiamo osservare nel caso delle grida confuse
che si odono esternamente alla scena e che arrivano proprio nel
momento in cui Corisco racconta a Pantufo d’averlo destinato
alle pene dell’inferno, in realtà urla di giubilo dovute all’arrivo
della principessa Creusa in Tracia.
Mais Vale Amor do que hum
Reyno Opera Demofoonte em
Tracia (1758)
Cor. Agora você Faisca
leve-me, não se detenha.
Faisc. Eu levá-lo: forte
história!
É você mui boa peça,
para eu ocupar meus braços
nessa figura nojenta.
Cor. Devagar com tais
melindres;
com que a pessoa não presta!
Pois saiba, que muitas, muitas,
andão traz de mim; qual delas
ha–de vir a ser Senhora
da minha gentilomeza.
Faisc. E que tais elas serão?
Cor. São muito melhores que
ela:
olha são Damas dois furos
acima de Cozinheiras.
Faisc. Pois se tem essas
fortunas
então, porque me requesta?
Cor. Filha são inclinações:
deu-me em querer-te deveras
se tu me pareces bem,
todas as mais julgo feias!
Tu tens mais entendimento
do que trezentos poetas,
mais ilustre me pareces
do que quarenta Princezas.
Faisc. Sim, mas você...
Cor. Já te entendo:
dizes que tenho pobreza,
que não posso sustentar–te;
ah Faisca, como és nescia:
nem tudo o que luz é ouro,
debaixo desta roupeta
está oculto quem pode,
levantar-te a grande esfera.
Faisc. Fora lá co’ mentiroso,
que vem armando de arengas;
vá encaixar lograções
a outra, que não conheça.
Cor. És mulher mortal, por
isso
os Arcanos não penetras.
Faisc. Nem Arcanos, nem
Arcanas:
antes que fosses à guerra
não eras meu conhecido.
Cor. Era, mas não sou quem
era,
pois deixei o ser que tinha,
sim é esta cara a mesma:
porém outro mui diverso
dentro da pele se encerra.
Faisc. Explique essa
adevinhação,
fale, se quer que eu o entenda.
Cor. Pois filha sabe, que eu
sou...
mas tá boca, é muita pressa
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
fiar de ti um segredo
de tamanha consequências.
Faisc. Porque tem lá para si,
que eu também sou
chocaleira,
pois se me não fala claro
fique aí só: boas festas.
Cor. Anda cá (oh quanto pode
comigo a tua beleza)
pois sabe que eu sou... mas tá
olha tu bem, não esteja
quem nos escute.
Faisc. Ninguém nos ouve.
Cor. (Pois vá de peta)
(À part.)
Eu sou Apolo, que venho
sempre neste dia à terra,
a ver o meu sacrifício,
que no Templo se celebra.
E para vir disfarçado,
e que ninguém me conheça,
sempre de alguma pessoa
me revisto na aparência:
e sabendo que Corisco
estava morto na guerra,
encaixei-me no cadaver,
e com a figura mesma,
que ele tinha em sua vida,
hei–de fazer assistencia
ao sacrifício.
Faisc. Que diz!
Ah Senhor, com que deveras
morreu na guerra Corisco!
Cor. Oxalá não fora certa
esta notícia; morreu
de uma cutilada teza,
que lhe pregou um soldado;
logo acima da cabeça:
pois coitado, era homem
(esta já eu sei, que pega).
(À part.)
Faisc. Pode haver maior
desgraça!
213
Cor. Filha, porque te
lamentas,
deixa memórias cediças
toma inclinações mais frescas.
Se perdes Corisco, tens
Apolo que te venera,
muito mudas de ventura,
se este meu amor aceitas,
pois sobes sem mais, nem
mais,
de ser Rascoa, a ser Deusa.
Faisc. Mas acabado este dia,
foge para a sua esfera,
e então cá a pobrezinha
fica com a boca aberta.
Cor. Não, que se eu casar
contigo,
como espero, mui depressa
hei–de comigo levar-te.
(Sai Pantufo)
Pant. Oh lá temos cá
conversa!
Mui bom negócio Faisca!
Com que isto é que te
encomenda
teu Pay!
Faisc. Ora não se enfade
meu Paizinho: se soubera
com que eu agora falo,
havia fazer–me festa.
Pant. Ah, ah, ah: pois não
conheço
a tanto essa boa preia.
Cor. Pois diga-me quem sou
eu.
Pant. És Corisco.
Cor. Olhe o pateta
como está fora do caso.
Faisc. Paizinho, tenha
paciência
também, como eu se enganou;
olhe: este não é quem era,
214
Capitolo II
no corpo sim é Corisco
mas nele outra alma se
enxerta.
Cor. Ah mortal, porque o
segredo
que eu descobri, tu revelas?
Pant. Sempre é Corisco o
corpo:
pois malhar–lhe–ei à mão
tesa.
(Vai para lhe dar)
Faisc. Tenha mão, que faz
Senhor
que dá n’um Deus.
Pant. Com que desta
casta são os nossos Deuses.
Cor. Faisca, deixa o Pai,
deixa;
que me toque, tu verás,
sem que a pancada me ofenda,
como um Raio o faz em cinza;
caindo-lhe sobre a creca.
Pant. Raio já estou tremendo.
Cor. Senhor Pantufo lá creia
o que bem lhe parecer:
cá por mim não reprehenda
a Faisca, pois lhe corta
grande ventura, que a espera.
Pant. Pois conta-me rapariga,
que traficâncias são estas.
Faisc. O Senhor é Deus
Apolo.
Pant. Apolo! Tal cousa crera,
se ele fizesse um milagre
aqui na minha presença.
Cor. Milagre! Farei um cento:
e para que logo os vejas
põe-te aqui, e mais Faisca;
bom has–de estar hora e meia.
(Põe-nos pasmados cada um
de seu lado)
Sem olhares para trás
e verás cousas tão belas,
que fiques embasbacado
por uma semana inteira.
Pant. Aqui estou.
Faisc. Mais eu também.
Cor. Pois nenhum volte a
cabeça
(vou–me safando ligeiro,
antes que o carolo serva)
(À parte)
sentido, deixem-se estar,
adeus com bem lhe amanheça.
(Vai-se)
(Ficam os dois pasmados
no lugar em que os
puzeram, olhando para o
povo, e sai Matusio e
Adrasto)
Adr. Não pode tardar o Rei.
Mat. Eu aqui por ele espero.
Adr. Mas quem temos neste
sítio!
Mat. Que fazeis vós aqui
dentro?
Faisc. Paizinho, não volte a
cara.
Pant. Caluda! Vamos nós
vendo
em que param tais milagres.
Mat. Não me respondem?
Faisc. Segredo.
Adr. Quem são vocês; digam!
Pant. Moita.
Adr. Pois desta sorte veremos
Se hão–de falar. (Dá-lhe)
Pant. Ah Faisca
cá vai um milagre belo.
Faisc. Não se mova.
Mat. Inda não ouves?
Pant. Eu cá estou satisfeito,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
215
mas aquela rapariga
faça-lhe um milagre ao
(Assusta-se Pant.)
menos.
Adr. Ide-vos embora loucos
(Dá em ambos)
Faisc. Ai que me deu no
besbelho144.
Pant. Não te movas que é
milagre.
Ambos. Eu do milagre
arrenego145.
Cor. Pois que vai, ouves os
gritos
agora aqui sentirás
teu justissimo castigo.
Dentro. Viva a Princeza de
Frigia.
Pant. Ai de mim que estou
perdido
vem o barulho do inferno
sobre mim, Senhor Corisco...
Cor. Insolente, inda me chama
com esse nome abatido,
onde estou que te não abro;
da cabeça até o umbigo!
Pant. Senhor Apolo, ou
Senhor
quem quer que é, que eu não
lhe tiro
nem lhe ponho coisa alguma,
peça a seu Pai e aos seus tios;
que de mim se compadeção,
pois tenho mulher e filhos.
Cor. Já agora não há remédio
hei–de sepultá-lo vivo;
pancadas a um Deus!
Pant. Pequei
mas estou arrependido.
Dentro. Seja bem chegada,
viva.
Pant. Ai que está perto o
alarido,
deixe-me ir embora.
Cor. Nada: só irá daqui sem
risco
se prometeres aqui,
em todo o lugar, e sítio
de não maltratar Faisca,
inda que a veja comigo.
Pant. Eu prometo e
reprometo.
Cor. Ande daí que é indigno
de ser meu sogro; levante
(Sai Corisco fugindo de
Pantufo, que lhe quer dar)
Cor. Tenha mão Senhor
Pantufo.
Pant. À mão tente seu Corisco
quero fazer um milagre.
Cor. Homem tem mão que te
perdes,
pois quando me vens jurzindo
brado o carolo que levo,
nas abobadas do Olimpo,
e temo que sobre ti
venha logo de improviso
meu Pai Jupiter com raios,
que te faça em puro cisco.
Pant. Seja o que for
entrementes
vou fazendo um milagrinho.
(Dá-lhe)
Cor. Oh lá Plutão, venha logo
e traga lá desse abismo
um murrão, que queime o
rabo
desse velherrão maldito.
Dentro. Bem chegada, viva,
viva.
144
Termine popolare per sedere,
natiche.
145
Ivi, pp. 4-6.
Capitolo II
216
ao ar o dedo meninho.
Pant. Aqui o tenho levantado.
Cor. Ora vá-se rebolindo
que eu cá comporei os Deuses
para o perdão do delicto.
Pant. Será pelo amor de Deus.
Vou-lhe muito agredecido
(Vai-se fazendo cortesias)
Cor. O tal velho é bem pateta
basta ouvir o murmurinho
do desembarque que faz
a Princeza (coutadito!)
para se encasquetar logo
que vinha de todo o abismo
fogo para o castigar,
com ele iremos nutrindo146.
ACTO II
Pant. Senhor Apolo piedoso...
Faisc. Senhor Apolo
clemente...
Cor. Irra, escusamos alcunhas,
porque os mortaes não tendes
auctoridade de pôr
cá sobrenomes aos Deuses.
Pant. Pois Senhor, se isto te
aggrava...
Faisc. Pois Senhor, se isto te
ofende...
Cor. Sim, muito me
escandaliza
essa ousadia indecente,
não cá por amor de mim,
mas um homem tem parentes.
Pant. Eu se tal coisa
adevinhasse...
Faisc. Pois eu cá se tal
soubesse...
Cor. Pois saibam, não sejão
146
Ivi, pp. 8-9.
tolos:
falem, digam que pertendem;
não me ponham sobrenomes,
e falem quanto quiserem.
Pant. Pois meu Senhor, sem
mais nada...
Faisc. Pois meu Senhor,
simplesmente...
Cor. Calai-vos, bocas
malditas:
que parvoice disseste?
Simplesmente, sem mais nada
Chamais a um Deus reluzente!
andai que sois mentecaptos,
estou para arrepender-me
de querer aparentar-me
com tão ridicula gente.
Faisc. Confesso que sou
tolinha.
Pant. Eu também que sou
tolete.
Cor. Está feito, eu vos perdoo,
vamos ao caso; que tendes
comigo? Falai sem medo.
Pant. Visto seres tão potente...
dize-lhe tu rapariga,
que o coração se estremece
só de ver o seu semblante.
Faisc. Eu nada posso
dizer–lhe,
fale meu Paizinho
não tenha pejo.
Pant. Como hei–de
falar-lhe, se até de susto
tenho a voz balbuciente.
Cor. Ora falem com os
Diabos:
eu já não posso conter–me,
olhe sou Pantufo velho,
se não fora esta inocente
(Para Faisca)
já lhe tinha esborrachado
a cabeça na parede.
Pant. Se acaso disso tem
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
gosto
eu lhe oferecer reverente,
não só a cabeça, mas ventas,
olhos, nariz, boca e dentes.
Faisc. Paizinho cale-se agora
(Para Pant.)
falar com ele me deixe.
Meu querido bem desta alma,
meu amorzinho, meu dengue,
tem animo de agastar–se
estando eu aqui presente
você nunca me quis bem,
porque se amor tivesse
não havia de aggravar
a meu Pai.
Cor. Meu génio agreste
nunca se pode fingir
não é de agora, mas sempre,
para as filhas sou açucar,
para os Pais sou viva peste.
Pant. Oh quem fora agora
filha,
e não Pai, porque pudesse
uma lambedela ao menos
desse açucar merecer-lhe.
Faisc. Paizinho cale essa
boca.
Pant. Calado estou, que mais
queres?
Senhor, ouça minha filha.
Cor. Sim: Faisca que
pertendes?
Faisc. Imploro a tua piedade.
Pant. Aí assenta o ser
clemente.
Cor. E também nesse costado
Assenta um murro à mão
tente.
Faisc. Não se calará
Paizinho?
Pant. Calado estou, que mais
queres?
Senhor ouça minha filha.
217
Cor. Ande daí insolente,
que não é capaz de ter
contacto nas minhas vestes,
aparte-se para longe,
nem quero que a mim se
chegue.
Pant. Eu me aparto; basta
aqui apartar-se.
Cor. Mais sete passos.
Pant. Mui prestes,
um, e dois, e tres, e quatro,
cinco, seis, e este são sete.
Cor. Ora esteja aí calado,
e olhe, nem um pé arrede:
agora falemos nós,
que ele a acolá não percebe.
Faisc. Eu o que pedir-te quero
muito bem pode dizer-se
diante de todo o mundo.
Pant. Senhor Apollo consente
que eu me coce na cabeça?
Cor. Não se bula, nem mence.
Pant. Ah pobre, depois de
viúvo
ainda vens a ser paciente.
Faisc. Tu bem sabes que
Dircea
é minha ama...
Cor. Até quereres,
porque daqui à amanhã,
talvez que eu tanto te eleve,
que nem Dircea a alimpar–te
teus mesmos sapatos chegue.
Pant. Ah Senhor, dê-me
licença
para poder remecher-me.
Cor. Mando-lhe que não se
mova,
nem bula, nem pestaneje.
Faisc. Com que como ia
dizendo
eu quisera agradecer-lhe
o amor com que me tratou;
ela a pobrinha inocente
218
Capitolo II
ha–de ser sacrificada,
mas se tu te compadeces
peço–te muito que a livres
pois será coisa indecente,
consentir que os teus altares
se humedeçam com aquele
sangue, que crime não tem,
e castigo não merece.
Pant. Ah Senhor, tenho
vontade
de tal coisa, já me entende.
Cor. Sustenha-se.
Pant. Dê licença
ao menos para espremer-me.
Cor. Não consinto.
Pant. Pois vá feito.
Cor. Faisca, quanto pertendes
hei–de obrar por ti; Dircea
ha–de viver, mas adverte,
que a vida que eu lhe hei–de
dar,
a ti sómente ta deve.
Faisc. Deixa-me beijar teus
pés.
Cor. Não é lugar decente,
vem antes cá a meus braços.
Pant. Isso não, sou
melquetrefe (Aparta-os)
Arre daí sou Apolo.
Cor. Afasta-te impertinente.
Faisc. Não desconfie
Paizinho,
que isto são modos corteses.
Pant. Sim mas essas cortesias
sómente faz às mulheres:
e para o Pai da criança,
não há nem meio abracete.
Cor. Por isso não desconfie
se quer um abraço, chegue.
Pant. Vamos a isso, mas irra,
(Aperta-o no abraço)
basta, basta, não me aperte.
Cor. Isto é mesmo cortesia.
Pant. Dispenso, basta, ai meu
ventre
ai que me obriga a lançar
as tripas pelo gasnete.
Ah que d’El–Rei contra
Apolo.
Cor. Largo-te eu, porque vem
gente.
Fasic. Eu também te vou
seguindo.
Cor. Anda meu querido
dengue,
que inda te hei–de ver
Princeza
lá nessa esfera Celeste.
(Vão-se)147
Cor. Oh lá temos o Templo
bem armado
tudo está preparado,
para minha ama vir
sacrificar–se
se comigo a encontrasse
Faisca se chegar, talvez lhe
meta
uma terrível peta,
mas ela vem buscar–me,
pois eu torno outra vez a
apolinar-me.
(Sai Faisca)
Faisc. Senhor Apollo, como
está contente
e cá a pobre gente
entre sustos metida, e entre
cuidados.
Cor. Pobrezinhos mortais, sois
uns coitados.
Faisc. Sim Senhor, este
Templo é sua casa.
Cor. Filha, sabe que estou
como uma braza.
147
Ivi, pp. 15-17.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
219
Faisc. E porque diga já.
morra aquele louco de teu Pai.
(Pantufo ao bastidor)
(Sai Pantufo)
Pant. Vamos chegando
mas lá estão falando
aquellas duas santas
almazinhas,
paciência, cá de longe trocer
linhas.
Cor. Bem sabes tu Faisca
que dos Cheus a vontade
observo à risca
eles mandam-me agora uma
embaixada,
mas se to digo, ficarás
mamada.
Faisc. Ora diga depressa.
Pant. Alguma ideia! (À parte)
Cor. Não querem que Dircea
oferecida me seja,
porém talvez que por me ter
inveja
todo o Cheu grita e clama
que se mate a criada em lugar
da ama.
Pant. É um favor mui grande.
(À p.)
Faisc.Que pode haver que tal
crueldade mande.
Cor. De Donzela ha–de ser o
sacrifício
tua ama de cazada tem o
ofício,
e visto que escapar por
solteira,
querem que morra a sua
alcoviteira
dize, foste algum dia já
casada?
Faisc. Eu nunca.
Cor. Pois então sacrificada.
Faisc. Ah, isso é pouco!
Cor.Também querem que
Pant. Irra, vou–lhe, passa
fora,
morra com mil diabos a
senhora,
mas eu morrer depois de
enviuvado.
Cor. Sim por não ter sua filha
já casado.
Pant. Mas, Senhor, eu casei.
Cor. Pois morrer pode,
que eu como carne de carneiro
e bode.
Faisc. Então não há remédio?
Cor. Não lho sinto.
Faisc.Pois um Deus entre os
Deuses tão distinto
não me faz com que eu não
morra
que amor é esse seu, amor de
borra.
Pant. Anda a ele, Faisca, anda
destampa,
que poder é o seu poder de
trampa.
Cor. Atrevido a mim! Mas
meus peccados
lá vão os brios meus
enxovalhados.
(Sai Timante acelerado)
Tim. O Reino todo e as
Paternaes riquezas
Tesouros e grandezas
tudo hoje perderei, mas minha
Esposa
é prenda mais preciosa;
perca-se tudo, que eu serei
mais rico
se entre meus braços, com
220
Capitolo II
Dircea fico.
Pant. e Faisc. Senhor
Timante,
por quem sois, valei-nos.
Tim. São pó e cinza os
Reinos,
que o tempo estraga com furor
vehemente
mas amor n’alma dura
eternamente.
Cor. Eu temo algum chuveiro
de carolo.
Pant. e Faisc. Senhor
valei–nos
contra o Deus Apolo.
Tim.
Deixai-me
loucos,
segue-me Corisco
não me deixes já mais em
todo o risco
pois é hora oportuna.
Cor. Vamos dentro do Templo
cá te espero.
(Vai-se ameaçando a Pantufo)
Pant. Há calote mais fero!
Faisc. Há engano maior,
maior tratada.
Pant. Há maior velhacada
Corisco feito Apolo logrativo.
Faisc. É tratante excessivo:
mas ai de mim! Cá vem a
coitadinha de minha ama.
Pant. Ela ao Templo se
avesinha,
victima preparada,
a ser sacrificada.
Faisc. Eu não tolero a ver
estrago tanto,
sem que lance dos olhos triste
pranto.
Pant. E eu, inda que não
tenho confiança,
entrar também pertendo nesta
dança.
(Tocam–se instrumentos e a
som deles vai passando entre
guardas Dircea com vestido
branco, coroada de flores e
precedendo os Sacerdotes
com insígnias de sacrifícios e
Faisca e Pantufo irão
seguindo a cometiva, e depois
de
recolhidos
o
acompanhamento
demorando–se alguma coisa,
ainda os instrumentos, diz
dentro Timante)
Tim. Céus dai–me agora
favores,
amigo dai–me soccorro,
da morte livrai Dircea.
Vozes. Tiranos morrei todos.
Outros. Traição salvemos as
vidas.
(Vem saindo com espadas os
guardas, e os Sacerdotes
descompostos, deixando cair
alguns
instrumentos
do
sacrifício
dentro
haverá
estrondo, e Corisco virá com
a espada nua atraz de Pantufo
para lhe dar)
Cor. Agora aqui faço molho.
Pant. Olhe que eu não sou da
bulha.
Cor. Pois sou, ou não sou
Apolo?
Pant. Seja embora o que
quiser.
Cor. Pois eu já que hoje te
encontro
quero ser malho, e fazer-te
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
esta cabeça em um bolo.
(Vai–lhe dando, e Pantufo
fugindo) 148
ACTO III
(Sahe Pantufo embuçado em
um capote com a espada
debaixo)
Pant. O tal Apolo de droga
veio aqui para esta parte:
Oh lá meu dito, meu feito,
lá está deixando lograr–se
a tola de minha filha!
Ah moças, como sois faceis,
que com qualquer gatimanho
logo vos embasbacastes.
Cor. Faisca lá vem teu Pai
com feitio mui galante.
Faisc. Então vou-me embora,
fujo,
não queira ao corpo
chegar–me.
(Vaise)
Pant. Veremos agora aqui
Quem é ou não este traste.
(À p.)
Ah sou amigo, não ouve?
Cor. Com licença, vou
deitar–me
(Faz que se vai.)
Pant. Você faz que não
entende
pare aí já neste instante.
Cor. Você fala cá comigo?
Pant. Pois aqui há com quem
fale?
Cor. E que quer do seu
148
Ivi, pp. 23-24.
221
serviço?
Pant. Conhece esta
personagem?
Cor. Bem poderei conhecer,
porém não chego a
lembrar–me.
Pant. Oh lá: com que he Deus
Apollo
e em se mudando de trajes
já não conhece as pessoas.
Cor. Pois Senhor, as
Divinidades
às vezes são como a Lua,
que padecem seus
minguantes.
Pant. Pois conhece, ou não
conhece?
Cor. Deixe bem certificar-me;
ah sim Senhor, bem conheço.
Pant. Quem sou eu, diga so
traste?
Cor. É meu Sogro putativo,
Senhor Pantufo (basbaque)
(À p.)
Pant. Sabe o que venho fazer?
Cor. Alguma necessidade.
Pant. Venho rachar-lhe a
cabeça.
Cor. Eu dispenço, não se
canse.
Pant. Quero brigar com você.
Cor. Eu brigar! De mim se
aparte,
nunca na vida tal fiz.
Pant. Sim, porém lá esta tarde
pespegou-me na cabeça
muito bem os triques traques.
Cor. Isso foi por divertir-me;
e a isso brigar chamaste?
Pant. Pois que era?
Cor. Era coque nele,
foi uma curiosidade.
Pant. Pois também sou
curioso,
222
Capitolo II
e quero agora cocar-lhe;
você cuida, que eu sou tolo?
Aqui mesmo hei–de pagar-me
de quanto mal me tem feito
bem pode já preparar–se
para morrer. (Tira a espada)
Cor. Porém vou
a chamar quem me
acompanhe.
Pant. Ande para ali.
Cor. Deveras
quer brigar; deixe ir
armar–me:
brigar não tendo eu espada,
é vileza, é impiedade.
Pant. Assim me rachaste a
bola
e eu faço como tu fazes.
Cor. Já não lhe posso fugir,
e ele a cabeça me parte. (À p.)
Ora ande cá, estou prompto:
mas quero agora ensinar-lhe
uma moda de brigar,
que você talvez não sabe.
Pant. Diga, que se me tiver
conta, talvez que eu a abrace.
Cor. Primeiramente uma risca
por aqui ha–de lançar-se.
(Faz uma risca no tablado)
Nós havemo–nos de pôr
cada um de sua parte
brigaremos com bem força,
mas qualquer que a risca
passe,
fica perdendo um carolo.
Pant. É moda muito
agradável,
vamos a ela.
Cor. Pois de longe,
ponha–se lá no desplante,
em vista agora: ter mão,
passou, perdeu.
(Irse-á representando
como dizem os versos)
Pant. É verdade;
ora vamos outra vez.
Cor. Meta essa estocada, ande
atire daqui um talho,
aperte, corte esses ares,
chegue a mim, aqui mo tem,
acutile, fira, mate
tenha mão lá que passou:
deve dois.
Pant. Pois eu chegar-lhe
como posso, se você
está sempre a retirar-se.
Cor. Pois nisso Senhor
Pantufo
é que está a habilidade,
mas que seja contra mim,
quero esta moda ensinar-lhe:
ora dê-me a espada,
já lha torno.
Pant. Extravagante
por certo que é a tal moda:
tome lá. (Passa-lhe a espada)
Cor. Veja, e repare
agora esta bizarria
com que lhe prego um
sotaque.
(Dá-lhe na cabeça)
Pant. Perdeu.
Cor. Pois va descontando
agora de estoutra parte
estendo o braço, e pespego
outro coque nelle. (Dá–lhe)
Pant. Arre:
perdeu, deve dois.
Cor. Desconte.
Pant. Agora estamos em
pazes,
Vem cá a espada que eu já sei.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Cor. Para saber quanto baste,
veja mais: apanhe, tolo,
leva mais este, basbaque.
Pant. Ah que d’El–Rei que
me mata!
Corisco, com triques traques.
Cor. Anda tolo das vassouras.
Pant. Tu mo pagarás
brebante.
(Demorar–se-ão o tempo que
quiserem na risca, e vão-se e
lhe vai dando Corisco com a
espada) 149.
149
Ivi, pp. 29-30.
223
Capitolo II
224
Un’altra particolarità che vogliamo segnalare circa il personaggio
di Corisco riguarda la sua partecipazione attiva e decisiva nello
svolgersi della vicenda primaria del dramma. Il servo di questo
Demofoonte portoghese gioca, infatti, un ruolo estremamente
determinante per il proseguimento della trama metastasiana, come
avviene per il Paquete dell’Artaxerxes: è Corisco a rivelare a Cherinto
le nozze segrete tra Dircea e Timante, ed è quindi il secondogenito a
riferire al padre tale retroscena che nel testo originale veniva scoperto
a Demofoonte direttamente da Timante. Questo evento centrale
innescherà allora tutte le azioni future del re di Tracia che porteranno
alla conclusione positiva della vicenda:
ACTO
II
Cor. Já podemos ir saindo,
Senhor Querinto.
Quer. Que queres?
Cor. Quem eu? Quero sim Senhor.
Quer. Pois dize.
Cor. Quero dizer-lhe...
mas olhe que é um negócio
de muito grande interesse.
Quer. Acaba já.
Cor. Que Timante
não caza inda que arrebente
com Creusa.
Quer. E porque o dizes?
Cor. Porque ocultamente ele
é casado com Dircea.
Quer. É possível!
Cor. Podes crer-me
tanto assim, que tem um filho
já não muito pequenhete;
olhe é ele tão galante,
que diz aqui toda a gente
que se parece contigo.
Quer. Tu falas por entreter-me?
Cor. Se este segredo a bem levas,
tudo é verdade, e se queres
agastar-te contra mim,
suppõe que não percebeste,
que eu, se disse eram casados
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
225
os descaso facilmente.
Quer. Não me agasto, antes um gosto
nesta notícia me deste.
Cor. Pois eu por isso lho disse
meu amo talvez não leve
muito a bem este segredo
vir eu agora dizer-te.
Porém se Dircea morre,
e ele talvez enloquece,
que importa que eu cá também
dê com a língua nos dentes.
Ajude Senhor Querinto
a seu Irmão...
Quer. Promptamente
lhe quero dar o socorro,
vai dize-lhe... Não; detem-te,
que eu mesmo vou procura-lo
e em seu emparo oferecer-me;
defenda o Cheu seus perigos,
e os meus intentos prospere. (Vai-se)
Cor. Ser um homem chocalheiro
também é virtude às vezes,
que o vomitar é remédio
para cuchimentos do ventre150.
E allo stesso modo, sarà proprio Corisco a consegnare in seguito al
padrone Timante la missiva in cui Matuzio riferisce di un’altra lettera
della defunta regina in cui vengono svelati gli arcani dello scambio in
fasce tra il principe e Dircea, laddove nel testo italiano tale momento
cruciale veniva affidato esclusivamente a Matuzio:
Acto III
Cor. [...] eu venho por via oculta,
muito em segredo a entregar-lhe
esta Cartinha Matuzia.
Tim. Matuzio de mim que quer?
Cor. Isso dirá a escriptura;
ele acha–se retirado
por quanto o Rei morto o julga,
150
Ivi, pp. 14–15.
Capitolo II
226
e agora com muita pressa,
por ser pessoa segura,
me mandou que eu esta Carta,
te entregasse na mão tua:
fiz a minha obrigação,
e fora daqui que há pulgas151.
II.7.
Ipermestra
Il «dramma scritto in gran fretta dall’autore in Vienna»152,
rappresentato nel 1744 con il titolo di Ipermestra e del quale la
Biblioteca Nazionale di Lisbona conserva ancora lo spartito
manoscritto delle relative musiche composte da David Perez,
circolava per le sale di teatro portoghesi con il titolo di Linceo e
Ipermestra già nel 1761, grazie all’edizione dell’officina di Joseph
Filippe (fig. 24), e poi ancora nel 1783 per la pubblicazione della
famosa Oficina Patriarcal di Francisco Luiz Ameno. Certamente
l’anonima traduzione del 1761, pur se priva d’indicazione di genere
originale e di dicitura che ne riveli l’aggiustamento al gusto
portoghese, va annoverata nella schiera degli adattamenti sia per la
presenza dei servi Murteiro ed Escopeta, sia per una generale
riscrittura del testo metastasiano originario, che sin dal titolo subisce
uno slittamento della focalizzazione dalla figura eroica di Ipermestra
al tema sentimentale dei due sventurati protagonisti. Questa
dislocazione tematica è immediatamente evidente da un raffronto
degli argomenti proposti dal Metastasio e dall’adattatore lusitano, il
quale precisa con più dettagli la vicenda dei due protagonisti:
IPERMESTRA
1744
ARGOMENTO
LINCEO E IPERMESTRA
1761
ARGUMENTO
DANAO, re D’Argo, spaventato da un
oracolo che gli minacciava la perdita
del trono e della vita per mano d’un
Danâo filho de Belo, Rei de Egipto
fogindo de Egisto seu Irmão, se
refugiou em Argos; donde expulsando
151
152
Ivi, p. 35.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1024.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
figlio d’Egitto, impose segretamente
alla propria figliuola di uccidere lo
sposo Linceo nella notte istessa delle
sue nozze. Tutta l’autorità paterna non
persuase alla magnanima principessa
un atto così inumano; ma neppure tutta
la tenerezza di amante poté trasportarla
giammai a palesare a Linceo l’orrido
ricevuto comando, per non esporre il
padre alle vendette d’un principe
valoroso, intollerante, caro al popolo ed
alle squadre. Come, in angustia sì
grande, osservasse la generosa
Ipermestra tutti gli opposti doveri e di
sposa e di figlia, e con quali ammirabili
prove di visrtù rendesse finalmente
felici il padre, lo sposo e se stessa, si
vedrà dal corso del dramma153.
227
do Trono a Estenelo seu legitimo
herdeiro, se fez absoluto Senhor
daquele Reino: soube depois pelo
Oraculo que um de seus sobrinhos filho
de seu Irmão Egisto o havia destituir do
Imperio, e despojar da vida; e não
sabendo de qual vinha oriundo o
receio, com dissimulo tratou de casar
suas filhas com os sobreditos,
mandando-lhes solemnizassem a glória
do himeneu com sanguinolenta
hostilidade, matando logo na primeira
noite cada uma a seu esposo. Todas
executarão a sublevação recomendada
pelo Pai, excepto Ipermestra, que fiel, e
constante amava a Linceo: este (salvo
por ela) cumpriu as predições do
Oraculo, privando a Danâo do Reino.
Na alusão e figura do sucesso, por se
não verem demasiadas hostilidades e
para dar lugar a varios afectos, se finge
se lhe deu o perdão, como se verá no
fim do Comico contexto154.
Le differenze interne alla traduzione della fabula originaria rivelano
insomma vistose discrepanze, a partire dalla presenza di altre sorelle di
Ipermestra esecutrici del violento comando paterno sui rispettivi
mariti, tutti fratelli di Linceo e tutti nipoti di Danao, elementi
completamente assenti in Metastasio. Il traduttore portoghese, inoltre,
permette ad Ipermestra di rivelare il tragico segreto all’amato Linceo,
che in questo modo può mettersi in fuga, mentre la principessa d’Argo
riferisce al padre non solo il segreto della mancata uccisione, ma anche
della ritirata dello sposo. Ma la fantasia e l’arbitrio del traduttore
portoghese si spingono oltre. Si arriva a creare ex novo tre personaggi,
non graciosos, inesistenti nella trama primaria: Nicadro, generale di
153
Ivi, p. 1025.
Linceo e Ipermetra, opera composta em Italiano pelo Abbade Pedro Metastacio, poeta
cesareo e traduzida em Portuguez por ***, Lisboa, Na Offic. De Joseph Filippe, 1761, p. 1.
154
228
Figura 24. (BN, L. 47000 P).
Capitolo II
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
229
Danao, che in seguito si rivelerà suo traditore; Argia, figlia di
Estenelo, che agisce dietro impulso vendicativo e desiderio di
riappropriarsi del trono usurpato al padre da Danao, oltre ad essere
amante non ricambiata di Nicadro, invaghitosi invece di Ipermestra; e,
infine, Delmiro, generale di Linceo. La gelosia di Nicandro nei
confronti di Linceo, ricambiato in amore da Ipermestra, lo porterà a
mentire al suo rivale sulla sorte dei fratelli, fingendo non fossero stati
uccisi dalle rispettive mogli, e imputando ad Ipermestra l’invenzione
del delitto allo scopo di allontanare lo sposo perché invaghita di un
altro uomo. In questo modo il Nicadro lusitano ritiene di poter placare
per breve tempo il furore di Linceo per il folle comando del re d’Argo
e permettere così a Danao di prepararsi a sconfiggere il nipote.
Evidentemente il traduttore si lascia prendere la mano dal diramarsi
incessante degli intrecci, dall’accavallarsi delle situazioni, dei
sotterfugi, delle menzogne e degli equivoci, in una girandola delirante
di misfatti ed invenzioni che arriva fino alla descrizione di un Danao
ancor più sanguinario di quanto non lo abbia dipinto il poeta cesareo,
un re ed un padre che arriva ad incaricare Argia di somministrare ad
Ipermestra una coppa colma di veleno. Anche se, a quel punto, Argia
confida alla principessa di averle dato in realtà un finto veleno che
shakespearianamente le provocherà un sonno dall’apparenza mortale,
e da cui conseguono poi un finto funerale, una sepoltura fittizia nei
boschi e la falsa diffusione della notizia della sua morte. Sulla falsa
riga di quella che a tutti gli effetti diventa parodia della più nota
tragedia degli amanti veronesi, Linceo scopre il tumulo dell’amata,
ignaro dei reali trascorsi finché, disperato in atto d’uccidersi, viene
fermato dall’apparir di lei al culmine di un crescendo drammatico già
noto. Un arbitrio totale che, come riporta José da Costa Miranda, fu
sottoposto a netta censura:
Denunciam-se as situações absurdas oferecidas na tradução portuguesa;
denunciam-se a falta de rigor e a ausência de lógica na arquitectura da obra;
defende-se a lingua portuguesa das impropriedades apresentadas pelo texto;
defendem-se as páginas de Metastásio. Escrevia o censor, resumindo
situações que, no seu parecer, invocava e retratava: «A Opera intitulada
Linceo e Ipermestra que se diz traduzida em Portuguez do Original Italiano
de Metastasio he indigna de se imprimir, pelos abusos e frioleiras que
230
Capitolo II
contem, e que eu julgo forão todas forjadas no corrupto cerebro do
Traductor»155.
E come se tutto ciò non fosse sufficientemente originale, come se il
testo di partenza non fosse già sufficientemente irriconoscibile, ecco
che il nostro adattatore portoghese non omette neppure l’intreccio dei
due graciosos, impegnati in una ridicola serie di scaramucce e
stuzzicamenti tra l’infastidito e il compiaciuto, con la solita insistenza
sul doppio senso onomastico («Murt. […] eu Senhor, chamo-me
Murteiro./Danâo. Murteiro? Esquisito nome!/Murt. È muito boa peça:
em mim, é apelativo; porque para a minha natureza, não é muito
proprio./Danâo. De que sorte?/Murt. Porque dá-se melhor em
naturezas ardentes, que em génios fleumáticos: é muito bom para
quem é fogoso, e eu sou muito pachorrento»)156.
Linceo e Ipermestra (1761)
Acto I, cena II
(Murteiro e logo Escopeta)
Murt. Entrando, e saindo por estas salas à custa das minhas solas, ando feito
alma em pena neste Palácio, sendo todo o meu purgatório andar atrás de meu
amo: o que mais é, que as chamas de amor me abrasam, e não sei já quando deste
incêndio apurado terei a glória de ver aquela semideusa lacaial, que aparecendo–
me nesta terra, me pareceu coisa vinda do Cheu. Queira Plutão, que à pena do
sentido se não siga a pena do damno; pois, já que morro com a culpa de adorá–
la, não quero ser condemnado a não vê-la157.
Cena III
(Sai Escopeta)
Escop. Todos casaram em Palácio, só eu não achei com quem casar. (À parte)
Murt. Já se me aliviou o tormento: seja por esmola o sufrágio: quem tivera todas
as horas esta indulgência! (À parte) Ai menina, se morre por casar, não acabe
155
J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit., p. 137.
Ivi, p. 58.
157
Ivi, pp.13-14.
156
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
231
sem esse sacramento: aqui estou eu, que farei mui bem o papel de marido;
porque já tive varios ensaios no matrimonio.
Escop. É escusado; que para mim é V.m. bem fraca figura.
Murt. Escuta tu a primeira relação dos meus afectos, e logo saberás o amante
que represento.
Escop. Olhem voches o boneco, querendo ser coisa viva.
Murt. Se tu és cruel, eu tenho obrigação de ser desarmado? Mas sabes tu os
espiritos, que eu tenho.
Escop. Vade retro: Deus me livre de tentações: vá-se V.m. depressa deste quarto,
antes que nele appareça El–Rei.
Murt. Se ele, para te ajudar nos rigores, por ti é pedido; porque não ha–de
aparecer no quarto? Faze-te antes só: que eu terei nele muito tento.
Escop. Vejam com que se vai descartando; V.m. comigo não tem entrada.
Murt. Não digas tal: não vês que me dás de mão, e que já agora, por isso mesmo,
hei–de entrar a contas com o jogo da fortuna?
Escop. Não passe a mais: e tomara deitá–lo fora, antes que o achassem aqui
dentro.
Murt. Pois não era mal achado; que há muito por ti ando perdido: e tanto, que
desejava achar–te, só porque tu desses conta de mim.
Escop. Isso farei eu, se lhe chegar a pôr as mãos.
Murt. Bem tomara eu, que tu as deras, vencida das minhas finezas; e se nelas
está toda a ganância do meu risco, para que tens mão na minha ventura? Olha,
não faças força por noivo, que eu tenho bom jeito para ser teu marido.
Escop. Dá-me vontade de rir: bom jeito? De que forma?
Murt. Pois não me vês todo inclinado? Com que, além de seres às minhas
palavras surda, te queres afectar, a olhos vistos, cega?
Escop. Não. Muito bem vejo o quanto indigno o fez a natureza dos meus favores.
Murt. Eu hei–de pagar os descuidos alheios? Emenda tu esse defeito com
encobrires a minha falta, inda que ofendas a natureza: e se me achas impróprio
para amante, sabe, que para marido, outro não has–de achar mais natural.
Escop. Por aí não me vence; porque é muito natural em quem pretende, afectar–
se benemérito: se o quer ser, faça–se bem quieto por outra parte; que em quanto
tiver essa cara, toda a moda frança lhe ha–de fazer focinho. (Vai-se)
Murt. Espera, que eu já fiz mudança no rosto com a fofiçe do Elogio: mas foi–se
chamando-me nomes, em fraze de desdém, está bonito! Fora com o testemunho,
que deita a cara abaixo!
ARIA
Que terá este focinho,
Que lhe chamam desconforme?
Eu sou feio? Eu sou enorme?
É mentira, é testemunho,
É falso, não pode ser.
Sou gentil, e o mais é pulha:
Capitolo II
232
Sou bem posto, sou direito:
Cá em mim, não há defeito,
Que torpe me faça ser.
Ora vamos mudar de semblante, e pedir a quem tenha muitas caras, para outro
encontro uma delas emprestada. (Vai se) 158
Cena VII
Murt. Por mais que ronde este quarto da Princeza, com quem se casou meu amo,
não é possível topá–lo: este Príncipe será invisível? Pois eu não gosto de
Fantasmas: bem basta o medo que trago deste Rei; que deveras, me parece coisa
má; e bom fora, Murteiro, que te deixasses de emprezas amatorias, antes que,
pondo-te tanto a ponto nos amantes combates, te vejas suspenso no ar sem te ser
possivel dar a tua descarga: mas, senão temes ficar encordoado, quando te
tocarem a fogo, vai ver se pilhas aquella escopeta para te defenderes na primeira
investida.
(À parte)
Escop. Senhor Murteiro!
Murt. Senhora Escopeta?
Escop. V.m. segunda vez dentro do quarto da Princeza?
Murt. Dos quartos de meu amo posso saber alguma coisa; porque também entro
no seu Regimento; mas dos quartos da Princeza, te confesso, que não sei coisa
nenhuma.
Escop. Pois, V.m. certamente morre, se o acham neste sítio.
Murt. Bem desnecessario é o tirarem-me a vida; porque eu já não tenho alma.
Escop. Se está morto, para que vem conversar com gente viva?
Murt. Eu andava morto por te ver; e tanto que te vi, logo me entrou uma alma
nova.
Escop. Viva muitos annos: e agora, com essa viveza, que pretende?
Murt. Que renascido no teu agrado me sustentes com as tuas promessas, para
que viva da minhas esperanças.
Escop. Faça pela vida; que V.m. tem bom corpo para homem de ganhar.
Murt. Já não posso com a carga dos teus desprezos: e te confesso que bem
cansado ando com a minha inclinação.
Escop. Pois deixe–se de pezos, que poderá render.
Murt. Rendido estou eu; e só a solda dos teus carinhos poderá unir a rotura, que
me fazem os teus desdéns.
Escop. Ai Senhor, para que são quebraduras de cabeça, eu me retiro para lhe
desvanecer as prezunções em que se funda. (Faz que se vai)
Murt. Com que, vais-te assim, sem mais, nem menos?
Escop. Pois, que mais quer?
158
Ivi, pp.14-17.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
233
Murt. Que, já te disse o menos, ouças agora o que é mais: eu queria, esquiva
Escopeta, que já que na recamara da tua tirania me vês posto à mirra das tuas
finezas, não foce todo o teu ponto disparar tantos rigores…
Escop. Valha-o uma grande bala.
Murt. Para que me largas todo esse fogo? Se já sou todo um Etna nos meus
ardores.
Escop. Pois fique ardendo; que V.m. bem merece que o queimem.
DUO
Escop.
Murt.
Escop.
Murt.
Escop.
Murt.
Ambos
Escop.
Murt.
Escop.
Murt.
Ambos
159
Abrase–se embora.
Nas chamas se queime,
E mais não ateime
Comigo em amor.
Se tu deste incêndio
Ateas o fogo,
Porque não dás logo
Remédio ao ardor?
Acudam com bombas,
Que o fogo ateou.
Mais fogo não faças,
Acode tu só.
Se sabes que a chama
Não posso apagar…
Se vês, que este lume
Me quer abrasar…
Da minha ruina,
Porque não tens dó?
Eu não; que não vejo
Arder essa chama.
Eu sim; que quem ama
Só sente o ardor.
Venha água, e mais água
Apague-se já.
O pranto dos olhos
Um mar te dará;
Mas não; que este fogo
Somente; um favor
O pode apagar. (Vai-se Escopeta)159
Ivi, pp. 28-32.
Capitolo II
234
Cena VIII
Escop. Não aparece esta Princeza, nem morta nem viva: não sei, se está preza, ou
se está no seu quarto fechada. (À parte)
Murt. Também tu, tirana Escopeta te fechaste no castelo da tua esquivança, sem
que fosse bastante a conseguir os teus rendimentos, nem ócio que te põem os
meus disvélos, nem o assalto que te dão os meus agrados.
Escop. Deiche-se disso; que esta praça não se conquista.
Murt. Se eu visse mais tíbios os teus rigores, pelo flanco da tua atenção, eu
abriria brecha na tua tirania.
Escop. Eu dava-lhe de concelho, que levantasse o campo.
Murt. Não cuides, que os meus afectos, ainda que esfomeados da tua
correspondência são tão fracos, que padeçam desmaios na esperança dos teus
desenganos, antes é Antheo o meu amor, que prostrado no choque dos teus
enfados, se levanta com mais forças para vencer os teus desprezos.
Escop. Não tem que trabalhar comigo; que já mais ha–de vencer-me.
Murt. Não me hei–de desenganar, em quanto Cupido me assistir com as suas
flechas.
Escop. V.m. é muito forte flecheiro.
Murt. Mas, nem por isso, disparando pelo arco da minha fineza as setas dos
meus agrados, te posso acertar no peito para te ferir no coração.
Escop. Ora diga-me, e tinha tão mau coração, que queria, que eu morresse?
Murt. Oh Escopeta, se eu te vira morrer por mim, era capaz de morrer.
Escop. Bom olho, que tal veja, va-se daí: com que, esse é o bem que me quer?
Murt. Por te querer bem; por isso te pões mal comigo? Mandando me embora?
Está galante! Com que, tu querias matar, e não querias morrer? Olha, morre
comigo, e iremos muito anjinhos ao Cheu.
Escop. Va-se daí, não me faça tão inocente.
ARIA
Eu morrer por quem me mata?
Isso não, tome uma figa,
Tome, tome, e não prosiga;
Porque não lhe hei–de querer
Quer carinhos? Quer um dardo?
Quer, que eu morra? Cachamorra
Só você acabe, e morra.
Já que morta, me quer ver. (Vai-se)
Murt. Como rezas, medres: é bem dura dos fechos esta Escopeta: eu entendo,
que todo o seu ponto é tratar-me aos coices, fazendo tiro para outra parte; mas
não ha–de ser assim; que ainda que ela se preza de saber atirar ao alvo, eu
também me desvaneço de lhe saber andar pelo alcançe. (Vai-se) 160
160
Ivi, pp. 60-63.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
235
Cena IX
Murt. Espera tu; que eu te direi o que entendo.
Escop. Não entenda comigo, e deixe-me; que vou saber de minha Ama.
Murt. Tomara eu, que tu deste teu criado souberas tanto, quanto eu sei de tua
Ama.
Escop. Ora, meu Murteiro, se sabes, dize-me; que eu to saberei agradecer.
Murt. Paga-me tu aqui em carinhos, quanto eu te endividar em notícias?
Escop. Não te fias em mim? Eu sou mulher branca.
Murt. E tão branca, que até em branco deixas as minha pertenções.
Escop. He que tu não sabes atirar ao alvo.
Murt. Mas não é porque deixe de fazer bem a pontaria: ora, ingrata Escopeta,
será já tempo de prostrarem a muralha desse peito as balas dos meus carinhos,
donde entrando victorioso no saque dos afectos, mas enchas de despojos dos teus
agrados?
Escop. Não me ponhas outro cerco de destemperos.
Murt. Oh esquiva Escopeta, que quanto mais a tiro me tens dos teus favores,
mais me dás com o chumbo da tua ingratidão.
Escop. Pois não me faça você derramar nestes desagrados; que já lhe disse não
era o ouvido desta Escopeta para escutar os arrojos atrevidos da boca desse
Murteiro.
Murt. Pois é atrevimento dizer, que por ti não tenho sossego, e não é insolência
achar-te sempre posta no descanço?
Escop. Muito pouco tenho para agora te aturar.
Murt. Mas até quando has de aturar nos teus desdens?
Escop. Até que tu mereças os meus bichancros.
Murt. Pois eu posso fazer mais, do que pôr-me em risco, de que, sem ser
despachado, me levem prezo, achando-me em Palácio como coisa de
contrabando?
Escop. Olha, guarda-te, não te malsine eu, dizendo a El–Rei que tu és Murteiro
creado do Senhor Linceo.
Murt. Isso sabe ele já: se tu lhe dissestes, que te servia a ti, então é que eu
receava o ficar por perdido: mas olha, se o fazes pela parte, que da malsinação te
toca, deixa a chocalhice; que eu quero antes, por não pagar o tresdobro, dar-te
toda a fazenda.
Escop. Não atendo a essa conveniência; que tu para mim es droga.
Murt. E tu sempre dura, que na Alfândega de Cupido queres fugir, de que te
ponham o selo.
Escop. Eu sou mesmo do Reino, não preciso despacho, e tu vieste de fora, has–
de pagar os direitos.
Murt. Ai filha, direito, e mais direito: não percas o que é teu; podes mandar
recolher este fardo de carinhos no Almazem das tuas meiguices.
Escop. Não contrato em fazenda, que tem tanta traça.
Murt. Mas ainda não pude dar traça, a que te contratasses comigo.
Capitolo II
236
Escop. Contratos contigo? Se for cousa de lucro, talvez que me ajuste.
Murt. Olha, se tu quisesses ser minha companheira, ficava isso bem ajustado.
Escop. Companheira? De que modo?
Murt. Dando as mãos para a sociedade e fazendo liga no negócio.
Escop. Nada, meu Murteiro; que eu para essas coisas sou muito atada.
Murt. E tão atada, que ainda te não desataste com o despacho da minha
pertenção.
Escop. Isso tem vagar: espere, se quiser; porque ainda não fiz eleição; que em
coisas de Matrimonio é muito necessárias a consulta.
Murt. Por votos é que se não chega a casar: olha, Escopeta, deixa te de
consultas; que para mim não há justiça; porque se a venho buscar ao
Desembargo deste Paço, tu a cada passo me estás embargando: se a busco na
mesa da tua conciência, tu, sem consciência, me deixas em jejum da minha
ventura: com que, Escopeta, o meu voto era, que sem consultares o caso, te
resolvesses a casar comigo.
Escop. Pois hei–de casar, sem eleger marido a meu gosto?
Murt. Não escolhas, que é peior, seja aquele, que estiver mais à mão, e demais
que sujeito has–de achar, que compita comigo? Olha, como eu, não há coisa
semelhante.
Escop. Não te gaves, que ninguém te quer, tomara eu saber, os predicados em
que te fias.
Murt. Ora escuta, que tos digo.
ARIA
Eu tenho bom génio,
Eu sou mui galante,
Eu sei ser amante,
Eu sou muito meigo.
Eu sou mui cortês.
Não sei que mais tenha
Para desempenho;
Mas eu culpa tenho
De que com remoques
Na cara me dês.
Escop. Nada disso me contenta; porque tu não me agradas. (Vai-se)161
Acto III, cena IV
Escop. […] quero ver, se no Exercito do Senhor Linceo acho algum soldado, a
quem me renda inclinada. (Vai dando as costas) 162
161
162
Ivi, pp. 78-82.
Ivi, p. 101.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
237
Cena V
(Murteiro vestido de Soldado)
Murt. Com tanta quebra nas servantias de Cupido, só servindo a Marte me
poderia ver soldado: ora Escopeta, se me visse agora, se poria em mim os olhos?
A melhor coisa que me acompanha é a borracha, não falando em algumas das
outras, que de boas tem pouco; por serem já para os assaltos muito usadas: esta
baioneta é boa pessa para meter na boca de Escopeta, em paga de desembocar
desdéns às cargas: esta cartucheira é boa para guardar pão de munição nas
emboscadas: à mochila guardo muito respeito; pois lho devo ter; por ter sido
lacaio: ora estou bem posto; mas para ser boa sentinela, falta-me a minha
Escopeta: eu entendo que ela aqui veio assentar praça; porque com medo de que
a rendesse, desertou de palácio. Oh! Cá anda no campo, ora vamos fazer o
costumado exercício.
Escop. Tomara ver já este Reino em boa paz.
Murt. Mas nem por isso fazes com que acabe a nossa guerra.
Escop. Murteiro, tu aqui, com esse habito?
Murt. Não é o que tu me deste pelos serviços que te fiz.
Escop. Se tu me servisses, eu te daria algum aumento.
Murt. Bastantes vezes quis eu entrar na tua companhia, mas tu nunca te servio da
minha sociedade: ora dize, que vieste buscar a este sítio?
Escop. Eu vim buscar–te.
Murt. Nunca eu andara perdido; mas se já me achastes, sejão as alvíssaras a
palavra de cazamento.
Escop. Não se casão as tuas palavras com o meu gosto.
Murt. Pois não é porque necessitem de dispença; porque bem sabes não
contrahem parentesco, e para desengano, basta ver o quanto diferem as minhas
palavras tão claras do teu negro gosto.
Escop. Se lhe chamas negro, não é para ser escravo de ninguém.
Murt. E se agora, por ocasião de guerra to captivasse, terias tu a liberdade de me
fazer mais desprezos?
Escop. Pois tu tinhas forças para me prender?
Murt. Para te prender, não era necessario força, basta jeito; mas este não tenho
eu para te atar de pés e mãos, e fazer com que sejas escrava de Cupido.
Escop. Ainda te não desenganaste? Ora o certo é que andas vendado.
Murt. Ai, Escopeta, vendado e vendido; porque tu, tanto que na minha
escravidão me viste ficar como um preto, logo me puseste em venda.
Escop. Enganaste; que eu, em te desprezar, te deixo forro.
Murt. Que importa, se ainda me não vejo livre deste amante captiveiro: ora dize,
será este o dia, em que estes negros afectos vão ter o seu amante bangalé à boa
vista da tua aceitação?
Escop. Ora, acomoda-te, e não fales nisso, meu soldado.
238
Capitolo II
Murt. Eu me acomodarei contigo à soldada, já que tu, deixando-me em branco,
queres que do meu captiveiro fique forro.
Escop. Olha, tu lá me vás parecendo muito bom moço.
Murt. Não me chamaste tu moço bem parecido, quando descaradamente me
diceste que tinha má cara; mas não te quero lançar já isto em rosto, porque vejo a
minha pertenção bem assombrada: olha tu também me pareces bem estreada
rapariga.
Escop. Benza-me Deu, e faça-me o favor de me não dar olhado.
Murt. Mas quero ver–te, só para te dizer sempre, bons olhos te vejão: ora dizeme, como me vieste parar às mãos, andando tão fugitiva dos meus braços?
Escop. Viemos ter com a senhora Ipermestra, eu e a senhora Argia, fogindo
daquele maldito Rei que, inimigo de casados, mandou matar aos sobrinhos,
depois de recebidos.
Murt. Ora é certo que há males que vem por bens: vê tu se estou casado contigo,
em que leito estou a estas horas descançando; passa fora!
Escop. Ora dize, que fazes tu neste campo desta sorte armado?
Murt. Para me defender dos teus rigores; pois quanto mais me foges, mais me
matas; porque querendo a peito descuberto da minha inclinação conquistar os
teus repúdios, posto na frente de minhas meiguices, me deste com a tirana
retaguarda das tuas costas.
Escop. Pois não sejas tão violento nos teus choques, para que assim me não
retire.
Murt. Pois, como queres, que te queira?
Escop. Como escudeiro e não como soldado, que assim tenho medo que o teu
amor seja bandoleiro.
Murt. E para que fazes disso diferença, si accidens non muta substantiam?
Escop. Como é isso?
Murt. Se eu o não entendo, como to hei–de explicar? Digo que te quero, e que te
amarei como quiseres.
Escop. Pois sabe, que ainda agora te principio a querer.
Murt. Se ainda agora no cabo principias, eu já por fim no principio muito te quis:
mas qual, não creio; isso é ópio da namoratoria que me fazes, só para com
enganos me venceres.
Escop. Como queres que to diga, chorando ou cantando? Ora, para que saibas,
que das tuas prosas estou vencida, eu to certifico com mais clareza.
ARIA
Já podes com gosto
Correr e saltar.
Eu quero casar,
Façamos as pazes
Da Guerra de Amor.
Sossega meu dengue
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
239
Descança, sou tua;
Mas sabe, à tabua
Mandar-te bem posso
Se fores traidor. (Vai-se)
Murt. Ora vamos pendurar este Trofeo no Templo do amor, como premissas da
guerra matrimonial, mas aí vem o capitão mandante, ouçamos as ordens já que
sou soldado163.
Cena IX
Escop. Não tenho animo para ouvir estas coisas.
Murt. Pois escuta outras, que serão de teu gosto, se não estiveres de outro animo.
Escop. Se são de meu gosto, já me animo a ouvi–las.
Murt. Pois sabe, que eu queria animasses mais os meus intentos.
Escop. E que tens tu intentado?
Murt. Não me animo a dizer–to; porque não sei se te casarás com meu animo.
Escop. Se já me resolvi a amar–te, porque não hei–de atender–te?
Murt. O meu animo, Escopeta, é casar contigo; pois me parece já tempo de irem
estas duas armas de fogo descançar da passada guerra no armazem de Cupido.
Escop. Não sabes que ainda temos de dar a salva ao senhor Linceo e à senhora
Ipermestra, que logo hão–de ser aclamados por senhores deste Reino?
Murt. Como me não importa mais que o meu estado, não me lembro do alheio.
Escop. Pois, não te faças alheio daquilo que é tua obrigação.
Murt. Pois, se estou obrigado, não é bem que seja desagradecido: Vamos dar de
vivas a nossa descarga, e logo tomaremos a carga do matrimonio.
Escop. Não sei quem ha–de poder com este peso. (Vai-se)
Murt. Olha a tola; eu, que sou rijo, como um ferro. (Vai-se) 164
Cena X
Murt. […] Senhor Linceo, V. Alteza, que dá Reinos, também há–de fazer
mercês.
Linc. Que pedes?
Murt. Eu queria me fizesses doação desta Escopeta, que me arma muito (agouros
fora) para a vida matrimonial.
Linc. Eu ta concedo.
Escop. Senhor Murteiro, eu lanço mão da palavra.
Murt. E eu, confiado naquela palavra, te dou a mão165.
163
Ivi, pp. 101-106
Ivi, pp. 123-124.
165
Ivi, p. 130.
164
Capitolo II
240
II.8.
Temistocle
Anche il caso del Temistocle, opera per la quale Metastasio stesso non
accettò mutamenti e riduzioni di sorta166, è stato studiato con
particolare attenzione da Giuseppe Carlo Rossi, il quale, oltre a
riportare in un suo studio già citato l’esistenza di tre edizioni
dell’adattamento relative al 1755, al 1765 e al 1775, arriva anche a
definire la graciosa di questa versione attribuita all’Ameno, per le
astuzie della sua psicologia femminile e per la forza drammatica
impressale dal suo autore, come «uma das figuras mais interessantes e
engraçadas que o teatro português introduziu nos originais
metastasianos»167. Benché qui si debba registrare anche un altro
testimone a stampa datato 1818 «Fielmente Traduzido em Portuguez»,
come recita il suo frontespizio, l’opera cui lo studioso faceva
riferimento è da noi stata analizzata nell’ultima edizione del 1775,
corredata di Argumento e prodotta nell’officina di Manoel Coelho
Amado (fig. 25). I due servi in gioco compaiono con nomi del tutto
singolari e, come si vedrà dall’etimologia, perfettamente intrecciati tra
loro: da una lato Alcaparra, “oliva snocciolata”, dall’altro Perrexil,
“aperitivo”. Tali definizioni nascondono al loro interno una seconda
significazione etimologica pensata allo scopo di legare i due
personaggi in un gioco comico–verbale particolarmente interessante.
Alcaparrado è, infatti, sinonimo di pessoa desenfastiada, spigliata,
divertente, ma è anche qualcosa di stuzzicante, appetitoso, così come
Perrexil potrebbe richiamarsi a perrixil o perregil, colui che
intrattiene, che diverte, che stuzzica la curiosità e ravviva l’atmosfera
conviviale. Insomma, un’unica grande metafora psico–gastronomica
scientemente elaborata dal traduttore allo scopo di unire i caratteri
166
Si veda il parere espresso alla contessa di Sangro nella lettera del 29 gennaio 1753: «Il
Temistocle non potrà mai servire opportunamente per opera d’estate. Quando non fosse
necessario mutilarlo, sarebbe barbarie degna d’Ezzelino o di Mesenzio l’obbligare un padre a
storipiar di sua mano il proprio figliuolo. Barbarie poi non meno inutile che inumana, perché
o si pretende di purgar l’opera de’ suoi difetti, o di adattarla al tempo, agli attori, al teatro e
alle circostanze del paese in cui si rappresenta. Nel primo caso è vano il dimandar correzione
a chi non ha conosciuto gli errori quando l’ha scritta; e nel secondo un Burchiello presente
sarà molto più utile che un Sofocle lontano» in P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 790.
167
G. C. Rossi, A evolução, cit., p. 302.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
241
Figura 25. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 242).
242
Capitolo II
dei graciosos e giocare costantemente sul doppio senso verbale delle
denominazioni.
Benché il testo in questione non riporti la consueta dicitura che
legittima l’adattamento al gusto portoghese, e sebbene il traduttore
rispetti sostanzialmente la ripartizione tra atti e scene proposta dal
Metastasio, solo la presenza della vicenda amorosa tra i servi permette
d’inserire tale versione dal semplice titolo di Themistocles tra i classici
adattamenti al gusto portoghese finora analizzati. L’imponente
presenza nell’impianto originale di questa relazione suppostamene
sentimentale va ad intaccare, tuttavia, alcuni momenti decisivi
all’evolversi logico della trama tradotta dall’italiano, sia sottoforma di
commenti “a parte” del tutto ininfluenti rispetto alle questioni dei veri
protagonisti, sia, in altri casi, a livello d’interazione con i protagonisti
medesimi, ora sottoforma di consiglio, ora sottoforma di richiesta. Nel
primo caso, Alcaparra spezza il melodico avvicendarsi di battute tra
Aspasia, figlia di Temistocle, e Rossane, amante del re Serse, con
un’invadenza che non contribuisce in nessun modo ad arricchire il
dialogo tra le due, ma che certamente immaginiamo di grande presa
comica sul pubblico presente, dato trattarsi niente meno che di
massime nazional–popolari, evidentemente di uso comune e
quotidiano, ma perfettamente estrapolabili dalla scena senza danno per
la linearità logica del testo:
Acto I, cena IV
Alcap. (Não há cousa mais peçonhenta que uma mulher com ciúmes.) (À parte)
[…]
Alcap. (É próprio em quem está culpado fazer-se amarelo.) (À Parte)
[…]
Alcap. (Sempre ouvi dizer, que quem o seu peito descobre, a si proprio se
condemna.) (À Parte)
[…]
Alcap. (Mas do amor nasce a piedade, ou está de interesse.) (À Parte) 168
Naturalmente anche Perrexil in più occasioni riveste tale funzione
di commento delle azioni dei protagonisti del dramma principale:
168
Themistocles, Opera composta em Italiano por Pedro Metastasio, e traduzida em
Portuguez Por***, Lisboa, na Officina de Manoel Coelho Amado, 1775, p. 6.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
243
Acto I, cena XI
Perrex. (E vem o inocente meter-se na boca do lobo! Forte asneira!)
[…]
Perrex. (É boa pachorra!)
[…]
Perrex. (Quem tal dissera! Estou pasmado!) 169
Il successivo intervento della criada di Rossane avviene proprio a
commento e giudizio dei casi della sua padrona, la quale, passando i
suoi giorni nel tormento per temere Serse invaghito di Aspasia,
dimostra, a parere della serva, un’ingenuità in fatto d’amore quasi
irrecuperabile. Alcaparra, al contrario, comparando quella semplicità
al carattere del tutto smaliziato delle donne che come lei hanno
maggiore dimestichezza con le strategie del corteggiamento,
proporrebbe per Serse la finta indifferenza che innamora:
Acto I, scena VII
Alcap. Quanto custoso é servir a uma mulher com ciúmes! Todo este
palácio anda da cor deles: tudo é confusão. Mas que cor têm os ciúmes? O
que entendo é que eles tiram a cor a quem o tem. E que culpa tenho eu em
que Aspasia nascesse mais formosa, e que por isso seja mais querida, para
eu pagar as custas dos repúdios que minha ama em El–Rei experimenta?
Sente-se desprezada, despreze-o também, que é um bom remedio para
tornar a ser querida: eu sei que com ele tem melhorado muita gente. Um
desvio, com outro se castiga; e se houver algum amor, pode ser que sirva
depois de estimá–lo para maior agarração. Estas Senhoras o que querem é
que tudo lhe obedeça logo. Não, com o meu Perrexil sigo eu outro
caminho170.
Acto II, cena IV
Rossan. Não servem já lisonjas, triumfa Aspasia.
Alcap. Senhora, que seja possível que merecendo-te eu tanto amor, não te
mereça aceitares o meu conselho? Se El–Rei te desdenha, desdenha-o
também, que em pouco tempo o verás obediente ao teu querer como um
cordeiro.
169
170
Ivi, pp. 11-12.
Ivi, p. 7.
244
Capitolo II
Rossan. Poderá ser algumas vezes útil o teu conselho: esse é o meio para
fazer aumentar o afecto, mas duvido que seja capaz de o fazer nascer. Se
Xerxes me tivera algum amor, talvez que o desdém o estimulasse a quererme mais; mas como estou persuadida de que me não ama, receio que mais
eficaz incentivo para me deixar de todo.
Alcap. Não digo que o desdém seja tal que chegue a parecer desprezo, mas
sim que te mostres menos amante: dá a conhecer que lhe queres bem e
finge que não tens pezar de não ser querida. Apparece-lhe em forma de
relâmpago. Mostra-te desapaixonada, e se a ocasião o permitir, dá a
entender que já tens quem te mereça os agrados.
Rossan. Néscia, tal não profiras. As pessoas da minha qualidade e esfera,
não obram dessa forma. Experimentar com agravos o amante é crueldade, e
não amor, nem pode ter alma para amar quem tem valor para ofender.
Alcap. É melhor andar padecendo repúdios, chorando ingratidões, e
sentendo esquivanças toda a vida?
Rossan. Antes a quisera perder de todo, de que se entendesse que eu tinha
tão vís espíritos.
Alcap. A necessidade não tem lei, e as vontades também assim se
conquistam.
Rossan. Em uma tal conquista sempre eu ficaria perdendo. Aqui vem a soberba
Aspasia171.
Un tema ricorrente nei dialoghi tra graciosos in genere, e che nel
caso di questo adattamento viene espresso in maniera del tutto
esplicita, è la visione misogina presente nella società portoghese
dell’epoca, comunicata sia da Perrexil quando, origliando un pensiero
ad alta voce di Alcaparra nel quale la ragazza si dichiarava incline al
criado ma intenzionata a tenerlo costantemente sulle spine, giudica
negativamente le arti seduttive femminili in questi termini «O caso é
que somos uns patetas todos os que cremos em mulheres. À custa da
minha experiência tenho o desangano desta verdade»172; oppure
quando, a proposito di Rossane, esclama frasi del tipo «…mulheres
têm cara para tudo»173. Ma anche per bocca della stessa Alcaparra, nel
momento in cui il servo pretendente la contesta, dandole della falsa, e
ottenendo in risposta una tale affermazione: «Não será novidade. Sou
mulher, seguirei o meu natural. Nenhuma injuria me fazes em
chamar–me falsa; e para que me não apures mais, fica–te com as tuas
171
Ivi, pp. 20-21.
Ivi, p. 8.
173
Ivi, p. 26.
172
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
245
desconfianças»174. Occorre inoltre sottolineare che tali esternazioni
vengono collocate all’interno di una situazione potenzialmente
pericolosa, o per lo meno azzardata dal punto di vista dell’intervento
censorio, in quanto verosimilmente offensivo della figura del re in
persona, in un passaggio definito addirittura nojo, come a dire
ripugnante, disgustoso. Si tratta del motivo scatenante di tutto
l’intreccio comico tra i due servi, poiché, allo scopo di celare le reali
intenzioni di Alcaparra nei confronti di Perrexil, la ragazza finge
un’attenzione del re nei suoi confronti, anzi, un corteggiamento
insistente dal quale la sfortunata non riesce a liberarsi senza temere di
offendere la regale suscettibilità del sovrano, che pur dichiara del tutto
sgradito. Chiaramente l’empasse viene brillantemente risolta con una
netta e rapida smentita da parte della ragazza, per cui alla domanda di
Perrexil «Pois El–Rei pode fazer nojo a alguém?»175 la pronta risposta
di Alcaparra non lascia alcun dubbio sul recupero in extremis
dell’offesa: «o muito amor que te tenho, he que te dá a primazia,
fazendo que pareças muito bonito, muito frança, e engraçado, e que
El–Rei me desagrade em tudo, e por tudo»176. È chiaro, dunque, che
anche quando in un soliloquio il geloso Perrexil si metterà in
competizione con il monarca, non troveremo mai nelle sue
esternazioni irritate quella mancanza di rispetto e quel motteggio che
avremmo incontrato certamente nel caso il rivale fosse stato il normale
terzo gracioso di altri adattamenti. Si veda a questo proposito l’ottava
scena del primo atto:
(Perrexil só)
Perrex. Que dura pensão é ter amor! Não estava eu bem sossegado? Quem
me mandou tomar semelhantes trabalhos? É grande parvoice, eu o
confesso; porém nele cai muita gente boa. Estou pasmado. Que me
namorasse de Alcaparra, não é imprópria acção a um Perrexil: mas El–Rei!
Pode ser? Porém não creio. Acaso trará esta rapariga outros intentos, e se
desculpe com El–Rei? Seja o que for. Perrexil, são mãos perdidas; quem se
obrigou a amar, obrigou-se a padecer: nós havemos de examinar o ponto:
olho aberto. E se for certa a pertenção del–Rei? Que remédio; paciência:
174
Ivi, p. 9.
Ivi, p. 8.
176
Ibidem.
175
Capitolo II
246
louvarei a Alcaparra, que a galinha del–Rei há–de ser mais gorda que a
minha. Porém se for outro o desinquietador do meu sossego, fogo nele,
chapeu de plumas não consinto.
(Canta a seguinte)
ARIA
Se for certo o que receio,
O teu damno temer deves,
Pois que falsa assim te atreves
Com cautelas enganar.
Ando afflicto neste enleio,
Na incertezza da verdade:
Se te achar em falsidade,
De ti só me hei–de vingar. (Vai-se) 177
La finzione delle attenzioni del re nei confronti di Alcaparra
produrrà chiaramente le sue conseguenze durante tutto il corso della
commedia dei criados, fino a coinvolgere il personaggio di Temistocle
in un dialogo con il geloso Perrexil, nel quale l’adattatore portoghese
non solo ha pensato di mettere in luce le differenze sociali tra classi di
alto rango e subalterne, ma anche di coinvolgere l’ateniese stesso nel
contesto comico, con il compito specifico d’intercedere in favore del
servo presso il sovrano, affinché questi conceda le nozze finali tra i
due graciosos e fughi ogni dubbio circa il suo presunto interesse per
Alcaparra:
Acto I, cena XII
(Perrexil e Themistocles)
Perrex. Foi-se ElRei sem eu ter ocasião de fazer minhas observações. Andar, não
faltará tempo. Senhor. (Para Themistocles) Mas esperemos que acabe de cantar.
[…]
(Querendo ir-se, Perrexil lhe fala)
177
Ivi, pp. 9-10.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
247
Perrex. Senhor, não sabes quanto estimo ver-te, e também recebido nesta Corte;
pois quando esperava que fosses acabar miseravelmente em uma forca, pelas
diligências com que El–Rei te procurava para se vingar de ti, vejo-te na sua
maior estimação e amizade.
Themist. São variedades da fortuna. E tu quem és?
Perrex. Sou um pobre Perrexil, que com o distinto caracter de criado raso sirvo
de desfastio em Palácio; mas é tal a minha desgraça, que por mais serviços que
faça ao gosto dos príncipes, não posso melhorar de ocupação.
Themist. Não te desconsoles, que nem sempre a fortuna é adversa; e em mim
tens o exemplo.
Perrex. Ah Senhor! Quem torto nasce, nunca se endireita. Mas já que tão
entronizado estás com El–Rei, quisera merecer-te a graça de orares por mim.
Toda a minha mocidade tenho consumido nesta lambarice criadal: também
quisera dar duas figas ao demo, e aos meus inimigos, que se morderão de raiva
se me virem andar em sege.
Themist. E nesse teu emprego tens servido bem a El–Rei?
Perrex. Optimamente.
Themist. E não tens tido o correspondente prémio?
Perrex. Senhor, quem mais faz, menos merece. Dize-me: quem melhor que tu
servio a Athenas? E que prémio tiveste? O desterro, a perseguição.
Themist. Enganas-te, se cuidas que Athenas nisso me ofendeo. Mais me
lisongeio de bem a ter servido, do que sinto a ingratidão com que me trata.
Perrex. Ainda assim, quem serve quer que lhe pague.
Themist. Sim, os da tua condição. Uma alma nobre só se alimenta das suas
generosas acções, que lhe dão o melhor lustre.
Perrex. Eu quisera antes ter que comer, recebendo a ricompensa do meu
trabalho, que por sustentar uma vaidade morrer de fome.
Themist. Prometto favorecer-te se esta felicidade, que me vês lograr, não for
destruida por algum contrário acidente. Por agora recebe esta pequena dádiva,
que apenas a conservei no meu desterro. (Dá-lhe um anel)
Perrex. Bejo-te, Senhor, a mão por tão grande favor. Porém eu quisera outro
maior, e vem a ser, que peça a El–Rei que me case com Alcaparra, criada da
Princeza Rossane, que como somos miseráveis, eu lhe quero bem a morrer, e ela
me quer a mim a estalar: desejo arrochar bem o nosso amor com o apertado laço,
ou para melhor dizer com o apertucho do matrimonio, pois na verdade fará boa
união este Perrexil com aquela Alcaparra.
Themist. Está bem; não me esquecerei da recommendação. (Simples me parece
este homem.) (À parte)
(Vai-se)
Perrex. Ora faça, Senhor, essa obra de caridade. Estou contentissimo. Agora
verei se Alcaparra me ama deveras, ou se zombando me faz alguma traição.
Confesso que sou miserável. A rapariga deu-me quebranto, e por mais que o
queira disfarçar não posso. Este anel há–de servir para quando nos prendar-mos.
Bellissimo diamante! (Reparando no anel) Certamente o topázio fica a perder de
vista. E como ficará Alcaparra contente quanto o vir; que amor de mulher, e festa
Capitolo II
248
de cam, só atentam para a mão. Mas ela não o há–de pilhar sem primeiro me
estar na unha, que nesta gente não há que fiar. Ora vamos dando volta, a ver se a
encontramos. Ai cuidados: quem poderá saber se todos os que amam padecem o
que eu padeço. (Vai-se) 178
Tuttavia, quando nel successivo atto Perrexil si accorgerà che
Temistocle parlando con il re Serse non accenna affatto alle richieste
del servo, quest’ultimo non si limiterà solo ad insultare esplicitamente
l’ateniese sventurato, ma prenderà il coraggio a due mani e deciderà di
affrontare il re personalmente, seppur con esiti che si possono
facilmente immaginare:
Acto II, cena II
(Xerxe, Themistocle e logo Perrexil)
Xerx. Themistocles.
Themist. Excelso rei.
Xerx. Muito te devo ainda. Mercês prometi a quem me trouxesse Themistocles,
já o consegui, venho agora cumprir a promessa.
(Sai Perrexil)
Perrex. (A bom tempo chego: quero ver se lhe fala a meu favor, que a occasião é
boa.) (À parte)
Themist. Não são ainda bastantes tantas dádivas?
Xerx. Não. Qualquer dádiva me parece diminuta recompensa a tão grande
conquista, com que eu me considera tão vaidoso, e soberbo.
Perrex. (Agora, agora, que se confessa obrigado.) (À parte)
Themist. E querer…
Xerx. Quero desta sorte corrigir a injustiça, e a seu pezar exaltar-te. Já são tuas
desde agora Lampsaco, Miunte e a Cidade a quem rega o belo Miandro, e Xerxes
provas do justo amor com que honra o teu merecimento.
Perrex. (Quem dá Cidades, melhor consentirá em um casamento.) (À parte)
Themist. Ah Senhor! Seja mais moderato o uso do teu triumfo, e não queiras ver
a Themistocles envergonhar-se. Que tenho feito por teu respeito?
Xerx. Que tens feito? E parece-te pouco julgares-me generoso? Fiares de mim
uma tal vida? Abrir-me um campo em que pudesse ilustrar a minha memória e
dar aos meus Reinos em Themistocles só, tudo quanto tenho perdido?
Themist. Mas, a ruina, o sangue, e os estragos de que sou réu…
178
Ivi, pp. 12-14.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
249
Xerx. Tudo compensa a glória de poder honrar a virtude em o meu inimigo. A
primeira vergonha foi da sorte, e esta glória é minha.
Themist. Oh magnânimos pensamentos, dignos de uma alma escolhida, para
substituir o lugar de Jupiter! Oh afortunados Reinos sujeitos a um tal Rei!
Perrex. (Oh afortunado Perrexil com tal intercessor!) (À parte)
Xerx. Ouve. Eu quero seguir o empenho da proposta competência. Tu a tua vida
fiaste do meu poder, e eu o meu poder fio do teu valor. Serás General dos
exércitos Persianos: vem receber a insígnia na frente de todos os esquadrões, que
para esse fim estão juntos. Irás por ora castigar a insolência do inquieto Egipto, e
depois maiores emprezas tentaremos. Com Themistocles ao lado espero subjugar
o mundo todo.
Themist. E a esta tão superior demonstração chega o meu generoso Rei…
[…] (Vai-se)
Perrex. E foi-se o basbaque sem fallar a ElRei no meu negocio. O certo he, que
nem todos são para tudo; mas eu lhe farei tal perseguição, que elle não tenha
outro rimedio senão fallar-lhe. (Vai-se) 179
Cena VII
(Perrexil só)
Perr. Para aqui veio Rossane e Alcaparra, e também aqui deixei El–Rei, porém
já se foram. Tenho conhecido que é traste o tal Themistocles. Também se ele
fora alguma coisa boa não o desterrariam os Athenienses. Entendi que tinha
ganhado o bolo, e vejo-me em termos de perder a mão. Ora, Perrexil, o que tu
pode fazer, não o devas a outrem. Sim, eu falarei mesmo a El–Rei, e apure-se a
verdade. Que se me pode seguir? Mandar-me dar alguns estouros? Não será a
primeira vez que me chegam a roupa ao pelo. Melhor é isso que viver enganado
e cuidadoso. Sim, eu lhe vou falar, e venha depois o que vier. Ai cuidados: quem
poderá saber se todos os que amam padecem o que eu padeço. (Vai-se) 180
Acto III, cena VI
(Xerxes, Perrexil e depois Rossane com uma carta)
Xerx. Aonde está o meu General? O meu Themistocles aonde está? Não se negue
aos braços de um Rei que o ama.
Perrex. Desta vez lhe falo. Agora não me há–de escapar; mas não sei que faça.
Eu vou tremendo. Senhor, eu tinha que pedir uma mercê a V. Magestade, mas…
Xerx. Dize.
179
180
Ivi, pp. 18-19.
Ivi, p. 23.
Capitolo II
250
Perrex. De sorte, Senhor, que a falar a verdade eu bem sei que não sirvo para
tapete em que pisem os serenissimos pés de V. Magestade… Ah Senhor, que eu
bem sei que em primeiro lugar está V. Magestade do que eu; porém, Senhor,
uma criada…
(Sai Rossane)
Rossan. Venho, ó Xerxes, em teu seguimento.
Xerx. (Que encontro!) (À parte)
Perrex. (Sempre me perseguem estorvadores! Ainda não se quer desenganar esta
mulher?) (À parte) 181
Cena VII
(Xerxes, Perrexil e depois Sebaste)
Perrex. Eis-aqui o que é andar com acerto: deu o seu recado breve, e deixou-me
o lugar desembaraçado para também expor o meu negócio. (À parte)
Xerx. Vem a carta a Sebaste, e Oronte a escreveo. Leia-se. Oh Cheus! (Lê)
Perrex. (Parece que não ficou contente. A cartinha deve ser de queixas, e
ciúmes, que o deixou agoniado.) (À parte) De sorte, Senhor… (A Xerxes)
Xerx. Aparta-te louco. (Com aspereza)
Perrex. Sim, Senhor. (Retirando-se) (Bem entendo. Parece que se dói de que lhe
fale na coisa.) (À parte)
Xerx. Sebaste é o desconhecido author dos tumultos do Egipto, e entre tanto
fingindo ao meu lado tão grande zelo! Ele chega. E como se atreve o traidor a
apparecer-me!
Perrex. Se tem de falar em algum casamento, vem em má ocasião. (Para
Sebaste) 182.
181
182
Ivi, p. 32.
Ivi, p. 33.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.9.
251
Didone abbandonata
Eccovi la Didone abbreviata quanto si può senza farle troppo danno, e
corretta ancora in qualche luogo183.
La Didone abbandonata del 1724, “accomodata e guernita” per la
rappresentazione madrilena di qualche decennio dopo, viene tradotta e
pubblicata in Portogallo presso l’officina libraria di Crespim Sabino
dos Santos nel 1782 con il titolo di Dido desamparada, destruição de
Cartago (fig. 26), che darà luogo ad altre ristampe per le edizioni di
Francisco Borges de Sousa già a partire dal 1790 (fig. 27).
La traduzione portoghese, che procede equilibratamente lungo tre
atti rispettivamente ripartiti in tre scene in cui si avvicendano battute,
arie, recitativi, duetti, terzetti e glosse secondo l’arbitrio creativo del
traduttore, con tutta probabilità deve la sua versione alle edizioni
Bettinelli e Hérissant per comunanza di lezioni, come si può
comparare dal seguente passo:
EDIZIONE BETTINELLI
1733-58
Atto , scena III
Osm.
Il cor d’Enea non
penetrò Selene.
Ei disse, è ver, che il suo
dover lo sprona
A lasciar queste sponde:
Ma col dover la gelosia
nasconde184.
183
EDIZIONE
HÉRISSANT
1780-82
Atto I, scena III
DIDO
DESAMPARADA
1782
Acto I, cena I
Osm.
(Si deluda). Regina,
Il cor d’Enea non
penetrò Selene.
Dalla reggia de’ Mori
Qui giunger dee
l’ambasciator Arbace185.
Osmida.
Rainha, mal penetrou
Selene o coração de
Enéas: Ele sim disse
que se ausentava por
seguir o seu destino:
mas só se aparta por
não poder tolerar o
seu ciúme186.
P. Metastasio, op. cit., vol. III p. 619.
Ivi, vol. I, p. 1385.
185
Ivi, vol I, p. 8.
186
Dido desamparada, destruição de Cartago, Opera segundo o gosto do Teatro
Portuguez, Lisboa, Na officina de Crespim Sabino dos Santos, anno 1782, p. 5.
184
252
Capitolo II
Figura 26. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 112).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
253
Figura 27. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 564).
254
Capitolo II
A dimostrazione di quanto stesse a cuore agli adattatori portoghesi
del teatro metastasiano l’attenzione per la resa scenica delle arie e dei
recitativi, che avrebbe comportato minore o maggiore favore di
pubblico, occorre fare attenzione alla fedeltà estrema, priva di
interpretazioni di qualsiasi tipo, che il traduttore lusitano sceglie per
una battuta della protagonista: «Son regina e sono amante/E l’impero
io sola voglio/Del mio soglio e del mio cor./Darmi legge in van
pretende/Chi l’arbitrio a me contende/Della gloria e dell’amor»187. È
probabile che il traduttore lusitano avesse letto quel parere del Caldara
che in una nota dell’edizione Mondadori di Tutte le opere del
Metastasio viene riferito come segue: «Sono questi i versi che il
Caldara racconta aver sollevato a una rappresentazione romana (1726)
tale un grido del pubblico, “che parve si schiantasse dai suoi cardini il
teatro”»188. In altre parole, forse consapevole della presa sugli
spettatori che tali versi potevano avere, l’adattatore portoghese non ha
optato per le soluzioni originali e creative che vi sono in altre parti del
testo, ma ha semplicemente reso ad verbum le parole appena citate:
Sou Rainha, e sou amante,
Hei–de ser segundo Atlante,
Do meu Sólio, o seu valor,
Dar-me leis em vão pertende
Quem tirar-me a vida emprende
Desta glória, e deste amor189.
Chiaramente, il testo non sfugge a spostamenti, soppressioni di
intere scene e riscritture originali di versi ed interventi, come nel caso
della figura di Selene (l’Anna del testo virgiliano), di cui si sacrificano
interventi ed arie nella traduzione portoghese probabilmente per
concentrare la tensione del dramma unicamente sulla figura di Didone,
sull’ira di Arbace e sui tormenti di Enea, quest’ultimo con molti più
riferimenti alla classica attribuzione virgiliana di pius Aeneas di
quanto non compaia nel testo metastasiano (si confronti la battuta di
Enea nel riportare le parole del padre apparsogli in sogno sin dal
187
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 11.
Ivi, p. 1386.
189
Dido desamparada, op. cit., p. 8.
188
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
255
primo atto, apostrofato da Metastasio semplicemente con «ingrato
figlio»190, e dal traduttore portoghese con l’espressione «não piedoso
filho»)191. Anche qui, inoltre, non si sfugge all’azione
imprenscindibile per ogni adattamento che si rispetti dei soliti
graciosos, benchè in questo caso non costruiscano un vero e proprio
intreccio isolabile dal contesto principale del dramma di riferimento,
provando più che altro ad interagire con i protagonisti centrali e tra di
loro solo sporadicamente. A questo proposito, dobbiamo evidenziare
uno dei rarissimi casi d’intervento di un personaggio reale del dramma
metastasiano a proposito della pretesa comicità dei servi, per cui ad un
certo punto del primo atto dell’adattamento portoghese, Didone
pronuncia la seguente battuta rivolta al confidente Osmida, il quale
cercava di bloccare l’intervento dei servi Balandrau e Chamariz verso
la protagonista: «Deixai-os, Osmida, que a sua graciosidade me
diverte»192, laddove un termine come graciosidade diventa un preciso
riferimento per il pubblico alla centralità dei graciosos negli
adattamenti al gusto portoghese e sottolinea, inoltre, una
compartecipazione e conseguente approvazione di un personaggio
primario della vicenda metastasiana riguardo l’intrusione di tali parti
comiche.
Diverso è il rapporto tra Enea e il suo servo, sicuramente di minore
benevolenza, anzi di evidente fastidio per le famose loucuras de
criado che, da un lato, portano Balandrau alla canzonatura del suo
padrone e, dall’altro, ad una continua identificazione con il
personaggio “alto” di riferimento, che si traduce nel frequente
parallelismo con gli episodi più famosi dell’eroe virgiliano, com’è il
caso dell’analogia con il sogno ammonitore di Enea, riproposto da
Balandrau in questi termini: «Bal. Olha, há umas noites que sonho
com meu pai, e ele me fala por boca de ganso, dizendo assim:
Obedeces aos Deuses? (Em falsete.)/Cham. Pois a ti também os
Deuses te chamam?/Bal. Porque, meu amo é mais do que eu? E ele
quer um Deus para si, e outro para os outros? Não está aí Baco, que
anda pelas tabernas!»193. Maggiore avversione riscontriamo inoltre tra
190
P. Metastasio, op. cit., vol I, p. 5.
Dido desamparada, op. cit., p. 3.
192
Ivi, p. 6.
193
Ivi, p. 13.
191
Capitolo II
256
Enea e Calambuco, un altro servo contro cui l’eroe latino si scatena in
percosse fisiche certo non degne del virgiliano pius Aeneas:
Acto I, cena II
Enéas. Balandrau?
Bal. Senhor, não sei quanto estimo ver-te com cabeça.
Enéas. Começa com loucuras?
Bal. Senhor, quem não tem cabeça, é que está louco.
Enéas. Não te entendo.
Bal. Mas, Senhor, falemos sinceramente; não cuidei que tu eras tão douto.
Enéas. Porque o dizes?
Bal. Porque deve deitar bom chorume, e é certo que é boa.
Enéas. Isso mais me parece ódio, que estimação.
Bal. Ódio! Qual ódio! Há certo Rei que deseja ver a tua cabeça em poder de
Mouros; porém Dido não a quer ver dada a perros.
Enéas. Cuido que deliras194.
Acto II, cena V
Cal. Guarde-os Deoso sioro blanco; dar vozo a mim notícia de mi sioro pleto?
Enéas. Que dizes?
Cal. Mim quere falar a mim sioro, e tem corrido por ver a mim sioro, e não pode
a mim acharo a mim sioro, porque mim sioro não parece, e se vozo sabe de mim
sioro...
Enéas. Vai-te, que não te entendo.
Cal. Pois os pai Calambuco não sa gaguiadoro; mim vem em busca de mim
sioro.
Enéas. Quem é teu Senhor?
Cal. Mim sioro sá El–Rei mim sioro; não sioro, sá os Embaixador del–Rei mim
sioro.
Enéas. Aparta-te de mim.
Cal. Oia vozo que mim sioro sá hum sioro de todos os diabos, e se vozo não cata
os respeito aos Embaixadoro del–Rei mim sioro.
Enéas. Oh atrevido! (Dá-lhe)
Cal. Fóra daqui que há us purga, mim não sá pioro, para sero esmagado no sus
unhas. (Esconde-se) 195
Una particolarità però si richiama sin dall’elenco degli attori
stampata sul frontespizio, non solo perché gli stessi Enea, Iarba,
194
195
Ivi, pp. 10-11.
Ivi, pp. 21-22.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
257
Araspe e Osmida vengono per la prima volta definiti galan, il
castiglianismo che indicava l’attore di bell’aspetto e maniere eleganti
che il teatro utilizzava preferibilmente nel ruolo del seduttore o
dell’innamorato, ma soprattutto perché vengono esplicitamente
definiti con il termine di preto i personaggi africani di questa azione,
definizione che avrà ripercussione soprattutto nelle battute dei
criados. Bisogna infatti sottolineare che tutti i dialoghi pronunciati da
Chamariz (“richiamo” e “allettamento”), serva di Didone, Balandrau
(“palandrana”), servo di Enea, e Calambuco (“albero orientale dal
legno aromatico”), servo di colore del re dei Mori Iarba, non sono
nient’altro che una serie di canzonature piene di luoghi comuni, dalle
sfumature chiaramente razziste, riguardanti esclusivamente il colore
della pelle di Calambuco, quale elemento detonatore di un insieme di
battute di spirito che difficilmente oggi strapperebero un pur minimo
sorriso. Nel gioco di questa continua ridicolizzazione del servo nero,
rientra anche la stessa parlata che si presupporrebbe africaneggiante e
che abbiamo già incontrato con il personaggio di Calote travestito da
spirito dell’aldilà nell’Alexandre na India, di cui non solo si ripete il
lessico, ma anche certe storpiature fonetiche. Le battute in questo
senso si sprecano:
[...] ele não é menos que um Embaixador; e quando vai a gente imaginar a
Fidalguia, acha-se em branco; e assim já não é tão negro como o pintam; diz
mais esta má lingua, que nem os olhos tem alvas; e se ele é negro, algum olho ha
de ter alva de cão; mas ele é cão, precisamente há–de ter ossos nos dentes; mas
tudo isto passou em claro [...] o negro é tição do Inferno: porém eu não me quero
queimar com ele196.
Un minimo intreccio che vorrebbe Calambuco e Balandrau rivali
in amore per Chamariz, seppur meno insistito che in altri adattamenti,
ha inizio allora dalla seconda scena del primo atto.
196
Ivi, pp. 6-7.
258
Capitolo II
Dido desamparada, destruição de Cartago (1782)
Acto I, cena II
(Vista de Pátio Real)
(Sai Balandrau e Calambuco)
Bal. Ando buscando a Enéas em Cartago, mas suponho que é buscar agulha
em palheiro.
Cal. Ah sioro blanco, dar vozo a mim uns palavra.
Bal. Outro cachorro comigo. Eu ando comido de negros. Pois cuidei que nem
cães me comeriam.
Cal. Chega, chega vozo pala mi.
Bal. Que me chegue para ele? De burro: eu não sei se ele morde, não, chega
tu para cá.
Cal. Mi não pode, polo que fá aqui de guarda a uns plezente.
Bal. Ora chega, chega para cá, tó, tix, tix.
Cal. Vozo está escalnicando dos pai Calambuco, é, é, é, é.
Bal. Ele enfada-se; eu não quisera saber como ele morde. Que é o que queres,
paizinho?
Cal. Mi sabe que vozo sar sevandija dos Palácio, e quer entregar a vozo uns
plezente para a siora Princeza brincaro.
Bal. Um prezente? Eu aceito, e depois veremos quem há–de ser seu dono. O’
paizinho, venha o prezente, que eu o que poderei fazer é entregá–lo em mão
própria.
Cal. Mi vai buscaro.
Bal. Ora vai, e vem depressa.
Cal. Oia vozo que é uns plezente dos plezente.
Bal. Já sei, traze-o depressa.
Cal. Oia vozo que é uns plezente de primoro.
Bal. Já sei, havia.
Cal. Oia vozo que leva com muito sentido.
Bal. Má peste te caia, havia com isso.
Cal. Mi vai buscaro. (Vai-se)
Bal. O cachorro estava-me fazendo perrices: fui bem afortunado! Ora eu
como-lhe o prezente e safo-me.
(Sai Calambuco, com um Tigre)
Cal. Ah, ah aqui está os plezente.
Bal. Ai, ai, ai! Passa fora cachorro. Ai que é um Tigre: ai quem me acode, ai que
me devora; ai que me atassalha.
Cal. Náo tero vozo medo, que é pioro: á, á, á, á.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
259
(Deita Calambuco o Tigre para dentro, e canta a seguinte)
ARIA
So lexa que fuja os bixo,
Os animar pouco astuto,
Oia, se os Tigre sa bluto,
Sar sarvaje sua mercê,
Guaia-me, guaia-me,
Zabambu, zabambu,
Gurguja, gurguje.
Ai, le, le, le, le, le. (Vai-se)
Bal. Vai-te com todos os de cavalo, olhem a minha fortuna: mas tal gente, tal
prezente; ora escapei, de boa: mas esperem, não escapei, cá tenho nas meias dois
pontos e uma virgula; mas também o pretinho leva boa sarna197.
Acto I, cena II
(Sai Chamariz, e Balandrau)
Bal. Sio, ó menina.
Cham. Que é o que queres Balandrau?
Bal. Chega para aqui.
Cham. Ainda aqui não basta?
Bal. Agora sou eu Chamariz.
Cham. Sejas tu Balandrau Chamariz, ou Balandrau, dize já o que has–de dizer.
Bal. Cala-te, não digas nada, que isto é uma coisa de grande segredo!
Cham. Pois eu o guardarei com grande cuidado.
Bal. Vê lá o que dizes, olha aonde o guardas, não o percas; e adeus, fica-te
embora.
Cham. Sio, ó Senhor Balandrau.
Bal. Que é o que queres, Chamariz?
Cham. Dize-me aqui uma palavra.
Bal. Ora acabe, que tenho muito que fazer.
Cham. Com que V.m. entrega-me um segredo, e vai-se como quem não diz
nada?
Bal. Ai, é verdade! Nem tal me lembrava. Pois has–de saber...
Cham. Saberei, se tu mo disseres.
Bal. Que meu amo, eu, e mais meu amo somos quatro, noves fóra dois.
Cham. Ora acaba já tu, e mais teu amo.
Bal. Estamos-nos indo embora por instantes.
197
Ivi, pp. 9-10.
260
Capitolo II
Cham. Vocês, que se vão, más vasilhas devem ser, pois teu amo deixa-nos, e
vai-se?
Bal. Nem mais, nem menos.
Cham. E tu também te vás, me deixas?
Bal. Eu sim me vou; porém deixar-te, isso não hei–de eu fazer.
Cham. É possivel que te has–de partir!
Bal. Partir-me? Salva tal lugar! Não; hei–de me ir muito intero.
Cham. Quem te obriga a ausentar-te?
Bal. Olha, há umas noites que sonho com meu pai, e ele me fala por boca de
ganço, dizendo assim: Obedeces aos Deuses? (Em falsete)
Cham. Pois a ti também os Deuses te chamão?
Bal. Porque, meu amo é mais do que eu? E ele quer um Deus para si, e outro
para os outros? Não está aí Baco, que anda pelas tabernas!
Cham. Em fim, te vás, Balandrau?
Bal. Eu não sou Balandrau Vás, sou Balandrau da Fonseca.
Cham. E não me has–de ver mais?
Bal. Não, Chamariz, em meus dias.
Cham. Eu não sou Chamariz Dias, sou Chamariz de Andrade.
Bal. E tu também te vás; mas não te ausentas sem fazer-mos a nossa despedida
solemne.
Cham. Pois com efeito queres nos despediçamos?
Bal. Pois que, queres despedida? Isso ainda é peior. Ora começa tu.
Cham. Ora não seja tolo, comece ele.
Bal. Não seja tola, comece ela.
Cham. Olhe não lhe finque dous murros por despedida.
Bal. Se lhe deu uma pancada, com esta me vou. (Fazem que se vão)
Cham. Ora vá-se com não sei que diga.
Bal. Ora fique como quem é.
Cham. Ouve, torne cá que lhe caem as calças.
Bal. Pois se me caem as calças, venha-mas levantar.
Cham. Eu quero quebrar por mim, que nisso mostro ser a mais fina.
Bal. Sim, que tudo o que é mais fino, quebra com facilidade.
Cham. Pois ficamos galantes, eu quebrada, e tu partido!
Bal. Ai, e que remédio temos nós, senão grudar-nos!
Cham. Ora deixa-me ver se posso chorar um bocadinho.
Bal. Chora.
Cham. Ai, não me fales à mão, mofino, que já irão as lágrimas saindo pelos
olhos, e tornarão-se a recolher para dentro.
Bal. Eu também estou seco como um pão; e por mais que me esprema, não faço
nada com isso.
Cham. Olha, não sabes que raiva tenho agora a este negro coração, que tão duro
está.
Bal. Espera, que já dei em uma boa frase para te fazer chorar.
Cham. Ora dize o que é, dize.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Bal. É dar-te um pontapé no vazio, e huma bofetada em cheio.
Cham. Eu não quero chorar por força, senão por jeito; mas ouve.
Vais-te, fico, há tal fadiga!
Como sentimos os dois,
Se tu te vás: eu depois
Que farei! Não sei que diga:
Pois chorar me não obriga
Esse tormento preciso;
Mas deixo já o indeciso;
Sabes que hei–de fazer?
Penar, sentir, padecer;
Porém chorar, isso é riso.
Bal. Acabou V.m.? Agora eu.
Vou indo-me, e estou tremendo
Me mate o que vou sentindo,
Que aquele que se está indo,
É certo que está morrendo:
Chorar eu ao ir-me, entendo
Que é do meu amor decoro;
Hei–de fazer, pois te adoro,
Meu pranto; mas é o diabo
Que hei–de chorar, e no cabo
Hei–de me ir atrás do choro.
Cham. Muito bem, Senhor Balandrau.
Bal. Espera, que agora quero fazer a minha despedida em Aria.
Cham. Isso agora é outro cantar.
(Canta Balandrau a seguinte)
ARIA
Esta vai por despedida,
Esta vai, sim vai esta;
Mas que é isto! Ai que ela chora:
Vou-me embora nesta hora;
Sim, Senhor,
Olhe agora, olhe agora,
Quando cá um homem se via
A menina com que vem :
A cantiga do ai, ai.
261
Capitolo II
262
Ai lé, li, lé, li, ló, lé,
Ai ló, lé, meu bem. (Vai-se) 198
Cena IV
(Sai Chamariz)
Cham. Tomara encontrar o Senhor Balandrau, pra lhe restituir a sua despedida.
Cal. (Dentro) Ai uns menina tão flemosa.
Bal. (Dentro) Ai a Senhora Chamariz de Andrade.
Cal. Mim vai faze um rendimento amante.
(Sai)
Bal. Eu saio-lhe ao encontro; mas ter mão, que por pouco não dou um encontrão
no preto.
(De dentro)
Cal. Os mia siora, os mia menina.
Cham. Ai que forte cerração se vem chegando para cá!
Bal. (dentro). Ai que barril de breu se vai apropinquando!
Cal. Põe vozo em mim esses oio tão flemoso.
Cham. Ainda que tos ponha, não te posso ver, porque faz muito escuro para essa
parte.
Bal. Olhem o cachorro com vicios! Já te cheira?
Cal. Vozo sá blanco, porque esse roso sá os alvo dos meu suspiro; e mim sá
pleto, porque sá chamuscáro do fogo do amoro.
Bal. Não é nada, o cachorro vem com fogo no rabo.
Cham. Afasta-te para lá, não me enfarrusques, porque dessa negra boca cada
alento é uma máscara e um murrão cada perdigoto.
Bal. Ela vai-lhe dando com a munição.
Cal. Mim quere vir captivar a vozo com as mia fineza.
Cham. Eu captiva de um escravo!
Cal. Mim sar escravo dos amoro.
Cham. Logo me parece que tu havias de ser cão de cego.
Bal. Agora boa lha disse, abençoada a mãe que te fez e o pai que te pario; boa
lha disse.
Cal. Poe se vozo não sá mia, mim coração sá tua.
Cham. Mal pode fazer união
O que em ti se vê e em mim:
Um brinquinho de alfenim
198
Ivi, pp. 13-15.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
263
Com um cepo de carvão;
Mas bem é que fique um cão
A ouvir-me, de raivozo;
Se quer vir a ser esposo,
Eia, cão, vai já a ela:
Pois para alguma cadela
Só está guardado este gozo.
Cal. Escuta vozo uns migaio.
Deixa vozo plezunção,
De que morderos não posso,
Que como maior sá osso,
Não sar segura dos cão:
Ele vozo canzarrão
O se os pletinho te gabo,
Pol um, e pol outro cabo
Conresponde ao que me toca,
Porque mim morde com os boca,
E faze festa com o rabo.
Bal. Não, tem muito boas habilidades o cachorro; passa fora daí, maldito.
(Vai saindo e dá-lhe)
Cal. Que dize vozo a mim? É, é, é, é.
Cham. Senhor Balandrau, desfaçamos a nossa despedida, pois não se verificou a
sua ausência, não ficou valiosa a despedida.
Bal. Despeça-se V.m. do negrinho, e depois fazemos contas, e quem dever
pagará.
Cal. Mim dar a vozo uns Tigre, dar vozo a mim os menina.
Bal. Esta menina, aonde você a vê, é um Tigre em carne viva, noves fora os
manchas.
Cham. Eu sou Tigre, aquele é cão, e tu és asno, olha que diversidade de animais.
Bal. Ainda assim, o negro é mais asno do que eu.
Cham. Porquê?
Bal. Porque a mim farme–ão arreburinho; mas a ele hão–de dizer-lhe arre como
cão.
Cal. Oia que te quebro os cabeça, se me dize essas glaça.
Bal. Guarda-te para lá, que eu estou zombando.
Cham. Balandrau estava tremendo de medo. (À parte) Ouve, bem puderas tu
fazer a este pretinho alvo da tua ira.
Cal. Não me dize a mim poucas vlegonha, porque há de arrancar os vida.
Bal. Chamariz mete-me em perigos, mas eu hei–de metê–la a ela em hum
chichelo. (À parte) Ora lá vai paizinho, não desconfies, que tudo é graça.
Cal. Não sioro.
Capitolo II
264
Balandrau.
Tem rosto de sapato o seu carão,
E nelle o cabedal que lhe convém,
Pois em beiços, em olhos, e faces tem
Atanado, bezerro e cordovão:
De barro dizem que os outros homens são,
E este feito de pez todos o crêem,
Ou é porque o negro couro a cor lhe tem
Graxa, pós de sapatos, e carvão.
Quando as entranhas maternas o expeliu,
E uma tal negrura apareceu,
Foi serração, ou nevoa, que cahio.
Porque quando a natureza ao mundo o deu,
De tão escuras sombras o cobriu,
Que nem saiu à luz quando nasceu.
Cal. Oh, oh, oh blanco desavolgonhado, oia que te é de arrancar esse lingua; não
pega em mim, Chamarizo.
Cham. Oh lá, Senhor Calambuco, agora falo eu, e veja que agora é outro cantar.
(Canta Chamariz a seguinte)
ARIA
Deixa que ladre o cachorro,
Quando logras meu carinho,
To, tix, toma lá pão. (Para Calamb.)
Vem tu cá, meu cachorrinho; (A Bal.)
Passa fora canzarrão, (A Cal.)
Mas não estejas tão ufano,
Palitando com o tó tó;
Porque a ti to hei–de assular,
Abóca, abóca perro;
Porém ah, ah, se mordes has–de levar.
Vão-se199
Acto III, cena VIII
(Sai Chamariz)
Cham. É boa história, que não tenha uma pessoa a quem se queixe! Dou ais, e
dou suspiros, e ninguém me escuta; como se o dar fosse em mim pedir! Mas já
199
Ivi, pp. 23-25.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
265
sei que é tal a minha desgraça, que quando dou queixas, não me querem dar
ouvidos; tomara achar uma alma, a quem descubra o meu peito.
(Sai Balandráo)
Bal. Oh que boas coisas essas para a minha alma; aqui me tens em corpo, e alma
com orelhas, e tudo.
Cham. Balandrau!
Bal. Chamariz!
Cham. Eu...
Bal. E mais eu...
Cham. Pois fale eu, e falarás tu.
Bal. Não, como nós falamos ambos pela mesma boca, não fale eu, nem tu, fale
V.m.
Cham. Já sabes que estamos comidos de Mouros, que nos introduziu o tirano
Jarba.
Bal. E sei que a pobre Rainha está estalando, porque não lhe escape o querido
Enéas.
Cham. Deixa-me, que Enéas está damnado.
Bal. Deixa-me, que a damnada é a Rainha.
Cham. Porque é damnada a Rainha?
Bal. Por sopas; e Enéas porque está damnado?
Cham. Porque vai às ondas.
Bal. Então que queres que faça?
Cham. Que case, e carregue com ela às costas, para que se diga que por ela
deixarás Pai e Mãe.
Bal. Filha, para que estarmos falando nas vidas alheias; trate cada um de si, e
vamos andando.
(Pega-lhe)
Cham. Mas para que me pegas?
Bal. Para ir tratar de ti, que tu és a minha vida.
Cham. E aonde me levas?
Bal. A Itália.
(Sai Calambuco)
Cal. Não há–de ir, senão aos Mourama.
Bal. Ei–lo comigo; o negro preto que nunca se aparta de mim, deve de ser a
minha sombra.
Cham. Aqui há um bom rato, que há cães que também os apanham.
Cal. Quer vozo vai comigo!
Bal. Queres tu que vá com V.m.
266
Capitolo II
Cham. Aquele que me fizer melhor partido, esse me levará toda inteira.
Cal. Nos Mourama has–de lograr muitos fortuna.
Bal. Na Itália has–de ter muitos aumentos.
Cal. Nos minha terra terás nos marido uns escravo, e em cada pleto uns cativo.
Bal. Em Itália has–de ter um marido como eu, quatro chichisbeos e duzia e meia
de senhorias.
Cham. Entre senhorias, e senhorios não sei qual escolha.
Bal. Como?
Cal. Poro que?
Cham. Porque os senhorios conhecem-se pelos escravos, e as senhorias pelos
obséquios.
Bal. E qual é o obséquio, que não seja de um cativo!
Cal. E qual é os cativo, que não seia os obzeco?
Cham. Eu sempre acho que escravo é fazenda de maior preço.
Bal. Que é o que dizes, mulher, queres ir dar contigo em poder Mouros, para que
eu fique arrenegado?
Cal. Dize bem os menina, dize bem... (Rindo-se)
Cham. Vamos, Senhor Calambuco; Senhor Balandrau, adeus.
Cal. Adezo sioro Balandrau.
Bal. Ah cachorra, vais-te com um negro, e eu fico como um preto: demais a
mais, não era melhor um homem branco? Isso é verdadeiramente fazer uma
perrice.
Cham. Senhor Balandrau, adeus.
Cal. Adezo sior Balandrau.
Bal. Tomara uma peça de artilheria para os matar a ambos cá de longe.
Cham. Mas ai! Apelo eu por mim! Aonde ia eu quando ia com ele! Parecia-me
que me levava o diabo, de que Deus me livre.
Bal. Diz muito bem a menina, diz muito bem... (Rindo-se)
Cal. Ho rite blanco, que tu já sabe como eu morde cos bambu.
Bal. Isso é quando tu alvoras de cacheira; mas tu também sabes como eu remo;
ora meu bem, se não vás com quem te assusta, é justo que vás com quem te
adora.
Cham. Vou contigo, porque me levas com boas palavras; vamos, Senhor
Balandrau, Senhor Calambuco, adeus.
Bal. Adeus Senhor Fernambuco.
Cal. Ah maioro poca vergoias, ainda bem que mi sioro há de pôr os fogo a essa
Cidade, e ambos vozo há de morê queimado.
Cham. Senhor Calambuco, adeus.
Bal. Adeus Senhor Calambeque.
Cham. Mas ai, aonde vou eu? Assim às mãos lavadas me querias ir deitar no
mar; pois faço-me navolta da terra.
Bal. Nem tanto ao mar, nem tanto à terra, em tudo me queres tratar como um
preto.
Cal. Sá bem feito.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
267
Cham. Eu sim me fora, mas tenho tanto amor a esta terra, que se eu a ir me
resolvo, se partir, hei–de ficar.
Cal. Se partir hei–de ficar; isso é mote?
Cham. Pois glozá–lo.
Bal. Oh Calambuco, vamos a ele ambos de ajojo, que em ti não é impróprio.
Cal. Começa vozo.
Bal. Não, começa tu.
Cal. Não teimar, começar vozo.
Bal. Se partir hei–de ficar.
GLOSA
Bal. Parto meu bem.
Cal. Ai tar lida!
Quere vozo ir embora?
Bal. Fora-me eu, se fosse agora.
Essa cabeça partida.
Cal. Vai, e fica, arma perdida.
Bal. Não sei ainda o que hei–de obrar.
Cal. E se eu os bola te quebrar.
Bal. Hei–de me ir com toda a pressa.
Cal. E se acaso mi cabeça
Se partiro.
Bal. Hei–de ficar.
Cham. Fizeram-no muito bem.
Bal. O preto tem estilo escuro, porém eu sempre falo mais claro.
Cal. E qual de nozo leva os parma?
Cham. Aquele a quem eu der a mão. Este é que ha–de levar a palma.
Cal. Pois antances dá-me a mão.
Bal. E a mim dá-me o pé se quer para pedir-te um dedo.
Cal. Não pegar nesse, que sá uns mão de rabo.
Bal. Não toques nessa, que é uma palma de vassoura, que é a coisa mais clara
que tem o negrinho.
Cham. Ora para que fiquem sem escrupulo, eu digo umas palavras que dispõem
o que ha–de ser; estendam outra vez os manguais.
Cal. Ahi sá os meu manguallo.
Cham. Cesta barresta do rabo da besta, diz minha avó que não quer senão esta.
(Aponta para a mão de Balandrau)
Cal. Que disglaçado!
Bal. Que venturoso!
Cal. Que enfelicho!
Capitolo II
268
(Cantam os tres o seguinte)
TERCETO
Bal. Quem é negro, quem é feio!
Cal. O diacho te leve.
Cham. Oh meu cão!
Cal. Os mia menina!
Bal. Não se chegue o pez à neve.
Cham. Se teu peito a amar te inclina,
Olha quantas legoas vão
De cadela a canzarrão.
Bal. Deixa preto a presunção.
Cal. Cala os boca, toleirão. (Para Bal.)
Cham. Tu também não tenhas vícios,
Que eu quero morrer donzela.
Bal. É desgraça como aquella!
Cal. Faze bem, por vida mia:
Ah, ah, ah, muito alegria (Rindo-se)
Sente mim nos colação.
Bal. Como ri, fora com o cão.
Cham. De nenhum a mão aceito,
Porque a ambos dou de mão.
(Dizem juntos cada um o que lhe compete da última quadra, e vão-se)200
II.10.
Demetrio.
L’edizione di Coimbra del Demetrio è uno dei rari casi in cui,
nonostante l’anonimato del suo traduttore, questi viene citato già dal
frontespizio come «hum dos mais respeitosos apaixonados» di
Metastazio (sic), laddove proprio l’aggettivo “rispettoso”, come a dire
fedele in termini traduttivi (e chissà se anche in termini polemici
rispetto al dilagare degli adattamenti metastasiani) è cifra distintiva di
questa versione del 1771. Fedeltà, s’intende, quanto ai contenuti,
poiché vari esempi dichiarano sin dall’inizio la libertà stilistico–
compositiva dell’appassionato traduttore portoghese:
200
Ivi, pp. 33-36.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
DEMETRIO
1731
269
DEMETRIO
1771
Atto I, Scena VII
Acto I
Coro
Ogni nume ed ogni diva
Sia presente al gran momento,
Che palesa il nostro re.
Primo Coro
Scenda Marte, Amor discenda
Senza spada e senza benda.
Secondo Coro
Coll’ulivo e colla face
Imeneo venga e la Pace.
Primo Coro
Venga Giove ed abbia a lato
Gli altri dèi, la Sorte e ‘l Fato.
Secondo Coro
Ma non abbia in questa riva
I suoi fulmini con sé.
Coro
Ogni nume ed ogni diva
Sia presente al gran momento,
Che palesa il nostro re201.
Coro
Deuses do alto Firmamento,
E Deozas gentis descei,
A assistir neste momento,
À eleição do nosso Rei.
Primeiro Coro
Desça Marte, Deus guerreiro,
E Cupido Deus do amor:
Mas sem venda o Deus frecheiro,
E sem espada o do furor.
Segundo Coro
Co’ a fructifera Oliveira,
E a Tocha Nupcial acesa,
A Paz venha, companheira
De Himenéu, na gentileza.
Primeiro Coro
Venha Jupiter potente,
E propício traga ao lado,
Dos mais Deuses, cópia ingente,
A Fortuna, A Sorte e o Fado.
Segundo Coro
Mas benigno, neste dia,
Para nós, o Deus tonante,
Não perturbe essa alegria,
Com seu raio fulminante.
Coro
Deuses do alto Firmamento,
E Deozas gentis descei,
A assistir neste momento,
À eleição do nosso Rei202.
Decisamente più interessante è il manoscritto copiato da Antonio
José de Oliveira il 9 giugno 1783 (fig. 36), dal titolo Demetrio em
Siria, in cui non solo il traduttore muta ruolo a Barsene, per
201
P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 428-429.
Demetrio, drama composto em Italiano pelo Senhor Abbade Pedro Metastazio poeta
cesareo, traduzido na lingua Portugueza por hum dos mais respeitosos apaixonados de seu
Author, Coimbra, na officina de Pedro Giniux mercador de livros, anno 1771, pp. 21-22.
202
270
Capitolo II
Metastasio solo confidente della regina siriana Cleonice, qui
direttamente sorella della medesima, ma anche per l’intromissione di
tre nuovi graciosos: Palmatoria (“ferula, sferza”, detta anche meninade-cinco-olhos203, espressione su cui si giocherà a più riprese, come
nel rimprovero dell maestro di musica: «Que diz menina, os
Mestres não tem cá medo de Palmatoria, temos agora aqui por
V.m. o discipulo supra magistrum, a culpa tenho eu que venho aturar
uma velha com cataratas, e uma menina de cinco olhos»)204, serva di
Cleonice; Alfarroba (“carruba”), anziana nonna di Palmatoria; e
Contraponto (“contrappunto”), musicista e servo di Alceste. Ci
troviamo di fronte ad un caso decisamente diverso di triangolo
comico–amoroso, in cui le figure femminili rivestono per la prima
volta il ruolo di contendenti in amore del personaggio maschile in
scena, il quale non risparmierà il gioco verbale sul filo ironico della
giovinezza dell’una di contro all’anzianità dell’altra, con uscite
comiche facilmente immaginabili e molto probabilmente ispirate
all’adattatore portoghese dal personaggio vicentino della
vecchia Filippa Pimenta dell’Auto da Festa, sedotta dal giovane
rascão Gil Tibabo, il quale non può che commentare con sarcasmo la
circostanza:
RAS. Não he de maravilhar
moças fermosas e bellas
desejarem de casar,
pois que velhas sem arnelas
se querem inda encachouçar.
Senhoras! que vos parece
Destas velhas engelhadas?
estão meas entrevadas
e tão sois não se conhecem;
203
«Instrumento de castigo que se usava nas escolas primárias e que consistia num pau
torneado com trinta centímetros de comprimento, que terminava numa espécie de bolacha,
também de madeira, com dez centímetros de cinrcunferência e dois de altura, a qual tinha
cinco pequenos furos e servia para dar palmatoadas», in G. A. Simões, op. cit., p. 432.
204
Novo Drama intitulado Demetrio em Siria, copiada por Antonio Jozé de Oliveira aos 9
de Junho de 1783, p. 10.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Figura 28. (BN, F. 111).
271
Capitolo II
272
Se estas com todos seus danos
andam da sorte que vedes
sendo de tanta idade,
que farão as de quinze annos
senão romperem paredes
por cumprir sua vontade?
Mas porem quem isto entende
achará clara rezão
que quanto mais velhas são
tanto mais nellas se acende
este fogo d’alcatrão205.
E la sorprendente figura di questa anziana donna, Alfarroba, decisa
a rivaleggiare in amore con la nipote nella conquista di Contraponto,
attuerà dunque tutta una serie di strategie di avvicinamento al suo
oggetto del desiderio, prendendo proprio spunto dal ruolo di musicista
del gracioso, i cui insegnamenti l’anziana serva vorrebbe apprendere
tanto quanto la nipote:
Contr. […] Senhora que diz, está doida? Ainda V.m. com esses annos tem
leviandades.
Alf. Não se faça malceiro: o que lhe quero dizer é que vamos dar a lição.
Contr. Ora deixe–se disso, que he muito bom para crianças: não acabará de
desenganar–se, que burro velho não aprende língua, mande–me vir a menina
depressa, que não estou para demoras.
Alf. Não tem que segurar, ou me há–de ensinar por força, ou me há–de dizer o
defeito que me acha.
Contr. Não sabe que a Solfa quer uma grande tentativa, e que V.m. nem ao
menos se lembra dessa idade que tem.
Alf. E pois a música não? Se pode aprender bem em qualquer idade.
Contr. A música moderna não senhora: a Solfa tem seu tempo regulado, e tudo
fora dele é um finissimo destempero.
Alf. Pois eu não tenho garganta capaz para trinos!
Contr. Não Senhora V.m. esta só em termos de a acompanharem os
franciscanos.
Alf. Nem sequer terei habilidade para os instrumentos?
Contr. […] em fim senhora já lhe disse que não estou para vagares e que me
manda vir a menina que são horas.
205
G. Vicente, op. cit., pp. 553-554.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
273
Alf. Visto isso póde V.m. então buscar sua vida que eu buscarei também outro
mestre para Palmatoria206.
La preferenza di Contraponto per Palmatoria lo costringe, tuttavia,
ad assecondare la volontà della nonna, unica tutrice della nipote ed in
grado di acconsentire o meno all’incontro tra la giovane e il maestro.
Ma il compromesso a cui Contraponto scende per poter restare vicino
a Palmatoria non riesce a frenare le sue manifestazioni
d’intemperanza nei confronti di Alfarroba, descritta dal traduttore
come una figura ingenua e sprovveduta (si veda a questo proposito
una battuta come : «se fora Narciso podia namorar–me com razão da
minha beleza»)207:
Contr. […] Ora sentesse para aqui, e volte depressa o rosto para acolá.
(Senta–se ao cravo nas duas cadeiras e mete–lhe Contraponto um dos papeis
de solfa na mão.
Alf. Que volte a cara, isso parece–me descortesia.
Contr. Qual descortesia: isto é porque não gosto do cheiro de Alfarroba. Ora
tome sentido comecemos por aqui: vê esta figura?
Alf. Qual figura, a de V.m. ?
Contr. Aquela que ali está naquela linha preta.
Alf. Eu não vejo aqui linha nenhuma.
Contr. […] ela cuida que são algumas linhas de cores, e eu falo–lhe em linhas
de contraponto: a mulher deve estar tão bebada que nem vede que cor é esta
linha. (À parte) A senhora V.m. está ainda por ventura em jejum?
Alf. Sim Senhor ainda hoje não tomei senão um pouco de chá.
Contr. Melhor tivera bebido uma poça de…(À parte) Pois alguém que
aprende Solfa toma chá e vem dar lição em jejum! […] uma coisa que é
totalmente reprovada pelos doutores Morescos! Em jejum! Não sei como aqui
lhe não tem dado algum estupor! Vá–se embora depressa Senhora.
Alf. Ai que é o que me diz? Não me asuste olhe que me desmaio.
Contr. Vá meter depressa os pés com água fervendo; livre–se de ares
armoniosos: olhe que já principia a fazer–se–lhe a cara de cera.
Alf. Desgraçada de mim quem me acuda nesta aflição? Palmatoria! Palmatoria!
(Vai–se dando vozes) 208
206
Demetrio em Siria, op. cit, p. 7.
Ivi, p. 32.
208
Ivi, p. 8.
207
Capitolo II
274
La comicità tocca le sue vette più alte nel momento in cui
Contraponto chiede Palmatoria in sposa e, a causa di un voto di
quest’ultima che le impedisce di contrarre matrimonio, il maestro di
musica finisce per ritrovarsi fidanzato all’anziana nonna, benché
cercando in ogni modo di sottrarsi alla promessa (tenta infatti di
convincere lo stesso re di Siria a non considerare lecito tale
compromesso, usando espressioni di scherno e di disprezzo nei
confronti di Alfarroba: «Senhor V. Ex.a não repare nas loucuras desta
mulher; que isto de velhas são como os papagaios que não falam
senão aquilo que ouvem dizer»)209:
Pal. Eu tenho feito voto; renuncio a merce.
Contr. Se o voto é pobreza pode estar segura que o não há–de quebrar na minha
companhia.
Alf. Ora menina visto tu não quereres, eu sempre aceito a oferta por não
parecer esquiva.
Contr. Agora não há–de ela querer, a menina é muito bem ensinada, e não há–
de dizer que não a seu Mestre.
Pal. Agora não, de mim pode tirar bem o sentido, que o meu é somente de ser
priva.
Contr. Se isso em V.m. é cumprimento com a Senhora sua Avó eu por evitar
questões casarei com ambas de duas […]
Alf. Ai não Senhor, é escusado, para que é fazermos confusões no negócio se
eu basto só para tudo.
Contr. Estou bem aviado: emcaixou–se–lhe na cabeça o dito e agora não há–
de haver mais remédio que aturá–la por conta da dependência: tomara meter–
lhe outro susto no corpo, a ver se lhe dava algum acidente que lhe tirasse
semelhante desproposito do sentido.
[…]
Alf. Pois Senhor Contraponto o falado falado: fica por minha conta o negócio: eu
me levanto daqui; traga–me V.m. um memorial […].
Contr. O memorial aqui vem já feito, […] (Tira um grande papel)
Alf. Ora venha o memorial e que diz ele.
[…]
Contr.
Aria
Diga–lhe que componho
E canto lindamente
Que toco de repente
E sei mui bem bailar
209
Ivi, p. 24.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
275
Diga–lhe o mais que vir
Que é justo e que lhe agrada
Mas não lhe diga nada
Acerca do casar210.
Dall’aria appena citata comprendiamo trovarci di fronte ad una
rappresentazione musicata che s’inserisce a pieno titolo in un contesto
in cui un maestro dal nome significativo di Contraponto in più
occasioni si trova sulla scena in atto di suonare l’organo o di impartire
lezioni di solfeggio; oltre a ciò, arie, recitativi e duetti ritornano
frequentemente nell’azione dei tre criados di questo Demetrio em
Siria, in momenti quasi insignificanti (si veda il duetto creato solo per
illustrare l’aiuto che Contraponto dà a Palmatoria per sollevarsi da
terra), o solo per colorire beffe e canzonature (è il caso dell’aria
cantata, tra le lacrime, da Palmatoria contro la nonna che poco prima
l’aveva malmenata per aver accettato di sposare il tanto conteso
maestro di musica):
Dueto
Contr. Levanta–te.
Pal. Segure–me.
Contr. Acima.
Pal. Ai, tenha mão.
Contr. Não quer assim? Pois não. Vá de outra sorte assim.
Pal. Com tanta força não. Devagarinho, assim.
Contr. Segura–te.
Pal. Não posso firmar–me bem nos pés. Ajude–me outra vez por compaixão de
mim.
Contr. Sustem–te bem nos pés. Agarra–te outra vez. Não tenha dó de mim211.
Aria chorando
Palm. Deixe–me rabugenta
arrende–se daqui
vá lá cascar em si
escuse de me dar.
210
211
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 36.
Capitolo II
276
Não ouve, olhe que grito
se torna a por–me a mão
ora, ora tenho dito
para velho não há–de casar.
(Dá–lhe)
(Dá–lhe) 212
Un particolare curioso è poi un riferimento extratestuale, forse
unico nel suo genere, messo in bocca dall’adattatore a Contraponto,
personaggio che, ancora una volta, risulta essere il perno di tutta
l’azione grottesca creata dai tre graciosos. Si tratta dell’accenno al
Teatro da Rua dos Condes dove molto probabilmente ebbe luogo la
rappresentazione di questo adattamento del Demetrio metastasiano,
luogo richiamato dal maestro di musica in senso certamente comico
(si riferiva alla domanda postagli da Olinto circa il luogo in cui si
trovasse Alceste), ma che dimostra un adattatore di chiara e spiccata
inventiva e originalità. La situazione, per di più, è arricchita di
ulteriore comicità se si pensa alla conclusione rocambolesca della
scena:
Olin. […] aqui está Contraponto de quem averiguarei miehor a verdade
Contraponto aonde ficou teu amo?
Contr. Meu amo; Senhor Olinto, ficava agora qando eu para aqui vim no teatro
da Rua dos Condes se V. Ex.a mandasse daqui todos para fora, eu lhe contaria
acerca disso uma coisa de grandissima importância.
Olin. Retirai–vos todos.
[…]
Contr. Isto senhor é uma corja de loucos, não lhe dé mais ouvidos, e mandeos
embora depressa, que ao depois não lhe aproveita o segredo de nada.
Olin. Ide–vos sem mais demora.
[…]
Olin. Já estamos sós: que é pois o que tens para dizer–me.
Contr. Ainda não creio que me vejo livre de semelhante canalha, mas que lhe
direi eu agora? Mas vá, seja o que for. Olhe cá Senhor Olinto sabe V. Ex.a qual é
o segredo.
Olin. Sim.
Contr. Pois então, como o sabe, escuso de lho dizer.
Olin. Dize; ou te matarei.
Contr. Agora vem ali meu amo e não lho posso contar, descanse que eu lho direi
quando mais descuidado estiver213.
212
213
Ivi, p. 55.
Ivi, p. 44.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
277
Benché non vi sia indicazione di un adattamento al gusto
portoghese, del resto come nella traduzione appena analizzata, anche
una versione del Demetrio, copia manoscritta del 1797, introduce altri
tre personaggi arbitrari che possiamo comprendere certamente nella
schiera dei noti criados, trattandosi di una dama di compagnia di
Cleonice, Sinalefa (“sinalefe” o, al plurale, “combinações amorosas
feitas por sinais”)214, già amante di Palito (“stuzzicadenti”, ma anche
“corna” come simbolo d’infedeltà) servo di Alceste, ed Espeto
(“spiedo”, ma anche “guaio, seccatura”), usciere di Palazzo. Questa
versione, che conta tre sole scene per ognuno dei tre atti, tra l’altro
molto deteriorata e dalla difficile decifrazione, ci presenta i nuovi
personaggi sin dalla seconda scena del primo atto nella ormai classica
situazione di assalto amoroso da parte del contendente non desiderato
a causa dell’età avanzata (qui da confrontare forse con O Velho da
Horta di matrice vicentina) e di conseguente raggiro e messa in
ridicolo con relativo danno fisico, situazione che ricorre in molti degli
adattamenti già analizzati:
Acto I, cena II
(Lugar magnífico com trono a seu lado 4 assentos para os grandes, e no fundo
se vê grande parte da Seleucia com navios iluminados para celebrar a eleição
do Rei. Sai Sinalefa comhum espanador).
Sin. Como está esta sala bem ornada, para a Senhora Cleonice se exaltar a
escolha do marido. Bem aventurada é aquela que donde escolher, não pelo
que aceita que é o menos, mas pelo que despreza que é o mais. A Senhora
Barcena bem a aconcelha a que tome estado, e nisto faz o oficio de irmã
terceira induzindo-a a que perca de Alceste as esperanças. Mas não sei, não
sei porém que me importa se também ela o ama, a me muito embora, quero ir
sacudindo estes assentos, portar isto ao meu largo e ser eu naturalmente muito
tiradinha do pó. Ao trono nada sacudindo chego eu… mas irei buscar com
que…. (Indo)
(Sai Espeto)
Esp. Como te vi entrar para aqui, vim logo nas tuas ancas, pois tu és a
minha…
214
Eduardo Nobre, Dicionário de Calão, Publicações Dom Quixote, Lisboa, 2000, p. 167.
278
Capitolo II
Sin. Sempre V.m. anda atrás de mim metendo–me o naris em tudo, e então
que quer aqui senhor Espeto?
Esp. Quero tomar a minha espetada de conversação, que o meu querer todo é
falar que me queira.
Sin. Não estou agora para esses assados. (Espanejando)
Esp. Isso me dirás tu agora por força de equívoco, mas o que vieste tu fazer
agora aqui.
Sin. Isto mesmo que está vendo… (Espanejando)
Esp. Pois se queres que eu te ajude, dá cá isso.
Sin. Senhor Porteiro, eu já lhe disse que me deixasse, vai–se daqui, que me
não achem aqui com um velho tão maganão.
Esp. Pois faze–me o que te peço.
Sin. Mas que é o que pertende?
Esp. Casar e mais casar: olha minha como te chamas, quis tu parecer uma
Monarca e usurpar a gloria a esta festividade? Pois sobe, sobe, sobe aí a
qualquer parte e escolhe–me por teu Soberano, […].
Sin. Sou ainda muito menina para me por nesse estado, e assim…
Esp. Menina? E que tal? Tem pouca idade sim porem és corpanzuda. Olha
que por amor do fogo de amor ando ardendo em carvões, e tu abutares–me
agora na fervura com os teus desdéns.
Sin. O que lhe digo é que não quero, e mais não quero esta sua impertinência.
Esp. Eu torno, e torno a querer. Ora atende–me. Bem sabes que sou morgado,
e se o que tenho há–de hir a outrem melhor é que passe a ti, porque eu ainda
estou em os termos de ser Pai.
Sin. E com tudo cada vez está mais louco.
Esp. Olha que não é tão pouco o que possuo em bens radicais, e então…
Sin. Você vai–se, porque V.m.… porque me disgosta não é pelo morgado que
tem, entende–me já!
Esp. Isto está muito crespo! Venha mais liso.
Sin. Que é tolo como um Morgado; percebe–me!
Esp. Tolo! á, á, á, á, isso em ti é melindre! Tolo desta idade; e aquele
exemplo da sintaxe que ouvi Mens Ratio A Concilio in senibus e A.
Sin. Não entendo, isso para mim é latim.
Esp. E para muita gente boa. Eu to explico, quer dizer que o Concelho…,
mas deixemos isto, e vamos ao em que ficamos!
Sin. Em que ficamos, V.m. onde quiser, que eu me vou embora daqui…….
(Indose)
Esp. E aonde vais tão correntona?
Sin. Eu vou buscar um páu comprido com o seu sacudidor em cima, por
chegar onde não posso, e de caminho se for preciso para lhe sacudir o coiro,
ou os ossos que é o que tem.
Esp. Isso te irei já buscar, que lá tenho um bem alto, espera, espera que eu já
venho. (Indose)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
279
Sin. Detenha–se que me ocorreo outra coisa mais a tempo (quero uma peça
pregar–lhe) (À parte)
Esp. Pois o que te ocorreu?
Sin. Suba–se aqui ao pedestal, e com este tirapó sacudirá muito bem […].
Esp. Como, se eu não chego? E de mais em vendo em tais alturas tremem–
me as pernas e então…
Sin. Já vejo que não é meu amigo. Você para nada vale!
Esp. Ora está bem: inda que me dê alguma parvoice na cabeça subirei, dame
cá isso! (Ay amigos quanto me custa!/)(À parte)
Sin. Ora tome lá, e diga que nunca lhe dei nada.
Esp. Quanto aqui me dás são penas! Ora chega–me aquele assento que ali
está.
Sin. Estes assentos são para os mais se sentarem, e não para menos subirem.
Veja se pode trepar para ali que eu o ajudo.
Esp. Muito alcançaria eu se acaso tu me subisses, mas eu não quero que faças
alguma força que rendas e eu fique prejudicado, espera vou buscar uma
escada, e já venho, espera, espera menina... (Vai–se)
Sin. Dizem que amor faz discretos, porém este cadaver está mais camelo!
Chegou–me a ocasião de brincar um bocadinho, em quanto não tenho um
rapáz que me dê cuidados vou nutrindo com este velho, e vou zombando do
tempo, lá vem já com a escada victor sério.
(Sai Espeto com a escada)
Esp. Esta aqui está boa para o intento, onde hei–de dar como basculho!
Sin. Olhe, ali, ali.
Esp. Ora vamos ali; sempre me has–de empurar em ordem a ir direito.
Sin. Suba suba… (Sobe Espeto com vagar)
Esp. Pois agora que cá estou, irá tudo numa poeira bela!
Sin. Veja em que altura o pôs.
Esp. Oh pois estou aumentando… (Sacudindo)
Sin. Mas ai, que ouço rumor grande! Sem dúvida eles são que vem.
Esp. É verdade, e então como há–de ser.
Sin. Ande, ande para baixo, que nao quero que aqui nos achem assim, e julguem
que estamos brincando.
Esp. Assim é, deixame descer a pouco a pouco que vou quebrado, e não quero
ficar peior.
Sin. Não me posso deter mais! Levo a escada e salte como puder…. (Leva–lhe a
escada e vai–se)
Esp. Para esta não estava eu guardado! Ai que se me desvanece a cabeça, ai e
outra vez ai! E que me servio o subir devagar se eu hei–de descer depressa! Oh
minha Sinalefa! Qual eles que vem; eu dou um salto bem que desmanche os
sapatos, lá vai isso……. (Salta e fica por terra) Vim a terra em corpo e alma.
Sinalefa era boa ocasião esta para me dares a mão! Ai e outra vez ai que já
280
Capitolo II
entraram Cleonice e os senhores pertendentes; queira amar ó minha Sinalefa que
eu chegue algum dia a ter queda para contigo. E não me posso levantar, foi
debandada queda…215
Come abbiamo avuto modo di sottolineare, i dialoghi tra graciosos
rispecchiano il più delle volte la geometria amorosa propria dei
personaggi della trama principale del dramma, di conseguenza
frequenti sono i riferimenti alle unioni tra i principi e le principesse in
gioco nella fabula portante, quasi in funzione di parallelo serio delle
avventure grottesche vissute in piccolo dai servi di turno. Ecco allora
che Espeto può pronunciare una battuta rivolta a Sinalefa del tipo:
«Não sejas adiantada, olha se a Senhora Cleonice escolheu marido eu
quero também levar–te por mulher, olha que ganhas muito em
mim»216. Tuttavia, l’azione principale rimane l’atteggiamento di
scherno di Sinalefa, a tratti diretto con malizia e con un certo piacere
sadico nei confronti ora di Espeto ora di Pantufo, e sempre finalizzato
alla messa in ridicolo dei difetti più eclatanti dei due personaggi
maschili, ingenuamente disposti a mettere in competizione i propri
beni in questa assurda gara d’amore. È inoltre interessante notare
come anche in questa versione vi sia più di un riferimento
metateatrale, riferito alla finzione stessa della rappresnetazione, come
nel caso della domanda che Palito rivolge a Sinalefa nel secondo atto,
aggiungendo senz’altro ulteriore comicità all’intreccio interno
rappresentato dall’invenzione dei graciosos: «Quero dizer que bem
me podia ensinar–me o seu nome, que me esqueci perguntar–lho no
primeiro acto em que nos vimos»217. O, ancora, l’impazienza del servo
per la ritrosia di Sinalefa commentata come segue: «que esperas que
se acabe a ópera sem termos começado?»218. Non mancano, inoltre, le
parti cantate, quasi parodia del genere serio di riferimento.
Novo Drama intitulado Demetrio em Siria (1783)
Sin. Quem me chama?
Pal. Quem a chama nada engana.
215
Novo Drama Intitulado Demetrio na Siria, copiado. 1797, pp. 8-11.
Ivi, p. 17.
217
Ivi, p. 35.
218
Ibidem.
216
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
281
Sin. E pois o que quer?
Pal. Eu queria…. mas….. não sei o que queria.
Sin. Pois quer o não quer?
Pal. Quero que me escutes, mas não quero que te enfades comigo; depois de
me ouvires a mim.
Sin. Isso agora é muito querer logo a entrada.
Pal. Muito maior é o meu amor que o meu querer.
Esp. (É muito maior o vosso desaforo. Velhacos! Ah que….) (À parte)
Sin. Amor, disse, é coisa que não conheço.
Pal. Pois ele te conhece a ti muito bem.
Sin. Muito bem; mas onde está esse bicho, que me dizem ser muito medonho.
Pal. Qual medonho; ele toma a forma do lugar em que se acha, o meu mora
nas concavidades do meu peito.
Sin. Pois se ele toma a forma donde se acha, há–de ser feio quanto um ratel.
Pal. Porque minha formosa?
Sin. Porque V.m. é fantasioso.
Esp. (Já vou perdendo o medo, quando ela o tem do animalejo.) (À parte)
Pal. Ora olha, em me tu pondo os olhos com amor, hei–de ser mais bonito do
que agora te pareço.
Esp. (Sim que quem o seu ama bonito lhe parece.) (À parte)
Pal. Não dizes nada?
Sin. Não, estou agora para me comunicar, fique–se. (Indo)
Pal. Pois assim se vais meu bem.
Esp. Mau!
Sin. Seu bem, já nós lá vamos! Ai, que rias coisas.
Pal. Se o has–de ser antes que seja mais tarde.
Sin. Ora V.m. é bem confiado.
Pal. Não vai isto bem! Que é duvidado respeito. (E pois não me chama mais
nomes que confiado.) (À parte)
Esp. (Ele é bem pachorento.) (À parte)
Sin. Muitos mais nomes lhe chamareis, mas para gozar–te basta. Não sabe que
uma deidade não se adquire sem passar por muitas penas?
Pal. Eu até agora não sabia que V.m. era deidade, cuidei que era só Mulher.
Esp. (Parece–me um valente salvagem.)/ (À parte)
Sin. Mulher não é nome próprio para Damas delicadas como eu sou.
Esp. (A moça está divina, mas eu receio que ma leve o diabo do tratante./) (À
parte)
Pal. Não sejas dessas miudezas. Olhe aqui estou eu que também sou
bastantemente melindroso Adonis, […] mas nem por isso deixo de ser macho
como um homem.
Esp. (Forte coice deu o animal.) (À parte)
Sin. (É muito grosseiro e é soldado e basta.) (À parte)
Esp. (Anda dá–lhe com monição.) (À parte)
Pal. Soldado sou, mas toda a minha empreza é conquistarte.
282
Capitolo II
Sin. Talvez que seja de fraco.
Pal. Agora fraco! E donde tiras essa conclusão?
Sin. Porque lhe não vejo nenhum sinal de valentia.
Pal. Com que todas as vezes que não venho com sinais de cotiladas, não sou
valente. Pois olha aqui onde me vez; lá na guerra fiz mui feitos.
Esp. (Xuxa. Xuxa.) (À parte)
Sin. E quais serião eles?
Pal. Todos foram feitos a revoadas; mas se aqui são de proveito, curtos ponho na
bochexão219.
Esp. (O soldado vais saltando uma corja de asneiras.) (À parte)
Sin. (A sua mesma confiança e desembaraço me agrada.) (À parte)
Pal. (Ela não me responde, devia de desconfiar–se.) (À parte)
Sin. Ora eu me vou e talvez que venha que o ensine a ser bem ensinado. (Indo–
se)
Pal. Pois V.m. vai–se deveras?
Sin. Deveras e para sempre fico sua inimiga.
Pal. Para ti menina é isso […] pouco.
Sin. E pelo que senhor soldado?
Pal. Porque sendo para sempre a minha inimiga has–de para sempre ser a minha
tentação.
Esp. (O homem parece que tem o diabo no corpo.) (À parte)
[…]
Pal. Oh minha menina venha cá. (Não disse bem.) Venha cá minha deidade. Eu
estava gracejando, e esta graça não merece castigo de pecado mortal.
Sin. Então o que me quer?
Pal. Chegue–se mais.
Esp. (Quem te chegará.) (À parte)
Sin. Pois faleis, bem ouço. (Chegace)
Esp. (Por esta moça se chega muito!) (À parte)
Pal. Ora diga–me, não tem conveniência de andar aqui roubando aos olhos
vistos? Diga!
Sin. Pois o que lhe roubei eu? Diga também.
Pal. A minha alma esta roubada por esses olhos que são ladrões e matadores, e
ainda de roubada, ela é que vens a padecer pelos ladrões!
Esp. (Ah bom garrote!) (À parte)
Sin. Eu por ora não tenho mortes às costas, e sendo isso roubar–me o
procedimento V.m. é que mo tira.
Pal. Tomara–te eu mais amante, e menos filosofa, e para de todo concluir tua
ama ao que entendo se apantufa com seu amado no laço do Matrimonio, e era
justo que nós também ficassemos atados por concumitancea.
Sin. Por comcu? Que?
Pal. Por concumitancea que é o mesmo que….. entendes?
219
Espressione dal significato oscuro.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
283
Esp. (Muito se vai desatando.) (À parte)
Sin. Senhor, V.m. bem sabe que o não conheço: eu por ventura sei o seo
merecimento ou se é aí algum pobre homem…
Pal. Pobre homem é falta de juizo, e eu nessa parte sou muito faltado.
Esp. (Aquillo agora foi demasiado.) (À parte)
Sin. V.m. que há–de dizer, qual é o nescio que diz que o é.
Pal. Não vais lisonjear, visto isso não dás nada por mim.
Sin. Quem o conhecer que o compre.
Pal. Pois para que saibas quanto eu valho, ali vais a amostra do pano nesta Aria.
Esp. (Ai, lhe encaixa o soldado alguma marcha em tom de Aria.) (À parte)
Pal.
Aria
Digo–te que componho
E canto lindamente
Que gloso de Resende
E sei muito bem bailar
Falta–te o mais que ver
Que é justo se te agrada
Mas não me falta nada
De amor para casar.
Esp. (Isto já me não soa bem. Não te dará ar de constipação.) (À parte)
Pal. Pois o que te parece? Tenho ou não cadência?
Sin. (Este tem outro jeito que não tem Espeto, mas ainda hei–de fingir) (À
parte) Ainda que há quem se sustente do ar da meninicie, eu desse guisado
sempre jejuarei, cá sim quero saber a sua qualidade e a sua pessoa.
Pal. A sua qualidade, julgo que é quente Aria juntamente.
Esp. (Boa frioleira.) (À parte)
Pal. Olha é quente pelo ardor com que subo…. Já me entendes? É Aria
porque temeroso…. Não sei se me explico, e no que toca a cabedal, não
desgosto agora isso por não falar sobre posse.
Sin. Pois senhor o que eu pertendo saber é se V.m. é digno da minha bizarria e
do meu esplendor.
Pal. E se o for…
Sin. Se o for…
Pal. Serás minha.
Sin. Talvez, talvez que….
Pal. Mas que bom, bom.
Esp. (Não, malissimo e mais que pior.) (À parte)
Pal. E posso esperar de ti que…
Sin. O que?
Pal. Que a tua fé seja segura.
Sin. Eu por ora não digo sim, nem não; adeus que tenho tardado muito.
Pal. Ora por despedida sabe que….. ai, ai, ai.
Esp. Isto já vais de for em fores.
284
Capitolo II
(Sai Espeto)
Esp. Os confiados e audazes petulantes fazendo ludibriozos os respeitos destas
salas.
Sin. (Eu te arrenego escomungado velho!) (À parte)
Pal. (Ai, se me desmanha tudo, agora que ia pegando a lábia.) (À parte)
Esp. Não respondem, estão supitos? Ficarão estupefactos!
Sin. Senhor eu….
Pal. Eu senhor…..
Sin. Senhor, aquilo foi graça.
Pal. Isso não há dúvida, nem eu sou homem de outra coisa. (Olhem os barbas
de boda que me havia de aparecer.) (À parte)
Sin. (Eu não sei se me desmaie, não se me dá nada dela que minha ama quere–
me muito.) (À parte)
Esp. Anda, vá a servir sua ama, que aqui não serve.
Sin. É verdade meu Senhor, já vou, obedeço. Já vou, rabugento insensato
Mentecapto. Velho desgosto, tocão de sapato, barbas de danato e pernas de…..
Pal. Isso é um acto continuado de actos.
Esp. Oh atrevida! (Avançando–se)
Sin. O atrevido! (Foge)
Esp. Eu te apanhareis, corre que tu cairás!
Pal. Eu também estou tremendo por mim por amor de V.m., e antes que faça
mais alguma coisa fique–se embora. (Ind–sce)
Esp. Espere venha cá! Vem cá.
Pal. Não me detenha, que vou com uma pressa.
Esp. Sustenha–se que logo irá! Diga, conhece–me?
Pal. Eu suponho que V.m. nem meu conhecido quer ser, quanto mais que a seu
respeito fiz com que….
Esp. Pois se faz com que olhe para mim direito, mas não me dê olhado.
Pal. Porque eu sou torto?
Esp. (Por algum jeito que tu tens, é que eu me sinto acobrentado.) (À parte) Pois
olha cá.
Pal. Diga o mais que tenho visto.
Esp. Observa estas barbininas tão venerandas?
Pal. Tenho feito nela observação.
Esp. Pois saiba primeiramente que aquela rapariga….. mas deixemos isso para
outra ocasião, que agora vou acudir ao que me importa, mas advirta….. Porém
nos conveniaremos, que se não fora…. saiba que é um pérfido e saiba que
aquela moça… porém ei–lo, vai, eu agora vou a exercer a obrigação do meu
cargo.
Pal. V.m. mostra que tem cargo grande as costas, porque anda muito curvo com
o peso.
Esp. Saiba que sou Guarda Portão.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
285
Pal. Guarda! Portão! Nobelissima autoridade, o venero com submissão, mas
seguro–lhe que se o seu ofício é ser guarda portas, que tem uma vida do cão.
Esp. Sabe o que lhe digo?
Pal. O que meu senhor.
Esp. Que não seja asno.
Pal. Isso será se eu querer, mas agora vejo que V.m. é muito meu amigo pelo
conselho que me dá. (Já é preciso buscar o meu amo.) (À parte) Ora sempre
nele.
Esp. Nele em que?
Pal. No cuidado do que me emcarrega. (Vai–se)
Esp. Vai–te com os cavalos, que eu te vou nas ancas. (Já por ver se a Sinalefa ele
buscar vai.) (Vai–se) 220
Sin. Ando fugindo deste velho como quem foge de doenças, a todo o instante me
persegue, e parece a minha sombra. E o aborreço da sorte que vê–lo não posso e
seu companheiro que aqui entrou com Alcestes é toda a minha glória, pelo
contrário Espeto que é todo o meu inferno. Ai amor, tirano amor que com tuas
agudas unhas abristes neste coração uma brecha por onde pode entrar aquele
homem ou soldado que a poder das batarias me rendeu, sem que eu pudesse…..
mas ele que chega, inda hei–de afectar–me mais por apurar sua fé e se é
constante.
(Sai Palito)
Pal. Senhora, senhora.
Sin. Senhora que? Diga o mais.
Pal. Também não sei o que. Porém olhe o mais que eu lhe vinha dizer! É que
bem podia, se quisesse, dar–me um ar da sua graça.
Sin. Da minha graça?
Pal.Quero dizer que bem podia ensinar–me o seu nome, que me esqueci
perguntar–lho no primeiro acto em que nos vimos.
Sin. Mas para que o quer saber?
Pal. Para procurá–la se acaso de mim fugir negando–me apagados meus
excessos.
Sin.Olhe o desprezo em mim é a moeda mais corrente, mas porque mo não
pergunte outra vez, sabe que o meu nome só se faz….
Pal. Como?
Sin. Comendo é como se faz.
Pal. Oi, essa agora é galantissima. Ora diga chamar–se a acaso fartura?
Sin. Não senhor.
Pal. Chamarse–á gulozina?
Sin. Nem para lá vai.
220
Ivi, pp. 17-24.
286
Capitolo II
Pal. Será cólica?
Sin. Deus me livre.
Pal. Pois então é mastiga?
Sin. Menos.
Pal. Pois se mastiga menos, cólica deus me livre, gulozina nem para lá vay,
fartura não senhor, que diabo serás então?
Sin. Chamo–me Sinalefa.
Pal. Sinalefa, boa figura! Assim é que a Sinalefa é aventurada Poetica que só
se faz em concomitância de vogais. Suponho que devias ser engendrada por
algum Poeta.
Sin. Apelo eu por mim não tenho tão baixo nascimento.
Pal. Pois minha amada Sinalefa, quere–me ou aborrece–me?
Sin. É boa teima, já lhe disse que a minha altivez não se sujeita a querer bem
sem mais, nem mais isso tem tempo, V.m. está com muito fogo.
Pal. Em materias de amor, o melhor é comer; eu soprar, que estes são as
coisas que se querem comidas quentes, que esperas que se acabe a opera sem
termos começado?
Sin. Sim. Mas o meu risco!
Pal. Qual risco? Olha eu sou muito bem nascido, bem visto nas histórias, nas
Gazetas, nos mapas, atento guapo, trato–me com muita limpeza (na algibeira)
e sou prendado de outras mais partes que a seu tempo….
[…]
Sin. E então não resolve a ir–se embora da minha presença!
Pal. Quisera ir–me por te dar gosto: mas os grilhões destes teus olhos me não
deixão pôr passada.
Sin. Pois vá–se que eu os volto para cá…. (Volta–se)
Pal. Se voltas para lá os olhos é o mesmo que eles me arastram atrás de
si…(Chega–se a ela) Ora pois dize somos muito amiguinhos?
Sin. Nem muito nem pouco: vá–e […].
Pal. Olha que me parto por aí fora a chorar como puder!
Sin. Chorando a!, a! a! a! (Ri–se) […]
Pal. Olha, que senão olhas vou meter alguma coisa por mim! Pela boca. (À
parte)
Sin. Faça nisso o que quiser, que eu estou mais constante que uma rocha.
Pal. Olha que vou beber alguma couza. (Indo)
Sin. Por mim vá beber o que quiser, inda que seja um veneno, vá, vá meter
poção, faça punhal, ou outro instrumento que toque a morrer. (Deus te
defenda.) (À parte)
Pal. E então se eu me matar?
Sin. Que me importa cá isso; de todo se acabou para mim.
Pal. Pois vou matar–me.
Sin. […] nenhuma inveja lhe tenho.
Pal. Assim não has–de chorar por mim?
Sin. Vá descansado que todo o bem se fará.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
287
Pal. Pois alto vou a isso. (Indo com pressa)
Sin. Ai que se vai deveras matar? Sio; ouve sio? Sio? Ah Senhor Soldado ouve?
Pal. Que é o que queres camarada?
Sin. Pois vai deveras matar–se?
Pal. Se vou? Essa é boa pergunta, e sine remissionem.
Sin. Pois deus vá com a sua alma.
Pal. Eu cuidei que me chamavas para me apertar a mão; já vejo que não tens dó
de mim, pois adeus. (Indoce)
Sin. E vai–se sem me dizer o seu nome também?
Pal. Eu na sou vaidoso e por isso indo a morrer por ti, nem ao menos quero dizer
o nome no mundo.
Sin. Era para eu ter a lembrança de quem se morreu por mim.
Pal. Olha, se és tu muito minha amiguinha que eu te direi como me chamo.
Sin. Serei só o que baste para o saber, diga, diga.
Pal. O meu nome é um que tu terás tomado na boca muitas vezes depois de
jantar.
Sin. Não me pode ocorrer! (Pensa)
Pal. Não te esgravatas, dize.
Sin. Apostar que se chama Palito!
Pal. Palito em carne todo inteiro, e entregado.
Sin.Palito! A, a, a, a, (Ri–se) é muito bem posto.
Pal. Quem, eu?
Sin. Não Senhor o nome em V.m., porque para se palitar um pouco é muito
bastante: mas há–de ser depois da barriga cheia e eu inda estou em jejum. Palito
vá–-e, não sei até quando, mas olhe, já que vais a morrer saiba que também eu
fico a penar! (Muito me descobri com ele.) (À parte)
Pal. Que me dizes? Minha Sinalefa desta alma?
Sin. Digo que o haja a morte que tantos desarranjos faz.
Pal. Ora pois, por não aver dezarranjos a que me tem tirado, adeus, adeus, vá–se,
vá–se. (Indo–se)
Sin. Vem cá espera, ai que desgosto me salta o coração no peito.
Pal. Não me posso demorarar mais, nem mais tenho que dizer. Pois concluamos
isto antes que…
Sin. Ai cale–se, escute, e esconda–se; que aí vem o negro Espeto, e não quero
que aqui o veja na minha casa.
Pal. Esta bem, aqui me meterei […] (Nasconde–se)
(Sai Espeto com o páu de Guarda Porta)
Esp. Aqui venho Sinalefa e estimo achar–te aqui, que podias estar metida em
algum verso.
Sin. O que eu lhe gabo é a autoridade com que entra na casa alheia.
Esp. Porta aberta justo peca, pois sabe ao que aqui venho, ou não?
Sin. Eu não senhor.
288
Capitolo II
Esp. Pois eu lho digo, primeiramente pergunto: conhece isto que eu aqui trago na
mão direita erguida para o ar?
Sin. Sim senhor!
Esp. Pois o que é, diga!
Sin. É hum pauzão com uma pirâmide em cima!
Esp. E sabe que esta é a insígnia honorífica com que me faço respeiteiro?
Sin. Sim senhor! (O homen vem desancar–me!) (À parte)
Esp. E pois se o conhece como, atrevida, nascia falta das nobres atenções da
minha esferica caricatura, ousa ultrajar–me chamando–me epítetos
desprezativos.
Pal. (O homen para uma satisfação traz muito cabedal!) (À parte)
Sin. Eu não me lembro de tal, V.m. vem enganado.
Esp. Pois não lhe lembro chamar–me orelha de sapato; cá de preto.
Sin. Ai meu senhor, aquilo em mim foi fingimento, eu não o disse pelo tanto,
mas se quer que eu chore, chorerei até botar pelos olhos. E olhe, lhe digo muito
me pesa de… (de lhe não chamar mais chamas dellas!) (À parte)
Esp. Pois estás arependida? (Tira um papel da algibeira)
Sin. Olhe cá pouco me falta.
Esp. Conheces quanto ofendestes o meu honrado carácter?
Sin. Quanto basta.
Esp. Ora pois esta bem. (Já me pesa ser tão aspero…) Por ora não te
consumas mais, que quem bem quer tudo perdoa. Sabe pois que não foi só
esta a causa porque eu trouxe isto levantado na mão. Mas que para com isto e
com istoutro te intimia uma ordem para este […] Soldado que aqui anda…
(Amostra–lhe o papel)
Sin. Qual Soldado?
Esp. Este Soldado Palito do tal Alcestes.
Pal. (Já vejo que isto vai deveras e vem este trazer a resposta que me deu o
tal Olinto no mandado de despejo.) (À parte)
Sin. (Se será verdade o que diz?) (À parte)
Esp. Ficaste sopita ehm?
Sin. Pois por ventura o Soldado esta cá a tua ordem.
Esp. Não é a ordem minha e o cazo foi este, mais cousa menos cousa. Não sei
o que faz com este Alcestes em casa que o senhor Olinto o pôs na sua e
manda de cá desapareça também tal creado para o que… vês este papel que
aqui trago?
Sin. Muito mal, porque o vejo com as lágrimas nos olhos.
Pal. (Ai se afogou o meu amor à nascença.) (À parte)
Esp. (Certo que a moça cega por ele.) (À parte) Mas dize porque choras e
por quem vertes as lágrimas.
Sin. É porque sou muito amiga de Alcestes e indo–se ele vai–se toda a minha
alegria.
Esp. Bem te entendo. Pois alegra–te comigo que sou de lampo, eu
entendendo o achasse aqui o queria fazer melhor.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
289
Pal. (Mais balas te atravecem!) (À parte)
Sin. (Fiquei sem pinga de sangue!) (À parte)
Esp. Torna a ver se vês as letras deste papel.
Sin. Não estou capaz de ver nada.
Esp. Pois isto lê–se depressa que não dá mais que decreto.
Sin. Decreto, e para que?
Esp. Este papel toca ao Serviço da nossa Rainha Cleonice; e serve agora para
despejo.
Sin. Mas eu, olha bem, não leio mais que decreto. (Soletra)
Esp. Em dizer decreto é só o que basta, que a minha autoridade faz poder
ajuntar a este papel a parte mais necessária (Tudo é finjido para com mais
brevidade fazer sair deste Paço ao meo opositor!)
Pal. (Eu estou fora de mim com o tal decreto.) (À parte)
Sin. Pois senhor Porteiro esse pregão bateu lá aonde o achar, que eu não sei
dele.
Esp. Pois eu vou em sua casa, e logo sou contigo, e não te falo já no passado,
porque, olhe, se vai desta certamente. (Vai–se)
Sin. Ai, da que fez o fumo faças tu correio de infaustas novas.
(Sai Palito)
Pal. Que culpa tenho eu dos pecados de meu Amo?
Sin. Se será certa a nova que me traz este mofino, só isto me podia ele trazer.
Pal. Eu estou de sorte que não sei como estou.
Sin. Eu mal me sinto, eu não estou boa eu….
Pal. Por aqui anda certamente Espeto feito agulha ferrogenta; mas novas lhe
traga quem lhe deva algum dinheiro.
[…] Se será isto mentira talvez?
Sin. Qual mentira? Nova ruim sempre é certa: e o meu coração tão frouxo
adevinha algum sucesso meu. Em negra ora manejou Cupido as armas contra
o meu peito, deixando–me com feridas do numero das incuráveis!
Pal. Quem me há–de consolar esta paixão, já de todo deram fim as minhas
fortunas.
Sin. Estava eu guardada para me darem em esta bala!
Pal. Cá ficarás com Espeto… ai ai ai ai. (Chora) E pelo tempo adiante com ele
serás mais meiga.
Sin. Não me fales em tal, que me arepelo.
Pal. Que serviria se eu passasse estes amores sem ser zelos; como diz lá aquele
Poeta comico
Que tener amor sin zellos
Ei lo mismo que querer
Tener colete sin cochero.
Conditio sine qua non est Amor.
290
Capitolo II
Sin. Pois repara no sem sabor com que te falo nesta hora, e verás a prova do meu
muito amor.
Pal. Eu também por sinal de namorada já tenho o lenço. Ai minha […] Sinalefa e
que pobre Poeta me parte sem ti. (Chora)
Sin. Ai Palito, que me enterneces com essas palavras, não continues, ou faze
lamentações mais plenas.
Pal. Quando desembarquei (graças a Apolo) vim pelo mar a pé enxuto, e agora
vou de terra para o mar, cuberto de olhos de negro.
Sin. Em negra ora cheguei a ver–te, ou a salvar–te.
Pal. Quando desembarquei e puz os pés nesta terra, podia mui bem cantar […]
do mar eu venho: e agora só posso chorar: hei–de ir para o deserto.
Sin E dize–me: te lembrarás de Sinalefa muito e muito?
Pal. Eu protesto–te de que nunca nos meus versos deixe de entrar Sinalefa ai ai
ai. (Chora) […] e tu has–de me amar sempre, sempre!
Sin. Hei–de te amar até a morte: pois que te amei até aqui.
Pal. Não mudes de parecer, que has–de ser sempre bonita: e já que os versos são
a escritura da tua Palavra, a mim me há–de servir de textos para a minha
escritura, lá vai a gloza ainda que para mim toda a Veia Poetica se desatou em
lágrimas de sangue.
Hei–de te amar até a morte
Pois que te amei até aqui
Gloza
Firme Constante leal
Leal firme e mais constante
Que é o mesmo eu sempre amante
Quero por bem este mal.
Eu querer a outra qual
Não menina de que sorte
Nem o tempo dará morte
A meu meu amor sem medida
Que inda mais que a propria vida
Hei–de te amar até a morte.
Hei–de te amar que te adoro.
Como viva porque inspiro…
Mas ai que chega hum suspiro
Mas ai que me acode hum cheiro
O que hei–de dizer ignoro:
Ora em boa me meti
A ideia toda perdi
O que eu queria explicar
É que sempre te hei de amar
Como te amei até aqui.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
291
Sin. Senhor Palito não mais; não lhe dá alguma couza que lhe faça perder o
juízo.
Pal. Vai–se cobrindo o coração de huma nuvem negra, e isto inda é sinal de
agouro para os meus olhos.
Sin. Pois veja se pode aliviar.
Pal. O como eu podia aliviar era vindo tu comigo para a minha terra então,
sim vens, ou não vens?
Sin. Não pode ser, querer–lhe eu bem isso sim, mas atrás desta inclinação
deixar–me eu ir, isso não.
Pal. Nem eu quero proceder contra a ordem.
Sin. Tomara eu desmaiarme, que então sentiria menos este caso acidental.
Pal. Eu, senão fora fraqueza em um Soldado, também me desmaiava aqui.
Sin. Eu sem duvida morrerei.
Pal. Tu estás de melhor partido, que és mulher, e tens sete folgos como os
gatos, porém eu tenho um só, e esse bem pouca coisa.
Sin. Inda assim não sei o que me vai dando pela cabeça, tomara eu já morrer,
ai que ai. Vem uma ansia; ai, ai, ai.
Pal. Toma a respiração.
Sin. Ai que não posso mais.
Pal. Àgua de cidreira e de cereijas pretas que é remédio medicinal para ansias
feminis.
Sin. Não me importa, quero morrer sem remédio.
Pal. Se acaso não é fingido és muito amiga; mas eu também me estou indo
por mim.
(Recitando Aria a duo)
Sin. Ai ai de mim que dele o meu alento.
Pal. E que dele também o esforço forte.
Sin. É verdade.
Pal. É verdade o meu tormento. Que farei, que farei buscar a morte.
Sin. É certo, e vai–te.
Pal. O meu retiro é justo. (Vai–se)
Sin. Ai que isto não é vida, só é susto. (Vai–se) 221
(Sai Espeto)
Esp. Eu não posso sossegar em quanto este meu rival não vir a perder de
vista, tomara já embarcado, que se fosse com a breca; que então fico eu como
quero, forte guerra me tem feito o magano a Sinalefa; mas não fora ele
Soldado… porém se me não engano, ele lá está conversando com quem quer
221
Ivi, pp. 35-44.
Capitolo II
292
que seja, quero chamá–lo, e despedir–me que he coisa que custa pouco. Ah
senhor Soldado sio! Ouve? Sio! Sio! Já me ouvio, e para cá vem. […]
(Sai Palito)
Pal. O que me quer senhor Espeto, vem ver o meu bota-fora.
Esp. Eu me vinha despedir da sua boa retirada, com que vai–se meu amigo.
Pal. Sim senhor, quer vir comigo dar–lhe–ei lá uma praça.
Esp. Praça de que? V.m. está zombando. Ora então porque não parte, já são
horas de embarcar.
Pal. Estou esperando a maré. Homem você é o meu Olinto, e o tal amigo
Olinto o Espeto de meu amo. Que lhe importa, diga lá, que eu parta ou que
fique?
Esp. Isto em mim é por curiosidade e que eu cá não me importa isso.
Pal. Pois cuidei que vinha embarcar–me a mala na estalagem. Ora diga–me
como está por lá Sinalefa, tem perguntado por mim?
Esp. Olhe nisso não falemos, muito amigos isso sim, mas falar nela isso não.
Pal. Eu me admiro não ver ela ao bota-fora, e a despedir–se de mim.
Esp. Falemos em outra coisa e quando não, adeus, vou–me. (Indo)
Pal. Anda cá (Pega nele) já vay; mas é galante rapariga, e eu gosto muito
dela; é formoza até não mais.
Esp. Esta galante empertenencia V.m. faz me pirraças, não fale na rapariga
porque eu….
Pal. Você o que quer diga, não fique embuchado.
Esp. Quer de mim algua coisa? Aqui estou às suas ordens. (Indo)
Pal. Ora pois já que se vai quero lhe uma coisa que há tempos tinha guardado
e agora por despedido é mui justo que a leve.
Esp. Eu por mim aceitarei visto vir da sua mão.
Pal. Quer ela por uma vez, ou por mais?
Esp. Venha por mais que assim parece maior.
Pal. Pois tome, tome barbado, tome mais. (Dá–lhe)
Esp. Não quero mais, basta, basta (o Bruto dá mesmo a matar.) (À parte)
Pal. Se tornará o sabujo a vir de mim despedir–se, por modo de Espia fora?
Vamos seguindo meu amo, que já lá vai, e eu fiquei por afincar no tal velho
quatro prancadas de espadas, ah bom Palito. (Vai–se)222
(Sala ordinaria. Sai Sinalefa)
Sin. Graças a fortuna que voltou a roda em que me tinha levado o meu Palito,
porém depois que deu novamente a sua entrada ainda lhe não falei, e só com uma
vista de olhos lhe disse que me desse um arzinho da sua graça. Minha ama com
Alcestes, e eu com…
222
Ivi, pp. 56-57.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
293
(Sai Palito)
Pal. Oh que ventura é minha Sinalefa o chegar eu a ver em ti os carácteres do teu
amor. Sabe que nunca na guerra de Marte tive tanto a morte diante dos olhos
como a esta de Cupido! Depois que me faltou a luz desses teus olhos e muitas
mais coisas te diria se te não viesse a ver a pessoa.
Sin. Isso é deveras senhor Palito?
Pal. Pois o morrer eu por ti te parece coisa de outro mundo?
Sin. Pois deveras deveras batalhou com a morte a meu respeito ou está
zombando?
Pal. Sim meu bem, e perdoa a vida se bastou a ganhar–te outra vez.
Sin. Isso agora era muita perdição, porém não sei se o cria!
Pal. Isso que duvidas de que te digo em prosa, escuta–me em frazìse esdrúxola.
Se enjurias eu sofri como Poetica
E fosse prisioneiro ao Reino Argolico
Vim a ser um mísero bacolico
E filosofo o mais peripatetico
Ainda que eu corresse ao mar gangetico
Que sempre me soprou vento Eolico
E me levasse Piloto tão diabolico
Inda mais do que se fosse gotico
E bem que eu vá levado ao porto sertico
Carregado inda mais que a ordem Atica
E viva sem ter homen um Paralitico
Inda que me acorreta uma ciática
Que morra cálido, e que morra estíptico
Assim o manda Amor na sua Pragmática.
(Sai Espeto com emplastro na face sem ver Palito)
Esp. Já este corpinho estará descancado Minha Sinalefa… mas oi! oi! oi! O
que quer V.m. aqui depois de se ir embora?
Pal. E V.m. aqui o que quer, o que procura?
Sin. (Ela está travadinha, temos história entre os dois.) (À parte)
Esp. […], você não foi o exterminado por um especial decreto do Palácio, e
mais seu amo?
Pal. Tudo já esta derrogado, e já cá estou outra vez, e mais o Senhor Alcestes.
Esp. Sim lá vão, leias adonde vos quereis, mas esta vai. Vamos a outra
lástima. Você sabe em quem deu aqueles muzarrios223 tesos?
Pal. Se bem me lembro suponho que foram na sua cara e por sinal que esse
emplastro me não deixara mentir.
223
Forse esagerazione per murros, pugni.
294
Capitolo II
Esp. E sabe a nódoa negra que me pôs na minha honra?
Pal. Se a honra se perde por uma brincadela então…
Esp. Brincalheira irra! Vá–se, passa fora, brincalheira, e que faria se não
fosse brinco?
Pal. Deitava–lhe os dentes fora, e os miolos do toutelo lhe poria a mostra; os
olhos lhe saltarião onde nunca mais os visse, e fazer–lhe–ia com que…
(Apressado)
Sin. Basta, basta senhor Palito, basta.
Pal. Para ela saber que eu cá… e mais aquilo foi puoco mais de nada.
Esp. Pouco lhe chama, para mim foi de sobejo, eu me vingarei a seu tempo.
Pal. O que fará a seu tempo?
Esp. Nada, a seu tempo, a seu tempo, e por agora só lhe quero explicar o que
outra vez lhe não disse. Saiba que esta moça só está por minha conta, eu com
ela me hei–de ajuntar, e não quero cá impedimento.
Sin. V.m. senhor Espeto esta já mais ferrugento, e não me serve para nada,
Você cazar comigo esteja livre de tal ver.
Esp. Pois o porque?
Sin. Porque é indigesto, rabugento, e não tem coisa que boa seja.
Pal. (Ela o sacude rijamente!) (À parte)
Esp. Tu só achas graça nesse filho da fortuna, monstro que deitou a rosa do
mar nestas praças nossas: isso é porque ele canta! Assim eu pudesse levantar
certos pontos, mas com tudo se me espremer ainda hei–de fazer alguma coisa.
Pal. Cale–se lá que não havia de fazer nada, só bimbas.
Sin. Eu não sei a razão porque não gosto nada dele, e mais não lhe quero mal
algum.
Pal. Ora ainda bem.
Esp. E que mais tem ele do que eu, e se vamos a falar a verdade, inda ele he
menos do que eu por ser Soldado pois tem cobrado o procedimento. E tu
casando com ele nunca passarás de seres mulher de Soldado. (O tal Palito
está raivoso que eu bem o conheço.) (À parte)
Pal. Mas olhe, e ela se casar com Você creio que…
Esp. Diga, diga.
Sin. Ai, vá–se embora verga carunchosa, que não vale nada para mim.
Esp. Sou muito rijo, e sou capaz em casando de aturar muito e muito.
[…]
Sin. Palito é muito do meu gosto.
Pal. Bem, bem, bem.
Esp. Isto é muito desaforo, eu não sei como tal sofro.
Sin. Saiba que um velho é, e assim…
Esp. E você é muito criança, e inda fede aos couros.
Pal. E você já esta no estado de precisar deles outra vez.
Esp. E você é um ruinoso.
Pal. Pois você é um remelão.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
295
Sin. Senhor Espeto eu escuso já razões em minha casa de dize tu dizei eu, vá–
se embora isto lhe digo, e quando não…
Pal. Aliás…. Tire para lá os arranques quando não vou revirando. […] Se
meto mão aos arames…
Esp. Se lhe afinco quatro couces….
Pal. Não faça força com as pernas, que troará alguma linha.
Sin. Deixem–se já destas arengas, e acomodem–se.
Esp. Está bem, pois eu me calo.
Pal. Pois aqui não está quem falou.
Esp. Pois então vá–se, ou não, o que eu quero é que se vá.
Sin. Meu Palito vai–te embora e acabemos já com isto. (Junta a Palito com
meiguice)
Pal. Ora pois ai despejo para V.m. saber…
Esp. Ora você faz a mim tolo, cuida que me logrão…
Pal. A dar–lhe V.m. é impaciente, e desconfiado eu, posto que seja Soldado, não
o sou de contrabando mas no que toca a esta menina hei–de querer dela o mesmo
que V.m. pode querer. Ora quer mais? Isto é posto em razão.
Sin Ora fação já essas pazes, e fiquem amigos, que é o melhor.
Esp. Pois eu por mim aqui estou.
Pal. Pois eu não havia de olhar ao seu respeito, e decoro.
Esp. Isso agora é outra coisa (Já ele se põe as boas!) (À parte)
Sin. Acabem por uma vez de fazerem essas pazes.
Pal. Isso veremos. (Olhando só de vez para ele)
[…]
Ora ouça o que por fim dizer quero no que respeita a ausentar–me nesta décima
Que o não fará bem o creio
Que assim faz a caridade
Morder–me é por quididade
Em homem do seu acaso
Inda ficará mais feio
Se essa porcaria faz
E creia a fé de rapaz
Se a tal coisa se provoca
Que é sujar a sua boca
Por–me a boca… por detrás. (Vai–se)
Esp. Espera velhaco, atrevido, descortês. (Indo para ele) Espera, espera.
Sin. Aonde vai tontarrão, quer que lhe casque outra vez.
Esp. Por amor de ti me vejo eu desprezado, mas hoje hei–de levar de ti o último
dezengano: tu já sabes o que eu quero, tens ouvido as memórias que te faço, […]
Já sabes que Cleonice, e mais Fenicio hoje; e assim tu bem entendes.
Sin. Sim bem te conheço besugo. E já que tanto aperta para total desengano ouça
atento a resposta com que por fim o despacho.
Capitolo II
296
Deixe–me rabugento
Aredece daqui
Com tal figura assim
Não queira namorar.
Não ouve o que lhe grito
Não quero dar–lhe a mão
Grito ora tenho dito
Por um velho não há casar. (Vai–se)
Esp. Mui bem despachado fiquei, mas seria aquilo desdém? Talvez que sim que
eu não sou dos mais desastrados, sendo nobre por geração e me parece que
melhor lhe estaria nela cobrir–se de nobreza casando comigo do que […]
unindo–se a um Soldado. (Vai–se) 224
II.11.
Siroe
Il Siroe, che viene rappresentato per la prima volta durante il
carnevale di Venezia del 1726, conosce due adattamenti portoghesi
estremamente divergenti l’uno dall’altro, ma entrambi finalizzati
preponderantemente alla focalizzazione dell’attenzione del lettore–
spettatore più sull’enredo comico che sulla vicenda originaria. Una
vicenda, tuttavia, che già in Metastasio presenta evidenti contorni
popolareschi di quotidiniatà e di familiarità antieroica ed
antidrammatica criticata, tra l’altro, da uno straniero inglese in visita a
Genova come Filippo Helem, ma rivendicata dal poeta cesareo nella
seguente missiva del 16 dicembre 1765:
Io credo che chi monta sul coturno non debba mai scordarsene la dignità, e
che debba anzi evitar sempre lo stile pedestre, anche nella talvolta inevitabile
espressione di circostanze basse e comuni, necessaria alla spiegazione ed alla
condotta della sua favola. Ma perché, dirà ella, non si è osservata cotesta
massima nel luogo citato? Eccogliene la ragione. Quando io da bel principio
intrapresi a trattarlo, il nostro dramma musicale non era ancora tragedia;
appena s’incominciava a soffrire che fossero escluse dall’intreccio di quello
le parti ridicole; ond’era un genere misto più vicino a quello del Ciclope
d’Euripide e dell’Anfitrione di Plauto, che a quello dell’Edipo, dell’Elettra e
del Filottete. Il nostro popolo, avvezzo a rallegrarsi a teatro, esigeva qualche
riguardo da’ poeti che volevano accostumarlo al severo della tragedia. Quindi
224
Ivi, pp. 60-65.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
297
conveniva somministrargli ne’ drammi qualche situazione, se non comica
affatto e scurrile, almeno festiva e ridente, ed in tali situazioni è impossibile
che lo stile che le seconda non iscemi alquanto dalla tragica austerità. Uscito
appena dalla mia prima adolescenza, io non mi credea permesso l’ardire di
urtar di fronte il gusto popolare; onde procurava di compiacere i miei
giudici anche a dispetto della natural repugnanza. L’esperienza poi mi ha
convinto che il popolo è molto più docile di quello che comunemente si
crede; ond’ella troverà ben pochi esempi di cotesta mia compiacenza, e questi
unicamente in alcuno de’ primi miei drammi225.
Dopo la pubblicazione bolognese del Siroe, destinata alla
rappresentazione lisbonese nella Sala dell’Accademia di Piazza della
Trinità e datata 1738, un adattamento sottoforma di copia manoscritta
ad opera di Antonio José de Oliveira del 3 febbraio 1783 ha nel
frontespizio la dicitura Opera Nova intitulada Irene na Selecia, il che
indica, innanzitutto, il mutamento del nome del personaggio di Emira,
principessa di Cambaia, amante di Siroe, in quello di Irene e, in
secondo luogo, un conseguente spostamento dell’attenzione narrativa
dal protagonista maschile creato dal Metastasio alla figura di questa
vendicativa principessa persiana.
Altro elemento d’innovazione di quest’ultimo adattamento
portoghese è senz’altro la riduzione del numero dei criados da tre a
due, personaggi dai nomi che subito allundono ad una probabile
bellicosità, come Escopeta (“fucile”) e Arcabuz (“archibugio”),
scontro di termini che in realtà non si verifica, utilizzando solo i
singolari nomi per giochi di parole sul tema dell’esplodere della
passione amorosa. Molti sono i riferimenti e le allusioni erotico–
sensuali soprattutto da parte della figura femminile e, inoltre, un
richiamo all’elemento metateatrale già riscontrato nell’adattamento
del Demetrio e che qui prende la forma del saluto agli spettatori in
sala e del riferimento alla Casa da Ópera di Lisbona.
Acto I, cena VII
Esc.[…]mas ai que aqui está o criado de Orlando, quero vê–lo de meu vagar, a
ver se me agrada.
Arc. Ó menina procura alguém cá de casa?
225
P. Metastasio, op. cit., vol. IV, pp. 431-432.
298
Capitolo II
Esc. Não lhe quero responder a ver o que faz. (À parte)
Arc. Ora não esconda entre as sombras dessa cortina as duas melhores estrelas
do cheu da formusura.
Esc. Elle não parece muito tolo mas é muito feio. (À parte)
Arc. Menina não se meta no escuro, faça-se alvo aos amorosos tiros deste
racionável Arcabuz.
Esc. Não desgosto de o ouvir, assim fora mais capaz de se ver. (À parte)
Arc. A rapariga asustou–se com a prespectiva da minha personagem.
(Chegando–se a ela) Minha Senhora não me fará o favor de me prespegar esses
dois olhos em cima desta cara?
Esc. V.m. meu cavalheiro com quatro olhos terá muito que ver.
Arc. Mais teria que […] achando–me de posse desses dois cagalumes de amor ou
tochas do Cupido.
Esc. Ai como é néscio: cuida que na Selecia se admitem groçarias?
Arc. Ainda que eu lhe pareça groceiro saiba que o meu amor é muito fino.
Esc. Vá–se, vá–se que eu não gosto de estrangeiros.
Arc. Não, tem razão pois nunca se deve disprezar um amor peregrino.
Esc. Tomarei meu parecer que agora estou de pressa.
Arc. Eu também vou descançar que ainda tenho de fazer duas jornadas. (Vai–
se)226
Atto II, cena II
(Vista de Sala)
(Sairá Escopeta)
Esc. Há três dias menos três horas, cá pelas minhas contas pouco mais pouco
menos, que me pediu minha ama a Senhora D. Nize que da sua parte intimasse o
seu amor ao Príncipe Florindo: e assim quisera incontrá–lo, porém ele não quer
aparecer e minha ama coitadinha chora de dia, e de noite, eu chorar lágrimas por
barbados, não caio nessa esparrela.
(Sairá Arcabuz)
Arc. Senhora D. […] quisera que os estouros deste amante Arcabuz fizessem
eco no ouvido dessa esquiva Escopeta para ver se a branda pólvora do meu
amor encaixava na esquivança dos seus repúdios.
Esc. Não é sem sabor o tal Arcabuz. (À parte) Meu cavalheiro suspenda a
cumprida arenga, e diga–me meu bem se acaso viu ou encontrou quem eu
busco.
Arc. Vi, e encontrei.
226
Opera Nova intitulada Irene na Selecia, copiada por Antonio Jozé de Oliveira aos 3 de
Fevereiro de 1783, p. 13.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Esc. Onde o viu?
Arc. Aqui mesmo neste sítio.
Esc. E para onde foi sabe meu rico?
Arc. Não se foi, aqui está comigo.
Esc. Disso agora me rio eu, pois aqui não está mais ninguém contigo, o
certo é que estás louco, e sem juízo.
Arc. Minha Escopeta, mal pode ter juízo quem traz a memória embaraçada
com a lembrança da tua pessoa a quem tanto tanto… olha não me posso
explicar.
Esc. Senão podes com a boca, dize com o coração, mas dize–me se vistes,
ou não vistes, que eu te prometo explicar–te o meu amor, pois te juro que
gosto de ti, pelo desusado modo da tua pessoa.
Arc. Obrigado fico pelo elogio, porém vi, e não vi, mas não sei a quem só
vi, e sei e os olhos a quem quero bem.
Esc. Senhor Arcabuz deixe–se de cumprimentos e diga se viu ao Príncipe
Florindo que é a quem procuro.
Arc. Há pouco estive com ele.
Esc. Em que sítio, dize meu bemzinho.
Arc. Na casa da Ópera de Lisboa.
Esc. Não gosto dessas graças, se me não dá notícia certa vou buscar quem
mas dê a outra parte.
Arc. Rica Escopeta desta alma não te vais sem primeiro descarregares
alguns amorozos tiros no coração de quem tanto te adora, que por ti fará
tudo que for do teu serviço.
Esc. Pois olhe se você quer alcançar os amantes tiros desta Escopeta,
descarregados no ouvido desse Arcabuz faça por mim alguns extremos e
apareça mais vezes, e porque me tenho detido muito, adeus que vou para os
quartos da minha ama. (Vai–se)
Arc. Foi–se e deixou–me a bucha na boca pois fico embuchado, sem saber
que quartos serão aqueles, que tem a ama da tal menina se será de vinho,
Aguardente Bozaçoes227 porém parece–me que tudo virá a dar em vinagre
destemperado pelo destempero do basbaque de minha ama a quem vou ver
se incontro, adeus meus senhores. (Vaise)228
Cena V
Esc. Senhor Arcabuz não me dirá porque tem tardado tanto?
Arc. Se eu foi a Missa que era hoje dia Santo.
Esc. Você me parece muito tardantão.
Arc. Menina não vês que a Missa tinha sermão.
227
228
Termine dal significato oscuro.
Ivi, pp. 16-17.
299
Capitolo II
300
Esc. Sermão, que Missa sendo de noite, quem te derá velhaco muito açoite,
ora espera um quase nada que eu vou ver minha ama se está deitada.
Arc. Minha Escopeta desta alma não te vás sem primeiro me dizeres aonde
estão aqueles tais quartos da Senhora tua ama, em que outro dia me
falastes…
Esc. Estão dentro do interior do Paço, onde não entrão homens; porque você
queria lá ir com esses bigodes?
Arc. Eu não queria fazer tal, mas se tu me desses licença tomara por ver se são
de vinho ou Aguardente.
Esc. Ora vosse é bem pateta, são quartos aonde asiste a gente.
Arc. Você perdoe, enganei–me, porém diga–me menina também lá mora?
Esc. Eu lho digo, a minha pessoa asiste e mora dentro do coração de quem me
adora e porque vem gente, e El–Rei me parece ser, adeus até quando você me
queira ver. (Vai–se)
Arc. Dizei bem porque dentro do coração sinto um tal bule bule com alguma
desiquietação, agora vejo ser Escopeta carregada pela ardente da pólvora, ou
pelo fogo com que se foi a cadela, porém eu vou atrás dela. (Vai–se) 229
Acto III, cena II
Esc. É feira de graça que não hei–de ter um instante de sossego, o Palácio todo
em confusão vejo El–Rei anda todo irado, minha ama aflicta a vejo, e Arcabuz
desapareceu, eu ando sem sossego…. (Canta)
Aria
Se Arcabuz soubera
Que eu dele gostava
Sem duvida me dera
O que eu chego a dar
Porém se lhe chego
A declarar
Sem pejo lhe digo
Que quero com ele
Logo casar.
(Sairá Arcabuz)
Arc. Minha Escopeta casar, e mais casar que estou morrendo por isso.
Esc. Se está morrendo não póde cazar, faça testamento, e veja o que me deixa, e
va morrer já.
Arc. Já não quero morrer e só quero viver para contigo casar.
229
Ivi, pp.21-21.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
301
Esc. Se isso deseja, se isso apetece, eu o quero já, e só o que me falta é que
levante o dedo para o ar.
Arc. Se nisso se encerra, pronto estou já, e o dedo levanto já para o ar. (Levanta
o dedo)
Esc. Pois que o dedo levantou faça de conta que sua sou já.
Arc. Agora menina, que já eu sou teu, e tu já és minha vamo–nos daqui já que
El–Rei vem lá.
(Vaise)
Esc. Marido levo contente, vou já, que neste tempo todas as moças loucas andam
só por casar e o peior é que também das velhas há que falar. (Vai–se) 230
Cena VI
Esc. Ó quantos suspiros me custa o meu Arcabuz […] ora vamos a falar–lhe.
(Entra)
Arc. Irra que feiticeira que lá vem. (Fugindo) Ó bruxa de mel, diogos vá de reter
satanás aparta–te de mim coisa má, boa de Burro que tal sejas.
Esc. Arcabuz vem cá.
Arc. Que vá lá não caio nessa, que você é uma bruxa é capaz de me chuchar.
Esc. Eu bruxa? Longe vá o teu agouro, pois sabe que se eu não fora vinhas a
acabar de estouro, El–Rei to tinha jurado.
Arc. Tu és minha Escopeta, agora fico admirado pois te vejo de viúva antes
de te teres enoivado.
Esc. Pois escuta, os motivos te declaro como no Paço disseram que tu e tua
ama cedo serão enforcados, e tendo notícia que Octavio tinha isso a seu
cargo lhe fiz um memorial de miséria, declarando–lhe que tu comigo estavas
desposado; respondeu que a seu tempo seria despachado.
Arc. A rapariga é um raio. (À parte) Porém dize–me porque te vestes de
viúva nestes trajes?
Esc. Por vir assim desconhecida e poder sair do Paço.
Arc. Dize, e para onde caminhava?
Esc. A procurar de ti notícias, ou a notícias dar–te, e já que a sorte quis aqui
logo encontrar–te sem ninguém o saber, vamo–nos retirando que será bom a
meu ver.
Arc. Pois já nos vamos receber?
Esc. Se você não mandar o contrário.
Arc. Já depressa para o Templo marchando vamos. (Vão–se) 231
230
231
Ivi, pp. 26-27.
Ivi, pp. 34-35.
302
Capitolo II
I personaggi comici del secondo adattamento del Siroe sono
protagonisti del manoscritto copiato il 28 giugno 1784 e dal singolare
titolo di Filinto perseguido e exaltado. Ancora un mutamento
onomastico per il protagonista e per tutti gli altri personaggi del
dramma originario e un altro gioco di parole divertito sul significato
dei nomi attribuiti ai servi: Pederneira (“pietra focaia”)232, serva di
Estella (Laodice nel testo di partenza), Desenfado (“divertimento”),
servo di Irene (Emira nel testo originale) e Macaco (“scimmia”),
inserviente di Palazzo. Inoltre, insieme ad un ennesimo riferimento
alla sottile linea di confine tra realtà e finzione incarnata dalla
rappresentazione teatrale in sé (è il momento di uno scambio di
battute tra Desenfado e Macaco: «Des. Aonde asiste?/Mac. Aqui entre
os bastidores; porque V.m. não vê as luzes que estou
espalhando?/Des. Deve de ser alguma vela de sebo!»)233, elemento
interessante è il ruolo giocato in un dato momento del dramma da
Desenfado, a conoscenza del piano di vendetta di Irene/Emira ai danni
del re Policrates/Cosroe, assassino del padre di lei. Temendo d’essere
tradita dal servo, la donna sfodera astutamente le sue doti seduttive
anche nei confronti di un personaggio “vile” all’interno del più alto
dramma metastasiano: «Ai de mim! Se me declara este infame,
finalizou a esperança da minha ideia! Que farei? Mas lograrei com
agrados o que não consigo com violência (À Parte) Desenfado, fica–
te embora, e farei por satisfazer ao teu empenho».234
Ópera intitulada Filinto perseguido e exaltado (1784)
Acto I, cena III
(Vista de Camera)
(Sai Pederneira)
232
Ma forse anche un riferimento a Pederneira, luogo che probabilmente diede i Natali a
Gil Vicente e ricordato dallo stesso autore nell’ Auto da Lusitânia.
233
Opera intitulada Filinto perseguido e exaltado, copiada oas 28 de Junho de 1784, p.
20.
234
Ivi, p. 28.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
303
Ped. Ora já me vai tardando o Senhor Desenfado; ele depois que eu lhe pedi os
brincos, as meias, os sinaes, anda fugindo de se encontrar comigo. Eu não vi
melhor modo para a gente se livrar de amantes, do que é pedir–lhe, que eles por
si só dão suspiros e ais. Verdade é que também de nós só recebem parolas:
tomara que já me trouxera esta tola para me pegar a outro; que nós somos como
peças de leitão, que vamos para quem dá mais. Cuidam estes basbaques que em
nos dar muito, que logo nos cativam; mas não se enganam, que nós só nos
vendemos, quando a poder de dinheiro somos compradas (Batem dentro) Mas ali
sinto gente, suponho que será ele. Quem é?
(Vay abrir a porta e sahe Macaco)
Mac. Quem há–de ser, bela Pederneira, de quem a minha cara de aço tira tantas
suiças que cada huma contempla magnum excitavit incendium. Quem há–de ser,
senão o teu Macaco, que preso nas correntes de teus olhos, anda sempre
amarrado aos [†] cego do teu nariz.
Ped. Ora Senhor Macaco, vá bugiar, e não seja atrevido vir desenquietar ao seo
quarto uma donzela.
Mac. Ai menina, eu não cuidei que era descrédito ir aos quartos em que moram
as donzelas: ainda que nisto me parece que falas com encarecimento; mas sabe
que eu vinha…
Ped. Ao que vinha? Diga, ao que vinha ao meu quarto?
Mac. A fazer horas.
Ped. Pois vá–se andando, que não estou para ouvir as suas bofetadas e
macaquices.
Mac. Ora vejam a bogia235, tu cuidas que eu sou algum momo.
Ped. Senhor Nico faça o que lhe digo; vá–se andando, que estou esperando por
gente.
Mac. Já entendo: suponho que é algum salafrário, que vem petiscar em
Pederneira. (À parte) Pois Senhora, eu não me vou.
Ped. Porque não?
Mac. Porque? Eu não sou capaz de aparecer diante de gente?
Ped. Eu estou em minha casa, e posso levantar–me às maiores com Você.
Mac. Espera não te levantes comigo. Ah Senhores, tão mau sou eu, que se
levantam as pedras contra mim? E pergunto, eu não posso saber que esse sujeito
cá vem fazer?
Ped. Não Senhor, que cada qual vem ao seo negócio.
Mac. Pois eu não sou capaz de falar em negócios, mas de untar as mãos com
umas boas luvas.
Ped. Que ouço! Este sim, que é bom para amante, que logo promete do pé para a
mão. (À parte) Pois se V.m. quer ficar, esta casa é muito às suas ordens. Mas que
me há–de Você dar de estar aqui?
235
Termine dal significato oscuro.
304
Capitolo II
Mac. Dar–te–ei quanto tu quiseres.
Ped. Pois eu o que quero são uns brincos, umas meias e uns sinais.
Mac. Ves isso não é nada para quem tanto deseja fazer–te a vontade. Mas eu
também quero…
Ped. Que quer?
Mac. Eu quero fazer contigo um ajuste!
Ped. Primeiro me há–de passar para cá o sinal.
Mac. Sim, no sinal não haverá dúvida.
Ped. Ora diga, diga o que quer!
Mac. Eu quero fazer com Você um ajuste: quanto me dá, e prometo ser seus
amores.
(Chega Desenfado ao bastidor)
Des. Parece–me que ouço cá falar: mas antes que entre verei o que se diz. Mas
ai, ai meus pecados, cá está a sevandija mor! Tomara saber que confiança tem
para cá entrares–te sevandija! Vejamos o que diz. (À parte)
Ped. É boa historia! Com que eu é que lhe hei–de dar? V.m. pede como quem se
despede.
Mac. Pois não diz o que me dá?
Ped. Dar–lhe–ei muita pancada.
(Sahe Desenfado aos murros a Macaco)
Des. Eu vou emparelhado nesse ajuste: mas que contratos são estes?
Mac. Ah que del–Rei. Ah Senhora, o Senhor é seu marido?
Ped. Não, mas estamos ajustados.
Mac. Então visto estarem ajustados, não os quero estorvar. (Faz que se vai)
Des. Ah Senhor sevandija, venha cá; a que entrou V.m. aqui?
Mac. Eu sim… foi… vim… mas ela… porém paciência. (Faz que se vai)
Ped. Espere. Vês? Tão feio é este homem que lhe mete medo? Não curo que
Desenfado desconfie de mim, e ao depois me não dê os trastes. (À parte) Diga
ao que veio, e não se asuste.
Mac. O que hei–de eu dizer? Mas já me ocorre. (À parte) Eu Senhor, tive notícia
que esta menina tinha necessidade de uns trastes para seo uso, vinha a traze–lhos,
e no tempo do ajuste sucedeu V.m. vir à pancada.
Des. Isto é verdade, porque ela me tinha a mim feito a mesma encomenda. (À
parte) Mas diga–me, e como soube V.m. que esta rapariga necessitava disso?
Mac. Cá por certos sinais.
Des. Não há dúvida que ela mos tenha pedido. (À parte) E diga–me trá–los ali?
Mac. Aqui só tenho os sinais das pancadas que V.m. me deu.
Des. Ora pois vá buscar essas coisas.
Mac. Sim Senhor, mas por quem hei–de perguntar quando cá vier?
Des. Porque? V.m. não me conhece que estivemos acolá no Templo?
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
305
Mac. Sim, mas não lhe sey o seo nome.
Des. Olhe quando cá vier pergunte por Desenfado Pederneiro. E se V.m. tardar,
por quem hei–de inquerir?
Mac. Se eu tardar, não tem mais que perguntar por mim.
Des. Pergunto, como é o seo epíteto?
Mac. O meu nome é que suponho quer saber?
Des. Sim Senhor.
Mac. Pois eu chamo–me Boncuro.
Des. Aonde asiste?
Mac. Aqui entre os bastidores; porque V.m. não vê as luzes que estou
espalhando?
Des. Deve de ser alguma vela de sebo!
Mac. Mas falando como gente, com perdão de V.m. eu chamo–me Macaco
Gonsalves Barulho, sou aqui creado de El–Rei, e muito amigo do Senhor seu
Amo e de Seo Pai, que está gozando do inferno!
Des. Bom é ter amigos, que uns puxam pelos outros. Pois Senhor Macaco
Gonsalves Barulho, aqui estou para lhe obedecer.
Mac. Aos pés do Senhor Desenfado Pederneiro. (Vai–se)
Des. Muito bons sapatos e muito boas meias. Ora minha Pederneira…
Ped. Primeiro que tudo saibamos se me traz os trastes, quando não pode ir
safando.
Mac. Eis aí porque eu não trago comigo trastes.
Ped. Porquê?
Mac. Por me não safar.
Des. Pois não mos comprou?
Mac. Não, mas andei trastejando todo o dia para os achar.
Des. E então o que fez?
Mac. Eu posso mais que fazer–me em pedaços por ti.
Des. Assim o suponho, que Você já quebrou comigo.
Mac. Como quebrei, se nós ainda não dizemos os nossos contratos?
Des. Diga, porque me não trouxe os brincos?
Mac. Porque são dificultoos a achar; se tu quiseres cadeados isso a cada porta.
Des. E as meias também as não achou?
Mac. Eu sim achei algumas meias feitas, mas quero deixá–las acabar.
Des. Arre lá com o desmazelo! Nada acha.
Mac. Tomara–me eu achar, que ando bem perdido por ti.
Des. E os sinais? É capaz de dizer–me na minha cara, que os não há.
Mac. Não, nos sinais não foi o descuido, o diabo foi esquecer-me.
Ped. Ora pois, vá já, e logo a buscá–los.
Des. Primeiro temos nós que fazer.
Ped. O que?
Des. Quero buscar um pé de cantiga para te sossegar.
Ped. Agora que estou com pressa he que quer por do, re, mi fa, sol.
Des. Ora faça alguma couza Senhora Isabel Macão.
Capitolo II
306
Ped. Lá vai, senhor João Gomes.
Dueto
Des. Se eu morrer enfeitiçado,
Choro, lambo o meu feitiço.
Ped. Vá–se embora desastrado,
Ha de ser para amor disso.
Des. Isso mesmo, e porque?
Ped. Há–de ser para amor disso.
Des. Venha cá.
Ped. Não, não quero.
Ambos. Ora vá, vá bugiar.
Dez. Ai minha Isabel não fujas.
Ped. Passa fora.
Vá–se, vá–se.
Dez. Não, não quero.
Ambos. Ora vá, vá bugiar. (Vão–se) 236
Acto II
Mac. […] V.m. não me dará notícias daquela menina que certamente, olhe
certamente…
Dsz. Certamente o que?
Mac. Certamente nada.
Des. Pois ela é peixe?
Mac. Não, antes pelas boas carnes é que eu o dizia.
Des. Não seja asno, e saiba que essa rapariga está para ser minha mulher.
Mac. Isso em V.m. é graça; mas olhe, se V.m. se quisesse desfazer dela…
Des. Ai meus pecados, que me vem pedir a mulher! (À parte) Mas verei o que
me diz. (À parte) Olhe, verdade é que senão fora ter–lhe prometiu de casar com
ela, também a vontade não é grande.
Mac. Pois então! Deixe–a para mim, que lhe tenho uma forte vontade.
Des. Meus ditos e meus feitos; mas verei se posso tirar a este tolo alguma tolan
para comprar os trastes de Pederneira, senão ela pouco fará em se mudar para
Macaco, e mandar–me a mim bugiar. (À parte)
Mac. Pois então em que ficamos?
Des. Que remédio tenho eu, senão ser paciente? Se eu achasse alguém que
quisesse cazar com ela em meu lugar…
Mac. Pois que duvida? Aqui está Macaco para suprir o seu lugar.
Des. Sim, um Macaco lá póde servir de Desenfado; mas não está ali toda a conta.
Mac. Não lhe faz conta.
Des. Se eu tivesse algum dinheiro com que rebatesse decreto de casamento…
236
Ivi, pp. 17-20.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
307
Mac. Vês, essa é a dúvida? Quanto quer?
Des. A mim bastava–me dez meias dobras.
Mac. Sim, eu lhas darei dobradas.
Des. Pois isso há–de ser depressa; se as não traz ali, vá buscá–las, ande que o
embarga!
Mac. Tenho medo que V.m. me embargue o casamento. Mas eu vou e quero
pedir–lhe um favor.
Des. Diga.
Mac. Quisera que V.m. me levasse um escrito, para ver se Pederneira com os
meus incêndios se desfazia em fogo, em ordem a pegar a mecha dos meos
desejos.
Des. Vês? Pois não! Primeiro te hei–de eu comer a isca. (À parte)
Mac. Pois eu vou buscar o dinheiro: até logo, espero da mercê que me faz, que
me não falte a esta honra.(Vaise)
Des. Vá? Certo, que o espero. Pois que vai! Eu feito terceiro de macacos; ora
vejam com aquela cara de sagum, também quer casar! Mas venham agora à laia,
que depois lhe chegará ao pêlo.
ARIA
Senhores caluda
Deixem vir Macaco
Que, como tabaco,
Aí ventas por brinco
Lhe quero chegar.
Depois que o dinheiro
Nas mãos acolher
Manda–lo–ei beber
Daquilo, daquilo,
etcetera calar.
(Sai Pederneira)
Ped. Lindamente, lindamente!
Des. Ora estimo que tivesse esta ocasião de me ouvir.
Ped. V.m. cantando! Isso é sinal de alegria.
Des. Antes quem canta é porque está triste.
Ped. V.m. triste? Não, quem não tem cuidados…
Des. Agora não tenho cuidados, já eu hoje fui a rua dos ourives mercar uns
brincos.
Ped. Que diz? Você brinca? E trouxe–os?
Des. Não, porque não levava dinheiro.
Ped. Então que foi lá fazer?
Des. Fui saber–lhe o preço. Olha estavam lá uns bem baratos.
Ped. Quanto queriam por eles?
308
Capitolo II
Des. Eram muito baratos.
Ped. Pois por quanto os davam?
Des. Eu não sei, porque lhe não fiz o preço.
Ped. Ora vá–se embora, não seja desavergonhado de me vir lograr outra vez, vá–
se, vá–se.
(Sai Macaco)
Mas ali vem Macaco, agora me vingarei, dando–lhe zelos. Meu Macaco…
Des. Ai que ela prega–me o momo com Macaco. (À parte)
Mac. Espera rapariga: bem sei que queres casar comigo. (À parte) Senhor
Desenfado, aqui está o dinheiro, e faça–me o favor de se retirar.
Des. Caiu na corriola: vou comprar os trastes de Pederneira, para lhe abrandar a
raiva. (À parte) Ah Senior, e o escrito?
Mac. Já não é preciso: como eu lhe posso falar, a minha palava é própria
escritura.
Ped. Meu Macaco, não me respondes?
Mac. Digo, que já cá tem feito com ela que seja minha amiga, que eu bem ouço
no modo de falar.
Des. Isso sim: pois eu havia descuidar–me? E ela está segura em que V.m. lhe
quer bem: é capaz de se fazer grave: fique–se com ela, adeus. (Vai–se)
Ped. Foise embora sem fazer cazo de mim. Agora se Macaco fora mais de meu
gosto, tãobem o caracol de dezenfado havia pollo ao sol, mas como he o meo
odio, não quero com elle graças. (Faz que se vay)
Mac. Ela ali começa com desdéns. (À parte) Oh V.m. quer que a segue?
Ped. Que diz?
Mac. Já me disseram que V.m. se havia fazer toda aquela de manto de seda.
Ped. Ora não seja asno. Vá–se embora.
Mac. Ah senhores, olhem como se finge. (À parte) Você, como sabe que morro
em a vendo, por isso é que é aquilo…
Ped. Ora está bem tolo!
Mac. Ora menina compadece–te de mim.
Ped. Tomara o eu ver padecente.
Mac. Visto isso, manda–me pôr em três pedaços! Mas olha que já estou feito em
pedaços.
Ped. Pois eu não quero nada com quebrados.
Mac. Olha a tola, tomaras tu casar comigo, que nunca te havia faltar senão tudo o
que houvesses mister.
Ped. Vá–se Senhor quebrado, que não serve para Marido inteiro.
Mac. Ora não te movem este requebrados amores?
Ped. Senhor Macaco, vá–se embora, que já fede.
Mac. Não pode ser, que eu sou o teu macaquinho de cheiro. Mas já que ela me
depreza por bem, quero ver se a levo por mal. (À parte) Oh desavergonhada, oh
grandissima porcalhona.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
309
Ped. É bastante atrevimento! Tome! Tome! (Dá–lhe)
Mac. Ora graças a deus, estava ali sem me dar nada, não há coisa como por mal:
vejam logo como me deu pancadinhas de amor. (À parte) Ora vem cá minha
Esposa consórcia.
ARIA
Ped.
Passa fora Macaco,
Ai, ai que me come,
Se tu não és homen,
Não tenhas amor.
Vai lá para o mato
Buscar companhia,
Para ter de ti do! (Vai–se)
Mac. É forte disfarçar! Ela vai como um raio, mas todo aquele fuzilar vem a
darem calmaria: digo isto, porque já me calmou. Aqueles enfados é o mesmo que
renhir para mas querer. Vou dar os agradecimentos a Desenfado, por este
passatempo. (Vai–se) 237
Acto III, cena I
(Jardim)
(Sai Macaco e Dezenfado)
Des. Ora Senhor, dê–me notícias das suas fortunas.
Mac. Ai meu amigo, deixe beijar–lhe os pés em agradecimento do seu favor.
Des. Pois então o que lhe sucedeu?
Mac. O que havia de ser! Começou a Senhora Pederneira a fazerse grave ao
princípio, mas ao depois foi dando de si.
Des. Pois fez–lhe algum favor?
Mac. Sim Senhor, fez–me a fineza de me dar dois murros. Olhe aquilo é que é
dar deveras, tudo o mais é graça.
Des. Grande honra! E como ficaria V.m. contente?
Mac. Oh lá, pois não! Bastava–me ser coisa da sua mão.
Des. Sim, que manos blancas no ofende. Ora sempre é bem tolo o tal Macaco! (À
parte)
Mac. Ora diga–me: ela tem–lhe falado em mim?
Des. Isso a todo o instante: hoje me deu ela os agradecimentos de lhe dar tão
bom noivo.
Mac. Isso é lisonja.
Des. Não, não é.
237
Ivi, pp. 28-31.
Capitolo II
310
Mac. Pois pareciame, mas já vejo que tudo mereço.
Des. Também me disse, que morria por V.m. Olhe, sabe agora o que há–de
fazer? É desprezá–la, e não lhe dizer finezas, e verá como ela se desfaz toda em
amores.
Mac. Deveras? Oh meu Dezenfado, deveras? Isso é verdade? Ora V.m. saberá,
como eu me faço grave.
Des. Em ordem a que me não persiga a pequena, e ainda que ela já esteja bem
comigo pelos trastes que lhe dei, com tudo mulheres são muito arriscadas. (À
parte)
Mac. Ainda não posso crer, que Pederneira estalla por mim.
Des. Sim: mas tu não te livras de algum estouro. (À parte)
Mac. Ora adeUs, que me não posso deter: veja se lhe presto para alguma coisa, e
não me poupe, bem sabe… mas adeus. (Vai–se)
Des. Bem sei que é um asno. Ora vamos ver se o Senhor meu amo pediou já a
El–Rei a minha Pederneira, que esta noite faço tenção de a render; parece–me
que a estou vendo feita minha marida. (Va–ise) 238
(Sai Pederneira com uma caixa na qual traz varios trastes)
Ped. Ora já o Senhor Desenfado se esportulou com os trastes, que lhe pedi; agora
se eu tivesse outro a quem sacar alguma tola, não era mau. Ora vamos vendo o
que vem na tal caixinha; cá vem as meias, e um leque, e é da moda: agora sim,
que com isto serei o chefe da francezia.
(Tira da caixa um leque da mod, e abanando–se canta o seguinte)
MINUETE
Ai que ventura
Logro ditoso!
Chinela bordada!
E meia encarnada!
Com leque da moda!
Mui prança hei–de ser.
Sinais na carinha
Com tantos caprichos
Que bichos, que bichos,
me hão–de fazer!
Mas cá vem Macaco, fingir–me–ei muito sua amiga, por ver se cai na corriola.
(Sai Macaco)
238
Ivi, p. 37.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
311
Mac. Oh cá está Pederneira? Como sei que me quer bem, fingir–me–ei muito
grave, que assim me ensinou Desenfado. (À parte)
Ped. Meu riquinho Macaco.
Mac. Ela comigo; quero fazer–lhe um desprezo amante. (À parte) Arre para lá,
não seja tola. (A Ped.)
Ped. É bem salvagem! Mas vamos à nossa conveniência. (À parte) Que tem
contra mim? Que te fiz eu, meu macaquinho? (Com caricias para Macaco)
Mac. Não foi mau desdém; proseguirei na mesma forma. Ah Senhores muito
devo aquele Desenfado! Também se ele me não contasse tudo, caia eu agora
como um tolo. (À parte)
Ped. Não respondes à tua Pederneira, que tanto te quer?
Mac. Pois que vai! Ah Senhores, muito devo a Desenfado (À Parte) Já lhe disse
que não fosse tola. (A Ped.)
Ped. Ele está impertinente mas hei–de lográ–lo. (À parte) Pois estás mal comigo,
meu Macaquinho?
Mac. Ela está–se desfazendo por instantes mas a quem não renderam estes meus
dengues! Quero lhe fazer uma mesguice, dando–lhe um bofetão. (À parte) Para
que não seja impertinente, tome, tome. (Dá–lhe)
Ped. Oh insolente, oh desavergonhado, cale–se, você me pagará. (Quer ir–se)
Mac. Venha cá que estes melindres foram para que você visse que lhe quero dar–
lhe com um páu.
Ped. Vá–se embora, que o não quero ver mais.
Mac. Pois então vem cá, que eu te botarei os olhos fora.
Ped. Só se você me der o que lhe pedir.
Mac. Sim: pede, pede.
Ped. Promete não faltar?
Mac. Se eu faltar, eu chegue a ser teu marido.
Ped. Dê–me cá a sua mão.
Mac. Pois para isso estavas com vergonha? Ah Senhores muito devo a
Desenfado, e vejam a brevidade com que fez que me desse a mão. (À parte) Ora
aqui está a minha mão.
Ped. Pois quero que você me compre um afogador.
Mac. Vês, para isso aqui estou eu, que sou notável para carrasco. Mas como nós
estamos já casados…
Ped. Que diz casados?
Mac. Sim, porque nós não demos as mãos?
Ped. Ora é bem tolo; mas seguirei a sua asneira. (À parte) Ah sim, não me
lembrava.
Mac. Ora pois eu o que quero é muita sisudeza, e dize–me, queres o afogador do
pescoço ou da garganta?
Ped. Do pescoço, porque não é tudo mesmo.
Mac. Não, que há uns da garganta, outros do colo.
Ped. Pois traga o que lhe parecer.
Capitolo II
312
Mac. Em quanto ao meu parecer, o melhor era não trazer nenhum, mas por lhe
fazer o gosto, eu vou buscá–lo: ser–me muita sisuda, senão… Ora adeus… (Quer
ir–se)
(Sai Desenfado)
Des. Por onde andará Pederneira? Mas oh ela cá está com Macaco. A que isto me
não cheira bem. (À parte)
Ped. Importa–me disfarçar por por não perder o afogador. (À parte)
Mac. Oh meu amigo, só você sabe ensinar: ela começou com muitos amores, eu
dei–lhe um bofetão, ela resa resmungou, eu chamei–a, ela retrocedeu e agora
estamos muito amiguinhos. (Para Des.)
Des. Ah eu estou perdido! Oh menina, V.m. não me conhece!
Ped. Eu só para a servir.
Mac. Olhem aquele propósito: como é já ela, vejam o respeito que me tem . (À
parte) Ah Senhor Desenfado!
Des. Deixa–me tolo. (Dá–lhe)
Mac. Irra Senhor Desenfado.
Des. Arre meu Macaco. (Aos murros)
Ped. Vou–me esgueirando, antes que aqueles carolos me venham dar na cabeça.
(Vai–se)
Mac. Ah que del–Rei, que me matam.
Des. Que é de Pederneira? Esgueirou–se? (Olhando para toda a parte)
Mac. Olhe, olhe, ela ali está. Agora marcho, já que me tocaram a caixa. (Vai–se)
Dez. Espere maganão: foi–se? Cale–se que eu o apanharei às unhas, e a
maganeta já senão lembra do que lhe dei! Pois tome.
ARIA
Eu feito Bezerro!
Arre meu Macaco,
Não cabe no saco
Já tanto aturar.
A gente em me vendo
De medo tremendo
Julgando–me Touro
De mim fugirá.
A moça é velhaca,
e em meu desabono
pregando–me o mono,
um touro me faz. (Vai–se) 239
239
Ivi, pp.44-45.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.12.
313
Issipile
Sulla storia dell’Issipile, questa vicenda dello sdegno e del furore
delle donne di Lenno, abbandonate e tradite dai rispettivi consorti ed
ideatrici del «barbaro disegno di ucciderli tutti al primo loro arrivo,
simulando tenere accoglienze»240, Jacques Joly si era espresso in uno
studio del 1990 giustificando l’eccessiva lunghezza dell’Argomento
proposto dal Metastasio con una necessità di accettazione da parte del
pubblico del XVIII secolo, il quale avrebbe potuto non gradire una
vicenda interamente giocata sul filo della vendetta e del risentimento
femminile, portata fino alle estreme conseguenze della violenza fisica
più esplicita241. Ma proprio partendo da una tale considerazione, ci è
parso del tutto contrario a questo spirito di accettazione e
chiarificazione della trama principale del testo di partenza,
l’atteggiamento adottato dall’adattatore portoghese dell’Izipile em
Lemos ou Os Erros de Learco Premeados, copia manoscritta per
mano dell’ormai noto José António de Oliveira, del 25 aprile 1783,
laddove si decide per la creazione di un intreccio comico attraverso la
consueta presenza dei tre graciosos non solo calcando la mano su
volgarità verbali, ma insistendo soprattutto sul clima di violenza fisica
che si viene a creare tra la coppia giovane di turno e l’antagonista
anziano, padre di lei. In una scena in particolare i tre servi, Bandalho
(“straccione, damerino, mascalzone”), criado di Jazon, Cecia (forse da
cecear “parlare affettatamente à lisboeta, pronunciando s per z o ss
per c”), criada di Izipile, e Trapalhão (“straccione”), vecchio padre di
Cecia, sotto la minaccia reale di un pugnale ora nelle mani
dell’anziano padre ora in quelle del servo pretendente, imbastiscono
una cruenta lotta fisico–verbale finalizzata unicamente alla sottrazione
della dote destinata a Cecia. Inizialmente i tre risultano coinvolti nella
vicenda centrale del dramma metastasiano vero e proprio, ossia
nell’agguato preparato dalle donne di Lenno nei confronti dei mariti
240
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 481.
Esattamente a questo proposito si legge in Joly: «Nell’edizione in volume, il libretto è
preceduto da un lunghissimo Argomento, che è uno dei più elaborati del Metastasio, e
propone già un’interpretazione dell’insieme della vicenda atta a farla accettare a un lettore del
Settecento, che avrebbe potuto offendersi di questa storia violenta e mitica di odio, di vendetta
e di furore» in J. Joly, op. cit., p. 34.
241
314
Capitolo II
dimentichi e fedifraghi, tanto che Cecia decide di rompere la promessa
che le imponeva di nascondere il progettato delitto ad ogni altro uomo,
per permettere al padre e a Bandalho di nascondersi nel bosco di
Diana. In seguito, tuttavia, il triangolo comico abbandonerà la via
maestra della narrazione originaria, per andare a creare una commedia
dei sotterfugi che vedrà la consueta trovata comica del ricorso al
travestimento, con il quale Bandalho si finge Trapalhão per godere
delle attenzioni della tanto bramata fanciulla. Dopodichè si arriverà
alla scena della violenza di cui si diceva, con una naturalezza quasi
scontata, passando dal ridicolo dei lazzi e dei motteggi di qualche
momento precedente, ad atti di forza e crudeltà interrotti unicamente
dal ritorno alla ragione del personaggio di Cecia che, all’unico scopo
di calmare gli animi infervorati, finge uno svenimento improvviso. In
questo modo sarà solo l’evento tramautico della perdita dei sensi,
quindi della ragionevolezza, a riportare il senno in un momento di
totale degenerazione degli usi e delle consuetudini, del tutto
sorprendente per l’epoca, soprattutto se pensiamo che vengono
calpestati in un solo atto tutte le regole di condotta e rispetto padri–
figli e vecchi–giovani.
Opera Nova intitulada Izipile em Lemos ou Os Erros de Learco Premeados
(1783)
Acto I, cena I
Trap. Quem é Cecia este Soldado que tanto se comunica?
Cec. Eu, meu Pai, agora o vejo.
Ban. Pois não me conhece, diga?
Trap. Como conhecê–lo posso?
Ban. Conhece a Jazon?
Cec. Quem o vira já chegado a esta terra?
Ban. Pois esta fizonomia não lhe está logo dizendo que dele sai?
Cec. E Jazon tardará muito?
Ban. Tardar, quando na marinha ancorado está desde hoje?
Trap. Não me importa essa notícia, quero filha que me contes o que há–de novo
nesta Ilha.
Cec. Meu Pai, eu dei juramento de não dizer o que havia, mas sendo o Senhor
criado de Jazon, e a tua vida para mim de tanto amparo, foge que as damas
malignas esta noite são dos homens os seus crueis homecidas.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
315
Trap. Que dizes filha, me enganas?
Ban. Oh Senhora não me minta.
Cec. Provera a deus fosse falso!
Ban. Pois eu que falar queria a Princeza e dar–lhe conta de Jazon.
Trap. Mas minha filha que hei–de fazer?
Cec. Ambos juntos nesta mata aqui vizinha se escondam, que eu brevemente
tornarei. (Vai–se)
Ban. Veja menina que também recado trago para ela.
Trap. A rapariga?
Ban. Não Senhor para a Princeza.
Trap. Isso sem chiton.(Vai–se)
Ban. É irra esconder–me com um velho, mas podes ser sogro inda. (Vai–se) 242
Cena II
Ban. Este é aquele pirata de cujas unhas podia sair eu maior Bandalho?
Trap. Senhor camarada, diga como daqui sairemos, que jogo das escondidas já
não é para os meus anos.
Ban. Como a saude se arisca neste bosque, eu para a praia parto a procurar
notícias de meu amo.
Trap. Eu também fora, senão temera a saida e julgo melhor conselho esperar
aqui a filha.
Ban. E se no entanto chega o diabo que aqui domina e nos leva?
Trap. Você pouco parece–me que perdia.
Ban. Pois fique você com ele, que se por nada me estima eu tendo a você por
muito, fazer–lhe-á muito companhia. (Vai–se)
Trap. Ainda assim salvar o corpo como a certo se ajuiza, que posto a filha
retorne como aqui estou não me alívia. (Vai–se)
(Sai Bandalho)
Ban. a em busca de meu amo, porém o medo me incita a que torne acaso fora
que encontrasse uma homecida destas que tem só um peito e me esbandalhasse
as tripas.
(Sai Cecia como as Escuras)
Cec. A Deusa Diana seja comigo nesta obra pia que venho fazer aonde acharei
meu Pai.
Ban. A filha daquele mal encarado é esta, segundo afirma o ruge nige da fala
aqui a espero.
242
Opera Nova intitulada Izipile em Lemos ou Os Erros de Learco Premeados. Copiada
por Antonio Joze de Oliveira aos 25 de Abril de 1783, pp. 8-9.
316
Capitolo II
Cec. Mofina de mim se meu Pai não acho.
Ben. Aqui me tens rapariga. (Fingindo–se velho)
Cec. De cá a mão, comigo venha.
Ban. E os braços também em cima.
Cec. Aonde está o criado de Jazon, meu Pai mo diga.
Ban. Há menos de duas horas que daqui se foi e ainda que não veio julgo o
mataram pelos ais que repetia.
Cec. Não há maior crueldade, que dirá Jazon?
Ban. Menina para onde vamos, vamos.
Cec. Vou tremendo.
(Sai Trapalhão)
Trap. Não atina a minha idade o camino. (Como as escuras)
Cec. Mas gente aqui se avizinha.
Ban. Vê, não seja aquela fera que é dos Bandalhos ruina.
Cec. Pois chamava–se Bandalho o criado de Jazon?
Trap. Da filha é esta voz, não me mente, Cecia onde te emcaminhas? (Gritando)
Ban. Deu fim o meu pio paterno, quando outro Pai se acredita. (À Parte)
Cec. Pois como a dois Pais encontro, qual é meu Pai não me minta. (Larga a
mão)
Trap. Com que já me desconheces?
Cec. Não senhor, com que ousadia você na mão me pegava fingindo–se meu Pai
diga?
Ban. Pelo afecto que te tenho, em minha conciência cria ser teu pai.
Trap. Senão receara…
Cec. Meu Pai que faz, olhe a minha reputação.
Trap. Senão fora…
Ban. Senhor velho, se imagina a seu crédito perdido eu sou capaz…
Trap. Sevandija de que é capaz!
Cec. Não se alterem.
Ban. De honrar a sua famílha.
Cec. Olhem que se aqui nos ouvem mais do que cuidam se arrisca.
Trap. Arrisque–se muito embora, que este velhaco me incita.
Ban. Veja você como fala, que inda que é Pai da menina, senão me visse as
escuras…
Trap. Se luz ouvesse veria…
(Dentro vozes)
Dentr. Vamos ao bosque de Diana.
Cec. Ai de mim, que se emcaminha para aqui Eurinome e gente, vamo–nos
daqui: de guia lhe servirei meu Pai, ande. (Dá–lhe a mão) e anda tu. (Dá–lhe
também a mão)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
317
Ban. Anda menina. (Vão–se) 243
Acto II, cena I
(Vista de Sala particular)
(Sai Trapalhão e Cecia)
Cec. Meu Pai não lhe acho razão hei–de donzela morrer?
Trap. Não, mas espero has–de ter que te dê estimação.
Cec. Pois Bandalho que é Soldado não me dará, sendo certo que está do aumento
bem perto, por ser de Jazon criado?
Trap. Com Bandalho, isso é loucura, se fora outro qualquer homem…
Cec. Ai senhor, veja que o enorme desmente pela figura, sim meu Pai isto há–de
ser, eu com ele hei–de casar.
Trap. Primeiro te hei–de enforcar de que chegues tal a ver.
(Sai Bandalho)
Ban. Senhor sogro, que tem cá com Cecia que fala em mim?
Trap. VocE, seu villão ruim, quem tal confiaça lhe dá?
Ban. Seja comigo mais terno na conceção deste logro, preze–se de ser meu sogro
e saiba que hei–de ser seu genro.
Trap. Donde estou, que enfurecido não lhe esmurro a conciência!
Cec. Senhor Pai, tenha paciência que Bandalho é meu Marido.
Trap. Pois não, repara que eu valho mais de que quem te deseja.
Ban. Que pouco defere, veja, um Trapalhão de um Bandalho, de mais senão quer
que tome a Cecia por mulher fique aqui até que o notefique para as guerras de
Eurinome.
Cec. Bandalho não faças tal, que é coisa que não convém.
Ban. Como senão quer por bem o vinculo marital?
Cec. Senhor Pai, isto há–de ser, pode–se desenganar.
Trap. Em fim, queres te casar?
Ban. Não só, sequer receber.
Trap. Que hei–de sofrer este logro.
Cec. E também dar–me o meu dote.
Trap. Fora segundo, cala–te.
Ban. Com que é barro ser meu sogro?
Cec. Com que hei–de casar–me, pobre sem limpeza que me vista?
Trap. Quem a um Bandalho se alista com pouca roupa se cobre.
Ban. Senhor sogro, isso é feição não vestir a rapariga, que quer que o mundo
diga, que é filha de um Trapalhão?
243
Ivi, pp. 11-13.
Capitolo II
318
Trap. Se eu não quero por tais modos que a apartar–se de mim venha.
Ban. e Cec. Não senhor, sustos não tenha, vamos para casa todos.
Trap. Para casa, isso é logro e a comer do meu trabalho.
Cec. Eu comerei de Bandalho.
Ban. E eu de Cecia e mais do sogro.
Trap. Em fim remédio não há, queres casar?
Cec. Sim Senhor.
Trap. Pois eu não quero.
Ban. É peior que há muito que feito está.
Cec. Pois meu Pai em conclusão, resolvo–me, hei–de casar.
Ban. Eu não lhe posso faltar.
Cec. Bandalho vem, dá cá a mão. (Dá–lhe a mão e vão–se)
Trap. Neste caso, estas cans minhas que farão nestas afrontas, vou–me rezar
pelas contas em tanto que troço linhas. (Vai–se) 244
Cena III
(Vista de camera de Trapalhão com uma banca ou bofete que tenha gaveta)
(Sai Bandalho e Cecia com uma bolsa)
Cec. Meu Bandalho, nesta bolsa meu dote tens em moedas, porque não quero
que digas me levaste pela orelha.
Ban. Eu para casar contigo a ti te buscava Cecia, não pertendia mais dote do que
o da tua lindeza, mas bom é que haja dinheiro para as contínuas despesas.
Cec. Porém, vê lá onde o metes, não entre o velho em suspeitas, porque inda
agora o não sabe que lho tirei da gaveta.
Ban. Pois dize–me, sendo avaro podia deixá–la aberta.
Cec. Como aberta? A sete chaves a tinha com tal cautela que as seis tinha-as no
cuidado, tinha a outra na algibeira, esta lhe pilhei dormindo […] pela experiência
ser bem certo que quem dorme também lhe dorme a fazenda.
Ban. Porém, que dirá o velho quando tal saiba, que esperas tu dizer–lhe, porque
eu possa falar pela boca mesma.
Cec. Negar inda que me meta.
Ban. Pois eu da própria maneira o farei, inda que morra, porém é verdade certa
que ladrão que tem dinheiro na forca nunca pende.
Cec. Mas Bandalho, a bolsa esconde, repara que o velho chega e porque em nós
não suspeite, vamo–nos daqui depressa. (Vai–se)
[…]
(Sai Trapalhão)
244
Ivi, pp. 17-19.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
319
Trap. Donde estará esta filha, depois que noiva se esmera para cuidar no marido,
de mim se esquece; mas veja que ainda tenho aqui guardado (Apontando para o
bofete) muito bem debaixo desta (Tira a chave) chave o dote que me pede, mas
para que não suceda que quando haja de entregá–lo saiba o mais que aqui se
encerra, agora que só me vejo quero separá–lo: oh se ela esta chave me
apanhasse! Cerro esta porta, não venha (Fecha a porta) algum deles que regalo
(Abrindo a gaveta) é contar dinheiro, seja louvado Baco, que gosto, mas ai de
mim que a gaveta (Como acima) primeiro do que eu vejo outrem quem seria
senão Cecia? Ah Trapalhão desgraçado (Arrepelando–se, chorando e mordendo–
se) mofino que melhor te era seres cativo de Mouros, teres cobradas as pernas,
perderes os olhos ambos, andares posto em moletas do que veres que te falta
tanto dinheiro. O perversa (Gritando) filha, ó maldito Bandalho, se acaso para
esta ideia concorreste hei–de matar–me .
(Sai Bandalho e Cecia pela parte contrária)
Cec. Senhor Pai de que se queixa?
Ban. Senhor sogro porque chora?
Trap. Porca ladina, michela, põe aqui todo o dinheiro que me roubaste.
Ban. Ora atenda o que fala, que é vergonha de que chore por moedas um
barbaro, é ser criança.
Cec. Pai e Senhor, nunca creia, cuida que me capacito do que me diz, se isso é
treta para não dar–me o meu dote, comigo se engana.
Ban. Cecia tem mão, que has–de vencê–lo.
Trap. Com que dize, capaz era dizer por uma outra coisa.
Ban. È logo verdade certa que algum dinheiro lhe falta?
Trap. Alguma soma, não pequena.
Ban. Pois quando seja assim, chora por uma tal bacatela?
Cec. Pois não sendo por dinheiro, porque causa se lamenta?
Ban. Cale–se que me envergonho de ver que meu sogro seja…
Cec. Senhor Pai, venha o meu dote que o mais que diz é arengas.
Ban. Olhe, cá você não sabe o genro que tem, quisera para dar–lhe esse dinheiro
ter já o dote da Cecia.
Cec. Escusemos mais tramoias logo e já o dote venha.
Trap. Ah que del–Rei, que estou roubado, roubares–me mais não queiras.
Cec. Não fale assim, não presuma alguem vendo que se queixa que eu fui a
roubadora.
Ban. Senhor sogro, se a contenda é pelo dote não faça caso de tal.
Cec. Porque regra com que já tu dispor queres do meu dote, isso não, tenha
paciência, venha o dote ou senão tenha paciência, Bandalho agarra no velho em
quanto eu vou a gaveta. (À parte para Bandalho)
(Agarra Bandalho em Trapalhão e Cecia vai a gaveta)
Capitolo II
320
Ban. Sim vai descansada. (À parte para Cecia) Diga senhor sogro a porção era
muito grande, na verdade que me lastimo, mas nessa capa que tem há rotura
volte–se cá.
Trap. Que inda mais essa.
Ban. Ah mulher agora é tempo. (À parte para Cecia)
Cec. Segura-o que não se mexa. (À parte para Bandalho)
Trap. Quem me acode que me roubam. (Reparando)
Ban. Vá, não faça resistência.
Cec. Agora que o dote levo, largá–o e segue–me depressa. (À parte para
Bandalho. Vai–se)
Ban. Como não hei–de seguir–te, se duas almas me levas. (Vai–se)
Trap. Ora estou bem aviado não há quem se compadeça de mim: dando–me um
garrote ou veneno: desta feita senão cobro o meu dinheiro, juro pelas barbas
mesmas que hei–de fazer um Bandalho maior que Bandalho a Cecia. (Vai–se) 245
Atto III, cena II
(Vista de Sala Particular)
(Sai Bandalho fugindo de Trapalhão que vem com uma faca atrás dele e Cecia
pegando e sustendo o Pai)
Cec. Senhor Pai, isto é loucura! Que quer que esta gente diga vendo que com
esses anos faz coisas de raparias.
Trap. Em ti vil filha também poderei vingar–me.
Ban. Cecia tem mão, vê que vibras contra mim o ferro adonde escapares das
centenarias iras.
Trap. Há–de pagarme, magano, da traição à aleivosia agarrar–me pelas costas
para tirar–me da gaveta a china.
Ban. Senhor sogro, não abuse da minha prudência.
Trap. E ainda fala em prudência velhaco. (Querendo envesti–lo e Cecia o
suspende)
Cec. Ora não, basta já meu Pai de brigas.
Trap. Não basta, sem que lhe tire com este punhal as tripas. (Quer dar–lhe e
Cecia suspende-o)
Ban. Cecia, adverte que se o largas…
Cec. Porque da mão a faca lhe não tiras?
Trap. Tirar–me o punhal, tu porca, também contra mim o ensinas.
Ban. Sabes tu porque o não faço? Porque o medo é maior que a valentia, porém
agarra tu nele.
Trap. Que agarre em mim, que malícia!
Cec. Senhor Pai, ou se acomode ou veja que me mato.
245
Ivi, pp. 25-28.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
321
(Quer firir–se com o punhal que tirou ao Pai e este o supsende a tempo que
anda mudando, apanha Bandalho o punhal e quer dar em Traplhão e Cecia o
suspende)
Trap. Oh rapariga…
Ban. Larga–me esse punhal Cecia, pois senhor sogro queria matar–me, pois
morra agora.
Cec. Ah Bandalho que fazes?
Trap. Ó sevandija, quem lhe meteu na cabeça, diga–me, que eu o temia. (Vai
para Bandalho)
Band. Senhor sogro eu lhe requeiro que se acaso de mim não se retira…
Trap. Que há–de fazer sendo um fona?
Ban. O velho conhece–me a cobardia.
(À Parte)
Cec. Isto só tem remédio quando um desmaio acidental se finja. (À Parte)
Ban. Retire–se, olhe que o mato. (Empunhando a faca)
Trap. Se tem valor ande em vista.
Cec. Ai e não há quem me acuda?
Ban. Cecia que tens?
Trap. Que é isso rapariga?
Cec. Não é mais que um desmaio. (Cai desmaiada)
Ban. É muito boa a gracinha.
Trap. Você tem a culpa, agora que remédio há–de ter?
Ban. Que água fria, ande depressa vá buscá–la.
Trap. Se acazo he boa a mezinha eu já correndo aqui torno. (Vaise)
Ban. Ai Cecia torna em ti minha menina.
Cec. Como já se foi o velho, já torno em mim que queria somente que um se
appartasse.
Ban. Sim mas logo trará a medicina.
Cec. Que importa, se antes que venha nos vamos porque seria tornando e
achando–me boa como antes continuar na mesma briga.
Ban. Pois Cecia, porque fiquemos de uma vez livre do ginja de Jazon […]
Cec. Vamo–nos, antes que chegue, porém vê que a feição minha não merece que
me enganes por me levares honrada moça e rica.
Ban. Ora nunca te vi asna senão agora: entendias de mim semelhante coisa, nua
e crua te amava rapariga, ora anda segue os meus passos que o velho aqui se
encaminha. (Vai–se)
Cec. Queira amor não nos encontre, porque atrás do dinheiro não nos siga. (Vai–
se)
(Sahe Trapalhão com uma bilha)
Trap. Aqui Bandalho tens água, mas já se foram, bonita ma fizeram os rapazes,
ora é certo que quem com eles brinca já se sabe que se é noite o como amanhece;
Capitolo II
322
eu cri que era desmaio, em desmaio porém foi estupor na bolsa minha não me
hão–de me escapar: atrás deles correndo vou […]
(Vai–se) 246
Del tutto differente è l’adattamento copiato dallo stesso de Oliveira
esattamente un mese dopo, il 26 maggio 1783, comprensivo di
mutamento di genere (da ópera nova a drama trágico e heroico), di
mutamento significativo di sottotitolo, Izipile em Lennos ou O
Levante das Amazonas, che in questo senso sposta decisamente
l’attenzione dagli “errori di Learco premiati” alla centralità della
vicenda della vendetta femminile e, infine, comprensiva
d’inserimento della maschera comica ridotta al solo conflitto uomo–
donna, del resto tensione permeata sin dalla vicenda originale
metastasiana, e qui incarnato da soli due criados: Calambeque, servo
di Jazon, e Balandra, serva di Izipile, nomi già incontrati
nell’adattamento della Didone abbandonata del 1782. Per rimanere
sulla linea del rilevamento degli aspetti più singolari degli adattamenti
al gusto portoghese, in questo caso possiamo mettere in evidenza un
episodio di violenza fisica reale e al femminile, nei confronti del
servo Calambeque, naturalmente in sintonia con l’innovativo tema di
fondo, oltre ad altre caratteristiche particolari: l’insistere divertito su
metafore verbali inerenti all’attività del navigare di Calambeque; il
travestimento mirato del servo pretendente sotto mentite spoglie di
medico specializzato in acciacchi generici; inesattezze storicocronologiche come il riferimento in un primo tempo al Tempio di
Bacco ed in seguito all’invocazione degli angeli.
Izipile em Lennos ou O Levante das Amazonas (1783)
Acto I, cena I
Cal. Ai senhor, aonde vai? Mas adeus luzes que se apagam as candeias. […]
ora boa viagem senhor meu amo, mas ai que perdi o rumo daquela e me é
difícil seguir a derrota, sempre marco o pano por bombordo a ver se no mar
da minha desgraça encontro alguma aragem de fortuna, mas que correntera é
esta que me leva? Vamos viajando mas tá que nós temos embarcação a uma
vista […] e vou com a proa sobre ela antes que dando–me a popa faça–me
246
Ivi, pp. 41-43.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
323
alguma descortesia e como ela vai com todos os passinhos largos, mas como
eu velejo bem dou–lhe caça de carreira. Oh da embarcação!
(Grita)
(Sai Balandra ao longe)
Bal. A este Templo de Baco venho procurar minha Senhora Izipile, e de
caminho fazer a minha costumada reverência aos Deuses, porém como estão
as portas fechadas tornaremos por onde vivemos. ( Quer ir–se)
Cal. Ai sio, oh da embarcação!
Bal. Algum Pirata dos Lennos temos. (À Parte)
Cal. Arribe, senão boto o catraio fora.
Bal. Eu não ouço fallar por buzina.
Cal. Não ouve? Pois receberá o que lá for.
Bal. É preciso que ache em mim resposta, porque me não leve assim as mãos
lavadas. (À Parte) Senhor afaste–se, não, não venha a balouçar com a gente
porque levará quatro ameixas.
Cal. Boa peça e pelo ronco é vinte e quatro.
Bal. Pois não teme que esta Balandra o meta a pique, olhe que descarrego.
Cal. Valha–te uma balla.
Bal. Olhe que disparo.
Cal. Truz truz, lá passaram as palanquetas por cima da minha cabeça, o certo é
que isto cá é Calambeque que senão rende a qualquer Balandra.
Bal. Senhor arriba ou não arriba?
Cal. Não arriba.
Bal. Pois só vai uma banda das minhas pelo seu costado.
Cal. Oh rapariga, tem mão, não me faças a pontaria ao vazio, que bem vês que já
vou em cheio.
Bal. Já nós lá vamos.
Cal. Não, mal feito.
Bal. Pois tome para assagem que me parece que não há–de ser pequena. (Dá–
lhe)
Cal. Tem mão, oh Balandra, da–me antes pelas obras mortas, e não por parte
aonde comece a fazer agora.
Bal. Vejam que esta embarcaçaô me havia de aparecer, senhor vai–se o fique
neste lugar.
Cal. Não! Eu vou–me mas é indo na minha companhia sempre dando a bomba.
Bal. Viu–se empurração maior!
Cal. (Antes que chegue a mais a sua desesperação) Balandra falemos com o
Deus, com os Anjos, vê que eu não sou Calambeque pirata mas Calambeque
sambuco, que aqui ando como viram, como alma do outro mundo.
Bal. Nome de benta, ora vou–me porque se me arrepiam os cabelos. (Va–ise)
Cal. Ora, certamente que a fiz como os meus narizes, mas eu protesto de que
trasformando–me em várias formas a pesque em termos em que a reduza para
324
Capitolo II
minha amada, que a rapariga é suja que nem um azougue e se chego a casar com
ela, que ricos filhos que nós teremos. (Vai–se) 247
Acto II, cena I
Bal. Outra coisa se não gaba em Palácio mais que uma lebre, mulher que se vejo
introduzir por creada de minha Ama, a Senhora Izipile, eu ainda a não vi, porém
dizem que é peça leal também […] Valha a verdade que é mulher prodiga e cura
de algumas enfermidades, mas isso veremos nós quando lhe comunicar os meus
achaques, porém que desconhecido vulto é o que para mim se vem chegando? Se
é de Calambeque a visão, eu te conjuro alma de Barrabas.
(Vem saindo Calambeque)
Cal. Não se asuste minha rica senhora, que não é nada do que a menina lhe
parece.
Bal. Tu és aquela celebre mulher que viestes para Palácio, e cura queixas nunca
vistas?
Cal. Tanto não posso eu dizer minha Senhora.
Bal. Já que tanto conheces e pelos corações humanos é, quero que me digas que
é o que neste instante penetras de meu melancolico pensamento e se o advinhares
dar–te–ei o meu coração e alma e todas as suas potências.
Cal. Muito prometes, mas sem receber paga adiantada, o que sentes no teu
pensamento é o aperto com que vive neste Palácio de não poderes dar um adeus
a quem te adora.
Bal. Oh que bem advinhaste, só tu é que podias acender a luz que estava apagada
ne candeia da minha memória.
Cal. Porém eu te hei–de noticiar um moço, ainda que de tenros annos, muito
experiente para curar esses achaques e outros muito mais melindrosos.
Bal. E quem é esse moço?
Cal. É um meu sobrinho, e entende–se muito bem.
Bal. E como é o seu nome?
Cal. O doutor Apio.
Bal. É moço ou velho?
Cal. Não lhe disse já que era rapagão e bem encaixado para desencaixar do
pelago do seu entendimento qualquer receita para as maiores queixas de qualquer
mulher?
Bal. Pois se ele ser optimo remédio a meus males, em mim terás também de
amiga quanto agora tens de criada para o teu serviço. (Vai–se)
Cal. Pesquei a rapariga, ora o certo é que a indústria é mais da sagacidade, e que
sem esperteza de ideia ninguém logra o que se lhe dificulta.
247
Drama tragico e eroico intitulado Izipile em Lennos ou O Levante das Amazonas,
copiado por Antonio Jozé de Oliveira aos 26 de Mayo de 1783, pp. 5-6.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
325
Aria
No campo minha Avó quis morrer
certa história contava em que dizia
certo bicho via estar a quem lho deu
o nome de raposa o Sol da Índia
doze pintos em um destes lhe comeu
mas com tal modo e jeito que fazia
o furto perdoar–lhe pois se lembrava
que sem destro bem ser ninguém caçava. (Vai–se) 248
Acto III, cena II
(Sai Calambeque de Médico e logo Calandra)
Bal. Serenissimo Sr. doutor aqui está, como lhe tenho dito todo o meu achaque
em carne, receite o melhor remédio que no mais Deus nos ajudará.
Cal. Entre um calepino de queixas veio um mapa de molestias; e a tal redes de
achaques por não bolirmos nesse volume de misérias será melhor usar de alguns
remédios tópicos.
Bal. Do meu mal, e do meu bem já V.m. esta muito bem inteirado, porque lhe
descobri todos os meus poderes.
Cal. Ora vamos primeiro por partes. Bota a língua fora.
Bal. Botar a minha língua fora como, se me é necessária?
Cal. Não diga isso, quero que abras a caixa da boca para examinar o teu palmo
de língua.
Bal. Pois diga isso, e não que a bote fora! Eu sem a minha rica língua o que
seria de mim. (Abre)
Cal. Está bastatemente aspera, é preciso logo logo tomar uma boa descarga,
porém filha eu não te posso curar com menos tempo de refresco que o de nove
mezes.
Bal. E em que remédios?
Cal. Com uns poucos de banhos.
Bal. Banho é do que eu mais tomo no dia.
Cal. Não, que estes banhos não são de água tépida.
Bal. Pois ainda há outra qualidade de banhos?
Cal. Os Parroquiaes em três semanas do mês te há–de dispor esse teu corpo para
a evacuação da descarga que necessitas, porque o teu mal todo é cupidista, e
nasce de um desmarcado fastio que tens ao Matriomonio.
Bal. Visto isso, estou em grande perigo por causa dessa queixa.
Cal. Eu não digo que disso morrerá, porém…
Bal. Porém ! Que! Eu logo declaro que quero que trate da minha saúde.
248
Ivi, p. 15-v17.
Capitolo II
326
Cal. Pois em se comformando com as receitas do médico fique segura que a hei–
de por sã como um perro, porém é preciso também de alguma sorte
comresponder a quem a cura.
Bal. Eu sou daquelas que sempre falei a todos os médicos com o coração na
mão.
Cal. Pois isso é que não presta, porque as vezes é necessario mentir.
Bal. É coisa que nunca fiz, sou rego direito, pão, pão, queixo, queixo; e quem
houver de tratar comigo há–de ser do mesmo jaez.
Cal. Pois então é chegada a ocasião de te explicar quem sou na realidade: pois
sou, ó riquissima Balandra, aquele mesmo Calambeque que andando até agora ao
teu socairo sem a certeza da tua palava, te desejo para minha marida.
Bal. Pois tu és Calambeque escomungado?
Cal. Eu sou o que por ti me fingi velho, entrando em Palácio com o pé da
presente transformação de doutor para poder–te dizer quanto o meu ferido
coração por ti suspirava.
Bal. Grande excesso na verdade, e é de todo o coração esse afecto que declaras?
Cal. É dó intimo desta alma, pois pelos meios da voz hoje tanto se explica.
Bal. Pois está feito, tomarei os banhos por ver se no decurso dos nove mezes
como se dispõe a natureza.
Cal. Venham então ambas as mãos, pois desde já te seguro a saúde as carradas.
(Vão–se) 249
II.13.
Semiramide
A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID
Vienna 16 Dicembre 1752.
Insieme con questa lettera sarà consegnata al signor don Antonio de Azlor250
la Semiramide riconosciuta da me ridotta all’uso di cotesto real teatro.
Questo mestiere di ciabattino non si fa che per l’impareggiabile mio gemello.
Per altro io vi sono obbligato d’avermi, per dir così, violentato a farlo, perché
quest’opera, di cui io non era pienamente contento, è diventata ora la mia più
cara. Ha ella acquistato con questo contrappelo (che per altro vi accorgerete
non essere stato leggiero), ha acquistato, dico, una certa continuazione di
fuoco, che ristretto in minore spazio dovrebbe fare scoppio maggiore. In fine
io ne sono contento; cosa rarissima quando si tratta di mie produzioni251.
249
Ivi, pp. v25-26.
Ambasciatore di Spagna a Vienna.
251
P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 768.
250
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
327
La propensione del Metastasio a “ridurre” e modificare
l’impianto complessivo delle proprie opere a favore di una
maggiore adattabilità ai gusti di quel pubblico a cui di volta in volta
erano destinate le relative rappresentazioni e, nel caso specifico,
l’atteggiamento già altrove sottolineato di una certa benevolenza
nei confronti di quelli che Andrea Chegai ha definito “drammi
metastasiani aggiustati”252 in area iberica, stimola ancor di più la
nostra riflessione sulla consistenza, efficacia e legittimità dei nostri
adattamenti al gusto portoghese, di cui la Semiramis reconhecida
del 1785 (fig. 29), che Giuseppe Carlo Rossi attribuisce alla mano
di Nicolau Luís, è sicuramente uno tra gli esempi più
rappresentativi e riusciti. In realtà l’anno proposto dal Rossi per
questa versione adattata della Semiramide (di cui, tra l’altro,
versioni in lingua originiale circolavano già dal 1765), dev’essere
retrodato di almeno un anno e riportato precisamente al 2 febbraio
1784, data apposta in calce ad un manoscritto, copia probabilmente
di versioni ancora precedenti, conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Lisbona e sul cui frontespizio possiamo leggere
Comedia intitulada Semiramis reconhecida em Babilonia e che,
naturalmente, presenta gli stessi criados della traduzione del 1785.
La versione precedente potrebbe essere probabilmente quella citata
da José da Costa Miranda nei suoi già riferiti appunti su Metastasio,
laddove lo studioso portoghese considera il parere favorevole alla
pubblicazione di un’opera dal titolo Entre aggravos a constancia,
indicata come traduzione della Semiramide metastasiana e risalente
al 28 aprile 1776:
Pretende Antonio Pinto de Carvalho fazer representar no novo Teatro da Vila
de Chaves a Comedia intitulada – Entre aggravos a constancia -. Esta
Comedia he uma tradução da Opera de Metastacio – Semiramis –. O Autor
lhe introduz algumas scenas escusadas, com episodios estranhos da Fabula,
talvez para se acomodar ao abuzo com que o Povo costuma gostar do Teatro.
Contudo como não contem couza que offenda a Religião, e Regalia do
Estado sou de parecer se lhe conceda a Licença que pede.
Lxa. Conferencia de 28 de Abril de 1776.
a) Antonio Sta. Maria Lobo da Cunha253.
252
253
A. Chegai, op. cit., p. 38.
J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit., p. 134.
328
Capitolo II
Di questo parere della Real Mesa Censória, il Miranda rileva
soprattutto l’implicita polemica nei confronti di trasformazioni e
aggiunte, che non si dovrebbero attribuire tanto al traduttore quanto
ao mau gosto que então reinava entre o público que assistia e procurava o
espectáculo teatral, de características populares, obrigando [o tradutor] a
reger-se segundo situações chocarreiras, de baixo padrão, frases licenciosas,
inclusão de personagens de todo estranhos à acção inicialmente conduzida no
texto original. Aquela versão de uma obra metastasiana oferece, portanto, ao
censor escolhido para a examinar, o pretesto para uma condenação do teatro
popular, absorvido pela farsa grosseira. Aceita o facto como uma invencível
fatalidade. Lavra, porém, o seu protesto254.
Ma, se da un lato il rispetto fedele alla struttura e ai contenuti di
partenza emergono principalmente da un concatenarsi di atti e scene
del tutto simile all’originale metastasiano, dall’altro le discrepanze
inerenti anche all’autentico argomento metastasiano emergono con
una certa evidenza. Elementi di originalità nella traduzione del tessuto
narrativo originario sono presenti sin dalle prime pagine della versione
portoghese quando, ad esempio, si accenna alle circostanze che
permisero a Semiramide di salvarsi dopo il ferimento da parte di
Idreno, la generosità di un pietoso pescatore per il traduttore lusitano
(«Por sua mão fui ferida,/e lançada a toda a preça/no soberbo, e
ondoso Nilo,/no qual, em fim, eu morrera/se um piedoso Pescador/me
não salvara»)255, semplicemente la morbidezza dei salici per
Metastasio («Unica e lieve/Fu la ferita; e la selvosa sponda/Co’
pieghevoli salci/La caduta scemò, mi tolse a morte»)256. Oppure
sottoforma d’immissione di ornamenti stilistico–lessicali che
attingono a figure forti costruite con spettacolarità barocca, com’è il
caso dell’apostrofe di Scitalce a Semiramide («Ah perjura, cruel, fera
enganosa,/alma, sem ter amor, falsa enganosa,/Crocodilo fatal, Hydra
inumana,/Serpente venenosa, em fim, tirana,/malevola mulher, vil
254
Ibidem.
Ibidem.
256
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 260.
255
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
329
creatura,/nascida para minha desventura,/nascida para o meu fatal
perigo»)257 o dell’aria seguente:
EDIZIONE HÉRISSANT
1780-82
Atto I scena V
SEMIRAMIS RECONHECIDA
1784
Acto I, cena II
Tam.
Gran sorte in ver del mio
sembiante è questa!
Tam.
Não posso acreditar, que no teu peito
Haja afecto, ternura, incêndio, e
agrado;
pois génio a domar serás costumado,
não pode às leis de Amor estar
sujeito.
Um coração altivo, o doce afecto
não sabe tolerar do Deus vendado,
e quando diz, que adora o seu
cuidado
senão deve atender porque é
suspeito.
O crédito te usurpa essa fereza,
com que finges de amor a fé segura
sem mudares doutra a natureza.
Pois afecto sem mimo, e sem
cultura,
mais se mostra lisonja, que fineza,
mais parece rigor, do que ternura259.
Che quel cor, quel ciglio altero
Senta amor, goda in mirarmi,
Non lo credo, non lo spero;
Tu vuoi farmi insuperbir:
O pretendi, allor che torni
Ai selvaggi tuoi soggiorni,
Rammentar così per gioco
L’ amoroso mio martìr258.
Per venire all’impressione di quell’eccessivo scivolare nella
volgarità colloquiale dei tre graciosos della Semiramis Reconhecida
― che qui hanno nome di Casmurro (“testardo, pignolo”), servo di
Semiramide, Zarolho (“guercio” da zarco, “occhio celeste”), servo di
Scitalce, e Denguice (“leziosaggine, smanceria”), serva di Tamiri ―
basterà citare passaggi come «Casm. Sem duvida que estas
ausências/são feitas a meu respeito:/ah porquita, porcalhona!/Deng.
257
Comedia Nova Intitulada Semiramis, copiada por José António de Oliveira, 2 de
Fevereiro de 1784, p. 11.
258
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 266.
259
Comedia Nova Intitulada Semiramis Reconhecida, op. cit., p. 8.
330
Capitolo II
Só por você estou morrendo./Casm. E não há um bacamarte/com que
vos faça em esterco?»260, o informazioni tra il libertino e il progredito
come «Casm. […] mas o peir são os filhos,/porém tê–los não é
certo,/porque a Senhora Denguice / usa de tais comprimentos,/que
suponho…»261. Tuttavia, benché l’azione comica qui si concentri in
due lunghe scene centrali nettamente isolabili dalla trama principale,
gli interventi dei tre servi compaiono spesso qui e là nel testo per
sottolineare o commentare determinate situazioni inerenti ai
protagonisti originali della Semiramide, sempre con sfumature
comiche che non risparmiano vizi e virtù dei regali personaggi in
scena: Denguice commenta così l’impressione ricevuta dalla
presentazione di Ircano «Muito feio é este homem!/A voz parece-me
um raio»262, e poi ancora «Forte cara de masmarro!»263; così come
Casmurro oserà commentare in questo modo lo sprezzo del pericolo
proprio dei prìncipi: «Estes Príncipes são tollos,/querem morrer a pé
quedo,/quando todos, para a morte,/querem ter os pés ligeiros»264.
Immancabile, inoltre, il noto parallelismo tra la linea narrativa “alta”
del dramma sentimentale e quella più bassa del triangolo comico–
sensuale dei tre servi, qui espresso in una battuta di Zarolho: «Venho,
sem saber por onde,/para ver se acaso è certo,/que estes patifes dos
Scitas,/com seus costumes travessos,/levam Tamire roubada,/porque
se ela foi, receo,/que à minha Denguice/também succeda o
mesmo:/vamos ver se incontro alguém/que me informe do
sucesso»265.
Il primo incontro–scontro tra i due personaggi maschili contendenti
in amore viene collocato all’interno di una scena ad alta tensione
drammatica, quella che vede Tamiri accogliere i suoi pretendenti, tra i
quali Semiramide scopre celarsi il suo antico amante:
260
Ivi, p. 14.
Ivi, p. 21.
262
Ivi, p. 5.
263
Ivi, p. 7.
264
Ivi, p. 37.
265
Ivi, p. 35.
261
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
331
Acto I, cena I
Casm. Vai com muita pressa, amigo?
Espere, que logo vamos.
Zar. Não me posso demorar,
não vê que vou com meu amo? (Vai–se)
Casm. Pois adeus, lá nos veremos,
antes da noite no Paço;
não me olhe para esta moça,
senão quer que o faça em quartos266.
Eccoci quindi alle due lungue scene centrali della commedia dei
graciosos.
266
Ivi, pp. 7-8.
332
Capitolo II
Figura 29. (Co. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 3).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Semiramis Reconhecida (1784)
Acto I, cena II
Zar. Perdido neste Jardim
há mais uma hora me vejo,
sem poder dar com a entrada
de Palácio, vamos vendo
se topo alguma alma boa,
que me tire deste enredo:
o Jardim sim é bonito,
tem mui galantes passeios,
bonitas casas de murtas,
embrechados mui selectos,
tem flores mui esquizitas,
Estatuas, Fontes, embelecos,
mas fruta que manducar
é coisa que aqui não tenho:
mas parece sinto passos,
deve ser o Jardineiro;
mas ai, que é a Mocetona
por quem de amores me perco;
escondido nestes ramos,
o que procura veremos.
(Esconde–se)
(Sai Denguice)
Deng. Tenho do Palácio as Salas
já corrido com disvélo,
em busca daquele moço
que ser criado suspeito
de Sitalce, sem que possa
encontrá–lo para vê–lo:
ai amor, como depressa
te introduziste no peito!
Mas suponho que ele ingrato
já terá outros empregos.
Zar. Mais que ditoso é menina
(Saindo)
quem dos teus lábios tão belos
ouve tão doce expressão,
observa tão fino excesso.
Sabe pois que eu desvelado
só a teu respeito venho,
qual Salamandra, abrazá–lo
no fogo dos meus disvélos;
pois desde que vi teus olhos
tão matadores, tão meigos,
me ficou esta alma a um lado.
Todo torcido este peito;
as pernas com suas caimbras,
e os olhos um pouco avessos.
Deng. Cale-se, não diga mais;
já vejo que é lisonjeiro;
olha eu sou muito sincera,
de malícia não entendo;
a primeira vez que o vi
fiquei por você morrendo,
porque não sabia que era
um tão forte trapaceiro,
mas desde agora lhe digo
que saiba, que o aborreço.
Zar. Esta menina sem dúvida
é como o tempo do Inverno,
vejo-o com Sol de manhã,
e de tarde com chuveiros.
(À parte)
Ora diga–me, meu bem,
(aqui em muito segredo)
se inda agora principiam
em nós de amor os extremis;
já achou que sou ingrato,
mentiroso e lisonjeiro?
Continue em me querer,
verá os doces afectos,
com que seriamente a trato
sem outro qualquer emprego;
antes eu é que devia
só do teu amor ter zelos,
pois aquele mocetão
ser do teu agrado creio,
porque os olhos não tirava
do teu rostinho tão belo.
Deng. Ai, que forte testemunho,
Deus me livre, eu o arrenego!
(Sai Casmurro)
333
334
Casm. Dos meus zelos aguçado
atrás de Denguice venho,
pois para este Jardim…
mas ai! Meu dito, meu feito.
Ela cá está com o tratante,
escondido, ouvi–los quero.
(Esconde–se)
Zar. Não se esconjure, meu bem,
ele é todo o seu emprego.
Deng. Basta digo-lhe deveras,
que a tal homem aborreço.
Casm. Sem dúvida que estas
ausências
são feitas a meu respeito:
ah porquita, porcalhona!
Deng. Só por você estou
morrendo.
Casm. E não há um bacamarte
com que vos faça em esterco?
Zar. Veja lá o que promete,
que eu lhe hei–de andar ao cheiro,
e se para aquele droga
olhar com olhos direitos…
Deng. Prometto ser-lhe fiél,
e você promete o mesmo?
Zar. De mim, não tenha cuidado,
sou firme como um rochedo.
Casm. Estou capaz de ir massar
o corpo deste sendeiro.
Deng. Pois, meu bem, não me
demoro,
porque me pode achar menos
minha ama: adeus meus amores,
brevemente nos veremos.
Zar. Não me dás por despedida
um abracinho, ou um beijo?
Deng. Olhe, eu sou mui
vergonhosa,
Nunca nos homens dei beijos,
Se quer um abraço só,
Venha de mim recebê–lo.
Casm. Há maior pouca vergonha,
de inveja me estou mordendo!
Zar. E dê–mo bem apertado,
Capitolo II
pois de outra sorte o não quero;
aperta menina aperta
anda não tenhas receio.
Casm. Pé, antepé, vou-me a eles,
vejo se posso prendê–los,
que em quanto estão devertidos
será fácil o fazê–lo.
(Sai e vai por detras deles, e os
amarra com uma corda sem eles
verem).
Deng. Abre lá tanto apertar!
Zar. Tens razão basta de aperto.
Tu dizes que não te aperte,
tu estás fazendo o mesmo?
Deng. Tu queres com este abraço
meter-me as costelas dentro?
Zar. Menina, não vai de valha,
olha que me aleija o peito.
Casm. Ora já estão amarrados,
vou-me escondendo ligeiro,
que isto hoje há–de ter que ver.
(Oculta–se)
Zar. Mas, menina, que é o que
vejo!
Nós estamos um ao outro
com uma corda bem presos?
Deng. Você é que tem a culpa
deste Mágico sucesso,
que será de nós agora
se soltar-nos não podemos?
Zar. Como os cãos, apredejados
dos rapazes nós seremos.
Casm. Deixem-se estar abraçados,
não usem de cumprimentos.
Zar. Oh menina, nesta terra
há Bruxas, ou Feiticeiros?
Isto é couza do Diabo,
a corda é como um ferro!
Deng. São castigos certamente
dos meus costumes travessos;
que me importava a mim dar-lhe
abraços antes do tempo?
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Oh minha casta Diana
perdoai este meu erro,
desatai-me esta prisão.
Zar. Olhem que está forte aperto!
Casm. Ora quero–lhe outro logro
pregar, que vem bem a tempo:
vou-me revestir de velha
rebolindo, e logo venho. (Vai–se)
Deng. Não trazes contigo
faca com que esta corda
cortemos?
Estou vendo se minha ama…
Ai de mim, estou morrendo!
Zar. Estou vendo se meu amo
vem dar com este estafermo!
E assim por modo de brinco
me faz o corpo em farelos!
Deng. Não há desgraça como
esta!
Zar. Não há caso mais horrendo!
Deng. Olhe os seus negros
abraços,
o que de coisas tem feito!
Zar. Olhe, eu tenho dado muitos,
mas nunca com tanto aperto.
Deng. Isto são pecados meus!
Zar. Eu também no mesmo
assento.
Deng. Mas ai que sinto passadas!
Zar. Ai que temos gente perto!
Deng. Pois fujamos: porém como!
Diana ouve os meus ecos.
(Sai Casmurro vestido de velha.)
Casm. Aqui me manda Diana
(ah velhacos velhaquetos)
soltar-vos dessa prisão,
e dar–vos um bom varejo;
pois loucazinha, bandalha,
e tu, Peralta, brejeiro,
sabei que a casta Diana
não sofre tais desconcertos:
quando vocês se abraçaram
335
me mandou para prendê–los,
e o gosto dela só era
que ficassem sempre presos;
mas por minha intercessão
mudou seus impios intentos;
ela sabe que a Casmurro
prometeste casamento,
e que por este bandalho
lhe fazes muitos despresos;
trate de casar com ele…
Deng. Bem sabe que é muito
feio,
e que eu como rapariga…
Casm. Se replicar, deixo–os
prezos.
Deng. Não Senhora, não Senhora,
eu deveras lhe prometo…
Casm. Qual prometer? Não
Senhora,
não creio em cumprimentos,
a Casmurro mando aqui,
e eu lá do meu aposento
verei se cumpre a palavra
de por Esposo querê–lo,
e ele os soltará então
depois do recebimento. (Partindo)
Zar. Senhora (quem quer que é)
solte-me daqui primeiro,
que se Casmurro aqui vem
me faz o corpo em esterco.
Casm. Não, porque essa
autoridade
inda dada lhe não tenho,
porém depois que casado
seja com este portento,
se você chegar a ela
se quer com o pensamento,
para lhe tirar a vida
poder, então lhe concedo.
(Este logro é desmarcado;
de rizo me estou perdendo)
(À p. e Vai–se)
Zar. Vai-te espirito infernal,
Dragão do funebre Averno,
Capitolo II
336
diabolica agoureira,
causa dos meus sentimentos;
quem dissera amado bem,
que dentro em tão breve tempo
se havia extinguir em nós
a chama do amante afecto?
E agora dize, menina,
nunca jamais nos veremos?
Deng. O ver, sim, porém
falarmos,
é coisa, que não podemos.
Zar. Pois nem se quer com as
pestanas
fazermos quatro trejeitos?
Deng. Não vez que morre se
acaso
te resolves a fazê–los?
Não ouviste de Diana
o inviolável perceito?
Zar. Assim è, ai desgraçado!
(Chorando)
Deng. Não chore que eu
esmoreço.
Zar. Pois inda me tens amor?
Deng. Não posso deixar de tê–lo.
Zar. Oh que tão doce expressão
oh que mal logrado afecto!
Deng. Forte sacrifício faço
Em fazer tal casamento.
(Sai Casmurro)
Casm. Aqui venho por mandado
de Diana… (o logro é fero)
a ver a pouca vergonha
com que vocês, sem respeito,
atropelando a modestia,
fazendo-me gaudiperios267
em abraços repetidos
estão um ao outro preso:
mal cuidavam, toleirões,
que houvesse este sucesso;
267
Termine dal significato oscuro.
é porque saibam vocês
o inexplicável apreço,
que a deusa Diana faz
do meu garbo, e meu talento:
vendo que você, traidora,
por um tão torpe estafermo,
desprezava esta beleza,
esta figura, este objecto,
em que muitas moças lindas
tem invidado o seu resto;
te prende onesta figura
para castigo e exemplo,
dos que forem, como tu,
de tão mau procedimento:
mas comovida também
desses teus anos tão tenros,
me pediu interessada,
fazendo-me um forte empenho,
que te desse a mão de Esposo;
eu não queria, por certo,
pois quem o demo uma vez
tomou, é ditado velho,
que sempre o jeito lhe fica:
olha-me com arremessos?
Oh cão, desavergonhado,
ponha-se ai já de joelhos.
Zar. Não vê que estou amarrado,
e que não posso fazê–lo?
Casm. Ajoe–lhe você também,
vão os dedinhos erguendo.
Zar. Aqui está já levantado.
Casm. Nisso é você mui ligeiro;
venha esta mão, rapariga,
basta já de erguer os dedos,
vire para cá o focinho,
seu cara de bolo armenio,
quero seja testemunha
do nosso recebimento;
e se põe alguns embargos,
vou-me embora, deixo-os presos.
Deng. Aqui está a minha mão.
Zar. Ai! Ai de mim que
arrebento!
Casm. Que é isso, tem
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
fernezins?
Zar. Não Senhor, eu nada tenho.
Casm. Sabe porque lhe não maço
esse corpo tão mal feito?
Porque mo pede Diana,
mas se você for travesso,
que para esta Denguice
mais olhar, ou pôr o dedo,
mortus est Pinius em casca.
Zar. Sim Senhor, eu bem percebo.
Casm. Ora pois, estão já soltos,
vá–se daqui já correndo;
(Para Zarolho)
e você, minha Denguice,
(Para Denguice)
saiba que é isto outro tempo,
e que o nome de Casmurro
não o troco por Cornelio;
você ainda se demora?
(Para Zarolho)
Zar. Dar-lhe os agradecimentos…
Casm. Vá–se-me já rebolindo.
Zar. Então, sem mais
cumprimento.(Vai–se)
Deng. (Oh quem pudera dizer-te,
adeus meu amado objecto).
(À parte)
Casm. O mofino inda lhe cheira,
é sanguisuga nos termos;
vamos, vamos para casa
cuidar na cama, que é tempo,
que sempre se faz mais fofa
em dia de casamento;
ora vamos, meu amor,
isto agora é outro tempo.
Deng. Saiba que nós as mulheres
se levam com muito jeito
far–lhe–ei bem a vontade.
Casm. Não terei outro rimedio.
Deng. Você não me merecia,
eu se vou é porque quero.
Casm. Deixa-te apanhar em casa,
Que então lá conversaremos.
(Vão-se) 268
Acto II, cena I
(Sai Casmurro)
Casm. Ora vamos ver se acaso
ficaram alguns fragmentos,
com que eu, mais minha mulher
nossos bandulhos fartemos:
ora isto de ser casado
sempre é coisa de bem peso!
É pensão bem desmarcada,
porém eu não me arrependo,
que em quanto ouver quem nos dê
lambança por este preço,
um quarteirão de mulheres
eu tivera sem receio;
mas o peior são os filhos,
porém tê–los não é certo,
porque a Senhora Denguice
usa de tais comprimentos,
que suponho… Mas quem é.
(Sai Denguice)
Casm. Oh, sois vós meu doce
emprego!
pois sentai-vos para aqui,
e do que ouver comeremos.
Deng. A ver se via o meu bem
sai do meu aposento,
e no cabo vim achar
este marido nojento. (À parte)
Casm. Pois não ouve o que lhe
digo?
Va-me mudando esse génio,
faça logo o que lhe mando.
Deng. Ora digo que não quero.
Casm. A mulher é Bazelisco!
Por bem quero ver se a levo.
(À parte)
268
Ivi, pp. 13-17.
337
338
Ora então, minha Denguice,
vamos a cear, que é tempo
para depois nos deitar-mos,
que eu de somno estou morrendo.
Deng. Para nos irmos deitar?
A pachorra lhe agradeço;
com que com esta figura
queria que este portento,
sem mais nem mais se deitasse
com um homem tão mal feito?
Confesso que é meu marido,
já que assim o quis o demo,
mas as outras ceremonias
certamente lhe despenso.
Casm. Assim fala, birbantona?
De Diana não tem medo?
Saiba que a pode outra vez
amarrar a qualquer cepo.
Deng. Mais tosco cepo que tu,
que o não há no mundo, creio,
e não posso recear
castigo que em mim já vejo.
Casm. Ora dize-me, menina,
(contrafaçamos o génio)
(À parte)
para que me trata assim
com um tão fero desprezo,
quando vê que eu fino a adoro?
Não achs isso mal feito?
Tão mal parecido sou?
O meu rostinho é mui belo,
algumas bexigas teve
ainda sendo pequeno,
porém não me destruiram
a perfeição, nem o jeito;
se acaso eu fosse enorme,
ou não fosse tão perfeito,
já agora é minha mulher
cuidasse-o quando era tempo;
e assim, ó minha Denguice,
deixa-te de cumprimentos,
hei–de dar-te muita coisa
com que brilés com aceio,
e se tivermos um filho,
Capitolo II
que grande contentamento!
Ora anda minha menina.
Deng. Vou, pois me leva com
jeito.
Casm. Assenta-te para aqui,
aqui ao lado direito,
que é o lugar das Esposas;
(de gosto me estou lambendo).
(À parte)
Deng. Eu vontade de comer
certamente que não tenho,
mas por lhe fazer o gosto…
Casm. Isso agora é outro termo,
eis aqui o que me agrada,
esta união, e sossego;
ora come esta Perdiz
feita com molho estrangeiro.
Deng. Coma-a você, já lhe disse
que pouca vontade tenho.
Casm. Então não haja demora
vamos à cama correndo,
que o comer também agora
nos fará pouco proveito.
Deng. Ai, coma, coma, Senhor,
que isso inda tem muito tempo.
(Eu estou irresoluta). (À parte)
Casm. Nem uma gotinha ao
menos?
(Bota vinho no copo)
Deng. Lá vai à sua saude. (Bebe)
Casm. Que lhe faça bom
proveito,
agora corre por cá, (Bebe)
este vinho é bem vermelho.
(Sai Zarolho)
Zar. Para fartar o bandulho
venho para aqui correndo,
pois desde que hospede sou
não tem havido ao menos
quem me diga, camarada,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
se quer comer chegue assento,
porque sempre de levante
todo este Palácio vejo;
os criados nesta Sala
estão chupando nos dedos,
e os anos até agora
se estiveram bem enchendo.
Mas ai! Lá está Casmurro,
mais o meu rico portento,
quem me dera cá de longe
dizer, adeus, doce emprego;
mas a fome é o peior,
na boca me está fazendo
água a valer; de gatinhas,
pois não tenho outro remédio
me vou debaixo da mesa
esconder, e de lá mesmo
verei se posso alcançar
que o bandulho fique cheio.
(Mete–se de gatinhas por baixo da
Mesa)
Casm. Ora prova um bocadinho
deste guisado que é belo.
Zar. Sim, por te fazer o gosto
cá o como todo inteiro.
(Deita a mão tira o prato da Mesa, e
entra a comer muito depressa)
Casm. Para donde foi o prato?
Zar. Está cá no meu louceiro.
Deng. Qual prato? Você está
doido?
Casm. Aqui entrou alguém
dentro?
Deng. Quem havia aqui entrar,
arre lá! Eu o arrenego!
Casm. Ora deixa encher o copo.
(Deita vinho no copo e volta)
Zar. Faze isso que eu o despejo.
339
(Pega no copo, bebe e
torna a por na mesa)
Casm. Ora bebe huma pinguinha,
elle não faz mal, é certo. (Volta)
Eu não enchi este copo?
Zar. Não estava muito cheio.
Deng. Pois você encheo o copo?
Quase louco o considero.
Casm. Ora eu o torno a encher.
(Como
assima)
Zar. Eu o vazo mais ligeiro.
(O mesmo)
Casm. Verei se o mesmo
sucede…
Mas ai de mim que é o que vejo!
Inda podes duvidar
de que eu tinha o copo cheio!
Deng. Cheio parece que está
você de vinho por dentro,
e por isso estas loucuras
me está aqui dizendo.
Casm. Ora não quero mais vinho;
despejar. (Eu enloqueço).
Poderá ser isto engano,
mas duas vezes? Não creio.
Zar. Cá agarrei uma empada,
tem ele um molho estupendo,
já a minha barriguinha
se vai pondo noutros termos.
Casm. Não pode esquecer-me o
vinho!
Zar. Nem a mim porque era belo,
tomara-lhe eu a garrafa
pilhar aqui a meu jeito,
porque isto de copinhos
são uns meros gargarejos.
Casm. Eu estou como um
ouriço.
Deng. Você mui bem o tem feito.
Casm. Ora para socegar
uma pinguinha tomemos;
340
Capitolo II
segura bem neste copo,
toma sentido se deito;
cá vai a tua saúde.
Zar. Não esteve mui mal feito.
Casm. Arre, você já me foge,
hei–de apanha–lo correndo.
(Deita vinho no copo e põe a garrafa
na mesa de sorte que Zar. lhe pega)
(Anda às rebelões)
Zar. Cá vai ao nosso proveito.
Casm. Mas donde foi a garrafa?
Zar. Foi ali ao taverneiro.
Ora aí ta entrego toda.
Deng. Não há coisa mais galante,
do que esta que estou vendo.
Zar. E eu coisa que mais me
agrade
há muito tempo não vejo,
(Põe a garrafa na mesa)
(A Deng. saindo debaixo da mesa)
Deng. Você parece estar cego.
Casm. Deixa que mais uma
gota…
pois tenho gozado a dita
de me ver de ti tão perto.
Deng. Estavas aqui escondido?
Zar. Vim aqui a teu respeito,
pois um instante não posso
descansar se te não vejo.
Deng. Olhe, em materia de amor,
nada lhe fico devendo.
Casm. Inda me está
resmungando?
Deng. Inda assim, eu tenho
medo…
Zar. Não, não receie, menina,
porque ele está em tais termos,
que nem os olhos bem abre,
e podemos sem receio
falar nos nossos amores;
mas, diga-me, meu portento,
até quando faz tenção
que eu ande chupando em seco?
Há de aquele marmanjão
lograr mimos tão selectos!
Estou capaz de matar-me.
Deng. Se não fosses estrangeiro,
casava logo contigo.
Zar. Por isso estava eu morrendo,
mas isso não pode ser,
pois segundo bem me lembro,
já deste a mão a Casmurro.
Deng. A mão sim lhe dei, é
(Vai a deitar e não acha vinho)
Aqui deve andar o demo!
Ela tinha muito vinho,
agora nada lhe vejo…
Zar. O que tinha a tal garrafa
foi parar ao cemitério.
Casm. Eu hei–de isto examinar.
(Levantase)
Zar. Se dá comigo estou fresco.
Casm. Parece que a luz me treme,
eu das pernas cambaleio,
enchota-me estes mosquitos,
anda, vê se vou direito.
(Cambaliando muito bebado)
Zar. Esse vinho que bebeste
me serve de bem proveito.
Deng. Olhe que cai nesse chão.
Casm. Há de morrer aqui mesmo,
oh cão, ainda me resiste?
Quero… não lhe tenho medo,
ora ande, leve este talho.
(Vai a investir e cai no chão)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
certo,
mas foi só por me livrar
daquele tão grande aperto;
porém, inda que Diana
me ponha trinta preceitos,
só contigo casarei.
Zar. Promete-me isso de certo?
Em final de que é verdade,
as nossas mãos ajuntemos.
Deng. Não seja como os abraços,
Que ficamos ambos presos.
Zar. Já vejo que desta sorte
nunca então nos casaremos.
Deng. Ora aqui está esta mão.
Zar. Mais a minha.
Casm. Que estou vendo?
(Levantando a cabeça)
Amb. Ai de mim! Adeus meu
bem,
brevemente nos veremos.
(Vão–se correndo)
Casm. Há maior pouca vergonha!
Vou-me atrás deles correndo,
que se acaso eu os pilhar
a murros hei–de moê–los.
(Vaise cambeliando ainda muito)269
Acto III, scena II
(Sai Zarolho)
Zar. Venho, sem saber por onde,
para ver se acaso é certo,
que estes patifes dos Scitas
com seus costumes travessos,
levão Tamire roubada,
porque se ela foi, receio,
que à minhs Denguice
269
Ivi, pp. 21-24.
também succeda o mesmo:
vamos ver se incontro alguém
que me infor-me do sucesso.
(Vai–se)
(Sai Casmurro)
Casm. Há maior pouca vergonha!
Não há caso mais horrendo;
lá vai a minha Denguice,
para o poder de perros;
mas ela é que tem a culpa,
o castigo é mui bem feito,
pois se ela junta comigo
dormisse em meu aposento,
eles a não roubariam
dessa sorte tão ligeiros,
pois tenho dez becamartes,
doze duzias de morteiros,
mais de seiscentas pistolas,
de chuços mais de um milheiro;
e tenho ao canto da casa
mais de uma fanga de seixos,
que havia aqueles patifes
fazê–los mesmo em farelos:
estou capaz de matar-me,
eu bem sei que os seus desprezos,
os amores que a Zarolho
mostrava com tal extremo,
me diminuem a pena
do seu infeliz sucesso;
mas, contudo, sempre fico,
nem cazado, nem solteiro,
e sem aquela Denguice
não posso viver por certo.
(Sai Zarolho)
Zar. Tenho já tudo corrido,
não posso encontrar ao menos
quem me diga, sim ou não;
mas a Casmurro aqui vejo,
dele me quero informar.
Casm. Ai de mim, eu arrebento!
341
342
Zar. Senhor Casmurro, que tem?
Diga, amigo, será certo…
Que Denguice…
Casm. Sim, agora
venho do seu aposento,
achei as portas abertas,
todo o Palácio inquieto,
não fiz mais que diligente
vir para a praia correndo,
a ver se inda os alcançava.
Zar. Também eu com o mesmo
intento,
sendo do roubo informado,
os passos movi ligeiro,
pois como somos amigos…
percebe?
Casm. Sim, bem percebo,
como me caiu nas garras,
que o mace a murros tem medo,
você cuida, sou tratante,
que a lábia lhe não entendo?
Sabe porque agora aqui
o não piso a muro seco?
Porque estou com a minha pena,
mas nós nos encontraremos.
Zar. Mas eu que lhe fiz? Acaso
esta acção pode ofendê–lo?
Casm. Você cuida que ontem à
noite
lhe não vi o atrevimento,
de com Denguice falar?
Zar. Isso foi sonho.
Casm. Foi certo,
porém não tratemos disso,
vamos nós ambos, pois quero
melhor isto averiguar,
dos seus agravos me esqueço;
já quero ser seu amigo.
Zar. Tanto favor lhe agradeço.
Casm. Vamos ambos
perguntando,
e de alguém nos informemos.
Capitolo II
(Vão–se) 270
Cena III
Zar. [rivolto a Semiramide]
Ora, Senhora, se acaso
tão generosa te vejo
fazeres tantas mercês,
supplico-te, uma ao menos,
e é, que me dês Denguice
para lhe apertar os dedos,
pois como todos se casam
quizera fazer o mesmo.
Casm. Não Senhor, eu não
consinto,
quero-te expor um segredo,
ela deu-me já a mão,
e depois este sujeito…
Percebe? Quis-ma tirar,
vai eu… e que faço! Peço,
que visto ser cá de casa,
parece-me que estou primeiro,
e já é muito falado
este nosso casamento,
eu quereria dever-lhe…
Sem. Tens razão, eu ta concedo;
Denguice seja só tua.
Zar. Fiquei engolido em seco.
Deng. Paciência, pois já agora
Não tenho outro remédio:
aqui está a minha mão.
(Vai dar a mão a Casmurro, e
Zarolho lhe quer pegar)
Casm. Vá–se daí sou brejeiro.
Zar. Deixa estar, cara de Bode,
que cá fora nos veremos.
Casm. Quando quiser, amiguinho,
que eu cá não lhe tenho medo271.
270
271
Ivi, pp. 35-36.
Ivi, pp. 39-40.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.14.
343
Antigono
Una situazione ormai ricorrente nella nostra analisi degli
adattamenti metastasiani al gusto portoghese, e che ormai
possiamo considerare una regola consolidata data la quantità di
tali ritrovamenti, è l’attribuzione della paternità della traduzione,
con indicazione solenne su frontespizio, di tutte le edizioni in
traduzione fedele e non adattata delle opere dell’abate romano.
Anche nel caso della versione dell’Antigono (opera del 1744),
laddove ci troviamo di fronte ad esemplari indubbiamente calcati
sull’originale, senza guizzi creativi ed arbitrari, campeggia con
orgoglio e precisione il nome completo del relativo traduttore. È
il caso dell’edizione a stampa dell’Antigono del 1768, copia
monolingue tradotta in versi da Marcelino da Fonseca e, tra
l’altro, unico caso da noi rinvenuto, tra le varie traduzioni
dell’Antigono, in cui si riporta con esattezza il nome del
protagonista; ma è anche il caso del manoscritto, piuttosto
deteriorato, risalente al 2 dicembre 1793, la cui traduzione viene
attribuita all’ormai noto Fernando Lucas Alvim alias Francisco
Luís Ameno. Si potrebbero avanzare due ragioni di una tale
precisazione: o le traduzioni fedeli, non tacciabili d’illegittimità,
plagio o quant’altro stesse provocando all’epoca il nascente
diritto d’autore, non risentirono della minaccia incombente di
estinzione che di lì a poco avrebbero subìto gli adattamenti di
opere altrui in generale, oppure, il ruolo di traduttore fedele delle
opere straniere forniva al responsabilie una dignità di divulgatore
culturale che consentiva un certo prestigio. In entrambi i casi, un
elemento importante che lascia presupporre quali dibattiti,
probabilmente polemiche, possono avere avuto luogo tra gli
intellettuali portoghesi del XVIII secolo.
Oltre all’opera in versione originale del 1772, destinata ad
accompagnare la rappresentazione che ebbe luogo nel Teatro da
Rua dos Condes di Lisbona, l’adattamento dal titolo Opera
Famoza intitulada Antigno em Tezalonica, copia manoscritta
del 20 marzo 1785 presente nell’archivio microfilmato della
Biblioteca Nazionale (fig. 43), è sicuramente la versione più
interessante dal punto di vista degli elementi di originalità
344
Capitolo II
rispetto al modello standard degli adattamenti e, naturalmente,
rispetto al testo di partenza metastasiano. Innanzitutto, occorre
rilevare la presenza di ben quattro personaggi graciosos che
rompono la triangolazione sentimentale tipica del
rimaneggiamento comico, ricreando un intreccio quadripartito
che non solo vede l’opposizione e l’attrazione reciproca tra
due donne e due uomini, ma soprattutto il contrasto centrale
della contrapposizione giovani–vecchi, argomento dominante di
una comicità tutta giocata sulll’assurdità delle pretese di
Baluarte (“baluardo”), vecchio servo di palazzo, nei confronti di
Resina (“testarda”) giovane nipote di Rebeca (“impertinente”) e
pretesa e data in sposa al giovane Murteiro (“mortaio”). Benchè
i lazzi comici più importanti siano sempre affidati al
personaggio di Murteiro, il fulcro reale della vicenda dei
criados rimane Resina, su cui si concentrano tutte le attenzioni e
verso cui si indirizzano i dialoghi non solo delle due figure
maschili condententi, ma soprattutto dell’anziana zia,
forsennatamente intenta a preservarne la purezza fisica, fino al
colpo di scena finale della rivelazione dell’avvenuto rapporto
sessuale tra i due giovani. A questo punto, attraverso allusioni
all’amplesso in termini di falsa pudicizia da parte delle due
donne del popolo, si stempera la tensione narrativa fino ad
allora acuita dalla condizione di fuggiaschi senza riparo dei
servi, alla ricerca di riposo e sostentamento, e dalle afflizioni
provocate dal pignoramento degli abiti di Rebeca in cambio di
cibo, fino alla normale conclusione degli eventi nel necessario
lieto fine matrimoniale tra i due giovani.
Per quanto riguarda il rapporto con i personaggi primari della
vicenda metastasiana originale, citiamo l’ormai noto esempio
dell’insopportabilità dei “grandi” rispetto alle incoerenze dei
servi, intemperanze che i personaggi metastasiani non portano
qui alle estreme conseguenze delle percosse fisiche che abbiamo
visto messe in atto dall’Enea della Dido desamparada, ma che
vi si avvicinano attraverso esplicite minacce di morte. Si osservi
a questo proposito la reazione di Alexandre, re dell’Epiro, nei
confronti di Baluarte, prima di passare alla trascrizione delle
scene salienti dell’adattamento:
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
345
Bal. Meu Senhor! (Ajoelha)
Alex. Que pertendes?
Bal. Queria... mas não, não; eu intentava...
Alex. O que?
Bal. Vinha... porém... não senhor, eu me vou... (Levanta–se)
Alex. Não espera, explicate senão te mato.
Bal. Mas se eu já nada quero!
Alex. Então a que vieste a este sítio?
Bal. Vinha ver... eu sou... ai! Tenho medo.
Alex. Fala.
Bal. Eu sou... mas! Já não sou...
Alex. Deixa–me louco.272
272
Opera Famoza intitulada Antigno em Tezalonica, copiada aos 20 de Março de
1785, p. 14.
346
Figura 30. (BN, F.R. 803).
Capitolo II
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Opera Famoza intitulada Antigno em Tezalonica (1785)
Acto I
Reb. [...] Já sairam das náus e para onde também... também tu...
captivos todos... nós somos... não... seremos... para sempre... não há
quem nos acuda.
Res. Ai! Mas onde estou eu? Vão–se malditas.
Murt. Não te asuste menina, vem comigo que em palácio não ficas tu
segura da Tropa de Alexandre.
Res. Ai! Minha tia, que fazer devemos?
Reb. Eu não sei que te diga, a fugir quem nos há de defender!
Murt. Pois ainda julga que um Murteiro é pouco?
Bal. Um Baluarte ainda é maior defesa.
Murt. Que diz seu jarra? Todos sabem que um Murteiro se lhe dão
fogo até os Baluartes põe por terra, em ti menina levo pólvora e bala,
meu amor é murrão que existe aceso. Até o mesmo Alexandre há–de
temer–me.
Bal. A estas cans, e a este meu respeito ninguém há–de atrever–se.
Murt. Que respeito? Que cans? Mijaram nelas.
Bal. Oh atrevido, pois por elas juro que não hei–de deixar levar a
moça.
Murt. Você não teme, que eu o deite a terra, pois desta peça
experimente as balas. (Dá–lhe)
Bal. Ai... ai... ai... ai... ai... ai.
Reb. Não dê no velho.
Murt. Se com ele quer ir, vá–se abalando que Resina comigo vai
segura de que hei–de defendê–la.
Reb. Uma moça donzela há–de ir sem mim?
Murt. Que? Veremos! Veremos!
Bal. Vai melhor com um homem já maduro.
Murt. Se está maduro, mui depressa é podre.
Bal. Vem comigo menina.
Murt. Pega fogo outra vez: leve mais esta... (Dá–lhe)
Bal. Ai, ai, ai, ai, ai, ai, minhas fontes.
Murt. Oh cão, que é isso, já lhe dei na brecha toma e toma...
Res. Oh tia vamo–nos com Murteiro, se nos livrar será meu Marido.
Bal. Não casará, que vou a por–lhe embargo.
Murt. Fogo artilheiro até deitar a terra. (Dá–lhe)
Bal. Ai, ai, ai, ai, ai, ai... (Parte)
Murt. Vamo–nos tia, vamos.
Reb. Olha Resina lá não te arrependas.
Res. Não minha tia, não e tu serás constante?
Murt. Sou bronze, firme mais do que uma pedra.
347
348
Capitolo II
Reb. Mas em quanto não casa tenha conta, não se chegue a Resina
que com calor é coisa que se pega.
Murt. Não senhora isso é graça.
Reb. Pois ande lá adiante.
Murt. Vá vossa mercê que é muito mais velha.
Reb. Sim, anda rapariga... (Andando)
Res. Sim minha tia vamos. (Andando mais atrás)
Murt. Apertame esta mão, aperta, aperta. (Partem) 273
Acto II, cena II
(Bosque)
(Sai Rebeca e Resina)
Reb. Ai Rapariga já não posso andar, venho deitando os bofes pela boca,
eu não sei que há–de ser de nós: fugidas donde iremos parar? Eu de
fraqueza já falar não oiço as minhas fontes e se fechão morro, nem eu
posso curá–las. Não soubeste trazer umas rodilhas, nem a cera das bodas
fedem tanto! Tomara perfumar–me.
Res. Ai minha tia o cheiro não são das fontes, são dos flatos baixos.
Reb. Oh atrevida! Tu sentiste algum, tenho oitenta annos nunca tal me
ouvirão. Aia foi da Princeza sete vezes dez, e um e sempre os meos flatos
tanto lhe cheiraram que me disse mil vezes, ai minha Aia você que traz
consigo, que me cheira não sei dizer a que? Sei que engraçado acho esse
cheiro seu. As minhas roupas não me cheiram tanto.
Res. Mas minha tia porque não casou?
Reb. Só por não aturar um homem porco com os pés suados todo
tabaquento vindo da rua cheio de imundícia sujar–me a casa: são uns
porcos todos.
Res. Não é Murteiro assim, que é asseado, até parece que dele o pó se
afasta, tomara eu que ele já me aparecesse.
Reb. Oh atrevida, não te lembra Ismene que tantos dias não sabemos dela,
só Murteiro te lembra, que inda agora ali deixamos. És mui insolente.
Res. Assim é coitadinha da nossa ama, coitadinha! Estará já prisioneira,
oh maldito Alexandre, coitadinha.
Reb. Desgraçada Princeza!
Res. Melhor lhe fora ser uma rapariga, tomara ela trocar hoje comigo.
Reb. Oh petulante, vê que falas néscia, trocar contigo! Sabes o que dizes?
(Sai Murteiro)
273
Opera Famosa intitulada Antigno em Tezalonica, copiada aos 20 de Março de
1785, p. 7.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
349
Murt. Ora aqui venho socorrer a praça. (Traz alforge) Oh minha tia se
você soubera a pinga que aqui trago! [...] trago pão, trago queixo, peixe
frito, bela fruta também, não falta nada já tenho crédito aberto nessa
venda, lá deixeis de penhor a trouxa dos vestidos.
Reb. Que vestidos, os meus?
Murt. Pois queria morrer a sede e a fome?
Reb. Desgraçada de mim! Vamos buscar.
Res. Também os meus? Oh sorte desgraçada, oh tiazinha dê–lhe o seu
cordão antes ele lá fique com os vestidos.
Reb. O meu cordão um dardo.
Res. Pois dê–lhe os brincos.
Reb. Os meus brincos, dar–lhe–ei uma punhada.
Res. Dê–lhe as suas memórias.
Murt. Sim minha tia, qualquer coisa baste, pouco gasto se fez, deste–lhe a
conta, quatro vintens de pão, e de pão quatro outros, quatro de queixo.
Res. São sete tiazinha.
Reb. Sete? Aliás são quinze.
Murt. De fruta dois...
Res. São dez agora.
Reb. Treze, conta bem toleirona.
Res. Vossa mercê se engana.
Reb. Não desmintas.
Murt. Tem razão a tia e de fruta dois.
Reb. Doze, em negra hora [†] os meus vestidos...
Res. São duas vezes fruta!
Murt. Sim, que é fruta de duas qualidades, já me perdi na conta.
Reb. Eu não quero comer, quero os vestidos.
Res. Isso não minha tia, sem comer os vestidos de que servem?
Reb. Os meus vestidos vá buscá–los já.
Murt. Quatro de bacalhau...
Res. Tiazinha vá lá detendo a conta.
Reb. Os meus vestidos quero vê–los já.
Murt. De vinho três canadas.
Reb. Ó rapariga vamo–nos embora.
Res. E os vestidos hão–de cá ficar?
Murt. Então tia não quer fazer a conta?
Reb. Quero que vá buscar os meos vestidos, olhe que hei–de gritar, ah
que del–Rei. (Alto)
Murt. Vamos Resina, tua tia é doida.
Reb. Só comigo é que há–de ir a rapariga.
Res. Vá buscar os vestidos.
Murt. Pois tu queres deixar–me?
Res. Você não é capaz de sustentar–nos.
Murt. Eu trago de comer para fartá–las.
Capitolo II
350
Ambas. Mas os nossos vestidos é que pagam!
Murt. Ora não falem mais em bacatelas.
Reb. Bacatellas lhe chama! Oh sevandija, ganhei–os com o suor deste
meu rosto.
Murt. Pois por isso eles são já tão suados.
Reb. Você não é capaz de nos dar victos.
Murt. Porque não? Sabe mal os brios que tenho.
Reb. Eu quero os meus vestidos tenho dito.
Murt. E eu quero comer.
Reb. Não seja mandrião e vá ganha–lo.
Murt. Voces não vem que tudo anda revolto, que não posso ir pedir a
Demetrio meu amo os ordenados em podendo falar–lhe, eu lhes darei
vestidos novos, capaz a moderna, mas agora não devo deixar sem
mim aqui duas donzelas, que será de vocês sem mim? Ah néscias,
podem vir os Soldados de Alexandre roubar–lhes tudo quanto, Deus
lhe deu você, tia não tem já que perder. Porém Resina...
Reb. Resina, não tem mais que perder do que eu não tenha.
Murt. Isso é bazófia.
Reb. Pois você que cuida! Nunca tive ninguém que me dizer. (Partem)274
Acto III, cena III
(Salas de Palacio)
(Sai Rebeca e Resina)
Reb. Ainda não creio estar restituida a estas ricas salas de palácio,
dormindo pelo chão lá tantos dias. Triste e amargurada velhice! Dói–
me o corpo.
Res. Também eu minha tia, toda a noite os olhos não pregava tantos
bichos havia pelo bosque que inda às vezes me parece que os vejo.
Reb. Nunca cuidei que Ismene tão depressa nos perdoasse a fuga, que
fazemos agora, logo vou pedir lhe mande prender Murteiro, que é
ladrão ladino.
Res. Ai minha tia, tal não faça, não.
Reb. Hei–de pô–lo na forca, os meos vestidos há–de mos pagar.
Res. E se casar comigo?
Reb. Case, ou não case quero os meos vestidos, hei–de enforcá–lo em
quanto mos não der.
Res. Um com sobrinho inforcar pertende?
Reb. Com sobrinho, que coisa é com sobrinho?
Res. É o homem casado com a sobrinha.
274
Ivi, pp. 21-23.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
351
Reb. Casado? Ainda não.
Res. Mas tanto monta.
Reb. Tanto monta, que dizes?
Res. Eu... já não digo nada.
Reb. Não? Quero saber esse tanto monta aonde vai parar.
Res. V.m. bem sabe.
Reb. Bem sei? Oh atrevida, que sei eu? Que sei eu? Quem tal ouvir
julgará que eu que sou consentidora.
Res. Pois não sabe quando eu foi lá no bosque fugindo do lagarto, que
Murteiro correu atrás de mim para livrar–me que tardamos, e quando
aparecemos que eu vinha com a cara descorada que umas vezes chorava,
outras me ria, que Murteiro dizia me cala–se?
Reb. Isso sei eu, porém não sei mais nada.
Res. Pois viu–me a cor perdida, ou não?
Reb. Bem vi.
Res. Viu também que chorava?
Reb. Vi também.
Res. E que me ria.
Reb. Vi, pois que tem isso?
Res. Sim! Pois então é que foi.
Reb. Porém que foi então?
Res. Eu não queria...
Reb. Senão te explicas mais eu não te entendo.
Res. Entende sim, entende.
Reb. Hei–de pô–lo na forca por ladrão, empenhou–me os vestidos na
taverna, há–de pagá–los a poder que eu possa.
Res. Eu hei–de ficar sem ter Marido?
Reb. Com outro casarás, mas não com ele.
Res. Não pode ser.
Reb. Porque?
Res. Já lé disse porque, mais não me apure.
Reb. Senão te explicas mais eu não te entendo.
Res. Tenho vergonha a falar mais claro.
Reb. Tu serás a deshonra do meu sangue, de falar tens vergonha, atrás de
ti Murteiro foi correndo, tu não querias? Vinhas descorada, rindo, e
chorando!
Res. Mais não fale nisso, em sendo meu Marido bem tem pago.
Reb. Mal tem pago! Porém os meus vestidos...
(Sai Antigno com acompanhamento, Alexandre desarmado entre
Soldados Macedonios, Baluarte e Murteiro)
Reb. Justiça Senhor, Senhor peço justiça.
Murt. e Res. Piedade.
Capitolo II
352
Bal. e Reb. Justiça.
Ant. Contra quem me pedir essas virtudes?
Os Trez. Para Murteiro.
Ant. Que vos fez Murteiro?
Reb. Me empenhou os vestidos na taverna.
Bal. Deu–me muita pancada.
Res. Que lhe perdoes peço e me deixes casar com ele.
Ant. Sim. Geral perdão a todos eu concedo.
Murt. e Res. Sempre sejas feliz, sempre ditoso. (Partem)
Reb. E os meus vestidos? Ficarei sem eles?
Bal. E as pancadas? Ficarei com elas?
Ant. Ide–vos que eu a tudo darei prompto remédio.
Reb. Os meus vestidos... (Parte) 275
II.15.
L’Olimpiade
Il capolavoro che Metastasio fece rappresentare nel giardino
dell’Imperial Favorita il 28 agosto 1733, ebbe in Portogallo
diffusione sia come libretto bilingue già dal 1737, sia nella
versione originale priva di testo a fronte, come per l’edizione in
occasione della rappresentazione nel Real Teatro da Ajuda del
1774, sia in sola traduzione portoghese, ma molto fedele
all’originale (come denuncia l’indicazione di genere di ópera
dramatica) che venne prodotta a Lisbona nell’Officina di
Domingos Gonsalves nel 1787 (fig. 31). Tuttavia, lo stesso anno
di quest’ultima edizione venne pubblicata per i tipi di Filippe da
Silva e Azevedo una commedia–adattamento decisamente
originale rispetto al testo di partenza metastasiano e dal titolo
significativo di As rigorosas leis da amizade compridas em
Olimpiade (fig. 32), corrispondente evidentemente all’esigenza
moralizzante che poneva l’attenzione principalmente sugli
aspetti positivi ed edificanti di ogni vicenda portata sulle scene,
in questo caso quel motivo dell’amicizia perfetta che può e deve
superare le ragioni dell’amore, come già aveva rilevato il
Robuschi:
275
Ivi, pp. 34-35.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
353
la vicenda è solo sentimentale: un’amicizia perfetta che poteva essere
in Grecia come in Roma, nell’antichità classica come nel ’700
cosmopolita. È vero che l’azione è ambientata nell’antica Grecia, ma
rivela subito come si tratti di una Grecia vista attraverso la
trasfigurazione, o se vogliamo, la deformazione arcadica, ridotta cioè
ora a quadro idillico, ove possono vivere pastorelle–regine, ora a
semplice oleografia d’antico tempio, sui cui gradini si snoda la teoria
dei sacerdoti teatralmente agghindati. Il motivo dominante non è più
dato dal dovere in contrasto, spontaneo o forzato, col sentimento, ma
da un sentimento in contrasto con un altro, dall’amore in constrasto
con l’amicizia in gara di intensità. La gara però non si trasforma in
aspro cimento, poiché è solo pretesto all’espansione delicata dell’uno
e dell’altro sentimento, che s’intrecciano, si librano in lirici voli, si
fondono quasi, tanto che ad un tratto amore e amicizia parlano un
unico linguaggio e se non si vedessero i personaggi nell’azione
teatrale, o non ne leggessimo in margine alla pagina, si potrebbe
credere amante l’amico o amico l’amante276.
Le molte divergenze rispetto alla lezione dell’originale
dell’adattamento del 1787 arrivano ad un tale grado di
discrepanza da rendere il testo di partenza quasi irriconoscibile,
sia per quel che concerne le modalità espressive dei personaggi
principali, sia dal punto di vista delle azioni messe in campo per
lo svolgersi della fabula originaria. Si parte da una prima
intromissione del nome di uno dei criados dell’adattamento, in
luogo di un semplice riferimento al servo di Licida, mantenuto
anoninimo nel testo metastasiano. Laddove infatti Aminta
afferma semplicemente «Forse il tuo servo/Subito nol
rinvenne»277, il traduttore opta per una prima citazione del reale
protagonista di questa comedia nova: «É distante a Creta
donde/O foi chamar Fosco»278. Divergenze d’impostazione,
come la frequente soppressione dei cori o la resa stilistica
originale delle battute dei protagonisti metastasiani, si possono
allora comprendere da un semplice raffronto comparativo:
276
Metastasio, Olimpiade, a c. di G. Robuschi, Plein, Milano, 1962, pp. 10-11.
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 581.
278
Comedia Nova intitulada As rigorozas leis da amizade compridas em
Olimpiade, do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa, na Officina de Felippe da Silva e
Azevedo, anno de 1787, p. 2.
277
Capitolo II
354
L’OLIMPIADE
1733
Atto I, scena I
Aminta
Ed Argene?
Licida
Ed Argene
Più riveder non spero. Amor non
vive
Quando muor la speranza279.
AS RIGOROZAS LEIS DA
AMIZADE
1787
Acto I, cena I
Aminta
Dize: Argene a quem rendido
Adoravas?
Licida
Reconheço
Que foi da minha alma encanto,
E que a seu nume supremo
Vítima atenta o meu nobre
Amor, tributou por feudo,
Potencias, vida, sentimentos
Em os altares do obséquio;
Porém ausente, e ignorada
Como jamais vê–la espero,
Esta esperança perdida
Do lugar a que outro objecto
Produza em minha alma um novo
Abrasador mongibello280.
I criados Fosco, Indatirsa e Belermo, che in questo
adattamento dell’Olimpiade vengono quasi sempre trattati con
sufficienza e con impazienza dai loro padroni e in generale dai
personaggi seri della vicenda (frequenti sono i rimbrotti del tipo
«Com ignorâncias não gastes/Tempo»281 o «Cala, louco»282)
sono presenti in tutte le scene della commedia, interagendo e
interloquendo con i veri personaggi metastasiani ora per
indirizzare e consigliare, cercando di chiarire dubbi ed
incertezze, ora per sottolineare, commentare, interpretare
secondo una visione chiaramente comico–grottesca a loro
affidata dall’anonimo adattatore portoghese, per infarcire di
guizzi d’ironia situazioni d’alta tensione drammatica:
279
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 582.
As rigorozas lesi da amizade compridas em Olimpiade, op. cit., p. 3.
281
Ivi, p. 3.
282
Ivi, p. 27.
280
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
355
Acto I, cena I
Megacle. Dize, em que posso servir-te?
Licida. Em meu nome combatendo
Neste Olimpico certame.
Fosco. É para que molhe os beiços
Com este acepipezinho;
Olém para que Folguedo
Manda chamar o coitado! (À parte)
Megacle. A luta, Principe, aceito:
Como em Elide não haja
O menor conhecimento
Da tua pessoa.
Fosco. Donde
Hirá parar este enredo! (À parte)
Licida. Ninguém me conhece.
Fosco. É que ele
Tomou a vida de morcego,
E como de noite é que anda,
Ninguém pode conhecê–lo.283
Cena III
Fosco. O Cheu me seja propício
Neste lance desastrado,
Pois no que tenho tratado
Bem dei de criado o indício.
Licida. Começava o Sacrifício
Quando vieste?
Megacle. Não arde
Inda a Vítima, que alarde
É deste voto primeiro.
Fosco. Apesar do furateiro
Chego-lhe ao nariz mui tarde!
Reparo em mim não tem feito
Nenhum dele até agora!284
Nel primo incontro tra graciosos vengono rivelate le relazioni
di parentela e i rispettivi ruoli dei servi, fornendo subito allo
283
284
Ivi, p. 4.
Ivi, pp. 13-14.
Capitolo II
356
spettatore la chiave di lettura di tutto l’episodio comico, di cui
ormai siamo in grado di prevedere modalità e contenuti. Qui il
triangolo comico presenta l’unica originalità di vedere in gioco
un padre, Belermo, e la rispettiva figlia, Indatirsa, stranamente
allearsi ai danni di quello che possiamo considerare il vertice
nella geometria di questi criados: Fosco, servo di Licida. Padre e
figlia, in altre parole, non sottostanno al gioco d’inganni e di
raggiri messi in atto dall’astuto servo di turno, ma reagiscono
ripagandolo con la stessa moneta dell’imbroglio, in un gioco di
travestimenti e di tranelli. Così il consueto lieto fine (matrimonio
dei due giovani servi) che conclude la serie di intrecci imbastita
lungo i tre atti dell’adattamento, sembra qui qualcosa di forzato e
non congruente con l’impianto centrale dell’azione dei tre
comici, una mera evoluzione obbligata da esigenze di genere.
Infine, per un ultimo raffronto con il teatro vicentino, ci
sembra di poter scorgere nel personaggio che compare in scena
spacciandosi per mercante ed escalamando
Quem compra leques, agulhas,
Pentes, fitas, e medalhas
Da moda, que hoje é mais moda.
[...]
Eu vendo mil bugiarias
Da Europa, India, e Trácia,
Do Japão, de Africa, Egipto,
E Sobre tudo de Itália:
Soube que em Ilide joga
A gente que hoje mais campa
Para ostentação do brio
Em que se vê exaltada.
E venho pelas aldeias;
Para a Corte vou já de marcha,
A ver se me compram dixes
Para adorno das samarras,
Que lá dizem terei gasto
Nestas minhas traquitanas285.
285
Ivi, p. 5.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
357
la figura del diabo dell’Auto da Feira, colui che compare con
uma tendinha diante de si, como bufanheiro, e diz:
DIABO
Eu bem me posso gabar,
E cada vez que quizer,
Que na feira onde eu entrar
Sempre tenho que vender,
E acho quem me comprar.
E mais vendo muito bem,
Porque sei bem o que entendo;
E de tudo quanto vendo
Não pago sisa a ninguem
Por tracto que ande fazendo.
Quero-me fazer á vela
Nesta sancta fira nova.
Verei os que vem a ella,
E mais verei quem m’estrova
De ser eu o maior della.
[...]
Vendo dessa marmelada,
E ás vezes grãos torrados,
Isto não revela nada;
E em todolos mercados
Entra minha quintalada.
[...]
Ás vezes vendo virotes,
E trago d’Andaluzia
Naipes com que os sacerdotes
Arreneguem cada dia,
E joguem té os pellotes286.
286
G. Vicente, op. cit., pp. 399-401.
358
Capitolo II
Figura 31. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 219).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
359
Figura 32. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 709).
Comedia Nova intitulada As
Rigorozas Leis da Amizade
compridas em Olimpiade (1787)
Acto I, cena I
Indat. Justiça de Deus. Justiça.
Fosc. Que é isto?
(Sai Belerm, e Indatirsa)
Bel. Que nos calemos,
Não me seja rezingueira.
Fosc. Que bulha é esta?
Indat. Este gebo...
Bel. Esta grande serrazina...
Bel. e Indat.Que teima mais, do
que eu
Teimo.
Fosc. Que teima é esta?
Saibamos.
Indat. Que me leve lhe requeiro
Aos jogos.
Bel. E eu que fique
Em casa é que lhe aconselho;
Porque lá pela Cidade
Há maganos de cabresto,
Que em vendo moças bonitas
Põem-lhe nomes muitos feios.
Fosc. Pois é sobre isto a
contenda?
Indat. Este foi o seu começo
Veja se pode aturar-se
Quem com tantos destemperos
Me traz sempre espezinhada.
Bel. Tenho já muitos Janeiros,
E sei que é mui perigoso
Já na Corte o gado fêmeo.
Fosc. É seu tutor, por ventura
Menina, este badameco?
Indat. É meu pai; mas da rabuje
Sabe o mundo é ele o centro.
Fosc. Isso está mostrando aquela
Carranca, e medonho aspecto!
Bel. Ela é, Senhor, mui teimosa.
É uma pele do demo.
Fosc. Antes bem ensinadinha
Parece no seu bom termo.
Indat. Não me quer crer ele isso,
Ainda que lhe quebre os testos
Com uma foice roçadora.
Fosc. Isso é que é duro dos
seixos.
Bel. Agora, isto é ter fogo.
Indat. Em isca de pano velho.
Fosc. Que a menina é bem
criada
No bem que fala estou vendo.
Bel. Deve fazer escuro,
Que nada bom nela enxergo.
Fosc. É porque oculos não usa,
Tendo idade de trazê–los.
Indat. Melhor lhe estavam
cangalhas
De burrinho de aguadeiro.
Fosc. Deixemos chufas, e digam
Se houve neste rompimento
Coisa de taponas?
Bel. Houve.
Houve um par de murros secos.
Indat. Mente; que foram
molhados
Com as lágrimas que verto.
Fosc. Pois vá querelar dele.
Indat. Como?
Se por meu ensino levo.
Fosc. Bom fora pagar a injúria.
Bel. O motim já está quieto.
Indat. Como eu vá logo à Cidade
Tudo se acaba.
Bel. Não quero.
Fosc. Tenho visto, que é
prolixo.
Indat. E tanto que deixa aberto
O portal da nossa casa,
E atrás de mim vem correndo.
Fosc. Isso faz-se? É bom
descuido
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Andando ladrões aos centos!
Donde mora, senhor meu?
Irei a porta fechar–lhe.
Bel. Em tal não convenho.
Que estão lá coisas miudas,
Que se vão por entre os dedos.
Fosc. Isso que importa
Bel. Há borracha...
Fosc. Borracha? Não provaremos,
Que tal é por cá a pinga.
Bel. Toldou-se, e está muito
azedo.
Indat. Não seja sofrego, dê-lhe
Uma escudela.
Bel. Tem gesso.
Fosc. Vejamos.
Bel. Entende disso?
Fosc. Como o melhor sapateiro.
Bel. Isso me obriga a hir
buscar–lho:
Não o verás tu nos queixos.
(À parte, e vai–se)
Fosc. Menina, desses olhinhos
Vem não sei que raios vesgos.
Que tem jeito de matar–me
Pelo airoso do seu jeito:
Ao vê–los, nesta alma pobre
Não sei que me está mexendo,
Que me parece assim coisa
De bichinho carpinteiro.
Indat. Eu não sei de mexedelas,
Vá curar-se se está enfermo.
Fosc. Sabes quem pode
sanar–me?
Indat. Nem sei, nem quero
sabê–lo.
Fosc. Pois é o teu amor.
Indat. Donde
É que mora esse boneco?
Fosc. Em o templo de teus olhos
Lhe deu culto, e oferto incenso.
Indat. Ora veja! Nem por isso
Cá me chegou inda o cheiro.
Fosc. Morro por ti.
363
Indat. Cale, que ando
Para honra e casamento.
Fosc. E tens noivo?
Indat. Isso é que falta:
Tenho mais de quatrocentos,
Não fora aqueles que às duzias
Me servem para o desprezo.
Fosc. Ah tiranna, que me destes
No meio d’alma cum fecho.
Inat. Veja como há de sará–la,
Que há na botica unguentos.
Fosc. Pois não me dás
esperanças?
Indat. Nada que é favor
dispenso,
Que tenho de lascarina
No meu génio o contrapeso.
Fosc. Eu hei–de te amar acinte.
Donde moras?
Indat. Nos cabeços
Junto ao cabo da montanha.
Fosc. Por filha desses penedos,
Em o cabo me tem posto
Teu rigor!
Indat. Eu o arrenego:
Você tem pilhas de graça
No estilo dos seus requebros!
Fosc. Agradam-te?
Indat. Gosto às vezes
Inda que não sopeteo.
Fosc. Pois olha cá, não me mates
Tanto, com teus olhos belos.
Indat. Faça a sua diligência,
A ver se acaso me rendo:
Mas meu Pai não aparece!
Fosc. Devia dar-lhe o peco.
Indat. O não ter vindo é por
peça:
É homem muito travesso!
Ainda naqueles annos
É mais destro que um Sargento:
Vou buscá–lo.
Fosc. Isso é tolice,
Que pode ir um gandaeiro
Capitolo II
364
Para o achar na enxurrada.
Indat. Você por saco de esterco
É só, quem lá pode achar-se:
Vá–se, que deita má cheiro.
Fosc. Fedo? E a que?
Indat. Por menino,
A que fede é aos coeiros.
Fosc. Eu sou um homem
tamanho,
Que já podia ter netos.
Indat. Adeus, Senhor homem
grande,
Que eu só brinco c’os pequenos.
Fosc. Adonde vás?
Indat. Que lhe importa?
Vou para aí fazer meus feitos.
(Vai–se)
Fosc. Para isso tens tu língua:
Mas eu hei–de ver se a pesco:
Espera-me mal [†],
Não fujas lindo tareco,
Que me perdes, e eu perdido
Para marido não presto.
(Vai-se) 287
Cena II
(Sai Fosco de Bufarinheiro)
Fosc. Quem compra leques,
agulhas,
Pentes, fitas, e medalhas
Da moda, que hoje é mais moda.
Indat. Baco, que horrenda
fantasma!
Argene. Que Estrangeiro é este?
Bel. Nunca
Por estes montes vi cara
Tão esquizita!
Indat. Parece
Fugio de um painel de almagre!
Argene. Estrangeiro, que
287
Ivi, pp. 5-6.
procuras?
Fosc. Dei c’o negocio em
pantana.
Que se acha aqui a Princeza
Para estorvar-me as ganancia.
(À parte)
Eu vendo mil bugiarias
Da Europa, India, e Trácia,
Do Japão, de Africa, Egipto,
E Sobre tudo de Itália:
Soube que em Ilide joga
A gente que hoje mais campa
Para ostentação do brio
Em que se vê exaltada.
E venho pelas aldeias;
Para a Corte vou já de marcha,
A ver se me compram dixes
Para adorno das samarras,
Que lá dizem terei gasto
Nestas minhas traquitanas.
Bel. Não me lembro bem aonde
Vi este panal de palha! (À parte)
Argene. Os serranos gastam
pouco
Dessas drogas.
Indat. Maravilhas.
Traz por aí?
Fosc. Maravilhas
Trago, se quiser comprá–las.
Bel. Oh rapariga, o dinheiro
É pouco, vê que se o gastas,
Lá vai o dote.
Fosc. Que dote
Melhor que umas mãos de nata?
Enfeire minha menina,
Que não lhe há–de custar cara
Esta fazenda288.
Fosc. Ah Senhora, nada compra
Destas minhas traficâncias?
Indat. Cá compraremos se acaso
Trouxer coisas mui baratas.
288
Ivi, p. 11.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Bel. Vejamos o que se encerra
Nessa trouxa, ou nessa albarda.
Fosc. Quanto me pedir prometo
Dar–lhe: que quer?
Indat. Umas varas
De casta, que cá nos montes
Se usa.
Fosc. Se é ordinaria
Por cá essa droga, pode
Chegar à Moita a comprá–la.
Bel. Trará você barbas feitas?
Fosc. Agora essa os queixos rapa!
Não trago, porém à unha
Lha farei de boa casta.
Bel. Eu trago a barba comprida
Por ter medo das navalhas.
Fosc. Rapariga, eu sou aquele
A quem deixaste na estrada,
E venho por teu respeito
Disfarçado. (À parte a Indat.)
Indat. Que ignorância!
Bel. Pois essa tenda não mostra!
Fosc. Vejamos essas alfaias:
Eu hei–de pregar-lhe a peça,
E se me não faz trapaça
Há–de cahir, que é patinho;
(À parte)
Diga, senhor, da alforjada
Você vai para a Cidade?
Fosc. Sim, quer para lá
companhia?
Indat. E a pé?
Fosc. Não, vou a cavalo
De brida nas minhas calças.
Indat. Pois já lá não chega a
tempo
De ver a entrada das Danças,
Que tem feito as raparigas
Para os jogos.
Fosc. Com quem fala?
Não vê, que sou manja léguas?
Bel. Que me diz?
Indat. Por Dues não manja,
Que vai muito carregado:
365
Olhe, na nossa choupana,
Que é ali, por ir mais leve,
Podia deixar a carga,
E depois de festa venha
Ou quando quiser buscá–la.
Fosc. Muito agradeço o partido:
A moça entendeu-me a farsa,
E quer que repita o vela. (À parte)
Aqui fica, e o camarada
Poderá levá–la agora
Lá para essa barraca,
Que eu o frete pago.
Bel. Pois venha.
Fosc. Já quer? Uma facada:
Na volta pagarei tudo.
(Dá a trouxa a Belermo)
Bel. Promete?
Indat. O homem tem laia. (Para
Belermo)
Fosc. Em passando a festa venho.
Bel. Para então boas são mangas.
(Vai–se)
Fosc. E hás–de ser firme?
Indat. Sou rocha;
Mais ficando penhorada.
Fosc. Vê lá que dizes.
Indat. Não zombo.
Fosc. Deveras?
Indat. Dar–lhe–ei fiança.
Fosc. Trata-me bem uma vida,
Que te entrego.
Indat. Dar–lhe–ei fiança paa.
(Vaõ–e) 289
Acto II, cena II
(Vista de Bosque com longe de
Cidade)
(Sai Fosco)
289
Ivi, pp. 12-13.
366
Capitolo II
Fosc. Foi-se, mas eu que não
posso
Parar de saudades ternas,
Em quanto se fazem horas,
Vou ver se vejo... oh quem dera!
Sinto passos, e é preciso;
Porque meu amo não seja,
E me embarace a jornada,
Esconder-me, que é o que resta,
Para que eu pareça agora
Escondido de Comédia.
(Ritira–se ao bastidor)
(Sai Belermo com a trouxa, e
Indatirsa)
Bel. Venho-lhe trazer a trouxa.
Indat. Faz nisso uma grande
asneira.
Bel. Com que queres venha o
homem
Gritar-me a casa por ela?
Indat. Logo ele há–de fazer isso?
Bel. O medo tem cara feia.
Indat. Ora já que há–de
entregá–la,
Registemos o que encerra.
Fosc. Temos armada tramoia.
Bel. Tens razão que te sobeja
E será justo, que pague
Carreto, portaje, etcetera.
Indat. Venha a juizo o que
encobre.
(Quer abrir a trouxa, e Fosco o
embaraça)
Fosc. Apelo dessa Sentença.
Indat. Ai que susto! Homem do
demo...
Bel. Donde estava este pateta?
Fosc. Ali mui bem escondido,
Espreitando esta desfeita.
Indat. Você adevinha acaso?
Fosc. Pois não! Por uma unha
negra
Tenho um dedo que adevinha
Melhor que mil Feiticeiras.
Indat. Será, porque você come
Aquilo de Mocho.
Fosc. Pega.
Indat. Pois, Senhor adevinhante
Esta já se não remedeia,
Havemos ver este fardo.
Fosc. Ponho embargos à primeira.
Indat. e Bel. Se falar, olhe as
bochechas!
Fosc. A que del–Rei, que me
roubam.
Bel. Cale a língua, se não leva.
(Abrem, e acham trapagem)
Indat. É fermosa mercancia!
Com isso é que vem à feira!
Fosc. Vocês é que me trocaram
As drogas nessa miséria.
Bel. Mente, maroto.
Indat. E remente,
Villão ruim farto de verças.
Fosc. Mentirei, que sou de carne.
Indat. Você? Nem de beldroegas.
Bel. Tenha vergonha, vadio.
Fosc. Tenha-a você, seu taverna.
Bel. Não torne cá pelo vezo.
Indat. Venha, terá para peras.
Fosc. Vocês são ladrões, e ainda
Me cantam a chansoneta?
Indat. Cale a língua.
Bel. Tape a boca.
Indat. e Bel. Não lhe cocem as
bostelas.
Fosc. Eu cá não temo ameaças.
Indat. e Bel. Cá fóra é que se
experimenta.
(Vão–se)
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Fosc. Esperem; porque acusá–los
Vou ao Juiz da Vintena.
(Vai–se, levando os tarecos) 290
Cena III
(Sai Belermo)
Bel. Oh moça, isto é ter
vergonha,
Ou pejo!
Indat. O que diz?
Bel. Mofina,
Nunca te hei–de achar na aldeia!
Indat. Isso é porque sou vadia.
Bel. Quero, que o gabão me
amanhes,
Que ando aqui feito em estilhas,
E nem para isso me serves!
Indat. É que tenho serventia
Para coisas de mais porte.
Bel. Não vejo para que sirvas.
Indat. Viera uma hora mais
cedo,
E veria, então veria
Se era Dama de Palácio,
Como a mais pintada Ninfa;
Pois tive a bela Aristéa
Nos meus braços desmaiada.
Bel. Ora quem te há–de crer esse
Louco aranzel de mentiras?
Indat. Por sinal que certo
Adonis
Lhe disse doces cousinhas.
Bel. Vai bugiar mentirosa,
Que isso é impróprio nas
Rainhas.
Indat. Elas também são
mulheres.
Bel. Mas feitas de alcamonia:
Em fim, vamos para casa.
290
Ivi, pp. 20-21.
367
Indat. Lá lhe direi se me atiça,
Que veio logo outro guapo,
E ela de ouvi–lo respinga.
Bel. Devias de sonhar moça.
Indat. Isso fora se eu dormira.
Bel. Outra coisa é que eu
tomara,
Que se o soubesses me digas.
Indat. E o que é?
Bel. Como do da troxa
Nos havemos vingar, filha,
Que estou picado do chasco,
Que nos deu o sevandija.
Indat. Muito bom cuidado tenho
De me vingar do xinchila291.
Bel. Eu mato-o, se vem à aldeia.
Indat. Não, se ele lá vai, lá fica,
Que lhe faço uma falada.
Bel. Pois digo, vamos urdi–la,
Não nos apanhe descalços.
Indat. Não já a mim, que sou
peralvilha.
Bel. Vamos.
Bel. e Indat. Ah falso tratante,
Nunca tenhas paz nas tripas.
(Vão–se)292
Acto III, cena I
(Sai Belermo, e Indatirsa ambos
por Fosco)
Bel. Ande para ali, maroto.
Indat. Ande para ali, casquilho,
Que é um ladrão.
Fosc. Mentes porca,
E mentem a dois carrilhos
Teus parentes, teus cunhados,
Teus netos, teus adventícios.
291
Termine popolare con il
significato di ’uomo di brutto
aspetto’.
292
Ivi, p. 26.
368
Capitolo II
Alcandro. Que ruído é este?
Bel. Essa é boa!
Inda pergunta, que ruído?
É trazer este homem preso
Por isto, e mais por aquilo,
Que ele fez, e fez seu amo.
Alcandro. Pois que fez?
Indat. Que fez? Coriscos!
Seu amo foi tão afoito,
Que com um furor maldito
Quiz matar ao Rei Clistene.
Fosc. Que tem cá isso comigo;
É por ventura o ser louco
Contagioso tabardilho,
Que desse dos gabinetes
Aos xaugões293 do lacaismo?
Bel. Encontramo–lo na aldeia
A modo de sub-reptício
Olhando para trás, como
Que teme, que o vão seguindo:
Perguntamos-lhe que tinha:
E sem tratos, nem atilhos,
Diz que seu amo quisera
Por estar louco varrido,
Matar o Rei (linda história!)
E que ele se vai soquindo.
Fosc. Por escapar das loucuras
Deste Príncipe daninho.
Alcandro. Deixai ir solto o
inocente.
Aristéa. Ele não é
comprehendido:
Dai–lhe liberdade.
Fosc. Vivas
Mais annos, que um Pai faminto,
Que tem filho, que deseja
Por–lhe a mão pelos conquibio.
[...]
Indat. Ficamos sós, como
espargos
Solitários montezinhos!
Fosc. Eu inda estou desta história
Pasmado, tolo e aturdido.
Indat. Você é mui vadio.
Bel. Qual! É dura do toutiço.
Fosc. Sou um chorão
sempiterno.
Vendo-te este génio arrisco.
Indat. Você chora! Olha o
porco!
Fosc. Lava-me, andarei mais
limpo.
Bel. Minha filha não foi nunca
Lavandeira.
Fosc. Bem sei isso,
Pois sei, que é minha Senhora.
Bel. Devagar no encarecido,
Que isso cheirou-me a requebro.
Fosc. Se isto não fora sigilo
Reservado de um Pai jarra294,
Dissera...
Bel. Diga o seu dito.
Indat. Diga lá o que dissera.
Fosc. Receio...
Indat. Fale expedido.
Fosc. Não sei que acho na
garganta.
Bel. Será defluxo?
Indat. É o cirro?
Fosc. Deve ser, que estou
morrendo
Por te dizer mil carinhos.
Indat. Vocês não vem!
Bel. O que eu gabo
Neste moço, é o derretido!
Indat. Pois deveras, você
quer–me?
Fosc. Se não me estivera ouvindo
Aquele malvado ginja,
Franzindo-me o frontispício
Da carranca, eu te dissera
294
293
Termine dal significato oscuro.
Nel significato di jarreta,
persona anziana.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
Requebros, com sustenidos
Porém temo...
Bel. Não se acanhe,
Que eu de nada desconfio.
Fosc. Pois eu trago uns bons
desejos
De me receber contigo.
(Para Bel.)
Bel. Salva tal lugar, irrorio!295
Appelo desse partido.
Indat. Pois quer-se casar cum
velho,
Cum fedeiro no focinho?
Fosc. Não, mas é Pai: e com ele
O negócio esponsalicio
Devo de tratar.
Bel. Agora
Percebo o arre burrinho.
Indat. Ai meu Pai, não queira
dar–me
Tal tratante por marido:
Bem se vai dispondo a farsa.
(À parte)
Bel. Boa a leva a mal trapilho
(À parte)
Diga, e deveras intenta
Ser zangão do meu cortiço!
Fosc. Desde que vi esta moça,
Ando alugando padrinhos
De recebimento.
Indat. Felgo,
E está tudo concluido?
Fosc. Sim.
Bel. Quem são?
Fosc. Homens da praça:
E é o Apolo.
Bel. Gente gorda!
Indat. São sujeitos de caprichos!
Bel. E você, que tem de renda?
Que ofício, ou que benefício?
Fosc. Risco no jogo da bola,
E tiro o fel aos quartilhos.
295
Come irra!, caspita!
369
Bel. Dessa sorte já desde hoje
Tenho genro.
Indat. Não respingo,
Que estou muito namorada
Do noivo pelo feitio.
Fosc. Oh Velho da minha vida,
Que me obrigas... (Abraça a
Belermo)
Bel. Fora grelo:
Você vem cá abraçar-me?
Fosc. Perdi de louco o caminho:
Ai que ventura, que alcanço,
No belo peixe que pilho!
Bel. Pois que falta?
Fosc. Receber-nos.
Indat. Quem dera desses cosidos.
Bel. Pois se há–de ser, seja logo.
Fosc. Isso é que é fazer o siso.
Bel. Vai-te tu vestir de noiva,
Em quanto dou parte disto
A todos nossos parentes.
Indat. e Bel. Espera, que logo
vimos.
(Vaõse)
Fosc. Não tardarão, porque
correm
Appressados corropios:
Ora pode haver fortuna
Maior do que eu conquisto?
Já me parece que a noiva
Chwga, e com garboso pico
Melindrosa a saia apanha
Da ilharga com dois olhos piscos,
Chega a mim: faz-me misura,
E eu fico assim tamanito,
Que em pontos de matrimonio
Hei–de estranhar por noviço:
Digo-lhe: minha querida,
E ela dis-me: meu menino,
Eu respondo: que ventura!
Diz ela: faça-me mimos,
E casemos já, que é tempo
370
Capitolo II
De ter, o porque me fino;
Porque a gente que é casada,
Pode andar por esses trigos,
Sem que tenha no recato
Escrupolos de estrovilho;
Avie, Avie, casemos,
Não se me ponha em pontinhos,
Que o não quero vergonhoso,
Quando o procuro ladino.
Tem razão, digo: casemos,
Não anderei alfairio,
Dê–me essa mão.
Tripas; e ventre vomito.
Bel. Pois que cuidava? Olhe o
tolo,
Que se havia ficar rindo
Da trouxa?
Fosc. Ah sorte malvada!
Bel. Dê–me a mão, que me
esganiço,
Dizendo, me deve a honra.
Fosc. Mas que levante o bramido,
Não hei–de casar com ela.
Bel. Pega-o pelos gorgomilos.
(Sai Belermo de mulher muito
ridículo)
(Arremete a Fosco)
Bel. Ei–la em carne.
Fosc. Que gosto... fora lá grifo!
Deve de ser mão de rabos,
Que traz dedos de pepino!
Bel. Que, estranha! Não me
conhece:
Quem o fez espantadiço!
Não sabe, que o meu recato
Sempre foi o seu feitiço:
Se acaso me estranha as galas,
É porque hoje à moda visto.
Fosc. Sabe, co’ as galas da
moda!
Vieram-lhe dos quintos
Infernos!
Bel. Filha, meu dengue
Daqueles seus atavios,
Que achei a furtá–lho fato
Da trouxa nos escaninhos.
Fosc. Tornou-se Indatirsa em
mono!
Bel. Não me quer, meu [†]!
Fosc. Quero o diabo, que a leve
Marafona do intestino.
Bel. Já me não conhece, diga!
Fosc. Já não sou seu conhecido.
Bel. Ora dê–me a mão.
Fosc. Com essa,
Fosc. Ai, que bruxa me arrebata!
Bel. E você é algum jacinto!
Fosc. Ai, que me affoga!
Bel. Cala–lo,
Que leva por seu ensino.
(Vão-se)296
Cena III
Fosc. Oução duas
Palavrinhas, meus Senhores.
Bel. Que sairá desta alfurja?
Licida. Tu Fosco, não supões
nada?
Fosc. Salvando a supositura,
Digo, que quero casar-me;
Pois sou vivo c’o esta Chula.
Indat. Eu não quero.
Bel. Eu não consinto.
Fosc. Anda cá, para que és
burra!
Se esta festa está no cabo,
Pertendes ficar viúva!
Indat. Tem razão, toque estes
dedos.
Bel. Ahi lha dou, mas núa e
crúa297.
297
Ivi, pp. 31-35.
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
II.16.
371
Dubbie attribuzioni
Il discorso sulla questione delle dubbie attribuzioni ci pone di
fronte ad una situazione piuttosto complessa, sia perché in parte è
necessario rivedere la stessa catalogazione delle opere che gli archivi
portoghesi consultati identificano come traduzioni di testi
metastasiani, sia perché ci costringe a risalire a testi di altri autori
settecenteschi per poter ristabilire la derivazione di alcune traduzioni
erroneamente descritte come versioni di opere del Metastasio. La
prima circostanza si è verificata nel caso del manoscritto intitolato
Farnace em Eraclea, copia autografa del già citato António José de
Oliveira datata 8 febbraio 1783 e che, pur se priva di ogni riferimento
all’originale metastasiano, dal registo bibliográfico del sistema
informatico di ricerca preferenziale IPAC della Biblioteca Nazionale
ci viene proposta come traduzione di opera del poeta cesareo, già
pubblicata nel 1764 presso Francisco Borges de Sousa con il titolo di
Ódio, vallor e affecto, secondo l’edizione coimbrã del 1974 (Catálogo
da colecção de miscelâneas: teatro, p. 25) e con il titolo Ódio, vallor e
affecto, ou Farnace em Eraclea nel 1787 presso l’officina di
Domingos Gonsalves, così come riportano Inocêncio (VI 284) e
Forjaz de Sampaio (1920, p. 68). In realtà, nessuna delle opere di
Metastasio ha per titolo Farnace o è ambientata in Eraclea o ha per
argomento un tale soggetto, e l’unica opera riconducibile a questo
personaggio è il Farnace di Antonio Maria Lucchini, rappresentato a
Venezia nel 1727 e musicato da Vivaldi, di cui Giovanni Porta
(Bologna, 1731) e Tommaso Traetta (Napoli, 1751) curarono la parte
musicale in successive realizzazioni sceniche. Probabilmente gli
studiosi che nel Novecento hanno operato l’identificazione del
manoscritto portoghese come traduzione–adattamento di un’opera di
Metastasio sono stati tratti in inganno dalla presenza in Portogallo di
un testo a stampa bilingue della medesima opera risalente al 1735 ed
edito da Giuseppe Longi direttamente a Bologna, molto simile nella
sua fattura esteriore e nella composizione di frontespizio ai testi ben
curati delle prime traduzioni metastasiane prodotte nella Stamperia
Reale portoghese (fig. 33). È interessante, tuttavia, analizzare in breve
l’azione dei tre graciosos ospitati dal manoscritto del Farnace em
Eraclea, sia perché è l’unico adattamento da noi incontrato che
372
Capitolo II
identifichi esplicitamente due dei tre criados come marito e moglie,
Melcatrefe (“individuo insignificante” e termine generico di disprezzo
per soggetti maschili) e Bodilha (forse da botelha oppure “donna
molto grassa”), sia perché si assiste a scene di incredibile, continua ed
esplicita violenza fisica, percosse eccessive e ingiustificate che
costringono il personaggio principale di Berenice ad intervenire
direttamente nella disputa, attuando però a sua volta un’ulteriore
violenza esplicita nel decretare l’impiccagione di Melcatrefe scortato
dal rivale Trapo. Siamo di fronte, cioè, alla decadenza
dell’adattamento, ormai degenerato sul finire del secolo in lazzi e
guizzi non più comici o tragicomici, bensì semplicemente tragico–
grotteschi, non più finalizzati alla risata facile di un pubblico popolare,
bensì “romanticamente” volti ad intenzionalità decisamente più
drammatiche, paradossali, estreme. In ciò forse il continuo ribadire
l’elemento della sorte avversa, del destino infausto, della sventura che
accompagna sempre gli individui minori, appartenenti alle classi meno
abbienti e, quasi solo per questa ragione, vessati continuamente dalla
disgrazia e dagli inganni giocati non solo dai propri pari ma anche dai
personaggi “alti” della vicenda rappresentata.
Altro caso emblematico è il testo a stampa della comédia nova dal
titolo Laura reconhecida, prodotta dall’officina lisbonese di José da
Silva Nazareth nel 1785 e dall’argomento non certo attribuibile ad
opera del Metastasio (fig. 34). Si tratta, infatti, della vicenda di
Ismene, figlia del re di Trinacria ucciso dal fratello Rogero per
usurpare Regno ed eredità alla piccola principessa, della cui morte
incarica il Duca Alberto. Quest’ultimo, mosso a pietà dalla piccola che
all’epoca aveva solo due anni, decide di affidarla ad Arnesto, affinché
la allevi in un’isola disabitata. Qui i due vivono all’insaputa di tutti e
privi di contatti umani per quindici anni, quando sulle sponde
dell’isola naufraga Federico, Conte di Barcellona, ma celato sotto la
finta identità di Lisardo, il quale s’innamora, ricambiato, della bella
Ismene. Nel frattempo sbarca sulla medesima isola la nave del
Generale Ludovico, figlio del Duca Alberto, di ritorno dalla guerra
vittoriosa contro i Saraceni. Anche costui incontra la bella Ismene e il
neo arrivato Federico, decide di rapirli e di condurli alla Reggia di
Tinacria, dove nel frattempo regna la Duchessa Matilde, figlia di
Rogerio. All’arrivo dei due sconosciuti, la Duchessa s’innamora
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
373
immediatamente di Federico, da quel momento combattuto tra le due
passioni per la bella Ismene, benché di rango inferiore, e la nobildonna
siciliana. Nel frattempo, la Duchessa deve far fronte alle insistenze del
popolo che la costringono a prendere marito al più presto, dato che il
defunto padre l’aveva destinata ad Henrique, figlio del re di Napoli,
rifiutato a più riprese da Matilde. Ma il pretendente ripudiato trova in
questo diniego un motivo per muovere guerra alla Trinacria intera. Si
svolge così una dura battaglia tra opposti fronti nella quale prendono
parte non solo Ludovico, ma anche Federico e la stessa Ismene,
cresciuta coraggiosamente tra le selve. L’intreccio sarà infine sciolto
da Arnesto, il quale giunge a Palermo rivelando la vera identità di
Ismene: è Laura figlia del Re di Trinacria assassinato e, di
conseguenza, legittima erede al trono. Sul finale Laura–Ismene decide
di sposare il Generale Ludovico sia per la costanza dell’amore
dimostratole, sia per vendetta nei confronti di Federico, costantemente
indeciso tra le due donne e in un’occasione dispregiatore degli infimi
natali dell’ex isolana. Si tratta di una storia ispirata probabilmente ad
opere del Metastasio quali L’Isola disabitata (1753), per la
somiglianza del carattere di Ismene con quello di Costanza, ma anche
per il riferimento alla vita pastorale e per il naufragio di Gernando
quasi coincidente con quello di Federico, e forse anche al Ciro
Riconosciuto, per il tentativo di uccisione del re Astiage nei confronti
del protagonista ancora in fasce, poi affidato al pastore Mitridate;
oppure a Il Re pastore (1751) Aminta, che «ignoto a se medesimo,
povera e rustica vita traeva nella vicina campagna»298. Inoltre,
l’adattamento include (anche se appena abbozzata), l’azione dei
criados Flora e Taleigo (“sacco, bisaccia”299, ma si tenga presente
soprattutto l’espressione dar aos taleigos “chiacchierare molto”),
servo di Federico, immediatamente elevato al rango di Regio
Bibliotecario. I due servi, tranne qualche commento beffardo riguardo
il comportamento dei protagonisti, non imbastiscono alcuna trama
comica tra loro, inserendosi piuttosto in quella vera e propria
298
P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1117.
Una nota a margine. Si è parlato in precedenza di somiglianza del gracioso portogése
con il buffone di corte e con il "folle" shakespeariano. Sarà forse un caso cé Taleigo
significhi ’sacco, bisaccia’ e cé il latino follem indicasse originariamente il mantice, il sacco
di cuoio e il pallone, da cui poi il senso di ’testa vuota’?
299
374
Capitolo II
commedia goldoniana che è tutto il secondo atto, dove hanno spazio
più che altro i personaggi di Ismene, ridicolizzata dal tentativo di Flora
di insegnarle i rudimenti dello stare in società, di Federico, per le
continue esasperate gelosie, e di Matilde, che quasi si appresta ad una
lotta fisica con la bella selvaggia pseudo–metastasiana.
A queste false attribuzioni di traduzioni dal Metastasio si deve
inoltre aggiungere una copia a stampa del 1802 dal titolo A Gricelda
ou A Rainha Pastora (fig. 35), priva di graciosos e, con tutta
probabilità, versione portoghese della Griselda che Apostolo Zeno
scrisse nel 1701, della cui opera sono stati arbitrariamente mutati solo
alcuni nomi di personaggi (Lotario della versione portoghese al posto
di Gualtiero, Emirena per Costanza, Rosmano per Roberto, Clistenio
per Corrado), e rispetto alla quale si nota la presenza di un
personaggio, benché dalla partecipazione poco significativa, non
previsto nell’originale dello Zeno: Everardo, figlio di Lotario e di
Griselda e dell’età di soli due anni. Lo stesso Zeno, del resto,
nell’Avviso ai lettori della prima edizione veneziana, sottolineava
l’interesse che la vicenda della Griselda narrata dal Petrarca e dal
Boccaccio suscitò prima di lui nei commediografi Paolo Mazzi
(1620), Ascanio Massimo (1630) e Carlo Maria Maggi, la cui
Griselda venne pubblicata postuma nel 1700 dal Muratori.
Ma il caso certamente più interessante è rappresentato da una
Comedia Famosa realizzata presso l’officina di Domingos Gonsalves
nel 1787 e dal titolo originale di Emira em Suza, e Fugir à Tirannia
para imitar a Clemencia «composta em Italiano pelo Abbade Pedro
Matestacio» (fig. 36). Il caso è singolare in quanto dopo approfondite
ricerche non è stato possibile venire a capo né di un autore
settecentesco che in Italia abbia composto un’opera simile né,
esaminando anche opere di drammaturghi cosiddetti minori, si è
ottenuto un qualche risultato. Solo l’archivio della Biblioteca
Nazionale Braidense di Milano possiede un libretto a stampa del 1756
che sul frontespizio riporta il titolo di Emira «dramma per musica da
rappresentarsi nel Regio Ducal Teatro di Milano, Nel Carnovale
dell’anno 1756». Benché il testo sia privo di autore e benché la
Dedica al Duca di Modena sia semplicemente firmata da
«Gl’Interessati nel Regio Appalto del Teatro», in un testo di Antonio
Pagliacci Brozzi del 1893–94 dedicato agli aneddoti relativi al Regio
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
375
Ducal Teatro di Milano per gli anni 1701-1776, l’opera viene
attribuita all’autore delle musiche Gioacchino Cocchi, maestro del
Conservatorio degli Incurabili di Venezia300. Dall’argomento del
dramma (che, dall’elenco di un testo del 1998 a cura di Tintori e
Schito, sappiamo rappresentato in precedenza nel gennaio del 1737
presso il medesimo Teatro)301 veniamo a conoscenza della trama di
tutta la storia:
Emira, Regina di Media, tenera madre d’Almerindo unico suo figlio, ed
Amante sviscerato d’Orontea, parimenti unica prole di Orsmida, Re di persia,
Principessa la più rinomata di quel tempo per belezza non meno, che per
virtù, [che] avendo tentato invano di compiacere alle brame del figlio, con
renderla sua Consorte, si vendicò finalmente della ostinazione d’Orsmida, in
denegargliela, con farlo morir di veleno; ma non potendo, dopo la morte del
Genitore, indurre quella costante Principessa a cui succeduta nel trono, alle
nozze d’Almerindo, fece sì, che Dorimaspe suo consorte la stringesse
d’assedio nella città di Susa, capitale del di lei Regno. Idreno Principe Parto
invaghito per fama delle beltà d’Orontea, inteso il di lei periglio, con
poderoso esercito portossi a soccorrerla302.
È molto probabile che il traduttore portoghese sia stato indotto alla
falsa attribuzione o per il fatto che proprio presso il Regio Ducal
Teatro milanese ebbe luogo il 26 dicembre del 1725 la prima di
un’altra opera del poeta cesareo quale il Siface, opera che molto deve
aver suscitato l’interesse dei lettori delle sponde del Tejo soprattutto
per la presenza di un personaggio quale Viriate, principessa di
Lusitania; oppure per l’estrema somiglianza di alcuni passaggi
dell’Emira ai versi di altri drammi metastasiani tradotti in terra
iberica. Sorprendenti sono infatti le somiglianze tra la battuta di
Dorimaspe all’inizio del secondo atto e l’incipit dell’Alessandro
nell’Indie.
300
Cfr. Antonio Pagliacci Brozzi, Il regio Ducal Teatro di Milano nel secolo XVIII. Notizie
aneddoticé 1701-1776, G. Ricordi & C., Milano, 1893-1884.
301
Cfr. Il Regio Ducal Teatro di Milano (1717-1778). Cronologia delle opere e dei balli
con 10 indici, a c. di G. Tintori e M.M. Schito, Bertola & Locatelli Editori, Cuneo, 1998.
302
Emira, dramma per musica da rappresentarsi nel regio Ducal teatro di Milano, Nel
carnevale dell’Anno 1756. Dedicato a sua Altezza Serenissima il Duca di Modena, Reggio,
Mirandola ec. ec. Amministratore, e capitano Generale della Lombardia Austriaca ec. ec., in
Milano, 1756, nella Regia Ducal Corte, per Giuseppe Richino Malatesta Stampatore Regio
Camerale, s.p.
376
Capitolo II
La versione portoghese, composta mescolando variabilmente rime
alternate e baciate con frequenza di sequenza da strambotto del tipo
ABABCC (stile perfetto per argomenti di tipo popolare e satirico)
rimaneggia sensibilmente il testo di partenza optando per un protrarsi
ed un dilatarsi delle singole scene, in parte appesantite, ma descritte
con maggiore ricchezza di dettagli soprattutto per quanto riguarda i
personaggi centrali di Emira ed Orontea, quest’ultima certamente
carattere più complesso e sfaccettato, con zone d’ombra ben più
evidenti della semplice vittima sacrificale raccontata dal dramma
italiano. La parte dei graciosos, invece, non ha in questo adattamento
grande rilevanza, quasi non costituisce azione a sé, se non per due
brevi episodi isolati centrati sul gioco comico che deriva dal legare
insieme concetti tanto distanti come il cibo e la guerra, in un caso, e
nell’altro riprendendo la situazione del mascheramento e del
travestimento già incontrata nel Calote dell’Alexandre na India. Le
poche particolarità che si evidenziano rispetto alle precedenti modalità
dell’azione dei criados (di cui la coppia dell’Emira ripropone
fondamentalmente la funzione di commento) sono rappresentate da
un’accresciuta gestualità del servo di Almerindo, Gafanhoto
(“cavalletta” ma anche “individuo stravagante”), l’accentuazione di
una certa fisicità nel continuo gesticolare e nella descrizione fisica del
travestimento tra l’infernale e l’animalesco molto realistica e
particolareggiata, insieme ad una maggiore concentrazione sul gioco
di parole omofonico in un crescendo barocco di complessità
linguistiche e con l’insistia caricatura delle modalità espressive
melodrammatiche, rese comiche attraverso la tecnica del controcanto
ironico.
Un giusta chiusura alle comparazioni degli adattamenti al gusto
portoghese delle opere metastasiane è allora la battuta finale della
serva di quest’opera, Borboleta (“farfalla” ma anche “persona
volubile”). Ecco nella seconda scena del primo atto una sorta di
manifesto generale delle motivazioni di fondo che stanno alla base
della scelta del rimaneggiamento operistico attuato dai traduttori fin
qui presentati:
Ora o que vai pelo mundo;
tudo são confusões tantas,
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
377
Figura 33. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 600).
378
Capitolo II
Figura 34. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 66).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
379
Figura 35. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 676).
380
Capitolo II
Figura 36. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 29).
Metastasio, padrão de vida do século XVIII
381
uns aos murros, outros quietos;
uns com muito, outros sem nada;
uns se riem, outros se choram,
uns sopram, outros se escaldam;
mas, em fim, o que quiser
levar uma vida guapa,
há–de olhar para estas coisas,
e pregar-lhe duas risadas303.
303
Comedia Famoza intitulada Emira em Suza, e Fugir à Tirannia para imitar a
Clemencia, composta em Italiano pelo Abbade Pedro Matestacio, na off. de Domingos
Gonsalves, Lisboa, 1787, p. 10.
382
Capitolo II
CONCLUSIONI
Alla fine di questo percorso attraverso le rese lusitane del
melodramma metastasiano, vogliamo accennare brevemente a quelle
che furono le reazioni al dilagare della corrente dei rifacimenti
operistici nei due autori di spicco della più seria drammaturgia
portoghese tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Ci
riferiamo a Manuel de Figueiredo (1725–1801) e ad Almeida Garrett
(1799–1854), autori e teorici di teatro che in parte condanno e in parte
sembrano recuperare i canoni comico–grotteschi degli adattamenti qui
analizzati.
L’insofferenza nei confronti del dilagare dell’influenza
operistica italiana a discapito di una genuina produzione
drammaturgica e musicale nazionale è testimoniata già da un passo del
prologo ai Viajantes ditosos, commedia in due atti musicata da
Marcos Portugal e rappresentata presso il Teatro do Salitre nel 1790,
in cui l’anonimo autore protesta il suo diritto a superare il modello
straniero per fondare un genere operistico, per così dire, di stampo
nazionale:
É verdade que a Itália tem o direito de dar cantando um tom mais agradável
aos teatros de todas as cortes, não só porque a sua linguagem pura sofre
cortar-se, estender-se e ageitar-se à medida das colcheias, fusas, etc., mas
porque os seus antigos seminários musicos abundaram sempre e primeiro que
todos destas agradáveis composições. Porém agora que vemos entre nós
felizmente estabelecido e patrocinado pelos nossos augustíssimos soberanos
um seminário destes, de onde saem aproveitados génios e talentos capazaes
de emparelhar com Jomelli, com Peres, com Paesiello, com Cimarosa e com
todos os bons italianos, porque os deixariamos em ocio perder a fama, que
eles podem ganhar para os seus portugueses? E porque tendo de nosso para
nos deleitarmos, iremos sempre mendigar um favor estrangeiro? E muito
mais vendo com o exemplo, que a nossa mesma linguagem não resiste à arte
do perito, que cuide em a pôr nas regras da harmonia musical? Acresce a isto
mais a razão de atendermos a que na nossa linguagem se faz mais geral a
instrução e mais proporcionado o divertimento para os nossos patricios
1
ouvintes.
1
J. J. Marques, op. cit., pp. 137-138.
383
384
Conclusioni
Ma è soprattutto Manuel de Figueiredo a lasciarci una serie di
discorsi accademici in favore di una riforma in senso nazionalistico
del teatro portoghese e una quantità considerevole tra drammi,
commedie e tragedie che, tuttavia, non ebbero quasi mai il privilegio
di un allestimento teatrale. Il rapporto con la moda operistica
italianizzante non si concretizzerà nella composizione di rifacimenti o
di adattamenti al gusto portoghese come nei testimoni che abbiamo
analizzato nel capitolo precedente. Al contrario, troveremo spesso nel
drammaturgo portoghese critiche pesanti al facile successo di quel
tipo di rappresentazione. Molti passaggi dei suoi testi si richiamano
con tutta evidenza alla realtà del successo di pubblico delle
rappresentazioni d’ispirazione italiana e dei relativi adattamenti.
Ciononostante, Figueiredo non si sottrasse affatto alla lettura dei
suoi contemporanei francesi, spagnoli e, ciò che più ci interessa,
italiani. Spesso nei discorsi di introduzione alle sue commedie,
l’autore lusitano cita il nostro teatro settecentesco come massimo
rappresentante della decadenza degli usi e dei costumi culturali, pur
avendono indubbiamente subìto il fascino2. Scrive infatti nel Discurso
di presentazione alla sua traduzione del Catone di Addison:
De que servio a Moliere ser bufão, e ao famoso Goldoni fazer Comedias
más? Se elles tivessem melhorado os costumes, ou o gosto da sua Nação, não
os imitaria eu? Eu que não escrevo por outro algum interesse? Analizem lá os
costumes dos Italianos, e dos Francezes antes que Moliere, e Goldoni
2
Della stessa opinione è Maria Luísa Malato: «é certo que reprova em muitos textos o
gosto do público português, fascinado pelo balandrão dos dramas dos bonecos, as graças das
comédias atelanas, as máscaras do teatro italiano. Mas ao próprio árcade não é estranho este
fascínio.[...] alude encomiasticamente às obras de António José da Silva [...] E ainda aquelas
máscaras do teatro italiano, intrigas simplistas da commedia dell’arte, que a contragosto o
deleitam. [...] Fala pelo autor a imensa colecção, na sua biblioteca, de dramas e farsas
carnevalescas redigidas em italiano, umas das quais, até, intitulada A mãe indiscreta, da
autoria de Caetano Martinelli, compadre de Frei Manuel do Cenáculo, o qual, sem dúvida,
conjuntamente com um enigmático J. N., Senhor de Luca, leitor de Goldoni, proporcionariam
a Manuel de Figuereido o convívio com alguns livros dos seus compatriotas. Não resistitu
mesmo o dramaturgo a experimentar a mão naquele género, e desculpando-se com o intuito
de auscultar os gostos da nação, deu gosto ao seu, redigindo – em data incerta, mas que
situamos por volta de 1775 –, um sainete em castelhano, introduzido pelas figuras de um
Arlequim tocando tambor e uma Prochinela [sic] de balde, broche e cartazes.» in Luísa
Malato da Rosa Borralho, Manuel de Figueiredo. Uma perspectiva do neoclassicismo
português (1745-1777), IN–CM, Lisboa, 1995 pp. 104-105.
Conclusioni
385
compuzessem, comparem-nos com os de hoje, e digão-me a differença. No
gosto fallarei eu, porque vejo como d’antes encher-se o Theatro Italiano em
París, e leio os Dramas, que aqui nos chegão todos os dias de Italia, e ainda
de França. Desapparecerão os marquezes, e os pedantes em França em
quanto Moliere, e os mais Poetas cuidárão mais em envergonhallos, que em
os fazer rir. E fazer-se hum Poeta ridiculo por nada, he ser mais fatuo do que
matar-se pelo Povo3.
Un esempio pratico di come Figueiredo intendesse riformare i
personaggi tipici degli adattamenti al gusto portoghese è la figura del
criado italiano Genaro creato per la commedia Apologias das Damas
(1773), servo davvero sui generis in quanto disegnato intorno alla
caratteristica principale dell’erudizione, del costante citazionismo,
della saggezza filosofica in grado di superare in acume i personaggi di
rango superiore, loro questa volta definiti loucos. Davvero un caso
eccezionale all’interno della canonica tipologia del gracioso, dal quale
evidentemente il Figueiredo intende in questo modo allontanarsi:
Luiz
Tu não és um pateta, como são
Os criados do tempo, tu nasceste
Para melhor fortuna; tens juízo;
Tiveste educação; tens que perder:
Genaro
Ma un loco haze ciento, aun por esso.
[...]
Genaro
Quem é?
Luiz
Sou eu.
Genaro
Perdoe, que estava lendo
El Diablo Coxuelo.
3
219.
Manuel de Figueiredo, Teatro, Tomo VIII, Impressão Régia, Lisboa, 1804-1815, p. 218-
Conclusioni
386
Luiz
Boa especie!
Genaro
Queria refrescar-me na pintura
Da guardilha do Magico. (Mostra-lhe a estampa do livro)
Luiz
E porque?
Genaro.
Porque foi entregar aquela carta,
Que meu amo me deo no Galetás,
Àgua furtada, ou seja mesanino
Do tal Licenciado; e já sonhei
Cousas extravagantes, e a propósito.
Luiz
Raro humor, que sonhaste?
Genaro
Que o Diabo
Partíra com meu amo pelos ares,
E lá desde a Giralda de Sevilha,
Destelhadas as casas de seu Pai,
Lhe mostrava Isabel, que em solilóquio
Bocados de ouro diz, chorando a môco
Môco tendido, sobre o seu retrato.
Luiz
Se sonharas, Genaro, que era morta,
Sonharas a verdade.
Genaro.
Morta?
Luiz
Morta.
Pois não viste o desdém, com que teu amo
Tratou o seu bilhete?
Genaro
Lá me fez
Alguma novidade; mas eu tenho-o
Conclusioni
Por louquinho desde ontem, e ao Senhor.
Luiz
Havendo sete meses, que não tinha
Notícia alguma dela!
Genaro
Pois morreu
De repente, Senhor? Há duas horas
Não escreveo aquele tal bilhete!
Luiz
De repente morreu.
Genaro
Sim!
Luiz
Que outra Dama,
De pouco mais, ou menos, lhe tirou
O coração de Vasco.
Genaro
Requiescat.
Luiz
Mas com acções talvez, que não terião
Muitas de circumstancias.
Genaro
Já se sabe:
Há-de ser de novela; e sempre as acha!
Luiz
Parece que o Demonio lhas depara!
Genaro
Mas segundo a define, foi a troca
Muito a nosso favor, e a favor dele:
Por essa não teremos tantos sustos,
Ou já de vello morto, ou de caminho
Para a pátria, levando em fé de Ofícios
Sua carta de guia, e la besace. (São alforges)
387
388
Conclusioni
Luiz
Morrer pobre, é melhor que ser velhaco.
Genaro
Há nisso opiniões, e a mais seguida,
Se me dessem licença, eu a diria.
Luiz
Enganar, e perder uma donzela!
Uma mulher distincta!
[...]
Diz Lope (quando nada)
Asta la lengua parece, que es tambien enamorada 4.
Imitare i grandi classici del passato, evitare la commedia di
carattere poco consona al contesto portoghese, sottrarsi alla
rappresentazione dei cosiddetti tipi universali, macchiette poco
verosimili, la poetica di Figueiredo dichiara guerra aperta a tutte le
“estranhezas”5 del moderno teatro, alle “bufonadas ridiculas”6, al
“caracter mal preparado”7, e con l’unico obiettivo di educare
positivamente la gioventù. L’avversione nei confronti degli imitatori,
dei traduttori infedeli e di ogni genere di adattamento è addirittura
condensata nel motto legato al suo ritratto – Non ego ventosae plebis
suffragia venor – e alla citazione di apertura della collezione integrale
del suo teatro: O imitatores servum pecus. Attacca quindi l’uso
smodato delle romanticherie, l’eccesso di “galanterie & coquetterie”8
negli intrecci drammatici a discapito di quei temi che fecero la gloria
delle “almas grandes”9 greche e romane, la spettacolarità barocca di
pura suggestione scenica. Nonostante Figueiredo stesso abbia ceduto
al gusto dominante per accattivarsi i favori di un eventuale pubblico
spettatore, creando «a personagem Ginja que, embora nada entendesse
do enredo, não perdia espectáculo dos italianos»10, o iniziando, su
4
M. de Figueiredo, op. cit., Tomo II, pp.215-291.
Ivi, Tomo IX, p. V.
6
Ibidem.
7
Ivi, p. VIII.
8
Ivi, tomo VIII, p. 209
9
Ibidem.
10
M. L. Malato da Rosa Borralho, op. cit., p. 76.
5
Conclusioni
389
richiesta di un amico, un’opera italianizzante intitolata Diomedes e di
cui ci rimane la sola prefazione, il suo unico scopo è la riforma della
società attraverso l’exemplum teatrale, sia mettendo in discussione «o
servilismo cómodo perante os gostos do público»11 dei drammaturghi
nazionali, sia rifiutando qualsiasi tipo di ibridismo letterario, il riso
facile, la battuta oscena, il linguaggio sboccato e, lo ribadisce spesso,
l’uso di temi non legati alla realtà lusitana:
Maior desgraça experimentão os Theatros, que não tem Poetas Nacionaes;
porque supposto que o vicio deva ser geral; o jogo, que elle tem com os
costumes, e maximas do Paiz, em que se escreveo a Fabula, faz com que ella
muitas vezes nos suscite os que não temos; ou que não lhes conhecendo
originaes, percamos o interesse, tanto da parte da instrucção, como do
divertimento: porque está bastantemente provado, vendo-se que a Fabula
ouvida com acclamações em huma Capital, se não póde sustentar em outra,
ainda sem mudar de linguagem12.
Intenti moralizzatori, teatro educativo e critica sociale costruttiva
che gli sono valsi la commissione di ben tre opere da parte dello stesso
marchese di Pombal (O Avaro Dissipador, O Indolente Miserável e O
Fidalgo da sua própria casa) e la definizione di “teatro a tesi”
dell’insieme delle sue opere composte tra 1745 e 1777.
Il principio poetico al quale l’autore si ispira per mettere in pratica
quella che egli stesso definì “escola de costumes”13, finalizzata
esclusivamente alla ricerca dell’utile, è dunque quella verosimiglianza
che Figueiredo riconduce ad un’idea di fabula la cui costruzione non
si discosti dalla vita reale ― il che significa eliminare dalla scena
«esses monstros da inverisimilhança»14 che sono gli “a parte” e i
soliloqui ― pur pilotando intreccio e situazioni verso una conclusione
eticamente sostenibile. A tal fine occorre che il pubblico spettatore
venga guidato nella scelta della giusta rappresentazione teatrale,
evitando di adeguarsi al mal gusto dominante che induce a “beber nos
charcos”15 quando è possibile specchiarsi nelle acque chiare del suo
11
Ivi, p. 28.
M. de Figueiredo, op. cit., Tomo I, p. II.
13
Ivi, p. IV.
14
Ivi, Tomo II, p. 176.
15
Ibidem.
12
Conclusioni
390
teatro di riflessione. Una posizione che tuttavia sembra non esclude
totalmente l’elemento comico, purché il ridicolo operi sempre a
vantaggio della correzione del vizio. Quelle del Figuereido sono infatti
tipologie comiche rinnovate, epurate
da quella «miserável
16
complacência de fazer rir o vulgo» che l’autore considerava causa di
tutti i mali del teatro portoghese, così permeabile alle devastanti
influenze straniere da cedere anche al buon uso della lingua:
O Theatro, que em toda a parte he o modêlo da lingua, será a Escola do
Barbarismo, em quanto não houver Dramaticos Nacionaes. Que cousa mais
rara, que hum Traductor? Que importa, que no discurso de largos annos
appareça huma boa versão, se todos os dias se estão ouvindo as mais
vergonhosas para a Nação, e para os desgraçados Autores? Vemos a frase
Portugueza mais adulterada nos escritos dos Comicos, que na boca dos
Estrangeiros, de poucos mezes chegados a Lisboa. Quale he o Espectador,
que pelo idiotismo da traducção não conhece immediatamente a linguagem
original do Poema? E qual he o que não vê pela dilaceração da Fabula, pelos
contrarios effeitos, que causão as paixões, e até pela mudança dos Titulos,
que o Traductor se entendeo a Grammatica, ignorou rhetorica, e
poeticamente o que traduzia?17
A sua volta Almeida Garrett, promotore di quella riforma teatrale
per la quale si adoperò sia a livello istituzionale, sia attraverso una
fervida attività di drammaturgo, e con l’unico scopo di rifondare il
teatro nazionale portoghese parzialmente assopitosi all’indomani degli
splendori del teatro cinquecentesco vicentino, fu sempre mosso nelle
sue battaglie culturali dall’idea di dover imprimere nuovo impulso e
nuovo vigore alla drammaturgia lusitana. È infatti contenuta nella
prefazione ad Um Auto de Gil Vicente, dramma rappresentato per la
prima volta nel teatro da Rua dos Condes il 15 agosto 1838, la
constatazione dello stato penoso in cui versava la produzione
letteraria per la scena portoghese, a causa delle molteplici influenze
operistiche italiane, spagnole e francesi:
Em Portugal nunca chegou a haver teatro; o que se chama teatro nacional
nunca; [...] a nossa [cena] andou fazendo «operações mistas» com a Itália e
Castela, até que, fatigada de uma existência difícil, toda de privações e sem
16
17
Ivi, p. VI.
Ivi, pp. VII-VIII.
Conclusioni
391
glória, arreou a bandeira nacional, que nunca içara com verdadeiro e bom
direito, e entregou-se à invasão francesa. [...] E todavia Gil Vicente tinha
lançado os fundamentos de uma escola nacional. Mas foi como se a pintura
moderna acabasse no Perugino18.
Preoccupazioni che sono ancora presenti nei Viagens na minha
Terra composti tra 1843 e 1845, dove troviamo un tale giudizio sullo
stato delle rappresentazioni teatrali alla moda:
Pois o teatro... Que se lembre alguém, na provincia, dos martírios que sofreu
o ouvido com os berros da prima-dona, as desafinações do tenor, ou com o
enfadonho ressonar daquela adormecida orquestra de S. Carlos! A enjoativa
tradução de uma comédia da Rua dos Condes, roída de incurável sífilis,
afigura-se aveludada de todas as graças do estilo de Scribe. E o destempero
original de um drama plusquam romántico, laureado das imarcescíveis
palmas do Conservatório, para eterno abrimento das nossas bocas! Lá de
longe, aplaude-o a gente com furor e esquece-se que fumou todo o primeiro
acto cá fora, que dormiu no segundo e conversou nos outros, até à infalível
cena da xácara, do subterrâneo, do cemitério, ou quejanda, em que a dama,
soltos os cabelos e em penteador branco, endoudece de rigor, o galã,
passando a mão pela testa, tira do profundo tórax os três ahs! do estilo, e
promete matar o seu próprio pai que lhe apareça, o centro perde o centro de
gravidade, o barbas arrepela as barbas... e maldição, maldição, inferno!... –
«Ah, mulher idigna! Tu não sabes que neste peito há um coração; que nestas
veias corre sangue... sangue, sangue! Eu quero sangue, porque eu tenho sede,
e é de sangue... Ah! Pois tu cuidavas!?... Ajoelha, mulher, que te quero
matar... esquartejar, chacinar!» – E a mulher ajoelha e não há remédio senão
aplaudir... E aplaude-se sempre19.
Eppure, durante la sua formazione, il giovane Garrett subì
l’influenza della tradizione operistica italiana in maniera determinante,
tanto da comporre nel 1820 un breve testo dal titolo italiano di La
lezione agli amanti – Opera bufa, parodia di genere infarcita di tutti i
classici motivi della comicità al gusto portoghese: um padrone stolto,
un criado astuto a quanto pare rappresentato dall’autore stesso, una
fanciulla capricciosa ed insensibile ed un tema alla moda come la
18
Almeida Garrett, Um Auto de Gil Vicente, Publicações Europa-América, 2a ed., Lisboa,
1995, p. 29.
19
Almeida Garrett, Viagens na minha Terra, intr. por M. E. Tarracha Ferreira, Ulisseia,
Lisboa, 13a ed., 2002, p. 201.
Conclusioni
392
disputa tra prosa e poesia nella lode all’amata. Una breve parentesi
pseudo–operistica nella produzione letteraria di Garrett che merita di
essere riprodotta integralmente.
LA LEZIONE AGLI AMANTI
Opera bufa
Da rapresentarsi nel R. Theatro di ...
Personas que hablan en ella
O Snr Manuel
A Sobred.a 20 Sra que faz annos
Este seu criado
Côro.
A cena é onde for possível.
Que vos fazer os meus versos
Onde está a sua prosa?
Nicol. Tolent.
Falo eu, e digo
Meu Manoel aí te envio
Uma ode...
Manoel
É peta; é história.
Qual! Nem peso, nem feitio
Tem disso a tal mistifória.
Eu
Pois bem, Sr. Manoel, tenha paciência:
Fiz o que pude em minha consciência.
Saberá, meu senhor
Que as musas são mulheres,
Como elas caprichosas,
Dengues, e desdenhosas,
Por mais que um homem segurá–las queira
Promptas nem sempre estão pra brincadeira.
Aria
20
Forse abbreviazione di “sobredoirada”, "vanitosa”?
Conclusioni
Atrás de Daphne
Corria Apolo,
Já todo um bolo
Feito d’amor.
E a toleirona
Feita beata,
Como uma gata
Põe-se a gritar.
Se inda vivesse
No outro dia
Talvez inda 21
Tras dele iria
Também correr.
Manoel
Sr. Poeta, uma ode eu lhe pedia.
Sermões não quero de mitologia.
Eu
Sempre um exemplo achara um calcanhar
Entremos em matéria. Esses meus versos
Sejam ode, ou soneto
Ou quintilha, ou terceto
Elegia, epicedio
Canção, epithalamio,
Epopea, ou tragédia,
Epinício, ou comédia,
Fabula, endecha, satira, ou cantata
Servem para o seu fim optimamente
E se duvìda disto, experimente.
Manoel
A tanto não me atrevo.
Eu
E porque meu amigo?
Manoel
Aria
Porque dos versos
Logo no meio
21
Verso soppresso dall’autore.
393
Conclusioni
394
No êxito receio
Que a minha amada
Entre a roncar.
Eu
Tu me insultas, Manoel!
Manoel
Digo a verdade.
Eu
Ora experimenta.
Manoel
Não.
Eu
Vai, toleirão, fazer o que te digo;
E da boca, do ouvido, olhos, umbigo
Verás a borbotões
Suspirões a montões,
Ais, prantos, e gemidos,
Soluços, e bramidos...
Os lenços já não chegam,
Toalhas, nem lenções...
Bacias, ourinais
Por fora a trasbordar...
Oh ditoso Manoel, corre sem medo
Para onde te aponta amor co’ dedo.
Manoel
Convenceste-me em fim. Andiamo, andiamo
Ad implorar la bella.22
Aria
Ai piedi suoi
Pianti, e sospiri
Dei miei martiti
Chiedon pietà.
Io son, amore
Tuo servitore;
22
In italiano nel testo.
Conclusioni
395
Al mio dolore
Solievo dà.23
(Sala régia em casa de Maria Joanna. Sai a Sobred.a cuja senhora, que faz anos
e canta)
Recitado
Aonde estás ingrato,
Meu Manoel, onde estás que inda não vens
Para dar-me os devidos parabéns
De fazer anos hoje a tua amada?
Aria
Da sua Dido
O ingrato Eneas
Pelas ameas
Assim fugia
E nos teus annos,
Triste rainha
O tal chochinha
Não quis dançar.
Mas alguém chega.
(Entra o Sr. Manoel e diz)
Eu sou meu bem que chego
Com uma ode famosa;
Que diz que és tão formosa,
Que jamais no universo
Não houve em prosa, ou verso
Ninguem, ninguem tão bela como tu.
Lê, meu bem.
A Sobred.a
Eu ler versos! Lê-os tu.
Manoel (lendo)
"Salve, dia gentil...
23
In italiano nel testo.
396
Conclusioni
A Sobred.a
Que linda causa!
Parece-me que diz – salve rainha.
Dize, dize, meu bem.
Manoel (lendo)
"Dia formoso
"Bella, risonha aurora
"Que a [†] encantadora...
Mas... tu roncas, meu bem?... Que é isso?
A Sobred.a (acordando)
O que?... que?... Dize
Dize, que é bem bonito.
Manoel
(Estou perdido) (À parte)
"Trouxeste ao mundo... E esta!... Ei-la adorme.
Ora leve o diabo os tais poetas,
E mais o tolo, que lhe engole as petas.
Versos a moças! Versos a madamas!
Eu só caio em tal logro.
Vejamos se a desperta, e se inda pode
Esquecer-se de que há versos, nem ode.
Aria
Meu bem acorda,
Dá-me atenção,
Que o tal sermão
Já, já lá vai.
Odes, sonetos,
Motes, e glosas
As minhas prosas
Te supprirão.
A Sobred.a
Pois sim, meu bem:
De versos nada;
Prosa resada,
E nada mais.
Coro
Amor não fala
Senão em prosa:
Nada de glosa,
Sr. Manoel.
Conclusioni
397
E vós, rapazes,
Que namorais,
D’asneiras tais
Tirai lição:
Co’as vossas belas
Sempre falar
O que dictar
O coração.24
Un lascito del genere dell’adattamento al gusto portoghese, questo,
che avrà certamente segnato in profondità la sensibilità artistica di
Garrett, visto che ne ritroviamo traccia nel frammento di un suo
intermezzo datato 1841 e intitolato Entremez dos velhos namorados
que ficaram logrados, bem logrados, pubblicato per la prima volta da
Damien Saunal nel 1954, e nel quale concorrono tutti i topoi della
letteratura teatrale di cordel tanto in voga nel Settecento: dalla
caratteristica del nomen omen dei personaggi, per cui abbiamo um
Redondo (“rotondo, grasso”), una Bicuda (“beccaccia”), una serva
Ladina (“astuta, furba”) ed un criado Fandango (“danza spagnola” o
“cencio”), al classico intreccio degli anziani padroni invaghiti dei
giovani servitori e derisi da questi ultimi tramite farsesche sottrazioni
di cibo o provocate cadute. Un Garrett che, come possiamo leggere
qui di seguito, ci appare decisamente lontano dall’immagine classica
dello scrittore impegnato che siamo abituati a conoscere.
24
Almeida Garrett, La Lezione agli amanti, Opera bufa da rapresentarsi nel R. Theatro
di..., Porto, 1820, pp. 370-379.
Conclusioni
398
ENTREMEZ DOS VELHOS NAMORADOS QUE FICARAM
LOGRADOS, BEM LOGRADOS
Para se representar no theatro da Rua Formosa
1841
Pessoas
Pancrácio Redondo – Velho com fama de rico.
Gertrudes Bicuda – Velha, sua vizinha, com a mesma fama.
Ladina – Criada de Pancrácio.
Fandango – Criado de Gertrudes.
A cena é em casa de Bicuda.
Cena 1
(Gertrudes Bicuda, Fandango)
(A velha arranjando a mesa com dois talheres, etc.; o criado batendo os ovos
para os filhoses numa tigela)
Gertrudes
Anda, Fandango, aviemos, que ja é tarde e o meu Pancrácio há–de estar a chegar.
Que bela noite vamos passar aqui! Está tudo pronto para os filhoses; não é mais
que frigir. Frijo eu e abanas tu, o fogareiro está aceso; é um instante. Ó que bela
quinta feira de comadres! Não é assim meu Fandango (Fazendo-lhe mimos).
Fandango
Tire para lá, Senhora Gertrudes, tire para lá, que eu não sou o seu Pancrácio. (À
parte). (Escomungada velha!).
Gertrudes
Não sejas ingrato, Fandango: não sabes que está n’esta casa há tanto tempo como
se fosses senhor dela, que te trato tão bem...
Fandango
(À parte) (Bem de mais! Tonta da velha). Pois sim senhora; mas lá essas festas
guarde-as para o seu compadre.
Gertrudes
O Fandango, meu Fandango, pois tu... será caso que tu tenhas ciúmes do velho!
Fandango
Eu! Ora a senhora tem coisas. Essa agora! (Rindo)
Conclusioni
399
Gertrudes
Não tens razão, rapaz. O velho é rico, chegou da Bahia com muito dinheiro,
cuida que eu que o tenho e quer casar comigo. Há–de ficar logrado; porque
dinheiro não o vê, que o não há cá, e o coração é todo para ti, meu
Fandanguinho; bem sabes... (Querendo abraçá-lo)
Fandango
(À parte) (Irra coa velha!) Senhora, Senhora, que me entorna as filhoses... (Atiralhe com uma colherada da tigela pela cara)
Gertrudes
Rapaz, que me cegaste! E Jesus, e a minha colereta que me custou tanto a
engomar.
Fandango
Não é nada, Senhora Ama, não é nada... Também para que vem cá mexer?...
Gertrudes
(Limpando-se, à parte) Está como uma bicha o rapaz.
Fandango
Ah, Senhora Ama, quantas filhoses hão–de levar estopa?
Gertrudes
Uma só para o velho, outra para a lambisgóia da creada que há–de vir com ele.
Não há remédio, se ele é tonto e tropego, senão trazer a creada. Que lhe tenho
uma zanga à tal Ladina...
Fandango
Ah! A ladina vem?
Gertrudes
Vem, sim senhor; mas olhe vocemecê como se porta com ela. Nem palavra à
rapariga: nem ela vale a pena; olha tu, é uma sensaborona. Bonita qual! Não é, é
uma grosseira de uma criada. Não, d’aquela não tenho eu ciumes. Pudera! Pois
dize cá, rapaz, achas n’aquilo alguma coisa que preste?
Fandango
Eu sim; importa-me cá a Ladina!
Gertrudes
Bonito rapaz; isso é que são sentimentos. Pois eu, meu Fandango, inda não sou
tam velha que...
400
Conclusioni
Fandango
(À parte) (Ora o demo da bonita, o que se lhe havia de meter na cabeça! Deixa
então que eu te ensinarei). Qual velha! Está uma flor.
Gertrudes
Dizes-me isso deveras?
Fandango
Digo, sim Senhora, Senhora Bicuda.
Gertrudes
Mas olha. O diacho da Ladina parece-me que embruxou com o Pancrácio e é
preciso tirar-lhe essa tolice da cabeça antes que ele faça alguma. Em nós lhe
apanhando o dinheiro, adeus! Não me importa; mas agora é preciso.
Fandango
Deixe estar, deixe isso por minha conta, que eu falarei coa Ladina.
Gertrudes
Pois sim; mas vê lá como lhe falas! Não va cuidar a tola da rapariga que tu te
importas com ela.
Fandango
Não cuida, não senhora; qual! Ella sim!
(Batem à porta)
Gertrudes
Ei–los aí, ei–los aí. Estou bem preparada não estou? Que tal me achas?
Fandango
Está mesmo como aquela coisa de S. Pedro d’Alcântara.
Gertrudes
O jardim, magano?
Fandango
A cascata, tola.
Cena 2
(Ditos, Pancrácio e Ladina)
(Ladina vem ajudando o velho a andar)
Conclusioni
401
Pancrácio
Ora aqui, estou, Senhora Comadre, minha rica vizinha, Senhora D. Gertrudes
Bicuda. Como vão estas filhoses e estas saudes d’esta casa? Desde quinta-feira
passada que nos saiu esta comadria até agora ainda não cismei noutra coisa.
Dizia eu comigo, Pancrácio, meu Pancrácio, quinta-feira que vem, oh, que
filhoses, oh, que filhoses! – Ladina não saias do pé de mim.
Gertrudes
Chega uma cadeira ao Senhor Pancrácio, Fandango.
Pancrácio
Oh, ca está o gaiato do Fandango, Ladina!
Ladina
Senhor?
Pancrácio
Anda, vamos.
(Fandango finge que lhe chega uma cadeira, e dá um beliscão em Ladina. Esta
diz: ai! E larga o velho que cai de pernas para o ar)
Pancrácio
Ai quem me acode!
Todo os três
(Rindo)
Ah! Ah! Ah!
Pancrácio
Espera-me, gaiato, Fandango maldito, espera-me. Senhora Bicuda, este maroto,
não vê que me fez cair e está a rir...
Fandango
Eu Senhor! Essa é boa. Ora levante-se.
(Pucha-lhe por uma orelha até que o faz levantar)
Pancrácio
Ai minha orelha, ai ai! (Vai com as dores e chiando cai nos braços da Senhora
Bicuda que o sustém).
402
Conclusioni
Gertrudes
Senhor Pancrácio, meu Compadre, tenha mão em si. Vamos: não foi nada.
Sentemo-nos à mesa, e vamos a estas filhoses que espero que estejam do seu
gosto.
Fandango
(Pegando na tigela e batendo:)
Olhe, batidas vão elas, Sr. Pancrácio, que é um regalo!
Pancrácio
Já, e parece que as não quero. Se és tu a batê-las, escomungado!
Gertrudes
Mas hei–de ser eu a frigi-las, meu...
Pancrácio
Diga, meu bem; diga: pois não sou eu o seu bem.
Gertrudes
Isso é... Mas que digo! A minha modestia... Uma Senhora donzela não deve...
(Sentam-se ambos à mesa. Ladina e Fandango cochicham)
Pancrácio
Ladina?
Ladina
Senhor?
Pancrácio
Anda para aqui. Que estás tu aí a fazer?
Gertrudes
Deixe-os, vizinho. Deixe-os: não me tem a mim aqui para o servir para tudo o
que quiser; não sou eu quase como que ja fosse...
Pancrácio
Pois sim; mas é que a rapariga...
Gertrudes
Dá-lhe muito cuidado a rapariga, Senhor Compadre. Se eu fosse desconfiada,
sempre lhe digo que...
Conclusioni
403
Pancrácio
Ai Comadre, não desconfie! Bem sabe que eu...
Gertrudes
(À parte) Sei que és um forte piegas, meu... Eu te ensinarei... (Alto) Deixe-me ir
às filhoses. Fandango, anda, vamos...
Cena 3
(Pancrácio e Ladina)
Pancrácio
Ladina!
Ladina
Senhor meu amo?
Pancrácio
Tu queres que eu perca o respeito a esta casa, e que aqui mesmo diante da minha
Comadre te ensine a ter juízo. A cochichar, char, char sempre com aquele maroto
do Fandango, que é uma joia...
Ladina
Agora cá cochichar! A gente o que faz é rir.
Pancrácio
Rir, rir, ó rapariga: pois vocês estão a rir, de mim, hem?
Ladina
Do Senhor! É da velha, da tonta da velha que cuida que...
Pancrácio
Ah! Ela cuida que... Então é outro caso. Então ri-te, rapariga.
Fandango vem de dentro com uma filhos n’uma colher e a dá a Ladina que a
come. Fandango retira-se fazendo gaifonas ao velho)
Pancrácio
Que é isso que estás tu a comer?
Ladina
(Com a boca cheia:) É uns soluços que me dão às vezes...
404
Conclusioni
Pancrácio
Olha rapariga, faze assim (Fazendo como quem engole) que logo te passam.
Ladina
(Engolindo)
É verdade, já me passaram.
Pancrácio
Aí verás: toma sempre os meus conselhos, que te has–de achar bem. (Baixo)
Com que a tola da velha, é Ladina? Forte logro lhe prego.
Ladina
(À parte) Veremos quem fica logrado por fim, meu paparatos.
Cena 4
(Ditos e Gertrudes e Fandango trazendo cada um seu prato de filhoses).
Gertrudes
Ora ellas aqui, estão quentinhas e dizendo: comei-me. Vamos a isto.
(Sentam-se os dois velhos um defronte do outro)
Pancrácio
Ladina, vai tu para aquela banda e fica detrás da minha comadre para a servires
(À parte) (e mais quero ver o que fazes).
Gertrudes
E tu, Fandango, para aquela, e serve ao Senhor Pancrácio.
(Fandango e Ladina fazem o que lhe dizem)
Pancrácio
(Pondo o guardanapo)
Aperta-me isso rapaz.
(Fandango aperta-lhe o guardanapo até o velho deitar a língua de fora)
Pancrácio
Ai que me afogas, que me enfocas, judeu de rapaz.
Fandango
Qual! É o guardanapo que é pequeno e vocemecê tem um pescoço. Olhe que
sempre tem um pescoço. Forte pescoço!...
Conclusioni
405
Gertrudes
Fandango!
Fandango
Senhora.
Gertrudes
(Baixo)
Qual d’estes pratos é o... o... ?
Fandango
Este. Deixe que eu o sirvo.
(Ao passar da duas filhoses a Ladina que as deita no prato da velha fingindo que
tira do outro: os dois velhos ficam com as filhoses de estopa nos pratos.
Fandango e Ladina comem das boas)
Pancrácio
(À parte, mastigando com grande am)
Estão duritas... custa... oh diaxo será dos meus dentes... ou é que... Querem ver
que é logro? Pois não me quero dar por cansado abaixo!... Am, am, am...
(Engasgando). Vamos a provar d’este vinho. (Deita vinho no copo). Ora minha
Senhora, como eu lhe ia dizendo... (Fandango bebe-lhe o vinho) o nosso ajuste...
À saude do nosso ajuste. (Pega no copo e lava-o à boca sem reparar) ... Esta
agora enganei-me (Achando-o vazio) cuidei que tinha deitado vinho no copo.
Gertrudes
(Rindo e fazendo signaes de inteligencia a Fandango)
É boa! Ah, ah, ah! – Fandango, deita vinho no copo do Compadre.
(Fandango deita vinho no copo e bebe-o)
Gertrudes
(Rindo)
O nosso ajuste. Eu sei, pois ele, a falar a verdade... (Começa a comer as filhoses
e a engasgar-se). E esta, querem ver que troquei os pratos. Am, am, am... (Deita
vinho no copo). Dizia vocemecê, Senhor Pancrácio (Ladina bebe-lhe o vinho e
deita-lhe pós no copo). À sua saude (tosse e assopra os pós que caem pela mesa
e pela cara dos dois velhos). Isto será bruxaria! Credo! Ó Fandango.
Fandango
Isso é flor do vinho: é com estes frios. (À parte) Engole, parva.
406
Conclusioni
Gertrudes
Deita vinho, Ladina.
Pancrácio
(Rindo e fazendo gestos de inteligência a Ladina)
Deita vinho no copo da Senhora Comadre, Ladina.
(Ladina vai a deitar o vinho, finge que se engana e vasa a garafa pela cabeça da
velha. – Grande gargalhada do velho)
Gertrudes
Senhor Compadre, que descoco é este da sua criada? forte lambisgoia! Devia ter
vergonha vocemecê, um homem da sua idade, de ter na sua companhia
semelhante... nem eu sei como lhe chame...
Pancrácio
(Perdido de riso)
Meu bem, minha querida, essa é boa, se a rapariga lhe não serve... O diaxo é a
rapariga a falar a verdade...
Gertrudes
Enfim, meu Compadre, quer vocemecê que eu lhe dê a mão d’esposa?
Pancrácio
Se quero? Suspiro por isso, minha vida.
Gertrudes
Ha–de me ser...25
Sono queste le ultime tracce del nostro melodramma settecentesco
nei drammaturghi portoghesi dell’epoca. Un recupero parziale, certo,
ma comunque lo si voglia giudicare, un debito nei confronti di quella
letteratura italiana che diede grande impulso alla produzione locale e
che consente quindi di ridimensionare l’opinione diffusa di un
Settecento portoghese sostanzialmente privo di fenomeni letterari di
rilievo. Il vivo interesse del pubblico, colto e non, nei confronti della
rappresentazione teatrale, pur se condizionata da influenze esterne e
25
Textes inédits d’Almeida Garrett: fragments d’oeuvres dramatiques, intr. De Damien
Saunal, tirage à part du Bolletin d’Histoire du Théatre Portugais, 5, Lisbonne, 1954, pp. 1927.
Conclusioni
407
priva di autori di spicco, è dunque segno di un fermento culturale mai
veramente assopitosi.
Il particolare risultato dell’adattamento al gusto portoghese
dell’opera metastasiana è inoltre prova, pur nella realizzazione di
prodotti editoriali poco accurati, del desiderio di dare vita ad un’opera
originale e autonoma rispetto al suo diretto modello. In altre parole,
attraverso un processo di assimilazione dei testi teatrali italiani si è
avuta in Portogallo una corrente di riscrittura che corrisponde a ciò
che Antoine Berman definì “traduzione ipertestuale”, una traduzione
cioè che parte da un altro testo, ma che ha una forte componente
etnocentrica in grado di ricondurre tutto alla propria cultura e che
considera lo straniero degno di essere adattato26. In sostanza, sembra
si sia seguita ante litteram l’idea che Gideon Toury espresse a
proposito delle finalità delle traduzioni. Per lo studioso israeliano,
infatti, queste appartengono unicamente al sistema di arrivo, di
conseguenza sono sempre progettate come target oriented, nella
convinzione che ciò che più conta è il problema della ricezione, lo
scambio fra due culture e le possibilità di comunicazione
interculturale che la traduzione permette27.
26
Cfr. Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’Auberge du lointain, in «Testo a
fronte», 1994, n. 11.
27
Cfr. Gideon Toury, A rationale for descriptive translation studies, in The manipulation
of literature. Studies in literary translation, a cura di T. Hermans, Croom Helm, London,
1985.
408
Conclusioni
APPENDICE CRONOLOGICA
L’OPERA ITALIANA IN PORTOGALLO
ORIGINALI, TRADUZIONI E ADATTAMENTI
RAPPRESENTATI TRA 1728 E 1808
409
410
Appendice cronologica
Teatro do Paço da
Ribeira
1728
Il D. Chisciotte della mancia, musica di D.
Scarlatti.
1733
La pazienza di Socrate, testo di A. Gusmão,
musica de F. A. de Almeida
La finta pazza, testo di A. Gusmão, musica de
F. A. de Almeida.
Le risa di Democrito.
La Spinalba ovvero il vecchio matto, musica
di F. A. de Almeida.
L’Ippolito, testo di F. A. Almeida, musica di
A. Tedeschi.
Il Siroe, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di
D. Perez.
L’eroie cinese, testo di Metastasio, musica di
D. Perez.
Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
L’Artaserse, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
La clemenza di Tito, testo di Metastasio,
musica di A. Mazzoni.
Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Artaserse, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Farnace, testo di Metastasio.
1735
1736
1739
1752
1753
1754
1755
Academia da
Trindade
1734
1735
1736
Farnace em Eraclea, testo de Metastasio.
Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio,
musica di G. M. Schiassi.
Demetrio, testo di Metastasio, musica di
Caldara.
411
412
Appendice cronologica
1737
1738
L’ Olimpiade, testo di Metastasio, musica di
Caldara.
Siface, musica di L. Leo.
Demofoonte, testo di Metastasio, musica di G.
M. Schiassi.
Livietta e Tracollo, musica di G. B. Pergolesi.
Artaserse, testo di Metastasio, musica di G.
M. Schiassi.
Anagilda, musica de G. M. Schiassi.
Sesotris re d’Egitto, testo di A. Zeno, musica
di L. Leo.
Emira, testo di Metastasio, musica di L. Leo.
1738
A clemencia de Tito, testo di Metastasio.
1738
Teatro nas Hortas
do Conde
Teatro Novo da
Rua dos Condes
1739
1740
1741
1765
1766
L’Emira, testo di Metastasio.
Merope, testo di Metastasio.
Il Vologeso, musica di N. Jommelli.
La Spinalba, musica di F. A. de Almeida.
Demetrio, testo di Metastasio, musica di G. M.
Schiassi.
Carlo Calvo.
Siface, musica di L. Leo.
Alexandre na India, testo di Metastasio.
Catão em Utica, testo di Metastasio, musica di
R. Di Capua.
Ciro riconosciuto, testo di Metastasio, musica
di Caldara.
Ezio, testo di Metastasio.
Marquez do Tulipano.
Didone abbandonata, testo di Metastasio,
musica di R. Di Capua.
Ipermestra, testo di Metastasio, musica di R.
Di Capua.
Le contadine bizzarre, musica di N. Piccinni.
La calamità dei cuori, testo di N. Tassi,
musica di Galluppi.
Il ciarlone, testo di A. Polomba, musica di J.
Avossa.
Appendice cronologica
1768
1772
1773
1774
1778
1790
1791
413
Perseguimento del ciarlone, testo di G.
Friozini, musica di L. Marescalchi.
L’Olandese in Itlaia, testo di N. Fassi, musica
di G. M. Rutili.
O falador imprudente ou A donzela
espirituoza, testo di Goldoni.
Arcifanfano, musica di G. Scolari.
Artaserse, testo di Metastasio, musica di G.
Scolari.
Il disertore, musica di P. Guglielmi.
L’isola di Alsina, testo di G. Bertati, musica di
G. Gazzaniga.
Antigono, testo di Metastasio, musica di F. Di
Majo.
L’anello incantato, testo di G. Bertati, musica
di F. Bertoni.
Il barone di Rocca Antica, musica di C.
Franchi.
Le orfane svizzere, testo de P. Chiari, musica
di A. Baroni.
La giardiniera brillante, musica di G. Sarti.
Il matrimonio per concorso, musica di F.
Alessandri.
La sposa fedele, musica di P. Gulherme.
Il Cid, testo di G. Pizzi, musica di A. sacchini.
La Morinella, musica di N. Piccinni.
L’impresa d’opera, musica di P. Guglielmi.
L’isola d’amore, musica di A. Sacchini.
O praezr de Olissea, testo di S. Machado di
Oliveira, musica di A. da Silva Gomez.
I tempi della gloria, testo di E. Manfredi,
musica di C. Spontini.
Il marchese di Tulipano, musica di G.
Paisiello.
Os filosofos imaginarios, musica di G.
Paisiello.
L’italiana in Londra, musica di D. Cimarosa.
Il conte di bell’umore, musica di M. Di Capua.
La moglie capricciosa, musica di G.
Gazzaniga.
414
Real Teatro da
Corte
Appendice cronologica
1752
1753
Il Siroe, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Adriano in Siria, testo di Metastasio, musica
di D. Perez.
Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Olimpiade, testo de Metastasio, musica de D.
Perez.
La clemenza di Tito, testo di Metastasio,
musica di A. Mazzoni.
Alessandro nelle Indie, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
Enea in Italia, musica di D. Perez.
Giulio Cesare, musica di D. Perez.
Le Grazie vendicate, musica di L. X. Dos
Santos.
Isacco figura del redentore, musica di L. X.
Dos Santos.
La fantesca, musica di Hasse.
1756
1757
Didone abbandonata, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
Siroe, testo di Metastasio, musica di D. Perez.
Solimano, musica di D. Perez.
1754
1755
1759
1763
Real Teatro de
Salvaterra
Il barbiere di Siviglia ovvero La precauzione
inutile, testo di Beaumarchais, musica di G.
Paisiello.
Gli zingari in fiera, musica di G. Paisiello.
I due supposti conti, musica di D. Cimarosa.
Il marito disperato, musica di D. Cimarosa.
Serva padrona, musica di G. Paisiello.
L’impresario in angustie, musica di D.
Cimarosa.
Chi dell’altrui si veste presto si spoglia,
musica di D. Cimarosa.
Don Giovanni ossia Il convitato di pietra,
testo di Da Ponte, musica di G. Gazzaniga.
Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di
D. Perez.
Appendice cronologica
1764
1765
1766
1767
1768
1769
1770
1771
1772
1773
415
Il mercato di Malmantile, testo di Polisseno
Fegejo, musica di D. Fischietti.
Il dottore, testo di Polisseno Fegejo, musica di
autor anónimo.
Amor contadino, testo di Polisseno Fegejo,
musica di G. B. Lampugnani.
Arcadia in Brenta, testo di Polisseno Fegejo,
musica di J. Cordeiro da Silva.
Demetrio, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Il mondo della Luna, testo di Polisseno
Fegejo, musica di P. A. Avondano.
La cascina, testo di Polisseno Fegejo, musica
di G. Scolari.
Demetrio, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Notte critica, testo de Goldoni, musica de N.
Piccinni.
Enea nel Lazio, musica di N. Jommelli.
Le vicende amorose, testo di Pallavicino,
musica di F. Bertoni.
Pelope, testo di M. Verazzi, musica di N.
Jommelli.
Il Vologeso, musica di N. Jommelli.
La finta astrologa, musica di N. Piccinni.
Il re pastore, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
Il matrimonio per concorso, testo di G.
Martinelli, musica di N. Jommelli.
Semiramide, testo de Metastasio, musica de N.
Jommelli.
Il cacciatore deluso, testo de G. Martinelli,
musica de N. Jommelli.
La scaltra letterata, testo di A. Palomba,
musica di N. Piccinni.
Lo spirito di contraddizione, testo di A.
Palomba, musica di F. Lima.
Le lavanderine, testo di F. Mari, musica di F.
Zanetti.
La fiera di Sinigallia, testo di Polisseno
Fegejo, musica di D. Fischietti.
416
Appendice cronologica
1774
1775
1776
1784
1785
1786
1787
1788
La pastorella illustre, tratto dalla Pastora
delle Alpi di Marmontel, testo di Tagliazzucci,
musica di N. Jommelli.
Il nemico delle donne, testo di G. Bertati,
musica di B. Galluppi.
Creusa in Delfo, testo di G. Martinelli, musica
di D. Perez.
Il superbo deluso, testo di M. Coltenilli,
musica di F. Gasman.
L’Incostante, musica di N. Piccinni.
I filosofi immaginari, musica di G. Astarita.
Il Testore ingannato, musica di L.
Marescalchi.
Lucio Papiro dittatore, testo di A . Zeno,
musica di G. Paisiello.
L’Accademia di musica, musica di N.
Jommelli.
La conversazione, musica di N. Jommelli.
Ifigenia in Tauride, testo di M. Verazzi,
musica di N. Jommelli.
Il tutore ingannato, musica di L. Marescalchi.
Il filosofo amante, musica di G. B. Borghi.
La cameriera per amore, musica di Felice
Alessandri.
La contadina superba ovvero il giocatore
burlato, musica di P. Guglielmi.
Dal finto al vero, testo di S. Zini, musica di G.
Paisiello.
La vera costanza, musica di J. F. De Lima.
L’amor costante, musica di D. Cimarosa.
Conte di bello umore, musica di N. Piccinni.
Gli intrighi di D. Facilone, musica di P.
Guglielmi.
I fratelli Pappamosca, musica di P. Guglielmi.
La finta giardiniera, musica di P. Anfossi.
Amor costante, musica di D. Cimarosa.
Il conte di bell’umor, musica di M. Di Capua.
La vera costanza, musica di J. F. De Lima.
Socrate immaginario, musica di G. Paisiello.
Appendice cronologica
1790
1791
1792
Real Teatro da
Ajuda
1753
1754
1764
1765
1766
1767
1768
1769
1770
417
L’Italiana in Londra, musica di D. Cimarosa.
Amor ingegnoso, musica di G. Paisiello.
La virtuosa in mugelina, musica di P.
Guglielmi.
La bella pescatrice, musica di P. Guglielmi.
Li due baroni, musica di D. Cimarosa.
Riccardo cor di leone, testo di M. J. Sedaine.
Musica di A. M. Grétry.
Il finto astrologo, musica di F. Bianchi.
La modista raggiratrice, musica di G.
Paisiello.
L’eroe cinese, testo di Metastasio, musica di
D. Perez.
Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
Il cavaliere per amore, musica di N. Piccinni.
Le difese dell’amore, musica di P. A .
Avondano.
I Francesi brillanti, musica di G. Paisiello.
Gli stravaganti.
L’amore in musica, musica di A. Bertoni.
Le vicende della sorte, testo di G. Petrosellini,
musica di N. Piccinni.
L’incognita perseguita, testo di G.
Petrosellini, musica di N. Piccinni.
La danza, testo di Metastasio, musica di L. X.
Dos Santos.
Il ratto della sposa, musica di P. Guglielmi.
L’isola della fortuna, testo di G. Barti, musica
di A. Luchezi Veneti.
Solimano, musica di D. Perez.
Le due serve rivali, musica di T. Trajetta.
L’amore industrioso, musica di J. de Sousa
Cravalho.
Faetonte, testo di M. Verazzi, musica di N.
Jommelli.
La schiava liberata, testo di G. Martinelli,
musica di N. Jommelli.
418
Appendice cronologica
1771
1772
1773
1774
1775
1778
1779
1780
1783
1784
La Nitteti, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
La clemenza di Tito, testo di Metastasio,
musica di N. Jommelli.
La Nitteti, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
Il voto di Jefte, testo di G. Tonioli, musica di
P. A. Avondano.
Ezio, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
Le avventure di Cleomede, testo di MArtinelli,
musica di N. Jommelli.
Adamo ed Eva, musica di P. A. Avondano.
Armida abbandonata, musica di P. A.
Avondano.
Eumene, testo di A. Zeno, musica di J. de
Sousa Carvalho.
L’Olimpiade, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
Il Trionfo di Clelia, testo di Metastasio,
musica di N. Jommelli.
Demofoonte, testo di Metastasio, musica di N.
Jommelli.
I Napoletani in America, musica di N.
Jommelli.
Gioas re di Giudea, musica di A. da Silva.
Gli Orti Esperidi, musica di J. Francisco de
Lima.
Edolide e Cambise, musica di J. Cordeiro da
Silva.
Testoride argonauta, testo di G. MArtinelli,
musica di J. de Sousa Carvalho.
Salomé madre de’ setti Macabei, musica di J.
Cordeiro da Silva.
Tamiri, testo di Martinelli, musica di J. F. de
Lima.
Hymeneo, testo di Martinelli, musica di J. F.
de Lima.
Il ritorno di Tobia, musica di Haydn.
Alcione, musica di Haydn.
Appendice cronologica
1785
1786
1787
1788
1789
1790
1791
Real Teatro da
Corte – Casa da
Índia
Teatro do Bairro
Alto
1753
1755
1765
419
Nettuno e Egle, musica di J. de Sousa
Carvalho.
Gli Imenei di Delfo, musica di A. Leal
Moreira.
Esther, testo di MArtinelli, musica di A. L.
Moreira.
Passione di Gesù Cristo, musica di N.
Jommelli.
Alcione, testo di Martinelli, musica di J. de
Sousa Carvalho.
Gli Imenei di Delfo, testo di Martinelli, musica
di A. Leal Moreira.
Gli eroi spartani, musica di A. Leal Moreira.
Megara Tebana, testo di MArtinelli, musica di
J. Cordeiro da Silva.
Lindame e Dalmire, testo di MArtinelli,
musica di J. Cordeiro da Silva.
La vera costanza, testo di Metastasio, musica
di J. F. de Lima.
Numa Pompilio secondo re de Romani, testo
di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho.
Bauce e Palemone, musica di J. Cordeiro da
Silva.
Castelo de S. Jorge de Lisboa, Gli affetti del
genio lusitano, testo di Martinelli, musica di
A. Leal Moreira.
Le trame deluse, musica di D. Cimarosa.
Axur re d’Ormus, musica di Salieri.
La pastorella nobile, musica di P. Guglielmi.
Attalo re di Bitinia, musica di Robuschi.
Artaserse, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
L’eroe cinese, testo di Metastasio, musica di
D. Perez.
L’eroe coronato, serenata di Martinelli.
Achilles in Sciro, testo di Metastasio, musica
di autore anonimo.
Didone, testo di Metastasio, musica di D.
Perez.
420
Appendice cronologica
1766
1770
1771
Teatro de Queluz
1775
1778
1780
1788
1763
1764
1767
1768
1771
1772
1773
1774
1778
1779
1780
Zenobia, testo di Metastasio, musica di D,
Perez.
Semiramide riconosciuta, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
L’amore artigiano, testo di Goldoni, musica di
G. Latilla.
Il viaggiatore ridicolo, testo di Goldoni,
musica di G. Scolari.
L’incognita perseguita, testo di G. Petroselli,
musica di N. Piccinni.
Il Beiglierbei di Camarana, testo di G.
Tonioli, musica di G. Scolari.
A herdeira venturosa, testo di Goldoni.
A mulher amorosa, testo di Goldoni.
A esposa persiana, testo di Goldoni.
A bella selvagem, testo di Goldoni.
L’amante ridicolo, musica di N. Piccinni.
Gli Orti Esperidi, musica di L. X. Dos Santos.
L’isola disabitata, testo di Metastasio, musica
di D. Perez.
Il sogno di Scipione, testo di Metastasio,
musica di L. X. Dos Santos.
Il Palladio conservato, musica di L. X. Dos
Santos.
Issea, musica di G. Pugnani.
La finta ammalata, farsetta di G. Pugnani.
Il ritorno di Ulisse in Itaca, testo di M. B.
Martinelli, musica di D. Perez.
Il natale di Giove, musica di J. de Sousa
Carvalho.
Angelica, musica di J. de Sousa Carvalho.
Alcide al bivio, musica di L. X. Dos Santos.
Il ritorno di Ulisse in Itaca, testo di Mirtillo
Felsineo, musica di D. Perez.
Ati a Sangaride, musica di L. X. Dos Santos.
Perseo, testo di Martinelli, musica di J. de
Sousa Carvalho.
La Galatea, musica di A. da Silva.\
Testoride argonauta, testo di Martinelli,
musica di J. de Sousa Carvalho.
Appendice cronologica
1781
1782
1783
1784
1785
1787
421
Edalide e Cambise, testo di Martinelli, musica
di J. Cordeiro da Silva.
Palmira di Tebe, testo di Martinelli, musica di
L. X. Dos Santos.
Il natal d’Apollo, testo di S. Mattei, musica di
P. Cefaro.
Seleuco re di Siria, musica di J. de Sousa
Carvalho.
Everardo II re di Lituania, testo di Martinelli,
musica di J. de Sousa de Carvalho.
Bireno ed Olimpia, testo di Martinelli, musica
di A. Leal Moreira.
Culliroè in Siria, musica di A. da Silva.
Endimione, testo di Metastasio, musica di J.
de Sousa Carvalho.
Siface e Sophonisba, musica di A. Leal
Moreira.
Teseo, testo di Martinelli, musica di J. F. de
Lima.
Il ratto di Proserpina, testo di Martinelli,
musica di J. Cordeiro da Silva.
Angelica, musica di J. de Sousa Carvalho.
Il ritorno di Tobia, musica di Haydn.
Ezione, testo di Martinelli, musica di L. X.
Dos Santos.
Adrasto re degli Argivi, testo di Martinelli,
musica di J de Sousa Carvalho.
Cadmo, musica di A. da Silva.
Siface e Sofonisba, musica di A. Leal Moreira.
Archelao, musica di J. Cordeiro da Silva.
Ercole sul Tago, testo di V. A. Cigna, musica
di L. X. Dos Santos.
Ascanio in Alba, musica di A. Leal Moreira.
Telemaco nell’isola di Calipso, musica di J.
Cordeiro da Silva.
Il trionfo di David, testo di Martinelli, musica
di B. de Lima.
Nettuno ed Egle, musica di J. de Sousa
Carvalho.
Secolo d’oro, musica di G. R. Fond.
422
Real Câmara
Appendice cronologica
1778
1779
1781
1782
1783
Teatro do Salitre
1788
1789
1790
Ópera do Tejo
1791
1755
1793
1798
1799
Ercole sul Tago, testo di V. A. Cigna, musica
di L. X. Dos Santos.
Archelao, testo di Martinelli, musica di J.
Cordeiro da Silva.
Il Gioas re di Giuda, musica di A. da Silva.
Gli Orti Esperidi, testo di Metastasio, musica
di J. F. de Lima.
Enea in Tracia, musica di J. F. de Lima.
Penelope nella partenza da Sparta, testo di
Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho.
Tamiri, testo di Martinelli, musica di J. de
Sousa Carvalho.
La passione di Gesù Cristo, musica di L. X.
Dos Santos.
Idillio, testo di J. Procópio Monteiro, musica
di m. Portugal.
Licença metrica, autori anonimi.
Paz perpetua, testo di F. J. de Almeida,
musica di autore anonimo.
O amor conjugal, testo di J. Procópio
Monteiro, musica di M. Portugal.
Pequeno drama, autori anonimi.
Gratidão, testo di J. A. Neves Estrela, musica
di M. Portugal.
Viajantes ditosos, musica di M. Portugal.
A noiva fingida, musica di M. Portugal.
O lunatico iludido, musica di M. Portugal.
Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
La clemenza di Tito, testo di Metastasio,
musica di D. Perez.
Raollo, musica di A. Leal Moreira.
Serva riconoscente, musica di A. Leal
Moreira.
Semiramide, musica di L. Borghi.
La donna di genio volubile, musica di M.
Portugal.
Rinaldo d’Asti, musica di M. Portugal.
Il Barone di Spazzacamino, musica di M.
Portugal.
Appendice cronologica
Teatro di S. Carlos
1800
1801
1793
1808
423
Adrasto, musica di M. Portugal.
L’isola piacevole, musica di M. Portugal.
Fra i due litiganti il terzo gode, musica di G.
Sarti.
Le gelosie villane, testo di Goldoni, musica di
G. Sarti.
Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di
M. Portugal.
424
Appendice cronologica
BIBLIOGRAFIA
I.
Adattamenti e traduzioni di opere italiane
Per i riferimenti bibliografici di questa sezione si rimanda
all’elenco in fondo al primo capitolo.
II.
Opere di consultazione
ALMEIDA GARRETT, Um Auto de Gil Vicente, 2a ed., Publicações
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Finito di stampare nel mese di ottobre del 2011
dalla « Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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