“Terra Iberica” Collana diretta da Patrizia Botta Sezione II, “Ricerca” 2 A10 215 Collana “Terra Iberica” diretta da Patrizia BOTTA Comitato di redazione Elisabetta VACCARO (Capo-Redattore) e Carla BUONOMI Francesca DE SANTIS Aviva GARRIBBA Debora VACCARI Sezione II, “Ricerca”, n. 2 Direzione e Redazione Cattedra di Letteratura Spagnola Dipartimento di Scienze del Libro e del Documento Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Roma “La Sapienza” Sede di Villa Mirafiori Via Carlo Fea, 2 00161 Roma [email protected] [email protected] Obra publicada com apoio do Instituto Camões/Portugal. Opera pubblicata con il contributo dell’istituto Camões/Portogallo. La Collana “Terra Iberica” è volta ad accogliere lavori di iberistica (ispanistica e lusitanistica) di livello universitario, e ha per logo una mappa antica della Penisola tracciata da Tolomeo. A promuoverla è la Cattedra di Spagnolo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” (Dipartimento di Scienze del Libro e del Documento). La Collana si articola in tre Sezioni: - Sezione I, “Didattica”, maneggevole e in piccolo formato, per il materiale finalizzato alle attività di insegnamento iberistico sia di Laurea Triennale che di Laurea Specialistica (testi in lingua, dispense, brevi saggi, grammatiche, esercizi, ecc.). - Sezione II, “Ricerca”, per i risultati di singole ricerche (monografie e miscellanee di un solo autore) o di ricerche collettive (atti di convegni e libri a firma plurima). - Sezione III, “Il Traghetto”, per le traduzioni di importanti opere letterarie iberiche non ancora diffuse in Italia e che necessitano di essere ‘traghettate’ dalla lingua originale, elaborate sia dal “Master di II° livello in Traduzione specializzata” (che la Cattedra coordina) sia da traduttori esperti in campo iberistico. Le proposte di pubblicazione vanno rivolte alla Direzione o alla Redazione della Collana. Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 a/b 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1495–0 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2007 DANIELA DI PASQUALE Metastasio al gusto portoghese Traduzioni e adattamenti del melodramma metastasiano nel Portogallo del Settecento Laurea Triennale in “Lingue e Culture del Mondo Moderno” Laurea Specialistica in “Traduzione Letteraria e Tecnico-scientifica” Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Roma “La Sapienza” A Eugenio 5 6 Premessa PREMESSA Lo studio che qui viene presentato è stato tratto dalla mia tesi di Dottorato in Letterature Moderne Comparate, svolta nel triennio 2003–2006 presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione Linguistica e Culturale dell’Università di Genova. Il lavoro completo (intitolato Da Auson a Lusus. Uso, abuso e riuso del teatro settecentesco italiano in Portogallo tra XVIII e XIX secolo) comprende approfondimenti sulla ricezione portoghese del Goldoni e dell’Alfieri, oltre che sulle influenze della produzione teatrale italiana in Almeida Garrett, António José da Silva e Manuel de Figueiredo. Per tutte le trascrizioni in lingua delle parti comiche che seguono l’analisi delle singole opere si è deciso di attualizzare l’ortografia originale secondo la norma vigente e di modificare in parte la punteggiatura, la cui assenza in numerosissimi casi avrebbe reso difficoltosa la lettura e la comprensione dei testi. L’Autrice 7 8 Premessa RINGRAZIAMENTI Ringrazio la Biblioteca Nazionale di Lisbona, l’Istituto degli Archivi Nazionali della Torre do Tombo, la Biblioteca da Ajuda e la Fondazione Calouste Gulbenkian per avermi agevolato nell’accesso alle collezioni riservate di manoscritti, testi a stampa e atti risalenti al XVIII secolo. Un sincero ringraziamento al personale bibliotecario e non delle suddette strutture, sempre pronto ad accogliere ogni mia richiesta con grande sollecitudine e professionalità. Ringrazio il Professor Giuseppe Sertoli dell’Università di Genova per aver giudicato positivamente l’idea di questo progetto di ricerca e per avermi dato la possibilità di frequentare il corso di Dottorato da lui coordinato, senza il quale non sarebbe stato possibile realizzare il presente lavoro. Infine, un ringraziamento particolarmente sentito per il sostegno e per l’orientamento va ai miei supervisori, la Professoressa Amina Di Munno e il Professor Luigi Surdich. Grazie ancora per l’appoggio e per i preziosi suggerimenti. Roma, novembre 2006 9 10 Premessa INDICE Introduzione ........................................................................... I. 13 La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento ............................................................. 21 II. Metastasio, padrão de vida do século XVIII ............... II.1. Questioni preliminari .......................................... II.2. Alessandro nell’Indie .......................................... II.3. Adriano in Siria .................................................. II.4. Zenobia ............................................................... II.5. Artaserse ............................................................. II.6. Demofoonte ......................................................... II.7. Ipermestra ........................................................... II.8. Temistocle ........................................................... II.9. Didone abbandonata ........................................... II.10. Demetrio ........................................................... II.11. Siroe .................................................................. II.12. Issipile ............................................................... II.13. Semiramide ....................................................... II.14. Antigono ............................................................ II.15. L’Olimpiade ...................................................... II.16. Dubbie attribuzioni ............................................ 89 89 98 139 151 177 203 226 240 251 268 296 313 326 353 352 371 III. Conclusioni ................................................................ 383 IV. Appendice cronologica............................................... 409 V. Bibliografia ................................................................ 425 11 12 Premessa INTRODUZIONE L’influenza dei modelli letterari italiani è costante nella letteratura portoghese sin dalle epoche più remote. A partire dalla ricezione delle Laude di Jacopone di Todi, per passare all’elaborazione dei canoni stilistici delle Tre Corone, all’uso di Sá de Miranda del modello stilnovistico e alla relazione Castel Branco–Tasso, fino al legame tra l’opera di Baldassar Castiglione e la sua resa lusitana in Rodrigues Lobo, il rapporto di continuità tra le due letterature è sempre stato particolarmente evidente, arrivando a toccare la sua più alta incidenza durante il Settecento e durante quella corrente letteraria a tutti nota con il nome di Illuminismo, così ricca di voci e di sfumature. Benché il Portogallo recepisca quasi sempre con qualche decennio di ritardo l’eco delle correnti culturali e letterarie del resto d’Europa (sia a causa della sua condizione d’isolamento geografico, sia per la peculiarità di un contesto e di una tradizione rivolti più all’Occidente dei possedimenti oltre Atlantico o al Sud degli imperi coloniali della costa africana), tanto che la fondazione della settecentesca Accademia Lusitana (1756) registra un ritardo di oltre mezzo secolo rispetto al suo diretto modello romano, la penetrazione del melodramma tardosecentesco e di quello riformato dal Metastasio, così come l’accoglimento della commedia goldoniana e la struttura e le implicazioni delle tragedie dell’Alfieri trovano nella produzione teatrale lusitana una vasta risonanza. Nella prima metà del XVIII secolo l’introduzione dell’opera italiana in Portogallo assume un ruolo talmente rilevante da non poter essere considerata una semplice moda, bensì la definizione di un’epoca, di una mentalità e di una cultura. L’accoglimento della letteratura drammatica italiana inizia infatti negli anni Trenta del secolo, distinguendosi immediatamente per l’accuratezza formale e sostanziale delle edizioni mono e bilingui destinate alla rappresentazione di corte. Le traduzioni delle opere del Metastasio circolano già dal 1736 tra gli ambienti colti, formando una vera e propria scuola di stile che, se da un lato intende mantenere l’appoggio del pubblico aristocratico, dall’altro cerca di creare consensi ed aspettative anche tra le classi sociali meno abbienti, esigenza che 13 Introduzione 14 accentuerà quella vena comico–ironica — ópera jocosa si chiamerà infatti — che costituisce uno dei modi d’essere del carattere iberico. La fedeltà traduttiva dei primi esemplari, nei quali si segnalano solo strategie testuali di semplificazione lessicale, portoghesizzazione di titoli e nomi dei personaggi, sembra ancora il tentativo di rispettare i dettami di verosimiglianza propugnati dall’Illuminismo arcadico. Tuttavia, il carattere iberico, in ritardo rispetto agli sviluppi della più pura mentalità dell’Auflklärung centro-europea, cederà ancora per tutto il Settecento al desiderio della rappresentazione spettacolare di puro effetto scenico e dell’atmosfera leggera e facile al riso ereditata dalla Commedia dell’Arte e dal vicino teatro barocco spagnolo. Gli esiti di queste imitazioni porteranno via via alla creazione del genere degli adattamenti al gusto portoghese del teatro metastasiano e del melodramma in generale, prevalentemente di paternità anonima, e nei quali molto nettamente possiamo ravvisare un calco del teatro dei corrales castigliani, che sono in Portogallo i vari pátios destinati alla rappresentazione teatrale pubblica. La stessa formula di comedia nova apposta sui frontespizi della maggior parte delle infedeli traduzioni lusitane che iniziano ad aumentare a partire dalla seconda metà del secolo, non può non richiamare alla memoria la comedia nueva messa a punto dallo spagnolo Lope de Vega dove, esattamente allo stesso modo delle traduzioni portoghesi del nostro teatro, «tendono ad incontrarsi […] la cultura dotta e la popolare, il linguaggio umile e il letterario»1. Con la differenza sostanziale che vede, soprattutto nella maggior parte degli adattamenti portoghesi dell’opera metastasiana, un semplice giustapporsi delle parti comico–grottesche alla fabula drammatica originaria, spesso senza alcuna relazione tra le due componenti, ma in un’intrusione isolabile e a sé stante. Di conseguenza, la figura del gracioso, che a differenza del teatro di Calderón de la Barca viene qui affidato solo al personaggio del criado, presenta evidenti affinità con il suo corrispondente spagnolo in Lope de Vega laddove «è in funzione del suo padrone, è il suo inerente, il suo doppio parodico»2, cioè in quei momenti in cui gli adattamenti 1 Teatro del «Siglo de Oro». Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderón de la Barca, a c. di M. Socrate, M. Profeti, C. Samonà, vol. I, Garzanti, Milano, 1989, p. XXXVI. 2 Ivi, p. XLV. Introduzione 15 prevedono un contatto tra servi e personaggi principali, svolgendo quel ruolo interno all’intreccio originale che abbiamo definito di decodificazione delle azioni degli eroi e di avvicinamento allo spettatore. Tuttavia, normalmente il gracioso portoghese svolge un ruolo esterno all’azione primaria, imbastendo una trama a parte completamente estranea al contesto generale della rappresentazione teatrale, una trama fatta sostanzialmente di sketch ridicoli, spesso al limite del volgare e con risvolti di esplicita violenza fisica, del tutto simili alle caratteristiche dell’azione del fool shakespeariano. Da qui le nostre considerazioni di una mancanza di qualsiasi intento di critica sociale in questa figura oppositiva al rango dei personaggi tragici, un controaltare ironico, di saggezza o di semplice buon senso alla Goldoni che gli adattamenti, in generale, sembrano non seguire affatto. Questo «coefficiente di rilassamento»3, come definì Franco Meregalli il gracioso calderoniano, definizione che noi applichiamo anche al servo dell’adattamento portoghese del testo metastasiano, è quindi il perno attorno al quale viene costruito l’accomodamento «ao abuzo com que o Povo costuma gostar do Teatro»4, motivato unicamente da ragioni di natura economica, cioè da quell’agognato riscontro di pubblico che permise la trascuratezza della maggior parte delle edizioni di questo particolare sottogenere del teatro de cordel costituito dall’adattamento del teatro italiano ao gosto português. In sostanza, in una fusione tra Barocco e Illuminismo, tra spettacolo e realismo, tra meraviglia e scetticismo, al confine tra sentimento tragico e parodia del genere operistico nasce un ibrido letterario a metà strada tra la volontà di rimaneggiamento arbitrario e l’esigenza di omologazione alla cultura ricevente. Un’omologazione che richiede la messa in ridicolo della vanagloria nobiliare e la sottolineatura della scaltrezza degli umili servi. Dunque, questo continuo richiamarsi delle opere del teatro portoghese del XVIII secolo ai canoni dell’opera italiana dell’epoca e questo costante riferimento – per calco o per deviazione dalla norma dovuta a specifico contesto – alla struttura e ai contenuti dei modelli 3 77. 4 Franco Meregalli, Introduzione a Calderón de la Barca, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. José da Costa Miranda, Apontamentos para um futuro estudo sobre o teatro de Metastasio em Portugal no século XVIII, p. 134. 16 Introduzione metastasiani ha di fatto segnato un’epoca, pur senza condizionare del tutto l’originalità e la peculiarità della resa lusitana delle singole opere. Tra le condizioni che hanno potuto garantire il successo del teatro italiano nel Portogallo del Settecento riteniamo sia da segnalare l’attività della Real Mesa Censória, l’istituto di controllo dei testi stampati in Portogallo e delle copie provenienti dall’estero. Questo ente censorio voluto dal marchese di Pombal (1699-1782), e dalle finalità radicalmente opposte a quelle proprie della censura inquisitoriale precedente, non registra infatti nei suoi atti alcun testo teatrale, né in traduzione dall’italiano né di autori portoghesi, eccetto pochi casi e almeno non prima D. Maria I, che regnò dal 1777 al 1792. A ciò si aggiunga che, per tutta la prima metà del Settecento, si assiste ad un aumento tale delle pubblicazioni e dell’ingresso di nuovi testi dall’estero, che il numero degli esaminatori della censura diviene in sostanza del tutto insufficiente ad assicurare un completo controllo sulle opere. Una situazione che permise alle varie officine librarie dell’epoca di occuparsi non solo della stampa e dell’edizione di opere straniere, ma soprattutto della loro traduzione, divenendo così fulcro dell’attività letteraria (dalla produzione alla vendita) e tenendo le redini delle correnti culturali del momento. Emerge pertanto dallo studio dell’attività di queste stamperie l’andamento della fortuna, della decadenza e, soprattutto, della qualità della letteratura teatrale portoghese del XVIII secolo. Non bisogna naturalmente dimenticare che la mole impressionante di opere appartenenti all’ambito di nostro interesse ― teatro italiano originale, tradotto e adattato ― deve anche essere ricondotta alla politica del Magnanimo D. João V (1689-1750) il quale, attraverso una serie di provvedimenti in favore del teatro e dell’opera in musica, diede grande impulso alla produzione teatrale del suo paese, anche se solo come rifacimento e adattamento di testi già esistenti, e all’ingresso in Portogallo di opere originali metastasiane in quantità eccezionali. A testimonianza di tale afflusso di opere e di idee, basti citare quei registri doganali manoscritti di carichi di testi provenienti dall’Italia e approvati alla circolazione che andremo ad illustrare nelle prossime pagine. La presenza di titoli della letteratura teatrale italiana in questi documenti è ulteriore prova di un interesse del pubblico Introduzione 17 portoghese non attribuibile semplicemente alla tendenza del momento, la quale voleva il nome di Metastasio circolare un po’ per tutta Europa, ma conferma un’attenzione ben più specifica e una conoscenza ben più analitica della letteratura teatrale di casa nostra, soprattutto per la presenza di autori meno conosciuti all’estero come Zeno, Maffei e il Chiari, e di autori minori quali il Diodati, il Fagiuoli e il Gigli, tutti rigorosamente in lingua originale. Il ruolo centrale delle strutture teatrali operanti sul territorio portoghese (Teatro da Ajuda, Ópera do Tejo, Teatro da Rua dos Condes, Teatro de Queluz, Teatro de Salvaterra e São Carlos), si è inoltre specificato attraverso una suddivisione delle rappresentazioni di corte e del teatro pubblico, da cui è derivata una visione d’insieme ben precisa sull’attività teatrale compresa tra il 1728 e il 1808. Cercando quindi di descrivere lo stato del teatro portoghese nel XVIII secolo, le motivazioni che spinsero all’attività di rifacimento e riscrittura dei testi italiani, le leggi di mercato e le peculiarità dell’estetica della ricezione lusitana, la posizione dei traduttori, il concetto di adattamento al gusto portoghese e il ruolo fondamentale della figura dei graciosos (ed è per questo che riteniamo parte fondamentale del presente lavoro la fedele trascrizione delle parti comiche inedite inserite all’interno delle traduzioni delle opere metastasiane), questo lavoro ha avuto sempre come suo principale punto di riferimento la prospettiva comparatista dello specifico confronto testuale, nella convinzione che il travaso delle specifiche operistiche italiane all’interno della produzione teatrale portoghese abbia in qualche modo rinforzato le fondamenta di un felice legame interculturale, mai interrotto, tra Italia e Portogallo. 18 Introduzione ABBREVIAZIONI* BN Biblioteca Nazionale di Lisbona FCG Fondazione Calouste Gulbenkian BA Biblioteca da Ajuda IANTT Istituto degli Archivi Nazionali/Torre do Tombo BAC Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Lisbona UC Archivio generale dell’Università di Coimbra * La sigla che segue l’abbreviazione della struttura indica la collocazione dei documenti presso la detta struttura. 19 20 Introduzione CAPITOLO I La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento O retardamento de um fenómeno cultural, no conjunto da Literatura Comparada, apresenta sempre particularidades ideológicas que se não devem desprezar. Por um lado, parece ser inevitável um repisar do caminho já por outros seguido, para que se aproximem idênticas surpresas perante os já resolvidos paradoxos ou superadas incorrecções. Por outro, acontece que um fenómeno cultural adiado agudiza, porque as tomou de uma forma sumariada, as tensões dogmáticas dos primeiros movimentos. Acrescente-se ainda que, cronologicamente afastado do epicentro criativo, pressente e reage já a um contemporâneo movimento de síntese ou de nova superação antitética1. Se pensiamo che ancora nel 1874 Júlio César Machado nel suo celebre testo sui teatri di Lisbona poteva affermare che «em S. Carlos não há surpresas. Sabe-se de cor as óperas… e os camarotes»2, sorprende alquanto la constatazione che questa dichiarazione compiaciuta fosse pronunciata molto tempo dopo il momento di massimo splendore del nostro teatro in terra lusitana. Se infatti è innegabile che il Settecento costituisca il secolo di più stretta vicinanza, influenza ed imitazione dei drammi metastasiani così come delle commedie goldoniane tra gli adattatori portoghesi, è altrettanto inconfutabile l’esigenza, sostenuta a più riprese da studiosi del passato come l’italiano Giuseppe Carlo Rossi o il portoghese José da Costa Miranda, di approfondire in maniera decisamente più dettagliata ed analitica la mole impressionante di documenti a sostegno della tesi sull’influenza marcante delle rappresentazioni teatrali nostrane. Del resto, anche se non sembra che l’abate Trapassi fosse a conoscenza dei rifacimenti e degli stravolgimenti subìti dalle sue opere in Portogallo, già dall’epistolario metastasiano emergono chiari riferimenti alla corte lusitana. Ci resta infatti traccia di una sorta di commissione da parte di 1 Maria Luísa Malato da Rosa Borralho, Manuel de Figueiredo. Uma perspectiva do neoclassicismo português (1745-1777), IN-CM, Lisboa, 1995, p. 136. 2 Júlio Cêsar Machado, Os teatros de Lisboa, com ill. de Rafael Bordalo Pinheiro, conforme a 1ª ed. [1874-1875], Frenesi, Lisboa , 2002, p. 13. 21 Capitolo I 22 re D. José I (1714-1777) per l’opera dell’Ezio, in una lettera del gennaio 1755 inviata a Giuseppe Bonechi, poeta che Metastasio riuscì ad introdurre proprio alla corte di Lisbona3. Quale fosse lo stato e la considerazione internazionale di cui godesse la corte portoghese in ambito culturale, teatrale, e musicale in particolar modo, è inoltre confermato da una corrispondenza di Nicolò Porpora con lo stesso D. José I, scritta, tuttavia, su commissione del Metastasio nel 1754. Vi si descrive la corte di Lisbona come “illustre asilo di belle arti” e il re che vi presiede come «benefica mano che le raccoglie, che le onora, che le fomenta»4, tanto da auspicare che inedite composizioni per cembalo dello stesso Porpora potessero trovare accoglimento in quella sede. Allo stesso modo, l’epistolario goldoniano ci offre interessanti spunti di collegamento tra l’attività del commediografo veneziano e la corte di Lisbona, quando si parla, ad esempio, di una probabile commissione giunta dal Portogallo attraverso Don Vicente de Sousa Coutinho e regolarmente pagata, benché non se conoscano le circostanze specifiche. Nella missiva del 24 settembre 1765, Goldoni 3 Questo lo stralcio della lettera che più ci interessa: «D’ordine di cotesto vostro generoso monarca raccorciai e ridussi al comodo del real suo teatro di Lisbona il mio Ezio. L’onore d’un tal comando mi pareva che avesse superato d’uno spazio immenso il corto merito d’averlo eseguito, quando improvvisamente mi vidi tre giorni sono portare in casa una magnifica argenteria, ricca di quanto esige il bisogno e il lusso d’una tavola elegante. Un testimonio così poco comune del real gradimento per l’ubbidienza mia, immaginatevi qual tumulto di contento, di riconoscenza e di confusione mi ha risvegliato nell’animo. Ho procurato di spiegarlo, in voce e in iscritto, a questo ministro signor Freyre, e di pubblicarlo per gloria mia nella città e nella Corte. Vi prego d’imitarmi in Lisbona, e di render testimonianza de’ grati miei ossequiosissimi sentimenti; se per vostro mezzo potessero mai giungere sino al trono, io ve ne sarò tenuto come d’un singolar beneficio» in Metastasio, Tutte le opere, a cura di B. Brunelli, vol. III, Mondadori, Milano, 1951, p. 957. 4 Recita infatti la suddetta missiva: «Nicolò Porpora al re Giuseppe di Portogallo – 1754 – Sacra Real Maestà quando fra gli applausi dell’Europa tutta sentesi aperto nella reggia di Lisbona un illustre asilo per le belle arti, è debito di qualunque non infelice seguace di quelle l’offerir qualche tributo alla benefica mano che le raccoglie, che le onora, che le fomenta. Io, non affatto incognito cultore della meno austera delle medesime, soddisfo a questo dovere deponendo a piè del trono della Sacra Real Maestà Vostra in atto del più sommesso e profondo rispetto queste poche mie sonate di cembalo al pubblico ancora ignote: nelle quali, quando si desideri ogni altro pregio, troverassi almeno quello d’una certa maturità ch’è il più tardo frutto dell’esperienza e degli anni. Fra tante e tante mie fatiche sarà la presente quella di cui andrò più che d’ogni altra superbo se, giungendo a meritarmi un solo de’ clementissimi reali sguardi, giustificherà l’ambizione che mi stimola a professarmi della Sacra Real Maestà Vostra l’umilissimo servo N. P.» in Metastasio, op. cit., vol. V, p. 747. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 23 accenna infatti ad un errore nel pagamento di un’opera ordinatagli dal Portogallo, avendo ricevuto cento scudi in più rispetto alla fattura da lui stesso emessa. L’errore, dovuto a svista del commediografo, si risolverà con la riscrittura della ricevuta contenente una somma di pagamento maggiorata esattamente di cento scudi5. Si tratta, in ogni caso, di un rapporto intavolato molto probabilmente all’inizio dello stesso anno, come si ricava da una lettera spedita da Parigi allo stesso Coutinho presumibilmente nel febbraio 1765: Eccellenza Una caduta che ho fatto l’ultimo giorno dell’anno, con qualche ammaccatura, mi ha impedito di poter esser in persona da V.E., per aver l’onore di presentarle l’ossequio mio ed assegurarle un anno felice. Spero di poter adempire in breve questo mio dovere, e frattanto ringraziandola umilmente della lettera di Lisbona che ha avuto la bontà d’inviarmi, mi prendo l’ardire di supplicarla di trasmettere l’inclusa risposta. La mando aperta a V.E. supplicandola di leggerla e farla poi sigillare. Ella sentirà di che si tratta, e sentirà altresì ch’io ho dimandato il mio congedo per Pasqua prossima, e che finalmente l’ho ottenuto dai gentiluomini della Camera. Sono con profondo ossequio di V.E. umiliss.mo devot.mo oblig.mo servitore6. L’analisi che qui si tenta, primo abbozzo di un’illustrazione propedeutica ad indagini sicuramente più esaustive che anche noi auspichiamo si realizzino con profitto, tiene necessariamente conto della produzione editoriale relativa e del lavoro incessante delle oficinas livrárias portoghesi, botteghe artigiane che nel XVIII secolo si occupavano non solo della stampa, della rilegatura e della vendita diretta di libri, ma 5 Ecco il testo integrale della lettera: «A don Vicente de Sousa Coutinho. 24 settembre 1765. Ieri solamente ho aperto il sacco che V.E. mi ha fatto l’onor di mandarmi, e ci ho trovato dentro cento scudi di più di quello io credeva ci fosse. Il mio inganno è derivato dall’aver veduto accanto allo spago del sacco un bullettino con questa marca 1200 scudi. L’inganno è stato per me piacevole, ma mi è dispiaciuto aver dato a V.E. una ricevuta di 1200 scudi e non di 1300, onde correggo il fallo e Le mando ora la ricevuta a dovere. Nello stesso tempo Le invio lettera per il Sr. Fransi con dentro tutto quello che mi domandano, e mi è riuscito di far in un solo foglio una fattura che meritava di copiare, e di rimandar tutta l’opera. Invio tutto ciò prestamente, perché mi hanno fatto premura, affine di poter essi mandar l’opera sarciata a chi deve metterla in musica. Spero che posterdì avrò l’onore d’inchinarla a Versaglia, o a Parigi, o a Fontanablò. Frattanto ho l’onore di protestarmi ossequiosamente di V. Ex.a humiliss.mo devotis.mo obligat.mo servitore» in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di G. Ortolani, vol. XIV, Mondadori, Milano, 1956, p. 351. 6 Ivi, pp. 329-330. Capitolo I 24 anche della copiatura, e sovente della traduzione, dei testi in lingua straniera7. Queste officine divennero dunque fulcro di una concezione della divulgazione culturale e letteraria che permetterà alla nostrana letteratura teatrale (e non) di penetrare in modo duraturo nel tessuto sociale portoghese. Un fermento reso possibile anche grazie al potenziamento di tutte le attività artigiane affermatosi proprio in quegli anni. Basti ricordare che già a partire dal regno di D. João I (1385-1433) vennero nominati ventiquattro rappresentanti artigiani, due per ogni mestiere, con il ruolo di rappresentanti stabili del Comune di Lisbona. La partecipazione di tali delegati al governo della città comportò, negli anni, attivi ed effettivi interventi ed una presenza importante grazie alla quale gli artigiani arrivarono a disporre, nel 1492, di una sede propria, l’Hospital Real de Todos-os-Santos di Lisbona, meglio nota come “Casa dei Ventiquattro”. La loro autorevolezza venne presa in tale considerazione che dal 1499 al 1506 e poi dal 1598 al 1639 tali portavoce passarono da semplici delegati delle congregazioni artigiane a rappresentanti del popolo tout court. Cifra della rilevanza assunta dalle officine librarie dell’epoca e dell’attenzione dei censori nei confronti di ogni minima pubblicazione uscisse dai loro torchi è un documento emesso dalla “Casa do Despacho da Santa Inquisição” nel 1766, in cui editori di Metastasio e di Goldoni come Francisco Borges de Sousa (O mais heroico segredo ou Artaxerxes, 1764; Opera Nova Vencer-se he maior valor, 1764; Mais vale amor do que hum reyno ou Demofonte em Tracia, 1783; Dido desemparada, destruição de Cartago, 1790; Vencer-se he maior valor ou Alexandre na India, 1792; A dama dos encantos, 1788; A esposa persiana, 1792; O mentirozo por teima, s.d.), Manuel Coelho Amado (Themistocles, 1775), e António Rodrigues Galhardo (O cavaleiro de bom gosto, 1770), poi registrati nel 1767 come titolari di oficinas de prelo a Lisbona, vengono citati insieme ad altri dodici tipografi per vietare loro di intraprendere qualsiasi altra attività, sotto pena di pesanti ammende pecuniarie e detentive, qualora risultassero privi delle necessarie licenze di stampa. L’atto è custodito negli 7 Cfr. Fernando Guedes, Os livreiros em Portugal e as suas associações desde o século X até aos nossos dias, Editorial Verbo, Lisboa , 1993, p. 13. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 25 Archivi della Torre do Tombo e ne riportiamo qui di seguito uno stralcio da una pubblicazione del 1987 di Fernando Guedes: Termo que assignão os Impressores para não imprimirem nem consentirem nas suas officinas se imprima papel de qualidade algua pena de hu mes de prizão irremissivel e cem mil reis de condenação pagos da cadea. Aos trinta dias do mes de Dezembro de mil settecentos sessenta e seis annos em Lisboa nos Estaos e Casa do Despacho da Santa Inquizição estando ahy na audiencia de manhã os Senhores Inquizidores mandarão vir perante sy os Impressores abacho assignados moradores nesta Cidade de Lisboa, e sendo prezentes lhes foy ditto que por constar no Santo Offiçio não serem bastantes todas as providencias que se tem dado para evittar as furtivas impressoens de papeis que se dão ao prello sem as perçizas licenças assentou o Conselho Geral e ordenou que todo o Impressor ou Compozitor que fosse comprehendido na culpa de imprimir ou consentir que na sua officina se imprima papel algu de qualquer qualidade que seja sem as licenças neçessarias tenha a pena de um mes de prizão irremissivel e cem mil reis de condenação pagos da cadea e para que esta rezolução chegue a noticia de todos, nenhum possa della allegar ignorançia são chamados a esta Meza os donos e Administradores de todas as officinas de prello desta Corte, aonde para constar a todo o tempo que ficão sabedores da ditta rezolução do Conselho Geral lhe he lida esta noteficação, que sendo por cada hum ouvida e entendida todos assignarão, de que fis este termo de mandado dos Senhores Inquizidores. Estevão Luis de Mendonça o escrevy. (Seguem-se as assinaturas:) Miguel Rodrigues António Rodrigues Galhardo Manoel Pereira da Silva Thomás de Aquino Bulhoens Francisco Borges de Sousa Joaquim Joze Florêncio Gonçalves Filipe Jozé Leão Miguel Manescal da Costa Francisco Rodrigues da Silva Caetano Ferreira da Costa João Bauptista Luiz de Sousa Halva Joseph António da Silva Manuel Coelho Amado João António da Costa8 8 Cfr. Fernando Guedes, O livro e a leitura em Portugal. Subsídios para a sua história, séculos XVIII e XIX, Editorial Verbo, Lisboa, 1987, pp. 281-282. Capitolo I 26 Ma uno degli stampatori più noti all’epoca e di cui esistono notizie più precise è Francisco Luís Ameno, della cui esistenza apprendiamo ulteriori dettagli da un testo del 1967 di Ângela Maria Barcelo da Gama9. Originario di Trás-os-Montes, dove nacque nel 1713, Ameno, dopo avere abbandonato il corso di Diritto Canonico dell’Università di Coimbra, si trasferì a Lisbona nel 1727, lavorando come insegnante di lettere e di grammatica latina ed aprendo, dal 1745 al 1747, un’officina libraria (tipografia e commercio di libri) all’inizio di Rua das Gávias, accanto alla Chiesa di Loreto, meglio nota come Chiesa degli Italiani. Nel 1748 si trasferisce in Rua da Atalaia, vicino alla travessa Dos Fiéis de Deus, mentre dopo il terremoto del 1755, e con il nome di Tipografia Patriarcal, troviamo la sua attività in Rua da Procissão e in Rua do Jasmin. Considerato uno dei migliori tipografi di Lisbona, come ci testimonia anche Francisco Bernardo de Lima nella «Gazeta Literaria» del novembre 1761 («bem conhecido no reino pela elegancia da sua Tipografia»)10, Ameno svolse anche attività di traduttore, avvalendosi dell’uso di vari pseudonimi (Fernando Lucas Alvim, Luca Moniz Cerafino e Nicolau Siom). Tra l’altro, sempre nella suddetta pubblicazione periodica, ma relativa al mese di luglio, troviamo traccia del suo grado di conoscenza delle lettere italiane: Imitão-se, e às vezes igualão-se os Vidas, os Tassos, e os Guarinis, e desprezão-se os ingegnosos corruptores da Poesia italiana. Podemos contar entre os muitos, que nos nossos tempos a illustrão não só Maffei, e Metastasio, mas também Algarotti, Frugoni, Bettinelli, Caprailla, Triveri, Scarselli, a Senhora Gozzi conhecida pelas suas Tragedias, e as Damas Agnesi em Milam, Bassi em Bolonha, e Andighelli em Napoles11. Ameno cessò l’esercizio probabilmente nel 1793, ma la sua attività di editore e traduttore viene citata in un altro periodico portoghese, la «Gazeta de Lisboa» che fu pubblicata dal 1715 al 1820, e nella quale i riferimenti ai testi editati da Ameno compaiono con una certa 9 Cfr. Ângela Maria Barcelo da Gama, Impressos, editores e livreiros em Lisboa no séc. IBL, Coimbra, 1967, pp. 14-15. 10 Francisco Bernardo de Lima, Gazeta Literaria ou Notícia exacta dos principaes escriptos, que modernamente se vão publicando na Europa, Porto, Novembro de 1761, p. 281. 11 Ivi, p. 37. XVIII, La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 27 frequenza, sebbene riferiti il più delle volte ad opere diverse dal teatro12. Un’altra fonte da cui attingere per lo studio sull’afflusso di opere nostrane in Portogallo è costituita dai cataloghi di libri presenti nelle officine librarie di Lisbona e riguardanti un arco di anni ben determinato (1771-1777), indubbiamente indice e spia effettiva di quali testi, e in quali quantità, è possibile annoverare nel computo delle opere fondanti il gusto italianizzante in Portogallo. Tali elenchi vennero pensati come listino degli esemplari posseduti in una data stamperia e di conseguenza esposti o fatti circolare tra il pubblico di possibili acquirenti. Nel Catalogo de Livros del gennaio 1771 relativo alla Stamperia Regia di Lisbona amministrata da Francisco de Paula da Arrabida, oltre agli autori italiani più famosi come Dante, Boccaccio o Ariosto13, notiamo nella sezione intitolata Poetae 12 Francisco Luís Ameno appare sulla «Gazeta de Lisboa» in almeno quattro occasioni: «Em casa de Francisco Luís Ameno, na entrada da rua das Gaveas, da parte onde mora o Illustrissimo e Excelentissimo Senhor Marquez da Marialva, se achará os livros e papeis seguintes: A apologia a favor do padre António Vieira contra a Arte de Furtar; Serman de N. Senhora das Maravilhas, pregado na Sé de Bahia, com a ocasião do desacato feito a Imagem da mesma Senhora, pelo R. P. António de Sá da Companhia de Jesus» (16 de Novembro de 1745, p.248); «Em casa de Francisco Luiz Ameno, na entrada da rua das Gaveas da parte do Loreto, e na loja de Bento Soares no adro de S. Domingos, se achará um papel intitulado: Vieira Defendido, em que se refutam os fundamentos, com que em uma Dissertação, que há pouco se publicou, se pertendia mostrar, que o livro Arte de furtar era obra do padre António Vieira da Companhia de Jesus e se corroboram os da Carta Apologetica, em que se prova o contrário» (25 de Outubro de 1746, p. 256); «O Diálogo Apologetico, que com o título de Vieira Defendido mostra que não é este venerado Padre o Author do livro que se imprimiu com o título Arte de furtar. Vende-se em casa de Francisco Luiz Ameno, morador à entrada da rua das Gavias, da Banda da Igreja do Loreto e na loja de Bento Soares no adro de S. Domingos» (28 de Fevereiro de 1747, pp. 257-258); «Saiu impresso um livro intitulado: Voz Sagrada, Política, Rhetorica, e Métrica, ou Suplemento às vozes saudosas da eloquência, do espírito, do zêlo, e eminente sabedoria do P. António Vieira. Vende-se na oficina de Francisco Luiz Ameno na rua da Atalaya, junto à travessa dos Fieis de Deus» (12 de Novembro de 1748, p. 270). 13 Per completezza d’informazione, riportiamo qui di seguito gli autori italiani, non specificamente legati al teatro del Settecento, presenti nel citato catalogo: Luigi Alamanni, Francesco Algarotti, Lodovico Ariosto, Giuseppe Averani, Pietro Bembo, Ercole Bentivoglio, Giuseppe Berneri, Francesco Berni, Bartolomeo Beverini, Giovanni Boccaccio, Guidubaldo Bonarelli, Jacopo Bonfadio, Scipione Caetano, Tommaso Campailla, Annibale Caro, Barone Caracciolo, Niccolò Carteromaco, Giovanni della Casa, Ludovico Castelvetro, baldessar Castiglione, Ansaldo Cebà, Celio Magno e Orsato Giustiniano, Cesellio Filomastige, Gabriello Chiabrera, Stefano Colonna, Angelo di Costanzo, Giuseppe Antonio Costantini, Giovanni Mario Crescimbeni, Dante Alighieri, Ludovico Dolce, Girolamo Fracastoro, 28 Capitolo I recentiores & Epistolographi varium linguarum, la presenza significativa di autori minori del nostro teatro settecentesco, come Pietro Chiari (di cui è presente l’edizione veneziana delle Commedie in versi del 1756, quella bolognese del 1759, una seconda edizione veneziana del 1763, oltre a quattro tragedie in versi edite a Veneza nel 1755), Scipione Maffei (Il suo Teatro, cioè la Tragedia, la Commedia, e il Dramma, non più stampato, aggiunta la spiegazione d’alcune antichità pertinenti al Teatro, Verona, 1731), testi teorici come il Della ragion poetica, e della tragedia del Gravina (Venezia, 1731), le Poesie Drammatiche di Apostolo Zeno (Venezia, 1744, in dieci tomi), e un’opera stampata a Venezia nel 1746 e in tre volumi dal titolo Teatro Italiano o sia scielta di Tragedia per uso della scena, etc. premessa un’Istoria del Teatro, e difesa di esso. Ma soprattutto, un dato che si rileva con maggiore attenzione, quattro opere di Metastasio (Poesie, Opere Drammatiche, e altre date in luce dal Calzabigi, Parigi, 1755, 9 voll.; Poesie, giusta le correzioni fatte dall’Autore nell’edizione di Parigi coll’aggiunta della Nitteti, e del Sogno, Torino, 1757, 10 voll.; Opere Drammatiche, Napoli, 1757, 6 voll.; Tragedies, Opera, traduites en François, Vienne, 1751, 12 voll.) e cinque testi di Goldoni (Commedie, nuova edizione corretta dall’Autore, di Commedie non più stampate arricchita, di rami esprimenti il carattere della Commedia adornata, fino al presente sono pubblicati tom. X con più tom. 2 di Componimenti diversi, Venezia, 1757, 10 tomi; Commedie, Venezia, 1753, 8 voll.; Nuovo Teatro Comico, Venezia, 1757, 10 tomi; Commedie Scielte, Venezia; Nuovo Teatro Comico, Venezia, 1757, 6 voll.). Il dato sicuramente più evidente è la presenza di tali opere esclusivamente, o quasi, in lingua italiana, il che lascia presupporre una conoscenza Girolamo Gigli, Cinthio Giraldi, Antonio Francesco Grazzini, Giovan Battista Guarini, Lauriso Tragiense, Cavalier Marino, Jacopo Mazzoni, Metoneo Pietro Aretino, Francesco Petrarca, Angelo Poliziano, Luigi Pulci, Francesco Saverio Quadrio, Gregorio Redi, Francesco Redi, Giovan Battista Ricchieri, Onorato Gentile Ricci, Paolo Rolli, Giulio Sabbatini, Jacopo Sannazzaro, Margherita Sarocchi, Sforza d’Oddia, Vincenzo Sgrilli, Luigi Tansillo, Bernardo Tasso, Torquato Tasso, Alessandro Tassoni, Ginnesio Vaccalerio, Varano, Giovanni Zappi, Perlone Zipoli, Geronimo Zoppio. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 29 della medesima lingua piuttosto diffusa, almeno tra gli ambienti colti. Fu infatti lo stesso Luís António Verney a sollecitare nel 1746 lo studio di italiano e francese quali lingue dell’Europa colta e illuminista14. Nel catalogo della medesima stamperia riferito all’anno successivo (1772), oltre ad un’altra edizione veneziana del 1758 delle Commedie in prosa del Chiari, Goldoni è presente con altre tre edizioni: Teatro Comico, o siano le sue prime cinquanta Commedie, Pesaro, 1753, 10 tomi; Nuovo Teatro Comico, che contiene quaranta commedie, Bologna, 1757-1764, 10 tomi; Continuazione del Nuovo Teatro Comico, Bologna, 1762, tomo I. Più interessante è il catalogo che la stamperia pubblica nel 1777 sotto l’amministrazione di Francisco Tavares Nogueira, sia perché comprende una sezione interamente dedicata a testi greci e latini tradotti in italiano15, di cui vengono riportati i nominativi dei traduttori (prassi completamente ignorata dai traduttori portoghesi di Metastasio e di Goldoni), sia per la quantità di autori italiani (se ne contano ben 120) elencati in un’apposita sezione dedicata a Poeti, Romanzi, Dizzionari, Grammatiche, &c. Italiani, la quale comprende anche traduzioni italiane di opere straniere (Milton, Moliere, Ossian, Racine, Cervantes)16, oltre ai cosiddetti minori del teatro italiano: ancora il Chiari (Commedia da Camera, o sia Dialoghi Familiari, Venezia, 1770; Il Poeta, o sia Avventure di Oliviero de Vega Poeta Spagnolo, Venezia, 1757; La ballerina onorata, Venezia, 1757; La Francese in 14 Si veda il Verdadeiro Método de Estudar, ed. org. pelo Prof. António Salgado Júnior, vol. 1, Estudos Linguísticos, Lisboa, Sá da Costa Editora, 1949, alla pagina 274: «quem hoje quer ter muitas notícias boas com facilidade, deve entender Francês e Italiano». 15 Tra questi Anacreonte, Eschilo, Falaride, Eliodoro, Luciano, Lucrezio, Marco Aurelio, Omero, Ovidio, Sofocle, Stazio, Tacito, Virgilio. 16 Nello specifico: Milton, Il Paradiso Perduto, poema inglese tradotto in verso sciolto da Paolo Rolli con la vita del Poeta, e con le annotazioni sopra tutto il Poema di Gio. Addison, aggiunte alcune osservazioni critiche, Parigi, 1758, 2 tomi; Moliere, Opere Teatrali tradotte nuovamente nella Italiana favella, Modena, 1756, 4 tomi; Ossian, antico poeta celtico trasportato dalla Prosa Inglese in verso italiano da Melch. Cesarotti, Ediz. II accresciuta, Padova, 1772, 4 tomi; Racine, L’Ester Tragedia volgarizzata dal Card. Annib. Albani, Roma, 1720; Vita, e azioni dell’ingegnoso Cittadino D. Chisciotte della Mancia Scritta da Mich. Cervantes Saavedra, trad. in Ital. dal Franciosini, Venezia, 1755, 2 tomi. 30 Capitolo I Italia, Napoli, 1759; La commediante in fortuna, Napoli, 1755; La giuocatrice di Lotti, Napoli,1758; La zingara, Memorie Egiziane, Napoli, 1758, ma anche un testo dal titolo Commedie rappresentate né Teatri Grimani di Venezia dall’an. 1749 di Egerindo Criptonide, Venezia, 1758), Ottaviano Diodati (Biblioteca Teatrale Italiana scelta, e disposta con un suo capitolo in verso per ogni Tomo per servir di trattato completo di Drammaturgia, Lucca, 1762), le commedie del Fagiuoli in un’edizione fiorentina del 1734, poi Il D. Pilone, ovvero il Bacchettone falso, e la Sorellina di D. Pilone, Commedie di Girolamo Gigli (Venezia, 1764), il Teatro tragico di Michele Giuseppe Gorini Corio (Milano, 1745) e, infine, un Teatro Comico Fiorentino, raccolta di Commedie antiche di Autori Fiorentini (Firenze, 1750), che conferma ulteriormente, nella sua minuta specificità, l’interesse del pubblico portoghese per tutto ciò che fosse teatro, e teatro italiano in particolare. Di Goldoni venne aggiunto solo un volume dal titolo Opere Drammatiche Giocose, edito a Venezia nel 1770. Altri due librai, stampatori ed editori di origine francese molto noti nel XVIII secolo, Giovanni Batista Reycend e Francisco Rolland, elaborarono propri cataloghi dai quali è possibile ricavare ulteriori notizie sulla consistenza effettiva degli autori italiani a Lisbona. Il primo aveva messo in vendita nel 1772 presso la libreria situata in Largo do Calhariz (na Esquina da Bica Grande) oltre ad una Merope con varie lezioni del Maffei datata 1763, l’edizione torinese in dieci volumi e quella veneziana in sette delle Opere del Metastasio, così come L’amore artigiano del Goldoni (edizione 1762). A sua volta, il Rolland dispone nel 1773 dell’edizione bolognese (1762) delle commedie goldoniane, nel 1774 dichiara di essere in possesso del Nuovo Teatro Comico pubblicato nel 1768, e nel 1777 (fig. 1) arriva a disporre di una fornita sezione di Livros Italianos (49 voci), tra cui spiccano ancora le commedie del Chiari e di Goldoni, ma anche un testo sui Teatri moderni contrarj alla professione cristiana, libri due del P. Concina, in conferma delle sue dissertazioni de spectaculis Theatralibus, Roma, 1755. Tracce sicure dell’ingresso di opere italiane appartenenti al genere teatrale, ma non solo, emergono inoltre da alcuni documenti di carattere amministrativo legati all’ambito degli atti doganali, La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento Figura 1. (BN, B. 954//5 P). 31 Capitolo I 32 custoditi presso l’Archivio Nazionale della Torre do Tombo e piuttosto rilevanti per l’analisi della richiesta effettiva di privati o addetti al settore librario. Innanzitutto, un documento datato 12 settembre 1796, in cui tale Bernardo André Durante dichiara di aver ricevuto da Venezia “um caixotinho de livros” contenente, tra gli altri, 43 volumi in ottavo e privi di stampe delle commedie e delle memorie di Goldoni (fig. 2). In secondo luogo, una relazione del primo settembre 1815 (e tale data dimostra che l’influenza italiana continuerà fino ai primi decenni dell’Ottocento) riguardante alcuni libri che vedova Bertrand e figli (una delle famiglie di librai portoghesi più note) «tem na Alfândega desta cidade vindos de Itália17 e que pertendem despachar», per un totale di 14 titoli, tra i quali segnaliamo, al punto otto, le commedie di Goldoni in ottavo (fig. 3). Una portaria del 26 ottobre 1816 registra, inoltre, l’arrivo di “quatro fardos vindos de Génova” indirizzati ai mercanti Borel e figli, nello specifico 91 titoli tra i quali 18 volumi dell’Opera del Metastasio (fig. 4). In più, tra i documenti dell’Archivio Nazionale inerenti ai processi istituiti contro i librai e a riprova della portata del fenomeno teatrale italianizzante (sebbene dal punto di vista della sua proibizione), riteniamo particolarmente interessante un atto (fig. 5) relativo a commedie e intermezzi rappresentati presso il Teatro do Corpo da Guarda di Porto18 dal 24 aprile all’11 dicembre del 1778, firmato dal direttore del medesimo teatro, Fellippo Boselli. Esclusi gli autori anonimi (per un totale di 5 voci su 21) e tre opere di autori portoghesi (tra l’altro opere ispirate al teatro italiano quali l’Adriano em 17 Precisamente da Genova, come si evince dalla dichiarazione introduttiva: «Dizem Viuva Bertrand e Filhos que tem na Alfândega desta Cidade, vindo de Génova hum fardo com os livros mencionados na relação junta, que pertendem despachar e como precisam de licença». 18 Dell’importanza del Teatro di Porto, per quanto riguarda le rappresentazioni italiane e italianizzanti, ci parla José da Costa Miranda quando afferma: «no curto período que medeia os meses de Setembro e Novembro de 1774 localizam-se, relacionado com a cidade de Porto, nada menos de cinco requerimentos com pedidos de licença para serem levadas à cena cinco versões portuguesas, diferentes, de outras tantas comédias de Goldoni. Medida eloquente de crença que empresários e actores confeririam aos textos do autor veneziano e da larga aceitação que lhes seria tributada pelo público.» in José da Costa Miranda, Estudos LusoItalianos, Lisboa, Icalp, 1990, p. 262. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento Figura 2. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143). 33 34 Capitolo I Figura 3. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento Figura 4. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 143). 35 36 Capitolo I Figura 5. (IANTT, Real Mesa Censória caixa 177). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 37 Siria, Adolonimo em Sidonia e il Precipicio de Faetonte di António José da Silva), le restanti opere sono tutte di Goldoni e del Metastasio (12 su 21)19, oltre ad un Tamorlão na Persia di Apostolo Zeno. Il processo relativo fu istituito con tutta probabilità su volere di D. Maria I, come emerge da un precedente documento manoscritto del 20 novembre 1778 (fig. 6), nel quale la regina esigeva l’intervento della censura in questi termini: Dona Maria por Graça de Deos Raynha de Portugal e dos Algarves, daquem, e dalem mar, em Africa Senhora de Guiné &c Mando a vos Juiz do Crime da Cidade do Porto, que vos informeis com a maior indagação, segredo, e cautella, se o Impressario do theatro dessa Cidade tem posto em Scena algumas Pessas de Theatro, por minimas que sejam, sem que estas tenham obtido a aprovação desta Real Meza Censoria, para se poderem representar, e de tudo, que achareis me darei conta na mesma Meza, cumpri-o assim A RAYNHA Nossa Senhora o Mandou pelo Deputados da Real Meza Censoria abaixo Assignados. Infine, dalle raccolte della Biblioteca da Ajuda è emerso un altro documento che ci permette di sottolineare con sempre maggiore sicurezza la situazione di accoglimento privilegiato di cui godeva il nostro teatro settecentesco in terra lusitana, illuminando con intensità sempre più grande il nostro cammino verso il fermo e preciso delineamento della tesi sull’influenza preponderante e schiacciante della drammaturgia italiana su tutte le altre suggestioni esterne. Si tratta di un resoconto spese siglato Genova 27 ottobre 1766 (fig. 7) e attestante l’invio da parte di Antonio Zucchi di Milano a D. Pedro José da Silva Botelho, direttore dei Teatri Regi, di otto abiti teatrali destinati alla rappresentazione dell’Enea nel Lazio (non sappiamo se dello Jommelli, di Goldoni o di Pietro Chiari), che giunsero, i primi sei, con la Nave Maria capitanata dal danese Pietro Schmerkell, e le due vesti per Venere e Vulcano con l’imbarcazione Principe di Brunsvich, per un costo totale di oltre tre mila zecchini. È, 19 Si tratta, per Metastasio, di A esposa persiana, Dido desamparada, A Olimpiade, Demofoonte em Tracia, e per Goldoni di O Amor da Pátria, Os Amantes zelosos, O amante militar, O mentiroso, O criado de dois amos, O convidado de pedra, A Peruviana, A família do antiquario. 38 Capitolo I Figura 6 . (IANTT, Real Mesa Censória caixa 177). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento Figura 7. (BA, 52-XIV-35 N. 79). 39 Capitolo I 40 certo, una piccolissima spia di quanto sostenuto più sopra, ma è comunque documento probatorio sia dell’assiduità dei contatti commerciali tra Italia e Portogallo in materia di rappresentazioni teatrali, sia dei fitti scambi epistolari tra il direttore dei Teatri Regi e i consoli portoghesi a Genova, che si preoccupavano quindi di inviare in madrepatria non solo cantanti, ballerini, musicisti e partiture, «como também guarda-roupas e adereços, instrumentos, papel de música e até as mechas para as velas que iluminavam o teatro, porque as que eram importadas do Maranhão produziam demiasiado fumo»20. Sotto il regno D. João V (1707-1742)21 si assiste dunque al periodo di maggiore splendore dell’influenza teatrale italiana, come dimostra la costruzione voluta dal re del famoso Pátio das Comédias ubicato all’inizio dell’odierna Rua Augusta, in piena baixa lisboeta, il ritrovo teatrale più frequentato dell’epoca e sicuramente di grande affluenza fino al 1735. Il suo impegno conobbe tuttavia fasi alterne, a causa dell’acuirsi del rigore inquisitoriale che cercava di «cobrir todos os campos da vida social e não [fazia] excepções em matéria de denúncia ou de suspeição»22 e poiché, dopo il 1742 (anno in cui D. João V venne colpito da emiplegia), per volere della devotissima moglie Marianna d’Austria, vennero proibite tutte le rappresentazioni teatrali ed ogni spettacolo pubblico o di corte. Si riprenderà a pieno ritmo solo durante il regno di D. José I, «o timorato Jozé, que unicamente ocupou os seos dias em cassar aos veados nas Mattas de Salvaterra, e em ouvir novos Muzicos, e fazer reprezentar Operas»23. 20 Manuel Carlos de Brito, Estudos de história da música em Portugal; Lisboa, Editorial Estampa, 1989, p. 115. 21 La figura di questo re magnanimo e dissoluto susciterà un vivace interesse anche in anni successivi alla sua morte, quale simbolo di sperpero delle ricchezze del Regno. Così infatti ce lo descrive un anonimo viaggiatore francese: «Dizem huns dos Portuguezes, que foi este hum Grande Rey, hum Tito, hum Trajano, outros pelo contrario dizem, que foi hum homem indigno do sceptro, pelo mal uzo que d’elle fez. […] o dinheiro, que mais util e justamente devia circular nos Povos, e nas Providencias de Portugal, vem unicamente servir ao luxo, e à embriaguez de Muzicos e Cantores Italianos e Portuguezes, gente vil, e de nenhum proveito» in Cartas de hum Viajante Francez, a hum seu Amigo rezidente em Pariz, sobre o caracter e estado presente de Portugal, traduzida da Lingoa Franceza na Portugueza Por hum Portuguez assistente em Pariz, Pariz 1784, pp. 91-93. 22 Joaquim Veríssimo Serrão, História de Portugal, vol. V, A Restauração e a Monarquia Absoluta (1640-1750), Editorial Verbo, Lisboa, 1980, p. 368. 23 Cartas de hum Viajante Francez, op. cit., p. 100. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 41 Il rinnovamento di quest’ultimo periodo fu indubbiamente agevolato dall’accorpamento, avvenuto nel 1767, dei tre gradi di censura ― Inquisizione del Sant’Uffizio, Tribunali Ordinari e Desembargo do Paço (Suprema Corte di Giustizia) ― in un’unica istituzione denominata Real Mesa Censória, competente prevalentemente nella censura dei libri. Prima della Mesa Censória esistevano dunque tre gradi di censura e solo quando tutti e tre questi gradi avessero espresso giudizi unanimi, il testo sottoposto ad esame avrebbe potuto o meno disporre della licenza necessaria alla sua libera circolazione. L’apparato censorio che precedette la creazione della Mesa Censória si avvaleva comunque della giurisprudenza relativa al Regimento do Santo Officio da Inquisição dos Reynos de Portugal risalente al 1640 che, in merito al delitto di detenzione di libri «hereges ou de alguma impia ceita»24, imponeva chiaramente, oltre 24 Si tratta del Título XIX del Livro III del medesimo Regimento, intitolato Dos quem lem, & retem livros de hereges, ou de alguma impia ceita, i cui cinque articoli così recitano: «1. Toda a pessoa de qualquer estado, qualidade, & condição, que seja, que contra a prohibição da Bulla da Cea do Senhor, & dos Editaes da Fé, que o S. Officio manda publicar, de proposito ler, & reter livros hereticos, na forma, que está declarado no Catálogo Romano, & no deste Reyno, alem de encorrer nas censuras posta pela Bulla da Cea do Senhor, & Breves Apostolicos, & pelos sobreditos Editaes, será havida por suspeita na Fé, & condenada a fazer abjuração de leve; salvo se da qualidade dos livros, & da pessoa, & mais circunstancias do delicto, ouvesse tão vehemente suspeita de heresia, que pareça aos Inquisidores, que deve haver mayor abjuração; & terá as mais penas, que elles arbitrarem, & tudo isto haverá lugar, ou os livros sejam impressos, ou escritos de mão. 2. E se os livros hereticos forem de proposito compostos pela mesma pessoa, em cujo poder forem achados, & for como autor deles, não dando cauza, & defeza legitima, que o escuze, se procederá contra ele na forma de direito, como contra herege; conforme ao que fica declarado no tit. 2 deste livro, pela grande presupção, que contra ele rezulta. E da mesma maneira será reputado por Autor do livro, aquelle, que retever livro de mão heretico, sem nome de autor, & não der, nem mostrar donde lhe veyo. 3. A pessoa, que trouxer, ou mandar trazer a terra de catolicos livros hereticos, ou de arte magica, sortilegios, & feitiçaria, alem, de encorrer nas penas de excomunhão, como fautor de hereges, na forma do Breve de Clemente VIII, perderá os taes livros, & será condenada em pena pecuniaria, & outras arbitrarias, que parecer aos Inquisidores, conforme à qualidade da pessoa, & graveza da culpa; & as mesmas penas terão os que trouxerem, ou mandarem trazer livros de Astrologia judiciaria, na forma das constituições de Sixto V & Urbano VIII. 4. Qualquer herege, Iudeu, ou infiel, que vivendo em terra de Catholicos divulgar nella algũs tratados de seus hereziarchas, ou o Talmud dos Iudeus, ou o Alcorão dos Mouros, ou outros semelhantes, será condenado em perdimento de todos os livros, & nas mais penas arbitrarias commensuradas a sua culpa. 5. Os Impressores, que sem approvação, & licença do S. Officio imprimirem algũ livro, ou qualquer outra escritura, alem de encorrerem em pena de excomunhão mayor, serão privados por hum anno do exercicio de seu officio, & condenados em pena pecuniaria, confórme às circunstancias da culpa, & perderão os livros, & 42 Capitolo I alle consuete pene pecuniarie, il sequestro dei suddetti volumi e la loro messa al rogo, onde evitare ogni possibile utilizzo. In tutto ciò era palese la dipendenza dello Stato e del re dall’apparato inquisitoriale della Chiesa, nonostante la progressiva inefficacia di tale sistema dovuta a un aumento delle pubblicazioni e dell’importazione di opere che rese di fatto impossibile avere esaminatori in numero sufficiente per assicurare una fiscalizzazione efficiente25. Dunque, con un decreto del 5 aprile 1769, il marchese di Pombal trasferisce la censura dei libri dal Sant’Uffizio alla Real Mesa Censória, costituita da membri di nomina regia ma anche della gerarchia ecclesiastica e dell’Inquisizione, abolisce l’Indice dei libri proibiti e stabilisce la messa al rogo di molti testi approvati dai precedenti inquisitori, soprattutto quelle opere destinate alla divulgazione di «ignorância e supestições grosseiras, ao passo que outros, até então condenados como perigosos para a religião e bons costumes, passaram a ser autorizados»26. Oltre a concedere licenze di vendita, stampa, ristampa e rilegatura di libri e fogli volanti, a partire da un decreto emesso il 10 luglio 1769, la Mesa Censória inizia a controllare l’afflusso di opere presso le biblioteche private, arrivando essa stessa a costituire una propria biblioteca con oltre 50.000 volumi di argomento prevalentemente storico e letterario e corrispondenti ai testi mandati alle stampe con l’autorizzazione della Mesa Censória, oltre alle opere di appoggio alla valutazione censoria e ai libri provenienti dalla scuole gesuitiche ormai estinte. La struttura di questo istituto comprendeva fasi di giudizio ben distinte e scrupolose: un segretario esperto in lettere aveva il compito di ricevere i libri destinati all’esame, i quali venivano debitamente registrati e, in seguito, presentati alla “conferenza dei libri”. A questo punto un presidente eletto dirigeva la riunione dei “deputati” per l’analisi del contenuto dell’opera che un determinato stampatore aveva espresso l’intenzione di pubblicare. Questa passava poi ai singoli censori, i quali emettevano escrituras, que assi imprimirem, os quaes serão queimados, para que se não possa uzar delles.» 25 Maria Adelaide Salvador Marques, Pombalismo e cultura média, in “Brotéria”, n. 115 (2-4), Agosto-Outubro 1982, p. 182. 26 António José Saraiva, A Inquisição Portuguesa, Publicações Europa-América, Lisboa, 1964, p. 126. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 43 successivamente il loro parere all’assemblea dei deputati, che comunque si riservava la decisione finale sulla bocciatura o licenza di stampa. Il segretario aveva infine il compito di comunicare l’esito agli stampatori richiedenti, mentre, nel frattempo, un porteiro veniva distaccato presso la dogana della capitale portoghese con il compito di registrare l’entrata in paese di tutti i libri provenienti dall’estero. Come si vede, un sistema ben articolato e funzionante in ogni suo grado, che rese praticamente impossibile la circolazione clandestina di opere o documenti di qualsiasi genere. Ciononostante, sotto il successivo regno di D. Maria I, esso venne completamente abolito. Su indicazione di una bolla di papa Pio VII, la reggente crea infatti con decreto del 21 giugno 1787 la “Commissione Generale sull’Esame e Censura dei Libri”, il cui esecutivo era a maggiortanza ecclesiastica e nella quale l’Inquisitore Generale (allora D. José Maria de Melo, vescovo dell’Algarve) aveva il potere di procedere direttamente contro chi vendesse o anche solo possedesse libri considerati proibiti. Tale commissione ebbe comunque vita breve, estinta nel 1794 per il ritorno al triplice apparato censorio del XVI secolo, che permarrà grosso modo fino al 1832. Ufficialmente il 3 agosto 1833 il Desembargo do Paço cede gran parte dei suoi compiti alla Segreteria di Stato degli Affari del Regno27. Con l’istituzione della Real Mesa Censória venne comunque rovesciata la concezione che fino ad allora aveva animato la censura inquisitoriale, passando dalla messa all’Indice dei libri proibiti di quei testi che la Chiesa riteneva minacciosi dal punto di vista della propagazione ed efficacia del dogma religioso, all’accettazione dei medesimi scritti (scientifici soprattutto, ma anche filosofici e letterari) che servivano la causa dell’Illuminismo, e alla censura delle opere di spiccato indottrinamento catechetico. L’espulsione dal territorio portoghese della Compagnia di Gesù (1759) è ulteriore riprova dell’intento di rinnovamento e divulgazione della cultura messe in atto dalla politica pombalina, sebbene il motivo di tale decisione fosse da attribuirsi, molto più pragmaticamente, a problemi di gestione della 27 Cfr. la relazione dell’équipe della Direzione dei Servizi di Archivistica ed Inventario della Torre do Tombo, intitolata Real Mesa Censória. Inventario preliminar, Lisboa, Março de 1994. Capitolo I 44 politica colonialista, e in particolare al conflitto tra gli interessi del regno che Pombal rappresentava e l’indipendenza assoluta di cui godevano le missioni gesuitiche presso le colonie brasiliane. Per quanto riguarda la ricezione del nostro teatro in Portogallo, è comunque innegabile che la proliferazione delle traduzioni goldoniane, ad esempio, così come la messa in scena delle commedie più celebri dell’autore veneziano, si dovesse anche alla benevolenza suscitata dal contenuto morale di tali commedie, approvato da censori che acconsentivano alla loro edizione portoghese in virtù di un rispecchiamento dei tempi non sconveniente né riprovevole, tanto che, come ci illustra uno studio di José da Costa Miranda, molte compagnie teatrali lusitane optavano per un testo goldoniano proprio in quanto garanzia di incensurabilità28. È proprio in questo contesto che si inserisce il discorso sulla corrente teatrale italianizzante, le cui conseguenze in termini di rinnovamento ebbero effetto non solo sui repertori della drammaturgia in generale, ma anche su innovazioni di ambito architettonico e musicale. È un fatto noto che le corti e le dimore nobiliari, luoghi di aggregazione aristocratica in cui le rappresentazioni teatrali acquisivano maggiore dignità letteraria e culturale rispetto ai teatri pubblici tra XVII e XVIII secolo furono oggetto di profonde modifiche architettoniche volte all’ampliamento e alla costruzione di giardini, parchi e saloni che rispecchiassero in qualche modo la grandezza e la magnificenza delle singole famiglie, desiderose di ostentare gusto e possedimenti. I palazzi signorili del Settecento, ampliati e abbelliti, 28 Ecco il passaggio integrale in J. Da Costa Miranda, Estudos, cit., pp. 328-329: «De facto, o conteúdo moral que, nas comédias de Goldoni se oferecia, quer aos censores, quer ao público em geral, ou, talvez melhor, o conteúdo moral que, nas comédias de Goldoni se procurava encontrar, motivaria, muito favoravelmente, os censores na sua benignidade, ultrapassando, acaso, alguns aspectos a que os mesmos censores, por força de outras suas preocupações e incumbências, não deixariam de ser sensíveis. Mas a interpretação, generalizada, que se criara acerca de uma permanente moralidade contida nas comédias de Goldoni, absorvera alguns outros pormenores, e influiria, largamente, na escolha dos repertórios das grandes como das pequenas companhias teatrais portuguesas, estáveis ou de circunstância, que se fixaram em Lisboa ou percorreram, com certa periodicidade, mesmo se com instável êxito, o interior do país, durante o século XVIII. Acenar logo com o nome de Goldoni relativamente ao texto dramático depositado para exame da censura prévia, era como que garantir-se, antecipadamente, da sua aprovação, e contar com um autor estimado que assegurava uma regularidade de repertório». La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 45 non solo divennero luogo di incontro privilegiato per assistere alle rappresentazioni teatrali, ma anche momento di illustrazione concreta delle abilità artistiche degli architetti più famosi dell’epoca29. Queste nuove esigenze di spettacolarità implicarono di conseguenza un potenziamento degli studi musicali e un proliferare sorprendente di nuove composizioni, incremento esemplato in maniera particolare da un musicista italianizzante come Carlos Seixas, debitore della produzione di Domenico Scarlatti. Anche quest’ultimo, del resto, ebbe modo di conoscere da vicino la realtà lusitana grazie al suo incarico in Vaticano nel 1714 su richiesta dell’ambasciatore portoghese Manuel Pereira de Sampaio, l’uomo che, oltre a distinguersi «pelo seu fasto e elegância, pela distribuição de ricos presentes e pelas avultadas gorjetas à criadagem»30, nel Carnevale del 1743 prese in affitto alcuni “palchetti de’ teatri” di Capranica e Aliberti, come ci rivela un documento rinvenuto nella Biblioteca da Ajuda relativo al conto pagato dallo stesso ambasciatore31. Successivamente Scarlatti fu impiegato come maestro di cappella alla corte di Lisbona, dove rimarrà dal 1720 al 1729. Non dimentichiamo inoltre un grande compositore come Marcos António da Fonseca, meglio noto come Marcos Portugal, autore nel 1808 delle musiche per il Demofoonte di Metastasio e famoso anche in Italia con il nome di Marc’Antonio Portogallo. Il Portugal soggiornò a Napoli dal 1792 allo scopo di apprendere e rielaborare quella musica operistica che lo porterà alla composizione di opere serie e buffe di grande successo. La formazione italiana fu anche alla base del genio creativo del compositore portoghese Francisco António de Almeida, mandato da D. João V a perfezionarsi a Roma. Qui, nel 1722, de Almeida fece cantare un componimento sacro in italiano dal titolo Il Pentimento di 29 Uno degli architetti italiani più in voga nel Portogallo del Settecento fu il toscano Niccolò Nasoni, di cui sappiamo che morì a Porto nel 1773 e che si trasferì in Portogallo, su invito di D. João V, nel 1732. A lui si deve la torre e la chiesa a pianta ellittica di São Pedro dos Clérigos, costruita tra 1732 e 1763 e il Palácio do Freixo, commissionato dal decano della cattedrale di Porto, Jerónimo de Távora e Noronha. 30 Grande Enciclopédia Portuguesa e Brasileira,vol. XXVI, Editorial Enciclopédia Limitada, , Lisboa – Rio de Janeiro, 1942, p. 893. 31 Il documento in questione è stato catalogato dalla Biblioteca da Ajuda con registro numero 46-XIII-9 f. 134 e intitolato Conta paga por Manuel Pereira de Sampaio em Roma referente aos “palchetti de teatri” para o Carnaval, nos teatros de Capranica e Aliberti 1743. Capitolo I 46 Davide. Fu poi allievo di Giuseppe Ottavio Pitoni (1657-1743) e nel 1726 eseguì l’oratoria italiana Giuditta. Rientrato a Lisbona nel 1729, eseguì al Paço da Ribeira il divertimento pastorale intitolato Il trionfo d’amore, mettendo in pratica tutti gli insegnamenti appresi in Italia. L’influenza italiana in Francisco António de Almeida emerge inoltre da una rapida scorsa dei titoli delle sue opere, tra cui La pazienza di Socrate (1733), La finta pazza (1735), Le virtù trionfanti (1738), L’Ippolito (1752) e, soprattutto, La Spinalba (1739)32. Tuttavia, per tracciare un breve excursus storico dell’avvento del genere operistico in Portogallo, dobbiamo partire dall’esecuzione delle serenate di corte che non prevedevano scenari o abiti complicati e costosi, e dalla tradizione cinquecentesca dei vilancicos (canzoni popolari eseguite durante le festività natalizie) nella loro forma sempre più drammatizzata. Le prime basi per una differenziazione e separazione tipologica tra teatro privato e teatro pubblico furono poste già nel XVI secolo dai dizidores, attori di compagnie teatrali itineranti che inizialmente si spostavano di casa in casa per rappresentare i loro repertori, e che in seguito specializzeranno il loro intrattenimento nei due distinti filoni delle rappresentazioni signorili e del divertimento pubblico33. Benché nella cronologia operistica proposta da Joaquim José Marques34 venga datata la prima rappresentazione di un’opera italiana in Portogallo al 1720, con la Cantata Pastorale, serenata da cantarsi nel giorno di S. Giovanni Evangelista nel Regio Palazzo di Giovanni quinto re di Portogallo, presupponendo in seguito che tutte le ricorrenze festive abbiano comportato il canto di serenate italiane35, 32 Cfr. Verbo. Enciclopédia Luso-Brasileira de cultura, edição século XXI, vol. 2, Editorial Verbo, Lisboa – São Paulo, 1998, p. 137. 33 «Sabe-se por referências documentais que em casas particulares como as do Conde de Vimioso, do Conde Redondo e de Linhares, havia representações em que as companhias ambulantes de Comediantes, chamados também os dizidores de ditos (papéis), corriam de domicílio em domicílio, levando a sua farsa, o seu entremez, as danças, folias e tramóias. Estes comediantes afirmavam-se pela duplicidade das suas acções, oscilando entre a esfera privada (representações para particulares/casa/paço) e a esfera pública (algum pátio ou adega de feição mais popular). São eles o veículo de transição para o teatro ao ar livre, fazendo-o descer à rua ou à praça pública» in Maria Alexandra T. Gago da Câmara, Lisboa. Espaço teatrais setecentistas, Livros Horizonte, Lisboa, 1996, pp. 17-18. 34 Joaquim José Marques, Cronologia da ópera em Portugal, A Artistica, Lisboa, 1947. 35 Tra queste Le Ninfe del Tago, serenata fatta cantare il dì 27 dicembre 1723, nel Palazzo di Lisbona per il nome della Sacra Real Maestà di Giovanni V, re di Portogallo La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 47 Mário de Sampaio Ribeiro, nel suo intervento al ciclo di conferenze sulla storia del teatro portoghese tenutesi nel 1947, colloca l’esecuzione della prima opera italiana in Portogallo addirittura nella primavera del 1682, in occasione dell’incontro tra il re di Sardegna Vittorio Amedeo II e la principessa D. Isabel Luísa Josefa, dei quali era stato progettato il matrimonio. Che non si trattasse di una vera e propria opera è testimoniato dallo stesso Sampaio Ribeiro quando sostiene la mancanza di teatri e apparati attrezzati alla rappresentazione di opere di tutto punto, ma che si trattasse indubbiamente di musica italiana è innegabile, a giudicare dalle testimonianze di scherno e di riprovazione nei confronti di tale espressione musicale da parte del pubblico, il quale sembrò non apprezzare realizzazioni musicali considerate «lamuria pegada ou caramunha de criança rabugenta»36. Lo studioso continua citando O prisioneiro afortunado di Domenico Scarlatti, cantato nel 1699, e una Acis e Galatea del 22 ottobre 1711, entrambe rappresentati al Paço da Ribeira con varie repliche. Per il Marques, inoltre, si tennero quattro drammi per musica del de Almeida tra il 1733 e il 1736 (La pazienza di Socrate, La finta Pazza, Riso di Democrito, Le virtù trionfanti). È invece Teófilo Braga a riportare un esteso elenco di opere italiane eseguite in Portogallo, comprendendo anche composizioni di autori portoghesi italianizzanti rappresentate nei maggiori palcoscenici del Settecento (Teatro da Ajuda, Ópera do Tejo, Teatro da Rua dos Condes)37, ma anche in quelli regi di Queluz e Salvaterra38. (1723); Dramma Pastorale, da cantarsi nel regio Palazzo il fortunato giorno 31 Marzo, in cui annualmente si celebra l’inclita nascita della signora infanta di Spagna D. Marianna Vittoria (1726); I sogni amorosi, serenata a sei voci, fatta cantare nel Real Palazzo di Lisbona, li 22 ottobre 1728 per gli anni felicissimi della Sacra Real Maestà di Giovanni V, re di Portogallo. 36 Mário de Sampaio Ribeiro, “Teatro da Ópera em Portugal”, in A evolução e o espírito do teatro em Portugal, 2° ciclo (1ª série) de conferências promovido pelo “Século”, 1947, Lisboa, 1948, p. 80. 37 Il primo venne inaugurato il 4 novembre 1739 e diretto dall’architetto italiano Jacopo Azzolini; il secondo fu inaugurato il 31 maggio 1755 e si avvalse della collaborazione del decoratore italiano Giovanni Carlo Bibiena, mentre, prima di lui, Giovanni Berardi si occupò delle stampe dei libretti d’opera destinati al pubblico; in seguito il Bibiena verrà sostituito dallo stesso Azzolini. Il Teatro da Rua dos Condes vide la presenza costante dal 1735 della compagnia Paghetti, la quale fondò una Academia de Música in Praça da Trindade e il cui repertorio era completamente votato all’opera italiana. 38 Il Teatro di Queluz, che fu diretto dall’architetto Ignácio de Oliveira, mandato da D. João V a Roma per perfezionarsi presso i maestri Benedetto Letti e Paolo Mattei, era 48 Capitolo I Decisamente importante, inoltre, l’attività svoltasi nella già citata Ópera do Tejo, inaugurata il 2 aprile del 1755 (per altri il 31 marzo)39 con l’opera di Metastasio Alessandro nell’Indie, per la quale il maestro di equitazione Carlos António Ferreira fece muovere sulla scena ben 25 cavalli, grazie anche alle dimensioni spettacolari della sala (60 metri di lunghezza per 32,40 metri di altezza, con 38 loggioni e 600 posti in platea). Le musiche originali furono commissionate a David Perez, noto compositore napoletano giunto a Lisbona nel 1752 dietro ingaggio di cinquantamila franchi all’anno da parte del re D. José I40 (al quale lo stesso Teófilo Braga attribuisce il merito dello sviluppo e dell’apprezzamento dell’opera italiana in Portogallo almeno fino al 1778)41. Alla corte di D. José, Perez fu stimato insegnante42, con una specializzato nella rappresentazione lirica, prima di derivazione italiana, poi, su modello di quella, di provenienza portoghese. Mário de Sampaio Ribeiro spiega che «Queluz era da Casa do Infantado e no seu palácio também se representaram numerosas óperas (é notável que a grande maioria delas, de autores portugueses), mas nunca lá houve um teatro propriamente dito. Os espectáculos começaram por se realizar na “Sala de Música”, em 1761, e só em 1778, depois de D. Maria I ser rainnha, se levantou um teatro de madeira, no lugar onde se vê hoje o chamado palacete. No entanto as representações também se efectuaram em pavilhão adrede armado no parque» in A evolução e o espírito do teatro em Portugal, op. cit., p. 89. Il teatro di Salvaterra fu fondato nel 1735. 39 Cfr. Maria Alexandra T. Gago da Câmara, op. cit., p. 53. 40 «[Perez] veio para Lisboa ensinar canto às princesas, pelo que ganhava 50.000 francos por ano» in Joaquim Veríssimo Serrão, História de Portugal, vol. VI, op. cit., p. 282. 41 Cfr. Theophilo Braga, História do Teatro Portuguez. A comédia e a ópera, século XVIII, Imprenza Portugueza Editora, Porto, 1871, p. 360. 42 L’importanza del musicista napoletano emerge anche dall’epistolario metastasiano, dove troviamo due lettere indirizzate al Perez, la prima, mentre il musicista si trovava a Venezia, è datata 28 ottobre 1750 e in essa il Metastasio scrive: «si è parlato in campagna frequentemente di voi e se ne fa in teatro spessa ed onorevole menzione, nell’andar osservando le bellezze del vostro Vologeso, e nel declamare contro la svogliatezza di questo paese, orami reso insensibile a tutti gli allettamenti delle belle arti» (è la lettera n. 423 dell’edizione citata di Tutte le opere di Metastasio, p. 582). La seconda, indirizzata a Lisbona il primo ottobre 1761, è prova non solo degli stretti legami che, pur nella distanza lusitana, esistevano tra i due autori, ma anche della consapevolezza del Metastasio della fama raggiunta dalle sue opere in Portogallo: «Con quella discreta e comoda libertà che la vostra compiacenza, le mie occupazioni e le impertinenze di mia salute mi concedono, eccomi, gentilissimo signor Perez, a pagare quella specie di debito di cui mi ha caricato la vostra parziale cortesia specialmente nell’ultima obbligatissima vostra lettera dello scorso luglio, piena di mille da me non meritate affettuose espressioni. Una così dichiarata propensione d’un uomo del vostro valore ha dritto di solleticar la mia vanità, alla quale noi altre cicale di Parnaso siamo naturalmente soggette. Non ardisco di andare investigando qual sia la deità da cui mi assicurate ch’io son riguardato con fausto aspetto. Una tale scoperta potrebbe far degenerare in superbia la vanità, e la superbia in delirio, offritele voi per me i miei divoti La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 49 produzione musicale che, oltre a decine di lavori teatrali, comprendeva prevalentemente composizioni sacre. Ma la moda delle serate in musica è raccontata anche da D. Francisco Xavier de Meneses, quarto conte di Ericeira, in alcune pagine del suo celebre diario relative al biennio 1731–1733, dove l’influenza teatrale italianizzante ci viene tramandata dal racconto degli spettacoli allestiti in occasione di ricchi convivi tra nobili e interpretati da attori e da musicisti italiani presenti fin da allora in Portogallo. L’importanza di queste pagine per una visione più precisa della fortuna del teatro italiano in Portogallo è espressa anche da José da Costa Miranda quando sostiene che para uma elucidação acerca dos primórdios da implantação, nesse século XVIII, da ópera italiana em Lisboa, as anotações de D. Francisco Xavier de Meneses tornar-se-iam definitivas, possibilitando acompanhar as diligências então encaminhadas, descobrindo aspectos ou pormenores reveladores num processo inesperadamente longo: reflexo, certamente, de uma estagnação que deveria pesar sobre o espectáculo teatral, condenado a um flagrante imobilismo, alimentado por condicionalismos legais.43 Risale infatti al 6 gennaio 1733 la conferma della presenza della compagnia italiana dei Paghetti presso i salotti dell’alta società del momento, e la descrizione del clima frivolo ed esteriore caratteristico incensi ed i supplici voti miei per la continuazione di così alto ed inaspettato favore: voti ch’io mando a voi con quello stesso indirizzo che si leggeva una volta sull’ara dell’Aeropago d’Atene, cioè Ignoto Deo. L’ultima vostra lettera non trovò in Vienna il signor duca don Giovanni di Braganza, onde non ho potuto eseguire ancora la commissione di recargli i vostri complimenti, che saranno senza fallo graditi a proporzione della stima e dell’affetto con cui mi ha sempre parlato della meritevolissima vostra persona. Egli è tuttavia all’armata, dove non meno che in città, fa per consenso comune molto onore alla sua nazione. Felice voi che sotto cotesto tiepido e ridente cielo non sentite, come già noi sentiamo, le minacce del sollecito inverno, che va giò contrastando le sue ragioni al povero autunno con apparenze di rimanere vincitore. Dopo trenta e più anni di soggiorno in questo clima non solo l’ostinato suo rigore non mi divien famigliare, ma sempre mi sorprende al suo ritorno con tutte le grazie della novità. Se il signor baron d’Ortigosa ingrassa ancora sulle sponde del Tago, non trascurate di riverirlo ed abbracciarlo per me prendendo della sua circonferenza quanto è permesso alla corta misura delle vostre braccia. Addio, caro signor Perez, non vi stancate di amarmi e di credermi con esemplare ostinazione…» in Ivi, vol. IV, pp. 229-230. 43 José da Costa Miranda, D. Francisco de Meneses, As Aves Muzicas: uma silva jocoséria, documento curioso sobre os primeiros tempos da ópera em Lisboa, Separata do “Boletim de filologia”, tomo XXIX, p. 282. Capitolo I 50 degli incontri di un’aristocrazia che ormai faticava ad allontanare da sé l’ombra delle nuove idee illuministiche44: Continuam com grande aplauso e concurso as duas musicas Italianas filhas do Paquete que se mudam para melhores casas a boa vista e também duram os bailes e serenatas45. Altri due resoconti (rispettivamente del 10 marzo e del 13 ottobre 1733) confermano ulteriormente la tesi circa l’atmosfera italianizzante diffusa e assunta inizialmente come scelta di rango e sinonimo di sensibilità raffinata al passo con le più aggiornate correnti europee. Due annotazioni del conte di Ericeira che testimoniano non solo l’opzione a favore della musica italiana in generale, ma anche la mondanità di tali aristocratici convivi, in sintonia con l’individuo portoghese del Settecento che, come ha sostenuto lo studioso di teatro José Oliveira Barata, «exteriorizava na festa não o que de facto era mas sim o que gostaria de ser [e que] através da “representação” procura preencher o horror vacui»46: A senhora Dona Ana de Moscovo convidou 40 Senhoras em Domingo 8 para ouvirem Muzicas Italianas, e estava a casa muito alumiada com muitos, e bons instrumentos e refresco muito abundante, durou a festa até uma hora da noite, e no mesmo algumas Senhoras que não foram convidadas estiveram numa quinta de Belém com musica e merenda em que entrou a Senhora Condessa de Vila Nova e a sua família47. 44 È Teófilo Braga a spiegare il crescere vertiginoso della moda teatrale nel XVIII secolo, nelle sue forme più spettacolari, sontuose, esteriori, in termini strettamente politici, nel tentativo di «não deixar chegar aos ouvidos do povo o rumor da Revolução» (in Theophilo Braga, op. cit., p. 4), da cui la sontuosità degli scenari ordinata da D. João V che, almeno in questo modo, costruiva di sé un ideale di potenza e magnificenza, benché il tutto poi, afferma ancora Teófilo Braga, si stemperasse in meschini intrighi dietro le quinte tra dilettanti di teatro presuntuosi e i cosiddetti “castrati” italiani molto in voga all’epoca. 45 D. Francisco Xavier de Meneses, 4° Conde de Ericeira, Diário (1731-1733), apresentado e anotado por Eduardo Brazão, Separata de “Biblos”, vol. XVIII, Coimbra Editora, Coimbra, 1943, p. 129. 46 José Oliveira Barata, História do Teatro Português, Universidade Aberta, Lisboa, 1991, pp. 208-209. 47 D. Francisco Xavier de Meneses, op. cit., p. 147. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 51 Quarta-feira principiam as serenatas das musicas Italianas de Paquete com mais instrumentos na casa da Trindade de Rodrigo de Sousa48. La presenza di attori francesi ed italiani in territorio portoghese era quindi una delle conseguenze dell’inizio di una campagna di reazione al secentismo barocco (spagnolo soprattutto) a livello culturale, prima ancora che a livello politico. Tale dichiarazione d’intenti, latentemente manifestata dall’assenza di attori e autori castigliani, portò a quella che Duarte Ivo Cruz definì “mistura di ingredienti francesi ed italiani”, impedendo quindi il risvegliarsi di un teatro originale portoghese di ampio respiro. La tesi politica di una preferenza francese ed italiana come reazione al centralismo della corte di Madrid è certamente condivisibile sul piano delle strategie messe in atto sia da D. João V, il quale rispose all’insufficienza dei palchi improvvisati di Lisbona con la costruzione del Teatro da Ajuda come teatro lirico stabile, sia dal marchese di Pombal, il quale permise la circolazione dei libretti teatrali in gran numero, grazie all’attenuazione dell’attività censoria nei confronti di testi che solo un secolo prima campagne puritane svoltesi in molte parti d’Europa avrebbero cassato come luogo di corruzione e deviazione delle anime. Nella sua Introdução à História do Teatro Português, Duarte Ivo Cruz esemplifica tali concetti illustrando la fortuna di cui godette non solo il Teatro da Ajuda (in attività fino al 1868), ma anche il Teatro di São Carlos, dove ebbe inizio il filone aristocratico della moda operistica, l’Academia da Trindade (fondata nel dicembre del 1735), spazio privilegiato per la rappresentazione di un teatro di carattere più popolare, il Teatro da Rua dos Condes e il Teatro do Salitre49. A sostegno di tale affermazione, interviene anche Giuseppe Carlo Rossi, il quale, in un suo testo del 1967, sosteneva che, mentre la prima metà del Settecento portoghese aveva utilizzato il teatro italiano solo con intenti di natura letteraria, viceversa nella seconda parte e fino al primo Ottocento si assiste ad un’interpretazione e ad un uso di tale teatro in chiave psicologico–politica, ossia come strumento di cui avvalersi per 48 Ivi, p. 190. Duarte Ivo Cruz, Introdução à História do teatro Português, Guimarães Editores, Lisboa, 1983, pp. 89-90. 49 52 Capitolo I propugnare la ribellione all’assolutismo di ogni sorta, politico o religioso che fosse50. È chiaro che il rallentamento forzato che seguì al terremoto di Lisbona del 175551 segnò inevitabilmente una battuta d’arresto allo svolgersi delle rappresentazioni teatrali di qualsiasi genere. Ciò che accadde il primo novembre 1755 sconvolse a tal punto la capitale portoghese da essere ricordato durante i secoli a venire. Il tremendo terremoto fece allora da spartiacque tra un prima e un dopo nell’allestimento delle rappresentazioni teatrali, tanto è vero che, come ribadiscono studiosi quali Manuel Carlos de Brito52 o Maria Alexandra Gago da Câmara, si assistette ad un drastico arresto delle rappresentazioni drammatiche, riprese solo dopo il 1763. Si ebbe in effetti la sola esecuzione di un Siroe metastasiano e di un Solimano musicati da David Perez e rispettivamente messi in scena nel 1756 e nel 1757 al Real Teatro de Salvaterra, oltre ad un Enea in Italia nel 1759, sempre con musiche del Perez, presso il Real Teatro da Corte. Nonostante l’importanza e l’influenza di tale genere di intrattenimento fosse profondamente radicata presso la società portoghese dell’epoca, ci fu, in sostanza, un crollo drastico. Inoltre, dopo il terremoto e fino alla costruzione del teatro nazionale di São Carlos, che diverrà il centro diffusore della cultura operistica in 50 Cfr. Giuseppe Carlo Rossi, La letteratura italiana e le letteratura di lingua portoghese, Società Editrice Internazionale, Torino, 1967, p. 73 51 L’eco della calamità occorsa il primo novembre 1755 è anche in una lettera del Metastasio indirizzata a Carlo Broschi, detto il Farinello, allora a Madrid. In essa il Metastasio esprime tutta la sua desolazione per la catastrofe, con la tipica scrittura tragico–patetica ricca di accorate esclamazioni: «Oh quanti moti e di quanto diversa specie mi ha sollevati nell’animo, caro gemello, l’ultima vostra gratissima lettera del 10 scorso novembre! Amore, tenerezza, confusione, riconoscenza, terrore, ammirazione, e mille altri che si sentono ma non si possono esprimere. Io ho provato nel mio interno tutto lo sconvolgimento della infelice Lisbona. Che orrore! Che flagello! Che miseria! Povera umanità!» in Metastasio, op. cit., p. 1075. 52 «Com o terramoto de 1755 dá-se um hiato de uns nove anos na actividade operática da corte, que virá a ser retomada numa escala um pouco mais modesta, pelo que se refere sobretudo aos cantores e aos teatros, embora o repertório fosse prefeitamente actualizado em relação ao que se produzia em todos os restantes teatros italianos da Europa» in Manuel Carlos de Brito, op. cit., p. 78. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 53 Portogallo nel XIX secolo, alla distruzione del Teatro do Paço da Ribeira sopravvissero solo gli edifici del Teatro do Salitre, del Teatro do Bairro Alto (che già dal 1733 aveva portato sulle scene il teatro delle marionette di António José da Silva) e del Teatro da Rua dos Condes53, che tuttavia non riuscirono ad assolvere con la medesima importanza il ruolo di fulcro della cultura teatrale che il Paço da Ribeira pomposamente aveva rappresentato, e che il Marques aveva descritto come “templo da arte”: Cantaram-se apenas quatro óperas, neste singular teatro, mas, com tal explendor e riqueza artística, que eclipsou quanto havia de maravilhoso e surpreendente em todos os teatros da Europa. O teatro dos Paços da Ribeira era o primeiro teatro lírico da Europa! Nem os afamados teatros de Florença, Nápoles, Berlim, Milão e Madrid, podiam ter comparação com o majestoso teatro de Lisboa, segundo o testemunho dos historiadores e viajantes do século passado!54 Un’ulteriore testimonianza della mediocrità della produzione teatrale portoghese posteriore al terremoto è in alcune missive scritte nel 1784 da un anonimo viaggiatore francese (fig. 8). La sedicesima lettera è infatti dedicata ai divertimenti più in voga in Portogallo e contiene passaggi eloquenti sulla realtà teatrale lusitana, descritta secondo un giudizio di fondamentale disapprovazione, sia per lo stato in cui versavano gli edifici destinati alle rappresentazioni, sia per la 53 «Os memorialistas que dele falam dizem-no uma espelunca, não obstante seus três andares de camarotes, além das “forçuras”, antiga designação das frisas. Apesar das suas deficências, quando se fundou a “Sociedade para a substistência dos teatros públicos da corte”, foi destinado para o exclusivo das óperas e comédias Italianas», così in Mario de Sampaio Ribeiro, “Teatro de Ópera em Portugal” in A evolução e o espírito do teatro em Portugal, op. cit., p. 84. 54 Joaquim José Marques, Cronologia da ópera em Portugal, A Artística, Lisboa, 1947, p. 97. 54 Figura 8. (BN, F. 1245). Capitolo I La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 55 qualità degli attori, poco alfabetizzati e di scarso talento, recuperando per meriti e valore solo la competenza di orchestre e danzatori: Dos Theatros Portugueses, no Reino, só há fixos, e estaveis em Lisboa, e no Porto. A Arquitectura, e fabrica d’estes Theatros, he mizerrima, e muito peior que a dos Theatros Francezes, contra cuja mesquinhez tanto chamou o nosso Voltaire. Os seos Actores, e Comediantes são todos gente de baixa plebe, sem sombra de instruição alguma. Apenas sabem ler, e por isso são lamentaveis os papeis que apparecem no Theatro Potuguez, no genero tragico, e no alto Comico. Em vão procurareis aqui os Barons, os Champmeles, as Couvreiers, as Clauiroces, e outros brilhantes adornos da nossa scena. Os Comicos Portuguezes, no Serio, e Sublime, ou fazem rir, ou dormir. Porém em huma coiza nos levão vantagem os Portuguezes, e hé na excelente Orquestra dos seos Theatros. Já vos disse, que a Nação Portugueza era imminente na Muzica, assim vocal, como instrumental. Com effeito só pelas agradaveis e bem executadas simphonias, e aberturas dos Theatros Portuguezes, se fasem elles tolleraveis. O mesmo vos digo das Danças, e Pantomimas, em que esta Nação he inimitavel. As Pessoas que se representão, são quasi todas traduzidas dos Tragicos e Comicos da França, Italia e Castelha. Porém que mizeraveis, e pessimas as tradusoens! Succedeome ver representar aqui algumas Pessas de Voltaire, Methastasio, Goldoni que tinha lido nos originaes, e não as conhecer, senão depois de me dizerem, que erão aquellas. Quasi todas estas Pessas, dizem no frontispicios “traduzida, segundo o gosto do Theatro Portuguez” o que consiste unicamente em lhe imbutirem, se são Tragedias, ou Operas, dois ridiculos buffoes ou graciosos que dizem mil sensaborias, e frivolezas, com que fazem perder ao drama muita parte do seu interesse e viveza55. Dodici anni più tardi, J.B.F. Carrère compone un Panorama de Lisboa con parole del medesimo calibro di quelle espresse dal viaggiatore francese del 1784, descrivendo la situazione riscontrata nel Teatro da Rua dos Condes (che lo stesso Mário de Sampaio Ribeiro definì «teatro sórdido e lúgubre onde tudo estava subordinado ao constante avolumar dos lucros de empresários pouco escrupolosos»)56 e in quello di São Carlos, in questi termini: Lisboa possui dois teatros: um, destinado às comédias portuguesas; o outro, reservado à ópera italiana. A sala do primeiro é estreita, apertada, decorada com mau gosto: a do segundo é mais ampla – foi construída recentemente à 55 56 Cartas de hum Viajante Francez, op. cit., pp. 76-77. Mario de Sampaio Ribeiro, op. cit., p. 90. Capitolo I 56 custa de uma sociedade. A comédia portuguesa é detestável, a ópera italiana tem um elenco muito bom […] Os actores são maus e o guarda-roupa é bom. As danças e a música são óptimas e constituem os excelentes intermédios que oferecem os dois teatros de Lisboa. Ali se dão muito bons espectáculos de ópera italiana, além dos do teatro do rei, que possui o melhor elenco da Europa. Os actores não sabem declamar e o tom da voz é constante e, portanto, monótono. Os cantores do teatro do rei como os do teatro público são castrati. Em Portugal o estudo da música é muito cultivado e com verdadeiro êxito. Existem excelentes compositores, boa escola e muito belas vozes. As modinhas deliciam não só os nacionais mas tembém os estrangeiros […] O povo dança o fofa, ou a chula, cujo movimentos são lúbricos e, consequentemente, indecentes, motivo por que toda a mulher honesta se recusa a assistir a tais danças57. Anche Carrère conferma più avanti, a proposito della proliferazione impressionante di libretti e argomenti d’opera, la pessima qualità delle traduzioni portoghesi, definite mutilazioni degli originali rese ancor più incomprensibili dal successivo esame censorio58. Dello stesso tono è l’impressione suscitata dagli spettacoli teatrali nel conte di SaintPriest, giunto in terra lusitana al seguito delle truppe francesi che aiutarono gli spagnoli nell’occupazione del Portogallo. Vi si recò nel 1762 raccontando nei suoi Mémoires dell’allestimento di uno spettacolo in ambiente aristocratico, durante il quale venne inscenato il Mahomet di Voltaire e L’Epreuve di Marivaux. Il Saint-Priest ci lascia traccia di quanto ormai fosse diffusa la moda teatrale fra le classi di alto rango, le quali si dilettavano ad interpretare personalmente ruoli teatrali con scarsa competenza: O conde de Lavrian, ministro plenipotenciario da Sardenha, lembrou-se de organizar, entre os ministros estrangeiros, um espectáculo. Pela minha parte acedi da melhor vontade e montámos um teatro em casa do embaixador de Espanha, que então estava ausente. Escolhemos a tragédia de Voltaire Mahomet e por complemento L’Epreuve de Marivaux. O papel de Mahomet foi-me distribuído, assim como o de Pasquino na segunda peça. Para o papel de Palmira convidáramos uma rapariga francesa que tinha talento. Aliás, a nossa platéia não era muito exigente, composta, como foi, por tudo o que havia de mais distinto nos dois sexos da corte portuguesa. Depois do 57 J.B.F. Carrère, Panorama del Lisboa no ano de 1796, trad. pref. e notas de Castelo Branco Alves, Biblioteca Nacional, Série Portugal e os Estrangeiros, Lisboa, 1989, p. 42. 58 Cfr. Ivi, p. 112. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 57 espectáculos todos os assistentes foram convidados para uma ceia em minha casa, à qual se seguiu um baile que durou toda a noite59. Ma particolarmente rilevante è un altro passaggio del Saint-Priest, relativo al teatro di corte di Queluz: Os ministros estrangeiros eram convidados para a ópera italiana da corte, sem que tivessem ali lugar marcado. O cardeal-patriarca nunca faltava aos espectáculos, assistindo em camarote privativo para ele e sua comitiva. A música era perfeita, os actores italianos e os papeis femininos desempenhados por castrados. Escolhiam-se os mais jovens e os mais bonitos e, no palco, a ilusão era completa. O rei fazia uma grande despesa a contratar na Itália artistas distintos, donde resultava que a ópera era excelente. Os bailados é que não correspondiam e os homens dançando disfarçados em mulheres davam uma ilusão menos favorável. No meu tempo, o primeiro dançarino era cego. Acostumavamo-nos a ver a medida dos seus passos regulada pelas proporções do palco. O príncipe D. Pedro, irmão e genro do rei, oferecia-lhe, bem como à rainha e às suas filhas, uma ou duas festas por ano na sua casa de campo em Queluz, distante uma lêgua de Lisboa. O corpo diplomático era convidado e a rainha e suas filhas cantavam para a assistência. A segunda destas princesas tinha uma voz encantadora e possuía uma excelente escola. As outras irmãs não tinham talento notável e a rainha, que estava velha, cantava muito alto e desafinada, o que não impedia que fosse admirada e cumprimentada. O concerto durava pelo menos três horas e havia que o escutar de pé, pois na sala só havia cadeiras para a família real. Os senhores portugueses para descansarem apenas podiam ajoelhar. Quanto a mim, quando me sentia cansado, ia sentar-me, sem cerimónias, no chão da antecâmara. Nesta corte, como na de Espanha, não se conhece o que sejam cadeiras nas salas, e talvez, por isso notei que os velhos servidores tinham ali, mais que noutros países, as pernas tortas60. Alcuni grafici relativi all’attività teatrale che abbiamo ricavato dalle nostre ricerche, supportati da alcuni testi di base quali la História do Teatro Portuguez di Teófilo Braga (1871), la cronologia operistica del Marques (1947), gli studi di Manuel Carlos de Brito (1989) e il testo sugli spazi teatrali di Maria Trindade Gago da Câmara (1996), che tra l’altro hanno contribuito alla formulazione dell’elenco delle rappresentazioni contenuto nell’Appendice Cronologica in fondo al 59 Portugal nos Séculos XVII & XVIII. Quatro testemunhos, apr. trad. e notas de CasteloBranco Chaves, Lisóptima Edições, Lisboa, 1989, p. 152. 60 Ivi, pp. 155-156. Capitolo I 58 volume, illustrano in un arco temporale che va dal 1728 al 1808 il grado di proliferazione e l’attecchimento del teatro nostrano in Portogallo con maggiore chiarezza. Dal punto di vista delle singole strutture, ciò che emerge da un’analisi dell’andamento della distribuzione delle rappresentazioni teatrali nei vari teatri di corte e pubblici è un netto superamento delle rappresentazioni private rispetto agli spettacoli ad affluenza popolare, in un rapporto di 200 a 98 che indica senz’altro come la diffusione della moda operistica di matrice italiana abbia subìto un processo di affermazione dall’alto verso il basso, si sia cioè imposta a partire dagli ambienti nobiliari e, conseguentemente, tra il popolo: 70 61 60 57 52 44 50 teatro di corte teatro pubblico 40 30 20 10 17 11 11 1 12 9 11 3 3 6 0 T. do Paço da Ribeira Academia da Trindade T. nas Hortas do Conde T. Novo da Rua dos Real Teatro da Corte T. do Bairro Alto Real Teatro de Salvaterra T. do Salitre Real Teatro da Ajuda Opera do Tejo Real T. da Corte - Casa da T. de S. Carlos T. de Queluz Real Camara n° delle rappresentazioni Attività teatrale per singole strutture 1728-1808 luoghi delle rappresentazioni La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 59 Dal punto di vista dell’evoluzione dell’attività teatrale, nell’arco degli ottanta anni preso in esame, possiamo osservare con chiarezza come gli effetti dell’inclinazione per le arti e per le lettere tipica dei regni di D. João V prima, e di D. José I successivamente, abbia influito sul progredire del numero delle rappresentazioni teatrali in generale, grosso modo in costante aumento fino al 1773, per poi subire una prima fase di drastico declino da attribuirsi all’intransigente politica antilluminista ed antipombalina dei primi anni del regno di D. Maria I, in particolare tra 1777 e 1782, ed una seconda fase di arresto sul finire del secolo, per naturale esaurimento di una moda ormai abusata e superata dai primi giovani impeti preromantici: n° delle rappresentazioni Evoluzione dell'attività teatrale 1728-1808 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 1728 1738 1748 1758 1768 1778 1788 1798 1808 asse temporale Infine, e ad ulteriore riprova di quanto sostenuto più sopra, ossia, per ciò che riguarda la nostra affermazione di una prevalenza delle rappresentazioni in ambito nobiliare rispetto agli eventi a partecipazione pubblica, i grafici seguenti mostrano esattamente questa discrepanza, benché non molto accentuata, nel corso del secolo preso in considerazione. Per cui, mentre il teatro di corte registra due picchi di concentrazione degli allestimenti intorno al 1751–1755 e verso il 1783, il teatro con target popolare dimostra di essersi sempre Capitolo I 60 mantenuto stabile su valori medi e medio–bassi, con tre picchi significativi: nel 1737, dato che gli anni Trenta del Settecento costituiscono la prima grande ondata d’ingresso in Portogallo di opere italiane; nel 1773, cioè una generazione dopo il disastroso terremoto del 1755, presumibilmente il tempo occorso per la ricostruzione della città; e intorno al 1791, successo di fine secolo e sorta di canto del cigno della voga italianizzante nella letteratura drammatica portoghese: Tipologia delle rappresentazioni teatrali n° delle rappresentazioni Teatro di corte 1728-1808 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 1728 1738 1748 1758 1768 1778 asse temporale 1788 1798 1808 La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 61 n° delle rappresentaz Teatro pubblico 1728-1808 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 1728 1738 1748 1758 1768 1778 1788 1798 1808 asse temporale Ma l’aspetto che qui ci interessa analizzare, nonostante la prevalenza delle rappresentazioni italianizzanti più o meno fedeli destinate al teatro di corte che emerge da questi grafici, è il vastissimo corpus di opere metastasiane adattate al gusto portoghese che possiamo annoverare tra la literatura de cordel e cioè non tra le opere dei letterati, ma tra la produzione di traduttori frettolosi che diedero il via ad una serie di edizioni poco curate a vari livelli (grafico, contenutistico, di riconoscibilità del testo di partenza, ecc.) e pensate unicamente per riscuotere successo di pubblico. Un’efficace descrizione di cosa fu il teatro de cordel è nella História de Portugal di Damião Peres, il quale lo descrive constituído pelas numerosas peças que, uma vez representadas, eram impressas e vendidas pelas ruas ou à portas das lojas, atadas num cordel […] apregoadas pelos cegos e outros bufanheiros61. Del resto, una traccia della consapevolezza di questa sorta di omologazione alle caratteristiche della cultura ricevente che è l’adattamento al gusto portoghese emerge in qualche modo anche 61 Damião Peres, História de Portugal, vol. IV, Portucalense, Porto, 1928-1954, p. 487. Capitolo I 62 dall’epistolario metastasiano, in particolare da una lettera indirizzata a Giovanni Ambrogio Migliavacca del 13 gennaio 1755: L’Ezio quest’anno fa fortuna. Il re di Portogallo vuol vederlo sul nuovo suo teatro, ha voluto ch’io a quest’uso lo accorci e lo guernisca d’una picciola «licenza» nel fine: e per questa leggierissima cura, che non merita il nome di lavoro, mi ha fatto dono d’un’argenteria, ricca di quanto esige il bisogno ed il lusso d’una tavola elegante di dodeci persone, la munificienza è veramente reale, ed io non posso mostrarne maggior gratitudine che pubblicandola62. Questa attività dell’accorciare e del guernire, che in parte lascia presagire il lavoro ben più oneroso della riscrittura creativa tipica degli adattamenti portoghesi che subirà il teatro di Metastasio, viene descritta come intervento che non meriterebbe nemmeno la designazione di lavoro, salvo poi precisare all’amico Giuseppe Bonechi la difficoltà dell’aggiustamento di un’opera quando non se ne conosca esattamente l’uso, ossia l’occasione prescelta da colui che Metastasio definisce “generoso monarca”: Da questo ministro portoghese mi fu ordinata una «licenza» per l’Ezio: ma non poté egli dirmi a qual solennità se ne destinava la rappresentazione: onde io fui costretto ad evitare ogni espressione che ne determinasse l’uso più ad uno che ad un altro giorno. Parla in essa il profondo rispetto del riverente scrittore: e ciò ch’ei dice è per qualunque stagione63. E il riferimento a questo “riadattamento” dell’Ezio da parte dell’autore stesso, un’azione che potremmo definire di legittimo adattamento al gusto portoghese, ovviamente priva di travestimento comico, è anche in una corrispondenza del 13 gennaio 1755 indirizzata ad Antonio Tolomei, nella quale il Trapassi sottolinea ancora una volta la felice sorpresa per l’argenteria ricevuta in dono dal re portoghese a pagamento dell’opera: La maestà fedelissima del re di Portogallo vuol che si rappresenti il mio Ezio nel nuovo suo teatro, ed io per suo ordine l’ho un poco scorciato e dotato d’un breve complimento nel fine che noi chiamiamo «licenza». Per così picciola cura, che non giunge alla graduazione di lavoro, mi ha fatto dono d’una argenteria che contiene quanto esige il bisogno e il lusso di una tavola 62 63 Metastasio, op. cit., p. 980. Ivi, p. 1015. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 63 elegante. Pregate il Cielo che il re cristianissimo, in contrassegno di gradimento di qualche condescendenza delle mie muse, mi mandi un de’ suoi cuochi, e poi venite a Vienna, e sarete da me servito in Apolline64. Nonostante il nostro interesse si focalizzi prevalentemente sugli adattamenti dell’opera metastasiana, occorre sottolineare che tutto il corpus di testi portati alla luce dalle strutture lisbonesi più fornite in questo senso, la Biblioteca Nazionale e l’archivio della Fondazione Calouste Gulbenkian su tutte, è costituito da esemplari in lingua originale, così come da traduzioni fedeli, partiture musicali e disegni di scenari, di molti altri autori del nostro teatro settecentesco. Per quanto riguarda la Biblioteca Nazionale, oltre a due opere di Pietro Chiari65 e al Della ragion poetica del Gravina66, vi sono anche testi del Goldoni in traduzione portoghese e francese, e dell’Alfieri, che, sia in lingua originale che in traduzione, è per lo più presente con copie edite in Francia. L’archivio della Biblioteca de Arte della Fundação Calouste Gulbenkian dispone, a sua volta, di una discreta quantità di opere catalogate come teatro de cordel e comprendente 31 adattamenti di Metastasio e 15 di Goldoni, oggi integralmente consultabili on line67. Tra questi si segnala l’edizione in lingua italiana del metastasiano Alessandro nell’Indie (1755) per l’accuratezza dell’edizione, che si giustifica ovviamente con la sua destinazione agli ambienti di corte, e le due edizioni (1787 e 1788) de La bella selvaggia di Goldoni, a cui José Mascarenhas ha recentemente dedicato un ampio studio di analisi68. Inoltre, da una pubblicazione 64 Ivi, p. 979. L’amore senza fortuna o sia memorie d’una donna portoghese scritte da lei medesima, pubblicate dall’abate Pietro Chiari, Firenzi, a spese del Colombani, 1765, 2 tomi, (BN RES. 6325//1 P); Farsa em muzica intitulada O Maerquez de Tulipano ou O cazamento inesperado [manoscritto], 8 marzo 1791, 21 f., teatro in 2 atti, in verso, traduzione di “Il Marchese Tulipano ossia Il Matrimonio inaspettato”, pubblicato a Lisbona, off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1740, ed. bilingue portoghese-italiano, rappresentato nel Teatro da Rua dos Condes nel 1790, con musica di Paisiello, copia autografa di António José de Oliveira (BN F.R. 804). 66 Gianvincenzo Gravina, Della ragion poetica libri due, Napoli, presso il De Bonis, 1731, 1 v. (BN L. 2052 P.). 67 Ai documenti catalogati come teatro de cordel si può accedere dal sito: http://www.biblarte.gulbenkian.pt 68 José Mascarenhas, La bella selvaggia de Carlo Goldoni na versão setecentista de Nicolau Luiz da Silva, prefácio de A. Ventura, Lisboa, Edições Colibri, 2003. 65 64 Capitolo I di José da Costa Miranda69, già citato come eminente esperto di influenze italiane nella letteratura portoghese, si ricavano preziose informazioni sugli esemplari conservati in altre strutture e istituzioni portoghesi, quali la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Lisbona, l’archivio generale dell’Università di Coimbra e, soprattutto, la Biblioteca da Ajuda70. In quest’ultima struttura trovarono accoglimento libretti di drammi per musica e partiture manoscritte di paternità goldoniana, benché sotto nome arcadico di Polisseno Fegejo. Ma si potrà comprendere con maggiore chiarezza quanto finora sostenuto, esaminando il seguente elenco, relativo a tutti i testimoni legati al teatro italiano del Settecento tuttora presenti in Portogallo. Testi in lingua italiana 1) Alessandro nell’Indie, dramma per musica, Napoli, 1 v., 1732 (BN L. 5268 P.). 2) La Nitteti, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro dell’Ajuda, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1740, 85 pp. (BN L. 5616//4 P.). 3) La clemenza di Tito, dramma per musica da rappresentarsi nell’estate dell’Anno MDCCLV sul gran Teatro nuovamente eretto alla Real Corte di Lisbona, per festeggiare il felicissimo giorno natalizio di sua maestà fedelissima D. Giuseppe Primo, Re di Portogallo, la poesia è del celebre Sig. Ab. Pietro Metastasio, la musica è del Sig. Antonio Mazzoni, Lisbona, nella Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, 52 pp., con 8 stampe che mostrano gli scenari del libretto (BN M. 382 P.). 69 José da Costa Miranda, Teatro italiano, manuscrito (século XVIII): sobre alguns textos existentes em bibliotecas e arquivos portugueses, separata do “Boletim da Biblioteca da Universidade de Coimbra”, vol. XXXIII, Coimbra, 1976. 70 All’interno del Catálogo de Música Manuscrita della Biblioteca da Ajuda sono comprese 17 opere del Goldoni e 23 partiture relative che, per ragioni di spazio, qui non verranno citate per esteso. La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 65 4) Alessandro nell’Indie, dramma per musica da rappresentarsi nel gran teatro… alla Real Corte di Lisbona nella Primavera dell’anno MDCCLV, Pietro Metastasio Romano, musica di David Perez, Lisbona, nella Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, 53 pp., con 9 stampe che rappresentano gli scenari del libretto (BN F. 8404). 5) Alessandro nell’Indie, dramma per musica da rappresentarsi nel gran teatro nuovamente eretto alla Real Corte di Lisbona, nella Primavera dell’anno 1755 per festeggiare il felicissimo giorno natalizio di sua maestà fedelissima D. Maria Anna Vittoria […], Lisbona, nella Regia Stamperia Sylviana, e dell’Academia Reale, 1755, 66 pp. (FCG TC 771). 6) Amor contadino, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo Pastor Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnovale dell’anno 1764, Lisbona, nella Stamperia Ameniana, 69 pp. (BAC E 803 D/52). 7) L’Arcadia in Brenta, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo Pastore Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnovale dell’anno 1764, Lisboa, nella Stemperia Ameniana, 77 pp. (BAC E 803 D/53). 8) Semiramide riconosciuta, dramma per musica da rappresentarsi nel nobil Teatro del Bairro Alto, Metastasio, musica di David Perez, Lisbona, Stamperia di Pietro Ferreira, 1765, 133 pp. (BN M. 117 P.). 9) La calamità de’ cuori, dramma giocoso per musica da recitarsi nel Teatro da Rua dos Condes nel anno del 1766, Lisbona, nella Stamperia di Pietro Ferreira, Impressore de la F.R.N.S., 79 pp. (UC Misc. DCIII n. 9723). 10) La cascina, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo Pastore Arcade da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel carnovale dell’anno 1766, Lisbona, nella Stamperia di Michele 66 Capitolo I Marescal da Costa, Impressore del Sant’Offizio, 78 pp., musica di Giuseppe Scolari (UC Misc. DLXVI n. 9503). 11) Notte critica, dramma giocoso per musica di Polisseno Fegejo P. A. Da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnevale dell’anno 1767, Lisbona, nella Stamperia di Michele Marescal da Costa, Impressore del S. Offizio, 98 pp., musica di Niccolò Piccinni (UC Misc. DLXIX n. 9538). 12) Il viaggiatore ridicolo, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel Teatro del Bairro Alto di Lisbona, nell’estate del corrente anno, poesia del rinomato avvocato Carlo Goldoni, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1770, 72 pp. (BAC E 803 D/80 e BN L. 5392//1 P). 13) La clemenza di Tito, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro dell’Ajuda, poeta abate Metastasio, musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1771, 75 pp. (BN L. 5615//5 P.). 14) Semiramide, dramma per musica, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1771, 72 pp. (BN L. 24492 P.). 15) Ezio, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro dell’Ajuda, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1772, 74 pp. (L. 5615//7 P.). 16) La betulia liberata, dramma sacro del Sig. Abate Pietro Metastasio, Lisbona, nella Stamperia Reale, 1773, 40 pp. (BN L: 5619//2 P.). 17) La Fiera di Sinigaglia, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel Real Teatro di Salvaterra nel Carnevale del 1773, Lisbona, nella Stamperia Reale, 66 pp., musica di Domenico Fischietti (UC Misc. DLXVIII n. 9524). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 67 18) L’Olimpiade, dramma per musica, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, Lisbona, nella Stamperia Reale, 1774, 88 p. (BN 5616//5 P.). 19) Il trionfo di Clelia, dramma per musica, poesia dell’Abate Metastasio, musica di Jommelli, Lisbona, nella Stamperia Reale, 1774, 70 pp. (BN L. 57485 P.) 20) Demofoonte, dramma per musica da rappresentarsi nel Real Teatro dell’Ajuda, poeta Abate Metastasio, musica di Jommelli, in Lisbona, nella Stamperia Reale, 1775, 88 pp. (BN L. 5615//6 P.). 21) L’Arcifanfano, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel Teatro di Rua dos Condes dedicato al molto illustre Sig. David Perez Maestro rinomatissimo di musica all’attual servizio di S. M. Fedelissima, Lisbona, nella Stamperia di Pietro Ferreira, Impressore de la F.R.N.S., 1778, 116 pp. (UC Misc. DLXXIII n. 9593). 22) Pietro Metastasio, La Passione di Gesù Cristo Signor Nostro, oratorio sacro da cantarsi nella Casa dell’Assemblea delle Nazioni Straniere la notte del 28 marzo 1786, musica di Niccolò Jommelli, nella Stamperia Reale, Lisbona, 1786 (BN L. 5392//3 P). 23) Antigono, dramma per musica, Il Natale di Giove, cantata, 17--, 1 v. (BN L. 5268 P.) 24) Catone in Utica, dramma per musica, Il Ciro riconosciuto, 17-(BN L. 5268 P.). 25) Il Demetrio, La Didone abbandonata, Il Demofoonte, L’Ezio, Il Giuseppe riconosciuto, La passione di Gesù Cristo, 17--, 1 v. (BN L. 5269 P.). 26) Vittorio Alfieri, Tragedie, Parigi, presso Aut. Ag. Renouard, 1806, 6 v. (BN L. 5242 P. – L. 5247 P.). 27) Vittorio Alfieri, Tragedie, terza edizione lucchese, Lucca, Tipografia di Francesco Bertini, 1817, 2 v. (BN L. 8072 P.). 68 Capitolo I Testi a stampa in traduzione portoghese monolingue 1) Alexandre na India, drama para a musica para se representar em Lisboa, do Senhor Pedro Metastasio, música de Caetano Maria Schiassi, Lisboa, 1736 [?], 11 pp. (BN F. 6812). 2) Demetrio, drama para musica do Senhor Abbade Pedro Metastasio, musica do Senhor Caetano Maria Schiassi, em Bolonha, na Estamparia de Joseph Lonje, 1739, 144 pp. (BN L. 5619//5 P.). 3) Antigono em Thessalonica, Abbade Pedro Metastasio, trad. Fernando Lucas Alvim, Lisboa, Off. Patriarcal F.L. Ameno, 1755 (BN L. 46241//1 P.). 4) O pai de familias, comedia em tres actos, Off. de Manoel Coelho Amado, 1755, 46 pp. (BN H.G. 6671//9 V.). 5) Comedia A mais heroica virtude, ou Zenobia em Armenia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora novamente traduzida , e accrescentada, segundo o gosto do Theatro Portuguez, no anno de 1755, 34 pp. a 2 col. (FCG TC 652). 6) Mais vale amor do que hum reyno: opera Demofoonte em Tracia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. Manoel António Monteiro, 1758, 38 pp. (BN L. 46946 P.). 7) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio [sic], Lisboa, Off. de Manoel Antonio Monteiro, 1758, 36 pp. a 2 col. (FCG TC 12). 8) Mais vale amor do que hum reino, Opera Demofoonte em Tracia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora novamente traduzida, accrescentada, e disposta segundo o gosto do Theatro Portuguez, para se representar no Arrayal de Nossa La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 69 Senhora do Cabo, nas festas do Cirio de Lisboa, anno de 1753, Lisboa, Off. de Manoel Antonio Monteiro, 1758, 32 pp. a 2 col. (FCG TC 743). 9) A clemencia de Tito, opera composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de Manoel Antonio Monteiro, 1761, 23 pp. a 2 col. (FCG TC 88). 10) Abbade Pedro Metastacio, Linceo e Ipermestra, trad. por***, Of. De Francisco Luís Ameno, Lisboa, 1761 (BN L. 47000 P). 11) Opera nova intitulada Vencer-se he mayor valor, traduzida do Italiano em o Portuguez idioma, e ornada ao gosto dos Lusitanos Theatros, por M.C. de M.M., Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1764, 48 pp. a 2 col. (FCG TC 224). 12) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Jozé de Aquino Bulhoens, 1764, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 116). 13) Comedia O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1764, 36 pp. a 2 col. (FCG TC 409). 14) Comedia O mais heroico segredo ou Artaxerxe, composta na lingua italiana pelo Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1764, 36 pp. a 2 col. (BN L. 3569 A.). 15) Antigono em Thessalonica, opera do Senhor Abade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. Joseph da Silva Nazareth, 1768, 1 v. (BN L. 24612 P.). 16) Comedia do Senhor Carlos Goldoni intitulada O cavalheiro de bom gosto, Lisboa, Off. de António Rodrigues Galhardo, 1770, 34 pp. a 2 col. (FCG TC 214). 17) Demetrio, drama composto em italiano pelo Senhor Abade Pedro Mestazio [sic], traduzido na lingua portugueza por hum dos 70 Capitolo I respeitosos apaixonados de seu author, Coimbra, Off. Pedro Ginioux, 1771, 112 pp. (BN L. 45719 P.). 18) Comedia intitulada A viuva sagaz, ou Astuta, ou As quatro nações, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Manoel Coelho Amado, 1773, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 13). 19) Themistocles, opera composta em Italiano por Pedro Metastasio, e traduzida em Portuguez por ***, Lisboa, Off. de Manoel Coelho Amado, 1775, 38 pp. a 2 col. (FCG TC 242). 20) Comedia intitulada A herdeira venturosa, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, Advogado Veneziano, traduzida no idioma Portuguez para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. de Manoel Coelho Amado, 1775, 35 pp. a 2 col. (FCG TC 213). 21) A herdeira venturosa, Lisboa, Off. de Manoel Coelho Amado, 1775, 35 pp. a 2 col. (BN F.G. 795). 22) Comedia intitulada A mulher amoroza, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, Advogado veneziano, traduzida no idioma Portuguez para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. Luisiana, 1778, 34 pp. a 2 col. (FCG TC 212). 23) O aventureiro honrado, comedia do Doutor Carlos Goldoni, Lisboa, Off. Luisiana, 1778, 31 pp. a 2 col. (FCG TC 215). 24) A espoza persiana tragicomedia que no idioma Italiano compoz o erudito Poeta o Doutor Carlos Goldoni, traduzida em Portuguez para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, onde se executou muitas vezes com aprovação dos Expectadores, Lisboa, Off. de Chrispim Sabino dos Santos, 1780, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 90). 25) Comedia A mais heroica virtude, ou Zenobia em Armenia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 71 novamente traduzida, e accrescentada, segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Crespim Sabino dos Santos, 1782, 36 pp. a 2 col. (FCG TC 92). 26) Composições dramáticas, trad. João Cordeiro da Silva, Lisboa, Off. Simão Thaddeo Ferreira, 1782, 1 v. (BN L. 5270 P.). 27) Dido desemparada, destruição de Cartago, opera segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Crespim Sabino dos Santos, 1782, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 112). 28) Linceo e Ipermestra, opera composta em italiano, Lisboa, Off. de Francisco Luiz Ameno, 1783, 1 v. (BN L. 5398 P.). 29) Mais vale amor do que um reino, opera Demofoonte em Tracia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, agora novamente traduzida, accrescentada, e disposta segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1783, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 238). 30) Comedia famoza intitulada Vencer odios com finezas, do insigne Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1785, 38 pp. a 2 col. (FCG TC 94). 31) Comedia nova intitulada O Herôe da China, composta em italiano pelo insigne Abbade Pedro Matastazio [sic], poeta cesario, e agora novamente traduzida no idioma Portuguez, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1785, 29 pp. a 2 col. (FCG TC 218). 32) Comedia nova intitulada Laura reconhecida, do insigne Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de José da Silva Nazareth, 1785, 56 pp. a 2 col. (FCG TC 66). 33) Comedia nova intitulada Semiramis reconhecida, do insigne Abbade Pedro Matestacio [sic], e posta ao gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1785, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 3). 72 Capitolo I 34) Comedia nova intitulada Ircana em Hispan, segunda parte da Esposa persiana, Lisboa, Off. de Jozé da Silva Nazareth, 1786, 46 pp. a 2 col. (FCG TC 723). 35) Comedia famoza intitulada Emira em Suza e fugir à tirannia para imitar a clemencia, composta em italiano pelo Abbade Pedro Metestacio [sic], Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1787, 37 pp. a 2 col. (FCG TC 29). 36) Comedia nova intitulada A Gricelda ou A rainha pastora, do Abbade Pedro Metastasio, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1787, 37 pp. a 2 col. (FCG TC 20). 37) Olimpiade, opera dramatica do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa, Off. de Domingos Gonsalves, 1787, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 219). 38) Comedia nova intitulada As rigorozas leis da amizade cumpridas em Olimpiade, do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa, Off. de Filipe da Silva e Azevedo, 1787, 44 pp. a 2 col. (FCG TC 709). 39) A bella selvagem, comedia nova composta no idioma Italiano pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida na lingua Portugueza, para se reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. de Felippe da Silva e Azevedo, 1787, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 114). 40) Emira em Suza e fugir à tirannia para imitar a clemencia, comedia famoza composta em italiano pelo Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Domingos Gonçalves, 1787, 39 pp. (BN L. 27069 V.). 41) Comedia nova intitulada A dama dos encantos do Doutor Carlos Goldone [sic] traduzida em portuguez por Bazilio..., Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1788, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 68). 42) A bella selvagem, comedia nova composta no idioma Italiano pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida na lingua Portugueza, para se La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 73 reprezentar no Theatro do Bairro Alto, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1788, 40 pp. a 2 col. (FCG TC 140). 43) Dido desamparada, destruição de Cartago, opera segundo o gosto do Theatro Portuguez do Abbade Pedro Matestasio, Lisboa, Off. De Francisco Borges de Sousa, 1790, 30 pp. A 2 col. (FCG TC 564). 44) Comedia nova do insigne Abbade Pedro Matastasio intitulada O principe pastor ou Cyro reconhecido, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1790, 30 pp. a 2 col. (FCG TC 220). 45) A valeroza Judith ou Bethulia libertada, drama composto no idioma Italiano pelo inseigne Abbade Pedro Metastazio, Porto, Off. de Antonio Alvarez Ribeiro, 1790, 22 pp. a 2 col. (FCG TC 522). 46) Comedia nova intitulada A viuva sagaz, ou Astuta, ou As quatro nações, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, e traduzida segundo o gosto do theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1790, 32 pp. a 2 col. (FCG TC 586). 47) Comedia nova intitulada A viuva sagaz, ou astusa, ou as quatros nações, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1790, 32 pp. a 2 col. (BN F.G. 789). 48) Comedia nova intitulada Os dois amantes em Africa, ou A escrava venturosa, composta pelo Doutor Carlos Goldoni, no Idioma Italiano, e traduzida em Portuguez, Lisboa, Off. de José de Aquino Bulhoens, 1791, 47 pp. a 2 col. (FCG TC 35). 49) Comedia A mais heroica virtude ou Zenobia em Armenia, composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora novamente traduzida, e accrescentada, segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, 1791, 39 pp. A 2 col. (FCG TC 39). 74 Capitolo I 50) Comedia nova intitulada Os dois amantes em Africa, ou a escrava venturosa, Lisboa, Off. de José de Aquino Bulhoens, 1791, 47 pp. a 2 col. (BN F.G. 789). 51) Comedia nova intitulada Vencer-se he maior valor ou Alexandre na India, do Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, vende-se em casa de João Henriques, 1792, 47 pp. (BN RES. 3882 V.). 52) Comedia nova intitulada Vencer-se he maior valor ou Alexandre na India, do Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1792, 47 pp. a 2 col. (FCG TC 106). 53) Comedia nova intitulada A esposa persiana, do Doutor Carlos Goldoni, Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, 1792, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 14). 54) Comedia nova intitulada A esposa persiana, Lisboa, Off. De Francisco Borges de Souza, 1792, 39 pp. a 2 col. (BN F.G. 789). 55) Demofoonte em Tracia, Pietro Metastasio, Lisboa, Of. João António Reis, 1793, 39 pp. (BN L. 16208 V.). 56) Mais vale amor do que hum reino, opera Demofoonte em Tracia, composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, agora novamente traduzida, accrescentada e disposta segundo o gosto do Theatro Portuguez, Lisboa, Off. de Jozé Aquino Bulhoens, 1794, 39 pp. a 2 col. (FCG TC 81). 57) Comedia nova intitulada A esposa persiana, 17--, 32 pp. a 2 col. (BN F. 5082). 58) O aventureiro honrado, comedia do Doutor Carlos Goldoni, 179-, 29 pp. a 2 col. (BN F.G. 789). 59) Alexandre na India, opera composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, 1801 [?], 24 pp. a 2 col. (FCG TC 556). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 75 60) Comedia nova intitulada A Gricelda ou A rainha pastora, do Abbade Pedro Matestacio, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, 1802, 31 pp. a 2 col. (FCG TC 676). 61) A liberdade, cançoneta de Metastasio, imitação de J. J. Rousseau, trad. Basilio da Gama e de hum Anonimo, Lisboa, Typ. Lacerdina, 1810 (BN L. 3713//13 P.). 62) A doente fingida e o medico honrado, Lisboa, Imp. Joaquim Rodrigues d’Andrade, 1817, 1 v. (BN L. 5504 P.). 63) Themistocles, drama, Pedro Metastasio, Lisboa, Imp. Regia, 1818, 97 pp. (BN L. 46354 P.). 64) Orestes, Lisboa, Imp. Regia, 1819, 1 v. (BN L. 5248 P.). 65) Orestes, Lisboa, Imp. Regia, 1820, 98 pp. (BN L. 46956 P.). 66) O tratado da tirannia, traduzido do Italiano em Português por um amigo da liberdade, Paris, Thèophile Barrois Fils, 1832, 165 pp. ill. (BN S.A. 26537 P.). 67) A doente fingida e o medico honrado, Lisboa, Typ rollandiana, 1834, 109 pp. (BN L. 5658//5 P.). 68) Conspiração dos Pazzis, tragedia, trad. António Pereira Zagallo, Porto, Typ. Commercial Portuense, 1838, 66 pp. (BN L. 5389//8 P.). 69) Demofoonte em Thracia, opera composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Metastasio, poeta cesario, traduzida em Portuguez por Fernando Lucas Alvim, Lisboa, Typ. de Antonio Lino de Oliveira, 1838, 32 pp. a 2 col. (FCG TC 563). 70) O casamento de Lesbina, drama jocoso para se representar em musica no novo Teatro do Bairro Alto de Lisboa, 18-- , 45 pp. (BN L. 46241//2 P.). 76 Capitolo I 71) Farnace em Eraclea, opera do insigne Abbade Pedro Metastasio, s.d., 24 pp. a 2 col. (FCG TC 706). 72) Comedia intitulada O mais heroico segredo, ou Artaxerxe, composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Matestasio, s.d., 40 pp. a 2 col. (FCG TC 583). 73) A creada agradecida e a madrasta endiabrada, comedia do insigne Goldoni, Lisboa, Off. de Antonio Gomes, s.d., 39 pp. A 2 col. (FCG TC 61). 74) Comedia nova intitulada O mentirozo por teima, do Doutor Carlos Glodoni [sic], Lisboa, Off. de Francisco Borges de Sousa, s.d., 40 pp. a 2 col. (FCG TC 8). 75) O casamento de Lesbina, drama jocoso para se representar em musica no novo Theatro do Bairro Alto de Lisboa, musica de Bonarelli, s.d., 47 pp. (UC Misc. DLXXXV n. 9640). Copie manoscritte in traduzione portoghese monolingue 1) Comedia intitulata O feudatorio, 1781, 61 f., comédia em 3 actos, tradução de Il feudatario, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 724). 2) Nova comedia A dama bizarra, 1781, 52 f., comédia em 5 actos, tradução de La donna bizzarra, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 574). 3) Comedia intitulada A criada mais generoza, comédia em 3 actos, 1781, 42 f., cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 798). 4) Comedia nova intitulada O verdadeiro amigo, 20 Abr. 1782, 56 f., comédia em 3 actos, tradução de Il vero amico, cópia autógrafa de António José de Oliveira BN F.R. 803). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 77 5) Comedia nova intitulada A pupila, 6 Set. 1782, 38 f., comédia em 5 actos, tradução de La pupilla, cópia de António José de Oliveira (BN F.R. 802). 6) Comedia nova intitulada O homem vencedor, traduzida por A. J. de Paula, 6 Out. 1782, 65 f., comédia em 5 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 573). 7) Décio no Oriente ou Zenobia, tragicomedia, 1783, 38 f., tragicomédia em 3 actos em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1390//2). 8) Opera nova intitulada Irene na Selecia, 3 Fev. 1783, 36 f., ópera em 3 actos, parece tratar-se de uma adaptação da Peça Sirio in Seleucia de Pietro Metastasio, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1386//2). 9) Opera intitulada Farnace em Eraclea, 8 Fev. 1783, 71 f., ópera em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1384//2). 10) Drama intitulado Alexandre na India, do Abbade Pedro Metastasio, traduzida em portuguez, 28 Mar. 1783, 57 f., drama em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1385//1). 11) Opera nova intitulada Izipile em Lennos ou Os erros de Learco premeado, 25 Abr. 1783, 48 f., ópera em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1378//5). 12) Comedia intitulada A viuva infatuada, 10 Maio 1783, 45 f., comédia em 3 actos, tradução de La donna di testa debole o sia La vedova infatuata, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 574). 13) Drama Trágico e Heroico intitulado Izipile em Lennos ou O levante das Amazonas, 28 Maio 1783, 29 f., drama em 3 actos, 78 Capitolo I adaptação de Issipile de Pietro Metastasio, cópia autógrafa de António José de Oliveira. 14) Novo drama intitulado Demetrio em Siria, 9 Jun. 1783, 58 f., drama em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 111). 15) Tragedia de Belizario, composta por Pedro António Pereira, 20 Nov. 1783, 43 f., tragédia em 5 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1377//2). 16) Comedia intitulada Semiramis reconhecida em Babilonia, 2 Fev. 1784, 62 f., comédia em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD: 1395//6). 17) Opera intitulada Achilles em Sciro, he do Senhor Pedro Metastacio, P. Cezareo, 29 Fev. 1784, 33 f., ópera em 3 actos, tradução de Achille em Sciro, tradução de Manuel Pereira da Costa ou Francisco Luís Ameno, cópia de António José de Oliveira (BN COD. 1377//6). 18) Drama comico intitulado Aquilis disfarçado, 20 Maio 1784, 47 f., drama cómico em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1377//7). 19) Opera intitulada Filinto perseguido e exaltado, 28 Jun. 1784, 49 f., ópera em 3 actos, representada nos Teatros de Bairro Alto e Mouraria, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 3624). 20) Comedia intitulada Mulher sabia e prudente, tradução de Fr. José de Santa Rita, 15 Ago. 1784, 49 f., comédia em 3 actos, tradução de La moglie saggia, cópia Autógrafa de António José de Oliveria (BN f.R. 805). 21) Opera intitulada Adriano em Syria, 28 Set. 1784, 36 f., ópera em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1389//4). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 79 22) Comedia nova intitulada A caza do café ou O maldizente, 20 Nov. 1784, 58 f., comédia em 3 actos, tradução de La bottega del caffè, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1386//7). 23) Comedia intitulada A familia de antiquario ou A sogra e a nora, 2 Dez. 1784, 59 f., comédia em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 572). 24) Comedia intitulada A dalmatina, 1785, 72 f. Comédia em 5 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 801). 25) Opera famoza intitulada Antigono em Tezalonica, seo auctor he o Abb.e Pedro Metastacio, 20 Mar. 1785, 37 f., ópera em 3 actos, em verso, cópia de António José de Oliveira (BN F.R. 803). 26) Opera intitulada A clemencia de Tito, composta por Pedro Metastasio, e traduzida por… em versos portugueses, 21 Abr. 1786, 42 f., ópera em 3 actos, cópia de António José de Oliveira (BN COD. 1384//5). 27) Tragicomedia intitulada Catao em Utica, por Joaquim Soares Crice, 12 Mar. 1788, 50 f., tragicomédia em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 802). 28) Drama jocozo O amor artifice, 13 Maio 1788, 29 f., drama jocoso em 3 actos, tradução de L’amore artigiano, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 111). 29) Drama jocozo O falador imprudente ou A donzela espirituoza, 20 Jan. 1790, 32 f., drama jocoso em 3 actos, em verso, adaptação da peça Il chiacchierone (F.R. 572) 30) Comedia O mentirozo por teima, traduzida por o P.e Mel. Joze Penalvo, 2 Maio 1790, 99 f., comédia em 3 jornadas, tradução de Il bugiardo, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 111). 80 Capitolo I 31) Comedia nova intitulada A senhora prudente ou O marido ciozo, 20 Set, 1790, 58 f., comédia em 3 actos, tradução de La donna prudente, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 798). 32) Drama O lunatico iludido, adornado de muzica, traduzido do idioma italiano, representou-se em o Theatro do Salitre desta Corte, 10 Dez. 1791, 58 f., drama em 3 actos, em verso, versão portuguesa de Il mondo della luna, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 804). 33) Comedia A mais heroica virtude ou Zenobia em Armenia, 20 Ago. 1792, 40 f., comédia em 3 actos, cópia de António José de Oliveira (BN COD. 1377//3). 34) Drama intitulado Ciro reconhecido, drama para muzica para se representar em Lisboa no Theatro da Rua dos Condes no anno de 1740, 20 Set. 1793, 33 f., drama em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1387//4). 35) Le gelosie villane, drama jocozo em muzica para se reprezentar em o Real Theatro de S. Carlos no anno de 1793, 2 Out. 1793, 27 f., drama jocoso em 2 actos, adaptação de Il feudatario, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1396//2). 36) Fra i due litiganti il terzo gode, drama giocozo per muzica da representarsi nel Reggio Teatro di S. Carlos della Principessa l’Autunno dell’anno 1793, 25 Out. 1793, 26 f., drama jocoso em 2 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1386//4). 37) Opera A clemência de Tito, do Abb.e Pedro Metastacio poeta cezareo, e traduzida em portuguez por Fernando Lucas Alvim, 24 Nov. 1793, 32 f., ópera em 3 actos, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1390//1). 38) Opera intitulada Antigono em Thessalonica, do Abb.e Pedro Metastisio [sic], e traduzida em portuguez per Fernando Lucas La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 81 Alvim, 2 Dez. 1793, 27 f., cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F. 111). 39) Drama jocozo intitulado O cazamento de Lesbina, 24 Fev. 1794, 19 f., drama jocoso em 3 actos, tradução de Le nozze ou Le nozze di Dorina, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 804). 40) Comedia nova intitulada O honrado negociante, 1795, 49 f., comédia em 3 actos, tradução de I mercatanti, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 800). 41) Drama intitulado Demetrio em Siria, composta em italiano pelo Senhor Abbade Pedro Metastacio, Poeta Cezareo, 1795, 45 f., drama em 3 actos, cópia de António José de Oliveira (BN COD. 1370//5). 42) Comedia nova intitulada O cavalheiro jucundo, 1796, 58 f., comédia em 5 actos, tradução de Il cavaliere giocondo, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 798). 43) Drama serio do Abb.e Pedro Matestacio e novamente ordenada segundo o Theatro Portuguez com o título de A suposta espoza abandonada, 1796, 38 f., drama em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN F.R. 573). 44) Il mercato di Monfregozo, drama giocoso per muzica da raprezentarsi nel Regio Teatro de S. Carlos della Principessa l’estate dell’anno de 1795, drama jocoso em 2 actos, adaptação de Il mercato di Malmantile, 1796, cópia autógrafa de António José de Oliveira, 24 f. (BN COD. 1397//9). 45) Comedia nova intitulada Alexandre na India, 1797, 51 f., comédia em 3 actos, em verso, cópia autógrafa de António José de Oliveira (BN COD. 1395//4). 46) Novo drama intitulado Demetrio na Siria, 1797, 69 f., drama em 3 actos (BN COD. 1395//3). 82 Capitolo I 47) Attilio Regulo, drama heroico em 3 actos de Metastazio, traduzido em portuguez por M.B. du Bocage, 26-28 Dez. 1832, 32 f., cópia de M.J.L. Carvalho (BN COD. 12111). 48) O velho bizarro, comedia nova, 1825 [?], 46 f., cópia, comédia em 2 actos (BN COD. 12284). Testi bilingui o in traduzione diversa dal portoghese 1) Adrianus in Syren: und dem glomürdigsten, opera, poesia de Metastasio, traduzida por Antonio Prokoff, música de Antonio Caldera, Wien, Gedruckt bey Johann Peter van Ghelen, 1732, 75 pp. (BN L. 6226//3 P.). 2) Farnace, dramma per musica dedicato alla nobiltà di Portogallo / drama em musica dedicado à nobreza de Portugal, Impr. Giuseppe Longhi, Bologna,. 1735 (BN F. 6812). 3) L’Artaserse dramma per musica / Drama para musica Artaxerxe, Pietro Metastasio, Lisboa Occidental, Off. de António Isidoro da Fonseca, 1737, 125 pp. (BN L. 2162//2 A.). 4) Demofoonte drama per musica / Drama para musica Demofonte, Pietro Metastasio, música de Gaetano Maria Schiassi, Lisboa Occidental, Off. de António Isidoro da Fonseca, 1737, 119 pp. (BN F. 6812). 5) A Olimpiade drama para musica / L’Olimpiade, Pietro Metastasio, Lisboa Occidental, Off. de António Isidoro da Fonseca, 1737, 117 pp. (BN H.G. 15033//6 P.). 6) Le pére de famille, comédie en trois actes et en prose, Avignon, Chez Etienne Bleichnarr, 1758, 1 v. (BN L. 5490 P.). 7) Le veritable ami, comédie en trois actes en prose, Avignon, Chez Etienne Bleichmarr, 1758, 1 v. (BN L. 5490 P.). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 83 8) Pamela, comédie en prose, Paris, De Bonnel, 1759, 1 v. (BN L. 5490 P.). 9) Il Tempio dell’eternità / O Templo da Eternidade, Porto, 1768 (BA 154-III-69). 10) L’amor artigiano / O amor artifice, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel Nobil Teatro del Bairro Alto nella Primavera del 1766, Lisboa, Stamperia di Pietro Ferreira Stampatore de la F.R.N.S., 169 pp. (BAC E. 803 D/74). 11) A liberdade do Senhor Pedro Metastasio, com a tradução franceza de M. Rousseau de Genebra e a portugueza de Termindo Pastor Arcade, Lisboa, Regia Officina Typografica, 1773, 15 pp. (BN L. 10652//5 V.). 12) Il Conclave del MDCCLXXIV dramma per musica / The Conclave of MDCCLXXIV, Roma – London, E. and C. Dilly, 1775, 125 pp. (BN L. 23002 P.). Partiture musicali a stampa 1) Giovanni Paisiello, Due arie serie e un rondò, Venezia, 1775, 15 f., 3 parti (BN M.P. 1319//1 V.). 2) Francesco Bianchi, Rondò caro oggetto, musica per il Demetrio, Venezia, presso Antonio Zatta, 1780, 11 f. 9 parti (BN M.P. 1319//3 V.). 3) Niccolò Jommelli, La passione di Gesù Cristo signor nostro, oratorio sacro da cantarsi nella casa dell’Assemblea delle Nazioni Straniere la notte del 28 Marzo 1786, Lisboa, Stamperia Reale, 1786, 23 pp., ill. (BN M. 109 P.). 4) Giovanni Paisiello, Duetto serio, “Ne’ giorni tuoi felici”, con recitativo, all’attual servizio delle L.L.M.M., per la sig.ª Anna 84 Capitolo I Morichelli Bosello, per L’Olimpiade rappresentato nel Real teatro di S. Carlo di Napoli, Napoli, Francesco Roncaglia, 1786, 13 pp., ill. (BN M.P. 1319//6 V.). 5) Wolfang Amadeus Mozart, La clemenza di Tito, “Ah! Perdona al primo affetto”, duettino, 1791, 2 f. (BN M.P. 1381//6 V.). 6) Girolamo Crescentini, Dodici canzonette ou douze petits airs italiens avec acompagnement de piano ou harpe, musique du célébre Crescentini, paroles de Metastasio, avec la introduction française par Mr. Dieu la Foi, Paris, a la Typographie de la Siréne chez Carli, ca 1805, 2 v., testo bilingue italiano/francese, errore di impaginaziopne a p. 25, Livre 1: n. 1 “Tu mi chiedi o mio tesoro”; n. 2 “Dove rivolgo o dio”; n. 3 “Languir d’amore”; n. 4 “O teneri pensieri”; n. 5 “Ecco quel fiero istante”; n. 6 “Dal dì ch’io vi mirai”; Livre 2: n. 7 “Clori la pastorella”; n. 8 “Numi! Se giusti siete”; n. 9 “Non v’è più barbaro”; n. 10 “Ch’io mai vi possa”; n. 11 “Per valli per boschi”; n. 12 “Se spiegar potessi” (BN C.I.C. 27//2 A. Col. Ivo Cruz). Partiture musicali manoscritte 1) David Perez, Artaserse, 258 f., tra 1748 e 1778 (BN F.C.R. 156//14). 2) David Perez, Zenobia, “Voi leggete in ogni core”, tra 1751 e 1778, 5 f. (BN F.C.R. 156//15). 3) David Perez, Ipermestra, scena e duetto, tra 1754 e 1760, 24 pp. (BN M.M. 217//14). 4) João de Sousa Carvalho, La Nitteti, 1766, 2 vol., partitura autografa (BN F.C.R. 149//24). 5) David Perez, Demetrio, Salvaterra, 1766, 16 f. (Bn F.C.R. 156//1). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 85 6) La gelosia, cantata, autore non identificato, tra 1760 e 1780, 10 f. (BN M.M. 189//5). 7) João de Sousa Carvalho, Duetto, “Ah non dirmi ingrato amante”, con violini, viola e basso, 1778, 16 f., fogli sciolti (BN M.M. 336//5). 8) António da Silva Gomes e Oliveira, Aria La tortora innocente palpita per timor, con violini, viola, traversieri, trombe da caccia e basso, Queluz, 1779, 16 f. (BN M.M. 304/713). 9) Bernardo Ottani, La gelosia, cantata, tra 1780 e 1820, 4 f. (BN M.M. 208//2). 10) Bernardo Ottani, Inno a Venere a tre voci, tra 1780 e 1820, 9 f. (BN M.M. 208//5). 11) Bernardo Ottani, La scusa, cantata, tra 1780 e 1820, 4 f. (BN M.M. 208//4). 12) Giovanni Paisiello, Antigono, Napoli, Real Teatro di S. Carlo, 1785, partitura del I atto, 113 f. (BN M.M. F.C.R. 149//17). 13) Giovanni Paisiello, Ne’ giorni tuoi felici, duetto con recitativo, tra 1786 e 1820, 21 f. (BN F.C.R. 149//32). 14) Giovanni Paisiello, Cari accenti del mio bene, recitativo e terzetto per la Didone, tra 1794 e 1830, 37 f. (BN F.C.R. 149//33). 15) Giovanni Paisiello, Didone Atto Primo, 1794, 136 f. (BN F.C.R. 149//18). 16) Niccolò Jommelli, L’Isacco, oratorio a cinque voci con strumenti, 17--, 2 vol. (BN C.I.C. 79//1-2 Col. Ivo Cruz). 17) Marcos Portugal, Il Demofoonte, al Real Teatro di S. Carlo di Lisbona, 1808, 344 pp., atto I (BN M.M. 231). 86 Capitolo I Illustrazioni a stampa di scenari 1) Giovanni Berardi, Alessandro nell’Indie, (…nel terminar del dramma… vedesi scender dall’alto il luminoso Tempio della Gloria… Sul liminare del tempio saranno il Senno et il Valore intenti a custodire l’ingresso, nell’interna parte vedransi disposte ordinariamente le immagini delle più illustri herojne, et eroi dell’antichità, e nel più distinto luogo quella della Regina…), Lisboa, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 16,7x22,5 cm, basata sullo scenario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4927 P.). 2) Jean Baptiste Dourneau, Alessandro nell’Indie (atto terzo, scena X, parte interna del Tempio di bacco magnificamente illuminato, e rivestito di ricchissimi tappeti, dietro de’ quali al destro alto, vicinissimi all’Orchestra, andranno a suo tempo a ricovrarsi Poro, e Gandarte, in modo che rimangano celati a tutti i personaggi, ma scoperti a tutti gli spettatori…), Lisbona, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Acacdemia Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 17,1x22,5 cm, basata sullo scenario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4926 P.). 3) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto primo, scena XI, Gran padiglione d’Alessandro vicino all’Idaspe, con vista della Reggia di Cleofide sull’altra sponda del fiume), Lisboa, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 17,7x22,6 cm, basata sullo scenario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4921 P.). 4) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto secondo, scena XI – scena XV, appartamenti nella reggia di Cleofide), Lisboa, regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 17,5x22,7 cm, stampa basata sullo scanario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena (BN E. 4924 P.). La fortuna del teatro italiano nel Portogallo del Settecento 87 5) Jean Baptiste Michel le Bouteux, Alessandro nell’Indie (atto terzo, scena I – scena IX, portici de’ Giardini Reali), Lisbona, Regia Stamperia Sylviana, e dell’Accademia Reale, 1755, stampa ad acquaforte, 17,8x22,7 cm, stampa basata sullo scenario disegnato da Carlo Sicinio Galli Bibbiena di Bologna (BN E. 4925 P.). 88 Capitolo I CAPITOLO II Metastasio, padrão de vida do século XVIII Metastásio chegou até nós, e por uma forma qualitativa e quantitativa digna de se mencionar, em uma altura na qual se tentaria uma renovação da cena portuguesa, uma sua possível “europeização”, com aproveitamento de todas as situações ocasionais ou desencadeadas, que se iam apresentando1. II.1. Questioni preliminari La storia del teatro metastasiano in Portogallo è la storia della composizione dei suoi rifacimenti, delle motivazioni che portarono a storpiature di senso o a soppressioni di contenuti oggi improponibili e che solo un’analisi sociologica del pubblico lusitano del Settecento e della contingenza storica in cui si trovava il Paese potrebbero spiegare. Non è difficile trovare giustificazioni alle riscritture dei drammi del poeta cesareo nelle varie analisi condotte dai maggiori studiosi del nostro teatro, seppur non riferite specificamente alla realtà lusitana settecentesca, così come non mancano le opinioni circa i vari rifacimenti che all’epoca e ben oltre circolavano un po’ in tutta Europa. Da un punto di vista prettamente sociologico, si assiste ad un protrarsi nel Settecento delle esigenze dello spettatore–tipo del secolo precedente, che aveva contribuito notevolemente al successo del melodramma, dimostrando nei suoi confronti un apprezzamento e un’adesione particolarmente evidenti. Tuttavia, a causa di tale successo di pubblico, il dramma in musica subì un processo di ulteriore volgarizzazione, grazie anche a quella sua fruibilità socialmente trasversale che portò Claudio Varese a parlare dei libretti teatrali come di “prodotti di consumo” «frettolosamente ricalcati sui 1 José da Costa Miranda, Apontamentos para um futuro estudo sobre o teatro de Metastásio em Portugal no século XVIII, Sep. Estudos Italianos em Portugal, 36, Lisboa, p. 147. 89 90 Capitolo II modelli tragici e comici spagnoli di successo»2. In questo senso, il teatro italiano tradotto e rappresentato in Portogallo nel corso del Settecento non fece che riproporre, in ritardo, tutte le caratteristiche del melodramma secentesco, e quel carattere di caotica mescidazione letteraria descritto efficacemente da Paolo Gallarati: la divaricazione dei registri stilistici toccava vertici inauditi, oscillando con disinvoltura dal grottesco caricaturale delle scene comiche alla sublimità aulica delle parti serie e dello sfarzoso surrealismo mitologico: i lazzi clowneschi di personaggi fissi, strettamente imparentati con le maschere della commedia dell’arte, venivano in tal modo liberamente alternati alla nobiltà curiale dei protagonisti in uno spettacolo disordinatamente composito3. Alla domanda di un pubblico sempre più affascinato dagli esibizionismi teatrali e dagli eccessi patetico–drammatici tanto invisi al Metastasio, rispondeva una drammatugia ormai rassegnata ad assecondare uno spettatore medio culturalmente disinteressato e al quale la natura stessa dell’opera in musica poteva fornire adeguate risposte in termini di mero intrattenimento ed evasione. Di questo parere è ancora il Gallarati quando ritiene responsabili di tale decadimento le caratteristiche stesse del genere librettistico, in grado di rispondere alla diffusa richiesta di spettacolarità e leggerezza: il ruolo strumentale del testo per musica e, segnatamente, del libretto operistico, ne fa un prodotto linguistico di natura particolare, dove quello che conta non è tanto la ‘qualità’ letteraria, valore ovviamente ben accetto ma secondario, bensì altri elementi molto più decisivi nel colpire l’immaginazione del compositore e nel determinare la fisionomia globale dello spettacolo: il taglio della drammaturgia, il rapporto tra le varie forme di versificazione e i contenuti del discorso, tra versi sciolti e rimati; la natura e varietà delle immagini, la disposizione dei contrasti e delle peripezie e, sul piano più propriamente linguistico la peculiarità dell’impianto ritmico e metrico che condiziona per spontanea filiazione la dialettica ritmico–prosodica del canto, col suo enorme potere connotatorio 2 Claudio Varese, Scena, linguaggio e ideologia dal Seicento al Settecento. Dal romanzo libertino al Metastasio, Bulzoni Editore, Roma, 1985, p. 165. 3 Paolo Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, EDT/Musica, Torino, 1984, p. 7. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 91 e, in fondo, la stessa invenzione melodica. Questo spiega come mai, soprattutto nell’Ottocento, indiscutibili capolavori del teatro musicale abbiano potuto nascere in simbiosi con prodotti letterari francamente scadenti ma dotati delle qualità indispensabili alle esigenze della drammaturgia operistica, soddisfatte dal poeta nella più completa dedizione4. Pertanto se, da un lato, la tragedia aristotelica non riusciva più a soddisfare le esigenze di una società dai profondi mutamenti come quella settecentesca, persistendo solo tra ristrette cerchie di estimatori, dall’altro, ad incrementare ancor di più la produzione dei rifacimenti di valore discutibile contribuirono le spinte da parte di compagnie e impresari teatrali interessati quasi unicamente ad un discorso di tornaconti economici. È in tal senso che possiamo leggere una riflessione di Costantino Maeder: le leggi di mercato spietate, l’insicurezza economica, i tempi di produzione, le esigenze del pubblico o del committente, tutto ciò favorì un altro tipo di fenomeno intertestuale. La riduzione a libretto di opere famose consentiva al poeta di concentrarsi sulla sola versificazione e sul rifacimento del testo di base. D’altro canto l’impresario poteva già sperare su un tutto esaurito alla prima: un libretto imperniato su una trama nuova, creata da un librettista sconosciuto al grande pubblico poteva compromettere il successo di tutta la stagione che dipendeva dalla «prima» o dalle prime rappresentazioni. Opere basate su soggetti nuovi, se non ideati da un librettista o da uno scrittore di grido, erano quindi rare. Si potrebbe desumere che tale procedimento sia segno di decadimento della cultura lirica e di per sé spia di cattiva qualità5. È chiaro che anche l’opera metastasiana (così ben accolta dal al pubblico portoghese, come ha già rilevato il Miranda)6 fu soggetta a questa forzatura obbligata del testo originale entro parametri rispondenti a criteri meramente commerciali. Una situazione di cui 4 Ivi, p. 3. Costantino Maeder, Metastasio, l’«Olimpiade» e l’opera del Settecento, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 168. 6 «Nada consta, no já citado “Catálogo dos Livros Defesos", sobre Metastásio e os seus textos, fossem estes de que índole fossem [...] os temas de que Metastásio se ocupava e as características que imprimia às suas obras, em nada feririam, de um modo geral, as convicções, religiosas e políticas, da sociedade portuguesa, de então» in J. da Costa Miranda, Apontamentos, cit., pp.131-132. 5 Capitolo II 92 era a conoscenza lo stesso abate romano e alla quale egli non riuscì comunque a porre rimedio7. Nel caso specifico di questa sorta di ibrido letterario che è l’adattamento al gusto portoghese, la sua proliferazione durante tutto il secolo si deve non solo in quanto specchio di una società che amava identificarsi con i valori assoluti elaborati dal teatro metastasiano (l’eroismo, la gloria, l’onore, l’amore, ecc.), ma soprattutto perché poteva deliberatamente accentuarne la sottile vena ironica che il testo originale lasciava appena percepire. Sembra cioè che questi adattatori abbiano intuito quelle possibilità di sdrammatizzazione latenti nel dramma metastasiano e quella sorta di sottofondo comico che il Nicastro8 riteneva volontario in Metastasio e recentemente sottolineato anche da uno studio di Alberto Beniscelli. A proposito della Didone abbandonata, Beniscelli mette infatti in luce una sfumatura larmoyant che indicherebbe un indubbio sostrato comico: su suggerimento desanctiano, molti tra i più autorevoli critici metastasiani — Claudio Varese e Walter Binni su tutti — hanno segnalato nella Didone abbandonata la presenza di ampie zone di comicità, certificabile anche in precedenti esperimenti quali l’Endimione; ed a sua volta Franco Gavazzeni ha potuto documentare con accuratezza le disuguaglianze stilistiche del testo. Certamente la Didone è opera disomogenea ove si considerino, in raffronto alla solennità dell’assunto, la medietà delle triangolazioni sentimentali, gli slittamenti dei protagonisti dal linguaggio 7 Un’altra osservazione del Gallarati ci conferma tale situazione: «Fuori di Vienna, innanzi tutto, i drammi di Metastasio subivano frequenti alterazioni attraverso spostamenti, tagli, inserzioni di arie e recitativi diversi secondo una prassi teatrale così radicalmente estranea alle concezioni moderne da ammettere la pratica diffusa del “pasticcio”, cioè d’un’opera che riuniva, sotto un titolo comune, brani di musicisti e, talvolta, anche di poeti diversi. Questo fatto indusse Metastasio a promuovere e sostenere alcune accurate edizioni delle proprie opere che, fissate in volumi, si sottraevano ai condizionamenti di esecuzioni specifiche e fornivano una lezione definitiva di testi notissimi ma diffusi, sovente, solo in versioni spurie, abbondantemente corrotte.» in P. Gallarati, op. cit., p. 57. 8 «Si tratta di un elemento di cui lo scrittore si serve con coscienza, al fine di superare le rigide barriere tra generi diversi; ciò non significa un ritorno a ibridi accoppiamenti di ruoli contrastanti, come avveniva nel melodramma barocco, ma un impasto sottile di toni, che smussano le loro punte più acute, per dare vita ad un amalgama fuso ed omogeneo (non diversamente da quanto accade nella contemporanea comédie larmoyant, su cui non a caso il giudizio del Metastasio è completamente positivo).» in Guido Nicastro, Metastasio e il teatro del primo Settecento, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 87. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 93 lirico a quello prosaico, la stessa presenza di un personaggio "basso" come Iarba, cavato direttamente dalla tradizione del melodramma secentesco. […] Non è di poco conto che tra i primi a comprendere e rilanciare nel cuore del teatro settecentesco l’esempio della Didone vi fosse Carlo Goldoni. Non soltanto l’autore comico riprenderà nel suo Impresario della Smirne la sigla metateatrale dell’Impresario delle Canarie, l’intermezzo composto da Metastasio al fine di distanziare anche parodisticamente gli eventi della Didone con la luce proveniente dai ritmi della vita vissuta. Ma soprattutto, rovesciando nel momento cruciale della sua riforma teatrale il rapporto tra finzione e realtà, spezzando persino il filtro distanziante della parodia, egli individuerà «nei bellissimi e dolcissimi versi della Didone» l’archetipo patetico-linguistico che l’avrebbe aiutato, in lunga gittata, a scandagliare i mobili territori del quotidiano9. L’attività di riscrittura dell’originale metastasiano è, lo abbiamo detto, affidata a traduttori spesso contemporaneamente editori delle proprie opere, di cui oggi si sono perse le tracce, ma tramandatici per lo più da testimoni di copie manoscritte opportunamente datate. In ogni caso l’anonimato del traduttore–adattatore (assenza totale di indicazione o al limite presenza delle sole iniziali) corriponde anche all’assenza di qualsiasi prefazione esplicativa sull’attività traduttiva operata nel testo specifico, nonchè di qualsiasi riferimento alla storia del testo in territorio lusitano e della motivazione delle aggiunte o soppressioni arbitrarie. Solo in un caso specifico abbiamo rinvenuto una testimonianza diretta sul lavoro di traduzione. Si tratta di un’avvertenza contenuta nel primo tomo di una collezione presente nell’Archivio Osório Mateus dell’Università di Lisbona, pubblicata nel 1783 e dal titolo Composições Dramaticas do Abbade Pedro Metastasio traduzidas no idioma Portuguez e Offerecidas à Serenissima Senhora D. Maria Anna Infanta de Portugal por João Carneiro da Silva (fig. 9), contenente tra l’altro la dissertazione di Ranieri de’ Calzabigi e comprendente le opere Artaxerxes, Adriano na Syria e Demetrio. Il traduttore in questione, João Carneiro da Silva appunto, «estimulado mais da grande paixão, que tive às referida 9 Alberto Beniscelli, Felicità sognate. Il teatro di Metastasio, Il Melangolo, Genova 2000, pp. 34-36. 94 Capitolo II Figura 9. Centro de Estudos de Teatro, Arquívo Osório Mateus, Universidade de Lisboa. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 95 Composições, que da vanagloria de Traductor», motiva così l’opzione in favore del Metastasio, giustificando il proprio lavoro solo con la presenza di un target di lettori monolingui: não he em verso esta Tradução, porque por mais sublime que fosse, nunca poderia igualar, nem ainda assemelharse ao Original, e nesse caso foi melhor nem intentalla. Não tenho a vaidade de lisongear-me de que seja exacta; antes creio, e confesso que apparece bem defeituosa. Quem conhecer a grande difficuldade da perfeita versão de hum idioma para outro diverso, desculpará os defeitos, que nesta encontrar. E como he só para os que não tiverem intelligencia da Lingua Italiana, sempre estes me ficarão devendo esse disvélo, e o fazer-lhes gostar por este meio de humas tão excelentes Obras, que tem encantado as pessoas de melhor gosto de todas as Nações, para della fazerem as grandes estimações, que logrão felizmente10. Utilizzando un’espressione che Luciana Borsetto usò per definire l’attività traduttiva del Cinquecento, anche al lavoro di rifacimento al gusto portoghese è indubbiamente possibile applicare il concetto di “estetica della ricezione” («un’estetica all’interno della quale la funzione espressiva dell’opera viene completamente subordinata a quella comunicativa»)11, e vedremo come la scarsa accuratezza editoriale di questi prodotti letterari si associ indissolubilmente ad un decadimento del testo teatrale riscontrabile tanto dal punto di vista lessicale, con una netta semplificazione del linguaggio melodrammatico, quanto dal punto di vista della manipolazione e ricreazione arbitraria di scene e personaggi. È quindi possibile parlare di vera e propria riscrittura creativa del testo metastasiano, nella quale il prototesto di riferimento viene semplicemente utilizzato come griglia, schema o canovaccio sul quale costruire liberamente un metatesto che assecondi gli orizzonti di attesa del pubblico. In altre parole, il mero divertimento a discapito della riconoscibilità delle origini 10 Composições Dramaticas do Abbade Pedro Metastasio traduzida no idioma Portuguez e offerecidas à Serenissima D. Maria Anna Infanta de Portugal por João Carneiro da Silva, tomo primeiro, Lisboa, Off. de Simão Thaddeo Ferreira, anno 1783, s.p. 11 Luciana Borsetto, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel Rinascimento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1990, p. 262. 96 Capitolo II culturali del testo di partenza. È naturale, quindi, che tali rifacimenti rielaborassero i riferimenti culturali presenti nel testo di partenza italiano tenendo conto delle esigenze di una cultura ricevente dalle limitate richieste culturali. La tendenza al rimaneggiamento dell’opera metastasiana a partire dalla seconda metà del Settecento fu dunque avviata da quelle esigenze di operabilità12 e di messa in scena di cui dovettero preoccuparsi soprattutto gli adattatori che si trovavano a dover trasporre sulle tavole del palcoscenico la perfetta pagina metastasiana. Un’efficace descrizione del fenomeno dei “drammi metastasiani aggiustati” è in un testo di Andrea Chegai: le rappresentazioni metastasiane che nel testo divergono dagli originali poetici sono le naturali conseguenze (e, come in un circolo vizioso, l’origine stessa) di una drammaturgia stratificata e continuamente modificabile: una sorta di gigantesco ipertesto, solo in parte fissato sulla carta dei libretti ― il grosso si estendeva infatti nel bagaglio professionale di letterati specializzati nella tecnica del patchwork librettistico ― , cui attingere di volta in volta, in un clima di totale consenso da parte del pubblico dell’opera. […] Per far virare la prassi operistica verso altri lidi si dovettero attendere stimoli più incisivi, sul piano dei soggetti impiegati, delle forme e delle risorse spettacolari; ma difficilmente ci si spinse a rinnegare del tutto la tradizione precedente: se non altro per un debito di riconoscenza, visto che il teatro metastasiano, in virtù della propria irripetibile docilità strutturale, non aveva opposto resistenza all’aggressione di germi atti a determinare il suo stesso dissolvimento (i pantomimi, l’ampliamento corale), che in altri contesti si svilupperanno come alcuni dei tratti innovativi di maggior rilievo13. 12 Il termine operabilidade viene proposto con efficacia da Maria João Brilhante, quando sostiene, a proposito della traduzione teatrale, che «não se trata apenas de dar a conhecer un texto de uma outra cultura; de procurar, através dele, alargar o campo artístico, ideológico, político da cultura de chegada [...] trata-se igualmente de restituir o carácter operável do texto, por vezes por uma companhia de teatro ou por um actor [...] de fecundar a cultura teatral que passa a integrar, na sua língua, o simile desse “clima verbal” e das operações que ele prevê». (Maria João Brilhante, Traduzir teatro: a questão da operabilidade, in Literatura e Pluralidade Cultural, actas do 3° congresso Nacional da Associação Portuguesa de Literatura Comparada, Edições Colibri, Lisboa, 1991, p. 485). 13 Andrea Chegai, L’esilio di Metastasio. Forma e riforma dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1998, pp. 38-39. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 97 Considerazioni che in parte riscattano i giudizi fin qui espressi sui risultati delle traduzioni dell’opera di Metastasio, se non a livello di rispetto del testo di partenza e fedeltà corrispondente nel testo di arrivo, quantomeno a livello di conoscenza di quel concetto di teoria della traduzione che, molto tempo dopo, è stato definito “omologazione”. Un concetto non del tutto assente nelle traduzioni portoghesi del teatro settecentesco, almeno a livello di quelle che sono le tecniche che lo rendono possibile: compensazione, spostamento ed esplicitazione. Gli stessi concetti che José Mascarenhas, nella spiegazione di quello che fu il lavoro del “traduttore traditore” settecentesco, definisce deslocar e alterar, termini fondamentali all’interno dell’elenco da lui stesso elaborato sulle caratteristiche imprescindibili di tutti gli adattamenti al gusto portoghese: – introduzir dois ou três graciosos, à maneira do teatro espanhol, frequentemente criados chocarrões, de vida desbragada, viciosos na linguagem e no comportamento cénico, como forma de cativar um público heterogéneo, ainda muito influenciado pela comédia espanhola de capa e spada; – deslocar, para a nomenclatura nacional, localidades de outros países: por exemplo, substituir o eixo Veneza-Mestre-Treviso pelo de LisboaAlmada-Azeitão; – alterar nomes de personagens estrangeiras, procurando correspondentes portugueses ou simplesmente outros nomes com maior associação cómica; – introduzir novas cenas, cortar a extensão de solilóquios ou diálogos mais longos ou, ainda aumentar as falas de determinada personagem, dando-lhe um maior peso dramatúrgico, solilóquios próprios e outras contracenas; – separar, de um lado, escritores e intelectuais que tentam trazer para Portugal, através da tradução literal, obras de grandes escritores estrangeiros [...] e, do outro, tradutores/adaptadores, escriturados ou assalariados texto a texto, ligados a companhias ou a salas de teatro, como o próprio Nicolau Luís e os demais escritores daquelas salas; – ignorar na edição, frequentemente, o nome do autor estrangeiro a que se refere a obra mas, também, de igual forma, o nome do tradutor/adaptador; – traduzir a prosa para verso e vice-versa, e alterar a medida do verso; – adaptar, às exigências da censura, os diálogos, as temáticas e o enredo de tudo o que pudesse ser motivo de recusa censória, expurgando questões do foro religioso ou político14. 14 José Mascarenhas, op. cit., pp. 50-51. Capitolo II 98 II.2. Alessandro nell’Indie Un fitto scambio epistolare con Carlo Broschi, detto il Farinello, e con il Calzabigi, mette in luce un’attività dell’abate romano di trasposizione dell’Alessandro nell’Indie per la rappresentazione madrilena che ci consegna un Metastasio particolarmente sensibile al problema degli adattamenti in terra iberica e, soprattutto, al corrente di quel problema che egli stesso chiamò “circoncidere e pettinare” secondo il gusto. La corrispondenza sullo specifico adattamento spagnolo, che ha inizio il 15 dicembre 1753 e che sembra concludersi con un’ultima missiva a Ranieri Calzabigi il 31 maggio 1754, riesce a mettere bene in evidenza la figura di un Metastasio quasi adattatore di se stesso: A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID Vienna 15 Dicembre 1753. […] Ho già circonciso il primo atto dell’Alessandro: oh che macello! Ne ho già tagliati 266 versi e tre arie. Caro gemello, questo mestiere ingratissimo non si fa che per voi. Il farsi eunuco di propria mano è sacrificio che ha pochi esempi: pur si fa, e si procurerà che non se ne risenta lo spettacolo se non con vantaggio15. A RANIERI CALZABIGI ~ PARIGI Vienna 15 Gennaio 1754. […] In questo tempo io ho corretto il mio Alessandro nell’Indie. Ne ho raccomodati i primi due, e quasi affatto rinnovato l’atto terzo, di modo ch’io ne sono presentemente molto più soddisfatto. Mi spiacerebbe molto che fosse già impresso nell’antica maniera. Avvertitemi subito se siete in tempo di farne uso, e io ve ne manderò la copia per la medesima strada dei signori Schmithmer. La nuova edizione sarebbe per questa via ancora molto distinta dalle precedenti16. 15 16 P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 878. Ivi, p. 885. Metastasio, padrão de vida do século XVIII A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID Vienna 23 Febbraio 1754. […] Io vi mando per la posta dunque il mio Alessandro nell’Indie circonciso e pettinato a vostro e a mio gusto17. A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID Vienna 4 Febbraio 1754. È qualche settimana che, avendo terminato e messo in netto l’Alessandro, dissi al signor conte d’Azlor che attendeva l’occasione di qualche spedizione per mandarlo; poiché non avendomi voi affrettato non credeva necessario di mandarlo per la posta in difetto di corriere. Ieri mi disse che vi sarà l’opportunità a momenti, onde preparo la lettera e il piego. Troverete in primo luogo l’opera dell’Alessandro nell’Indie più corta di quello che finora è stata di 561 versi e nove arie, ma accresciuta di moto, d’interesse e di vivacità, particolarmente nel terzo atto tutto affatto rimpastato di nuovo. Qual maledetto lavoro sia stato questo, può ben comprenderlo unicamente il mio caro gemello a forza di talento e d’esperienza, o qualcuno di quelli che hanno avuta la disgrazia di comporre opere, ma non già tutti. Io vi ringrazio che mi avete fatto perfezionare un’opera ch’era piena di fuoco e di poesia, ma che languiva nel terzo atto, e che io senza lo stimolo di compiacervi non avrei mai raccomodata, siccome ora ho fatto, e in maniera che, se si farà una decente impressione delle opere mie, spero che mi farà meno disonore nell’abito della presente riforma. Troverete di più in un quinternetto a parte tutte le uscite, l’entrate, le passate e le situazioni dei personaggi, secondo io le ho stabilite sul mio tavolino quando ho composta l’opera. E questa fatica è utilissima per l’esecuzione delle azioni, particolarmente nell’Alessandro, che n’è ripieno. Quando non v’è imbarazzo, non lo guarderete addosso, e quando le azioni s’intricano, vi solleverà dalla pena di pensarvi su18. A RANIERI CALZABIGI ~ PARIGI Vienna 31 Maggio 1754. […] Fidatevi della mia esperienza su i vantaggi che hanno ritratti i miei drammi da’ cambiamenti, aggiunte o accorciamenti che io vi ho fatti, e particolarmente nell’Alessandro. Quella parlata appunto, per cagion d’esempio, dell’artifiziosa Cleofide, io mi sono avveduto che sul teatro raffredda il corso dell’azione, e colorisce troppo svantaggiosamente il carattere di Cleofide; onde si sbadiglia nell’uditorio finché la gelosia di Poro non viene a solleticarlo e a giustificare a titolo di vendetta gli eccessivi favori de’ quali è prodiga Cleofide con Alessandro. Il terzo atto poi mancava di moto e di chiarezza, e presentemente 17 18 Ivi, p. 901. Ivi, pp. 893-894. 99 Capitolo II 100 è una catastrofe delle più vive ch’io abbia mai scritto, e delle meno oscure. Né per insinuarci, in grazia degli scolari, la famosa più che rara risposta di Poro, io vorrei frapporre ozio al violento corso dell’azione. Per gli sciocchi poi che misurano il merito del libro dal numero de’ versi, v’è il suo rimedio. Relegate al fine dell’opera a cui appartengono, o del volume che l’include, i versi e le arie risecate dall’autore; e tutti vi troveranno il conto loro; oltre di che io prenderò appunto questo motivo nella lettera che vi scriverò da stamparsi, e l’editore e l’edizione non ne risentiranno svantaggio19. La prima copia di un dramma metastasiano rappresentato in Portogallo corrisponde anche ad uno dei testimoni più antichi che si possono contare tra le traduzioni del poeta cesareo. Si tratta dell’Alexandre na India del 1736 (fig. 10), rappresentato solo sette anni dopo la prima romana (26 dicembre 1729), a dimostrazione del rapido dilagare fin negli estremi confini d’Europa della fama del Trapassi. Il testo in questione presenta una traduzione a fronte molto fedele all’originale a livello sintattico e tematico, ma con evidenti manipolazioni a livello di scelte lessicali. In questo senso si rileva quella che sarà una costante nella maggior parte dei testi che qui proveremo ad analizzare, quel fenomeno dell’esplicitazione per cui, laddove il linguaggio dell’originale italiano risulta fortemente allusivo, metaforico, immaginifico, si ha l’opzione del traduttore portoghese in favore di termini decisamente più espliciti, denotativi, di minor impatto emotivo. Citiamo solo alcuni esempi di tali scelte traduttive: rivale – namorado sete – ambição allori – triunfos sudori – trabalhos germogliar – nascer mendicando una morte – procurando a morte arcani – segredos Dite – Inferno l’amiche sponde – favorável o mar io ‘l suono intesi/de’ metalli – eu ouvi o som/das trombetas20 19 20 Ivi, pp. 927-928. Alexandre na India, drama para musica para se representar em Lisboa na Sala da Academia na Praça da Trindade no anno de 1736, spassim. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Figura 10. (BN, F. 6812) 101 102 Capitolo II Figura 13. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca da Arte, TC 771). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 103 Una possibile ragione di questa scelta a favore della semplificazione lessicale potrebbe avere a che fare con un atteggiamento del pubblico portoghese poco incline a voli pindarici d’ogni sorta e probabilmente desideroso di assistere a dialoghi caratterizzati da concretezza e semplicità di immagini, come pure occorre tener conto del fatto che la traduzione a fronte avrebbe potuto svolgere semplicemente la funzione parafrastica di comprensione generale del testo. Il secondo esemplare su cui richiamiamo l’attenzione del lettore è il libretto tutto italiano di un Alessandro nell’Indie (fig. 11) appositamente trascritto per la rappresentazione nel contesto della corte regia lisbonese e stampato presso la Regia Stamperia Sylviana e dell’Accademia Reale nel 1755, il quale testo, oltre a segnalarsi per l’accuratezza editoriale che trova giustificazione unicamente nel suo destinatario privilegiato (a tal punto da includere nel frontespizio non solo nomi e titoli dell’autore del dramma ma anche dei compositori di licenza e musica), contiene un apparato iconografico relativo alle scenografie allestite su disegno del Bibbiena. La storia editoriale di questo fortunato dramma di Metastasio prosegue con un esemplare dalla modesta fattura pubblicato nel 1764 presso l’officina libraria di Francisco Borges de Sousa e dal titolo emblematico di Vencer-se he mayor valor (fig. 12), titolo che di primo acchito non permette un’individuazione dell’ennesima traduzione dell’Alessandro nell’Indie, reso noto infatti solo da una scorsa dei nomi degli Interlocutores e, chiaramente, dalla lettura del testo. Ci troviamo di fronte ad un prodotto che presenta tutte le caratteristiche elencate dal Mascarenhas per gli adattamenti al gusto portoghese, a partire dall’indicazione di genere, quell’Opera Nova che segnala da sé la consapevolezza della realizzazione di un rifacimento o di una riscrittura nuova, appunto, quindi differente, rimaneggiata, rielaborata rispetto non solo al testo di partenza italiano ma anche rispetto alle traduzioni portoghesi che l’hanno preceduta. A ciò si aggiunge naturalmente la scelta di mutare completamente il titolo dell’originale metastasiano, con quella frase (“Vincere se stessi è il valore più grande”) che non racchiude semplicemente la morale sottesa al dramma in oggetto (morale che 104 Capitolo II Figura 12. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 224). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 105 quasi sempre viene ripresa e ribadita a conclusione dell’ultima scena)21, ma che ha soprattutto funzione di titolo tematico, per usare la terminologia di Genette, di modo che allo spettatore possa arrivare immediatamente il messaggio sul contenuto dell’opera che si accingeva ad essere rappresentata. E, tuttavia, accanto ad un uso didattico–moralizzante del teatro italiano in terra lusitana, sta fondamentalmente nell’accostamento della componente comico– triviale rappresentata dai criados o graciosos al gusto portoghese tutta l’eversività originale del teatro portoghese. In questo senso, il costante scontrarsi dell’impostazione seria ed impegnata con l’intrusione del comico e del leggero tipico del carattere iberico, non fa che riprendere e ricordare le caratteristiche del genere semi– serio napoletano che ha inizio nel primo Settecento, di cui non solo il ricorso all’agnizione e al travestimento costituiscono punti di contatto fondamentali, ma anche una soluzione tematica quale il matrimonio finale di tutti i personaggi in scena dopo più o meno tribolate peripezie. Del resto, non dev’essere stato un caso il fatto che a Lisbona circolassero a metà del XVIII secolo e con una certa frequenza opere di autori significativi del teatro buffo napoletano quali Alessandro Scarlatti, Pergolesi, Jommelli, Traetta e, soprattutto, Paisiello. Ma una prima discrepanza che possiamo segnalare tra questa traduzione del 1764 e l’originale italiano riguarda senz’altro la struttura complessiva degli atti e la suddivisione interna delle varie scene. Laddove il testo di partenza presupponeva la presenza di 15 scene per i primi due atti e 10 scene per il terzo ed ultimo atto, la versione portoghese propone una struttura duplicemente tripartita, e in questo senso molto più equilibrata, in cui ad ognuno dei tre atti corrispondono solo tre lunghe scene, che accorpano la quantità di scene metastasiane suddividendole semplicemente attraverso un cambio di scenario o l’ingresso e l’uscita di un personaggio all’interno di una medesima scena (con la sola eccezione della 21 Si vedano a questo proposito le battute finali della traduzione (p. 48): Gandarte. E esta acção aqui findou, Donde aprenda todo o humano Todos. Os virtuosos costumes, Que devem ter os honrados. Capitolo II 106 seconda scena del terzo atto interamente dedicata ad un dialogo tra graciosos ovviamente non presente nell’originale). In pratica, gli atti del testo di arrivo si susseguono secondo il seguente schema: Testo di arrivo ACTO I Scena I Scena II Scena III → → → Testo di partenza ATTO PRIMO Scene 1-5 Scene 6-10 Scene 11-15 ACTO II Scena I Scena II Scena III → → → ATTO SECONDO Scene 1-4 Scene 5-11 Scene 12-15 ACTO III Scena I Scena II Scena III → → → ATTO TERZO Scene 1-8 graciosos Scene 9-10 La trama centrale (che racconta della generosità di Alessandro Magno nei confronti di Poro e Cleofide, sovrani delle Indie, vinti ma infine perdonati per i sotterfugi sleali escogitati da entrambi con l’aiuto del traditore greco Timagene) se non presenta mutamenti a livello contenutistico, contiene però inserimenti di dialoghi, a volte molto lunghi, che tendono a caricare di estremi accenti patetici i discorsi dei personaggi e a caratterizzarli in termini decisamente più melodrammatici che tragici, rispettando in questo l’edizione veneziana del Bettinelli datata 1733-1758, in realtà rigettata dal Metastasio e ricorretta per l’edizione parigina del 1780-82 (vedova Hérissant). In altre parole, quelli che a prima vista sembrano mutamenti di atteggiamenti ed azioni che attribuiscono agli interlocutori in scena caratteristiche della personalità via via più o meno spostate verso toni di eccessivo lamento o commiserazione di sé, di cui un esempio è la coloritura dell’impulsività di Poro, tratto del carattere che nella versione portoghese emerge con più forza della sua ben nota gelosia, arricchita nel testo in traduzione di accenti di violenta ira ed esasperata impulsività che non troviamo Metastasio, padrão de vida do século XVIII 107 nell’edizione parigina del Metastasio, si spiegano in realtà con la comunanza della lezione bettinelliana. In questo senso è rivelatrice già la prima battuta del dramma, laddove la passionalità del re indiano tocca vette di una drammaticità lacerante vicina al suicidio, e che riprende appunto la variante degli anni Trenta: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto I, scena I Poro Fermatevi codardi! Ah! Con la fuga Mal si compra una vita. A chi ragiono? Non ha legge il timor. La mia sventura I più forti avvilisce, io la ravviso. Le calpestate insegne, Le lacere bandiere, L’armi disperse, il sangue, e tanti e tanti Avanzi dell’insana Licenza militar tolgono il velo A tutto il mio destino. È dunque in cielo Sì temuto Alessandro Che a suo favor può fare ingiusti i numi? Ah! Si mora, e si scemi Della spoglia più grande Il trionfo a costui. Già visse assai Chi libero morì. (in atto di uccidersi22 22 23 ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena I Poro Soldados vis, esperai, A fuga detende, infames, Vede ganhais no socego O que perdeis no resgate; Não se defende fogindo Da vida a jóia admirável, Que o salvá-la com deshonra He perdê-la com ultraje. Mas a quem fallo? A quem chamo? Quando vejo, infeliz trance! Que não tem leis o temor Impresso em peitos cobardes. Já vejo minha desgraça, Como minha em tal combate Nos peitos mais valorosos Infunde fraqueza grande. P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 311 e 1443-1444. Ivi, p. 311. EDIZIONE HÉRISSANT 1780-82 Atto I, Scena I Poro Fermatevi codardi! Ah! Con la fuga Mal si compra una vita. A chi ragiono? Non ha legge il timor. La mia sventura I più forti avvilisce. È dunque in cielo Sì temuto Alessandro Che a suo favor può fare ingiusti i numi? Ah! Si mora, e si scemi Della spoglia più grande Il trionfo a costui… Ma la mia sposa Lascio in preda al rival? No, si contrasti (ripone la spada nel fodero L’acquisto di quel core Sino all’ultimo dì23. 108 Capitolo II Debaixo dos pés prostradas As insignias militares, As armas dispersas, rotas As bandeiras, vivo o sangue, E tão supremos despojos da militar liberdade? O meu infeliz destino Conhecer todos me fazem. É possivel que assim seja Tão temido este Alexandre, Que, para o favorecerem Do Ceo as Sacras Deidades, Dando auxílio às injustiças Injustas queirão chamarse! Eu mais remedio não sinto, Que o morrer, co’ a morte aparte O mais soberbo triunfo Com que pode laurearse, Já muito viveo quem morre Liberto24. Il venenoso ciume che caratterizza la figura del Poro portoghese rende immediatamente l’idea di un amore per Cleofide caratterizzato da una gelosia irosa che, tuttavia, non accieca il re indiano, al contrario, lo rende perfettamente consapevole della 24 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, traduzida do Italiano em o Portuguez idioma, e ornada ao gosto dos Lusitanos Theatros, por M.C. de M.M., Lisboa, Off. Francisco Borges de Sousa, 1764, pp. 3-4. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 109 portata distruttiva, velenosa appunto, di un sospetto continuamente alimentato e quasi coltivato con masochistico piacere, come saranno quasi tutte le elucubrazioni del Poro portoghese, spesso al limite dell’illogicità. Una seconda differenza, questa volta più a livello di efficacia della costruzione sintattica che lessicale, è l’incipit della risposta di Poro ad Alessandro riguardo le sue origini e la sua identità, qui celata sotto le mentite spoglie del guerriero Asbite. In questa occasione è il testo portoghese a perdere in forza oratoria, in eloquenza di energico impatto emotivo rispetto ad entrambe le edizioni originali: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto I, Scena I Aless. Guerrier, chi sei? Poro Se mi richiedi il nome, Mi chiamo Asbite; se il natal, su ‘l Gange Io vidi il primo dì; se poi ti piace Saper le cure mie, per genio antico Son di Poro seguace e tuo nemico25. 25 26 ÓPERA NOVA 1764 EDIZIONE HÉRISSANT 1780-82 Acto I, cena I Atto I, scena II Alex. Quem és, Soldado, me dize? Poro Se perguntas, (ah Pezares!) (À p.) Qual é meu nome, é Asbites; Se pertendes te declare Donde tive o nascimento? Saberás que foi no Ganges: E se o que faço também Saber desejas? Só sabe Que sou, por força de génio, Um teu inimigo grande; E sou Soldado de Poro Aless. Guerrier, dimmi: chi sei? Poro Nacqui sul Gange; Vissi fra l’armi; Asbite ho nome: Non so che sia timor; più della vita Amar la gloria è mio costume antico; Son di Poro seguace e tuo nemico26. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1445. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 312. Capitolo II 110 Por natureza. Isto baste27. È evidente che il verso portoghese riesce a stemperare la coincisione perfetta della declamazione italiana, in un concatenarsi di elucidazioni dalla minore efficacia e dalla scarsa immediatezza emotiva, soprattutto a causa dell’incalzare delle ipotetiche retoriche «Se perguntas.... Se pertendes.... se o que faço...», molto meno dirette e taglienti del nostrano «Nacqui... Vissi.... Amar...». Allo stesso modo, un passaggio rifiutato nella versione definitiva in corrispondenza della quarta scena del primo atto, uno scambio di battute di una certa consistenza tra Cleofide e Poro, non solo non aggiunge nulla di significativo alla trama di fondo del testo, ma non costituisce altro che un rinnovarsi di promesse di fedeltà insieme ad un ampio sfogo dei moti della passione e della gelosia più cieca, rasentando spesso lo psicologismo più infruttuoso e monotono. Un passaggio quindi che, se da un lato ci rivela un traduttore conoscitore degli aspetti più reconditi della personalità umana, e in questo forse troviamo un merito, dall’altro non fa che calcare fortemente sul patetismo più stucchevole e sull’insistente reiterarsi di elucubrazioni mentali dei personaggi più tormentati, che poco corriponde alla perfetta ed incisiva concinnitas metastasiana finale: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto I, Scena VI Acto I, cena II Poro (Ecco l’infida!) Io vengo, Regina, a te di fortunati eventi Felice apportator. (con ironia amara Cleof. (rasserenandosi Numi! Respiro. Che rechi mai? Poro Aqui vejo a desleal. (À p.) Dai-me esforço, Deoses Sacros. Rainha, a dar-te notícias De sucessos muito faustos À tua presença venho. Cle. E quaes são? 27 ÓPERA NOVA 1764 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., pp. 4-5. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Poro Per Alessandro al fine Si dichiarò la sorte. A me non resta Che una vana costanza, Che un inutil ardir. Cleof. Son queste, oh Dio, Le felici novelle? Poro Io non saprei Per te più liete immaginarne. Il solo Inciampo al vincitor com me si toglie; Onde potrai fra poco In lui destar gl’intepiditi ardori, E far che, ossequioso, Del donato Oriente Venga a deporti al piè tutti i trofei. Cleof. Ah! Non dirmi così, che ingiusto sei. Poro Ingiusto! È forse ignoto Che, quando in su l’Idaspe Spiegò primier le pellegrine insegne, Adorasti Alessandro? E che di lui Seppe la tua beltà farsi tiranna? Forse l’India no ‘l sa? Cleof. L’India s’inganna. Io non l’amai; ma, dall’altrui ruine Già resa accorta, al suo valor m’opposi Con lusinghe innocenti, armi non vane Del sesso mio. D’onde sperar difesa Maggior di questa? Era miglior consiglio Forse nell’elmo imprigionar le chiome? Coll’inesperta mano Trattar l’asta guerriera? Uscendo in campo, Vacillar sotto il peso D’insolita lorica, e farmi teco Spettacolo di riso al fasto greco? Torna, torna in te stesso: altro pensiero Chiede la nostra sorte Poro Eu tos declaro: Que por parte de Alexandre Já se declarou o fado; E que a mim só me ficou, Entre tão grandes trabalhos, Uma vã constância, e um Arrojo inútil, e insano. Cle. E dize, as novas felices São estas, que me tens dado? Poro Mais agradáveis notícias Para o teu gosto reparo Não podia descobrir Meu vigilante cuidado: Com a minha infeliz sorte Ao vencedor Soberano Para os triunfos que emprende Se tira todo o embaraço. Brevemente poderás Com mais reverente agrado Renovar o antigo amor, E fazer que tributário Se sacrifique os despojos Do Oriente conquistado. Cle. Ah, não me falles assim, Porque és injusto, e tirano. Poro Injusto! Pois por ventura Não é público a este estado, Que desde a primeira vez, Que desse Alexandre Magno Se virão suas bandeiras Tremolar no Idaspes claro, Lhe rendeste adorações? E que vencê-lo, e domá-lo Soube a tua formosura? Toda a Índia sabe o caso. Cle. Engana-se a Índia toda, Nunca de mim foi amado: Só me quiz fazer prudente 111 Capitolo II 112 Che quel di gelosia. Poro Qual è? Pretendi Che d’Alessandro al piede Io mi riduca ad implorar pietade? Vuoi che sia la tua mano Prezzo di pace? Ambasciador mi vuoi Di queste offerte? Ho da condurti a lui? Ho da soffrir tacendo Di rimirarti ad Alessandro in braccio? Spiègati pur, ch’io l’eseguisco e taccio28. 28 29 Com os alheios trabalhos; Ao seu valor só me oppuz Com lisonjeiros recatos, Que são as mais fortes armas De um sexo débil, e fraco. Onde poderia achar Do que este melhor reparo? Seria melhor conselho Occultar meus louros raios Debaixo de um elmo duro? Ou sem exercício o braço Servir-se da dura lança, Como inútil aparato? E oprimida com o peso Das armas sair ao campo? Ou finalmente, contigo Fazer-me objecto de escarneo À vaidade dos Gregos, E ao valor dos mais Soldados? Ora torna, torna em ti, Outros conceitos mais altos, Que os do teu ciume, pede O nosso mísero fado. Poro Pois pertendes que eu aos pés Desse inimigo tirano Lhe vá implorar piedade? Queres que o preço mais grato Da paz seja a tua mão? Ou que em tantos sobresaltos Seja o próprio mensageiro Destes iníquos contratos? E hei–de soffrer, sem fallar, Ver de Alexandre nos braços Aquella, que no meu peito Tem amor já colocado? Manda-me, que eu te seguro Que tudo farei calando29. P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 1447-1448. Ivi, p. 1450. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 113 Altre varianti sembrano costruite inizialmente allo scopo di caratterizzare con una coloritura più o meno accentuata, a seconda delle finalità, sfumature della personalità dei personaggi in azione. È un fatto, ad esempio, che Poro venga dipinto, in materia d’amore e di gelosia, con i tratti tipici della fragilità femminile, con l’inquietudine tormentata dell’amante incerto e sospettoso che attinge livelli di un martirio psicologico molto meno accentuato nel Metastasio finale. Si tratta di una serie di rimproveri dell’amico Gandarte a Poro riguardo la sua fragilità psicologica e comportamentale, rimprovero che invece dell’indignazione per tanto ardire, induce il re a confermare ed esasperare maggiormente le ragioni della propria condotta: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto I, Scena IX Gand. Fermati. E vuoi Per vana gelosia Scomporre i gran disegni? A gli occhi altrui Debole comparir? Vedi che sei A Cleofide ingiusto, a te nemico. Poro Tu dici il vero, io lo conosco, amico. Ma che perciò? Rimprovero a me stesso Ben mille volte il giorno i miei sospetti; E mille volte il giorno Ne’ miei sospetti a ricadere io torno Se possono tanto Due luci vezzose, Son degne di pianto Le furie gelose D’un’alma infelice, D’un povero cor. S’accenda un momento ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena II Gand. Espera, Senhor. E queres, Por uns mal nascidos zelos, Desordenar os desígnios Dos nossos altos projectos? Pertendes todos te tenhão Por fraco? Eu o não tolero. Considera com Cleofide És ingrato, és desattento, E que, obrando assim, te fazes Inimigo de ti mesmo. Poro Não te enganas no que dizes, A verdade eu bem conheço, Pois que das minhas suspeitas A mim próprio reprehendo; Mas mil vezes cada dia Tropeço no que suspeito. Não posso mais demorar-me, Acabem-se os meus desvelos, E à vista de Cleofide Tenhão fim meus pensamentos. Matão-me os zelos, ardo como louco Capitolo II 114 Chi sgrida, chi dice Che vano è il tormento, Che ingiusto è il timor30. Neste fogo infernal do mal violento, E das chamas, que exhla o sentimento, Nem sequer respirar me deixa um pouco: Oh inferno de amor! Onde não toco C’um limitado alívio ao meu tormento, Até nos mesmos fumos me sufoco: Se remedio não tenho ao mal tirano; E me sinto morrer com tanta incúria, Sirva-me o mesmo mal de desengano: À vista do inimigo sinta a injúria, Que se mais me augmentar do fogo o dano, Abraze-o deste inferno a mesma fúria31. Sempre all’interno di quella tecnica che abbiamo definito dell’esplicitazione, si assiste alla frequente sostituzione dell’aria a fine scena con un recitativo chiarificatore dei sentimenti del personaggio, allo scopo di ribadire o sottolineare ogni sfaccettatura dei segreti dell’animo e mostrando spesso una ridondanza non necessaria all’economia del testo. Un primo esempio è la reazione di Poro alla spada datagli in dono da Alessandro, reazione che la traduzione portoghese svolge con una quantità di contenuti non presenti né nell’edizione veneziana né in quella parigina: EDIZIONI BETTINELLI E HÉRISSANT Atto I, scena II ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena I Poro Vedrai di questa spada il lampo, Come baleni in campo Sul ciglio al donatore. Conoscerai chi sono: Poro He forçoso aceitar-te A dádiva, que me ofereces, Inda que ao depois alcances, Que a que foi tua defensa 30 Ivi, p. 1450. 31 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 11. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Ti pentirai del dono; Ma sarà tardi allor32. 115 Seja estrago do teu sangue; Quando por feridas tantas Esta espada te declare Qual é o uso que dela Faz Asbites, pois que ha–de Em teu damno procurar As ocasiões de arruinar–te. Tu saberás como esgrimo Esta espada rutilante Quando morda esse teu peito Como mortífero áspide. De quem sou prova bem certa Te ha–de dar, e deste lance, Que vanaglorioso fizeste, Te arrependerás, mas tarde; Reconhecendo que a espada, Que liberal me offertaste, Ha–de ser em tua ofensa Um vivo raio de Marte33. Stesso discorso per l’aria a conclusione della terza scena del medesimo atto, cantata da Alessandro per rispondere alla proposta di Timagene sulla necessità di tenere prigioniera Erissena, sorella di Poro, versi resi in portoghese come segue: EDIZIONI BETTINELLI E HÉRISSANT Atto I, scena III Aless. Vil trofeo d’un’alma imbelle È quel ciglio allor che piange: Io non venni insino al Gange Le donzelle a debellar. Ho rossor di quegli allori, Che non han fra’ miei sudori Cominciato a germogliar34. 32 ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena I Alex. O ilustre peito, que o valor inflama, Não consegue no débil a vitória, Antes perde o brazão da heróica chama, Se no torpe da acção desdoura a glória; É Herói só aquele a quem a fama Ivi, p. 313. Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 6. 34 P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 314-315. 33 Capitolo II 116 Lhe dá lugar no templo da memória, Regolando as acções da heroicidade Pelo puro brazão da eternidade35. Caso ancor più eclatante è la versione dell’aria che precede l’ottava scena del primo atto, laddove non solo muta il lessico e la costruzione rimata del verso, ma cambiano totalmente i concetti espressi dal personaggio di Cleofide nel placare le gelosie dell’amato Poro. Se, infatti, nel testo di partenza la regina delle Indie si difende con gli argomenti della sua stessa passione per Poro, la traduzione portoghese evita sostanzialmente temi eccessivamente intimistici e sentimentali, per affidare l’argomentazione della propria onestà ai valori assoluti che devono albergare negli animi nobili, con tanto di riferimenti alla mitologia greca e metafore belliche: EDIZIONI BETTINELLI E HÉRISSANT Atto I, scena VII Cleofide. [...] Se mai turbo il tuo riposo, Se m’accendo ad altro lume, Pace mai non abbia il cor. Fosti sempre il mio bel nume; Sei tu solo il mio diletto; E sarai l’ultimo affetto, Come fosti il primo amor36. 35 36 ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena II Cle. [...] Desterra do ciúme a vil torpeza, Que é, no peito do nobre, acção impura, Que manchar com infâmia a formosura, É as leis macular de uma nobreza; Se nasceo de Cupido esta vileza, Que dos peitos leaes é guerra dura, Foi só para quebrar a fé segura, Que no Templo se achasse da firmeza: Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 6. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 320. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 117 Se é infame dos zelos a maldade, Um Soberano Herói, que assim adoro; Não deve macular a heroicidade, Antes deve advertir, quando lho imploro, Que não violenta as leis da lealdade Quem sabe conservar as do decoro37. Altri segni di questa esplicitazione sono evidenti nella semplificazione delle strutture sintattiche e nello scioglimento delle figure retoriche più complesse. Si veda il caso della battuta di Timagene che racconta la sua nascita in quella stessa terra greca che vide i natali di Alessandro: EDIZIONI BETTINELLI E HÉRISSANT Atto I, Scena IV Timagene Sotto un istesso cielo Spuntò la prima aurora A’ giorni d’Alessandro, a’ giorni miei38. ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena I Tim. Observa, Que assim eu, como Alexandre, Nascemos na mesma terra39. Presupponendo un pubblico non in grado di cogliere sensi e sfumature di concetti che in Metastasio la forma breve e complessa rende efficaci ed affascinanti al tempo stesso, il nostro traduttore opera diversi cambiamenti nelle sfaccettature della personalità dei singoli personaggi, dando al testo una costante atmosfera di leggerezza, una mancata discesa agli inferi più reconditi della passionalità umana, con tutti i suoi eroici impeti e con tutta la sua 37 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 10. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 315. 39 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 7. 38 118 Capitolo II carica distruttiva, smorzando decisamente la problematicità dell’animo umano che in Metastasio aveva tanta parte. È questo il caso di un dialogo tra Gandarte ed Erissena ancora nel primo atto, dove, mentre il primo si strugge dal profondo per la consapevolezza di un amore non ricambiato, la seconda ammette con dolore la percezione di un nuovo sentimento per Alessandro, senza per questo rinnegare l’amore di un tempo. Si tratta di un dialogo che nel testo in traduzione si trasforma in superficiale rassegnazione per la mutevolezza dell’amore femminile, un discorso sopra le righe e a tratti caratterizzato da un sarcasmo amaro di dubbio gusto ed espresso addirittura dalla stessa Erissena, beffarda schernitrice di un realismo delle pasisoni umane che forse in Metastasio era lasciato all’interpretazione del pubblico: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto I, Scena X Gand. Non ti sovviene Quante volte, pietosa al mio tormento, mi promettesti amor? Eriss. Sì, me ‘l rammento. Gand. Ed or perché, tiranna, Hai piacere d’ingannarmi? Eriss. E chi t’inganna? Gand. Tu, che ad altri affetti, Dovuti a me, senza ragion comparti. Eriss. Dunque, per bene amarti, tutto il resto del mondo odiar degg’io? ÓPERA NOVA 1764 Acto I, cena II Gand. Tu, cruel, Que empregas os teus afectos Em outrem, quando só dignos São dos meus amantes termos. Eric. Logo, por amar-te a ti, E aceitar os teus excessos, Igualmente a todo o mundo Supponho aborrecer devo? Gand. Quem jamais no mundo ouvio Do que ao meu igual successo! Eric. Gandarte, se é que procuras Amor puro, amor sincero, Em que consentir não possa Nas finezas companheiro, Ama-te só a ti próprio, Não busques segundo emprego, Metastasio, padrão de vida do século XVIII Gand. Chi udì caso in amore eguale al mio?40 119 Que já hoje não se encontra Tão raro procedimento. Deixa a formosura logre Com perenes privilégios Abundantes sacrifícios No altar do seu respeito; Que aceitar só os teus votos, Quando mais victimas tenho, É diminuir a glória Do maior procedimento. Se procuras que te adorem Debaixo dos teus preceitos, Tão cega fidelidade Não se encontra nestes tempos. (V.) Gand. Há caso maior do que este! Há coração mais protervo, Que o que mancha uma fé pura Com traidor procedimento! Porém que digo? se alcanço, Que todo o femenil peito, Sendo vário nas firmezas, Só nas mudanças é certo41. Infine, ecco l’ingresso dei graciosos. Coincidentemente alla fine della decima scena del primo atto, il traduttore–adattatore decide di introdurre un lungo scambio di battute tra i servi dei personaggi principali (per un totale di dieci colonne di versi) in cui vengono attuate tutte le classiche procedure della comicità teatrale del noto triangolo familiar–amoroso tra padre, figlia e pretendente: equivoci, canzonature, travestimenti e sotterfugi. Il tutto raccontato attraverso lo stravolgimento linguistico di finte parlate africaneggianti (un lungo scambio di battute in cui la parlata del servo Calote, travestito da spirito dell’aldilà di razza nera, sostituisce al singolare il plurale, la consonante vibrante alveare sonora r alla laterale l o alla dentale d, quest’ultima spesso sostituita dalla dentale sorda t, così come muta fricative con affricate, z per s, scambia le vocali e con a ed a con o 40 41 P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 1450-1451. Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 12. 120 Capitolo II e, infine, il suono lh con y), giochi di parole, storpiature e risignificazioni di nomi propri in base a combinazioni di senso finalizzate alla messa in ridicolo del personaggio e, soprattutto, allusioni poco sottili a situazioni erotico–sentimentali proprie della farsa più popolaresca. È per questa caratteristica dell’intromissione dei criados che si può parlare di lascito del teatro barocco e non ancora delle caratterizzazioni–tipo della servitù goldoniana. Ma è soprattutto in questo tratto del tutto originale dell’adattamento al gusto portoghese che si attua la massima coincidenza con il teatro elisabettiano del secolo precedente, laddove è indubbia una diretta filiazione dei graciosos portoghesi dal fool specificamente sheakespeariano. I punti di contatto sono molteplici e soprendentemente combacianti, addirittura sovrapponibili se si tiene conto delle riflessioni e delle ricerche condotte in questo campo da Roberta Mullini e confluite nel suo studio del 1983. L’immagine del fool, il folle di origine cortigiana e medievale, corrisponde infatti a quella del gracioso, definito appunto louco negli adattamenti da noi analizzati in ben ventisei occorrenze e che riunisce in un’unica definizione l’immagine del bobo, il buffone di corte, del clown, il campagnolo goffo, e del jogral, il giullare, ovvero lo iocularis, il giocoliere di parole. Il fool analizzato dalla Mullini è, insomma, il medesimo incarnato sotto molti aspetti dal gracioso portoghese, soprattutto nella sua definizione di stage– fool, e che non solo ha «la libertà di dire ciò che pensa»42, ma che è anche trasposizione teatrale del «sempliciotto astuto che dice la verità celandola tra facezie e stramberie»43 con il ruolo fondamentale di “chiosatore del reale”44, di fou glossateur che si esprime eminentemente attraverso malapropismi. La contiguità delle caratteristiche inerenti ai “folli” del teatro shakespeariano elaborati da Mullini è talmente calzante alle modalità con cui viene descritto il gracioso degli adattamenti che andremo ad analizzare nel dettaglio, da poterne elencare schematicamente e con una certa sicurezza i punti di contatto: impiego ludico della parola, funzione 42 Roberta Mullini, Corruttore di parole. Il fool nel teatro di Shakespeare, Clueb, Bologna, 1983 (ed. 1990), p. 13. 43 Ivi, p. 12. 44 Ivi, p. 31. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 121 di commento, monologo di autopresentazione, ammiccamenti, canto, travestimento paralinguistico, diminuzione di status, enunciazione di proverbi, accumulazioni retoriche, personificazione di peccati, bassa estrazione sociale, travestimento iconico, critica ironica del reale, gesticulatio, costruzione di una trama secondaria, ininfluenza dell’azione comica nella trama primaria, funzione di metapersonaggio, involontaria incorporazione nella fabula. I tre elementi comici in gioco nella traduzione dell’Alessandro nell’Indie rivelano il carattere dei propri personaggi sin dal loro primo comparire, attraverso la condizione imprenscindibile per questo tipo di interlocutori del nomen omen, per cui immediatamente ci si presenta Trapaça, serva di Cleofide, appunto come trappe, trappola, truffa, burla, imbroglio o inganno, e nel gergo portoghese, anche menzogna (Trapacinha embusteira viene definita ad un certo punto, come a dire “Furfantella imbrogliona”), suo padre Enredo, che in questo testo non è colui che intrappola nella propria rete (en-rede), né colui che ordisce l’intrigo o l’intreccio e trama della narrazione, come più correntemente vuole l’accezione del termine, bensì colui che se enreda, che cade nella propria rete, finendo per incappare in situazioni complicate ed imbarazzanti a causa della sua stessa credulità e, infine, Calote, nome che permette al traduttore di spaziare all’interno di molteplici espressioni idiomatiche con un’insistenza forse eccessiva. Il termine infatti possiede di per sé una gamma di significati piuttosto ampia e variegata: si va dal debito contratto senza possibilità di estinzione (e qui nel significato del termine francese culotte, pedina del domino che non può essere giocata), al chiodo, utilizzato soprattutto nell’espressione pregar calote, molto insistita nel testo e che assume tanto il significato di non pagar debito quanto quello di piantar chiodi, entrambi i sensi relativi ad un personaggio truffaldino e petulante. Qui, infatti, l’adattatore si è potuto sbizzarrire nelle più diverse combinazioni espressive, que um calote pregue, se o calote pega, pregue um calote ao jarreta, caloteira, pregar-lhe um gran calo, este pano está pregado, come pure il lungo scambio di battute tutto dedicato a questo gioco di parole («Cal. […] Pregue a este Calote um calo./Alex. Um 122 Capitolo II calo!/Cal. Sim, dos mais grandes,/Que pode haver./Alex. Falla claro./Cal. É que aquela mocetona/Caze com este morgado./Alex. Pois o cazar é calote?/Cal. É dos mais extraordinários,/Que se prega a um triste homem/Nestes tempos arrastados»)45. Tuttavia l’elemento centrale e motore dell’azione dei tre criados (che riportiamo integralmente qui di seguito e che si sviluppa ad intervalli lungo i tre atti dell’opera) è unicamente la motivazione economica, la spinta ad agire sia per l’intento di Calote di unirsi in matrimonio con Trapaça, sia per la strenua difesa dei beni raccimolati in tanti anni di servitù da Enredo. Perno dell’azione comica è quindi la brama di arricchimento che Calote concretizza attraverso il furto e che in Enredo si esprime con un’avarizia estrema che arriva fino a sacrificare il futuro matrimoniale della propria figlia. Si vedano a questo proposito passaggi come «Enre. […] Você de Cleofide é serva,/E com mais estimação,/Porque eu tenho mais riqueza./[…] Não sabe que estou mais rico?»46, o la stessa affermazione di Calote che giustifica la propria richiesta di unirsi a Trapaça con la possibilità di raggiungere una situazione economica più favorevole, attraverso il furto che anche la serva dovrebbe commettere ai danni del padre: «Cal. Pois que vai, minha Trapaça,/O meu amor te protesta,/Que para gozar-te amante/Arme ao velho tres mil petas»47. Già Giuseppe Carlo Rossi si era espresso su questi graciosos dell’Alexandre na India: a relação dos três graciosos entre si é diferente: o mais velho deles não é rival do mais novo mas o pai da rapariga, costuma dificultar o amor do jovem pela filha ora pela natural desconfiança dos velhos, ora porque quer casá-la com outro homem. Está neste último caso a refundição do Alessandro nelle Indie, também já no título dada com um tom moral: Vencer-se é maior valor, ou Alexandre na India (1789); a peça portuguesa é conduzida com tão extraordinária mobilidade psicológica e dramática, numa série ininterrupta e rapidíssima de situações, num jogo contínuo das falas curtas ou, se longas, desembaraçadíssimas, numa atmosfera de tão bom humor, que o leitor acaba por esquecer completamente o ponto de partida do original. Não hesito em declarar 45 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., p. 48. Ivi, p. 12. 47 Ivi, p. 17. 46 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 123 esta peça uma pequena obra prima: suponho que, se for possível uma dupla representação ao mesmo tempo, diria «pirandelliana», do original metastasiano e desta adptação, teria um sucesso certo48. A margine di queste riflessioni sui graciosos ci preme collocare un’annotazione che indubbiamente riguarda tutte le situazioni e gli intrecci messi in atto dai criados di tutti gli adattamenti che in seguito andremo ad analizzare. Si tratta della linea di continuità che lega queste figure originali ai tipici personaggi del teatro vicentino del XVI secolo, non solo nei modi e nelle forme in cui si esprimono ed agiscono i popolani e popolari personaggi usciti dalla penna di Gil Vicente, ma soprattutto nei contenuti di quelle situazioni e di quegli intrecci a cui continuamente si richiamano le trame rocambolesche, farsesche e comico–grottesche dei nostri adattamenti al gusto portoghese. Una somiglianza e una linearità particolarmente evidente nel costante tentativo di portare al centro della scena uno spaccato della società lusitana dell’epoca e del temperamento iberico sanamente e scopertamente istintuale, primitivo, genuinamente basso–corporale e contrario ad ogni edulcorante rappresentazione moralista dei tipi rappresentati. Insomma, una quotidianità fatta di espressioni poco auliche ed esternazioni molto prosaiche, frasi, motteggi, atteggiamenti ed azioni popolaresche al limite dello scurrile, ma quanto ci potesse essere di più conforme alla realtà e alla normalità quotidiana tanto dell’epoca di Vicente, quanto dell’età degli adattatori al gusto portoghese. E quanto i nostri traduttori del Settecento abbiano attinto dai modelli dell’inventore del teatro portoghese appare chiaro sin dalla prima entrata in scena del servo Calote, ramazza in mano, come la Lediça dell’Auto da Lusitânia (1532) che cominciava appunto la sua azione varrendo: 48 G. C. Rossi, A evolução e o espírito do teatro em Portugal, op. cit., p. 308. Capitolo II 124 LEDIÇA Muito tenho por fazer E não tenho feito nada: Está a logea por varrer, Os meninos por erguer E enha mãe ensobradada49. Infine, il rimpianto per le tabernas sempre secas del nostro Calote non potrà richiamare alla memoria il Pranto de Maria Parda (1522) per «tam pouco ramos nas tavernas e o vinho tam caro?»50. Un’indubbia derivazione almeno a livello espressivo, se non addirittura di costruzione tipologica di questo genere di personaggi. 49 50 Obras de Gil Vicente, Lello & Irmão Editores, Porto, 1965, p. 427. Ivi, p. 1309. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Opera Nova intitulada Vencer-se é Mayor Valor (1764) Que falam de uma tal sorte, Que não há quem os entenda, Venhão cá ao fim do mundo Fazer uma viva guerra? Não sabe dela se seguem Mil distúrbios, mil misérias? O rico torna-se pobre, O que tem vida sem ela; As honras tão mal seguras, E as liberdades tão prezas? A fome sempre contínua, A sede, que desespera; E, inda para mais desgraça, Sempre secas as tabernas! Mas cá me está parecendo, Que a tal gente como esta Vossa excelência auxilia, E ampara vossa insolência: Porque como Gregos são, Vossa suprema Deidade É desta gente patrono; Porque há muito que se observa, De que a vossa devoção Faz a muita gente Grega. Em fim, quer faça, quer não, O que pedir–lhe quizera É, que a huma certa mocinha De Cleofide humilde serva, Que é Trapaça, cujo nome Com grandeza desempenha, Que, além de ser rapariga, É mui forte trapaceira, Resguardasse com cuidado De alguma Grega tragédia; Pois bem sabe que a velhaca Me anda cá mudando as Cenas. Se conhece que o meu nome É Calote, com destreza Faça que um calote pregue A Trapacinha embusteira. Mas ela aqui se encaminha, Valha-me vossa decência, Que como oráculo seu Verei se o calote pega. Acto I, cena II (Sahe Calote com vassoura para varrer o Templo) Cal. Tal occupação não quero, Eu me arrenego com ela, Já que assim todos os dias Hei–de andar com tal moléstia. Que o Senhor Poro meu amo Me fizesse esta graceta! Eu bem sei que não he má, Que as mais horas são libertas; Mas melhor fora se acaso Co’ a pensão andasse a renda; Mas a despesa infalível, E duvidosa a receita: Isto é fé, que sempre vive, E esperança, que não chega. Mas em fim, se isto ha–de ser Vamos varrendo, e paciência. Senhor Dom Baco, Patrono De toda a Índia terra, A quem muita gente boa Rende cultos, faz ofertas, E eu, mais devoto que todos, Com profunda reverência (Faz o que dizem os versos) Em terra ponho os joelhos, Abaixo-lhe esta cabeça, No peito lhe ponho a mão, Beijo-lhe a outra, etcetera. (Levanta-se) Se esta bacanal Deidade Tanto aos humanos sujeita, Que aqueles que tem juízo Os está mudando em bestas, Como consente que os Gregos, Gente vil, gente cruenta, 125 126 (Esconde-se detraz do Ídolo) (Sai Enredo, e Trapaça) Enr. Não há mais que replicar, Neste Templo sem detença Hei–de deixá-la fechada, Dando à chave volta e meia. Não cuide, por ver-me velho, Ha–de ser namoradeira; Porque sua honrada Mãe, Que Baco em descanço tenha, Como mulher tanto de honra, Era sezuda, e honesta, Nem tratou nunca de andar Bem como andão nestas eras As raparigas da moda, Que o tempo introduz por sécias, Com macaquices às portas, E mil momos às janelas. Você andar com Calote Atrevida, e desinquieta, Sem ver que é um varredor Deste Templo e sem que tenha Mais que malícias no couro, Nunca chelpa na algibeira! Se ele é criado de Poro, Você de Cleofide é serva, E com mais estimação, Porque eu tenho mais riqueza. Não vê que a Cleofide há annos Sirvo na sua despensa, Ofício sem alcavalas, Não mais que uma sisa inteira? Não sabe que estou mais rico? Pois como assim, velhaqueta, Sem reparar no decoro Quer fugir da obediência? Trap. Meu Paizinho, como assim Tantos martírios me ordena? Certamente que isso nasceu Da sua pouca prudência. Enr. Pois que quer, que eu a Capitolo II consinta? Não assino; mais depressa Hei–de convertê-la em cinzas, E reduzi-la a misérias; E ao velhaco de Calote Prometo que o leve a breca. Cal. A Sagrado está alcolhido. Não se lhe dá do jarreta. (Detraz do Ídolo) Enr. O Calote... Trap. Ora Senhor, Porque está com essa teima, Se se não sabe se é vivo Depois que foi para a guerra? Enr. Oh más balas o apanhem! Cal. Oh máo estupor tu tenhas. (À p.) Enr. Pois em quanto eu averiguo Se essa notícia é certa, Fechadinha ficará Neste Templo. Trap. Que impaciência! Cal. Deixa-te estar, rapariga, Não tomes tão grande pena. (À p.) Trap. Paizinho... Enr. Mais me não diga, Aguarde a que logo venha; E no entanto fecho a porta, E a chave vai na algibeira. (Vai-se fechando a porta) Trap. Oh desgraçada de mim! Como o peito não rebenta Vendo tanta sem-razão, E uma tão grande insolência! (Sai Calote) Cal. Certamente é desaforo Ver que um Pai origem seja Metastasio, padrão de vida do século XVIII De que sua própria filha Tal desacato cometa. Trap. Ai, que é isto? Cal. Não é nada, É uma moça donzela Com um homem conversando Às escuras sem candeia. Trap. Não, o Templo está aceso, Que as luzes bem alumeão. Cal. Mas é às portas fechadas, E o Pai a filha cá deixa. Trap. Do crime foi ignorante, Por cuidar que só me encerra. Cal. Se ele não tem a culpa, Pode ser que tu a tenhas. Trap. A culpa minha será Por assim me expôr a estas, Tão somente por eu crer Suas mudáveis finezas. Cal. Mudável eu! Sou mais forte, Que uma parede bem velha, Mais rijo do que uma linha, E mais teso que uma cera. Pois constante! Mais que todos, E por ti, oh rica prenda, Hei–de fazer tudo quanto For do teu agrado, ou queiras. Trap. Sim, as palavras são boas. Cal. E as obras serão perfeitas. Trap. A quantos riscos se expõe A mulher, que se sujeita A querer bem a um homem! Cal. Ora digo-te que és nescia. E a quantos mais fortes riscos Um aflicto homem se chega: Já expondo a sua vida; E talvez que a dama esteja, Ou para o querer dormindo, Ou para a traição desperta; Não, filha, cá de saiotes Não se fia nestas eras. Trap. Não se fia, porque os homens Prevaricão as finezas. Cal. Nisso não falemos nós, 127 Queres-me tu? Trap. Que cegueira! Pois não vê o que padeço A seu respeito? Cal. Que eu creia tantas finezas é justo; Mas quem mais ama receia. Trap. Como estavas aqui dentro? Cal. Porque vim mais que depressa Varrer o Templo, e, bispando Essa tua gentileza, Me escondi detraz de Baco, Sem olhar a indecência; Que inda que fosse detraz, Como é Deos, é coisa certa, Como tal estava livre Que abrisse a porta travessa. Daí ouvi maldade Daquele ginja, e por ele Hei–de lograr os teus mimos, E ir-lhe sacando as moedas. No Templo há uma estrada, Que eu tão somente sei dela, Que ao quarto vai dar de Poro, Que ele com toda agudeza Mandou fabricar segura, Porque assim na escura treva Da noite passasse ao quarto De Cleofide, e assim espera, Que, valendo-me da estrada, Pregue um calote ao jarreta. Trap. Espera, que passos sinto. Cal. Será ele, pois não temas, Ajuda com fingimentos Todas as minhas ideias, E em breve tempo verás Como são minhas finezas. (Entra pelo Templo, e sai pela porta Enredo) Enr. Trapaça! Trap. Querido Pai? Enr. Estás cá? 128 Trap. É boa essa! Enr. Ando com muito cuidado Na tua grande esperteza; Porque vejo andares solta, Se preza não te tivera. Esses olhos não me mentem. Trap. Ai que loucura! Enr. Ah cadela! Queres cazar? Trap. Já me enfadão Tão grandes impertinências. Enr. Sim Senhora, bem conheço Toda a sua sizudeza. Ora diga, que é bonita, Quer cazar? Trap. É boa teima! Enr. Oh lá como se empespinha51, Se cora, e se faz vermelha! Isso é já costume em todas, Que se fazem de manteiga, Todas pêssegos, alcorca, Beijoim, e mais canela; E por cumprir seu desejo Padecem dores de pedra, Mal de angúrria, hypicondria, Mil comixões, sarna, lepra, Muitos flatos vitorinos52, Com mil dores de enxaqueca, Ah mulheres, como sois todas finas embusteiras! Trap. Eu não vi lingua tão má Em idade tão provecta. Enr. Eu não vi lingua mais boa, Que diz verdades sinceras. Has–de cazar ao meu gosto. Trap. Tal não farei. Enr. Ah cadela! Onde estou, que enfurecido Não te arranco essas orelhas! Ha–de cazar ao seu gosto, Ou ao meu? 51 Termine dal significato oscuro. 52 V. nota precedente. Capitolo II Trap. Se é que me aperta, Protesto que ao meu me caze Sem mais outra dependência. Enr. Ó cachorra, eu lhe protesto, Que lhe arranque essas goelas. Trap. O Deos Baco me socorra. Enr. Hei–de matá-la, embusteira, No Templo lhe hei–de cascar. (Foge Trapaça para dentro do Templo, Enredo vai atraz dela, e lhe sai ao encontro de dentro do Templo Calote em traje de preto) Cal. Teros mão, sioros veya. Enr. Ai que me mata Plutão! Cal. Prutão sar Deosa do inferna, Mim sar otra coizia. Trap. Ai meu Pai, que coisa é esta? Vamos o embuste alentando, Que este é Calote. (À p.) Cal. Ó ronzera, Este sar vozo Paizio? Trap. É meu Pai. Cal. Boa estar essa! Anra cá, veio marito, Porque con tar prisença, Como já carrero veio, Esse Deosa não respeita? Enr. Ai que de tamanho susto Nos calções o medo me entra. Cal. Sára já, marito, sára, Vozo cuira que sá beza? Eu sar arma de Carote, A quem vozo não respeta, Que por os sioro Baco Vem ser arma mandadera. Enr. Senhor Baco, eu me sufoco. Senhor cachorro, ai que pena! Eu não sei o que lhe diga. Cal. Mim sar cachorro? Pois reva. (Dá-lhe Calote). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 129 Trap. Ah Senhor quem quer que é, Use da sua prudência, Porque o susto de meu Pai, Que fale bem lhe não deixa. Cal. Vozo sar uma santia, Vozo Pai sar um carera. Anda vozo cá commigo. Enr. Que, que é isto, ó alma preta? Cal. Ó cachorro, vozo zomba? Enr. Tu com ele lá te avenhas; Se tu gostas de catinga Esse negro tição cheira. Cal. Cara os bocca, home marito, Deitáos ahi já por tera; Reguinga vozo, por Baco... Enr. Aqui estou à penitência. (Investindo-o Calote) Cal. Já rebruça se are pouro, Sem repricaro umas letra. Trap. Coitado do pobre velho A que miseria que chega! (À p.) Enr. Ah Senhora alma, repare Que o vento aqui me inquieta, E sofrê-lo já não posso, Porque estou à paravéla. Cal. Care os bocca, care os bocca. Aonde estão as moedas? (A Trap.) Trap. Na algibeira da cazaca. (A Cal.) Cal. Da cazaca? Pois espera. Enr. Ó lá, que é isso? Que é isso? Não consinto na conversa. Cal. Revanta, revanta já. Enr. Aqui estou, que mais ordena? Enr. Se eu zombo me leve a breca. Cal. Vozo rembra de Carote? Enr. Tal Calote me não lembra. Cal. Sabe vozo sou su arma? Enr. E que se me dá que o seja? Cal. Sabe vozo o que era busca? Enr. Alguma alma caloteira. Cal. Busca revá voza fia, Para rá cazá com era. Enr. Pois as almas do outro mundo Com as deste já se enredão? Bem avisados estamos Se ellas dão agora nessa. Cal. Deza estar, que eu faro à moza. Anra cá vozo, donzera, Que commigo zá secura. Enr. Donde a rapariga leva? Cal. Quero vozo estar cararo! Trap. Ora está galante a peta! (À p.) Meu Paizinho cale a bocca. Enr. Ora ha maior impaciência! Como é alma de Calote Ir com ela não regeitas? Cal. Sar uns arma muito rinda. Enr. Pela cor se vê que é bella. Cal. Ó vaiaco care, care, Que se não cara reveras Que os revará os pleto Onde ninguem más os veza. Menina, vozo sar mia? Trap. Meu Paizinho, ora veja O que quer que lhe responda? (Deita-se de barriga para baixo) (Levanta-se) Cal. Que se rispa essos cazaca. Enr. Despir-me? Para que festa? Trap. Paizinho, faça-lhe o gosto, Porque mal lhe não suceda. Enr. Mal haja a alma de Calote, Que inda morto me atormenta! Cal. Está rispido? Enr. Estou despido. Cal. Vejamo nozo a argibera. Enr. Isso não consinto. Cal. Maro! Ora que os quebro os cabeça. Enr. Rebentarei de paixão Se a bolsa esta alma me leva. 130 Capitolo II Cal. Isto que sar? Enr. É dinheiro. Cal. Bero, bero. Enr. A bolsa venha. Cal. Os borsa sar para os fia Quando mim cazar com era. Enr. Não convenho no contrato, Que é usura manifesta. Cal. Vozo querer vai commigo? Trap. Em quanto a mim sou de cera. Cal. Ora anda vozo. Trap. Pois vamos. Enr. Isso não, alma bregeira, Moça bonita, e dinheiro Ninguem o tem nestas eras. (Pega neles) Cal. Rarga vozo, canzarrão, Oia poi que os reva os breca. Enr. Não, não largo. Cal. Não os rarga? De Prutão are aos caverna Vir cos pleto. Enr. O Deos Bacante Hoje aqui me favoreça. Cal. Duas arma re repente Dem castigo a estos veia. (Foge Enredo para dentro do Templo, saem dous pretos, que pegão nele) Enr. Ai, ai de mim! Que inda vivo Já os dialhos me levão. Senhora alma de Calote, Que Baco no abismo tenha, Compadeça-se de mim, Assim Plutão lhe conceda Andar cá por este mundo Furtando bolsas alheias. Cal. Anda vozo já deplessa. Enr. Por mim não rogas, Trapaça? Trap. Em choros estou desfeita. Senhora alma do outro mundo, Que deve ter consciência, Salve a vida de meu Pai, Meu desarranjo conheça. Cal. Menina, já mim não pore Dar os vida essa embustera. Ravayo vozo aos abismo. Enr. Pois assim com indecência Desatende minha filha? É coisa de gente preta. Trap. Que desgraçada que sou! Cal. Revaio canaia à pleza... Enr. A Deos, filha. Trap. A Deos, Paizinho. Enr. Oh mal hajão as moedas! Que este he inferno maior, Que a lembrança me atormenta. (Levão os pretos a Enredo) Cal. Pois que vai, minha Trapaça, O meu amor te protesta, Que para gozar-te amante Arme ao velho tres mil petas. Trap. Has–de tu cazar commigo? Cal. Pois como assim te receias? Se vês que já tenho o dote, Que he o que nestas tormentas Transporta a porto seguro Quem nestas barcas navega. Trap. Pois vai-te, e vem sempre ver-me. Cal. Eu usarei das ideias Em que andão sempre os amantes Por lograr de amor as prendas. Trap. Pois adeus. Cal. Adeus, que eu vou-me Já com toda a ligeireza A ver se meus companheiros O que eu lhes disse fizerão. Trap. Urdiste já outro embuste? Cal. Disse-lhes que, com cautela, Tapando a teu Pai os olhos, Metastasio, padrão de vida do século XVIII Com bem subtil agudez O ponhão livre em Palácio Sem que ele a história perceba. Trap. Anda, vai, não te demores. Cal. Eu parto já à carreira. Trap. Vou segura em teu amor? Cal. Podes ir como huma penha. Trap. Em te adorar sou de bronze. Cal. Em te querer sou de pedra. Trap. Em querer-te leal, se bem discorro, Sou mais firme, meu bem, que um grande calo. Cal. Eu, na minha firmeza, sou de ferro, E, cativo de amor, nunca sou forro. Trap. Se eu firme te não for, pois por ti morro, Na maior falsidade sinta o erro. Cal. E se eu falso te for, seja eu tão perro, Que por perro me ladre um vil cachorro. Trap. Hei–de mais firme ser que o próprio barro. Cal. Mais amante hei–de ser do que foi Pirro. Amb. Que livre assim serei de vil catarro. Trap. Se traidora te for... Cal. Se eu for esbirro... Amb. Engolir nunca possa um duro escarro, Nem sofrer na garganta um brando sirro53. Acto II, cena III (Apozentos Reais no Palácio de Cleofide, um bofete coberto com um pano, e uma cadeira ao pé) 53 Opera Nova intitulda Vencer-se he mayor valor, op. cit., pp. 12-17. 131 (Sai Calote, e Trapaça) Cal. Com que, menina, teu Pai De todo está encaixado, Que foi alma do outro mundo, Que lhe pregou um tal calo? Trap. Os Soldados bem fingirão Seu astucioso engano; Pois, feito o velho Cupido, O puzerão em Palácio. Dando gritos, gente acode, Entrou a contar o caso, E não só ele, mas todos Por verdade o acreditarão. Anda de todo louquinho, Sendo o seu maior cuidado As suas ricas moedas, Que de repente voarão. Cal. Aos mofinos, minha rica, Dissera que não é pecado, Castigando-lhe a miséria, O pregar-lhe um grande calo. Trap. Sempre é levar o alheio. Cal. Maldita a razão te eu acho. De que aproveita a um mofino Ter o dinheiro guardado? De condenação lhe serve Mais do que gloria, e descanço. Tomára eu poder chegar A certos, que agora calo, Que eu, no tormento em que vivem, Lhes dera alívios dobrados. Trap. Também tu, dando-me alívios, Me dás grandes sobressaltos; Porque se meu Pai te vê Ficamos perdidos ambos. Cal. Dizes bem, vou-me depressa, Antes que venha a este quarto, E, pilhando-me no enredo, Saiba todo o nosso engano. Mas tudo faço por ver-te, Que sem ti ando berrando. Trap. Coitadinho, és bem amante. 132 Capitolo II Cal. Que sou amante é bem claro; Mas coitado, isso só tu Poderás asseverá-lo. Trap. Cala-te, não sejas tolo. Cal. Isso é o mesmo que ser asno. Acceito-te o bom concelho, Que é de amigos desengano; Porém quero me dês outro, Por não viver enganado, E é se posso neste amor Viver com algum descanço? Trap. Socegadinho bem podes Dar alívio ao teu cuidado, Porque amor, que é por destino, Não o vence o tempo, o ano. Cal. Pois em prémio desse amor Dá-me cá um grande abraço. Trap. Abraços? Pois isso he prémio? Que lhe parece o contrato! Meu menino, ha–de advertir, Que os tempos estão mudados, E que já hoje não paga O que come adiantado. Cal. Pois não sejão por diante, Disso não façamos caso, Dá-mos aqui por detraz, E não hajão mais espantos. Trap. Como é louco, e descortez! Cal. E tu de génio damnado, Pois por cousinhas tão poucas Fazes um motim tamanho. Ora menina... Trap. Ai, Calote, Que ambos perdidos estamos! Por aquele corredor Vem meu Pai muito apressado. Cal. Ó filha, que em grandes pressas Por teu respeito me acho. Mas em fim, como fugir Não posso, em aperto tanto, Debaixo deste bofete Verei se reservo o fato. Reveste-te de valor, Que, neste lance apertado, Veremos se por astúcias A nós ambos põem a salvo Esse Deos, que sem ter mitra Protege ao que toma o bago. (Mette-se debaixo do bofete) Trap. Ai de mim que estou tremendo Em lance tão apertado. Cal. Olhe porque se amofina! Grande consolo tenhamos Que se a ti um pão te espera, Eu não escapo do vergalho. (Sai Enredo) Enr. Ai minhas ricas moedas, Meus dobrões tão estimados! Eu sem vós, e vós sem mim, Ambos de dois acabamos. Trap. Chora tu pelas moedas, Que eu cá choro os meus pecados. Enr. Ai que morro! Ai que me aflijo! Que me mato, e que me arranho! Trap. Meu Paizinho, isso é loucura, Se não há remédio ao damno Para que ha–de assim matar-se Com excessos temerários? Cal. Se isto sucedera a alguns Que conheço, e não declaro, Desesperados de todo Se tinhão já enforcado. Enr. Ah filha, que eu já de louco Confesso não sei que faço. Trap. Ora cale-se, não vê, Que de o ver assim me mato. Enr. Eu de pena, e sentimento (Chora) Todo em choros me desfaço. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Trap. Eu, pelo ver tão sentido, (Chora) No mesmo mal o acompanho. Enr. Ai, velho, todo infeliz! Trap. Ai, meu Pai, e meu descanço. Cal. Não chorem tanto, malditos, Que me estão annuncios dando De que me chorão no enterro, Pois me tem amortalhado. Enr. Ai que morro! (Soluçando) Trap. Ai que rebento! (O mesmo) Cal. Oh raios vos nunca partão! Trap. Ora basta, meu Paizinho, Não dê a si tão mau trato; Repare, na sua falta, Fico eu ao desamparo. Enr. Ah filha, que é grande pena! Trap. É desgosto inconsiderado. Mas ha–de a gente por isso Matar-se? Isso não, que Baco Manda ninguém se amofine Pelos sucessos humanos, Que importa a perda, Paizinho? Vossa mercê por acaso Não lhe ficou mais dinheiro? Pegue a labia, e haja engano. (À p.) Diga, Senhor, por ventura De todo ficou exausto? Enr. Não, filha, inda nesta bolsa Tenho uns quatro tostanaços Com que ainda com fartura Possa passar alguns annos. Trap. Pois então porque se mata? Deixe desgostos tamanhos, O dinheiro leve a breca, E vamos vivendo ambos. Enr. Dizes bem, querida filha, Eu o teu conselho abraço, Porque coisas sem remedio Não tem alívio no pranto. O que eu agora queria Dever ao teu agazalho, É que benigna me desses 133 Na cabeça um par de estalos. Trap. Ai, sim Senhor, porque não? Sente-se aqui, e, encostando Sobre o bofete a cabeça, Verei se bichos lhe acho. Enr. Ah filha, quanto a velhice Preciza destes regalos! Trap. Ora sente-se, e encoste-se. Enr. Aqui me tens encostado. (Senta-se Enredo na cadeira, que Trapaça lhe põe arrimada ao bofete, de forma, que lhe fique a cazaca junto a elle, na qual estará a bolsa) Vai catando com amor. Trap. Veja se pode ir roncando. Cal. Dize-lhe tu que ele durma, Que eu a vigia lhe faço. Enr. Quanto me lembra tua Mãe Nestes amorosos tratos! Trap. Não se lembre agora disso. Enr. Era ela o meu encanto. Foi a honra das matronas, E de amor exemplo raro! Foy tão linda: porém ai, Que de saudades me mato! Trap. Que tem, Paizinho? Que tem? Enr. Foi melancolico arranco, Que, do coração nascendo, Todo me faz em pedaços. Trap. Arrote, Paizinho, arrote. Enr. Eu arroto. (Arrota) Trap. Vai passando? Enr. Outro vai. Má queixa é esta! Ela ha–de mim dar cabo. Trap. Ora deixe-se de mais. Veja se dorme. Enr. Isso faço. (Dorme) Cal. O velho inda se recorda Dos tempos, que são passados. Mas vejamos se refresco Esta lembrança, que trago, 134 Capitolo II Deito fora a mão, e busco O que está para este lado, Para ver se acaso topo O que desejo. Oh! Que guapo Foi este acontecimento! A bolsa pilhei, por Baco, Que não há cão perdigueiro, Que me compita no faro. (Deita a mão por baixo do pano e tira a bolsa que Enredo tem na algibeira) Trap. Dorme, Paizinho? Enr. Que queres? Trap. Dizer-lhe, que do trabalho Me dê alguma coizinha Para uma fitta. Enr. Acertado Me parece o peditorio (Levanta-se) A bolsa tiro, e te pago, Que he dela? Nesta algibeira Não está; cá deste lado (Buscando) Menos; pois nos calçõens Também a bolsa não acho. Onde o dinheiro meti? Arrenego do diabo. Trap. Ai, Senhor, não acha a bolsa? Por certo que é caso raro. Enr. Pode ser que me caísse Donde me estava catando. Trap. Não, Senhor, lá não caiu. Enr. Eu vou ver. Cal. Ai meus pecados! Enr. Aqui não está, cairia Cá para baixo do pano? Trap. Oh desgraçada de mim! Que nos apanha no laço. Enr. Que diabo será isto? Este pano está pregado, Não o posso levantar Por mais forças que lhe faço. (Depois de buscar ao pé do bofete, quer levantar o pano, e Calote lhe pega por dentro, não o deixando levantar por qualquer parte, que o queira fazer) Trap. Eu estou quase mortal; E, por não ver um tal caso, Sem nenhuma ceremonia Vou-me daqui abalando. (Vai-se) Enr. Ora há caso similhante? Aqui de certo é engano! Mas ah, que o bofete bole! Aqui está algum velhaco. Pois protesto que não saia Para fora deste quarto, Que, pondo-me agora em cima Hei–de daqui vigiá-lo. (Senta-se em cima do bofete) Cal. Veja que se arrisca à queda O que sobe a lugar alto. Enr. Quem será que esteja aqui? Cal. Será o Cáqui Romano. Enr. Não bula com o bofete. Cal. Pois vá-se com dez mil dardos. Enr. Deste lugar me não tiro, E a gritos extraordinários Chamarei gente, que acuda A tão grande desacato. Acudam todos! (Gritando) Cal. Maldito, Cala a bocca, não dês ralhos. Enr. Ó lá da Guarda Real, Venhão depressa Soldados. Cal. Já que por Soldados chamas, Vê se te soldão os cascos, E com esta quebradura Ficarás mui bem soldado. (Atira Calote com o bofete ao chão, e Enredo, o qual ficará debaixo do mesmo Metastasio, padrão de vida do século XVIII 135 bofete, e vai-se Calote) Enr. Quem me acode, quem me acode, Que quebrei pelo espinhaço. (Sai Trapaça) Trap. O que é isto, meu Paizinho? Enr. São os teus enganos falsos. Ajuda-me a levantar, Que estou aqui rebentando. (Tira-lhe o bofete, e levanta-se) Trap. O que foi isto, Senhor? Não me contará o caso? Enr. O que foi, filha cadela? Foi teu proceder tirano, Que por teu respeito os homens Me estão pondo a mim de rastos. Trap. Que homens? Que é o que diz? Enr. O que estava ali debaixo, Que a bolsa surripiou Com teus fingidos enganos. Trap. Certamente isso é loucura. Enr. Se de louco tenho flatos, Como louco te hei–de dar Quatrocentos mil sopapos. Trap. Pois por outras tantas vezes Fugirei aos seus enfados. Enr. E eu por mais vezes farei, Que te quebre esse espinhaço. (Vão-se, correndo hum atraz do outro) 54 Acto III, cena II 54 Ivi, pp. 28-31. (Sai Trapaça, e Enredo com uma trouxa) Enr. Filha, já que a desventura Nos quiz pôr em tal ruina, Que todo o Palácio está Cheio de Grega Milícia, É justo com vigilância Guardar a nossa roupinha; Porque isto de Soldadesca, Em qualquer terra, que habita, Tudo quanto vê c’os olhos Com as mãos ligeira pilha. Que como é gente soldada, E tem quebrado na china, Anda procurando a solda Para a rotura das tripas; Assim que aqui ponho a trouxa, E vou-me depressa, ainda Ao meu quarto, a ver se livro Mais alguma roupa fina. (Calote ao bastidor) Cal. Para aqui, se não me engano, Veio o Pai, e mais a filha; Mas ter mão, que eles cá estão; Aqui por-me-hei à vigia, Para ver se acaso o velho Deixa só a rapariga. Enr. Toma sentido, Trapaça, Nesta trouxa. Trap. Pois espia Hei–de ser deste negócio? Enr. Sim, em quanto a ansia minha Vai buscar mais outras coisas, Aonde possa escondidas Livrá-las sem sobressaltos De tão ligeiras arpías. Cal. Para ajuntar às moedas Temos mais umas coisinhas; Vou fabricar engano, E verei se a faço limpa. (Vai-se) 136 Capitolo II Enr. Toma sentido, Trapaça, Que eu já volto à tua vista. (Vai-se) Trap. Desgraça grande por certo É a que hoje aqui se admira; Pois Poro se vê sem coroa Na mais contraria desdita; Gandarte dizem que morto, E toda a mais gente aflita. Negras guerras, roubadoras De posses, honras, e vidas, Que são os fructos, que assim De qualquer guerra se tira. E haverá quem as deseje? ( Sai Calote) Cal. Eu por mim não, minha rica, E só pazes, e mais pazes Com a tua cara linda. Trap. Que vens tu aqui buscar? Não vês a quanto te arriscas? Cal. Venho buscar essa trouxa, E ver tua bizarria. Trap. Pois não te basta o dinheiro? Cal. Isso é seres mui tolinha. Pois he–de te receber Sem que leves bem camizas? Deixa ir adiante o dote, Quando vês que assim te livras De andares eternamente À demanda com partilhas. Trap. E como has–de tu levá-la, Sem que o velho isso presinta? Cal. Já tenho dous camaradas Prevenidos para a sisa; Não ha–de pagar despacho, Porque é de casa a justiça. Trap. Quando teremos descanço Na nossa amorosa lida? Cal. Eu to digo: quando o velho De todo estiver sem china. Trap. Ora não lhe tires mais, Que isso é acabar o ginja. Cal. Inda mais lhe hei–de tirar. Trap. Que lhe has–de tirar? Cal. A filha. Por ella morro, e padeço Novecentas mil malinas. Trap. E que finezas me fazes? Cal. São vulgares, e sabidas. Inda queres faça mais Do que estar por ti na Índia? Trap. Forte fineza por certo! Cal. Não he das mais pequeninas. Mas vejamos nós se o velho Tem na trouxa alguma mina. (Vay tirando da trouxa o que dizem os versos) Isto é capa, e isto é saia, Lençol isto, isto rodilha. Trap. Ai, Calote! Eu sinto passos, Ata a trouxa, e te retira. Cal. Ato a trouxa, e fujo à pressa. (Vai metendo tudo na trouxa à pressa, e deixa de fora a saia) Trap. A saia de fora fica. Cal. Já agora de fora irá. Vou-me embora, adeus, menina. (Vai a entrar, e sai Enredo com outra trouxa, e Calote lhe volta as costas, nunca mostrando-lhe a cara) Enr. À pressa outra trouxa trago. Mas que é isto? Onde caminha? (A Cal.) Cal. Démos nas mão do inimigo. (À p.) Trap. Ai de mim, que estou perdida! (À p.) Senhor Pai, este Soldado, Sem consciência maldita, Vem attender aos meus choros, Metastasio, padrão de vida do século XVIII Levando a trouxa fugia. Enr. Ó magano, porque causa Me furta a fazenda minha? Cal. Eu não lhe furto a fazenda. Enr. Não ma furta? Ora esta é linda! Pois diga, senhor tratante, Que é isso? Cal. É galantaria. Enr. Galantaria lhe chama? A desculpa é genuina! Minha filha não o diz? Cal. Não se creia em sua filha. Enr. E porque não hei–de crê-la? Cal. Porque tem muito má lingua. Trap. Rebentando estou de riso, Quando o susto me amofina. Eu em que pára o successo Vou a esperar a notícia. (Vai-se) Enr. Volte a cara para mim, Saiba ter mais cortesia. Cal. A cara não voltarei. Enr. Pois porque a cara não vira? Cal. Temo dela se namore, Que é muito formosa, e linda. Enr. Hei–de vê-la. Cal. Não verá, Que esta saia ha–de cobri-la. (Andará Enredo atraz de Calote fazendo diligencia por lhe ver a cara, e Calote lhe dará sempre as costas, e, metendo pela cabeça a saia, que ficou de fora, ficará com a cara coberta) Enr. Ó velhaco, assim commigo Joga agora as escondidas? Cal. Não senhor, outro he o jogo. Enr. Que jogo? Comigo brinca? Cal. Jogamos ambos dois jogos Em diversas parcerias; Porque você cá comigo Joga nesta mão sabida 137 Uma forte arrenegada, E eu com você jogo o pilha. Enr. Ó ladrão, largue o meu fato, Que se não... Cal. Arre, seu ginja. (Pega Enredo em Calote por detraz, e este lhe dá hum coice, que o deita no chão) Enr. Ó lá! A besta dá coices? Cal. Isto é manha. Enr. É malicia. Ou ha–de largar o fato, Ou hei–de fazê-lo em cinza. Cal. Ah camaradas da guarda Acudi já com mil pipas. (Saem dois Soldados) Enr. Ai, coitado, que me cerca Toda a canalha inimiga. Cal. Camaradas, dai o saque Com astúcia, e valentia, Levando ao mofino velho Essas duas trouxazinhas. (Levão os Soldados as trouxas) Adeus, meu velho pateta, Tolo, besta, e sevandija, Saiba ha–de fazê-lo em quartos Quem os seus chavos lhe tira. (V.) Enr. Há desgraça similhante? Há desventura maligna, Que possa ter competências Assim co’ a desgraça minha? Oh mal haja a minha sorte, Pois vejo nesta ruina Que tarde logra a ventura Quem só nasceu com desditas. (Vay-se)55 55 Ivi, pp. 43-44. Capitolo II 138 Cena III (Sai Trapaça, que traz pela mão a Enredo, appressados) Trap. Paizinho, ande, vamos ver Este desposorio magno. Enr. Se caza a Rainha, digo, Que são as mulheres falsas56. [...] (Sai Calote) Cal. E porque mais memoravel Se faça em tudo, um criado Do Senhor Poro, a quem Jove conserve por muitos anos, A teus pés te pede humilde, Que lhe concedas mui franco, Que aquela fera Trapaça Pregue a este Calote um calo. Alex. Um calo! Cal. Sim, dos mais grandes, Que pode haver. Alex. Fala claro. Cal. É que aquela mocetona Caze com esse morgado. Alex. Pois o cazar é calote? Cal. É dos mais extraordinários, Que se prega a um triste homem Nestes tempos arrastados. Alex. Pois se ela gosta o concedo. Cal. E ela está já rebentando. Enr. Ora inda os Supremos Deoses Derão vida a tal magano? Cal. Pois então não dizes nada? Queres, rapariga? Trap. Aguardo Que a mão me dês. (Dão as mãos) Enr. Não consinto. Cal. Peior; que temos embargos. 56 Ivi, p. 46. Enr. Tem você com que sustente Mulher, filhos, e criados? Cal. Tenho quinhentas moedas Que lhe furtei com engano Quando em traje de alma preta Me vio no Templo de Baco. Tenho mais outras duzentas Que a passeio fui sacando Quando você ao bofete Nunca pode erguer o pano; Tenho mais duas trouxinhas Com mil trastes já usados, Que tirei quando vossê Queria esconder o fato; E agora tenho a Trapaça, Meu alívio, e meu descanço. Enr. Roubaste-me honra, e fazenda, E não morres enforcado? Ó cão! E quem se vingará De tão feros desacatos? Mas não quero mais castigo Do que é ver-te já cazado. Cal. Não vê que para os seus netos O dote fui ajuntando. Enr. Hão–de ser muito bonitos Se forem o meu retrato, Porque bem conhecem todos Seu avó, que é... Trap. e Cal. Um asno57. 57 Ivi, pp. 47-48. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.3. 139 Adriano in Siria I graciosos dell’Adriano in Siria, opera composta dal Metastasio nel 1732 e mutata per la rappresentazione madrilena in quantum metastasiana fragilitas patitur58, come l’abate romano ebbe a dire all’amico Farinello in una lettera del 16 dicembre 1752, propone, secondo il parere del Joly, anche nella versione metastasiana momenti di mal celata ironia dei protagonisti e della sorte, attraverso i quali è possibile una doppia lettura dell’opera, quella seria e drammatica richiesta dal genere, e quella giocosa, ilare, ironica appunto che s’intravvede in certi passaggi e battute dei personaggi, soprattutto laddove appaiono «tanto meno sinceri quando lo sono di più»59. Questa considerazione ci permette allora di congetturare che anche l’adattatore portoghese dell’Adrianno em Syria abbia potuto avvertire le latenti potenzialità di riscrittura comica offerte dal testo di partenza, o meglio, la tensione ironica di fondo insita sin nel primo atto dell’opera del Trapassi. Che dire, infatti, della scena in cui Adriano viene a sapere dell’arrivo di Sabina, l’amata di un tempo ed ora dimenticata e sostituita con Emirena, in un atteggiamento che in qualche modo ricorda i classici sketch dell’amante colto in flagrante? Atto I, scena VII Aquilio. Signor… Adriano. Che fu? Aquilio. Dalla città latina Giunge… Adriano. Chi giunge mai? Aquilio. Giunge Sabina. Adriano. Sommi dei! Emirena. (Qual soccorso!) Adriano. E che pretende? Per sì lungo cammin… Senza mio cenno… Non t’ingannasti già? Aquilio. Senti il tumulto Del popolo seguace, 58 P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 770. Jaques Joly, Dagli Elisi all’inferno. Il melodramma tra Italia e Francia dal 1730 al 1850, La Nuova Italia, Firenze, 1990, p. 68. 59 Capitolo II 140 Che la saluta Augusta. Adriano. Aquilio, oh Dio! Va, conducila altrove: in questo stato Non mi sorprenda. A ricompormi in volto Chiedo un momento. Ah, poni ogni arte in uso. Aquilio. Signor, viene ella stessa. Adriano. Io son confuso60. E come giudicare il comico dietro-front di Adriano che, entrando nelle stanze di Emirena, vi trova inaspettatamente Sabina («Adri. Emirena, mio ben… (Numi, che dissi!) (vuol partire/Sab. Perché fuggi, Adriano? Un sol momento/Non mi negar la tua presenza, e poi/Torna al tuo ben, se vuoi»)?61 O il rapido scambio di battute tra l’imperatore, Sabina ed Aquilio, allorché si presenta l’occasione di ascoltare le ultime preghiere di Emirena, mentre poco prima Adriano aveva nuovamente promesso amore e fedeltà all’afflitta Sabina? Atto II, scena III Aqui. (ad Adriano A’ piedi tuoi L’afflitta prigioniera Inchinarsi desia. Non ti ritrova, E lung’ora ti cerca. Sab. (Ecco la prova). Adri. No, Aquilio: io più non deggio Emirena veder. Tempo una volta È pur ch’io mi rammenti La mia fida Sabina. Sab. (O cari accenti!) Aqui. È giustiza, è dover. Ma che domanda La povera Emirena? A lei si niega Quel che a tutti è concesso? È serva, è vero; Ma pur nacque regina. Adri. Veramente, Sabina, par crudeltà non ascoltarla. Sab. (si turba) Oh Dio! Adri. L’udirò te presente: che potresti temer? Resta, e vedrai.. 60 61 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 540. Ivi, p. 550. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 141 Sab. Oh! Questo no. Già m’ingannasti assai. (s’alza) 62 L’adattamento al gusto portoghese di quest’opera è stato analizzato da Giuseppe Carlo Rossi in una copia anonima con data 28 settembre 1784 di un testo risalente esattamente a quarant’anni prima, la cui paternità il lusitanista milanese attribuisce a Francisco Luís Ameno, ma che, in realtà, è la trascrizione manoscritta dell’Adriano em Syria del 1746 di António José da Silva, meglio noto come O Judeu. Nonostante l’errore di attribuzione, rimangono valide le considerazioni espresse dal Rossi circa la traduzione della trama principale. Lo studioso, infatti, mette in evidenza tutte le discrepanze rispetto al Metastasio originale a partire dalla presenza del solo perdono di Osroa da parte di Adriano, in luogo della resa del regno al nemico pensata dal poeta cesareo. Rileva, inoltre e chiaramente, la sfasatura tra la suddivisione atti/scene nei due testi, vistosamente ridotta nel testo portoghese, così come la soppressione delle licenze presenti invece nelle edizioni italiane, il passaggio dai versi dell’originale alla prosa dell’adattamento, fatta eccezione per cori e arie rese solitamente in versi ottonari, l’accentuazione dell’atmosfera amorosa e l’aggravamento della perfidia di Aquilio a causa del suo amore per Sabina63. I luoghi comuni che ci permettono di confermare di essere di fronte ad una traduzione dell’opera metastasiana da parte di O Judeu, chiaramente solo per quanto riguarda la fabula centrale, sono innanzitutto le didascalie di localizzazione e composizione delle scene, la cui precisa equivalenza sintattica e lessicale non può attribuirsi al caso, soprattutto se consideriamo che solitamente il luogo di maggiore libertà creativa di un adattamento è costituito proprio dall’informazione scenografica: 62 Ivi, pp. 552-553. G. C. Rossi, Ancora due traduzioni settecentesche portoghesi dal Metastasio, Annali dell’Istituto Universitario Orientale, Sezione Romanza, Napoli, 1971, pp. 367-382. 63 Capitolo II 142 ADRIANO IN SIRA 1732 Atto I, scena I ADRIANO EM SYRIA António José da Silva 1746 Acto I, cena I Gran piazza d’Antiochia magnificamente adorna di trofei militari, composti d’insegne, armi ed altre spoglie de’ barbari superati. Trono imperiale da un lato. Ponte sul fiume Oronte, che divide la città suddetta. Di qua dal fiume Adriano, sollevato sopra gli scudi da’ soldati romani, Aquilio, guardie e popolo. Di là dal fiume Farnaspe ed Osroa con seguito di Parti, che conducono varie fiere ed altri doni da presentare ad Adriano64. Praça de Antioquia, com uma ponte sobre um rio, a um lado um trono imperial, e junto dele Adriano levantado sobre os escudos dos Soldados Romanos: Aquilio, guardas e povo, da outra parte do rio: Osroas, Farnaspe, e Chichelo com acompanhamento dos Parthos, que conduzem varias feras, e outras dádivas para oferecer a Adriano66. Atto III, scena IX Acto III, cena II Luogo magnifico del palazzo imperiale; scale, per cui si scende alla ripa dell’Oronte; veduta di campagna e giardini sull’opposta sponda. Sabina con seguito di matrone e cavalieri romani, Aquilio, indi Adriano65. Lugar magnífico do Palácio Imperial, escadas ornadas de estatuas, pelas quais se sobe ao alto do monte Oronte. Vista das Náus em o rio; de campanha, e jardim em cima da rocha, que cerca o rio. Saem Sabina com acompanhamento de matronas, e Cavalheiros Romanos, Aquilio, e Beringela67. In secondo luogo, ritroviamo un’uguaglianza quasi da traduzione letterale in molte delle battute dei personaggi principali, pur nel passaggio da poesia a prosa, come i seguenti casi possono illustrare: 64 P. Metastasio, op. cit, vol. I, p. 531. P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532. 66 António José da Silva, Theatro Cómico Portuguez, vol. III, Lisboa, na Of. De Francisco Luís Ameno, 1759, p. 375. 67 P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532. 65 Metastasio, padrão de vida do século XVIII ADRIANO IN SIRA 1732 Atto I, scena I Adriano Valorosi compagni, Voi m’offrite un impero Non men col vostro sangue Che col mio sostenuto, e non so come Abbia a raccoglier tutto De’ comuni sudori io solo il frutto. Ma, se al vostro desio Contrastar non poss’io, farò che almeno Nel grado a me commesso Mi trovi ognun di voi sempre l’istesso. A me non servirete: Alla gloria di Roma, al vostro onore, Alla pubblica speme, Come fin or, noi serviremo Insieme68. Atto III, scena I Sabina Digli ch’è un infedele; Digli che mi tradì. Senti: non dir così: Digli che partirò; Digli che l’amo. Ah! se nel mio martìr Lo vedi sospirar, Tornami a consolar; Ché prima di morir Di più non bramo69 68 ADRIANO EM SYRIA António José da Silva 1746 Acto I, cena I Adriano Valerosos Soldados, e companheiros, vós me ofereceis um Impero, não menos com o vosso sangue adquirido, que com o meu sustentado, procurando, que dele (sendo comum o trabalho) seja só meu o fruto: mas se não puder inteiramente cumprir com o vosso dezejo, farei ao menos, que neste magestoso grão que me entregais, sempre o mesmo me acheis. Para mim não quero a vanagloria de me servires; só sim, que empregais esse cuidado em segurar a glória de Roma, a grandeza do vosso nome, e a pública esperança70. Acto III, cena I ARIA Sabina Dize-lhe, que he ingrato, Dize-lhe, que he traidor, Ouve, que fero rigor! Não, não lhe digas tal, Dize-lhe só que parto, Mas sempre o sey amar. E se no meu tormento O vires suspirar, Torna-me a consolar, Que antes de morrer, Quero esta gloria achar71. P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 531-532. Ivi, pp. 562-563. 70 A. J. da Silva, Theatro Cómico Portuguez, op. cit., vol. III, p.376. 71 Ibi, pp. 428-429. 69 143 144 Capitolo II Naturalmente le considerazioni del Rossi non tralasciano la riflessione sui due servi di questo adattamento, Beringela (“melanzana”) e Chichelo (probabilmente da chicho “carne di maiale” o “rimasugli di carne da insaccare, consumati cucinandoli alla brace”), a proposito dei quali non solo sottolinea l’esplicita qualificazione di Gracioza e Graciozo apposta sul frontespizio dall’adattatore, ma soprattutto il loro linguaggio fortemente scurrile, ambiguo, e la parodia dei modi fintamente affettati e aristocratici dei minuetti e della ridicola poeticità di Chichelo. Ritornano tutti i tratti standard del tipo del servo louco, il commentatore ironico dei tormenti dei personaggi di rango superiore («Chichelo. Que cara de Polifemo!»)72, il chiosatore di buon senso («Chichelo. [...] este moçosinho tem bom coração»)73, il tempestivo rammentatore degli eventi in corso («Chichelo. Ah Senhor, tu cuidas em conversar, ou em morrer?»)74, il rappresentante degli stereotipi sulla superficialità femminile («Chichelo. [...] é mulher, a quem custa o guardar segredo»)75,il confidente fidato del personaggio dell’intreccio principale, come nella scena che vede Osroa, re dei Parti, preoccupato di una possibile sconfitta contro il rivale Adriano: Osroa. Que temor me acobarda? Vencido estou, mas não prizioneiro. Chichelo. Mas perto está o fogo das barbas; pois se te conhecem, cedo estarás vencido, e prizioneiro. Osroa. Não, Chichelo, ainda se deixou caminho ao meu furor: tema o Romano as minhas iras, sempre me ha de achar o mesmo para a sua ruina. Chichelo. E que pretendes? Osroa. Ver abatida a sua soberba às mãos do meu furor76. A ciò dobbiamo aggiungere l’atteggiamento schietto e sfacciato della serva, la quale fa riferimento già nel primo atto alla realtà di una vita, quella delle donne del popolo in genere, decisamente scanzonata, allegra, libertina, ovviamente allo scopo di veicolare il messaggio del contrasto 72 Ivi, p. 377. Ivi, p. 381. 74 Ivi, p. 402. 75 Ivi, p. 381. 76 Ivi, pp. 381-382. 73 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 145 tra i tormenti di Sabina per l’amore non ricambiato e la spensieratezza con cui viene vissuta la relazione di coppia nelle classi subalterne: Vem a pobrezinha [Sabina] de Roma a esta terra, sofrendo os descomodos dos caminhos para ver o seo bem, e no cabo acha o seo mal, e a sua pena. Por isso nós outras vivemos mais alegres; porque a cada passo agarramos o nosso Adonis para zombarmos delle, sem os embelecos da constancia. O ponto he haver o bixo, aparecer o aceno; sahir o escarro; que logo entramos na dança sem se nos dar respeito77. Dopodichè António José da Silva ci propone tutta una serie di convenzioni di genere riconoscibilissime e quasi tipizzazioni dei soliti criados, dall’accenno a mettere per iscritto la promessa di matrimonio, elemento della prova che ritroveremo nell’adattamento della Zenobia del 1755, al parallelismo con le vicende dei protagonisti primari della vicenda metastasiana; dai pesanti e volgari commenti sulle abitudini proprie dei padroni (alla domanda su cosa stesse facendo Farnaspe, il padrone di Chichelo, questi così risponde: «Suponho que se está lavando, que é um porcalhão»)78, al conflitto grottesco cibo versus amore, o meglio, appagamento dei bisogni primari di contro a quello dei sensi, reso esplicito da una battuta di Chichelo come: «Mas não, eu só sem amo, que a barriga me sustente, enamorado em jejum! Isso não, vá com o diabo, que não quero tais amores»79. Ma è l’azione parallela tra i due servi, incentrata sull’insistente corteggiamento dell’uno e sulla finta ritrosia dell’altra, a fornici un ulteriore metro di giudizio che ci consente di ascrivere quest’opera di António José da Silva all’ambito degli adattamenti al gusto portoghese dell’opera italiana: le frequenti allusioni comiche alla sfera sentimentale che infrangono la tensione tragica della scena80, i giochi comico–verbali, il 77 Opera intitulada Adiranno em Syria, copiada aos 28 de Setembro de 1784, p. 9. Ivi, p. v24. 79 Ivi, p. v28. 80 Si legga a questo proposito l’ultimo intervento della prima scena del terzo atto: «Chichelo. Aqui andará o diabo fazendo das suas? Elles querem casar, elles querem descasar: elles chorão, elles rim. O certo he, que só eu sey tratar o Senhor Cupido. Não ha cousa, como não dar confiança a hum rapaz cego. RECITADO Se elle a mim me fizera gaifonas, Com formosas taponas 78 146 Capitolo II tema della fame ancestrale dei servi e delle preoccupazioni sulla loro incolumità fisica. Si aggiunga, inoltre, il risalto delle diverse sfaccettature del reale ruolo giocato da questo particolare tipo di criado: da un lato, la figura di un vero e proprio spettatore in scena che letteralmente si siede sul palcoscenico per assistere alle vicende dei personaggi principali («Chichelo. [...] Mas ai aqui vem Adriano com El–Rei Osroas: vejamos em que isto pára; desta cadeira me valho»)81, sottolineando con commenti superflui la vicenda man mano che procede («Chichelo. Aonde irá parar isto!»;82 «Chichelo. Eu não entendo esta tramoia»)83; dall’altro, non il goldoniano confidente, aiutante di buon senso che indirizza al giusto fine padroni poco accorti, bensì il gracioso iberico interessato unicamente al proprio utile, anche a discapito della felicità dei suoi referenti superiori. È questo il caso di uno scambio di battute tra Emirene, l’infelice principessa dei Parti, combattuta tra l’amore per il connazionale Farnaspe e l’obbligo di cedere alla proposta di matrimonio dell’imperatore Adriano, che le consentirebbe di liberare il padre Osroas dalla prigionia del romano, e Chichelo, il cui consiglio non si orienta affatto verso una situazione di lieto fine che possa consentire a tutti i personaggi in gioco di trovare soddisfazione alle proprie esigenze, come prevede il lieto fine dell’opera gioco-seria, ma che, O cusinho muy bem lhe esfrangalhara, E quanto mais guinchára, Eu então com mais ancia sim lhe déra, Que o sangue pelo rabo lhe escorrera. ARIA Mas qual o cão raivoso, Se algum rapaz o assanha, Os dentes lhe arreganha Fazendo-lhe am,am, Logo o rapaz lhe foge, Temendo o seu ladrar. Assim ao Deus Cupido Os dentes lhe arreganho, E vendo que me assanho, Às trancas logo dá.» in Ivi, p. 444. 81 Ivi, p. 434. 82 Ivi, p. 435. 83 Ivi, p. 443. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 147 senza alcuna reale partecipazione per le vicende dei protagonisti, risponde unicamente a preoccupazioni individualistiche: Acto III, cena I Emirene. Oh infeliz, a que conselho devo obedecer? Chichelo. O que eu der. Emirene. Quem me responde? Chichelo. É um criado de Vossa Alteza. (Sai debaixo da cadeira) Emirene. Tu aqui? Chichelo. E bem contra minha vontade; pois saio espremido, e entrei medroso. Emirene. Ouviste a minha desgraça? Chichelo. Não acaba de entender, que seu Pai está tonto? Emirene. Oh que tambem eu perco o juízo! Chichelo. Não, se isso é achaque que se pega, eu não quero perder o pouco que tenho. Emirene. Que hei–de fazer? Chichelo. Casar com Adriano. Emirene. Tu me aconselhas isso, sabendo o que a Farnaspe quero? Chichelo. Pois caze com Farnaspe. Emirene. Estás louco! Chichelo. Já se me pegaria o achaque84. Il testo secondario dell’intreccio tra criados non presenta invece particolari discrepanze rispetto ad altre situazioni comiche incontrate in quasi tutti gli adattamenti al gusto portoghese. António José da Silva, Adriano em Syria (1746) Acto I, cena II (Sai Chichelo) Chic. Como já lhe conheço as manhas, bem posso entrar na compra. Ber. Mas vamos ver alguma coisa desta terra, em que sou nova, que me dizem há nella bons feitios. Chic. Um dos feitios, que quer entrar na compra e mais na venda, sou eu. Ber. Pois não me serve pelo preço. Chic. Antes é em bom comodo; porque se dá de graça. Ber. Não desgosto dessa sua. 84 Ivi, pp. 440-441. Capitolo II 148 Chic. Nem eu da vossa mercê! Ora chegue–se para cá! Ber. Não; desvie–se. Chic. Já me não quer? Ber. Não trago troco, com que o possa comprar. Chic. Aceiteme, se me quer, e não me fale em trocos, que não lhe peço demazias. Ber. De donde viria esta criança. Chic. Da roda dos engeitados! Ber. Pois é justo que de mim o seja. Chic. Melhor será, que nessa roda dos engeitados, encontre eu o da fortuna. Ber. Somente se for para lha desandar. Chic. Ah tirana! Já sei que se declara por minha inimiga. Ber. E em que o julga? Chic. Em que podendo–me fazer venturoso, somente me promete desgraças. Ber. Não me desagrada o tal moçozinho. (À Parte) Chic. É possível que desejando V.m. achar nesta terra algum feitio, que lhe sirva; e agora dando–se–lhe este de tão boa vontade, V.m. o não queira, com tanta ingratidão? Ber. Quem lhe disse que o não queria? Chic. Esse desdem me desengana! Ber. Não tenha desconfiança, que eu aceito o partido. Chic. Com que ajuste? Ber. Olhe isto! Basta eu dizer que o quero (lograr). (À Parte) Chic. Aceito, e verei….. mas ainda assim receio a sua constância. Ber. O que diz? Chic. Bom seria, que nessa mão de papel levasse assinada a promessa. Ber. Não sei se pede muito. Chic. Antes peço pouco, ainda que valha muito. Ber. Aqui está. Chic. Aceito, e digo. Minuete Chic. 85 Esta mãozinha Que neve ostenta Se quer mostrar, Posto que é branca, Como bem creio, Muito receio; Que a sorte em branco Me venha a deixar. (Vaise) 85 Ivi, pp. 393-396. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 149 Acto II, cena II (Sai Beringela) Ber. Minha ama86 está asustada com este motim, e quer saber se Emirene se iria. Mas aqui tenho quem me diga. Senhor Chichelo. Chic. Que diz senhor Vamanca? Ber. Fale bem. Chic. Eu não sei que isto seja falar mal, pois tudo vai dar no calçado velho. Ber. Não me dirá se o Príncipe Farnaspe está na terra? Chic. Não senhora não direi. Ber. Porquê?. Chic. Porque me pede que o não diga. Ber. Sabe se ele fugio. Chic. Nem ele era capaz de o fazer, nem eu de o chocalhar. Ber. Pois que faz? Chic. Suponho que se esta lavando, que è um porcalhão. Ber. Ora fale com termo. Chic. Com termo lhe falo. Ah perra, que raivas me fazes! Ber. Também você me não faz pouca raiva com os seus disparates. Chic. Pois já que lhe dei o mal, dar–lhe–ei o remédio. Ber. E qual é? Chic. Ir as ondas se tem raivas. Ber. Ora cale–se, que não estou para graças; responda ao que lhe digo. Chic. E que me diz? Ber. Se fugiram Farnaspe, e Emirene, que vos ha–de sabê–lo! Chic. Elles não o fizeram; porque os seguraram. Ber. Ai mofina de mim. Chic. Não te asustes por isso, pois já que eles não abalaram, nós bem podemos ser firmes. Ber. E prenderam-nos. Chic. Não, que eles iam soltos, e livres. Ber. Eu não o entendo. (Faz que se vai) Chic. Pois isso é claro. Espere menina. Ber. Deixe–me que o vou dizer. Chic. A quem? Ber. Já o queria saber! Chic. Não te has –de ir sem o dizer. (Pegando–lhe) Ber. Agora não. Chic. Não, por força não vais. 86 Si riferisce a Sabina, promessa sposa romana di Adriano. Capitolo II 150 Dueto. Ber. Sempre ateimas qual cachorro, Que a sua bela cachorrinha Sempre está dizendo xó, Bonitinha anda cá! Chic. Sempre irada qual saloya Ao seu burro, sem que esbarre, Te verei dizendo arre, Arre, arre, arrelá. Ambos. Oh que teima, que tormento, Tão sem gosto, sem contento Eu me sinto suportar87. Atto III, cena I (Saem Chichelo e Beringela) Chic. Com que emfim V.m. me deixa com esse desdém! Ber. Senão tenho outro, que quer que lhe faça? Chic. Ora, volta essas duas estrelas da alva, que na madrugada dessa carinha, sem consciência, quando esperava me dessem um bom dia, me deixão as boas noites. Ber. Não sabe que sirvo a Senhora Sabina? E que ella por ordem de Adriano se ausenta? Chic. Tudo sei. Ber. Pois então para que se queixa, sem motivo da minha ausência? Hei–de ficar desanrranjada? Chic. Não ficará! Antes será do meu rancho, se quiser seguir as bandeiras de amor. Ber. Seguir as bandeiras, isso não: só porque me não digam que sou moça de Soldado. Chic. Ora menina tem dó de mim, não me deixes no mar do meu pranto flutuando na tormenta da tua ausência. Ber. Não me detenha com esses ditos, que por aí me não perca. Chic. Pois cuidei que o anzol do meu afeito a pilhasse no mar do meu amor. Ber. Olhe que se pode afogar, não nade tanto. Chic. Não importa, que eu não me afogo em pouca água. Ber. Não o posso mais ouvir: fique–se embora, e saiba que… Chic. Que? Ber. Que só de você levo… Chic. Ora dize o que levas! És muito bonita! 87 Ivi, pp. 424-426. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 151 Aria Ber. Levo uma pena, Que me atormenta Tão rabugenta Tão rezinguenta, Que nada quer. Não sei que é Se é Saudade, Não sei dizer. Sei que me mata, Pois sem reparo Eu nunca paro, Nem posso estar Aqui, aí, alí, acolá Ai que será. (Vai–se) Chic. Espera não fujas: ouve que te darei o remdio. E foi–se! Mas eu também quero ir que… Mas não, eu só sem amo, que a barriga me sustente, enamorado em jejum! Isso não, vá com o diabo, que não quero tais amores: alto abalo, isto ha–de ser88. II.4. Zenobia Un adattamento della Zenobia che Metastasio compose nel 1740, e che ebbe particolare successo, dato il numero di copie da esso tratte che circolarono in Portogallo nel XVIII secolo, è l’esemplare datato 1755 e che presenta una titolazione ormai a noi familiare: Comedia A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia (fig. 13). Da questo testimone venne ricavata la copia a stampa del 1782 (fig. 14), che presenta interpolazioni manoscritte nelle ultime due pagine, un altro testimone del 1792 firmato in calce da Manoel Joaquim Maya (fig. 15), due esemplari manoscritti, uno intitolato A Constante Zenobia, datato 1797 e che registra un solo personaggio in più rispetto all’originale metastasiano (il pastore Cloardo, padre di Egle) e il secondo del 20 agosto 1792, conservato dalla Biblioteca Nazionale di Lisbona e che segnaliamo sia per il mutamento dei nomi di due personaggi (Egle con Alcina e Zopiro con Ergasto), sia per la presenza 88 Ivi, pp. 431-434. 152 Capitolo II di tre criados: Capateta (forse da ca, “qua” + pateta, “sciocco, imbecille”), serva di Zenobia, Barulho (“baccano, confusione”), servo di Radamisto, e Carolho (forse forma per carolo, “bastonata sulla testa” o “nocciolo”). All’interno di una traduzione della Zenobia pressocché fedele all’originale italiano, i tre servi portoghesi imbastiscono una ridicola trama di equivoci e burle l’uno ai danni dell’altro che, ancora una volta, si basa sul tema della conquista femminile da parte di due contendenti di uguale rango. Anche in questo caso, motivo centrale del contendere e dell’opzione di Capateta in favore dell’uno o dell’altro servo è la rilevanza economica dei beni posseduti, come si può leggere nell’intervento della criada rivolto a Carolho, sicuramente spia di questo atteggiamento nei confronti del denaro: «Como V.m. falou em rendimentos, queria saber a quanto chegam cada anno as rendas da sua casa, porque eu sou mui clara»89. Elemento del resto presente nel già citato referente vicentino del Cinquecento, in particolare in quell’Auto da Alma in cui il diabo seduce l’alma con la lode dei beni materiali: DIABO [...] O ouro para que he, E as pedras preciosas, E brocados? E as sedas pera que? Tende por fé, Que p’ra as almas mais ditosas Forão dados. Vêdes aqui hum collar D’ouro mui bem esmaltado, E dez anneis. Agora estais vós p’ra casar E namorar: Neste espelho vos vereis, E sabereis Que não vos hei de enganar. E poreis estes pendentes, Em cada orelha seu: 89 Commedia A mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia, copiada aos 20 de Agosto de 1792, p. 11. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 153 Figura 13. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 652). 154 Capitolo II Figura 14. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 92). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 155 Figura 15. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 92). 156 Capitolo II Isso si; Que as pessoas diligentes São prudentes. Agora vos digo eu Que vou contente daqui90. Naturalmente non manca l’insistito gioco di parole sui nomi propri dei tre personaggi comici («Cap. Como é o seu nome? / Car. Carolho para servir a V.m. / Cap. O nome é descarolhado. (À parte) / Car. E como é a sua graça. /Cap. Capateta para lhe obedecer. / Car. A graça é pesada»)91 così come non mancano i battibecchi caricaturali dei due personaggi maschili, come il seguente, dalla facile comprensione: Car. Oh ladrão, passe para cá o meu vestido. Bar. Oh ladrão, ponha para ali o meu habito. Car. Você é que me fez o roubo. Bar. Você é que me fez o furto. Car. Não sabe que este vestido é meu? Bar. Não sabe que é meu esse habito? Car. Pois troquemos! Bar. Pois troquemos. Car. Dispa-se você lá. Bar. Dispa-se você primeiro. Car. Eu digo que não quero. Bar. Pois eu também digo que não quero. Car. Dá cá, ladrão. (Pega nele) Bar. Toma lá, patife. (Da–lhe) Car. Irra, irra, isso não vai de valha, tomar-me o vestido, e dar–me em cima muita pancada. Bar. Pois já está vingado; porque quem dá, e toma nasce-lhe uma alcorcova. O magano he fraco como uma abobora mas eu hei–de calá-lo como um melão. (À parte)92 Chiaramente la traduzione più interessante è l’adattamento al gusto portoghese del 1755 già citata, interessante per la presenza di altri criados, la cui azione questa volta entra in contatto con i personaggi principali, coinvolti però singolarmente, pur non entrando nel merito 90 G. Vicente, op. cit., p. 85. Commedia a mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 11 92 Ibidem. 91 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 157 della trama primaria dell’opera che narra di una principessa d’Armenia di cui Metastasio mette alla prova le virtù coniugali nei confronti dello sposo Radamisto, principe d’Iberia, contro un’amore per Tiridate, principe dei Parti, costantemente represso. Lo schema tripartito Zenobia–Radamisto–Tiridate si rispecchia allora nel triangolo Corriola–Bonifrate–Tarelo, di cui sono i rispettivi servi, e di cui riproducono in versione comico–popolare i dubbi e le problematiche. Coriola, pianta ampiamente diffusa in Portogallo ma anche fischio, schiamazzo, o «jogo que por meio de uma fita se furta o parceiro»93, diviene così l’oggetto del contendere tra il serio e il faceto di Bonifrate, il fantoccio, il burattino, e Tarelo, il chiacchierone (dall’arabo takallam, “colui che parla”), l’«homem intrometido que fala de tudo sem nada saber (Beira)»94. Ma prima ancora di giungere allo specifico dei graciosos, è oppurtuno evidenziare alcuni aspetti della traduzione della trama primaria che, pur non mutando significativamente il contenuto centrale della vicenda, possono far luce sull’atteggiamento traduttivo dell’adattatore settecentesco. Innanzitutto, osserviamo l’ambiguità del titolo portoghese, A Mais Heroica Virtude, che a tutti gli effetti dovrebbe essere riferita alla condotta di Zenobia nei confronti dei suoi doveri di figlia e di moglie, ma che, in realtà, un’intervento di Egle nel terzo atto rivolto a Tiridate per indurlo a salvare sia Zenobia che il rivale Radamisto, rimanda a Tiridate stesso, come si nota dalla tensione finale della battuta che parla appunto di “azione eroica”: «... adverte que a piedade, ainda para com os inimigos, é uma acção heroica»95. Se invece analizziamo la prima battuta di questa commedia, noteremo certamente scelte lessicali orientate verso una terminologia decisamente più semplificata e colloquiale, oltre, naturalmente, alla semplificazione, anzi allo stemperamento della struttura sintattica di cui, oltre alla battuta riportata nella tabella che 93 Guiilherme Augusto Simões, Dicionário de espressões populares portuguesas, Publicações Dom Quixote, Lisboa, 2000, p. 199. 94 Ivi, p. 632. 95 Commedia A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, composta na lingua Italiana pelo abbade Pedro Metastasio: agora nuovamente traduzida, e accrescentada, segundo o gosto do Teatro Portuguez, no anno de 1755, Lisboa, Na Officina dos Herdeiros de Antonio Pedroso Galram, p. 28. Capitolo II 158 segue, un caso emblematico è la semplificazione sintattico–lessicale di un complesso intervento di Radamisto nel primo atto («Da’ sollevati Armeni / Creduto traditor, sai già che astretto / Fui poc’anzi a fuggir»)96 reso con la lineare «Já sabes, que há pouco tempo fui obrigado a fugir de Armenia, por me julgarem traidor»97: ZENOBIA 1740 Atto I, Scena I Zopiro No, non m’inganno, è Radamisto. Oh, come Secondano le stelle Le mie ricerche! Io ne vo in traccia; e il caso, Solo, immerso nel sonno, in parte ignota, L’espone a’ colpi miei. Non si trascuri Della sorte il favor: mora! L’impone L’istesso padre suo. Rival nel trono Ei l’odia, io nell’amor. Servo in un punto Al mio sdegno e al mio re98. A MAIS HEROICA VIRTUDE 1755 Acto I Zopiro Não, não me engano; é Radamisto: oh como as estrelas favorecem os meus desígnios! Eu ia a procurá–lo, e o meu accaso neste oculto lugar o expõem adormecido aos meus golpes; não se perca o favor da sorte. Morra pois, que esta é a vontade do proprio pai; ele o aborrece competidor no Throno, e eu no amor, ao mesmo tempo sirvo à minha ira, e ao meu Rei99. In questo testo il traduttore portoghese mette in pratica la lezione oraziana ripresa da un teorico di teatro del Settecento come Correia Garção, quel não ensanguentar o teatro che equivaleva al non portare sulla scena azioni eccessivamente cruente e esemplificato qui dall’attenuazione della forza lessicale della versione di un’espressione come “gli trafisse il petto”100 in “lhe tirou a vida”101. 96 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 926. Commedia A Mais Heroica Virtude,ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 2. 98 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 925. 99 Commedia A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 1. 100 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 961. 101 A Mais Heroica Virtude, ou Zenobia em Armenia, op. cit., p. 28. 97 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 159 Affrontando a questo punto il discorso sui tre graciosos di questo adattamento, ciò che qui si deve rilevare come fattore distintivo rispetto alle proposte di comicità precedentemente analizzate è, in primo luogo, un eccessivo patire per le sofferenze dei protagonisti primari della vicenda metastasiana originale, frequentemente ribadito da esclamazionni di cordoglio e di afflizione, diversamente dall’indifferenza sostanziale che separava la realtà dei servi da quella di prìncipi e re che abbiamo trovato nell’adattamento analizzato nel precedente paragrafo. In secondo luogo, occorre considerare con particolare attenzione la figura di Tarelo, rivale in amore di Bonifrate, ma che qui svolge a tratti la funzione quasi goldoniana di coscienza ludica o intelligenza sarcastica del propio padrone Tiridate, oltre ad essere consigliere del medesimo, con soventi strizzatine d’occhio dirette al pubblico nei numerosi “a parte” che sottolineano la sagacia dell’uno e la disattenzione dell’altro. Un esempio di quella che forse è la prima occorrenza di un servo dai contorni decisamente meno superficiali e dal ruolo più sfaccettato è la domanda che Tiridate rivolge a Tarelo circa la conoscenza o meno da parte di Corriola della sorte dell’amata Zenobia: Tir. Sabe ela que inda é viva? Tar. É bem certo Senhor, que a não buscaria depois de morta. Tir. O que te pergunto é, se tem Corriola alguma certeza de que Zenobia vive? Tar. Parece que não ouve (À part.) Ela não me disse que era morta, só me segurou havia uma grande temporada, que a buscava como agulha em palheiro102. Eccezion fatta per questo aspetto del personaggio di Tarelo, non mancano ovviamente tutti i classici elementi della comicità esplicita tipica dei graciosos di questi adattamenti: il riferimento al denaro e alla posizione economica come elemento decisivo nella scelta del marito da parte di Corriola; l’affermazione della necessità di mantenere le proprie libertà femminili anche dopo il matrimonio; la gelosia tra i due pretedenti quale fattore scatenante degli scontri fisici e verbali; il gusto sadico della figura femminile di questo triangolo 102 Ivi, p. 16. 160 Capitolo II comico–amoroso nel creare equivoci di senso o d’identità negli altri personaggi, equivoci atti a creare nei due servi rivali scaramucce e battibecchi che rivelino l’importanza della donna come oggetto d’amore; l’impazienza dei personaggi “alti” del dramma nei confronti delle vicende ridicole dei criados. A tutto ciò si deve aggiungere un altro elemento d’innovazione significativa che è l’introduzione del fattore che suppostamente dovrebbe scatenare l’agnizione risolutiva finale, costiutito da una lettera falsificata in cui Corriola avrebbe certificato la sua promessa di matrimonio a Tarelo. La lettera, redatta ovviamente in stile comico, si smentisce da sè per il semplice fatto che la supposta autrice non è in realtà in grado né di leggere né di scrivere, il che ci permette di considerare l’aggiunta di questo elemento come una particolare parodia del genere serio, dove l’elemento dell’agnizione portava spesso alla risoluzione conclusiva della vicenda. L’isolabilità dell’azione dei tre graciosos di questa Zenobia portoghese, che ci ha permesso di considerare il loro interagire come una sorta di commedia a sé, ci consente, inoltre, di riportare fedelmente i momenti del loro intervento in scena: l’incontro di Corriola e Bonifrate con Egle e l’arresto da parte dei soldati nel primo atto (pp. 5–9), le scene insieme a Tarelo del secondo atto (pp. 12–16) e, infine, la lunga parte conclusiva del terzo atto (pp. 29–33). Comedia A Mais Heroica Virtude ou Zenobia em Armenia (1755) Acto I Bon. Sio, ó menina, ó menina não ouve? V.m. será por acaso alguma Pastora destes montes? Elhe. Superflua é a tua pergunta, quando este traje mostra ser esse o meu nascimento. Bon. Pois eu duvidava, que podesse ser parto do campo tanta beleza. Pergunta mais a minha ignorância: sua mercê guarda porcos, ou guarda cabras? Elhe. Posto que me não occupe nesse exercício, não o desprezo. Bon. Bonita menina, nunca sua mercê foi mal criada. Agora quisera saber aonde estamos, e que grande povoação é aquela, que ao longe se vê? Elhe. Este sítio com estas cabanas é por algum tempo habitação das humildes Pastoras; aquela é a Real Cidade de Artaxata; e o acampado Exercito, que junto ao rio se divisa, é de Tiridates. Cor. Não te canses, Príncipe: que já não podes conseguir o que desejas. (À parte) Metastasio, padrão de vida do século XVIII 161 Bon. Não me dirá se por aqui vamos direitos? Elhe. Para onde? Bon. Seguindo a nossa derrota. Elhe. Se mais não te explicas, mal posso responder-te. Bon. Alguma cousa falando mais claro, lhe seguro, que esta moça é uma das mulheres mais delicadas, que eu conheço; o que não pode duvidar-se como também que temos andado muito, e com abundância de infelicidades, sem podermos achar o que procuramos com bastante disvélos. Elhe. Agora me ocorre, que pode esta serhuma criada de Zenobia, e ele criado de Radamisto, com os quaes partiram na fuga. Cor. Minha rica Pastorinha, eu já não me atrevo a dar passada; quero que me digas se poderei aqui descansar sem o receio de que algum bicho nos persiga, porque é cousa, de que sempre tive medo. Bon. Isso é que em ti agora me parece ser bicho: tu não tens visto a quantas medonhas feras por esses horrendos caminhos asugentou com desmarcada temeridade o meu assalvajado valor? Então de que temes? Cor. Eu sempre ouvi dizer, que huma vez cahia a casa. Bon. Ora não sejas agourenta, descansa um pouco, para logo continuarmos a nossa jornada. Cor. Ainda mal, que o nosso cuidado não nos permitte sossego. (Senta-se em uma pedra) Elhe. Bem podes aqui descansar sem susto; e se esta camponeza te merece alguma atenção, dize-lhe o motivo, que te obriga a andar por estas montanhas. Cor. Ai, sim, pois porque não, minha vida... (Levanta-se) Bon. Cale a bocca, bacharela, deixe-me falar, que sou mais velho. Não me dizem nada? (À parte) Menina, faça V.m. de conta, entendo que tem feito de conta, que para castigo das minhas culpas ando embrenhado por este deserto na companhia desta mona, que já fatigada não pode bulir-se; arre com ela; forte lesma! Muita paciência hei–de mister. Cor. Ouvio? Não seja tolo. Se as quer tanger, vá comprá–las: queria que eu, sendo uma Dama tão melindrosa, andasse tanto como elle maxacha103 e queixando-me de dor de peito. Bon. Já sey que é muito máo o teu achaque: nada me dizes de novo; não te enfades, pois é certo que eu não posso deixar de sentir quando tu padeces, minha flor. Cor. Sim, Senhor, diga-me dessas, que eu já o creio. Elhe. Parece-me, que se não casão muito bem. Bon. Eu espero, que brevemente sejamos muito bem casados, se por disgraça esta Senhora não se descer da burra; que isto de mulheres são os bichinhos mais inconstantes, que criou a natureza: porque se hoje dizem que sim, já amanhã 103 Probabilmente accrescitivo di macha, mula. 162 Capitolo II dizem que não; e deste modo descaradas sem pejo algum, fazem zombarias de um homem cheio de barbas; e o peior é que algumas a festa nos fazem de coitadinhos. Oh, como dizem bem! Pois todo aquelle que destas se fia ha–de ser coitado, ainda que não queira: quando isto me lembra estou quase quase em pontos de não casar-me. Cor. Ai, pois se você tem esse receio (Levantando-se) não queira tomar tal estado, posto que eu não sou dessas, não Senhor. Bon. Ora pois: eu assim o entendo, porque não há regra sem excepção. Sei que tenho na tua pessoa uma constante Corriolla; pelo que não hei–de deixar-te, não. Cor. Também, Santas Paschoas; está em tempo de escolher a seu gosto, (Sentase) não hei–de rogá–lo por certo. Elhe. Estes são sem dúvida os mesmos criados de Radamisto, e Zenobia (À parte) Eu queria retirar-me, e sinto não me queiram descobrir a causa dos seus trabalhos; ou ao menos os seus nomes. Bon. Ora espere, que eu me resolvo; como julgo, que é mulher de todo o segredo, isso lhe direi eu: tome sentido. Bonifrate é o meu nome, e da minha companheira o seu he Corriola. Elhe. Não se enganou o meu coração (À parte) Corriola, vem cá, dá-me um abraço, que eu te dou notícias de Zenobia, tua Ama. Cor. Que dizes? Oh que feliz encontro! (Levanta-se) como a conheces? Toma mil abraços. (Abraçam-se) Bon. Oh que ditoso accaso. Diga mais alguma coisa, que estou almejando por ouvi–la. Pela vida dos cabritos do senhor seu Pai dé um regabofe a este triste coração. Elhe. Também sei, que teu Amo se chama Radamisto. Bon. Como assim! É possível? Oh que gosto! Onde está esse infeliz peregrino? Cor. Conta-me o que é feito da minha rica Princeza. Elhe. Teve a sua vida em mui grande perigo. Cor. Coitadinha; e como? Dize-me como foi? Elhe. Posto ser dilatada a narração do sucesso, e faltar-me o tempo, só te posso dizer, que estando eu na margem do rio Araxe divisei dois vultos na sua corrente; um deles era uma vestidura de Zenobia, e o outro era ela mesma, a quem logo socorri, e livrei, tendo em seu peito uma penetrante ferida; trouxe-a para a minha cabana, dei-lhe dos meus vestidos pastoris, tratei dela com extremoso cuidado, curei-a como se fosse coisa minha; e vive, posto que bem aflita, por não saber do seu perdido Esposo, ao qual sem sossego vai procurando. Bon. Isso é certo? Oh meu desaventurado Radamisto, (Chora) aonde irá dar comtigo o teu Bonifrate? E Zenobia aonde estará? Elhe. Da minha companhia se apartou não há muito tempo: deu-me discretas excusas para que a deixasse ir só; tive com ela boa amizade; descobrio-me todos os seus infortunios; e eu fiquei invejando a sua rara virtude. Cor. Coitadinha! (Chora) e foi só, sem saber caminho, nem carreira? Bem sei eu quem tem a culpa de todos estes desarranjos: o certo é, que ninguém se livra de falsos testemunhos: Radamisto não era capaz de matar ao senhor seu sogro, daí durmir. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 163 Bon. O mesmo afirmo eu Bonifrate: os Armenios estão muito mal informados; meu Amo não podia cometer semelhante delicto, sabendo muito bem que Mitridates o escolheo para Esposo de sua filha, negando-a no mesmo tempo a outro Príncipe. Cor. Pobre Tiridates, que ficou chuchando no dedo! Tenho muito dó dele, e julgará que Zenobia o deixou por desprezá–lo. Como se engana se isso cuidar! Queixe-se do senhor defunto, o qual, aqui para nós, faltou como um negro à sua palavra. Bon. Ó rapariga, não fales em coisas do outro mundo, que se me arripião quantos cabelos tenho no corpo. Cor. De sorte que eu não sinto, que a minha menina casasse com Radamisto: porém é certo que Tiridates também a merecia. Elhe. Zenobia me informou das condições desse Príncipe; que todas o fazem digno da maior estimação; eu me compadeço muito da sua infelicidade, pois ainda que sou uma rustica, também me acompanhão nobres sentimentos. Cor. O teu nome saber quisera, para o trazer impresso na memória. Elhe. É mui afável o teu génio, pois tanto lisongeias uma Pastora, que de pouco pode servir-te. Elhe é o meu nome; nestes montes fui criada, aquela cabana é às vezes o meu aposento, aonde podes descansar, se quiseres. Cor. Como posso eu sossegar? Não é possível: devo por–me já a caminho, a ver se algum Nume nos depara minha Ama, pois cheia de saudades por vé–la suspiro. Bon. E eu também de boa vontade darei ainda o que não tenho, só por ver meu Amo o senhor Radamisto. (Chora) Elhe. Pois, Corriola, eu vou buscar meu Pai, que anda no monte: adeus. Dá-me um abraço. Se conseguires o gosto de ver Zenobia, segura-lhe que eu muito desejo se acabasse já a causa do seu martírio. Cor. Também tu, se por acaso lhe tornares a falar, dize-lhe que nós cuidadosos a buscamos; e que por eu cansar no caminho, não podemos segui–la. Adeus, linda Pastora. (Abraçam-se) Elhe. O Cheu conceda a todos igual descanso. (Vai-se) Bon. Pela parte que me toca não deixo, de lhe ficar muito obrigado. Corriola, à vista do que se passa, é preciso acabar de correr a lebre: façamos das fraquezas forças, vamos andar, e desandar esses emboscados bosques, pode ser que a sorte jamais favorável nos restitua esta gente perdida; mas o peior será, se ainda não souber um do outro; que tudo pode ser. Cor. Tal não levo à paciência, separar–se Radamisto de Zenobia. Ah, permitam os Numes não ficasse ele em poder dos seus inimigos! Não me lembrou perguntar a Elhe uma coisa tão precisa; sou uma tonta. Bon. Também nós não ficamos sabendo como foi aquilo... aquilo da ferida, foi bom esquecimento da nossa lembrança! Cor. Infeliz Princeza! Que de sustos, e pezares tem passado por aquela alma inocente! Vamos Bonifrate, que mais hora, menos hora tudo saberemos; mas ai que vem... Soldados! Aqui me escondo, antes que me vejam. (Esconde-se) 164 Capitolo II Bon. Espera tola, não fujas! Eu como ainda não sei de que cor é o medo, hei–de ver o que eles querem. (Sai um Sargento e dois Soldados) Sarg. Oh! Criado meu Amo. Bon. Oh meus Senhores, outro tanto. Convém fazer-me um pouco mais tolo do que sou na realidade (À parte) Para quem pedem? Sarg. Quem é você? Bon. Quem sou eu? Está galante a pergunta! É bom não ver! Todos 3. Diga logo quem é! (Enfadados) Bon. Para que é tanta bulha? Não me conhecem? Não lhes estou parecendo um homem? Sarg. Para onde vai? Como se chama? Bon. Isso agora é mais comprido: eu entendo que vossas mercês querem conversar. Lá está Corriola escondida vendo em que isto pára. (À parte) Sarg. Você não ouve? Bon. Senhor Sargento, se quer que lhe diga a verdade, não estou muito de humor para lhe dar ouvidos: bem podera V.m. dar-me um bocado da sua pachorra. Sarg. Diga-me como se chama, seremos amigos. Bon. Sim Senhor, conheço o favor que me faz: pode-se ir embora cada vez que quiser. Sold. Este homem é malicioso, ou muito inocente. Bon. Uma coisa dessas ha–de ser. (À parte) Sarg. Você fale em termos, porque além de Soldados, somos homens de honra. Bon. Muito bons para uma quadrilha. (á parte) Irmãos ficou-me a bolsa em casa, não tenho que lhes dar. Sarg. Eu julgo que você se faz simples. Bon. Ainda mal, Senhor; engana-se; com este defeito saí eu já da barriga de minha mãe. Sarg. Ora basta de galhofa, que já me vai enfadando. Bon. Antes eu discorro, que sua mercê se quer desenfadar comigo. Sarg. Você como veio a este sítio? Bon. O homem é excelente para inqueredor (À parte) Deu-me esse destempero na cabeça. Sarg. E que faz por aqui? Bon. Eu agora, nada, Senhor; já hoje fiz alguma cousa, pouco foi, e por signal, que me não cheirou muito bem; pelo que tenho meus escrúpulos do que estou podre cá por dentro. Sarg. Fale a propósito, quando não hei–de ensina–lo. Sold. Este homem já não se atura. (Enfadados) Bon. Meus Senhores, para que se enfadam? Não sabem que nunca a indiscrição conseguio obrar acertos! Vossas mercês o melhor acordo que podem tomar é fazerem-se na volta, e deixarem-me, que eu não tenho medo de ficar só; este é o meu parecer por excusar-mos ceremonias. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 165 Sarg. Ou seja tolo, ou se finja, venha prezo. Cor. Ai! Pobre Bonifrate, em que mãos está mettido! (À parte) Bon. Que vá prezo? Assim sou eu besta. Com que autoridade faz V.m. esta diligência? Sarg. Lá lho dirão. (Querendo encaminhallo) Bon. Olhe lá não digam... Eu estou vendo, que intentam fazer-me réu sem culpa. Sarg. Homem, nós somos Soldados do Exercito de Tiridates, que andamos descobrindo estes bosques: você não é camponês, e poderá ser alguma espia dissimulada, ou malfeitor: assim é preciso levarmo-lo prezo, quando não, faltamos às ordens que temos. Bon. Faltem muito embora: nada duvido do que me diz; porém eu não vou; porque não costumo andar de pé. Sarg. Ha–de vir, e não queira que seja por mal. (Encaminhando-o) Cor. Não sei que faça; para esta não estava eu aparelhada. (À parte) Bon. Ora espere, Senhor; vire-se para lá. Sarg. Que quer? Bon. Eu queria, que me levasse às cabritas, se não, digo que não posso ir. Sarg. Homem, a mostarda já me vai chegando ao nariz; não se queira fazer criança. Bon. Criança seria eu, se estando V.m. aqui, deixasse de querer ir a cavalo. Todos 3. Ó patifão, ó insolente; virá desta sorte. (Empurrando-o com as armas) Bon. Ai, ai, ai, deixem-me, que eu vou. (Largam–no) V.ms. são agarradores? Isto é modo de prender? Às pancadas? Serg. Pois andar; se não, o remédio está na mão. Bon. Senhor Sargento, peço-lhe não queira dar-me este incómodo, porque eu certamente não sou capaz de fazer mal, ainda aos meus inimigos. Sarg. Lá mostrará a sua inocência; vamos. Bon. Querem V.ms. levar-me ao colo, se podessem ter esse trabalho! Sarg. Amigo, zombaria fora, em que ficamos? Bon. Eu ainda fico em ficar. Todos 3. Pois irá com mais violência. (Querem levá–lo à força) Bon. Olhe lá não vá. Só se algum carregar comigo. (Deita-se no chão) Sarg. Ora sou seu criado: carreguem lá com ele às costas. Bon. De aqueles não fazem V.ms. caso. (Levanta-se) Vejam bem, olhem, olhem: eles lá vão (Aponta para uma parte e eles olham) Por aqui me safo: fora tolos. (Vai-se depressa) Todos 3. Aonde foi? É bom engano pega, pega. (Vão-se correndo) Cor. Ai, Bonifrate, foge, foge, a tua industria te valha; o Cheu te livre das garras desses mofinos; que se te prendem, ambos ficamos sem liberdade, e tu, Corriola, bem te podes chamar a mulher mais desgraçada! Que será de mim! Que farei? O animo me falta para estar aqui só; não sei em que me resolva. Capitolo II 166 Oh quanto me custa caro Este negro querer bem; O destino a culpa tem Do meu triste desamparo: Sem conselho, e sem amparo, Pobre de mim, que farei? Como Zenobia acharei, Se Bonifrate sózinha Me deixa aqui? Coitadinha, Nesta pena morrerrei. (Vai-se)104 Acto II (Sai Corriola) Cor. Não posso encontrar quem me dé notícias de minha Ama. Onde estarás minha estrella? Pode ser, que bem longe daqui; mas ainda não perco as esperanças de ver-te, e com sossego; que só assim poderá a tua Corriola ter alívio. Agora para mais sentir, julgo, que prenderam Bonifrate, e não sei como poderei livrá–lo; se ele escapasse, logo aqui estava rebolindo. (Sai um pouco antes Bonifrate vestido de mulher rustica; com capa, ou outra coisa semelhante, e um lenço pela cabeça; e fingindo-se velha vai atravessando o tablado) Cor. Ó minha velhinha para onde vai? Venha cá, fale comigo. Bon. Ai menina, que me quer? Quem me dera os seus cuidados. Cor. Pois acha que os não tenho, por me ver assim tão moça? Bon. Ai isso é velho, minha filha. Escute, que inda agora eu reparo em sua mercê: não me dirá que vida é a sua, em que se occupa? Cor. Eu agora só occupo a vida em padecer. A minha disgraça me traz por estes bosques perdida, e sem amparo, veja deste modo eu também terei cuidados. Bon. Ora tenha paciência; acomode-se com o tempo, e se quer vir na minha companhia, nada lhe ha–de faltar; achará muito bom comodo no meu aposento. Cor. Eu sim fora; mas não sei o que faça. Ai ai minha saudade. (À parte) Bon. Quero já descobrir-me para a consolar. (À parte, e tira o lenço, e capa, e fica em saia) Minha triste Corriola, cala–te, não chores; dá-me o apetecido gáudio das tuas notícias. Cor. Meu menino, meu amor, meu bonifrate, meu feitiço... Bon. Basta, basta, não digas mais; olha que sou homem, e posso abusar dos teus favores. Cor. É possível que o vejo? Bon. Pois que? Já não esperavas que eu tivesse esse gosto? 104 Ivi, pp. 5-9. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 167 Cor. Isso sim; mas como você não apareceu logo, cuidei que o tinham agarrado. Bon. Sabes tu quem me livrou? A minha esperteza. Cor. Sim Senhor, foi bem feita a caramunha; é magano refinado; mas esteve em um grande precipìcio. Eu quando tal vi, o corpo me tremia como vara verdes: e despois chorando lágrimas de punho, fui ver se por aqui achava alguém, que me desse notícias dos nossos mal fadados; porém nada de novo. Bon. Logo descobriremos mais campo; e agora ouve como foi a minha escapatoria. Indo os maganos em meu seguimento, avancei a um chavascal, onde me escondi; e fiquei tão livre deles, como se estivera metido no mais secreto buraco da minha casa. Cor. E para que veio assim feito um maricas disfarçado? Bon. Acaba de ouvir-me: saindo logo da emboscada, comprei a uma camponesa estes frangalhos, para que, no caso de encontrar os tais salafrários, podesse passar em claro assim feito mulherengo; e dou mil parabéns à minha fortuna, em vir dar tão sedo contigo, minha Corriola. Cor. Pois eu mesmo em pessoa já estava resoluta a ir cuidar no seu livramento, viesse o que viesse; era justo mostrar-lhe, que fiel lhe assistia o meu cuidado. Bon. Conheço, minha rica perola, o muito que devo ao teu amante disvélo. Tu bem sabes, que podes, se quiseres, dispor de todo o meu cabedal havido, e por haver, dando-me a fortuna de ser teu parente no primeiro degrau. Cor. Não entendo a fineza, explique-se melhor. Bon. Pois eu não falo gago; quero dizer que casando tu comigo, serás possuidora de tudo quanto tenho, e espero ter; e ao mesmo tempo haverá entre nós um parentesco mui chegado. Cor. Eu já tive algum dia outros intentos; mas agora só você me agrada; cuide em não desmerecer, que isso tem os homens, se chegarão a alcançar que uma mulher os ame deveras, já a não estimam, parecendo-lhes, que muito mais merecem, isto é quando dela não fazem logo zombaria; ao que estamos sujeitas, mas eu não hei–de sofferê–lo, e assim cuide em andar direito. Bon. Essa tua recommendação para mim era excusada, pois como posso, eu deixar de andar direito, não sendo torto? Cor. Ora vamos nós ao caso. Se eu o fizer tão venturoso, que o receba por meu marido, não me ha–de deixar sair fora sempre, que eu quiser? Bon. Irás sim fazer as tuas visitas, porém estar sempre fora de casa, não será muito acertado; porque tu não és nenhuma mulher da rua. Cor. E deixar-me-á enfeitar todos os dias? Bon. Não terei dúvida, com tanto, que me não enfeites também a mim, que para isso tenho o meu valé de xambre. Cor. Ora diga-me; que me disse você, que tem, e espera ter? Bon. Não lhe esqueceram os meus teres, e haveres. (À parte) Pois eu podia andar na Corte tão luzido, se não fora uma muito rendosa fazenda, de que a fortuna me dotou! Cor. E de que consta essa boa fazenda? 168 Capitolo II Bon. De rarissimas castas de fruta. Também estou para tomar posse de outra, da qual ainda não tenho lucro algum; mas em tu casando comigo, que então terei mais descanso, cuidarei no seu rendimento. Cor. Ainda não sei o que será de mim; porque sempre ouvi dizer a minha avó, antes que te cases, rapariga, vê o que fazes. Bon. Ainda agora nós aí estamos? Tua avó quando tal to disse, estaria já mui tonta. Faleremos mais devagar; e agora vamos, que é tempo, buscar a nossa gente perdida. Cor. Vamos; mas ai, que aí vem Tarelo! (Sai Tarelo) Tar. Corriola, tu por aqui? (Suspende-se) Bon. Que? Temos mais Soldados? (Torna depressa a pôr o lenço e a capa) Cor. Este é uma boa coisa; é um criado de Tiridates. (Falando a Bonifrate) O Senhor conhece-me desde pequenina, e andou comigo ao colo muitas vezes. Quero pregar esta peça a Bonifrate. (à parte). Bon. Não duvido; porém agora o que quer meu Senhor, qual é a sua tenção? Tar. Eu queria fallar a esta moça, que é cá conhecimento velho; e julgo que por ora ninguém mo ha–de embaraçar. Bon. Pois julga muito mal; eu sou a primeira, que a não deixo falar a todos, senão a deles. Tar. Então serei eu um desses tais? Bon. Não será por certo, não Senhor. Tar. Porque? A Senhora é coisa sua? Bon. Isso é o mesmo que dizer-me, que lhe dé contas da minha vida! Ora não seja tolo, tome o meu conselho, e vá-se embora. Tar. A bruxa tem má cara. (À parte) Quer vossé uma pitada de tabaco? Bon. Ai, que quer meter-se comigo de gorra: quer-me tabaquear o caso! (À parte) Senhor meu em uma palavra: meia volta à direita, e marche. Cor. Ai! Não seja destemperado; não me hão–de falar as pessoas do meu conhecimento? Venha cá, Senhor Tarelo; como lhe foi por lá, diga, diga. Tar. Muito mal; como quem ausente estava da sua vista; mas agora na presença de tanta graça sinto-me todo cheio de glória. Cor. Confesso que lhe sou muito obrigada. Tar. Como vieste aqui tão longe? Cor. Vim buscando Zenobia, que abalou. Bon. Se me não engano, Corriola já quis bem ao Soldadinho. (À parte) Ó rapariga, o Senhor, pelo que mostra, tem negócio de importância: esta prática não me serve, tenho dito. Cor. Vossa mercê não ha–de permitir, que me tenham por grosseira: faltar eu, nem a um negro, isso não. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 169 Bon. Como dizes que o Senhor é teu conhecido de criação, tens confiança para o mandar embora. Cor. Ai! Não se faça indigesta. Coitado tem manias. (À parte) Tar. Dize-me; já te esquecias dos refinados extremos do meu agigantado afecto? Cor. Posto que sou rapariga, não perco a memória do que lhe devo; e descanse. Bon. Que me dizem, é bico, ou cabeça? Isto não ha–de ser assim (Tira os vestidos de mulher, e fica nos seus) Meu Senhor, bem creio, que vossa mercê quisesse criar esta menina como para si: porém advirta, que também agora a vou criando, por me ser muito precisa para o bom governo da minha casa. Não sei se me entende? Tar. Que homem é este? Ah! Corriola, tu me enganas! Bon. Ah seu casquilho, você faz ouvidos de mercador? Tar. Fale bem, se acaso não está enfadado de viver. Bon. Você abre-me os olhos? (Chegando-se para Tarelo) Tar. Você cuida que lhe tenho medo? pois que quer? Bon. Se for atrevido, dar-lhe muito bofetão. (Dá-lhe) Tar. E eu não tenho mãos? (Lutam gritando e mete-se Corriola a apartá–los) Cor. Ai, ai. Quem acode, que se matam! Bonifrate deixa-o; há maior atrevimento! (Bonifrate o deixa, depois de o ter levado debaixo) Bon. Teve boa Madrinha; ora limpe-se, que está suado. Tar. Pergunto eu: isto foi devéras? Bon. Não Senhor; eu estava brincando. Tar. São muito bons os seus brincos. Que será este salvage? (À parte) Bon. O crismá–lo era justo, para deixar de ser Tarelo. Tar. Contente-se, que também levou o seu quinhão. Bon. Ora pois, quem dá também apanha, porém eu fiquei de cima; e se não fora aqui a Senhora Madrinha, havia de ficar-me entre as unhas. Tar. Forte bruto, é bem valente! (À parte) Cor. Ambos são muito desattentos; porém eu é que tenho a culpa de Bonifrate ser nas suas acções tão solto. Bon. Ah! Corriola, se eu não vivera tão prezo nos doces grilhões dos teus agrados, não me dariam tanto incómodo semelhantes encontros. Cor. Pois sabe o que lhe digo? Trate-me com mais respeito; se não, olhe que a minha vontade é livre. Bon. E então as tuas promessas? Cor. Que promessas? Não faça caso disso, ainda estou em tempo de arrependerme. Quero desprezar Bonifrate, para melhor enganar Tarelo. (À parte) 170 Capitolo II Bon. Esse teu fallar, Corriola, parece-me uma coisa, a que os amantes chamam ingratidão. Cor. Você quer que o attenda, fazendo-me destas? Estou bem fora desse negócio. Bon. Ainda assim, eu fio-me da tua palavra. Tar. E eu não, porque é mulher. (À parte) Cor. Você não sabe, que o faltar também é moda? Bon. E é moda, que anda por muito boa gente; ainda mal, mas eu não te considero mulher de falta; por isso te quero, e estimo. Cor. Se assim fora, não fizera desacertos na minha presença. Bon. Ora ei–lo vai, ei–lo vai, nem sempre há em mim esse defeito, pois já fiz um grande acerto em acertar contigo. Que digo eu, Senhor Tarelo? Tar. Dizes bem. Bon. Dizes bem! Irra, vossa mercê andou comigo na escola? Porém como jogámos os murros, já entre nós há confiança, trate-me como quiser, chegue-se para cá, dé-me cá um abraço, o passado passado. Tar. Com você, Senhor Diabo, de longe; tem muito máos brincos. Estou ardendo. (À parte) Bon. Meu amigo, eu não quis mais, que dizer-lhe assim zombando, que estimava a Corriola como cousa minha. Tar. Isso era bastante dizer-se com termos mais políticos. Bon. A primeira coisa que eu duvido, é que haja no mundo politica para estes casos, nos quaes fica sem luz o mais claro entendimento. Tar. Podia ao menos respeitar esta farda, e que sou... Bon. Senhor Soldado, eu não duvido, que vossa mercê seja um cavalo na guerra; não me entenda com a rapariga, tudo mais o que quiser, o dito dito; e não queira que lho diga deveras. Tar. Pois, Senhor Bonifrate, se outra ocasião me encontrar com Corriola, sempre hei–de cortejá–la; já se entende, como coisa que pertence à sua pessoa. Não é essa a minha intenção. (À parte) Bon. Eu creio, meu grande amigalhão, que sem o seu atencioso cortejo poderá a menina ir vivendo; eu também não lhe ficarei muito obrigado a essa lisonja; e a maior, que me pode fazer, he passar por ela, como cão por vinha vindimada. Cor. Há parvoice igual! Já não posso ouvi–lo: para que está com esses despropósitos? Poderá o Senhor entender que você tem recebido de mim alguns desmarcados favores. Va-se daí, que é um louco. Bon. Não há dúvida, que os meus excessos são efeitos da loucura; se os meus olhos te não vissem, Corriola, nunca Bonifrate perderia o seu bom juízo. Tar. Por certo, que é bem empregado o seu disvélo. Bon. Isso são favores, que lhe faz. Vossa mercê, ainda que mal pergunte, tem ainda aqui alguma coisa que fazer? Tar. Queria que Corriola somente me dissesse para onde vai, e também quisera saber, se Zenobia já morreu. Bon. Olhe, meu especial amigo, para onde Corriola vai quero eu que lhe não importe; e se Zenobia é já defunta, ainda se não sabe coisa certa. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 171 Cor. O que é certo desapareceu; e áa bastante tempo, que a procuramos. Eu por não vir só pedi ao Senhor quisesse acompanhar-me. Não convém dizer-lhe, que é criado de Radamisto. (À parte) Bon. E vim de muito boa vontade. Tar. Não sei se o creia. Porém ela o engana. (À parte) Bon. Como estamos na minha rabugem? Es muito enfadada. Cor. Para isso bastante causa me tem dado; e já agora nunca estaremos bem. Bon. Ora cala-te, que algum dia faremos as pazes. Vamos, que são horas, buscar a nossa gente perdida. Cor. Por mim vamos, já que não tenho outro remédio. Bon. Vossa mercê há de ter a bondade de ficar aí como quem é. (Para Tarelo) Tar. Eu queria acompanha–los. Bon. Sem, sem cumprimentos, deixe-se ficar, que nós cá iremos sós. Tar. Não Senhor, eu hei–de fazer a minha obrigação. Bon. Eu o dispenso: não se incomode. Tar. Senhor Bonifrate, estes são uns lances, que vem perdidos da baralha; eu hei–de acompanhar a sua pessoa. Bon. Senhor Taralhão, digo que não quero; e não aperte comigo. Sou Tarelo, em conclusão, Grande asneira é porfiar: Fique aí, deixe-se estar, Desprezo a sua atenção; Pois muito me desconsola Ter você tão má cachola, Que pertende em caso tal, Sendo um asno racional, Namorar a Corriola. (Vão-se Bonifrate, e Corriola) Tar. Ora peguem-lhe com um trapo quente. Não vi homem mais sem ceremonias; foi-se como quem não diz nada, falando em verso, e fez-me secar a prosa de sorte que só me lembro de ir dizer a meu Amo o que se passa105. Acto III (Sai Corriola) Cor. Coitada de mim e também de minha Ama! Tudo são sustos, martírios, e pezares; dizem que Radamisto está prezo no Exercito de Tiridates; se Zenobia tal coisa vem a saber, estala de pena. Bonifrate, logo que teve tão triste notícia, foi examinar se era certa; e me disse, que o viesse esperar neste sítio. Jupiter permita 105 Ivi, pp. 12-16. 172 Capitolo II seja engano o que se diz. Estou tremendo; mas aí vem Tarelo; eu nada lhe pergunto, e hei–de mandá–lo à fava. (Sai Tarelo) Tar. Engraçada Corriola, aqui me tens atrativa vitação dos meus sentido. (Chegando-se para ela) Cor. Afasta-se, não me diga graças. (Com máu modo) Tar. Ai, que a rapariga está inclinada a Bonifrate! É preciso fazer-lhe fogo. (À parte) Tu arrufada! Porque motivo? Ora não, minha aquela; bem podes fazer-me festa, quando venho sem descanço como amante Girasol seguindo os teos luzeiros. Cor. Não estou em casa; quer que seja sua? Eu querer-lhe bem! Bem mal que tal queira, uma figa, uma bala para ele. Tar. Olha filhinha, que não merece a minha fidelidade esse teu desabalado desdém. Cor. Ora diga-me, que merecimentos tem vossé, para possuir uma prenda, que tanto vale? Tar. Como sempre te estimei sem preço, tenho grande merecimento em não te dar valor. Cor. Quem o ensinou a dizer isso? Tar. Tu ignoras que o amor também costuma formar discretos? Cor. Então porque me persegue como um louco? Tar. É discrição a minha loucura, quando tu dela és o motivo. Cor. Viva mil annos: não perca o seu tempo. Tar. Muitas vezes na perda vai o ganho: e agora o maior que posso ter, é estar na tua presença. Cor. Ora deixe-me, que o aborreço. Tar. Já não me estimas, Corriolla; e só Bonifrate he o ditoso lambedor do teu affecto. Cor. A maior fineza que quero dever-lhe, é não fazer caso de mim, e não me enfade. Tar. Como posso eu cumprir tão rigoroso preceito, sem rebentar por quantas juntas tenho neste corpo cheio de misérias, que é uma lastima. Cor. Miserias! Lastima! Que nojo! Vá-se, vá-se, que não quero deitar pérolas à porcos. Tar. Por saber, que tu sempre foste muito limpa, por isso te quero para o asseyo da minha casa. Cor. Agradeço como se aceitara, nem vê–lo, nem cheirá–lo. Tar. Ainda assim, não faças zombaria dos partos do meu entendimento: não presumas, que eu tenho alguns incuráveis achaques: porque as lastimosas miserias em que eu falo, todas me resultão da tua incostância. Cor. Se soubera o ódio que me causa, não havia buscar occasiões de ver-me. Que fastio! (À parte) Metastasio, padrão de vida do século XVIII 173 Tar. Antes tu fazes de mim teu perrechil. Ah enganadora! Cor. Agora o desengano, que mais quer? Que mais quer? Tar. A muito bom tempo: sendo tu obra tão desenganada, para que deixaste chegar um brando fogo a tão grande incêndio, em que estes bofes se abrasam? Cor. Tenha paciência. Não se pode capacitar. (À parte) Tar. Sempre ouvi dizer, que era só boa para a vista, com que se me não dás outro remédio ao que padeço, de sorte, que fique sã, e escorreito, ponho-me aqui a chorar como uma criança. (Chora) Cor. Ainda mais esta? Quem me dera que viesse Bonifrate para saber o que há de novo. (À parte) Olhe, quer você um bom remédio? Em me vendo feche os olhos. Tar. Depois de ver-te, cego fico eu, inda que não queira só a tua vista tem esse poder, e não tens dó de mim? Cor. Eu? É o que me faltava. Tar. É de trabalhar o ponto. (À parte) Dize-me: para que tratas tão desdenhoso a quem nunca te soube ser falso? Cor. Bem sei, que você é mui fino; mas eu não gosto. Tar. Tem-se feito de muito má boca, não a posso encabrestar. (À parte) Menina não sejas tão esquiva; que farei ainda os maiores excessos só por lograr o mimo da tua denguice. Cor. Já não creio nas suas parolas. Tar. E este é o prémio que tirei dos meus quotidianos exercícios? Cor. Para que gasta mais a sua pólvora, se me não chegam os seus tiros. Tar. Já te não lembras, Corriola, de que só tu és o único alvo das minhas finezas? Cor. Assim será, porém não gosto de tão boa farda. Tar. Pois olha, se tu me queres ver desfardado, atende-me, e verás se tudo perco, só por ganhar o teu amor; aonde tenho assentado praça; mas tu não me queres na tua companhia. Forte ingrata! Cor. Como posso eu dar crédito ao que me diz, se todo o homem da sua vida tem por ofício o ser bandoleiro? Tar. Agora a pilho. (À parte) Sem razão dúvidas do meu proceder, quando sabes, que devo ser constante nos assaltos; e sendo assim, podes estar certa, minha joia, que sempre hei–de ser o mesmo nos quilates de querer-te. Cor. Não tem que ateimar, esta Corriola não se guarda para você, não por certo; com esses bigodes queria lograr-me? Não quero, tenho dito, não me agrada. Tar. Não pega a lábia. (À parte) E assim pagas tantos anos, que de narizes andei no teu serviço? Não me dirás porque desmereci as atenções? Queres com o teu desprezo tirar-me a vida? E queres que o mundo fique dizendo: Aqui morreu Tarelo a pé firme pelo amor de Corriola? Isso é seres mui falta de compaixão; minha vida, muda de parecer; ora sim, dá-me os teus braços. (Querendo abraçá– la) Cor. Ai, guarde-se para lá, é bem atrevido! Senhor Tarelo asoldado, desarme-se desses pensamentos, que não ha–de render-me. Tar. Serey inseparavel sentinella da tua vista. Cor. Ponha-se em retirada, olhe não venha Bonifrate, que lhe toque a caixa. Capitolo II 174 Tar. Quero ver se tiro algum fruto deste engano. (À parte) Em fim, tu me desprezas, porque não sabes, que casando com Tarelo, ficas sendo a Senhora Dona Corriola: tu julgas, que sou algum buncero106 enfeitado dos do tempo, e que não tenho com que possa sustentar-te? Como te enganas! Além de ser tão guapo, (olha bem para mim) (Pondo-se diante dela) sou um homem muito branco, senhor de um grande morgado, e tenho muitos cartuchos, que vindo tu ser dona de uma casa, que haviamos de ter, arderia logo tudo em galhofa por esses ares. E depois iriamos vivendo de quatro calotes, por não faltar ao costume. (À parte) Cor. Com tudo isso, sempre o hei–de deixar na minha retaguarda; só Bonifrate he digno de estar na vanguarda dos meos carinhos, e já anda no centro do meu coração. Tar. E daixas-me por um Bonifrate, figura tão ridícula? Cor. Não seja tolo, que o meu Bonifrate é mui perfeito, e muito, muito, muito do meu gosto. Tar. Tanto muito para ele, e nada para mim? Cor. Para você? Quem lhe dera muita, muita, muita pancada. Tar. Sim Senhora, não há dúvida; mas eu te asseguro, que ainda te has–de arrepender-te. Cor. Sim, olhe lá, pois não. Tar. Também se eu não fora, e mais meu Amo... Cor. Não fale comigo, ai como é pegadiço! (Sai Bonifrate sem ver Tarelo) Bon. Corriola! Ó rapariga, já sei aonde está a Princeza. Cor. Pois vamos, vamos vê–la. Bon. Sim, eu te levo onde ela está, e depois irei assistir a Radamisto, que é certo estar agarrado; e para que não me conheção aqueles tais Soldadinhos, mudarei de vestido. Cor. E é certo? Oh que pena! Bon. Oxalá que o não fora. (Repara em Tarelo) Oi, vossa mercê também cá por estas bandas? Para que festa? Tar. A minha vinda agora aqui foi por acaso. Bon. Senhor, não nos atrapalhe, deixe-nos, por caridade lho peço: não me obrigue a que faça algum destempero. Tar. Isso é ser muito desconfiado, meu amigo. Bon. Eu não posso, nem quero amigos, que mo andam roendo cá por detraz¸este Português é bem claro. Cor. Eu se dei ao Senhor alguma audiência, foi porque você me disse, que neste sítio o esperasse. 106 Termine dal significato oscuro. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 175 Bon. Ah Corriola, tudo neste mundo é mudável, não sei o que o meu coração receia. Cor. Não tem que receiar, porque eu só a você estimo. Bon. Eu assim o quisera, já que has–de ser minha Esposa. Tar. Agora acabo de conhecer o que são mulheres. (À parte) Como é isto de Esposa? Vamos devagar; que se chegamos a estes pontos, hei–de lhe pôr justos embargos. E se assim o não querias, Corriola, não me desses aquele escrito de casamento. Isto já se não atura. (À parte). Cor. Que escrito, mentiroso? Mostre-o lá, como pode ser verdade, se eu nunca soube escrever! Tar. Vista faz fé. (Tira o escrito da algibeira) Bon. Aí nos mostra algum papel de adubos. (À parte) Tar. Ouça bem. (Lê o escrito) Eu Corriola Martins, filha por parte de meu Pai de Martins Corriola, e filha de Corriola Jerigonça por parte de minha Mãe, Neta de Escarafuncho Corriola por parte de meu Avô, e Neta de Corriola Travada por parte de minha Avó; Bisneta por parte de meu Bis-Avô de Basculho Corriola; e Bisneta de Corriola Pregada por parte de minha Bis-Avó, prometo, estando em juízo perfeito, a receber por meu primeiro, e legitimo marido a Tarelo Cornelio cavalo de Soldado. Bon. Cavalo de Soldado? Tar. Já fiz reparo nesta equivocação; havia de pôr Soldado de cavalo, pós cavalos de Soldado; pouco sentido. Bon. Não se lhe dé disso, que para V.m. tudo val o mesmo. Tar. Besta será ele, e toda a sua geração. Bon. Eu não o digo pelo tanto; vamos adiante. Continûa Tarelo a ler o escrito. Receber por meu primeiro, e legitimo marido a Tarelo Cornelio Soldado de Cavalo, natural da sua terra; o que certifico com tre testimunhas contextas; porque no caso, que eu queira faltar à minha palavra, o que poderá ser, me possa obrigar em todo o tempo, procurando os meios da justiça. Corriola Martins. (Representa) Pois então não tem valor o escritinho. Que me diz? (Para Bonifrate) Cor. Eu digo que tal escrito não é meu, é um aleivoso, um falso, um indígno. Bon. Tem mão, Corriola, não te apaixones contra um Senhor, que é da tua criação. Cor. Eu não hei–de enfadar-me, se tal coisa não houve? Bon. Ora diga-me, vossa mercê esteve presente à factura desse chamado escrito? Capitolo II 176 Tar. Não, porém, as testimunhas me assegurarão, que Corriola o fizera escrever, e que ela o assinara com a sua mão; que é o que me basta, ainda que o escrito não esteja feito na fórma do estilo. Cor. Veja você se pode haver falsidade, quando eu nem uma letra sei fazer? Forte embusteiro! Bon. Isto é engano do maganão. (À parte) V.m. escreveo esse papel ao pé de alguma parede? Deixe-me ver a firma. Tar. Não duvido que a veja; mas ha–de ser na minha mão; aqui o tem. (Mostralhe o escrito) (Bonifrate lê um pouco e diz depois) Bon. Olhe, a origem das Corriolas aí está muita parte dela, é família muito antiga, tem mais de nobre, que de mecânica; porém a firma não é da rapariga; porque ela não sabe, nem pegar na pena; espere, deixe ver as testimunhas se são pessoas conhecidas; elas estão borradas! Tar. Assim é, só Raposo Marmelo, que é a terceira, não está borrado. Bon. Senhor Tarelo, isso tudo é uma história, dessas sei eu mais de meia duzia; guarde o papelinho para mechas, e vá cuidar na sua vida. Cor. Vá, vá, não seja mentiroso. Eu sim lhe dei o escrito; mas foi por logração. (À parte) Tar. Ela ainda que não queira ha–de casar comigo; justiça, e mais justiça. Cor. Sim, espere, olhe não se queime. Bon. Corriola vamos; fique-se embora só Tarelo. (Vão-se Bonifrate, e Corriola) Tar. Há maior pouca vergonha! Deixar Corriola um homem tão guapo, também posto, tão valente como eu, pelo amor daquele traste, tendo-me prometido tantas vezes, que somente comigo havia de casar! Isto não se atura, vou queixar-me a meu Amo, para que me vingue; mas se ele não me ajuda adeus minha esperança. Meus amores disvelados Vejo em fumos concluir Porque mais não quer ouvir Corriola os meus agrados: De todos os meus cuidados Este só me desconsola; Pois fico como um patola, Se no rigor da mudança Vejo em fim minha esperança Acabar em corriola. (Vai-se.)107 107 Ivi, pp. 29-33. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.5. 177 Artaserse L’Artaserse è il più fortunato de’ miei figliuoli. Tutti gli altri hanno corse varie vicende; ma questo, per ostinazione della sorte, è sempre stato sulle staffe. Anche i drammi hanno le loro costellazioni108. Rappresentato nel 1730 per la prima volta con musiche del Vinci presso il Teatro delle Dame di Roma, l’Artaserse riscosse enorme successo di pubblico anche in Portogallo, dove una prima pubblicazione bilingue, molto accurata data la sua destinazione agli ambienti dell’Accademia di Piazza della Trinità a Lisbona, risale addirittura al 1737, una versione chiaramente molto fedele al testo a fronte, salvo un piccolo errorre all’altezza della IX scena del primo atto, in cui vengono accorpate in una sola due battute rispettivamente di Artabano ed Artaserse, ridotte cioè ad essere pronunciate dal solo Artaserse, ed un errore di traduzione nella battuta pronunciata dal Coro alla fine del terzo atto, dove “allora” diventa “Aurora”: ARTASERSE 1730 Atto III, Scena ultima ARTAXERXES 1737 Acto II, cena última Coro Giusto Re, la Persia adora la clemenza assisa in trono, quando premia col perdono d’un Eroe la fedeltà. La giustizia è bella allora che compagna à la pietà109. Coro Justo Rey, a Persia adora, No vosso trono a clemencia, Quando mostra a indulgencia A bem da fidelidade. Parece a Justiça a Aurora Unica co’ a piedade110. Decisamente più rilevante è la traduzione del 1758 (fig. 16), dove non solo troviamo l’indicazione di genere che trasforma l’opera in Comedia e il titolo tematico di O Mais Heroico Segredo, ma anche un altro inserimento del traduttore del triangolo dei graciosos. Di questa versione della fortunata opera metastasiana, come abbiamo 108 P. Metastasio, op. cit., vol. IV, p. 242. Ivi, vol. I, p. 414. 110 L’Artaserse/Arteserse, drama per musica del Signore Abb. Pietro Metastasio, in Lisbona Occidentale, nella stamperia di Antonio Isidoro da Fonseca , anno 1737, pp. 124-125. 109 178 Capitolo II visto dall’epigrafe, si fecero diverse copie in varie officine librarie di Lisbona: le due che nel 1764 si devono a Francisco Borges de Sousa e a Jozé de Aquino Bulhoens (figg. 17–18) e un’altra copia senza data (fig. 19), testimoni senz’altro del favore di pubblico che ottenne questa rappresentazione in particolare111. Dall’analisi della copia del 1758 emergono particolari interessanti che ci inducono a parlare non di una semplice traduzione o versione del testo di partenza, bensì di una vera e propria opera a sé, la quale certamente ha preso in prestito l’argomento di base della vicenda del re Artaserse, alla ricerca dell’uccisore del fratello Dario ingiustamente individuato in Arbace e non nel padre di costui, ma per poi costruire una storia formalmente e spesso contenutisticamente il più lontana possibile dall’originale italiano. A riprova di quanto detto, si consideri che il traduttore portoghese appone come titolo tematico e morale della traduzione la definizione O Mais Heroico Segredo, come sempre ripreso nell’ultimo verso dell’opera. Un titolo che rivela uno spostamento della focalizzazione dall’eroe legittimo che emerge dal sottotitolo (Artaxerxes), all’eroe reale che invece emerge dalla trama: Arbace, che per tutta la durata del dramma nasconderà il segreto del tradimento del padre Artabano, concentrando eroicamente su di sé colpe che non gli appartengono. In questo elemento troviamo, quindi, un mutamento contenutistico che si aggiunge al mutamento dei nomi di alcuni personaggi, tra cui Mandane, sorella di Artaserse e amante di Arbace, che diventa Eritrea nel testo portoghese, così come lo stesso Arbace, amico di Artaserse, prende il nome di Ernesto e Megabise, generale confidente di Artabano, diventa Nicandro. Se, inoltre, 111 Tuttavia, bisogna qui registrare alcune considerazioni annotate da José da Costa Miranda circa un parere negativo della Real Mesa Censória alla pubblicazione di traduzioni dell’Artaserse successive al 1758: «O que, essenzialmente, se encontrou em causa, na elaboração da sentença, não foi tanto a adulteração do texto original metastasiano: essa era uma situação quase rotineira, combatida, se havia opportunidade para o fazer. O que esteve em causa foram os exemplos de que o texto metastasiano, adaptado, embora, mas nisso segundo a versão original italiana, fazia alarde: o assassinato de um rei, por "hum vassalo" (repare-se bem!) e o projecto, "escandalosissmo." (para me servir da palavra e da grafia usadas pelo censor) do assassinato de um outro, o seu herdeiro. […] era a existência de condicionalismos locais, relacionados com as próprias obrigações que à Real Mesa Censória competiam: o zelo pelos esquemas políticos do tempo, a defesa do Estado e, não menos, da pessoa do Rei, personificando, em si, o Estado.», in J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit., pp. 139-140. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 179 Figura 16. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 12). 180 Capitolo II Figura 17. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 409). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 181 Figura 18. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 519). 182 Capitolo II Figura 19. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 583). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 183 prendiamo in considerazione le figure dei criados e del loro triangolo comico–amoroso che vede contrapposto Paquete, servo di Ernesto, al vecchio Ranheta nella conquista della fantesca Pipia, diventa ancora più chiaro lo stravolgimento totale del testo di partenza. In questa occasione, il gioco delle parti comiche si basa sul contrasto gioventù– anziani tra il “giovane garzone” Paquete, come dal significato del termine, e il “brontolone impertinente” rappresentato dall’invadente Ranheta, come vuole il valore popolare della sua denominazione, nel contendere la mano di colei che fa del “chiacchiericcio fine a se stesso” (Pipia appunto da pipiar, “pigolare”) una costante del proprio carattere. Tuttavia, nell’analisi del rapporto tra i tre graciosos la caratteristica che più colpisce è il loro intercalarsi nella trama principale dell’opera, cioè il fatto di intervenire e inteloquire con i protagonisti principali pensati dal Metastasio, commentando e sottolinenado situazioni o comportamenti dei propri superiori, non rispondenti alle caratteristiche di virtù e regalità che secondo questi servi essi dovrebbero avere (caratteristica della diminuzione di status). Più che di una funzione di commento, si potrebbe parlare di una decodificazione per il pubblico popolare dei discorsi aulici, appassionati e gravi dei personaggi legati direttamente alla reale vicenda dell’Artaserse metastasiano. Una sorta di ri–traduzione, insomma, del messaggio profondo veicolato dal testo originale, chiaramente in termini di avvicinamento allo spettatore meno colto e più portato al riso facile, intenzionato ad assistere allo spectaculum, alla mostra esagerata e assordante di motti e canzonature, alla farsa chiassosa ed estremamente esplicita. Questo momento di astrazione dal contesto storico–mitico e di ricaduta sul terreno popolaresco e quotidiano spezza, interrompe, frastorna al tempo stesso in cui avvicina, smitizza, normalizza e rivoluziona. Ecco allora che questi graciosos potrebbero incarnare la rivoluzione, l’eversione, l’alterità e la concretezza che giocando, divertendo, commediando irride al potere, lo oggettivizza, lo dissacra. In realtà, tutte buone potenzialità di critica sociale che muiono quasi sul nascere e che sfumano gradatamente in un finale sempre identico a se stesso, quel matrimonio tra i due giovani servi di turno che nulla dice, nulla apporta di concreto, di rivoluzionario, appunto, di decisivo ed originale a tutte le possibilità di rivolta interna che il testo inizialmente 184 Capitolo II lascerebbe presupporre. Insomma, ci troviamo sempre di fronte a quella duplicità, a quella doppia faccia della medaglia del temperamento lusitano che sembrerebbe desiderare un che di diverso, d’altro, e che poi si svilisce ipocritamente nell’accettazione rasserenante delle istituzioni che si racchiude nello happy end normalizzante. Tale funzione potenzialmente sovversiva della decodificazione in termini popolareschi del testo metastasiano, utilizzando spesso come forma privilegiata il ricorso a detti e proverbi comuni anche se riadattati per l’occasione, rappresenta comunque una forma di avvicinamento al quotidiano che si esprime anche attraverso la proposta di quadretti di vita popolare probabilmente molto noti al pubblico, come mostra questo divertente bozzetto sul gioco delle carte, a cui molti potevano assistere in una qualsiasi delle famose tascas portoghesi: Paq. Mas do passado não ralho de devertir-nos tratemos: se trazes cartas joguemos. Ranh. Eu aqui tenho um baralho. Paq. Victor quem não é coherio112, eu dou cartas, tu és mão. (Assentam–se) Ranh. Pois vamos victor e feição. Paq. Trapaça não, victor série trazes tentos. Ranh. Isso he peta! venho mui bem petrechado. Paq. Nem um burro carregado te desbanca meu Ranheta. (Pega Paquete no baralho, e Ranheta lho tira da mão) Ranh. A você Senhor, aquele não lhe toca este baralho. Paq. Não diz mal o espantalho porque o baralho é só dele. 112 Forse termine per cuerio, pannolino di neonato e, per traslato, nel significato di poppante. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 185 (Dá as cartas Ranheta) Ranh. Jogue pois, vaza fará, porém ganhar-lhe pertendo. Paq. Pelas cartas que vou vendo só dous murros ganhará: eu jogo o meu ás de paus. Ranh. Empato com o meu ás de ouros. Paq. Truco. Ranh. Não creia em agouros. Paq. Da para trez calhaos113. Ranh. Tem trez. Paq. E você tem dois. Ranh. Eu dois? Paq. E porque, não presta? Ranh. Aonde os tenho? Paq. Na testa da mesma forma que os bois; eu agora é que dou cartas. Ranh. Dizes bem, eu as levanto; assim Deus te faça santo. Dá-mas boas. Paq. Que? Eu dar-tas? Joga uma. Ranh. Jogo um três. Paq. Truco. Ranh. A seis; não me envoque. Paq. Nem a mim que ponho a nove. Pois ganhei. Ranh. O que? Paq. Não crês? Ranh. Eu é que tenho ganhado. Paq. Dois murros, sou trapaceiro. Ranh. Tenha conta no primeiro. Paq. Leve este de contado. (Dá–lhe murros) (Aqui jogarão fazendo os bichancros que lhes parecerem, e finalmente acabarão em briga, e no furor della sairá Artabano) Art. Que estrondo he este, ou loucura apartai-vos. Paq. Minha pélla!114 Eu não fui Senhor, foi elle. 113 114 Forse termine per calhaus, pietre. Forse termine per pele, pelle. 186 Capitolo II Ranh. Foi aquela creatura. Art. Basta: quem veio causar esta forte dissensão? Paq. Eu o direi. Ranh. Ele não. Ambos. Tu não te queres callar. Paq. Vierão este homem trazer. Ranh. Trouxerão este companheiro. Paq. Eu hei–de dizer primeiro. Ranh. Eu primeiro hei–de dizer. Paq. Vai e assim que se cá vê. Ranh. Vai assim que se vio cá. Paq. Você não se calará. Ranh. Não se calará você. Paq. Fui eu cá co’ o meu trabalho. Ranh. Todo o trabalho foi meu. Paq. Eu hei–de falar. Ranh. Mais eu. Paq. Vai, e puchou do baralho. Ranh. Deixe-me falar a mim. Paq. Eu só é que hei–de falar. Ranh. Você não se queres calar. Paq. Cale ele villão roim. Art. Calem-se ambos juntamente. Paq. Olhe está fazendo caras. Art. Basta já. Paq. Tu não reparas que me está ringindo o dente? Art. Semelhante atrevimento Só se emenda desta sorte. (Dá–lhe) Paq. Senhor dá–me boa morte. Ranh. Ai que me cobrou assento. Art. Louco sois, e como a taes Perdo-o tanta insolência. Paq. Bem haja a minha demência pela qual me perdoais, pode haver maior portento há mais notavel ventura, que chegue a minha loucura a ter tal merecimento. Ranh. Já que em ser atoleimado tenho carta de seguro eu por mim protesto, e juro que sou louco arrematado. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 187 Art. Eu também assim o entendo, Por isso te dou soltura. (Vai-se Ranheta) 115 Paquete arriva persino a ricoprire un ruolo decisivo nell’evolversi della vicenda, divenendo testimone del tradimento di Artabano, padre di Arbace/Ernesto, ma non riuscendo comunque a finalizzare questa potenziale funzione di personaggio chiave della storia a causa delle minacce di morte, in caso di rivelazione, che Artabano gli rivolge e che colpiscono nel segno la pavidità tipica di questo personaggio. Infatti, prima Paquete si nasconde furbescamente per poter origliare il dialogo tra Ernesto e Artabano che gli permette di venire a conoscenza del segreto, dopodichè mette a parte Pipia del medesimo segreto e si scontra duramente con Artabano, il quale esterna in modo decisamente schematico ed incisivo una descrizione generica del carattere dei servi, nescios que dizem leviandades ou por malicia ou por génio, ma alla quale Paquete risponde sorprendentemente dandoci un saggio della sua intelligenza, confermando cioè la descrizione di Artabano, ma con una nota a margine per il pubblico nella quale spiega la finzione obbligata di quella funzione della stupidità, di quella inconsapevolezza e di quell’ignoranza che i padroni si aspettano sempre dai loro servi. Qui allora troviamo la doppia maschera di questo tipo di personaggi, la consapevolezza della finzione, il gusto per la finzione, la capacità di trarre vantaggio dal doppio gioco, la comicità di chi conosce profondamente il proprio ruolo all’interno della società, così come dell’azione teatrale: Paq. Eu para casa, má hora; escondido aqui debaixo quero ver isto em que topa. (Escondese debaixo de uma mesa) 116 Pip. A El–Rei! Olhe o atrevimento! Paq. A El–Rei mesmo em carne: então não sou capaz! Pois que temos! De sorte que ouço dizer que foi meu amo hoje preso 115 Comedia O Mais Heroico Segredo ou Artaxerxe, composta na lingua Italiana pelo Abbade Pedro Matastasio, Lisboa, Na Officina de Manoel Antonio Monteiro, anno de 1758, pp. 19-20. 116 Ibidem. Capitolo II 188 por matador d’El–Rei Xerxe, eu pelo amor que lhe devo dar-lhe a vida determino. Pip. Tu! Olhem quem! Paq. Sim, eu mesmo sou testimunha de vista que elle o matou, e sei-o porque ao mesmo matador o ouvi117. Artax. Que cercado de pesares dou principio ao meu governo... Paq. El–Rei é homem como eu: de que tenho medo? eu chego: Senhor, Vossa Magestade... Artax. Que queres? Não tenhas medo. Paq. Quem eu? Tomara... mas ai, Jã não sei o que quero. (À parte) Senhor eu quisera... Artax. Dize. (Chega Artabano ao bastidor) Art. A procurar El–Rey venho: mas parece-me que fala com o criado de Ernesto! Retirado desta porta quero ouvi-lo: oh quanto temo! Art. Dize, fala, que pertendes? Paq. Quero dizer-te em segredo quem matou ao Rei teu Pai, pois sei que Ernesto está preso, coitado, innocentemente. Artax. Que dizes? Eu te prometo se lhe provas a innocência dar-te um avultado prémio. Art. Quem medita este insolente? (À parte) Paq. Pois eu estando bem perto esta madrugada vi que a falar a Ernesto veio. Art. Ele sabe o meu delicto: se o descobre tudo perco. (À parte) Paq. Trazendo-lhe a sua espada banhada com o sangue fresco. 117 Ivi, p. 14. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Artax. Quem? Acaba já. (Sai Artabano, e diz) Art. Senhor. Artax. Artabano cobra alento, Tens innocente a teu filho. Art. Proverá o Ceo: tal não creio. Paq. Olhe o carrasco do Xerxes quando veio! Leve-o o demo. (À parte) Art. Pois quem disse que o delicto não era de Ernesto? Artax. Ao tempo em que entravas me dizia esse homem que sabe ao certo quem foi o impio matador de meu Pai. Art. Este homem é nescio: quanto diz são leviandades, ou por malicia, ou por génio. Além de que é criado do mesmo traidor Ernesto por isso não deve ser atendido por suspeito, se ele mesmo já não fosse parte neste crime horrendo; e que venha por cautela de fingido mensageiro para livrar os seus crimes a formar delictos alheios. Antes sou de parecer que deve ser tambem preso para provar legalmente a conjuração. Paq. Requeiro que eu tenho muito bom juizo e mui claro entendimento e que se me faço tolo, não é, senão porque quero. Artax. Oh lá à ordem de Artabano levem logo este homem preso. Paq. Esta é a mesma verdade: eu falo. Art. Vai-te já nescio. Paq. Quem vio prisão deste lote! 189 190 Capitolo II levo muito boa chea118, se calo, tenho cadeia, se fallo, terei garrota. (Levam os Guardas preso e vai–se) Art. Toda esta industria é precisa Para encobrir meus segredos119. Art. Comigo agora convém falar em certo recado. Paq. Olhe, o passado passado não nos fale em que Deus tem. Art. Como foi aquella espada que a El–Rei à pouco affirmaste viste dar, e que observaste estava em sangue banhada. Paq. É que o Rei é um pateta e em que esteve reparando? estava dele zombando quis meter-lhe essa peta. Art. Não temas: dize a verdade, senão hei–de te matar. Paq. A mim? Salva tal lugar eu digo tudo: olhe estava, escondi–me... e foi... então... (Asusta–se) Ai! Art. Que tens? Paq. Foi ilusão parecia que me dava, foi, entrou sua insolência assim todo azafamado disse que tinha matado. Art. Basta. Em fim com evidência? sabes que eu matei a El–Rei. Paq. Sim Senhor... foi bem feito matá-lo mesmo no leito porque era um homem sem lei, eu se acaso o revelava era por livrar a vida de meu amo. Art. Essa lida a mim somente tocava. Já que o segredo soubeste por tua impia maldade, dize-me fala verdade: 118 119 Termine ignoto, forse corruttela di ceia, cena. Ivi, p. 15. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 191 a que pessoa o disseste? Paq. Assim Deus me dê boa sorte como nisso não falei. Art. Se o contrário disso sei espera ter certa a morte. Eu te ponho em liberdade, sai, vai, não tenhas medo: conserva fiel segredo, e lá no fim da Cidade, junto à porta, um pouco espera por Ernesto e se o contrário intentares temerário, ou se eu por sonhos souber que me és falso: quanto posso... Paq. Basta sim, não digas mais, que por predicados tais me cortaria o pescoço. Art. Vai. Paq. Já na rua me casco: cuidei que era desumano, mas este amigo Artabano para mim é bom carrasco. (À parte vai-se) 120 Normalmente i graciosos di questi adattamenti eleggono a propri valori di vita e di condotta unicamente la ricerca del cibo, il sotterfugio, addirittura il furto per accumulare denaro e il matrimonio con la fantesca di turno. La quale, il più delle volte, parteggia apertamente per l’uno o per l’altro pretendente, non sottraendosi comunque ad altrettanti inganni ed espedienti più o meno leciti per conseguire scopi personali, sovente relativi al possesso di oggetti personali e al conseguimento di un matrimonio con persona fisicamente gradevole. Inoltre, quando Pipia fa la sua prima entrata in scena viene immediatamente caratterizzata nei termini del lamento dovuto alla cattiva sorte, dell’esclamazione retorica e patetica dovuta alla disgrazia occorsa al proprio padrone, benché proiettata su se stessa in termini di un’eventuale perdita dell’impiego, dimostrando, in altre parole, che anche nel pianto per le vicisittudini altrui, il criado esprime sempre un disagio del tutto personale, una preoccupazione per 120 Ivi, p. 20. Capitolo II 192 un mancato tornaconto economico o genericamente lavorativo. Ma alle lagnanze della serva, l’astuto Paquete risponde immediatamente con un atteggiamento altrettanto compassionevole, giocando la carta della commiserazione delle sventure altrui in modo da suscitare in Pipia un qualche interesse e, chiaramente, volgere la situazione a proprio favore: Paq. Não há uma alma danada que me livre deste sítio. Pip. Ai que ele cá fala: é pobre e se não me engana o juízo, eu já ouvi esta voz. Paq. Que vai passando oh menino! Pip. Não é menino, é menina. Paq. Tanto melius. Oh feitiço vê se me podes tirar deste carcere mesquinho. Pip. Tu quem és? Paq. Eu sou Paquete Paquete mal succedido, Paquete das afflicções, Paquete dos labirintos, Paquete dos infortúnios. Pip. És Paquete coitadinho quem te fechou nesta casa?121 Per di più ci troviamo di fronte, in questo specifico adattamento, ad una concezione dell’attività lavorativa non quale mezzo umano nobilitante o serio impegno di responsabilità, bensì quale gravosa e fastidiosa mansione sempre soggetta alla scappatoia e in una forsennata ricerca dell’alleggerimento dell’incarico, del riposo che segue alla fatica. La prima comparsa dell’anziano Ranheta sarà allora assolutamente nei termini del continuo reclamo per lo sforzo e dell’assillante richiesta di attenuazione del carico lavorativo: Ranh. Que leve o diabo o ofício, quebrada tivera as costas no dia em que tomei cargo 121 Ivi, p. 8. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 193 de ser guarda destas portas: nem de dia, nem de noite há descanço, é forte história! Ora feito enxota gatos, outras vezes feito enxota cães, ouvindo recadinhos já de Damas ramelosas, já de raparigas sécias, já de encapeladas donas, e agora de madrugada ainda antes do Sol ser fora, vai tal balburdia em palácio tal gritaria, e mixórdia, que saltei da minha cama, sem ter ao menos uma hora de engomar a cabeleira e encrespar a minha volta122. Ranh. Ora vejão que sucede, em nome da benta hora, fico atolito e pasmado! há almas de maçarocas! e para amor de um defunto sai da minha pachorra, em quanto páu vai, e vem dizem que folgam as costas, e eu no em tanto nesta mesa quero descansar por hora123 E a proposito dell’affanosa e mai paga ricerca di cibo, o meglio, del desiderio di una sazietà meramente corporale, troviamo sin dal primo atto il servo Paquete alludere in più occasioni a questa impellente necessità, intromettendosi in maniera del tutto insolita tra le battutte di Ernesto ed Eritrea, quasi controcanto ironico al discorso che i due amanti imbastiscono sul filo, molto più elevato, del desiderio reciproco di una sazietà dello spirito attraverso l’amore. Paquete, insomma, irrompe sulla scena interrompendo e rendendo difficoltosa la comprensione del dialogo tra i due personaggi primari della vicenda metastasiana (caratteristica del disturbo della comunicazione), in un 122 123 Ivi, p. 5. Ivi, p. 6. 194 Capitolo II crescendo di interferenze autoreferenziali, destinate unicamente al pubblico spettatore e del tutto prive di connessione con la narrazione portante del dramma: Paq. E além disso toda a noite levada sem mais na vela, com dize tu direi eu, com requebros, e toleimas e a barriga como emplasto, pespegado nas costelas. Pip. Cale a boca desatento, tem queixa! Com que não presta ter estado à minha vista. Paq. É boa, mais eu quisera antes do que esses teus olhos a olha de uma panela124. Paq. Seja pelo amor de Deus esta tão comprida arenga; fora já de madrugada com a relação aberta. Vejamos esta Senhora se concorda na sentença. (À parte) Pip. Não fale por entre os dentes. Paq. Pois então a boca me encha125. Dopodiché, si arriva addirittura a veicolare un messaggio classista sulla diversità di atteggiamento tra i personaggi dell’entourage di Artaserse rispetto alle basse preoccupazioni dei graciosos, in questo senso in rappresentanza delle classi meno abbienti più in generale. È la battutta messa in bocca ad Artabano «Como são diversos!/Os teus dos nossos cuidados»126 in risposta alla richiesta di Pipia di scarcerare Ranheta e mantenere prigioniero Paquete per averle rubato un abito. Una risposta che si riferisce certamente alle preoccupazioni riguardo il timore d’essere riconosciuto traditore e di aver mandato a morte ingiustamente il suo stesso figlio per celare tale segreto, ma che esprime la realtà della differenza sociale che in tutta la commedia 124 Ivi, p. 1. Ivi, p. 2. 126 Ivi, p. 17. 125 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 195 portoghese i tre servi non fanno che confermare attraverso un linguaggio fortemente popolaresco e a tratti scurrile: Paq. Eu quasi em zelos me frijo olha como a porca os recôncovios com que trata o negro ouriço127. Ranh. Que mais sofrerias tu, se lhe tiveras metido, ou um fuso pelo ouvido, ou um espeto pelo cu!128 È vero, tuttavia, che il più delle volte sono gli stessi criados a trattare con sufficienza e superiorità i rispettivi padroni, quasi questi ultimi fossero alle dipendenze dei loro problemi e dei loro equivoci personali. Si nota a tratti una certa estraneità e quasi indifferenza per gli accadimenti di cui sono protagonisti i personaggi dell’impianto centrale della vicenda metastasiana, quasi un fastidio, potremmo dire un’insofferenza per questioni tanto semplici dal punto di vista dei servi e che i grandi e gravi eroi drammatici sembrano non riuscire a risolvere, tutti compresi come sono nella loro grandezza e regalità: Ranh. Por morrer um rei! É muito! Querem do pobre dar cabo! Morreo? Que o leve o diabo, Que tenho eu cá co’ defunto?129 Un altro caso emblematico in questo senso è la sottolineatura ironica di Paquete ai discorsi di Artaserse e Artabano sulla morte del re Serse, sottolineatura cui la ripetizione della medesima frase, per ben tre volte intercalata tra le battutte dei personaggi originali, riveste ulteriormente di comicità: Paq. Eu estalo por falar, há maior pouca vergonha? eu saio... mas que morresse 127 Ivi, p. 9. Ivi, p. 18. 129 Ibidem. 128 Capitolo II 196 o Rei Xerxe que me emporta. [...] Paq. Pobre que talvez na cama esteja dando trez voltas: eu saio... mas que morresse o Rei Xerxe que me importa. [...] Paq. Ora anda real carrasco mete-lhe mais duas contras; eu saio... mas que morresse o Rei Xerxe que me importa130. Questa sorta di dipendenza inversa dei padroni dai servi è poi evidente nella prima controversia tra Ranheta e Paquete, in cui Artaxerxe interviene esattamente dietro richiesta del più anziano tra i due servi: Ranh. Ah que d’El–Rei quem me acode quem pega nesse patola lá vai um rasgão na capa, ai os canudos da volta. Paq. Grita que eu vou-me safando; mas esta e peior agora (Correndo pelo tablado) Esta porta está fechada. Também esta, vamos à outra. Ranh. Ah d’El–Rei. (Sai El–Rei Artaxerxe, e Nicandro) Artax. Quem dá vozes? Paq. Sou eu mesmo que grito. Ranh. Agarrem com muita força nesse traidor, que escondido esteve de noite em casa, e agora com reboliço lançando comigo em terra se queria ir sacodindo. Artax. Nicandro prendei esse homem não sei o que n’alma adivinho. Ranh. Vá preso, que é grande tunante eu basto, deixe-o comigo. 130 Ivi, p. 7. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 197 Paq. Senhor... eu... vossas mercês... ele... e então; eu não sei disso. Artax. Traidor esse teu semblante, esse temor, dão indícios de que tu foste o agressor do mais enorme delicto. Paq. Eu traidor? De que morte, não senhor: eu conto, eu digo como foi; faça de conta. Artax. Não quero os teus desatinos ouvir agora: este homem seja em custodia metido, logo logo sem demora porque julgo que é preciso fazer exame no caso131. Tuttavia, lo scherzo centrale del triangolo dei graciosos, sul quale anche Giuseppe Carlo Rossi si è espresso in passato132, è in realtà messo in atto da Pipia che, parteggiando naturalmente e nascostamente per il pretendente Paquete, non lo risparmia comunque della propria vendetta personale dopo il furto degli abiti dati successivamente in pegno e il cui ricavato è stato speso con leggerezza nelle immancabili taverne. È vero che inizialmente la ragazza lo aiuta a fuggire dal carcere proprio suggerendogli di travestirsi con i suoi stessi abiti femminili, eppure, e come sempre, l’astuto servo riesce a volgere la situazione a proprio favore, guadagnando non solo la libertà, ma anche il cibo che Ranheta aveva preparato per Pipia, le vesti da vendere al banco dei pegni e il ricavato da spendere gozzovigliando tranquillamente. A quel punto però, la figura femminile mette in campo tutte le sue doti seduttive e la sagacia che le è propria allo scopo di realizzare la controbeffa di un finto 131 Ivi, p. 7. «O desvio para a comicidade é tão propositado, que a acção metastasiana se torna irreconhecível, e até os próprio graciosos expressam repetidamente a intenção de deter a comicidade; mas ao mesmo tempo, este desvio deixa contínuamente ver uma preocupação de carácter ético, pois em nenhuma ocasião se deixa de salientar o tom moral a quem deve obedecer a vida: vê-se isto quer nas considerações que encontramos na versão portuguesa a cada passo, quer na transformação do desfecho da obra. Pois em quanto esta no original acaba com uma intervenção genérica do coro, no tradutor conclui com um comentário moralizante em que se justifica o título» in G. C. Rossi, A evolução, cit., pp. 306-307. 132 198 Capitolo II incantesimo che, attraverso un anello magico, avrebbe trasformato Paquete in fanciullo e, mediante una gonna e un cappello, avrebbe fatto di Ranheta un’anziana signora, entrambi al solo fine di poter entrare indisturbati a Palazzo ed incontrare l’amata serva. Ci troviamo di fronte, allora, al carnevale degli inganni, dei travestimenti, degli incantesimi, della feitiçaria così affine al sentire popolare che, come accennavamo poc’anzi, ha funzione di avvicinamento al pubblico e che gli adattatori portoghesi del Settecento avevano senz’altro letto nella Floresta de enganos del già ricordato Gil Vicente, laddove un escudeiro sceglie di camuffarsi da vedova per poter meglio ingannare il Mercador della rappresentazione cinquecentesca. Comedia O Mais Heroico Segredo ou Artaxerxe (1758) Pip. Eia tratar de fugir. Paq. Como ha–de ser? Pip. Eu to digo. Esta saia, e esta capa que falta me não faz, dispo. (Dá–lhe a saia e capa) Tu veste-te de mulher, vai para ora saindo, que ainda que o velho se encontre sais sem que sejas visto. Paq. Oh abençoada sejas vai já depressa despindo, ataque-me aqui detraz pois que tal estou bonito; depressa venha essa capa se eu desta tratada livro vai um Paquete de cera ao altar de são Pipio. Pip. Estás bello: vai–te embora adeus. (Vai-se) Paq. Ele vá comigo, vai Adão em forma de Eva tudo em Paquete metido, mas ai de mim meus pecados torna o velho. (Sai Ranheta, e diz) Ranh. Meu feitiço tu cobristes a cabeça para que é com tanto brio encobrir a quem te adora desse templo o frontispício. Paq. Paciênça é força fingir é porque faz muito frio e tenho nella humas dores tamanhas. Ranh. Ai muito sinto pois não descubras meu bem, e podes comer? Paq. Mastigo com meu trabalho, mas como. Ranh. Pois toma pão cozido, Toma presunto, e mais doce, Pois então sou teu amigo? Sabes que mais até trago uma pinguinha de vinho. Paq. Que belos amores tenho, Metastasio, padrão de vida do século XVIII pois olha, eu guardo tudo isso vou-me antes que venha alguém. Ranh. Não me fazes um carinho? Porém tá, que lá vem gente. Paq. Pois eu fujo. (Vai–se) Ranh. E eu não fico. (Vai–se)133 Pip. Como é possível Paquete que já sem susto, nem medo venhas outra vez ao Paço? Não te lembra aquele negro carcere, ou prisão mofina, onde darias em seco, se com minha saia, e capa não te sacasse a passeio? Paq. Lembra-me por meus pecados e só de lembrar-me tremo: mas agora valeroso em Palácio outra vez entro, nem que eu fosse algum Gigante Hercules dos nossos tempos. Pip. Aposto eu que isso é fineza feita cá por meu respeito. Paq. Se te devo a liberdade, não te verei ver ao menos? Pip. Também deve a capa, e saia. Paq. Nisso agora não falemos. Pip. Que! A saia, que me custou alguns dois mil, e dez centos, e a capa novinha em folha! Paq. Não fales em trapos velhos: excusemos ceremonias deixa-te de cumprimentos. Pip. Não há maior insolência a quem dei o meu asseio! Foi a alguma trapalhona destas Ninfas de chichelo? Paq. Não senhora, ainda mais alto calça dez pontos, e meio! Foi a uma moça: uma deusa de bigode feita ao ferro. 133 Ivi, pp. 9-10. 199 Pip. Isso faz-se bribantão? Paq. Logo cuidas, que isto é certo. Pip. Pois que lhe fez? Paq. Não a fiz, desfi-la para remendos. Pip. E a capa, diga! Paq. Empenhei-a em casa do Pasteleiro. Não fales em ninharias, vamos ao que importa. Eu venho só para fallar a El–Rei. Pip. A El–Rei! Olhe o atrevimento! Paq. A El–Rei mesmo em carne: então não sou capaz? Pois que temos! de sorte que ouço dizer que foi meu amo hoje preso por matador d’El–Rei Xerxe, eu pelo amor que lhe devo dar-lhe a vida determino. Pip. Tu! Olhem quem! Paq. Sim, eu mesmo sou testimunha de vista que elle o matou, e sei-o porque ao mesmo matador o ouvi. Pip. Eu lá não me meto nessas coisas de defuntos, porque tenho muito medo, o que quero é o meu fato. Paq. Queres que diga o que entendo? Quando sai de Palácio, com medo, senti-me lento dei o fato a lavandeira, em vindo logo, o remeto. Pip. Dá-me logo logo o fato se não grito pelo velho. Paq. Cala a boca rapariga. Pip. Venha o fato. Paq. Volaverunt. Pip. Sabe agora o que lhe vale vir El–Rey, nós nos veremos. Capitolo II 200 (Vai-se) Paq. Coitada, se esperas fato, já agora tem bom remedio, passou-se para a taverna albercado a mantimento134. Pip. Escuse aqui de encostar-se ninguém junto do meu quarto! Pois não quero, que alguém passe, e que imagine que eu dou audiência a maganage. Paq. Com que junto dos seus quartos não pode um homem encostar–se? Pip. Eu conheço-o pela voz: é Paquete, olhe o tratante! Inda és vivo! A que vens cá vens a trazer-me os meus trastes? Paq. Trastes? Pois sua mercê quer comigo encordoar-se? Pip. Falo na capa, e na saia. Paq. Antes em tal não falasses. Pip. Quer que o obrigue por justiça? Paq. Cachorra, para obrigar-me essa tua maganisse, pode mais que mil alcaides. Pip. Não meta o negócio a bulha. Paq. Eu quero-o meter a pazes, olha, sabes que me lembra, podes comigo casar-te, e supõem que a saia, e capa foi cousa em que me dotaste. Pip. Pois você queria diga, casar comigo? Paq. E não sabes, que essa foi, é e será minha última vontade. Pip. Quero lograr este tolo (À parte) pois olhe a ser mais amante você não me desagrada, 134 Ivi, pp. 14-15. o corpo tem mui bem posto vire-se destoutra parte: é capaz, pois há de ser meu marido. Paq. Já não cabe esta alma dentro no bucho, estou para esfrangalhar-me. Pip. Mas é preciso primeiro pertender-me com visagens, vir a fazer-me visitas, porque nós as divindades só concedemos favores a quem nos dá vassalagem. Paq. Virei de mui boamente mas se chegar a encontrar-me temo que algum destes guardas outra vez me prenda, e agarre por fardo de contrabando ou Paquete de pilhage. Pip. Não tenhas medo, eu te dou uma industria de escapar-te, agora o logro de todo (À parte) toma este anel de tambaque tem sentido, não o percas, e em querendo vir fallar-me, mete-o no dedo, e verás que ele por modo admirável te muda em rapaz pequeno, e assim com este disfarce podes entrar, e sair sem temer que alguém te agarre, pois escapas por criança. Paq. Há coisa mais importante? Venha depressa esse anel. Pip. Toma-o, vai-te, e esta tarde logo pelas duas horas espero venhas falar-me. Paq. Promptamente vou n’um pé. Pip. Vai Paquete a encriançar-te. Paq. Vou porque feito menino Pipia há–de acalantar-me. (Vai-se) (Sahe Ranheta) Metastasio, padrão de vida do século XVIII Ranh. Que traficâncias são estas? Que histórias, que maganages? Isso é coisa que se sofra uma rapariga grave, falando com tal descoco para a rua, que salvage era este com que falavas que foi para aquela parte? Pip. Eu falar que testemunho? Eu esconjurava os ares. Ranh. Querer negar o que eu vi! A mim Pipia enganar-me! Aposto aqui para nós, que era algum estravagante com quem a furtar-lhe o fato anda forjando casar-se! Pip. Eu casar, tal me não veio ao juizo, Deus me guarde! Mas olhe (quer que lhe diga?) se eu resolver a casar-me, só você Senhor Ranheta me prenderá a liberdade logremos este tolete. (À parte) Ranh. Que palavra é que falaste, que entrando pelos ouvidos deu no coração um baque? Pip. Digo que inda não vi quem como você me agradasse. Ranh. Pois se eu quero, e tu queres que falta para ajustar–me, casemos minha Pipia. Pip. Isso ainda tem seus vagares, é preciso pertender-me toda a hora namorar-me, vir a casa, e assistir-me: e porque saibas as artes (quero uma peça pregar-lhe) (À parte) tenho uma saia, e hum capelo, de Celestina Fernandes, que foi grande feiticeira, quem veste em si estes trastes, fica logo transformado 201 em velha: anda cá, vou dar-te o que te digo; pois podes vestido neste disfarce entrar, e sair dizendo, se alguém chegar a observar-te que és minha Tia, ou avó, e que vens a visitar-me. Ranh. Bela coisa: estou saltando anda já, não te dilates. Pip. Vamos, veja o que me deve, Assim se enganão basbaques. (À parte) 135 (Sai por uma parte Paquete, e por outra Ranheta de saia e Capelo) Paq. Tomara ter um espelho, e ver esta perspectiva, para ver se acaso o anel me tem feito criancinha! Eu se olho para os meus dedos vejo cinco longariças, se ponho a mão no nariz encontro um barco com quilha. As pernas são bons dois cepos, a barriga é uma pipa: e hei–de parecer criança? É forte feitiçaria. Ranh. Aqui vem Ranheta em carne encapelado a surdina, barbado por natureza, viuva por negromancia. Ah Pipia dos meus olhos a quanto excesso me obrigas! Paq. Mas que bonifrate é aquele que para aqui se encaminha? Ranh. Aqui vem Paquete, fica, olhem o mofino, ora irra que sempre este demo segue como sombra a minha dita. Paq. É Ranheta bello traste! 135 Ivi, pp. 27-28. 202 Se este dedo me adivinha anda por aqui alguma travessura de Pipia. Ranh. Mas se elle me não conhece, eu falo com voz sediça. Paq. Mas se eu pareço menino, que importa inda que me sinta. Ranh. Você que quer aqui dentro? Paq. Eu queria fazer mija, e vomecê que quer cá? Ranh. Ai que se faz criancinha (À parte) eu venho ver uma moça de quem há muito sou Tia. Paq. Vomecê é Tia, ou Tio? Ranh. Essa pergunta é mui linda! Sou Tia em carne. Paq. Má hora só se for Tia postiça. Ranh. E tu quem és? Paq. Quem, eu cá? Eu sou Manoel da visinha Irmão de Antonia Pardelha neto de Salsa Parrilha: olhe vê, tenho um pião, sabe como o mestre ensina a quem a lição não sabe? Dá-lhe assim um coque em cima. (Dá–lhe) Ranh. Fora tolo; você cuida que eu não conheço ainda? Paq. Ora diga quem sou eu? Ranh. És Paquete. Paq. Ora é mentira: que eu sou menino de mamã. Ranh. De burro, que tal seja. Paq. Isso é pulha irra, que eu sou menino pequeno, que quero tanger Pipia ora apostar que eu adivinho quem é voche? Quer que o diga? Capitolo II É Ranheta: ai que adivinhei! Forrada senhora Tia. (Aqui dilatem–se o tempo que quiserem fallando um de criança, outro de velha até que armem bulha, e sai Pipia com um páu apartá-los) Pip. Que bulha é esta? Que estrondo? Há quem tal motim consinta vocês jogar os coices isto é casa, ou estribaria? Paq. Tudo pode ser, pois mora sua mercê tão visinha mui bom anel de tambaque mui galante criancita! Pip. É porque você fo tolo não o pôs onde enfeitiça, diga em que dedo o meteu? Paq. No meninho. Pip. E que queria se ele deve ser metido n’outro dedo mais acima. Ranh. Mui boa saia, e capelo, era o da Senhora Tia. Pip. É porque você vestiu a saia com contrapiza, e em suma vocês são tolos nenhhum me mete cobiça, para ti dou quatro trincos, para ti trezentas figas. Paq. Não há mais claras finezas. Ranh. Não há mais doces carícias. Pip. Sim pois você que esperava voche de que tem cobiça! Não é para a sua boca Esta Senhora Pipia. (Vai–se) Paq. Senhora Tia, seu moço. Ranh. Adeus senhor criancinha. (Vão–se) 136 136 Ivi, pp. 31-32. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.6. 203 Demofoonte Un indizio circa la fortuna in Portogallo del Demofoonte, che fu rappresentato per la prima volta a Vienna nel 1733, è dato dalla presenza presso la Biblioteca Nazionale di Lisbona della partitura manoscritta delle musiche e delle arie del suo primo atto, composte per l’occasione della rappresentazione portoghese presso il Teatro di S. Carlos dal noto compositore Marcos Portugal. A questo documento si deve aggiungere l’edizione bilingue del 1737 che, pur nell’inesattezza lessicale anche nella parte di testo in lingua italiana (Demoofonte per Demofoonte, drama per dramma, representarsi per rappresentarsi, Academia per Accademia, Piaza per Piazza e Stamparia per Stamperia) e per qualche errore traduttivo (si veda a questo proposito la traduzione della parte terminale dell’aria pronunciata da Demofoonte alla fine della IX scena del secondo atto [corsivo nostro]: «Unito fu l’errore;/ Sarà la pena unita:/Il giusto mio rigore/Non vi distinguerà»137 tradotta con «Por vós foi com igual horror/uma lei santa ofendida,/e do castigo o rigor/não vos distinguirá»)138, si deve annoverare tra le copie più fedeli e più accurate della produzione editoriale portoghese. Ma la versione che più ci interessa analizzare, dal punto di vista degli adattamenti al gusto portoghese, è l’interessantissima traduzione del 1758 (fig. 20) dal consueto titolo tematico–moralizzante di Mais Vale Amor do que hum Reyno, e dalla quale sono state tratte successive copie nel 1783 ad opera di Francisco Borges de Sousa (fig. 21), nel 1793 ad opera di João Antonio Reis e nel 1794 per mano di Jozé de Aquino Bulhoens (fig. 22). Di valore marginale è, invece, la traduzione del 1838 (fig. 23) che riporta sì il nome del traduttore Fernando Lucas Alvim, l’ormai noto Francisco Luís Ameno, ma 137 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 673. Demoofonte / Demofonte, drama para musica para se representar em Lisboa na Accademia na Praça da Trindade, anno 1737, Na officina de Antonio Isidoro da Fonseca, p. 81. 138 204 Capitolo II Figura 20. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 743). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 205 Figura 21. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 238). 206 Capitolo II Figura 22. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 81). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 207 Figura 23. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 563). 208 Capitolo II che non si discosta granché dalla versione originale del dramma metastasiano. La copia che il Desembargo do Paço approva definitivamente il 25 novembre 1758 è in realtà, come si evince dalle informazioni presenti su frontespizio, trascrizione della rappresentazione avvenuta durante l’Arrayal de Nossa Senhora do Cabo, in occasione cioè delle feste del Cirio del 1753. L’importanza di tale ricorrenza si deve certamente alle sue origini remote, si pensa infatti che la romaria della Madonna di Capo Espichel, che solitamente si svolge il 29 luglio, risalga al XVII secolo. Un’occasione, quindi, che si presupporrebbe caratterizzata da religiosa compostezza e meditazione, ma che, evidentemente attraverso l’occasione delle rappresentazioni teatrali, il popolo interpretava come momento di convivio e d’intrattenimento sociale che ben poco aveva a che vedere con liturgie e pratiche della devozione. Se comunque si considera che le azioni e le espressioni dei tre criados di questo Demofoonte lusitano non si caricano eccessivamente di volgarità esplicite, come nei casi precedentemente richiamati, è possibile attribuire la motivazione di questa patina di generale benevolenza che coinvolge anche i servi dell’adattamento portoghese proprio all’occasione religiosa che avrebbe fatto da contorno alla rappresentazione teatrale. Non si può comunque negare che il traduttore abbia appportato profondi mutamenti anche all’evolversi della vicenda principale che, lo ricordiamo, racconta più che la severità del re di Tracia Demofoonte, le tormentate vicende dei due amanti Timante, figlio del re, e Dircea, figlia di Matuzio, sposatisi segretamente ed anche genitori del piccolo Olinto, osteggiati dalla volontà di un padre e di un sovrano che destina il primo alle nozze con Creusa e la seconda ad essere sacrificata sull’altare di Apollo. L’intricata trama che Metastasio intesse con genio e passione si risolverà, con vari colpi di scena, con il riconoscimento di Timante quale figlio di Matuzio, e di conseguenza non sottoposto alla volontà di Demofoonte, e di Dircea quale figlia del medesimo re e quindi sottratta alla morte. Ma si diceva delle discrepanze nell’evolversi della trama centrale, oltre che per l’aggiunta Metastasio, padrão de vida do século XVIII 209 dell’azione dei graciosos. In questo senso si noti che laddove nel testo originale spetta a Dircea riportare la sentenza dell’oracolo «Con voi del Ciel si placherà lo sdegno,/Quando noto a se stesso/Fia l’usurpator d’un regno»139, in traduzione è lo stesso Demofoonte a riferire l’enigma («Deixarei de ser severo/reprimindo as iras, quando/fora entre vós descoberto/com evidência o inocente/usurpador deste Reino»)140; così come, laddove Metastasio affida unicamente al racconto la ribellione di Matuzio nei confronti di Demofoonte, che salva solo le proprie figlie dal sacrificio annuale di una vergine del regno, l’adattatore portoghese introduce una lunga scena in cui Matuzio deve affrontare direttamente Demofoonte con una sfrontatezza ed un’audacia che gli varranno l’arresto immediato per ordine del re offeso. E si legga, inoltre, la scena dell’ultimo atto in cui Creusa stessa supplica il re di Tracia di salvare da morte certa Dircea e Timante, omessa e solo raccontata nel testo originale, ma presente con dovizia di particolari nella traduzione portoghese, arricchita tra l’altro dalla dissonante, in tanto alto contesto di suppliche, ninna nanna della serva Faisca al piccolo Olinto: Faisc. Eu feita Mãe de crianças, é muito boa gracinha: andar agora talvez que me venha alguma dita, mas o menino coitado tem somno que se espreguiça picurruxo qué xana! venha cá que eu sou amiga, deite-se aqui nos meus braços, olhe não me faça mija ora durma, ó, ó, ó, ó, cantemos-lhe huma cantiga (Canta) 139 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 642. Mais Vale Amor do que hum Reyno, Opera Demofoonte em Tracia, composta na lingua italiana pelo Abbade Pedro Metastasio: Agora nuovamente traduzida, accrescentada, e disposta segundo o gosto do Teatro Portuguez, para se representar no Arrayal de Nossa Senhora do Cabo, nas festas do Cirio de Lisboa, anno 1753, Na officina de Manoel Antonio Monteiro, 1758, p. 6. 140 Capitolo II 210 O menino quer nanar, mas não o deixão dormir, callem-se todos xiton, e nem tugir nem mugir. Ai li le le le le le le, ai li le le le Corisco, se faltares à palavra o demo te faça em cisco141. L’azione dei graciosos, Faisca (“scintilla”), serva di Dircea, Corisco (“lampo”), servo di Timante, e Pantufo (“grassone”), padre di Faisca ed inserviente di Palazzo, si svolge sui due fronti della partecipazione sentita per le sventure dei padroni, ai quali i servi rivolgono spesso espressioni di compassione, e sul fronte indipendente dalla trama secondaria della conquista di Faisca da parte di Corisco, osteggiata come al solito dal padre di lei che, conseguentemente, cade infantilmente nei tranelli e negli espliciti imbrogli di quello che oramai potremmo definire perno dell’adattamento. Esiste, in altre parole, in ogni adattamento, la figura centrale di un servo impegnato nella conquista amorosa, ma che al tempo stesso gioca sul doppio filo dell’inganno economico e dello scherzo atto a deridere il rivale di turno, il quale a sua volta funge in qualche modo da motore di quella commedia che interferisce con l’intreccio originario. È Corisco qui la miccia che scatena la rappresentazione scenica, come era Calote nell’Alexandre na India e Bonifrate nella Zenobia, tutti accomunati dal ruolo di detonatori delle trame burlesche che movimentano l’azione degli altri due servi in gioco e tutti in conclusione vincitori appagati, nonostante i complicati ed improbabili sotterfugi messi in atto, con il rituale matrimonio finale. Nel caso del Demofoonte, Corisco entra subito in scena nel primo atto presentandosi in prima persona con il consueto gioco di parole sui nomi propri dei servi protagonisti (Corisco, faisca, vivo raio) e qui, per la prima volta, fornendo allo spettatore una chiave di lettura anticipata 141 Ivi, p. 32. Metastasio, padrão de vida do século XVIII sulla funzione del controversie amorose: proprio personaggio, 211 risolutore di E aqui está também Corisco que para amante emprezas costume dessa faisca sou vivo Raio da guerra142. Ma il frequente intervento a latere di Corisco e di Faisca, quasi controcanto all’accorato ed appassionato dialogo d’amore dei protagonisti Dircea e Timante, poiché basa semplicimente la sua scoperta comicità nella stonatura, forse un po’ forzata, di espressioni triviali lontanissime dallo stile operistico, non fa che relegare l’indicazione di genere al ruolo di mera informazione di copertina, non trovando corrispondenze nel testo in sé: Faisc. Senhor Corisco bemvindo: com que ainda de mim se lembra! Cor. Lembro-me por meus pecados, nem é justo que me esqueça, pois trago essa carantonha estampada nas ventrexas. [...] Cor. Só tu negra ramelosa nunca me dizes daquelas. Faisc. Quando falar seu Senhor não nos dê a taramela143. È inoltre probabile che l’idea di un travestimento ultraterreno del Calote/anima nera dell’Alexandre na India abbia preso spunto proprio da questo adattamento del 1758, in cui lo stesso Corisco si prende gioco di Faisca e di Pantufo fingendosi incarnazione del dio Apollo, inganno nel quale entrano come involontari esecutori anche due personaggi “legittimi” della vicenda metastasiana, Matuzio e Adrasto. In più, è in questo testo particolarmente evidente la presenza della situazione 142 143 Ivi, pp. 2-3. Ivi, p. 3. 212 Capitolo II canonica per cui, grazie a circostanze esterne fortuite, l’azione truffaldina del criado è a tal punto agevolata da permettergli di portare a compimento senza danno o ammenda le proprie azioni, come possiamo osservare nel caso delle grida confuse che si odono esternamente alla scena e che arrivano proprio nel momento in cui Corisco racconta a Pantufo d’averlo destinato alle pene dell’inferno, in realtà urla di giubilo dovute all’arrivo della principessa Creusa in Tracia. Mais Vale Amor do que hum Reyno Opera Demofoonte em Tracia (1758) Cor. Agora você Faisca leve-me, não se detenha. Faisc. Eu levá-lo: forte história! É você mui boa peça, para eu ocupar meus braços nessa figura nojenta. Cor. Devagar com tais melindres; com que a pessoa não presta! Pois saiba, que muitas, muitas, andão traz de mim; qual delas ha–de vir a ser Senhora da minha gentilomeza. Faisc. E que tais elas serão? Cor. São muito melhores que ela: olha são Damas dois furos acima de Cozinheiras. Faisc. Pois se tem essas fortunas então, porque me requesta? Cor. Filha são inclinações: deu-me em querer-te deveras se tu me pareces bem, todas as mais julgo feias! Tu tens mais entendimento do que trezentos poetas, mais ilustre me pareces do que quarenta Princezas. Faisc. Sim, mas você... Cor. Já te entendo: dizes que tenho pobreza, que não posso sustentar–te; ah Faisca, como és nescia: nem tudo o que luz é ouro, debaixo desta roupeta está oculto quem pode, levantar-te a grande esfera. Faisc. Fora lá co’ mentiroso, que vem armando de arengas; vá encaixar lograções a outra, que não conheça. Cor. És mulher mortal, por isso os Arcanos não penetras. Faisc. Nem Arcanos, nem Arcanas: antes que fosses à guerra não eras meu conhecido. Cor. Era, mas não sou quem era, pois deixei o ser que tinha, sim é esta cara a mesma: porém outro mui diverso dentro da pele se encerra. Faisc. Explique essa adevinhação, fale, se quer que eu o entenda. Cor. Pois filha sabe, que eu sou... mas tá boca, é muita pressa Metastasio, padrão de vida do século XVIII fiar de ti um segredo de tamanha consequências. Faisc. Porque tem lá para si, que eu também sou chocaleira, pois se me não fala claro fique aí só: boas festas. Cor. Anda cá (oh quanto pode comigo a tua beleza) pois sabe que eu sou... mas tá olha tu bem, não esteja quem nos escute. Faisc. Ninguém nos ouve. Cor. (Pois vá de peta) (À part.) Eu sou Apolo, que venho sempre neste dia à terra, a ver o meu sacrifício, que no Templo se celebra. E para vir disfarçado, e que ninguém me conheça, sempre de alguma pessoa me revisto na aparência: e sabendo que Corisco estava morto na guerra, encaixei-me no cadaver, e com a figura mesma, que ele tinha em sua vida, hei–de fazer assistencia ao sacrifício. Faisc. Que diz! Ah Senhor, com que deveras morreu na guerra Corisco! Cor. Oxalá não fora certa esta notícia; morreu de uma cutilada teza, que lhe pregou um soldado; logo acima da cabeça: pois coitado, era homem (esta já eu sei, que pega). (À part.) Faisc. Pode haver maior desgraça! 213 Cor. Filha, porque te lamentas, deixa memórias cediças toma inclinações mais frescas. Se perdes Corisco, tens Apolo que te venera, muito mudas de ventura, se este meu amor aceitas, pois sobes sem mais, nem mais, de ser Rascoa, a ser Deusa. Faisc. Mas acabado este dia, foge para a sua esfera, e então cá a pobrezinha fica com a boca aberta. Cor. Não, que se eu casar contigo, como espero, mui depressa hei–de comigo levar-te. (Sai Pantufo) Pant. Oh lá temos cá conversa! Mui bom negócio Faisca! Com que isto é que te encomenda teu Pay! Faisc. Ora não se enfade meu Paizinho: se soubera com que eu agora falo, havia fazer–me festa. Pant. Ah, ah, ah: pois não conheço a tanto essa boa preia. Cor. Pois diga-me quem sou eu. Pant. És Corisco. Cor. Olhe o pateta como está fora do caso. Faisc. Paizinho, tenha paciência também, como eu se enganou; olhe: este não é quem era, 214 Capitolo II no corpo sim é Corisco mas nele outra alma se enxerta. Cor. Ah mortal, porque o segredo que eu descobri, tu revelas? Pant. Sempre é Corisco o corpo: pois malhar–lhe–ei à mão tesa. (Vai para lhe dar) Faisc. Tenha mão, que faz Senhor que dá n’um Deus. Pant. Com que desta casta são os nossos Deuses. Cor. Faisca, deixa o Pai, deixa; que me toque, tu verás, sem que a pancada me ofenda, como um Raio o faz em cinza; caindo-lhe sobre a creca. Pant. Raio já estou tremendo. Cor. Senhor Pantufo lá creia o que bem lhe parecer: cá por mim não reprehenda a Faisca, pois lhe corta grande ventura, que a espera. Pant. Pois conta-me rapariga, que traficâncias são estas. Faisc. O Senhor é Deus Apolo. Pant. Apolo! Tal cousa crera, se ele fizesse um milagre aqui na minha presença. Cor. Milagre! Farei um cento: e para que logo os vejas põe-te aqui, e mais Faisca; bom has–de estar hora e meia. (Põe-nos pasmados cada um de seu lado) Sem olhares para trás e verás cousas tão belas, que fiques embasbacado por uma semana inteira. Pant. Aqui estou. Faisc. Mais eu também. Cor. Pois nenhum volte a cabeça (vou–me safando ligeiro, antes que o carolo serva) (À parte) sentido, deixem-se estar, adeus com bem lhe amanheça. (Vai-se) (Ficam os dois pasmados no lugar em que os puzeram, olhando para o povo, e sai Matusio e Adrasto) Adr. Não pode tardar o Rei. Mat. Eu aqui por ele espero. Adr. Mas quem temos neste sítio! Mat. Que fazeis vós aqui dentro? Faisc. Paizinho, não volte a cara. Pant. Caluda! Vamos nós vendo em que param tais milagres. Mat. Não me respondem? Faisc. Segredo. Adr. Quem são vocês; digam! Pant. Moita. Adr. Pois desta sorte veremos Se hão–de falar. (Dá-lhe) Pant. Ah Faisca cá vai um milagre belo. Faisc. Não se mova. Mat. Inda não ouves? Pant. Eu cá estou satisfeito, Metastasio, padrão de vida do século XVIII 215 mas aquela rapariga faça-lhe um milagre ao (Assusta-se Pant.) menos. Adr. Ide-vos embora loucos (Dá em ambos) Faisc. Ai que me deu no besbelho144. Pant. Não te movas que é milagre. Ambos. Eu do milagre arrenego145. Cor. Pois que vai, ouves os gritos agora aqui sentirás teu justissimo castigo. Dentro. Viva a Princeza de Frigia. Pant. Ai de mim que estou perdido vem o barulho do inferno sobre mim, Senhor Corisco... Cor. Insolente, inda me chama com esse nome abatido, onde estou que te não abro; da cabeça até o umbigo! Pant. Senhor Apolo, ou Senhor quem quer que é, que eu não lhe tiro nem lhe ponho coisa alguma, peça a seu Pai e aos seus tios; que de mim se compadeção, pois tenho mulher e filhos. Cor. Já agora não há remédio hei–de sepultá-lo vivo; pancadas a um Deus! Pant. Pequei mas estou arrependido. Dentro. Seja bem chegada, viva. Pant. Ai que está perto o alarido, deixe-me ir embora. Cor. Nada: só irá daqui sem risco se prometeres aqui, em todo o lugar, e sítio de não maltratar Faisca, inda que a veja comigo. Pant. Eu prometo e reprometo. Cor. Ande daí que é indigno de ser meu sogro; levante (Sai Corisco fugindo de Pantufo, que lhe quer dar) Cor. Tenha mão Senhor Pantufo. Pant. À mão tente seu Corisco quero fazer um milagre. Cor. Homem tem mão que te perdes, pois quando me vens jurzindo brado o carolo que levo, nas abobadas do Olimpo, e temo que sobre ti venha logo de improviso meu Pai Jupiter com raios, que te faça em puro cisco. Pant. Seja o que for entrementes vou fazendo um milagrinho. (Dá-lhe) Cor. Oh lá Plutão, venha logo e traga lá desse abismo um murrão, que queime o rabo desse velherrão maldito. Dentro. Bem chegada, viva, viva. 144 Termine popolare per sedere, natiche. 145 Ivi, pp. 4-6. Capitolo II 216 ao ar o dedo meninho. Pant. Aqui o tenho levantado. Cor. Ora vá-se rebolindo que eu cá comporei os Deuses para o perdão do delicto. Pant. Será pelo amor de Deus. Vou-lhe muito agredecido (Vai-se fazendo cortesias) Cor. O tal velho é bem pateta basta ouvir o murmurinho do desembarque que faz a Princeza (coutadito!) para se encasquetar logo que vinha de todo o abismo fogo para o castigar, com ele iremos nutrindo146. ACTO II Pant. Senhor Apolo piedoso... Faisc. Senhor Apolo clemente... Cor. Irra, escusamos alcunhas, porque os mortaes não tendes auctoridade de pôr cá sobrenomes aos Deuses. Pant. Pois Senhor, se isto te aggrava... Faisc. Pois Senhor, se isto te ofende... Cor. Sim, muito me escandaliza essa ousadia indecente, não cá por amor de mim, mas um homem tem parentes. Pant. Eu se tal coisa adevinhasse... Faisc. Pois eu cá se tal soubesse... Cor. Pois saibam, não sejão 146 Ivi, pp. 8-9. tolos: falem, digam que pertendem; não me ponham sobrenomes, e falem quanto quiserem. Pant. Pois meu Senhor, sem mais nada... Faisc. Pois meu Senhor, simplesmente... Cor. Calai-vos, bocas malditas: que parvoice disseste? Simplesmente, sem mais nada Chamais a um Deus reluzente! andai que sois mentecaptos, estou para arrepender-me de querer aparentar-me com tão ridicula gente. Faisc. Confesso que sou tolinha. Pant. Eu também que sou tolete. Cor. Está feito, eu vos perdoo, vamos ao caso; que tendes comigo? Falai sem medo. Pant. Visto seres tão potente... dize-lhe tu rapariga, que o coração se estremece só de ver o seu semblante. Faisc. Eu nada posso dizer–lhe, fale meu Paizinho não tenha pejo. Pant. Como hei–de falar-lhe, se até de susto tenho a voz balbuciente. Cor. Ora falem com os Diabos: eu já não posso conter–me, olhe sou Pantufo velho, se não fora esta inocente (Para Faisca) já lhe tinha esborrachado a cabeça na parede. Pant. Se acaso disso tem Metastasio, padrão de vida do século XVIII gosto eu lhe oferecer reverente, não só a cabeça, mas ventas, olhos, nariz, boca e dentes. Faisc. Paizinho cale-se agora (Para Pant.) falar com ele me deixe. Meu querido bem desta alma, meu amorzinho, meu dengue, tem animo de agastar–se estando eu aqui presente você nunca me quis bem, porque se amor tivesse não havia de aggravar a meu Pai. Cor. Meu génio agreste nunca se pode fingir não é de agora, mas sempre, para as filhas sou açucar, para os Pais sou viva peste. Pant. Oh quem fora agora filha, e não Pai, porque pudesse uma lambedela ao menos desse açucar merecer-lhe. Faisc. Paizinho cale essa boca. Pant. Calado estou, que mais queres? Senhor, ouça minha filha. Cor. Sim: Faisca que pertendes? Faisc. Imploro a tua piedade. Pant. Aí assenta o ser clemente. Cor. E também nesse costado Assenta um murro à mão tente. Faisc. Não se calará Paizinho? Pant. Calado estou, que mais queres? Senhor ouça minha filha. 217 Cor. Ande daí insolente, que não é capaz de ter contacto nas minhas vestes, aparte-se para longe, nem quero que a mim se chegue. Pant. Eu me aparto; basta aqui apartar-se. Cor. Mais sete passos. Pant. Mui prestes, um, e dois, e tres, e quatro, cinco, seis, e este são sete. Cor. Ora esteja aí calado, e olhe, nem um pé arrede: agora falemos nós, que ele a acolá não percebe. Faisc. Eu o que pedir-te quero muito bem pode dizer-se diante de todo o mundo. Pant. Senhor Apollo consente que eu me coce na cabeça? Cor. Não se bula, nem mence. Pant. Ah pobre, depois de viúvo ainda vens a ser paciente. Faisc. Tu bem sabes que Dircea é minha ama... Cor. Até quereres, porque daqui à amanhã, talvez que eu tanto te eleve, que nem Dircea a alimpar–te teus mesmos sapatos chegue. Pant. Ah Senhor, dê-me licença para poder remecher-me. Cor. Mando-lhe que não se mova, nem bula, nem pestaneje. Faisc. Com que como ia dizendo eu quisera agradecer-lhe o amor com que me tratou; ela a pobrinha inocente 218 Capitolo II ha–de ser sacrificada, mas se tu te compadeces peço–te muito que a livres pois será coisa indecente, consentir que os teus altares se humedeçam com aquele sangue, que crime não tem, e castigo não merece. Pant. Ah Senhor, tenho vontade de tal coisa, já me entende. Cor. Sustenha-se. Pant. Dê licença ao menos para espremer-me. Cor. Não consinto. Pant. Pois vá feito. Cor. Faisca, quanto pertendes hei–de obrar por ti; Dircea ha–de viver, mas adverte, que a vida que eu lhe hei–de dar, a ti sómente ta deve. Faisc. Deixa-me beijar teus pés. Cor. Não é lugar decente, vem antes cá a meus braços. Pant. Isso não, sou melquetrefe (Aparta-os) Arre daí sou Apolo. Cor. Afasta-te impertinente. Faisc. Não desconfie Paizinho, que isto são modos corteses. Pant. Sim mas essas cortesias sómente faz às mulheres: e para o Pai da criança, não há nem meio abracete. Cor. Por isso não desconfie se quer um abraço, chegue. Pant. Vamos a isso, mas irra, (Aperta-o no abraço) basta, basta, não me aperte. Cor. Isto é mesmo cortesia. Pant. Dispenso, basta, ai meu ventre ai que me obriga a lançar as tripas pelo gasnete. Ah que d’El–Rei contra Apolo. Cor. Largo-te eu, porque vem gente. Fasic. Eu também te vou seguindo. Cor. Anda meu querido dengue, que inda te hei–de ver Princeza lá nessa esfera Celeste. (Vão-se)147 Cor. Oh lá temos o Templo bem armado tudo está preparado, para minha ama vir sacrificar–se se comigo a encontrasse Faisca se chegar, talvez lhe meta uma terrível peta, mas ela vem buscar–me, pois eu torno outra vez a apolinar-me. (Sai Faisca) Faisc. Senhor Apollo, como está contente e cá a pobre gente entre sustos metida, e entre cuidados. Cor. Pobrezinhos mortais, sois uns coitados. Faisc. Sim Senhor, este Templo é sua casa. Cor. Filha, sabe que estou como uma braza. 147 Ivi, pp. 15-17. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 219 Faisc. E porque diga já. morra aquele louco de teu Pai. (Pantufo ao bastidor) (Sai Pantufo) Pant. Vamos chegando mas lá estão falando aquellas duas santas almazinhas, paciência, cá de longe trocer linhas. Cor. Bem sabes tu Faisca que dos Cheus a vontade observo à risca eles mandam-me agora uma embaixada, mas se to digo, ficarás mamada. Faisc. Ora diga depressa. Pant. Alguma ideia! (À parte) Cor. Não querem que Dircea oferecida me seja, porém talvez que por me ter inveja todo o Cheu grita e clama que se mate a criada em lugar da ama. Pant. É um favor mui grande. (À p.) Faisc.Que pode haver que tal crueldade mande. Cor. De Donzela ha–de ser o sacrifício tua ama de cazada tem o ofício, e visto que escapar por solteira, querem que morra a sua alcoviteira dize, foste algum dia já casada? Faisc. Eu nunca. Cor. Pois então sacrificada. Faisc. Ah, isso é pouco! Cor.Também querem que Pant. Irra, vou–lhe, passa fora, morra com mil diabos a senhora, mas eu morrer depois de enviuvado. Cor. Sim por não ter sua filha já casado. Pant. Mas, Senhor, eu casei. Cor. Pois morrer pode, que eu como carne de carneiro e bode. Faisc. Então não há remédio? Cor. Não lho sinto. Faisc.Pois um Deus entre os Deuses tão distinto não me faz com que eu não morra que amor é esse seu, amor de borra. Pant. Anda a ele, Faisca, anda destampa, que poder é o seu poder de trampa. Cor. Atrevido a mim! Mas meus peccados lá vão os brios meus enxovalhados. (Sai Timante acelerado) Tim. O Reino todo e as Paternaes riquezas Tesouros e grandezas tudo hoje perderei, mas minha Esposa é prenda mais preciosa; perca-se tudo, que eu serei mais rico se entre meus braços, com 220 Capitolo II Dircea fico. Pant. e Faisc. Senhor Timante, por quem sois, valei-nos. Tim. São pó e cinza os Reinos, que o tempo estraga com furor vehemente mas amor n’alma dura eternamente. Cor. Eu temo algum chuveiro de carolo. Pant. e Faisc. Senhor valei–nos contra o Deus Apolo. Tim. Deixai-me loucos, segue-me Corisco não me deixes já mais em todo o risco pois é hora oportuna. Cor. Vamos dentro do Templo cá te espero. (Vai-se ameaçando a Pantufo) Pant. Há calote mais fero! Faisc. Há engano maior, maior tratada. Pant. Há maior velhacada Corisco feito Apolo logrativo. Faisc. É tratante excessivo: mas ai de mim! Cá vem a coitadinha de minha ama. Pant. Ela ao Templo se avesinha, victima preparada, a ser sacrificada. Faisc. Eu não tolero a ver estrago tanto, sem que lance dos olhos triste pranto. Pant. E eu, inda que não tenho confiança, entrar também pertendo nesta dança. (Tocam–se instrumentos e a som deles vai passando entre guardas Dircea com vestido branco, coroada de flores e precedendo os Sacerdotes com insígnias de sacrifícios e Faisca e Pantufo irão seguindo a cometiva, e depois de recolhidos o acompanhamento demorando–se alguma coisa, ainda os instrumentos, diz dentro Timante) Tim. Céus dai–me agora favores, amigo dai–me soccorro, da morte livrai Dircea. Vozes. Tiranos morrei todos. Outros. Traição salvemos as vidas. (Vem saindo com espadas os guardas, e os Sacerdotes descompostos, deixando cair alguns instrumentos do sacrifício dentro haverá estrondo, e Corisco virá com a espada nua atraz de Pantufo para lhe dar) Cor. Agora aqui faço molho. Pant. Olhe que eu não sou da bulha. Cor. Pois sou, ou não sou Apolo? Pant. Seja embora o que quiser. Cor. Pois eu já que hoje te encontro quero ser malho, e fazer-te Metastasio, padrão de vida do século XVIII esta cabeça em um bolo. (Vai–lhe dando, e Pantufo fugindo) 148 ACTO III (Sahe Pantufo embuçado em um capote com a espada debaixo) Pant. O tal Apolo de droga veio aqui para esta parte: Oh lá meu dito, meu feito, lá está deixando lograr–se a tola de minha filha! Ah moças, como sois faceis, que com qualquer gatimanho logo vos embasbacastes. Cor. Faisca lá vem teu Pai com feitio mui galante. Faisc. Então vou-me embora, fujo, não queira ao corpo chegar–me. (Vaise) Pant. Veremos agora aqui Quem é ou não este traste. (À p.) Ah sou amigo, não ouve? Cor. Com licença, vou deitar–me (Faz que se vai.) Pant. Você faz que não entende pare aí já neste instante. Cor. Você fala cá comigo? Pant. Pois aqui há com quem fale? Cor. E que quer do seu 148 Ivi, pp. 23-24. 221 serviço? Pant. Conhece esta personagem? Cor. Bem poderei conhecer, porém não chego a lembrar–me. Pant. Oh lá: com que he Deus Apollo e em se mudando de trajes já não conhece as pessoas. Cor. Pois Senhor, as Divinidades às vezes são como a Lua, que padecem seus minguantes. Pant. Pois conhece, ou não conhece? Cor. Deixe bem certificar-me; ah sim Senhor, bem conheço. Pant. Quem sou eu, diga so traste? Cor. É meu Sogro putativo, Senhor Pantufo (basbaque) (À p.) Pant. Sabe o que venho fazer? Cor. Alguma necessidade. Pant. Venho rachar-lhe a cabeça. Cor. Eu dispenço, não se canse. Pant. Quero brigar com você. Cor. Eu brigar! De mim se aparte, nunca na vida tal fiz. Pant. Sim, porém lá esta tarde pespegou-me na cabeça muito bem os triques traques. Cor. Isso foi por divertir-me; e a isso brigar chamaste? Pant. Pois que era? Cor. Era coque nele, foi uma curiosidade. Pant. Pois também sou curioso, 222 Capitolo II e quero agora cocar-lhe; você cuida, que eu sou tolo? Aqui mesmo hei–de pagar-me de quanto mal me tem feito bem pode já preparar–se para morrer. (Tira a espada) Cor. Porém vou a chamar quem me acompanhe. Pant. Ande para ali. Cor. Deveras quer brigar; deixe ir armar–me: brigar não tendo eu espada, é vileza, é impiedade. Pant. Assim me rachaste a bola e eu faço como tu fazes. Cor. Já não lhe posso fugir, e ele a cabeça me parte. (À p.) Ora ande cá, estou prompto: mas quero agora ensinar-lhe uma moda de brigar, que você talvez não sabe. Pant. Diga, que se me tiver conta, talvez que eu a abrace. Cor. Primeiramente uma risca por aqui ha–de lançar-se. (Faz uma risca no tablado) Nós havemo–nos de pôr cada um de sua parte brigaremos com bem força, mas qualquer que a risca passe, fica perdendo um carolo. Pant. É moda muito agradável, vamos a ela. Cor. Pois de longe, ponha–se lá no desplante, em vista agora: ter mão, passou, perdeu. (Irse-á representando como dizem os versos) Pant. É verdade; ora vamos outra vez. Cor. Meta essa estocada, ande atire daqui um talho, aperte, corte esses ares, chegue a mim, aqui mo tem, acutile, fira, mate tenha mão lá que passou: deve dois. Pant. Pois eu chegar-lhe como posso, se você está sempre a retirar-se. Cor. Pois nisso Senhor Pantufo é que está a habilidade, mas que seja contra mim, quero esta moda ensinar-lhe: ora dê-me a espada, já lha torno. Pant. Extravagante por certo que é a tal moda: tome lá. (Passa-lhe a espada) Cor. Veja, e repare agora esta bizarria com que lhe prego um sotaque. (Dá-lhe na cabeça) Pant. Perdeu. Cor. Pois va descontando agora de estoutra parte estendo o braço, e pespego outro coque nelle. (Dá–lhe) Pant. Arre: perdeu, deve dois. Cor. Desconte. Pant. Agora estamos em pazes, Vem cá a espada que eu já sei. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Cor. Para saber quanto baste, veja mais: apanhe, tolo, leva mais este, basbaque. Pant. Ah que d’El–Rei que me mata! Corisco, com triques traques. Cor. Anda tolo das vassouras. Pant. Tu mo pagarás brebante. (Demorar–se-ão o tempo que quiserem na risca, e vão-se e lhe vai dando Corisco com a espada) 149. 149 Ivi, pp. 29-30. 223 Capitolo II 224 Un’altra particolarità che vogliamo segnalare circa il personaggio di Corisco riguarda la sua partecipazione attiva e decisiva nello svolgersi della vicenda primaria del dramma. Il servo di questo Demofoonte portoghese gioca, infatti, un ruolo estremamente determinante per il proseguimento della trama metastasiana, come avviene per il Paquete dell’Artaxerxes: è Corisco a rivelare a Cherinto le nozze segrete tra Dircea e Timante, ed è quindi il secondogenito a riferire al padre tale retroscena che nel testo originale veniva scoperto a Demofoonte direttamente da Timante. Questo evento centrale innescherà allora tutte le azioni future del re di Tracia che porteranno alla conclusione positiva della vicenda: ACTO II Cor. Já podemos ir saindo, Senhor Querinto. Quer. Que queres? Cor. Quem eu? Quero sim Senhor. Quer. Pois dize. Cor. Quero dizer-lhe... mas olhe que é um negócio de muito grande interesse. Quer. Acaba já. Cor. Que Timante não caza inda que arrebente com Creusa. Quer. E porque o dizes? Cor. Porque ocultamente ele é casado com Dircea. Quer. É possível! Cor. Podes crer-me tanto assim, que tem um filho já não muito pequenhete; olhe é ele tão galante, que diz aqui toda a gente que se parece contigo. Quer. Tu falas por entreter-me? Cor. Se este segredo a bem levas, tudo é verdade, e se queres agastar-te contra mim, suppõe que não percebeste, que eu, se disse eram casados Metastasio, padrão de vida do século XVIII 225 os descaso facilmente. Quer. Não me agasto, antes um gosto nesta notícia me deste. Cor. Pois eu por isso lho disse meu amo talvez não leve muito a bem este segredo vir eu agora dizer-te. Porém se Dircea morre, e ele talvez enloquece, que importa que eu cá também dê com a língua nos dentes. Ajude Senhor Querinto a seu Irmão... Quer. Promptamente lhe quero dar o socorro, vai dize-lhe... Não; detem-te, que eu mesmo vou procura-lo e em seu emparo oferecer-me; defenda o Cheu seus perigos, e os meus intentos prospere. (Vai-se) Cor. Ser um homem chocalheiro também é virtude às vezes, que o vomitar é remédio para cuchimentos do ventre150. E allo stesso modo, sarà proprio Corisco a consegnare in seguito al padrone Timante la missiva in cui Matuzio riferisce di un’altra lettera della defunta regina in cui vengono svelati gli arcani dello scambio in fasce tra il principe e Dircea, laddove nel testo italiano tale momento cruciale veniva affidato esclusivamente a Matuzio: Acto III Cor. [...] eu venho por via oculta, muito em segredo a entregar-lhe esta Cartinha Matuzia. Tim. Matuzio de mim que quer? Cor. Isso dirá a escriptura; ele acha–se retirado por quanto o Rei morto o julga, 150 Ivi, pp. 14–15. Capitolo II 226 e agora com muita pressa, por ser pessoa segura, me mandou que eu esta Carta, te entregasse na mão tua: fiz a minha obrigação, e fora daqui que há pulgas151. II.7. Ipermestra Il «dramma scritto in gran fretta dall’autore in Vienna»152, rappresentato nel 1744 con il titolo di Ipermestra e del quale la Biblioteca Nazionale di Lisbona conserva ancora lo spartito manoscritto delle relative musiche composte da David Perez, circolava per le sale di teatro portoghesi con il titolo di Linceo e Ipermestra già nel 1761, grazie all’edizione dell’officina di Joseph Filippe (fig. 24), e poi ancora nel 1783 per la pubblicazione della famosa Oficina Patriarcal di Francisco Luiz Ameno. Certamente l’anonima traduzione del 1761, pur se priva d’indicazione di genere originale e di dicitura che ne riveli l’aggiustamento al gusto portoghese, va annoverata nella schiera degli adattamenti sia per la presenza dei servi Murteiro ed Escopeta, sia per una generale riscrittura del testo metastasiano originario, che sin dal titolo subisce uno slittamento della focalizzazione dalla figura eroica di Ipermestra al tema sentimentale dei due sventurati protagonisti. Questa dislocazione tematica è immediatamente evidente da un raffronto degli argomenti proposti dal Metastasio e dall’adattatore lusitano, il quale precisa con più dettagli la vicenda dei due protagonisti: IPERMESTRA 1744 ARGOMENTO LINCEO E IPERMESTRA 1761 ARGUMENTO DANAO, re D’Argo, spaventato da un oracolo che gli minacciava la perdita del trono e della vita per mano d’un Danâo filho de Belo, Rei de Egipto fogindo de Egisto seu Irmão, se refugiou em Argos; donde expulsando 151 152 Ivi, p. 35. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1024. Metastasio, padrão de vida do século XVIII figlio d’Egitto, impose segretamente alla propria figliuola di uccidere lo sposo Linceo nella notte istessa delle sue nozze. Tutta l’autorità paterna non persuase alla magnanima principessa un atto così inumano; ma neppure tutta la tenerezza di amante poté trasportarla giammai a palesare a Linceo l’orrido ricevuto comando, per non esporre il padre alle vendette d’un principe valoroso, intollerante, caro al popolo ed alle squadre. Come, in angustia sì grande, osservasse la generosa Ipermestra tutti gli opposti doveri e di sposa e di figlia, e con quali ammirabili prove di visrtù rendesse finalmente felici il padre, lo sposo e se stessa, si vedrà dal corso del dramma153. 227 do Trono a Estenelo seu legitimo herdeiro, se fez absoluto Senhor daquele Reino: soube depois pelo Oraculo que um de seus sobrinhos filho de seu Irmão Egisto o havia destituir do Imperio, e despojar da vida; e não sabendo de qual vinha oriundo o receio, com dissimulo tratou de casar suas filhas com os sobreditos, mandando-lhes solemnizassem a glória do himeneu com sanguinolenta hostilidade, matando logo na primeira noite cada uma a seu esposo. Todas executarão a sublevação recomendada pelo Pai, excepto Ipermestra, que fiel, e constante amava a Linceo: este (salvo por ela) cumpriu as predições do Oraculo, privando a Danâo do Reino. Na alusão e figura do sucesso, por se não verem demasiadas hostilidades e para dar lugar a varios afectos, se finge se lhe deu o perdão, como se verá no fim do Comico contexto154. Le differenze interne alla traduzione della fabula originaria rivelano insomma vistose discrepanze, a partire dalla presenza di altre sorelle di Ipermestra esecutrici del violento comando paterno sui rispettivi mariti, tutti fratelli di Linceo e tutti nipoti di Danao, elementi completamente assenti in Metastasio. Il traduttore portoghese, inoltre, permette ad Ipermestra di rivelare il tragico segreto all’amato Linceo, che in questo modo può mettersi in fuga, mentre la principessa d’Argo riferisce al padre non solo il segreto della mancata uccisione, ma anche della ritirata dello sposo. Ma la fantasia e l’arbitrio del traduttore portoghese si spingono oltre. Si arriva a creare ex novo tre personaggi, non graciosos, inesistenti nella trama primaria: Nicadro, generale di 153 Ivi, p. 1025. Linceo e Ipermetra, opera composta em Italiano pelo Abbade Pedro Metastacio, poeta cesareo e traduzida em Portuguez por ***, Lisboa, Na Offic. De Joseph Filippe, 1761, p. 1. 154 228 Figura 24. (BN, L. 47000 P). Capitolo II Metastasio, padrão de vida do século XVIII 229 Danao, che in seguito si rivelerà suo traditore; Argia, figlia di Estenelo, che agisce dietro impulso vendicativo e desiderio di riappropriarsi del trono usurpato al padre da Danao, oltre ad essere amante non ricambiata di Nicadro, invaghitosi invece di Ipermestra; e, infine, Delmiro, generale di Linceo. La gelosia di Nicandro nei confronti di Linceo, ricambiato in amore da Ipermestra, lo porterà a mentire al suo rivale sulla sorte dei fratelli, fingendo non fossero stati uccisi dalle rispettive mogli, e imputando ad Ipermestra l’invenzione del delitto allo scopo di allontanare lo sposo perché invaghita di un altro uomo. In questo modo il Nicadro lusitano ritiene di poter placare per breve tempo il furore di Linceo per il folle comando del re d’Argo e permettere così a Danao di prepararsi a sconfiggere il nipote. Evidentemente il traduttore si lascia prendere la mano dal diramarsi incessante degli intrecci, dall’accavallarsi delle situazioni, dei sotterfugi, delle menzogne e degli equivoci, in una girandola delirante di misfatti ed invenzioni che arriva fino alla descrizione di un Danao ancor più sanguinario di quanto non lo abbia dipinto il poeta cesareo, un re ed un padre che arriva ad incaricare Argia di somministrare ad Ipermestra una coppa colma di veleno. Anche se, a quel punto, Argia confida alla principessa di averle dato in realtà un finto veleno che shakespearianamente le provocherà un sonno dall’apparenza mortale, e da cui conseguono poi un finto funerale, una sepoltura fittizia nei boschi e la falsa diffusione della notizia della sua morte. Sulla falsa riga di quella che a tutti gli effetti diventa parodia della più nota tragedia degli amanti veronesi, Linceo scopre il tumulo dell’amata, ignaro dei reali trascorsi finché, disperato in atto d’uccidersi, viene fermato dall’apparir di lei al culmine di un crescendo drammatico già noto. Un arbitrio totale che, come riporta José da Costa Miranda, fu sottoposto a netta censura: Denunciam-se as situações absurdas oferecidas na tradução portuguesa; denunciam-se a falta de rigor e a ausência de lógica na arquitectura da obra; defende-se a lingua portuguesa das impropriedades apresentadas pelo texto; defendem-se as páginas de Metastásio. Escrevia o censor, resumindo situações que, no seu parecer, invocava e retratava: «A Opera intitulada Linceo e Ipermestra que se diz traduzida em Portuguez do Original Italiano de Metastasio he indigna de se imprimir, pelos abusos e frioleiras que 230 Capitolo II contem, e que eu julgo forão todas forjadas no corrupto cerebro do Traductor»155. E come se tutto ciò non fosse sufficientemente originale, come se il testo di partenza non fosse già sufficientemente irriconoscibile, ecco che il nostro adattatore portoghese non omette neppure l’intreccio dei due graciosos, impegnati in una ridicola serie di scaramucce e stuzzicamenti tra l’infastidito e il compiaciuto, con la solita insistenza sul doppio senso onomastico («Murt. […] eu Senhor, chamo-me Murteiro./Danâo. Murteiro? Esquisito nome!/Murt. È muito boa peça: em mim, é apelativo; porque para a minha natureza, não é muito proprio./Danâo. De que sorte?/Murt. Porque dá-se melhor em naturezas ardentes, que em génios fleumáticos: é muito bom para quem é fogoso, e eu sou muito pachorrento»)156. Linceo e Ipermestra (1761) Acto I, cena II (Murteiro e logo Escopeta) Murt. Entrando, e saindo por estas salas à custa das minhas solas, ando feito alma em pena neste Palácio, sendo todo o meu purgatório andar atrás de meu amo: o que mais é, que as chamas de amor me abrasam, e não sei já quando deste incêndio apurado terei a glória de ver aquela semideusa lacaial, que aparecendo– me nesta terra, me pareceu coisa vinda do Cheu. Queira Plutão, que à pena do sentido se não siga a pena do damno; pois, já que morro com a culpa de adorá– la, não quero ser condemnado a não vê-la157. Cena III (Sai Escopeta) Escop. Todos casaram em Palácio, só eu não achei com quem casar. (À parte) Murt. Já se me aliviou o tormento: seja por esmola o sufrágio: quem tivera todas as horas esta indulgência! (À parte) Ai menina, se morre por casar, não acabe 155 J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit., p. 137. Ivi, p. 58. 157 Ivi, pp.13-14. 156 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 231 sem esse sacramento: aqui estou eu, que farei mui bem o papel de marido; porque já tive varios ensaios no matrimonio. Escop. É escusado; que para mim é V.m. bem fraca figura. Murt. Escuta tu a primeira relação dos meus afectos, e logo saberás o amante que represento. Escop. Olhem voches o boneco, querendo ser coisa viva. Murt. Se tu és cruel, eu tenho obrigação de ser desarmado? Mas sabes tu os espiritos, que eu tenho. Escop. Vade retro: Deus me livre de tentações: vá-se V.m. depressa deste quarto, antes que nele appareça El–Rei. Murt. Se ele, para te ajudar nos rigores, por ti é pedido; porque não ha–de aparecer no quarto? Faze-te antes só: que eu terei nele muito tento. Escop. Vejam com que se vai descartando; V.m. comigo não tem entrada. Murt. Não digas tal: não vês que me dás de mão, e que já agora, por isso mesmo, hei–de entrar a contas com o jogo da fortuna? Escop. Não passe a mais: e tomara deitá–lo fora, antes que o achassem aqui dentro. Murt. Pois não era mal achado; que há muito por ti ando perdido: e tanto, que desejava achar–te, só porque tu desses conta de mim. Escop. Isso farei eu, se lhe chegar a pôr as mãos. Murt. Bem tomara eu, que tu as deras, vencida das minhas finezas; e se nelas está toda a ganância do meu risco, para que tens mão na minha ventura? Olha, não faças força por noivo, que eu tenho bom jeito para ser teu marido. Escop. Dá-me vontade de rir: bom jeito? De que forma? Murt. Pois não me vês todo inclinado? Com que, além de seres às minhas palavras surda, te queres afectar, a olhos vistos, cega? Escop. Não. Muito bem vejo o quanto indigno o fez a natureza dos meus favores. Murt. Eu hei–de pagar os descuidos alheios? Emenda tu esse defeito com encobrires a minha falta, inda que ofendas a natureza: e se me achas impróprio para amante, sabe, que para marido, outro não has–de achar mais natural. Escop. Por aí não me vence; porque é muito natural em quem pretende, afectar– se benemérito: se o quer ser, faça–se bem quieto por outra parte; que em quanto tiver essa cara, toda a moda frança lhe ha–de fazer focinho. (Vai-se) Murt. Espera, que eu já fiz mudança no rosto com a fofiçe do Elogio: mas foi–se chamando-me nomes, em fraze de desdém, está bonito! Fora com o testemunho, que deita a cara abaixo! ARIA Que terá este focinho, Que lhe chamam desconforme? Eu sou feio? Eu sou enorme? É mentira, é testemunho, É falso, não pode ser. Sou gentil, e o mais é pulha: Capitolo II 232 Sou bem posto, sou direito: Cá em mim, não há defeito, Que torpe me faça ser. Ora vamos mudar de semblante, e pedir a quem tenha muitas caras, para outro encontro uma delas emprestada. (Vai se) 158 Cena VII Murt. Por mais que ronde este quarto da Princeza, com quem se casou meu amo, não é possível topá–lo: este Príncipe será invisível? Pois eu não gosto de Fantasmas: bem basta o medo que trago deste Rei; que deveras, me parece coisa má; e bom fora, Murteiro, que te deixasses de emprezas amatorias, antes que, pondo-te tanto a ponto nos amantes combates, te vejas suspenso no ar sem te ser possivel dar a tua descarga: mas, senão temes ficar encordoado, quando te tocarem a fogo, vai ver se pilhas aquella escopeta para te defenderes na primeira investida. (À parte) Escop. Senhor Murteiro! Murt. Senhora Escopeta? Escop. V.m. segunda vez dentro do quarto da Princeza? Murt. Dos quartos de meu amo posso saber alguma coisa; porque também entro no seu Regimento; mas dos quartos da Princeza, te confesso, que não sei coisa nenhuma. Escop. Pois, V.m. certamente morre, se o acham neste sítio. Murt. Bem desnecessario é o tirarem-me a vida; porque eu já não tenho alma. Escop. Se está morto, para que vem conversar com gente viva? Murt. Eu andava morto por te ver; e tanto que te vi, logo me entrou uma alma nova. Escop. Viva muitos annos: e agora, com essa viveza, que pretende? Murt. Que renascido no teu agrado me sustentes com as tuas promessas, para que viva da minhas esperanças. Escop. Faça pela vida; que V.m. tem bom corpo para homem de ganhar. Murt. Já não posso com a carga dos teus desprezos: e te confesso que bem cansado ando com a minha inclinação. Escop. Pois deixe–se de pezos, que poderá render. Murt. Rendido estou eu; e só a solda dos teus carinhos poderá unir a rotura, que me fazem os teus desdéns. Escop. Ai Senhor, para que são quebraduras de cabeça, eu me retiro para lhe desvanecer as prezunções em que se funda. (Faz que se vai) Murt. Com que, vais-te assim, sem mais, nem menos? Escop. Pois, que mais quer? 158 Ivi, pp.14-17. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 233 Murt. Que, já te disse o menos, ouças agora o que é mais: eu queria, esquiva Escopeta, que já que na recamara da tua tirania me vês posto à mirra das tuas finezas, não foce todo o teu ponto disparar tantos rigores… Escop. Valha-o uma grande bala. Murt. Para que me largas todo esse fogo? Se já sou todo um Etna nos meus ardores. Escop. Pois fique ardendo; que V.m. bem merece que o queimem. DUO Escop. Murt. Escop. Murt. Escop. Murt. Ambos Escop. Murt. Escop. Murt. Ambos 159 Abrase–se embora. Nas chamas se queime, E mais não ateime Comigo em amor. Se tu deste incêndio Ateas o fogo, Porque não dás logo Remédio ao ardor? Acudam com bombas, Que o fogo ateou. Mais fogo não faças, Acode tu só. Se sabes que a chama Não posso apagar… Se vês, que este lume Me quer abrasar… Da minha ruina, Porque não tens dó? Eu não; que não vejo Arder essa chama. Eu sim; que quem ama Só sente o ardor. Venha água, e mais água Apague-se já. O pranto dos olhos Um mar te dará; Mas não; que este fogo Somente; um favor O pode apagar. (Vai-se Escopeta)159 Ivi, pp. 28-32. Capitolo II 234 Cena VIII Escop. Não aparece esta Princeza, nem morta nem viva: não sei, se está preza, ou se está no seu quarto fechada. (À parte) Murt. Também tu, tirana Escopeta te fechaste no castelo da tua esquivança, sem que fosse bastante a conseguir os teus rendimentos, nem ócio que te põem os meus disvélos, nem o assalto que te dão os meus agrados. Escop. Deiche-se disso; que esta praça não se conquista. Murt. Se eu visse mais tíbios os teus rigores, pelo flanco da tua atenção, eu abriria brecha na tua tirania. Escop. Eu dava-lhe de concelho, que levantasse o campo. Murt. Não cuides, que os meus afectos, ainda que esfomeados da tua correspondência são tão fracos, que padeçam desmaios na esperança dos teus desenganos, antes é Antheo o meu amor, que prostrado no choque dos teus enfados, se levanta com mais forças para vencer os teus desprezos. Escop. Não tem que trabalhar comigo; que já mais ha–de vencer-me. Murt. Não me hei–de desenganar, em quanto Cupido me assistir com as suas flechas. Escop. V.m. é muito forte flecheiro. Murt. Mas, nem por isso, disparando pelo arco da minha fineza as setas dos meus agrados, te posso acertar no peito para te ferir no coração. Escop. Ora diga-me, e tinha tão mau coração, que queria, que eu morresse? Murt. Oh Escopeta, se eu te vira morrer por mim, era capaz de morrer. Escop. Bom olho, que tal veja, va-se daí: com que, esse é o bem que me quer? Murt. Por te querer bem; por isso te pões mal comigo? Mandando me embora? Está galante! Com que, tu querias matar, e não querias morrer? Olha, morre comigo, e iremos muito anjinhos ao Cheu. Escop. Va-se daí, não me faça tão inocente. ARIA Eu morrer por quem me mata? Isso não, tome uma figa, Tome, tome, e não prosiga; Porque não lhe hei–de querer Quer carinhos? Quer um dardo? Quer, que eu morra? Cachamorra Só você acabe, e morra. Já que morta, me quer ver. (Vai-se) Murt. Como rezas, medres: é bem dura dos fechos esta Escopeta: eu entendo, que todo o seu ponto é tratar-me aos coices, fazendo tiro para outra parte; mas não ha–de ser assim; que ainda que ela se preza de saber atirar ao alvo, eu também me desvaneço de lhe saber andar pelo alcançe. (Vai-se) 160 160 Ivi, pp. 60-63. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 235 Cena IX Murt. Espera tu; que eu te direi o que entendo. Escop. Não entenda comigo, e deixe-me; que vou saber de minha Ama. Murt. Tomara eu, que tu deste teu criado souberas tanto, quanto eu sei de tua Ama. Escop. Ora, meu Murteiro, se sabes, dize-me; que eu to saberei agradecer. Murt. Paga-me tu aqui em carinhos, quanto eu te endividar em notícias? Escop. Não te fias em mim? Eu sou mulher branca. Murt. E tão branca, que até em branco deixas as minha pertenções. Escop. He que tu não sabes atirar ao alvo. Murt. Mas não é porque deixe de fazer bem a pontaria: ora, ingrata Escopeta, será já tempo de prostrarem a muralha desse peito as balas dos meus carinhos, donde entrando victorioso no saque dos afectos, mas enchas de despojos dos teus agrados? Escop. Não me ponhas outro cerco de destemperos. Murt. Oh esquiva Escopeta, que quanto mais a tiro me tens dos teus favores, mais me dás com o chumbo da tua ingratidão. Escop. Pois não me faça você derramar nestes desagrados; que já lhe disse não era o ouvido desta Escopeta para escutar os arrojos atrevidos da boca desse Murteiro. Murt. Pois é atrevimento dizer, que por ti não tenho sossego, e não é insolência achar-te sempre posta no descanço? Escop. Muito pouco tenho para agora te aturar. Murt. Mas até quando has de aturar nos teus desdens? Escop. Até que tu mereças os meus bichancros. Murt. Pois eu posso fazer mais, do que pôr-me em risco, de que, sem ser despachado, me levem prezo, achando-me em Palácio como coisa de contrabando? Escop. Olha, guarda-te, não te malsine eu, dizendo a El–Rei que tu és Murteiro creado do Senhor Linceo. Murt. Isso sabe ele já: se tu lhe dissestes, que te servia a ti, então é que eu receava o ficar por perdido: mas olha, se o fazes pela parte, que da malsinação te toca, deixa a chocalhice; que eu quero antes, por não pagar o tresdobro, dar-te toda a fazenda. Escop. Não atendo a essa conveniência; que tu para mim es droga. Murt. E tu sempre dura, que na Alfândega de Cupido queres fugir, de que te ponham o selo. Escop. Eu sou mesmo do Reino, não preciso despacho, e tu vieste de fora, has– de pagar os direitos. Murt. Ai filha, direito, e mais direito: não percas o que é teu; podes mandar recolher este fardo de carinhos no Almazem das tuas meiguices. Escop. Não contrato em fazenda, que tem tanta traça. Murt. Mas ainda não pude dar traça, a que te contratasses comigo. Capitolo II 236 Escop. Contratos contigo? Se for cousa de lucro, talvez que me ajuste. Murt. Olha, se tu quisesses ser minha companheira, ficava isso bem ajustado. Escop. Companheira? De que modo? Murt. Dando as mãos para a sociedade e fazendo liga no negócio. Escop. Nada, meu Murteiro; que eu para essas coisas sou muito atada. Murt. E tão atada, que ainda te não desataste com o despacho da minha pertenção. Escop. Isso tem vagar: espere, se quiser; porque ainda não fiz eleição; que em coisas de Matrimonio é muito necessárias a consulta. Murt. Por votos é que se não chega a casar: olha, Escopeta, deixa te de consultas; que para mim não há justiça; porque se a venho buscar ao Desembargo deste Paço, tu a cada passo me estás embargando: se a busco na mesa da tua conciência, tu, sem consciência, me deixas em jejum da minha ventura: com que, Escopeta, o meu voto era, que sem consultares o caso, te resolvesses a casar comigo. Escop. Pois hei–de casar, sem eleger marido a meu gosto? Murt. Não escolhas, que é peior, seja aquele, que estiver mais à mão, e demais que sujeito has–de achar, que compita comigo? Olha, como eu, não há coisa semelhante. Escop. Não te gaves, que ninguém te quer, tomara eu saber, os predicados em que te fias. Murt. Ora escuta, que tos digo. ARIA Eu tenho bom génio, Eu sou mui galante, Eu sei ser amante, Eu sou muito meigo. Eu sou mui cortês. Não sei que mais tenha Para desempenho; Mas eu culpa tenho De que com remoques Na cara me dês. Escop. Nada disso me contenta; porque tu não me agradas. (Vai-se)161 Acto III, cena IV Escop. […] quero ver, se no Exercito do Senhor Linceo acho algum soldado, a quem me renda inclinada. (Vai dando as costas) 162 161 162 Ivi, pp. 78-82. Ivi, p. 101. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 237 Cena V (Murteiro vestido de Soldado) Murt. Com tanta quebra nas servantias de Cupido, só servindo a Marte me poderia ver soldado: ora Escopeta, se me visse agora, se poria em mim os olhos? A melhor coisa que me acompanha é a borracha, não falando em algumas das outras, que de boas tem pouco; por serem já para os assaltos muito usadas: esta baioneta é boa pessa para meter na boca de Escopeta, em paga de desembocar desdéns às cargas: esta cartucheira é boa para guardar pão de munição nas emboscadas: à mochila guardo muito respeito; pois lho devo ter; por ter sido lacaio: ora estou bem posto; mas para ser boa sentinela, falta-me a minha Escopeta: eu entendo que ela aqui veio assentar praça; porque com medo de que a rendesse, desertou de palácio. Oh! Cá anda no campo, ora vamos fazer o costumado exercício. Escop. Tomara ver já este Reino em boa paz. Murt. Mas nem por isso fazes com que acabe a nossa guerra. Escop. Murteiro, tu aqui, com esse habito? Murt. Não é o que tu me deste pelos serviços que te fiz. Escop. Se tu me servisses, eu te daria algum aumento. Murt. Bastantes vezes quis eu entrar na tua companhia, mas tu nunca te servio da minha sociedade: ora dize, que vieste buscar a este sítio? Escop. Eu vim buscar–te. Murt. Nunca eu andara perdido; mas se já me achastes, sejão as alvíssaras a palavra de cazamento. Escop. Não se casão as tuas palavras com o meu gosto. Murt. Pois não é porque necessitem de dispença; porque bem sabes não contrahem parentesco, e para desengano, basta ver o quanto diferem as minhas palavras tão claras do teu negro gosto. Escop. Se lhe chamas negro, não é para ser escravo de ninguém. Murt. E se agora, por ocasião de guerra to captivasse, terias tu a liberdade de me fazer mais desprezos? Escop. Pois tu tinhas forças para me prender? Murt. Para te prender, não era necessario força, basta jeito; mas este não tenho eu para te atar de pés e mãos, e fazer com que sejas escrava de Cupido. Escop. Ainda te não desenganaste? Ora o certo é que andas vendado. Murt. Ai, Escopeta, vendado e vendido; porque tu, tanto que na minha escravidão me viste ficar como um preto, logo me puseste em venda. Escop. Enganaste; que eu, em te desprezar, te deixo forro. Murt. Que importa, se ainda me não vejo livre deste amante captiveiro: ora dize, será este o dia, em que estes negros afectos vão ter o seu amante bangalé à boa vista da tua aceitação? Escop. Ora, acomoda-te, e não fales nisso, meu soldado. 238 Capitolo II Murt. Eu me acomodarei contigo à soldada, já que tu, deixando-me em branco, queres que do meu captiveiro fique forro. Escop. Olha, tu lá me vás parecendo muito bom moço. Murt. Não me chamaste tu moço bem parecido, quando descaradamente me diceste que tinha má cara; mas não te quero lançar já isto em rosto, porque vejo a minha pertenção bem assombrada: olha tu também me pareces bem estreada rapariga. Escop. Benza-me Deu, e faça-me o favor de me não dar olhado. Murt. Mas quero ver–te, só para te dizer sempre, bons olhos te vejão: ora dizeme, como me vieste parar às mãos, andando tão fugitiva dos meus braços? Escop. Viemos ter com a senhora Ipermestra, eu e a senhora Argia, fogindo daquele maldito Rei que, inimigo de casados, mandou matar aos sobrinhos, depois de recebidos. Murt. Ora é certo que há males que vem por bens: vê tu se estou casado contigo, em que leito estou a estas horas descançando; passa fora! Escop. Ora dize, que fazes tu neste campo desta sorte armado? Murt. Para me defender dos teus rigores; pois quanto mais me foges, mais me matas; porque querendo a peito descuberto da minha inclinação conquistar os teus repúdios, posto na frente de minhas meiguices, me deste com a tirana retaguarda das tuas costas. Escop. Pois não sejas tão violento nos teus choques, para que assim me não retire. Murt. Pois, como queres, que te queira? Escop. Como escudeiro e não como soldado, que assim tenho medo que o teu amor seja bandoleiro. Murt. E para que fazes disso diferença, si accidens non muta substantiam? Escop. Como é isso? Murt. Se eu o não entendo, como to hei–de explicar? Digo que te quero, e que te amarei como quiseres. Escop. Pois sabe, que ainda agora te principio a querer. Murt. Se ainda agora no cabo principias, eu já por fim no principio muito te quis: mas qual, não creio; isso é ópio da namoratoria que me fazes, só para com enganos me venceres. Escop. Como queres que to diga, chorando ou cantando? Ora, para que saibas, que das tuas prosas estou vencida, eu to certifico com mais clareza. ARIA Já podes com gosto Correr e saltar. Eu quero casar, Façamos as pazes Da Guerra de Amor. Sossega meu dengue Metastasio, padrão de vida do século XVIII 239 Descança, sou tua; Mas sabe, à tabua Mandar-te bem posso Se fores traidor. (Vai-se) Murt. Ora vamos pendurar este Trofeo no Templo do amor, como premissas da guerra matrimonial, mas aí vem o capitão mandante, ouçamos as ordens já que sou soldado163. Cena IX Escop. Não tenho animo para ouvir estas coisas. Murt. Pois escuta outras, que serão de teu gosto, se não estiveres de outro animo. Escop. Se são de meu gosto, já me animo a ouvi–las. Murt. Pois sabe, que eu queria animasses mais os meus intentos. Escop. E que tens tu intentado? Murt. Não me animo a dizer–to; porque não sei se te casarás com meu animo. Escop. Se já me resolvi a amar–te, porque não hei–de atender–te? Murt. O meu animo, Escopeta, é casar contigo; pois me parece já tempo de irem estas duas armas de fogo descançar da passada guerra no armazem de Cupido. Escop. Não sabes que ainda temos de dar a salva ao senhor Linceo e à senhora Ipermestra, que logo hão–de ser aclamados por senhores deste Reino? Murt. Como me não importa mais que o meu estado, não me lembro do alheio. Escop. Pois, não te faças alheio daquilo que é tua obrigação. Murt. Pois, se estou obrigado, não é bem que seja desagradecido: Vamos dar de vivas a nossa descarga, e logo tomaremos a carga do matrimonio. Escop. Não sei quem ha–de poder com este peso. (Vai-se) Murt. Olha a tola; eu, que sou rijo, como um ferro. (Vai-se) 164 Cena X Murt. […] Senhor Linceo, V. Alteza, que dá Reinos, também há–de fazer mercês. Linc. Que pedes? Murt. Eu queria me fizesses doação desta Escopeta, que me arma muito (agouros fora) para a vida matrimonial. Linc. Eu ta concedo. Escop. Senhor Murteiro, eu lanço mão da palavra. Murt. E eu, confiado naquela palavra, te dou a mão165. 163 Ivi, pp. 101-106 Ivi, pp. 123-124. 165 Ivi, p. 130. 164 Capitolo II 240 II.8. Temistocle Anche il caso del Temistocle, opera per la quale Metastasio stesso non accettò mutamenti e riduzioni di sorta166, è stato studiato con particolare attenzione da Giuseppe Carlo Rossi, il quale, oltre a riportare in un suo studio già citato l’esistenza di tre edizioni dell’adattamento relative al 1755, al 1765 e al 1775, arriva anche a definire la graciosa di questa versione attribuita all’Ameno, per le astuzie della sua psicologia femminile e per la forza drammatica impressale dal suo autore, come «uma das figuras mais interessantes e engraçadas que o teatro português introduziu nos originais metastasianos»167. Benché qui si debba registrare anche un altro testimone a stampa datato 1818 «Fielmente Traduzido em Portuguez», come recita il suo frontespizio, l’opera cui lo studioso faceva riferimento è da noi stata analizzata nell’ultima edizione del 1775, corredata di Argumento e prodotta nell’officina di Manoel Coelho Amado (fig. 25). I due servi in gioco compaiono con nomi del tutto singolari e, come si vedrà dall’etimologia, perfettamente intrecciati tra loro: da una lato Alcaparra, “oliva snocciolata”, dall’altro Perrexil, “aperitivo”. Tali definizioni nascondono al loro interno una seconda significazione etimologica pensata allo scopo di legare i due personaggi in un gioco comico–verbale particolarmente interessante. Alcaparrado è, infatti, sinonimo di pessoa desenfastiada, spigliata, divertente, ma è anche qualcosa di stuzzicante, appetitoso, così come Perrexil potrebbe richiamarsi a perrixil o perregil, colui che intrattiene, che diverte, che stuzzica la curiosità e ravviva l’atmosfera conviviale. Insomma, un’unica grande metafora psico–gastronomica scientemente elaborata dal traduttore allo scopo di unire i caratteri 166 Si veda il parere espresso alla contessa di Sangro nella lettera del 29 gennaio 1753: «Il Temistocle non potrà mai servire opportunamente per opera d’estate. Quando non fosse necessario mutilarlo, sarebbe barbarie degna d’Ezzelino o di Mesenzio l’obbligare un padre a storipiar di sua mano il proprio figliuolo. Barbarie poi non meno inutile che inumana, perché o si pretende di purgar l’opera de’ suoi difetti, o di adattarla al tempo, agli attori, al teatro e alle circostanze del paese in cui si rappresenta. Nel primo caso è vano il dimandar correzione a chi non ha conosciuto gli errori quando l’ha scritta; e nel secondo un Burchiello presente sarà molto più utile che un Sofocle lontano» in P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 790. 167 G. C. Rossi, A evolução, cit., p. 302. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 241 Figura 25. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 242). 242 Capitolo II dei graciosos e giocare costantemente sul doppio senso verbale delle denominazioni. Benché il testo in questione non riporti la consueta dicitura che legittima l’adattamento al gusto portoghese, e sebbene il traduttore rispetti sostanzialmente la ripartizione tra atti e scene proposta dal Metastasio, solo la presenza della vicenda amorosa tra i servi permette d’inserire tale versione dal semplice titolo di Themistocles tra i classici adattamenti al gusto portoghese finora analizzati. L’imponente presenza nell’impianto originale di questa relazione suppostamene sentimentale va ad intaccare, tuttavia, alcuni momenti decisivi all’evolversi logico della trama tradotta dall’italiano, sia sottoforma di commenti “a parte” del tutto ininfluenti rispetto alle questioni dei veri protagonisti, sia, in altri casi, a livello d’interazione con i protagonisti medesimi, ora sottoforma di consiglio, ora sottoforma di richiesta. Nel primo caso, Alcaparra spezza il melodico avvicendarsi di battute tra Aspasia, figlia di Temistocle, e Rossane, amante del re Serse, con un’invadenza che non contribuisce in nessun modo ad arricchire il dialogo tra le due, ma che certamente immaginiamo di grande presa comica sul pubblico presente, dato trattarsi niente meno che di massime nazional–popolari, evidentemente di uso comune e quotidiano, ma perfettamente estrapolabili dalla scena senza danno per la linearità logica del testo: Acto I, cena IV Alcap. (Não há cousa mais peçonhenta que uma mulher com ciúmes.) (À parte) […] Alcap. (É próprio em quem está culpado fazer-se amarelo.) (À Parte) […] Alcap. (Sempre ouvi dizer, que quem o seu peito descobre, a si proprio se condemna.) (À Parte) […] Alcap. (Mas do amor nasce a piedade, ou está de interesse.) (À Parte) 168 Naturalmente anche Perrexil in più occasioni riveste tale funzione di commento delle azioni dei protagonisti del dramma principale: 168 Themistocles, Opera composta em Italiano por Pedro Metastasio, e traduzida em Portuguez Por***, Lisboa, na Officina de Manoel Coelho Amado, 1775, p. 6. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 243 Acto I, cena XI Perrex. (E vem o inocente meter-se na boca do lobo! Forte asneira!) […] Perrex. (É boa pachorra!) […] Perrex. (Quem tal dissera! Estou pasmado!) 169 Il successivo intervento della criada di Rossane avviene proprio a commento e giudizio dei casi della sua padrona, la quale, passando i suoi giorni nel tormento per temere Serse invaghito di Aspasia, dimostra, a parere della serva, un’ingenuità in fatto d’amore quasi irrecuperabile. Alcaparra, al contrario, comparando quella semplicità al carattere del tutto smaliziato delle donne che come lei hanno maggiore dimestichezza con le strategie del corteggiamento, proporrebbe per Serse la finta indifferenza che innamora: Acto I, scena VII Alcap. Quanto custoso é servir a uma mulher com ciúmes! Todo este palácio anda da cor deles: tudo é confusão. Mas que cor têm os ciúmes? O que entendo é que eles tiram a cor a quem o tem. E que culpa tenho eu em que Aspasia nascesse mais formosa, e que por isso seja mais querida, para eu pagar as custas dos repúdios que minha ama em El–Rei experimenta? Sente-se desprezada, despreze-o também, que é um bom remedio para tornar a ser querida: eu sei que com ele tem melhorado muita gente. Um desvio, com outro se castiga; e se houver algum amor, pode ser que sirva depois de estimá–lo para maior agarração. Estas Senhoras o que querem é que tudo lhe obedeça logo. Não, com o meu Perrexil sigo eu outro caminho170. Acto II, cena IV Rossan. Não servem já lisonjas, triumfa Aspasia. Alcap. Senhora, que seja possível que merecendo-te eu tanto amor, não te mereça aceitares o meu conselho? Se El–Rei te desdenha, desdenha-o também, que em pouco tempo o verás obediente ao teu querer como um cordeiro. 169 170 Ivi, pp. 11-12. Ivi, p. 7. 244 Capitolo II Rossan. Poderá ser algumas vezes útil o teu conselho: esse é o meio para fazer aumentar o afecto, mas duvido que seja capaz de o fazer nascer. Se Xerxes me tivera algum amor, talvez que o desdém o estimulasse a quererme mais; mas como estou persuadida de que me não ama, receio que mais eficaz incentivo para me deixar de todo. Alcap. Não digo que o desdém seja tal que chegue a parecer desprezo, mas sim que te mostres menos amante: dá a conhecer que lhe queres bem e finge que não tens pezar de não ser querida. Apparece-lhe em forma de relâmpago. Mostra-te desapaixonada, e se a ocasião o permitir, dá a entender que já tens quem te mereça os agrados. Rossan. Néscia, tal não profiras. As pessoas da minha qualidade e esfera, não obram dessa forma. Experimentar com agravos o amante é crueldade, e não amor, nem pode ter alma para amar quem tem valor para ofender. Alcap. É melhor andar padecendo repúdios, chorando ingratidões, e sentendo esquivanças toda a vida? Rossan. Antes a quisera perder de todo, de que se entendesse que eu tinha tão vís espíritos. Alcap. A necessidade não tem lei, e as vontades também assim se conquistam. Rossan. Em uma tal conquista sempre eu ficaria perdendo. Aqui vem a soberba Aspasia171. Un tema ricorrente nei dialoghi tra graciosos in genere, e che nel caso di questo adattamento viene espresso in maniera del tutto esplicita, è la visione misogina presente nella società portoghese dell’epoca, comunicata sia da Perrexil quando, origliando un pensiero ad alta voce di Alcaparra nel quale la ragazza si dichiarava incline al criado ma intenzionata a tenerlo costantemente sulle spine, giudica negativamente le arti seduttive femminili in questi termini «O caso é que somos uns patetas todos os que cremos em mulheres. À custa da minha experiência tenho o desangano desta verdade»172; oppure quando, a proposito di Rossane, esclama frasi del tipo «…mulheres têm cara para tudo»173. Ma anche per bocca della stessa Alcaparra, nel momento in cui il servo pretendente la contesta, dandole della falsa, e ottenendo in risposta una tale affermazione: «Não será novidade. Sou mulher, seguirei o meu natural. Nenhuma injuria me fazes em chamar–me falsa; e para que me não apures mais, fica–te com as tuas 171 Ivi, pp. 20-21. Ivi, p. 8. 173 Ivi, p. 26. 172 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 245 desconfianças»174. Occorre inoltre sottolineare che tali esternazioni vengono collocate all’interno di una situazione potenzialmente pericolosa, o per lo meno azzardata dal punto di vista dell’intervento censorio, in quanto verosimilmente offensivo della figura del re in persona, in un passaggio definito addirittura nojo, come a dire ripugnante, disgustoso. Si tratta del motivo scatenante di tutto l’intreccio comico tra i due servi, poiché, allo scopo di celare le reali intenzioni di Alcaparra nei confronti di Perrexil, la ragazza finge un’attenzione del re nei suoi confronti, anzi, un corteggiamento insistente dal quale la sfortunata non riesce a liberarsi senza temere di offendere la regale suscettibilità del sovrano, che pur dichiara del tutto sgradito. Chiaramente l’empasse viene brillantemente risolta con una netta e rapida smentita da parte della ragazza, per cui alla domanda di Perrexil «Pois El–Rei pode fazer nojo a alguém?»175 la pronta risposta di Alcaparra non lascia alcun dubbio sul recupero in extremis dell’offesa: «o muito amor que te tenho, he que te dá a primazia, fazendo que pareças muito bonito, muito frança, e engraçado, e que El–Rei me desagrade em tudo, e por tudo»176. È chiaro, dunque, che anche quando in un soliloquio il geloso Perrexil si metterà in competizione con il monarca, non troveremo mai nelle sue esternazioni irritate quella mancanza di rispetto e quel motteggio che avremmo incontrato certamente nel caso il rivale fosse stato il normale terzo gracioso di altri adattamenti. Si veda a questo proposito l’ottava scena del primo atto: (Perrexil só) Perrex. Que dura pensão é ter amor! Não estava eu bem sossegado? Quem me mandou tomar semelhantes trabalhos? É grande parvoice, eu o confesso; porém nele cai muita gente boa. Estou pasmado. Que me namorasse de Alcaparra, não é imprópria acção a um Perrexil: mas El–Rei! Pode ser? Porém não creio. Acaso trará esta rapariga outros intentos, e se desculpe com El–Rei? Seja o que for. Perrexil, são mãos perdidas; quem se obrigou a amar, obrigou-se a padecer: nós havemos de examinar o ponto: olho aberto. E se for certa a pertenção del–Rei? Que remédio; paciência: 174 Ivi, p. 9. Ivi, p. 8. 176 Ibidem. 175 Capitolo II 246 louvarei a Alcaparra, que a galinha del–Rei há–de ser mais gorda que a minha. Porém se for outro o desinquietador do meu sossego, fogo nele, chapeu de plumas não consinto. (Canta a seguinte) ARIA Se for certo o que receio, O teu damno temer deves, Pois que falsa assim te atreves Com cautelas enganar. Ando afflicto neste enleio, Na incertezza da verdade: Se te achar em falsidade, De ti só me hei–de vingar. (Vai-se) 177 La finzione delle attenzioni del re nei confronti di Alcaparra produrrà chiaramente le sue conseguenze durante tutto il corso della commedia dei criados, fino a coinvolgere il personaggio di Temistocle in un dialogo con il geloso Perrexil, nel quale l’adattatore portoghese non solo ha pensato di mettere in luce le differenze sociali tra classi di alto rango e subalterne, ma anche di coinvolgere l’ateniese stesso nel contesto comico, con il compito specifico d’intercedere in favore del servo presso il sovrano, affinché questi conceda le nozze finali tra i due graciosos e fughi ogni dubbio circa il suo presunto interesse per Alcaparra: Acto I, cena XII (Perrexil e Themistocles) Perrex. Foi-se ElRei sem eu ter ocasião de fazer minhas observações. Andar, não faltará tempo. Senhor. (Para Themistocles) Mas esperemos que acabe de cantar. […] (Querendo ir-se, Perrexil lhe fala) 177 Ivi, pp. 9-10. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 247 Perrex. Senhor, não sabes quanto estimo ver-te, e também recebido nesta Corte; pois quando esperava que fosses acabar miseravelmente em uma forca, pelas diligências com que El–Rei te procurava para se vingar de ti, vejo-te na sua maior estimação e amizade. Themist. São variedades da fortuna. E tu quem és? Perrex. Sou um pobre Perrexil, que com o distinto caracter de criado raso sirvo de desfastio em Palácio; mas é tal a minha desgraça, que por mais serviços que faça ao gosto dos príncipes, não posso melhorar de ocupação. Themist. Não te desconsoles, que nem sempre a fortuna é adversa; e em mim tens o exemplo. Perrex. Ah Senhor! Quem torto nasce, nunca se endireita. Mas já que tão entronizado estás com El–Rei, quisera merecer-te a graça de orares por mim. Toda a minha mocidade tenho consumido nesta lambarice criadal: também quisera dar duas figas ao demo, e aos meus inimigos, que se morderão de raiva se me virem andar em sege. Themist. E nesse teu emprego tens servido bem a El–Rei? Perrex. Optimamente. Themist. E não tens tido o correspondente prémio? Perrex. Senhor, quem mais faz, menos merece. Dize-me: quem melhor que tu servio a Athenas? E que prémio tiveste? O desterro, a perseguição. Themist. Enganas-te, se cuidas que Athenas nisso me ofendeo. Mais me lisongeio de bem a ter servido, do que sinto a ingratidão com que me trata. Perrex. Ainda assim, quem serve quer que lhe pague. Themist. Sim, os da tua condição. Uma alma nobre só se alimenta das suas generosas acções, que lhe dão o melhor lustre. Perrex. Eu quisera antes ter que comer, recebendo a ricompensa do meu trabalho, que por sustentar uma vaidade morrer de fome. Themist. Prometto favorecer-te se esta felicidade, que me vês lograr, não for destruida por algum contrário acidente. Por agora recebe esta pequena dádiva, que apenas a conservei no meu desterro. (Dá-lhe um anel) Perrex. Bejo-te, Senhor, a mão por tão grande favor. Porém eu quisera outro maior, e vem a ser, que peça a El–Rei que me case com Alcaparra, criada da Princeza Rossane, que como somos miseráveis, eu lhe quero bem a morrer, e ela me quer a mim a estalar: desejo arrochar bem o nosso amor com o apertado laço, ou para melhor dizer com o apertucho do matrimonio, pois na verdade fará boa união este Perrexil com aquela Alcaparra. Themist. Está bem; não me esquecerei da recommendação. (Simples me parece este homem.) (À parte) (Vai-se) Perrex. Ora faça, Senhor, essa obra de caridade. Estou contentissimo. Agora verei se Alcaparra me ama deveras, ou se zombando me faz alguma traição. Confesso que sou miserável. A rapariga deu-me quebranto, e por mais que o queira disfarçar não posso. Este anel há–de servir para quando nos prendar-mos. Bellissimo diamante! (Reparando no anel) Certamente o topázio fica a perder de vista. E como ficará Alcaparra contente quanto o vir; que amor de mulher, e festa Capitolo II 248 de cam, só atentam para a mão. Mas ela não o há–de pilhar sem primeiro me estar na unha, que nesta gente não há que fiar. Ora vamos dando volta, a ver se a encontramos. Ai cuidados: quem poderá saber se todos os que amam padecem o que eu padeço. (Vai-se) 178 Tuttavia, quando nel successivo atto Perrexil si accorgerà che Temistocle parlando con il re Serse non accenna affatto alle richieste del servo, quest’ultimo non si limiterà solo ad insultare esplicitamente l’ateniese sventurato, ma prenderà il coraggio a due mani e deciderà di affrontare il re personalmente, seppur con esiti che si possono facilmente immaginare: Acto II, cena II (Xerxe, Themistocle e logo Perrexil) Xerx. Themistocles. Themist. Excelso rei. Xerx. Muito te devo ainda. Mercês prometi a quem me trouxesse Themistocles, já o consegui, venho agora cumprir a promessa. (Sai Perrexil) Perrex. (A bom tempo chego: quero ver se lhe fala a meu favor, que a occasião é boa.) (À parte) Themist. Não são ainda bastantes tantas dádivas? Xerx. Não. Qualquer dádiva me parece diminuta recompensa a tão grande conquista, com que eu me considera tão vaidoso, e soberbo. Perrex. (Agora, agora, que se confessa obrigado.) (À parte) Themist. E querer… Xerx. Quero desta sorte corrigir a injustiça, e a seu pezar exaltar-te. Já são tuas desde agora Lampsaco, Miunte e a Cidade a quem rega o belo Miandro, e Xerxes provas do justo amor com que honra o teu merecimento. Perrex. (Quem dá Cidades, melhor consentirá em um casamento.) (À parte) Themist. Ah Senhor! Seja mais moderato o uso do teu triumfo, e não queiras ver a Themistocles envergonhar-se. Que tenho feito por teu respeito? Xerx. Que tens feito? E parece-te pouco julgares-me generoso? Fiares de mim uma tal vida? Abrir-me um campo em que pudesse ilustrar a minha memória e dar aos meus Reinos em Themistocles só, tudo quanto tenho perdido? Themist. Mas, a ruina, o sangue, e os estragos de que sou réu… 178 Ivi, pp. 12-14. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 249 Xerx. Tudo compensa a glória de poder honrar a virtude em o meu inimigo. A primeira vergonha foi da sorte, e esta glória é minha. Themist. Oh magnânimos pensamentos, dignos de uma alma escolhida, para substituir o lugar de Jupiter! Oh afortunados Reinos sujeitos a um tal Rei! Perrex. (Oh afortunado Perrexil com tal intercessor!) (À parte) Xerx. Ouve. Eu quero seguir o empenho da proposta competência. Tu a tua vida fiaste do meu poder, e eu o meu poder fio do teu valor. Serás General dos exércitos Persianos: vem receber a insígnia na frente de todos os esquadrões, que para esse fim estão juntos. Irás por ora castigar a insolência do inquieto Egipto, e depois maiores emprezas tentaremos. Com Themistocles ao lado espero subjugar o mundo todo. Themist. E a esta tão superior demonstração chega o meu generoso Rei… […] (Vai-se) Perrex. E foi-se o basbaque sem fallar a ElRei no meu negocio. O certo he, que nem todos são para tudo; mas eu lhe farei tal perseguição, que elle não tenha outro rimedio senão fallar-lhe. (Vai-se) 179 Cena VII (Perrexil só) Perr. Para aqui veio Rossane e Alcaparra, e também aqui deixei El–Rei, porém já se foram. Tenho conhecido que é traste o tal Themistocles. Também se ele fora alguma coisa boa não o desterrariam os Athenienses. Entendi que tinha ganhado o bolo, e vejo-me em termos de perder a mão. Ora, Perrexil, o que tu pode fazer, não o devas a outrem. Sim, eu falarei mesmo a El–Rei, e apure-se a verdade. Que se me pode seguir? Mandar-me dar alguns estouros? Não será a primeira vez que me chegam a roupa ao pelo. Melhor é isso que viver enganado e cuidadoso. Sim, eu lhe vou falar, e venha depois o que vier. Ai cuidados: quem poderá saber se todos os que amam padecem o que eu padeço. (Vai-se) 180 Acto III, cena VI (Xerxes, Perrexil e depois Rossane com uma carta) Xerx. Aonde está o meu General? O meu Themistocles aonde está? Não se negue aos braços de um Rei que o ama. Perrex. Desta vez lhe falo. Agora não me há–de escapar; mas não sei que faça. Eu vou tremendo. Senhor, eu tinha que pedir uma mercê a V. Magestade, mas… Xerx. Dize. 179 180 Ivi, pp. 18-19. Ivi, p. 23. Capitolo II 250 Perrex. De sorte, Senhor, que a falar a verdade eu bem sei que não sirvo para tapete em que pisem os serenissimos pés de V. Magestade… Ah Senhor, que eu bem sei que em primeiro lugar está V. Magestade do que eu; porém, Senhor, uma criada… (Sai Rossane) Rossan. Venho, ó Xerxes, em teu seguimento. Xerx. (Que encontro!) (À parte) Perrex. (Sempre me perseguem estorvadores! Ainda não se quer desenganar esta mulher?) (À parte) 181 Cena VII (Xerxes, Perrexil e depois Sebaste) Perrex. Eis-aqui o que é andar com acerto: deu o seu recado breve, e deixou-me o lugar desembaraçado para também expor o meu negócio. (À parte) Xerx. Vem a carta a Sebaste, e Oronte a escreveo. Leia-se. Oh Cheus! (Lê) Perrex. (Parece que não ficou contente. A cartinha deve ser de queixas, e ciúmes, que o deixou agoniado.) (À parte) De sorte, Senhor… (A Xerxes) Xerx. Aparta-te louco. (Com aspereza) Perrex. Sim, Senhor. (Retirando-se) (Bem entendo. Parece que se dói de que lhe fale na coisa.) (À parte) Xerx. Sebaste é o desconhecido author dos tumultos do Egipto, e entre tanto fingindo ao meu lado tão grande zelo! Ele chega. E como se atreve o traidor a apparecer-me! Perrex. Se tem de falar em algum casamento, vem em má ocasião. (Para Sebaste) 182. 181 182 Ivi, p. 32. Ivi, p. 33. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.9. 251 Didone abbandonata Eccovi la Didone abbreviata quanto si può senza farle troppo danno, e corretta ancora in qualche luogo183. La Didone abbandonata del 1724, “accomodata e guernita” per la rappresentazione madrilena di qualche decennio dopo, viene tradotta e pubblicata in Portogallo presso l’officina libraria di Crespim Sabino dos Santos nel 1782 con il titolo di Dido desamparada, destruição de Cartago (fig. 26), che darà luogo ad altre ristampe per le edizioni di Francisco Borges de Sousa già a partire dal 1790 (fig. 27). La traduzione portoghese, che procede equilibratamente lungo tre atti rispettivamente ripartiti in tre scene in cui si avvicendano battute, arie, recitativi, duetti, terzetti e glosse secondo l’arbitrio creativo del traduttore, con tutta probabilità deve la sua versione alle edizioni Bettinelli e Hérissant per comunanza di lezioni, come si può comparare dal seguente passo: EDIZIONE BETTINELLI 1733-58 Atto , scena III Osm. Il cor d’Enea non penetrò Selene. Ei disse, è ver, che il suo dover lo sprona A lasciar queste sponde: Ma col dover la gelosia nasconde184. 183 EDIZIONE HÉRISSANT 1780-82 Atto I, scena III DIDO DESAMPARADA 1782 Acto I, cena I Osm. (Si deluda). Regina, Il cor d’Enea non penetrò Selene. Dalla reggia de’ Mori Qui giunger dee l’ambasciator Arbace185. Osmida. Rainha, mal penetrou Selene o coração de Enéas: Ele sim disse que se ausentava por seguir o seu destino: mas só se aparta por não poder tolerar o seu ciúme186. P. Metastasio, op. cit., vol. III p. 619. Ivi, vol. I, p. 1385. 185 Ivi, vol I, p. 8. 186 Dido desamparada, destruição de Cartago, Opera segundo o gosto do Teatro Portuguez, Lisboa, Na officina de Crespim Sabino dos Santos, anno 1782, p. 5. 184 252 Capitolo II Figura 26. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 112). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 253 Figura 27. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 564). 254 Capitolo II A dimostrazione di quanto stesse a cuore agli adattatori portoghesi del teatro metastasiano l’attenzione per la resa scenica delle arie e dei recitativi, che avrebbe comportato minore o maggiore favore di pubblico, occorre fare attenzione alla fedeltà estrema, priva di interpretazioni di qualsiasi tipo, che il traduttore lusitano sceglie per una battuta della protagonista: «Son regina e sono amante/E l’impero io sola voglio/Del mio soglio e del mio cor./Darmi legge in van pretende/Chi l’arbitrio a me contende/Della gloria e dell’amor»187. È probabile che il traduttore lusitano avesse letto quel parere del Caldara che in una nota dell’edizione Mondadori di Tutte le opere del Metastasio viene riferito come segue: «Sono questi i versi che il Caldara racconta aver sollevato a una rappresentazione romana (1726) tale un grido del pubblico, “che parve si schiantasse dai suoi cardini il teatro”»188. In altre parole, forse consapevole della presa sugli spettatori che tali versi potevano avere, l’adattatore portoghese non ha optato per le soluzioni originali e creative che vi sono in altre parti del testo, ma ha semplicemente reso ad verbum le parole appena citate: Sou Rainha, e sou amante, Hei–de ser segundo Atlante, Do meu Sólio, o seu valor, Dar-me leis em vão pertende Quem tirar-me a vida emprende Desta glória, e deste amor189. Chiaramente, il testo non sfugge a spostamenti, soppressioni di intere scene e riscritture originali di versi ed interventi, come nel caso della figura di Selene (l’Anna del testo virgiliano), di cui si sacrificano interventi ed arie nella traduzione portoghese probabilmente per concentrare la tensione del dramma unicamente sulla figura di Didone, sull’ira di Arbace e sui tormenti di Enea, quest’ultimo con molti più riferimenti alla classica attribuzione virgiliana di pius Aeneas di quanto non compaia nel testo metastasiano (si confronti la battuta di Enea nel riportare le parole del padre apparsogli in sogno sin dal 187 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 11. Ivi, p. 1386. 189 Dido desamparada, op. cit., p. 8. 188 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 255 primo atto, apostrofato da Metastasio semplicemente con «ingrato figlio»190, e dal traduttore portoghese con l’espressione «não piedoso filho»)191. Anche qui, inoltre, non si sfugge all’azione imprenscindibile per ogni adattamento che si rispetti dei soliti graciosos, benchè in questo caso non costruiscano un vero e proprio intreccio isolabile dal contesto principale del dramma di riferimento, provando più che altro ad interagire con i protagonisti centrali e tra di loro solo sporadicamente. A questo proposito, dobbiamo evidenziare uno dei rarissimi casi d’intervento di un personaggio reale del dramma metastasiano a proposito della pretesa comicità dei servi, per cui ad un certo punto del primo atto dell’adattamento portoghese, Didone pronuncia la seguente battuta rivolta al confidente Osmida, il quale cercava di bloccare l’intervento dei servi Balandrau e Chamariz verso la protagonista: «Deixai-os, Osmida, que a sua graciosidade me diverte»192, laddove un termine come graciosidade diventa un preciso riferimento per il pubblico alla centralità dei graciosos negli adattamenti al gusto portoghese e sottolinea, inoltre, una compartecipazione e conseguente approvazione di un personaggio primario della vicenda metastasiana riguardo l’intrusione di tali parti comiche. Diverso è il rapporto tra Enea e il suo servo, sicuramente di minore benevolenza, anzi di evidente fastidio per le famose loucuras de criado che, da un lato, portano Balandrau alla canzonatura del suo padrone e, dall’altro, ad una continua identificazione con il personaggio “alto” di riferimento, che si traduce nel frequente parallelismo con gli episodi più famosi dell’eroe virgiliano, com’è il caso dell’analogia con il sogno ammonitore di Enea, riproposto da Balandrau in questi termini: «Bal. Olha, há umas noites que sonho com meu pai, e ele me fala por boca de ganso, dizendo assim: Obedeces aos Deuses? (Em falsete.)/Cham. Pois a ti também os Deuses te chamam?/Bal. Porque, meu amo é mais do que eu? E ele quer um Deus para si, e outro para os outros? Não está aí Baco, que anda pelas tabernas!»193. Maggiore avversione riscontriamo inoltre tra 190 P. Metastasio, op. cit., vol I, p. 5. Dido desamparada, op. cit., p. 3. 192 Ivi, p. 6. 193 Ivi, p. 13. 191 Capitolo II 256 Enea e Calambuco, un altro servo contro cui l’eroe latino si scatena in percosse fisiche certo non degne del virgiliano pius Aeneas: Acto I, cena II Enéas. Balandrau? Bal. Senhor, não sei quanto estimo ver-te com cabeça. Enéas. Começa com loucuras? Bal. Senhor, quem não tem cabeça, é que está louco. Enéas. Não te entendo. Bal. Mas, Senhor, falemos sinceramente; não cuidei que tu eras tão douto. Enéas. Porque o dizes? Bal. Porque deve deitar bom chorume, e é certo que é boa. Enéas. Isso mais me parece ódio, que estimação. Bal. Ódio! Qual ódio! Há certo Rei que deseja ver a tua cabeça em poder de Mouros; porém Dido não a quer ver dada a perros. Enéas. Cuido que deliras194. Acto II, cena V Cal. Guarde-os Deoso sioro blanco; dar vozo a mim notícia de mi sioro pleto? Enéas. Que dizes? Cal. Mim quere falar a mim sioro, e tem corrido por ver a mim sioro, e não pode a mim acharo a mim sioro, porque mim sioro não parece, e se vozo sabe de mim sioro... Enéas. Vai-te, que não te entendo. Cal. Pois os pai Calambuco não sa gaguiadoro; mim vem em busca de mim sioro. Enéas. Quem é teu Senhor? Cal. Mim sioro sá El–Rei mim sioro; não sioro, sá os Embaixador del–Rei mim sioro. Enéas. Aparta-te de mim. Cal. Oia vozo que mim sioro sá hum sioro de todos os diabos, e se vozo não cata os respeito aos Embaixadoro del–Rei mim sioro. Enéas. Oh atrevido! (Dá-lhe) Cal. Fóra daqui que há us purga, mim não sá pioro, para sero esmagado no sus unhas. (Esconde-se) 195 Una particolarità però si richiama sin dall’elenco degli attori stampata sul frontespizio, non solo perché gli stessi Enea, Iarba, 194 195 Ivi, pp. 10-11. Ivi, pp. 21-22. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 257 Araspe e Osmida vengono per la prima volta definiti galan, il castiglianismo che indicava l’attore di bell’aspetto e maniere eleganti che il teatro utilizzava preferibilmente nel ruolo del seduttore o dell’innamorato, ma soprattutto perché vengono esplicitamente definiti con il termine di preto i personaggi africani di questa azione, definizione che avrà ripercussione soprattutto nelle battute dei criados. Bisogna infatti sottolineare che tutti i dialoghi pronunciati da Chamariz (“richiamo” e “allettamento”), serva di Didone, Balandrau (“palandrana”), servo di Enea, e Calambuco (“albero orientale dal legno aromatico”), servo di colore del re dei Mori Iarba, non sono nient’altro che una serie di canzonature piene di luoghi comuni, dalle sfumature chiaramente razziste, riguardanti esclusivamente il colore della pelle di Calambuco, quale elemento detonatore di un insieme di battute di spirito che difficilmente oggi strapperebero un pur minimo sorriso. Nel gioco di questa continua ridicolizzazione del servo nero, rientra anche la stessa parlata che si presupporrebbe africaneggiante e che abbiamo già incontrato con il personaggio di Calote travestito da spirito dell’aldilà nell’Alexandre na India, di cui non solo si ripete il lessico, ma anche certe storpiature fonetiche. Le battute in questo senso si sprecano: [...] ele não é menos que um Embaixador; e quando vai a gente imaginar a Fidalguia, acha-se em branco; e assim já não é tão negro como o pintam; diz mais esta má lingua, que nem os olhos tem alvas; e se ele é negro, algum olho ha de ter alva de cão; mas ele é cão, precisamente há–de ter ossos nos dentes; mas tudo isto passou em claro [...] o negro é tição do Inferno: porém eu não me quero queimar com ele196. Un minimo intreccio che vorrebbe Calambuco e Balandrau rivali in amore per Chamariz, seppur meno insistito che in altri adattamenti, ha inizio allora dalla seconda scena del primo atto. 196 Ivi, pp. 6-7. 258 Capitolo II Dido desamparada, destruição de Cartago (1782) Acto I, cena II (Vista de Pátio Real) (Sai Balandrau e Calambuco) Bal. Ando buscando a Enéas em Cartago, mas suponho que é buscar agulha em palheiro. Cal. Ah sioro blanco, dar vozo a mim uns palavra. Bal. Outro cachorro comigo. Eu ando comido de negros. Pois cuidei que nem cães me comeriam. Cal. Chega, chega vozo pala mi. Bal. Que me chegue para ele? De burro: eu não sei se ele morde, não, chega tu para cá. Cal. Mi não pode, polo que fá aqui de guarda a uns plezente. Bal. Ora chega, chega para cá, tó, tix, tix. Cal. Vozo está escalnicando dos pai Calambuco, é, é, é, é. Bal. Ele enfada-se; eu não quisera saber como ele morde. Que é o que queres, paizinho? Cal. Mi sabe que vozo sar sevandija dos Palácio, e quer entregar a vozo uns plezente para a siora Princeza brincaro. Bal. Um prezente? Eu aceito, e depois veremos quem há–de ser seu dono. O’ paizinho, venha o prezente, que eu o que poderei fazer é entregá–lo em mão própria. Cal. Mi vai buscaro. Bal. Ora vai, e vem depressa. Cal. Oia vozo que é uns plezente dos plezente. Bal. Já sei, traze-o depressa. Cal. Oia vozo que é uns plezente de primoro. Bal. Já sei, havia. Cal. Oia vozo que leva com muito sentido. Bal. Má peste te caia, havia com isso. Cal. Mi vai buscaro. (Vai-se) Bal. O cachorro estava-me fazendo perrices: fui bem afortunado! Ora eu como-lhe o prezente e safo-me. (Sai Calambuco, com um Tigre) Cal. Ah, ah aqui está os plezente. Bal. Ai, ai, ai! Passa fora cachorro. Ai que é um Tigre: ai quem me acode, ai que me devora; ai que me atassalha. Cal. Náo tero vozo medo, que é pioro: á, á, á, á. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 259 (Deita Calambuco o Tigre para dentro, e canta a seguinte) ARIA So lexa que fuja os bixo, Os animar pouco astuto, Oia, se os Tigre sa bluto, Sar sarvaje sua mercê, Guaia-me, guaia-me, Zabambu, zabambu, Gurguja, gurguje. Ai, le, le, le, le, le. (Vai-se) Bal. Vai-te com todos os de cavalo, olhem a minha fortuna: mas tal gente, tal prezente; ora escapei, de boa: mas esperem, não escapei, cá tenho nas meias dois pontos e uma virgula; mas também o pretinho leva boa sarna197. Acto I, cena II (Sai Chamariz, e Balandrau) Bal. Sio, ó menina. Cham. Que é o que queres Balandrau? Bal. Chega para aqui. Cham. Ainda aqui não basta? Bal. Agora sou eu Chamariz. Cham. Sejas tu Balandrau Chamariz, ou Balandrau, dize já o que has–de dizer. Bal. Cala-te, não digas nada, que isto é uma coisa de grande segredo! Cham. Pois eu o guardarei com grande cuidado. Bal. Vê lá o que dizes, olha aonde o guardas, não o percas; e adeus, fica-te embora. Cham. Sio, ó Senhor Balandrau. Bal. Que é o que queres, Chamariz? Cham. Dize-me aqui uma palavra. Bal. Ora acabe, que tenho muito que fazer. Cham. Com que V.m. entrega-me um segredo, e vai-se como quem não diz nada? Bal. Ai, é verdade! Nem tal me lembrava. Pois has–de saber... Cham. Saberei, se tu mo disseres. Bal. Que meu amo, eu, e mais meu amo somos quatro, noves fóra dois. Cham. Ora acaba já tu, e mais teu amo. Bal. Estamos-nos indo embora por instantes. 197 Ivi, pp. 9-10. 260 Capitolo II Cham. Vocês, que se vão, más vasilhas devem ser, pois teu amo deixa-nos, e vai-se? Bal. Nem mais, nem menos. Cham. E tu também te vás, me deixas? Bal. Eu sim me vou; porém deixar-te, isso não hei–de eu fazer. Cham. É possivel que te has–de partir! Bal. Partir-me? Salva tal lugar! Não; hei–de me ir muito intero. Cham. Quem te obriga a ausentar-te? Bal. Olha, há umas noites que sonho com meu pai, e ele me fala por boca de ganço, dizendo assim: Obedeces aos Deuses? (Em falsete) Cham. Pois a ti também os Deuses te chamão? Bal. Porque, meu amo é mais do que eu? E ele quer um Deus para si, e outro para os outros? Não está aí Baco, que anda pelas tabernas! Cham. Em fim, te vás, Balandrau? Bal. Eu não sou Balandrau Vás, sou Balandrau da Fonseca. Cham. E não me has–de ver mais? Bal. Não, Chamariz, em meus dias. Cham. Eu não sou Chamariz Dias, sou Chamariz de Andrade. Bal. E tu também te vás; mas não te ausentas sem fazer-mos a nossa despedida solemne. Cham. Pois com efeito queres nos despediçamos? Bal. Pois que, queres despedida? Isso ainda é peior. Ora começa tu. Cham. Ora não seja tolo, comece ele. Bal. Não seja tola, comece ela. Cham. Olhe não lhe finque dous murros por despedida. Bal. Se lhe deu uma pancada, com esta me vou. (Fazem que se vão) Cham. Ora vá-se com não sei que diga. Bal. Ora fique como quem é. Cham. Ouve, torne cá que lhe caem as calças. Bal. Pois se me caem as calças, venha-mas levantar. Cham. Eu quero quebrar por mim, que nisso mostro ser a mais fina. Bal. Sim, que tudo o que é mais fino, quebra com facilidade. Cham. Pois ficamos galantes, eu quebrada, e tu partido! Bal. Ai, e que remédio temos nós, senão grudar-nos! Cham. Ora deixa-me ver se posso chorar um bocadinho. Bal. Chora. Cham. Ai, não me fales à mão, mofino, que já irão as lágrimas saindo pelos olhos, e tornarão-se a recolher para dentro. Bal. Eu também estou seco como um pão; e por mais que me esprema, não faço nada com isso. Cham. Olha, não sabes que raiva tenho agora a este negro coração, que tão duro está. Bal. Espera, que já dei em uma boa frase para te fazer chorar. Cham. Ora dize o que é, dize. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Bal. É dar-te um pontapé no vazio, e huma bofetada em cheio. Cham. Eu não quero chorar por força, senão por jeito; mas ouve. Vais-te, fico, há tal fadiga! Como sentimos os dois, Se tu te vás: eu depois Que farei! Não sei que diga: Pois chorar me não obriga Esse tormento preciso; Mas deixo já o indeciso; Sabes que hei–de fazer? Penar, sentir, padecer; Porém chorar, isso é riso. Bal. Acabou V.m.? Agora eu. Vou indo-me, e estou tremendo Me mate o que vou sentindo, Que aquele que se está indo, É certo que está morrendo: Chorar eu ao ir-me, entendo Que é do meu amor decoro; Hei–de fazer, pois te adoro, Meu pranto; mas é o diabo Que hei–de chorar, e no cabo Hei–de me ir atrás do choro. Cham. Muito bem, Senhor Balandrau. Bal. Espera, que agora quero fazer a minha despedida em Aria. Cham. Isso agora é outro cantar. (Canta Balandrau a seguinte) ARIA Esta vai por despedida, Esta vai, sim vai esta; Mas que é isto! Ai que ela chora: Vou-me embora nesta hora; Sim, Senhor, Olhe agora, olhe agora, Quando cá um homem se via A menina com que vem : A cantiga do ai, ai. 261 Capitolo II 262 Ai lé, li, lé, li, ló, lé, Ai ló, lé, meu bem. (Vai-se) 198 Cena IV (Sai Chamariz) Cham. Tomara encontrar o Senhor Balandrau, pra lhe restituir a sua despedida. Cal. (Dentro) Ai uns menina tão flemosa. Bal. (Dentro) Ai a Senhora Chamariz de Andrade. Cal. Mim vai faze um rendimento amante. (Sai) Bal. Eu saio-lhe ao encontro; mas ter mão, que por pouco não dou um encontrão no preto. (De dentro) Cal. Os mia siora, os mia menina. Cham. Ai que forte cerração se vem chegando para cá! Bal. (dentro). Ai que barril de breu se vai apropinquando! Cal. Põe vozo em mim esses oio tão flemoso. Cham. Ainda que tos ponha, não te posso ver, porque faz muito escuro para essa parte. Bal. Olhem o cachorro com vicios! Já te cheira? Cal. Vozo sá blanco, porque esse roso sá os alvo dos meu suspiro; e mim sá pleto, porque sá chamuscáro do fogo do amoro. Bal. Não é nada, o cachorro vem com fogo no rabo. Cham. Afasta-te para lá, não me enfarrusques, porque dessa negra boca cada alento é uma máscara e um murrão cada perdigoto. Bal. Ela vai-lhe dando com a munição. Cal. Mim quere vir captivar a vozo com as mia fineza. Cham. Eu captiva de um escravo! Cal. Mim sar escravo dos amoro. Cham. Logo me parece que tu havias de ser cão de cego. Bal. Agora boa lha disse, abençoada a mãe que te fez e o pai que te pario; boa lha disse. Cal. Poe se vozo não sá mia, mim coração sá tua. Cham. Mal pode fazer união O que em ti se vê e em mim: Um brinquinho de alfenim 198 Ivi, pp. 13-15. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 263 Com um cepo de carvão; Mas bem é que fique um cão A ouvir-me, de raivozo; Se quer vir a ser esposo, Eia, cão, vai já a ela: Pois para alguma cadela Só está guardado este gozo. Cal. Escuta vozo uns migaio. Deixa vozo plezunção, De que morderos não posso, Que como maior sá osso, Não sar segura dos cão: Ele vozo canzarrão O se os pletinho te gabo, Pol um, e pol outro cabo Conresponde ao que me toca, Porque mim morde com os boca, E faze festa com o rabo. Bal. Não, tem muito boas habilidades o cachorro; passa fora daí, maldito. (Vai saindo e dá-lhe) Cal. Que dize vozo a mim? É, é, é, é. Cham. Senhor Balandrau, desfaçamos a nossa despedida, pois não se verificou a sua ausência, não ficou valiosa a despedida. Bal. Despeça-se V.m. do negrinho, e depois fazemos contas, e quem dever pagará. Cal. Mim dar a vozo uns Tigre, dar vozo a mim os menina. Bal. Esta menina, aonde você a vê, é um Tigre em carne viva, noves fora os manchas. Cham. Eu sou Tigre, aquele é cão, e tu és asno, olha que diversidade de animais. Bal. Ainda assim, o negro é mais asno do que eu. Cham. Porquê? Bal. Porque a mim farme–ão arreburinho; mas a ele hão–de dizer-lhe arre como cão. Cal. Oia que te quebro os cabeça, se me dize essas glaça. Bal. Guarda-te para lá, que eu estou zombando. Cham. Balandrau estava tremendo de medo. (À parte) Ouve, bem puderas tu fazer a este pretinho alvo da tua ira. Cal. Não me dize a mim poucas vlegonha, porque há de arrancar os vida. Bal. Chamariz mete-me em perigos, mas eu hei–de metê–la a ela em hum chichelo. (À parte) Ora lá vai paizinho, não desconfies, que tudo é graça. Cal. Não sioro. Capitolo II 264 Balandrau. Tem rosto de sapato o seu carão, E nelle o cabedal que lhe convém, Pois em beiços, em olhos, e faces tem Atanado, bezerro e cordovão: De barro dizem que os outros homens são, E este feito de pez todos o crêem, Ou é porque o negro couro a cor lhe tem Graxa, pós de sapatos, e carvão. Quando as entranhas maternas o expeliu, E uma tal negrura apareceu, Foi serração, ou nevoa, que cahio. Porque quando a natureza ao mundo o deu, De tão escuras sombras o cobriu, Que nem saiu à luz quando nasceu. Cal. Oh, oh, oh blanco desavolgonhado, oia que te é de arrancar esse lingua; não pega em mim, Chamarizo. Cham. Oh lá, Senhor Calambuco, agora falo eu, e veja que agora é outro cantar. (Canta Chamariz a seguinte) ARIA Deixa que ladre o cachorro, Quando logras meu carinho, To, tix, toma lá pão. (Para Calamb.) Vem tu cá, meu cachorrinho; (A Bal.) Passa fora canzarrão, (A Cal.) Mas não estejas tão ufano, Palitando com o tó tó; Porque a ti to hei–de assular, Abóca, abóca perro; Porém ah, ah, se mordes has–de levar. Vão-se199 Acto III, cena VIII (Sai Chamariz) Cham. É boa história, que não tenha uma pessoa a quem se queixe! Dou ais, e dou suspiros, e ninguém me escuta; como se o dar fosse em mim pedir! Mas já 199 Ivi, pp. 23-25. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 265 sei que é tal a minha desgraça, que quando dou queixas, não me querem dar ouvidos; tomara achar uma alma, a quem descubra o meu peito. (Sai Balandráo) Bal. Oh que boas coisas essas para a minha alma; aqui me tens em corpo, e alma com orelhas, e tudo. Cham. Balandrau! Bal. Chamariz! Cham. Eu... Bal. E mais eu... Cham. Pois fale eu, e falarás tu. Bal. Não, como nós falamos ambos pela mesma boca, não fale eu, nem tu, fale V.m. Cham. Já sabes que estamos comidos de Mouros, que nos introduziu o tirano Jarba. Bal. E sei que a pobre Rainha está estalando, porque não lhe escape o querido Enéas. Cham. Deixa-me, que Enéas está damnado. Bal. Deixa-me, que a damnada é a Rainha. Cham. Porque é damnada a Rainha? Bal. Por sopas; e Enéas porque está damnado? Cham. Porque vai às ondas. Bal. Então que queres que faça? Cham. Que case, e carregue com ela às costas, para que se diga que por ela deixarás Pai e Mãe. Bal. Filha, para que estarmos falando nas vidas alheias; trate cada um de si, e vamos andando. (Pega-lhe) Cham. Mas para que me pegas? Bal. Para ir tratar de ti, que tu és a minha vida. Cham. E aonde me levas? Bal. A Itália. (Sai Calambuco) Cal. Não há–de ir, senão aos Mourama. Bal. Ei–lo comigo; o negro preto que nunca se aparta de mim, deve de ser a minha sombra. Cham. Aqui há um bom rato, que há cães que também os apanham. Cal. Quer vozo vai comigo! Bal. Queres tu que vá com V.m. 266 Capitolo II Cham. Aquele que me fizer melhor partido, esse me levará toda inteira. Cal. Nos Mourama has–de lograr muitos fortuna. Bal. Na Itália has–de ter muitos aumentos. Cal. Nos minha terra terás nos marido uns escravo, e em cada pleto uns cativo. Bal. Em Itália has–de ter um marido como eu, quatro chichisbeos e duzia e meia de senhorias. Cham. Entre senhorias, e senhorios não sei qual escolha. Bal. Como? Cal. Poro que? Cham. Porque os senhorios conhecem-se pelos escravos, e as senhorias pelos obséquios. Bal. E qual é o obséquio, que não seja de um cativo! Cal. E qual é os cativo, que não seia os obzeco? Cham. Eu sempre acho que escravo é fazenda de maior preço. Bal. Que é o que dizes, mulher, queres ir dar contigo em poder Mouros, para que eu fique arrenegado? Cal. Dize bem os menina, dize bem... (Rindo-se) Cham. Vamos, Senhor Calambuco; Senhor Balandrau, adeus. Cal. Adezo sioro Balandrau. Bal. Ah cachorra, vais-te com um negro, e eu fico como um preto: demais a mais, não era melhor um homem branco? Isso é verdadeiramente fazer uma perrice. Cham. Senhor Balandrau, adeus. Cal. Adezo sior Balandrau. Bal. Tomara uma peça de artilheria para os matar a ambos cá de longe. Cham. Mas ai! Apelo eu por mim! Aonde ia eu quando ia com ele! Parecia-me que me levava o diabo, de que Deus me livre. Bal. Diz muito bem a menina, diz muito bem... (Rindo-se) Cal. Ho rite blanco, que tu já sabe como eu morde cos bambu. Bal. Isso é quando tu alvoras de cacheira; mas tu também sabes como eu remo; ora meu bem, se não vás com quem te assusta, é justo que vás com quem te adora. Cham. Vou contigo, porque me levas com boas palavras; vamos, Senhor Balandrau, Senhor Calambuco, adeus. Bal. Adeus Senhor Fernambuco. Cal. Ah maioro poca vergoias, ainda bem que mi sioro há de pôr os fogo a essa Cidade, e ambos vozo há de morê queimado. Cham. Senhor Calambuco, adeus. Bal. Adeus Senhor Calambeque. Cham. Mas ai, aonde vou eu? Assim às mãos lavadas me querias ir deitar no mar; pois faço-me navolta da terra. Bal. Nem tanto ao mar, nem tanto à terra, em tudo me queres tratar como um preto. Cal. Sá bem feito. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 267 Cham. Eu sim me fora, mas tenho tanto amor a esta terra, que se eu a ir me resolvo, se partir, hei–de ficar. Cal. Se partir hei–de ficar; isso é mote? Cham. Pois glozá–lo. Bal. Oh Calambuco, vamos a ele ambos de ajojo, que em ti não é impróprio. Cal. Começa vozo. Bal. Não, começa tu. Cal. Não teimar, começar vozo. Bal. Se partir hei–de ficar. GLOSA Bal. Parto meu bem. Cal. Ai tar lida! Quere vozo ir embora? Bal. Fora-me eu, se fosse agora. Essa cabeça partida. Cal. Vai, e fica, arma perdida. Bal. Não sei ainda o que hei–de obrar. Cal. E se eu os bola te quebrar. Bal. Hei–de me ir com toda a pressa. Cal. E se acaso mi cabeça Se partiro. Bal. Hei–de ficar. Cham. Fizeram-no muito bem. Bal. O preto tem estilo escuro, porém eu sempre falo mais claro. Cal. E qual de nozo leva os parma? Cham. Aquele a quem eu der a mão. Este é que ha–de levar a palma. Cal. Pois antances dá-me a mão. Bal. E a mim dá-me o pé se quer para pedir-te um dedo. Cal. Não pegar nesse, que sá uns mão de rabo. Bal. Não toques nessa, que é uma palma de vassoura, que é a coisa mais clara que tem o negrinho. Cham. Ora para que fiquem sem escrupulo, eu digo umas palavras que dispõem o que ha–de ser; estendam outra vez os manguais. Cal. Ahi sá os meu manguallo. Cham. Cesta barresta do rabo da besta, diz minha avó que não quer senão esta. (Aponta para a mão de Balandrau) Cal. Que disglaçado! Bal. Que venturoso! Cal. Que enfelicho! Capitolo II 268 (Cantam os tres o seguinte) TERCETO Bal. Quem é negro, quem é feio! Cal. O diacho te leve. Cham. Oh meu cão! Cal. Os mia menina! Bal. Não se chegue o pez à neve. Cham. Se teu peito a amar te inclina, Olha quantas legoas vão De cadela a canzarrão. Bal. Deixa preto a presunção. Cal. Cala os boca, toleirão. (Para Bal.) Cham. Tu também não tenhas vícios, Que eu quero morrer donzela. Bal. É desgraça como aquella! Cal. Faze bem, por vida mia: Ah, ah, ah, muito alegria (Rindo-se) Sente mim nos colação. Bal. Como ri, fora com o cão. Cham. De nenhum a mão aceito, Porque a ambos dou de mão. (Dizem juntos cada um o que lhe compete da última quadra, e vão-se)200 II.10. Demetrio. L’edizione di Coimbra del Demetrio è uno dei rari casi in cui, nonostante l’anonimato del suo traduttore, questi viene citato già dal frontespizio come «hum dos mais respeitosos apaixonados» di Metastazio (sic), laddove proprio l’aggettivo “rispettoso”, come a dire fedele in termini traduttivi (e chissà se anche in termini polemici rispetto al dilagare degli adattamenti metastasiani) è cifra distintiva di questa versione del 1771. Fedeltà, s’intende, quanto ai contenuti, poiché vari esempi dichiarano sin dall’inizio la libertà stilistico– compositiva dell’appassionato traduttore portoghese: 200 Ivi, pp. 33-36. Metastasio, padrão de vida do século XVIII DEMETRIO 1731 269 DEMETRIO 1771 Atto I, Scena VII Acto I Coro Ogni nume ed ogni diva Sia presente al gran momento, Che palesa il nostro re. Primo Coro Scenda Marte, Amor discenda Senza spada e senza benda. Secondo Coro Coll’ulivo e colla face Imeneo venga e la Pace. Primo Coro Venga Giove ed abbia a lato Gli altri dèi, la Sorte e ‘l Fato. Secondo Coro Ma non abbia in questa riva I suoi fulmini con sé. Coro Ogni nume ed ogni diva Sia presente al gran momento, Che palesa il nostro re201. Coro Deuses do alto Firmamento, E Deozas gentis descei, A assistir neste momento, À eleição do nosso Rei. Primeiro Coro Desça Marte, Deus guerreiro, E Cupido Deus do amor: Mas sem venda o Deus frecheiro, E sem espada o do furor. Segundo Coro Co’ a fructifera Oliveira, E a Tocha Nupcial acesa, A Paz venha, companheira De Himenéu, na gentileza. Primeiro Coro Venha Jupiter potente, E propício traga ao lado, Dos mais Deuses, cópia ingente, A Fortuna, A Sorte e o Fado. Segundo Coro Mas benigno, neste dia, Para nós, o Deus tonante, Não perturbe essa alegria, Com seu raio fulminante. Coro Deuses do alto Firmamento, E Deozas gentis descei, A assistir neste momento, À eleição do nosso Rei202. Decisamente più interessante è il manoscritto copiato da Antonio José de Oliveira il 9 giugno 1783 (fig. 36), dal titolo Demetrio em Siria, in cui non solo il traduttore muta ruolo a Barsene, per 201 P. Metastasio, op. cit., vol. I, pp. 428-429. Demetrio, drama composto em Italiano pelo Senhor Abbade Pedro Metastazio poeta cesareo, traduzido na lingua Portugueza por hum dos mais respeitosos apaixonados de seu Author, Coimbra, na officina de Pedro Giniux mercador de livros, anno 1771, pp. 21-22. 202 270 Capitolo II Metastasio solo confidente della regina siriana Cleonice, qui direttamente sorella della medesima, ma anche per l’intromissione di tre nuovi graciosos: Palmatoria (“ferula, sferza”, detta anche meninade-cinco-olhos203, espressione su cui si giocherà a più riprese, come nel rimprovero dell maestro di musica: «Que diz menina, os Mestres não tem cá medo de Palmatoria, temos agora aqui por V.m. o discipulo supra magistrum, a culpa tenho eu que venho aturar uma velha com cataratas, e uma menina de cinco olhos»)204, serva di Cleonice; Alfarroba (“carruba”), anziana nonna di Palmatoria; e Contraponto (“contrappunto”), musicista e servo di Alceste. Ci troviamo di fronte ad un caso decisamente diverso di triangolo comico–amoroso, in cui le figure femminili rivestono per la prima volta il ruolo di contendenti in amore del personaggio maschile in scena, il quale non risparmierà il gioco verbale sul filo ironico della giovinezza dell’una di contro all’anzianità dell’altra, con uscite comiche facilmente immaginabili e molto probabilmente ispirate all’adattatore portoghese dal personaggio vicentino della vecchia Filippa Pimenta dell’Auto da Festa, sedotta dal giovane rascão Gil Tibabo, il quale non può che commentare con sarcasmo la circostanza: RAS. Não he de maravilhar moças fermosas e bellas desejarem de casar, pois que velhas sem arnelas se querem inda encachouçar. Senhoras! que vos parece Destas velhas engelhadas? estão meas entrevadas e tão sois não se conhecem; 203 «Instrumento de castigo que se usava nas escolas primárias e que consistia num pau torneado com trinta centímetros de comprimento, que terminava numa espécie de bolacha, também de madeira, com dez centímetros de cinrcunferência e dois de altura, a qual tinha cinco pequenos furos e servia para dar palmatoadas», in G. A. Simões, op. cit., p. 432. 204 Novo Drama intitulado Demetrio em Siria, copiada por Antonio Jozé de Oliveira aos 9 de Junho de 1783, p. 10. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Figura 28. (BN, F. 111). 271 Capitolo II 272 Se estas com todos seus danos andam da sorte que vedes sendo de tanta idade, que farão as de quinze annos senão romperem paredes por cumprir sua vontade? Mas porem quem isto entende achará clara rezão que quanto mais velhas são tanto mais nellas se acende este fogo d’alcatrão205. E la sorprendente figura di questa anziana donna, Alfarroba, decisa a rivaleggiare in amore con la nipote nella conquista di Contraponto, attuerà dunque tutta una serie di strategie di avvicinamento al suo oggetto del desiderio, prendendo proprio spunto dal ruolo di musicista del gracioso, i cui insegnamenti l’anziana serva vorrebbe apprendere tanto quanto la nipote: Contr. […] Senhora que diz, está doida? Ainda V.m. com esses annos tem leviandades. Alf. Não se faça malceiro: o que lhe quero dizer é que vamos dar a lição. Contr. Ora deixe–se disso, que he muito bom para crianças: não acabará de desenganar–se, que burro velho não aprende língua, mande–me vir a menina depressa, que não estou para demoras. Alf. Não tem que segurar, ou me há–de ensinar por força, ou me há–de dizer o defeito que me acha. Contr. Não sabe que a Solfa quer uma grande tentativa, e que V.m. nem ao menos se lembra dessa idade que tem. Alf. E pois a música não? Se pode aprender bem em qualquer idade. Contr. A música moderna não senhora: a Solfa tem seu tempo regulado, e tudo fora dele é um finissimo destempero. Alf. Pois eu não tenho garganta capaz para trinos! Contr. Não Senhora V.m. esta só em termos de a acompanharem os franciscanos. Alf. Nem sequer terei habilidade para os instrumentos? Contr. […] em fim senhora já lhe disse que não estou para vagares e que me manda vir a menina que são horas. 205 G. Vicente, op. cit., pp. 553-554. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 273 Alf. Visto isso póde V.m. então buscar sua vida que eu buscarei também outro mestre para Palmatoria206. La preferenza di Contraponto per Palmatoria lo costringe, tuttavia, ad assecondare la volontà della nonna, unica tutrice della nipote ed in grado di acconsentire o meno all’incontro tra la giovane e il maestro. Ma il compromesso a cui Contraponto scende per poter restare vicino a Palmatoria non riesce a frenare le sue manifestazioni d’intemperanza nei confronti di Alfarroba, descritta dal traduttore come una figura ingenua e sprovveduta (si veda a questo proposito una battuta come : «se fora Narciso podia namorar–me com razão da minha beleza»)207: Contr. […] Ora sentesse para aqui, e volte depressa o rosto para acolá. (Senta–se ao cravo nas duas cadeiras e mete–lhe Contraponto um dos papeis de solfa na mão. Alf. Que volte a cara, isso parece–me descortesia. Contr. Qual descortesia: isto é porque não gosto do cheiro de Alfarroba. Ora tome sentido comecemos por aqui: vê esta figura? Alf. Qual figura, a de V.m. ? Contr. Aquela que ali está naquela linha preta. Alf. Eu não vejo aqui linha nenhuma. Contr. […] ela cuida que são algumas linhas de cores, e eu falo–lhe em linhas de contraponto: a mulher deve estar tão bebada que nem vede que cor é esta linha. (À parte) A senhora V.m. está ainda por ventura em jejum? Alf. Sim Senhor ainda hoje não tomei senão um pouco de chá. Contr. Melhor tivera bebido uma poça de…(À parte) Pois alguém que aprende Solfa toma chá e vem dar lição em jejum! […] uma coisa que é totalmente reprovada pelos doutores Morescos! Em jejum! Não sei como aqui lhe não tem dado algum estupor! Vá–se embora depressa Senhora. Alf. Ai que é o que me diz? Não me asuste olhe que me desmaio. Contr. Vá meter depressa os pés com água fervendo; livre–se de ares armoniosos: olhe que já principia a fazer–se–lhe a cara de cera. Alf. Desgraçada de mim quem me acuda nesta aflição? Palmatoria! Palmatoria! (Vai–se dando vozes) 208 206 Demetrio em Siria, op. cit, p. 7. Ivi, p. 32. 208 Ivi, p. 8. 207 Capitolo II 274 La comicità tocca le sue vette più alte nel momento in cui Contraponto chiede Palmatoria in sposa e, a causa di un voto di quest’ultima che le impedisce di contrarre matrimonio, il maestro di musica finisce per ritrovarsi fidanzato all’anziana nonna, benché cercando in ogni modo di sottrarsi alla promessa (tenta infatti di convincere lo stesso re di Siria a non considerare lecito tale compromesso, usando espressioni di scherno e di disprezzo nei confronti di Alfarroba: «Senhor V. Ex.a não repare nas loucuras desta mulher; que isto de velhas são como os papagaios que não falam senão aquilo que ouvem dizer»)209: Pal. Eu tenho feito voto; renuncio a merce. Contr. Se o voto é pobreza pode estar segura que o não há–de quebrar na minha companhia. Alf. Ora menina visto tu não quereres, eu sempre aceito a oferta por não parecer esquiva. Contr. Agora não há–de ela querer, a menina é muito bem ensinada, e não há– de dizer que não a seu Mestre. Pal. Agora não, de mim pode tirar bem o sentido, que o meu é somente de ser priva. Contr. Se isso em V.m. é cumprimento com a Senhora sua Avó eu por evitar questões casarei com ambas de duas […] Alf. Ai não Senhor, é escusado, para que é fazermos confusões no negócio se eu basto só para tudo. Contr. Estou bem aviado: emcaixou–se–lhe na cabeça o dito e agora não há– de haver mais remédio que aturá–la por conta da dependência: tomara meter– lhe outro susto no corpo, a ver se lhe dava algum acidente que lhe tirasse semelhante desproposito do sentido. […] Alf. Pois Senhor Contraponto o falado falado: fica por minha conta o negócio: eu me levanto daqui; traga–me V.m. um memorial […]. Contr. O memorial aqui vem já feito, […] (Tira um grande papel) Alf. Ora venha o memorial e que diz ele. […] Contr. Aria Diga–lhe que componho E canto lindamente Que toco de repente E sei mui bem bailar 209 Ivi, p. 24. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 275 Diga–lhe o mais que vir Que é justo e que lhe agrada Mas não lhe diga nada Acerca do casar210. Dall’aria appena citata comprendiamo trovarci di fronte ad una rappresentazione musicata che s’inserisce a pieno titolo in un contesto in cui un maestro dal nome significativo di Contraponto in più occasioni si trova sulla scena in atto di suonare l’organo o di impartire lezioni di solfeggio; oltre a ciò, arie, recitativi e duetti ritornano frequentemente nell’azione dei tre criados di questo Demetrio em Siria, in momenti quasi insignificanti (si veda il duetto creato solo per illustrare l’aiuto che Contraponto dà a Palmatoria per sollevarsi da terra), o solo per colorire beffe e canzonature (è il caso dell’aria cantata, tra le lacrime, da Palmatoria contro la nonna che poco prima l’aveva malmenata per aver accettato di sposare il tanto conteso maestro di musica): Dueto Contr. Levanta–te. Pal. Segure–me. Contr. Acima. Pal. Ai, tenha mão. Contr. Não quer assim? Pois não. Vá de outra sorte assim. Pal. Com tanta força não. Devagarinho, assim. Contr. Segura–te. Pal. Não posso firmar–me bem nos pés. Ajude–me outra vez por compaixão de mim. Contr. Sustem–te bem nos pés. Agarra–te outra vez. Não tenha dó de mim211. Aria chorando Palm. Deixe–me rabugenta arrende–se daqui vá lá cascar em si escuse de me dar. 210 211 Ivi, p. 21. Ivi, p. 36. Capitolo II 276 Não ouve, olhe que grito se torna a por–me a mão ora, ora tenho dito para velho não há–de casar. (Dá–lhe) (Dá–lhe) 212 Un particolare curioso è poi un riferimento extratestuale, forse unico nel suo genere, messo in bocca dall’adattatore a Contraponto, personaggio che, ancora una volta, risulta essere il perno di tutta l’azione grottesca creata dai tre graciosos. Si tratta dell’accenno al Teatro da Rua dos Condes dove molto probabilmente ebbe luogo la rappresentazione di questo adattamento del Demetrio metastasiano, luogo richiamato dal maestro di musica in senso certamente comico (si riferiva alla domanda postagli da Olinto circa il luogo in cui si trovasse Alceste), ma che dimostra un adattatore di chiara e spiccata inventiva e originalità. La situazione, per di più, è arricchita di ulteriore comicità se si pensa alla conclusione rocambolesca della scena: Olin. […] aqui está Contraponto de quem averiguarei miehor a verdade Contraponto aonde ficou teu amo? Contr. Meu amo; Senhor Olinto, ficava agora qando eu para aqui vim no teatro da Rua dos Condes se V. Ex.a mandasse daqui todos para fora, eu lhe contaria acerca disso uma coisa de grandissima importância. Olin. Retirai–vos todos. […] Contr. Isto senhor é uma corja de loucos, não lhe dé mais ouvidos, e mandeos embora depressa, que ao depois não lhe aproveita o segredo de nada. Olin. Ide–vos sem mais demora. […] Olin. Já estamos sós: que é pois o que tens para dizer–me. Contr. Ainda não creio que me vejo livre de semelhante canalha, mas que lhe direi eu agora? Mas vá, seja o que for. Olhe cá Senhor Olinto sabe V. Ex.a qual é o segredo. Olin. Sim. Contr. Pois então, como o sabe, escuso de lho dizer. Olin. Dize; ou te matarei. Contr. Agora vem ali meu amo e não lho posso contar, descanse que eu lho direi quando mais descuidado estiver213. 212 213 Ivi, p. 55. Ivi, p. 44. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 277 Benché non vi sia indicazione di un adattamento al gusto portoghese, del resto come nella traduzione appena analizzata, anche una versione del Demetrio, copia manoscritta del 1797, introduce altri tre personaggi arbitrari che possiamo comprendere certamente nella schiera dei noti criados, trattandosi di una dama di compagnia di Cleonice, Sinalefa (“sinalefe” o, al plurale, “combinações amorosas feitas por sinais”)214, già amante di Palito (“stuzzicadenti”, ma anche “corna” come simbolo d’infedeltà) servo di Alceste, ed Espeto (“spiedo”, ma anche “guaio, seccatura”), usciere di Palazzo. Questa versione, che conta tre sole scene per ognuno dei tre atti, tra l’altro molto deteriorata e dalla difficile decifrazione, ci presenta i nuovi personaggi sin dalla seconda scena del primo atto nella ormai classica situazione di assalto amoroso da parte del contendente non desiderato a causa dell’età avanzata (qui da confrontare forse con O Velho da Horta di matrice vicentina) e di conseguente raggiro e messa in ridicolo con relativo danno fisico, situazione che ricorre in molti degli adattamenti già analizzati: Acto I, cena II (Lugar magnífico com trono a seu lado 4 assentos para os grandes, e no fundo se vê grande parte da Seleucia com navios iluminados para celebrar a eleição do Rei. Sai Sinalefa comhum espanador). Sin. Como está esta sala bem ornada, para a Senhora Cleonice se exaltar a escolha do marido. Bem aventurada é aquela que donde escolher, não pelo que aceita que é o menos, mas pelo que despreza que é o mais. A Senhora Barcena bem a aconcelha a que tome estado, e nisto faz o oficio de irmã terceira induzindo-a a que perca de Alceste as esperanças. Mas não sei, não sei porém que me importa se também ela o ama, a me muito embora, quero ir sacudindo estes assentos, portar isto ao meu largo e ser eu naturalmente muito tiradinha do pó. Ao trono nada sacudindo chego eu… mas irei buscar com que…. (Indo) (Sai Espeto) Esp. Como te vi entrar para aqui, vim logo nas tuas ancas, pois tu és a minha… 214 Eduardo Nobre, Dicionário de Calão, Publicações Dom Quixote, Lisboa, 2000, p. 167. 278 Capitolo II Sin. Sempre V.m. anda atrás de mim metendo–me o naris em tudo, e então que quer aqui senhor Espeto? Esp. Quero tomar a minha espetada de conversação, que o meu querer todo é falar que me queira. Sin. Não estou agora para esses assados. (Espanejando) Esp. Isso me dirás tu agora por força de equívoco, mas o que vieste tu fazer agora aqui. Sin. Isto mesmo que está vendo… (Espanejando) Esp. Pois se queres que eu te ajude, dá cá isso. Sin. Senhor Porteiro, eu já lhe disse que me deixasse, vai–se daqui, que me não achem aqui com um velho tão maganão. Esp. Pois faze–me o que te peço. Sin. Mas que é o que pertende? Esp. Casar e mais casar: olha minha como te chamas, quis tu parecer uma Monarca e usurpar a gloria a esta festividade? Pois sobe, sobe, sobe aí a qualquer parte e escolhe–me por teu Soberano, […]. Sin. Sou ainda muito menina para me por nesse estado, e assim… Esp. Menina? E que tal? Tem pouca idade sim porem és corpanzuda. Olha que por amor do fogo de amor ando ardendo em carvões, e tu abutares–me agora na fervura com os teus desdéns. Sin. O que lhe digo é que não quero, e mais não quero esta sua impertinência. Esp. Eu torno, e torno a querer. Ora atende–me. Bem sabes que sou morgado, e se o que tenho há–de hir a outrem melhor é que passe a ti, porque eu ainda estou em os termos de ser Pai. Sin. E com tudo cada vez está mais louco. Esp. Olha que não é tão pouco o que possuo em bens radicais, e então… Sin. Você vai–se, porque V.m.… porque me disgosta não é pelo morgado que tem, entende–me já! Esp. Isto está muito crespo! Venha mais liso. Sin. Que é tolo como um Morgado; percebe–me! Esp. Tolo! á, á, á, á, isso em ti é melindre! Tolo desta idade; e aquele exemplo da sintaxe que ouvi Mens Ratio A Concilio in senibus e A. Sin. Não entendo, isso para mim é latim. Esp. E para muita gente boa. Eu to explico, quer dizer que o Concelho…, mas deixemos isto, e vamos ao em que ficamos! Sin. Em que ficamos, V.m. onde quiser, que eu me vou embora daqui……. (Indose) Esp. E aonde vais tão correntona? Sin. Eu vou buscar um páu comprido com o seu sacudidor em cima, por chegar onde não posso, e de caminho se for preciso para lhe sacudir o coiro, ou os ossos que é o que tem. Esp. Isso te irei já buscar, que lá tenho um bem alto, espera, espera que eu já venho. (Indose) Metastasio, padrão de vida do século XVIII 279 Sin. Detenha–se que me ocorreo outra coisa mais a tempo (quero uma peça pregar–lhe) (À parte) Esp. Pois o que te ocorreu? Sin. Suba–se aqui ao pedestal, e com este tirapó sacudirá muito bem […]. Esp. Como, se eu não chego? E de mais em vendo em tais alturas tremem– me as pernas e então… Sin. Já vejo que não é meu amigo. Você para nada vale! Esp. Ora está bem: inda que me dê alguma parvoice na cabeça subirei, dame cá isso! (Ay amigos quanto me custa!/)(À parte) Sin. Ora tome lá, e diga que nunca lhe dei nada. Esp. Quanto aqui me dás são penas! Ora chega–me aquele assento que ali está. Sin. Estes assentos são para os mais se sentarem, e não para menos subirem. Veja se pode trepar para ali que eu o ajudo. Esp. Muito alcançaria eu se acaso tu me subisses, mas eu não quero que faças alguma força que rendas e eu fique prejudicado, espera vou buscar uma escada, e já venho, espera, espera menina... (Vai–se) Sin. Dizem que amor faz discretos, porém este cadaver está mais camelo! Chegou–me a ocasião de brincar um bocadinho, em quanto não tenho um rapáz que me dê cuidados vou nutrindo com este velho, e vou zombando do tempo, lá vem já com a escada victor sério. (Sai Espeto com a escada) Esp. Esta aqui está boa para o intento, onde hei–de dar como basculho! Sin. Olhe, ali, ali. Esp. Ora vamos ali; sempre me has–de empurar em ordem a ir direito. Sin. Suba suba… (Sobe Espeto com vagar) Esp. Pois agora que cá estou, irá tudo numa poeira bela! Sin. Veja em que altura o pôs. Esp. Oh pois estou aumentando… (Sacudindo) Sin. Mas ai, que ouço rumor grande! Sem dúvida eles são que vem. Esp. É verdade, e então como há–de ser. Sin. Ande, ande para baixo, que nao quero que aqui nos achem assim, e julguem que estamos brincando. Esp. Assim é, deixame descer a pouco a pouco que vou quebrado, e não quero ficar peior. Sin. Não me posso deter mais! Levo a escada e salte como puder…. (Leva–lhe a escada e vai–se) Esp. Para esta não estava eu guardado! Ai que se me desvanece a cabeça, ai e outra vez ai! E que me servio o subir devagar se eu hei–de descer depressa! Oh minha Sinalefa! Qual eles que vem; eu dou um salto bem que desmanche os sapatos, lá vai isso……. (Salta e fica por terra) Vim a terra em corpo e alma. Sinalefa era boa ocasião esta para me dares a mão! Ai e outra vez ai que já 280 Capitolo II entraram Cleonice e os senhores pertendentes; queira amar ó minha Sinalefa que eu chegue algum dia a ter queda para contigo. E não me posso levantar, foi debandada queda…215 Come abbiamo avuto modo di sottolineare, i dialoghi tra graciosos rispecchiano il più delle volte la geometria amorosa propria dei personaggi della trama principale del dramma, di conseguenza frequenti sono i riferimenti alle unioni tra i principi e le principesse in gioco nella fabula portante, quasi in funzione di parallelo serio delle avventure grottesche vissute in piccolo dai servi di turno. Ecco allora che Espeto può pronunciare una battuta rivolta a Sinalefa del tipo: «Não sejas adiantada, olha se a Senhora Cleonice escolheu marido eu quero também levar–te por mulher, olha que ganhas muito em mim»216. Tuttavia, l’azione principale rimane l’atteggiamento di scherno di Sinalefa, a tratti diretto con malizia e con un certo piacere sadico nei confronti ora di Espeto ora di Pantufo, e sempre finalizzato alla messa in ridicolo dei difetti più eclatanti dei due personaggi maschili, ingenuamente disposti a mettere in competizione i propri beni in questa assurda gara d’amore. È inoltre interessante notare come anche in questa versione vi sia più di un riferimento metateatrale, riferito alla finzione stessa della rappresnetazione, come nel caso della domanda che Palito rivolge a Sinalefa nel secondo atto, aggiungendo senz’altro ulteriore comicità all’intreccio interno rappresentato dall’invenzione dei graciosos: «Quero dizer que bem me podia ensinar–me o seu nome, que me esqueci perguntar–lho no primeiro acto em que nos vimos»217. O, ancora, l’impazienza del servo per la ritrosia di Sinalefa commentata come segue: «que esperas que se acabe a ópera sem termos começado?»218. Non mancano, inoltre, le parti cantate, quasi parodia del genere serio di riferimento. Novo Drama intitulado Demetrio em Siria (1783) Sin. Quem me chama? Pal. Quem a chama nada engana. 215 Novo Drama Intitulado Demetrio na Siria, copiado. 1797, pp. 8-11. Ivi, p. 17. 217 Ivi, p. 35. 218 Ibidem. 216 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 281 Sin. E pois o que quer? Pal. Eu queria…. mas….. não sei o que queria. Sin. Pois quer o não quer? Pal. Quero que me escutes, mas não quero que te enfades comigo; depois de me ouvires a mim. Sin. Isso agora é muito querer logo a entrada. Pal. Muito maior é o meu amor que o meu querer. Esp. (É muito maior o vosso desaforo. Velhacos! Ah que….) (À parte) Sin. Amor, disse, é coisa que não conheço. Pal. Pois ele te conhece a ti muito bem. Sin. Muito bem; mas onde está esse bicho, que me dizem ser muito medonho. Pal. Qual medonho; ele toma a forma do lugar em que se acha, o meu mora nas concavidades do meu peito. Sin. Pois se ele toma a forma donde se acha, há–de ser feio quanto um ratel. Pal. Porque minha formosa? Sin. Porque V.m. é fantasioso. Esp. (Já vou perdendo o medo, quando ela o tem do animalejo.) (À parte) Pal. Ora olha, em me tu pondo os olhos com amor, hei–de ser mais bonito do que agora te pareço. Esp. (Sim que quem o seu ama bonito lhe parece.) (À parte) Pal. Não dizes nada? Sin. Não, estou agora para me comunicar, fique–se. (Indo) Pal. Pois assim se vais meu bem. Esp. Mau! Sin. Seu bem, já nós lá vamos! Ai, que rias coisas. Pal. Se o has–de ser antes que seja mais tarde. Sin. Ora V.m. é bem confiado. Pal. Não vai isto bem! Que é duvidado respeito. (E pois não me chama mais nomes que confiado.) (À parte) Esp. (Ele é bem pachorento.) (À parte) Sin. Muitos mais nomes lhe chamareis, mas para gozar–te basta. Não sabe que uma deidade não se adquire sem passar por muitas penas? Pal. Eu até agora não sabia que V.m. era deidade, cuidei que era só Mulher. Esp. (Parece–me um valente salvagem.)/ (À parte) Sin. Mulher não é nome próprio para Damas delicadas como eu sou. Esp. (A moça está divina, mas eu receio que ma leve o diabo do tratante./) (À parte) Pal. Não sejas dessas miudezas. Olhe aqui estou eu que também sou bastantemente melindroso Adonis, […] mas nem por isso deixo de ser macho como um homem. Esp. (Forte coice deu o animal.) (À parte) Sin. (É muito grosseiro e é soldado e basta.) (À parte) Esp. (Anda dá–lhe com monição.) (À parte) Pal. Soldado sou, mas toda a minha empreza é conquistarte. 282 Capitolo II Sin. Talvez que seja de fraco. Pal. Agora fraco! E donde tiras essa conclusão? Sin. Porque lhe não vejo nenhum sinal de valentia. Pal. Com que todas as vezes que não venho com sinais de cotiladas, não sou valente. Pois olha aqui onde me vez; lá na guerra fiz mui feitos. Esp. (Xuxa. Xuxa.) (À parte) Sin. E quais serião eles? Pal. Todos foram feitos a revoadas; mas se aqui são de proveito, curtos ponho na bochexão219. Esp. (O soldado vais saltando uma corja de asneiras.) (À parte) Sin. (A sua mesma confiança e desembaraço me agrada.) (À parte) Pal. (Ela não me responde, devia de desconfiar–se.) (À parte) Sin. Ora eu me vou e talvez que venha que o ensine a ser bem ensinado. (Indo– se) Pal. Pois V.m. vai–se deveras? Sin. Deveras e para sempre fico sua inimiga. Pal. Para ti menina é isso […] pouco. Sin. E pelo que senhor soldado? Pal. Porque sendo para sempre a minha inimiga has–de para sempre ser a minha tentação. Esp. (O homem parece que tem o diabo no corpo.) (À parte) […] Pal. Oh minha menina venha cá. (Não disse bem.) Venha cá minha deidade. Eu estava gracejando, e esta graça não merece castigo de pecado mortal. Sin. Então o que me quer? Pal. Chegue–se mais. Esp. (Quem te chegará.) (À parte) Sin. Pois faleis, bem ouço. (Chegace) Esp. (Por esta moça se chega muito!) (À parte) Pal. Ora diga–me, não tem conveniência de andar aqui roubando aos olhos vistos? Diga! Sin. Pois o que lhe roubei eu? Diga também. Pal. A minha alma esta roubada por esses olhos que são ladrões e matadores, e ainda de roubada, ela é que vens a padecer pelos ladrões! Esp. (Ah bom garrote!) (À parte) Sin. Eu por ora não tenho mortes às costas, e sendo isso roubar–me o procedimento V.m. é que mo tira. Pal. Tomara–te eu mais amante, e menos filosofa, e para de todo concluir tua ama ao que entendo se apantufa com seu amado no laço do Matrimonio, e era justo que nós também ficassemos atados por concumitancea. Sin. Por comcu? Que? Pal. Por concumitancea que é o mesmo que….. entendes? 219 Espressione dal significato oscuro. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 283 Esp. (Muito se vai desatando.) (À parte) Sin. Senhor, V.m. bem sabe que o não conheço: eu por ventura sei o seo merecimento ou se é aí algum pobre homem… Pal. Pobre homem é falta de juizo, e eu nessa parte sou muito faltado. Esp. (Aquillo agora foi demasiado.) (À parte) Sin. V.m. que há–de dizer, qual é o nescio que diz que o é. Pal. Não vais lisonjear, visto isso não dás nada por mim. Sin. Quem o conhecer que o compre. Pal. Pois para que saibas quanto eu valho, ali vais a amostra do pano nesta Aria. Esp. (Ai, lhe encaixa o soldado alguma marcha em tom de Aria.) (À parte) Pal. Aria Digo–te que componho E canto lindamente Que gloso de Resende E sei muito bem bailar Falta–te o mais que ver Que é justo se te agrada Mas não me falta nada De amor para casar. Esp. (Isto já me não soa bem. Não te dará ar de constipação.) (À parte) Pal. Pois o que te parece? Tenho ou não cadência? Sin. (Este tem outro jeito que não tem Espeto, mas ainda hei–de fingir) (À parte) Ainda que há quem se sustente do ar da meninicie, eu desse guisado sempre jejuarei, cá sim quero saber a sua qualidade e a sua pessoa. Pal. A sua qualidade, julgo que é quente Aria juntamente. Esp. (Boa frioleira.) (À parte) Pal. Olha é quente pelo ardor com que subo…. Já me entendes? É Aria porque temeroso…. Não sei se me explico, e no que toca a cabedal, não desgosto agora isso por não falar sobre posse. Sin. Pois senhor o que eu pertendo saber é se V.m. é digno da minha bizarria e do meu esplendor. Pal. E se o for… Sin. Se o for… Pal. Serás minha. Sin. Talvez, talvez que…. Pal. Mas que bom, bom. Esp. (Não, malissimo e mais que pior.) (À parte) Pal. E posso esperar de ti que… Sin. O que? Pal. Que a tua fé seja segura. Sin. Eu por ora não digo sim, nem não; adeus que tenho tardado muito. Pal. Ora por despedida sabe que….. ai, ai, ai. Esp. Isto já vais de for em fores. 284 Capitolo II (Sai Espeto) Esp. Os confiados e audazes petulantes fazendo ludibriozos os respeitos destas salas. Sin. (Eu te arrenego escomungado velho!) (À parte) Pal. (Ai, se me desmanha tudo, agora que ia pegando a lábia.) (À parte) Esp. Não respondem, estão supitos? Ficarão estupefactos! Sin. Senhor eu…. Pal. Eu senhor….. Sin. Senhor, aquilo foi graça. Pal. Isso não há dúvida, nem eu sou homem de outra coisa. (Olhem os barbas de boda que me havia de aparecer.) (À parte) Sin. (Eu não sei se me desmaie, não se me dá nada dela que minha ama quere– me muito.) (À parte) Esp. Anda, vá a servir sua ama, que aqui não serve. Sin. É verdade meu Senhor, já vou, obedeço. Já vou, rabugento insensato Mentecapto. Velho desgosto, tocão de sapato, barbas de danato e pernas de….. Pal. Isso é um acto continuado de actos. Esp. Oh atrevida! (Avançando–se) Sin. O atrevido! (Foge) Esp. Eu te apanhareis, corre que tu cairás! Pal. Eu também estou tremendo por mim por amor de V.m., e antes que faça mais alguma coisa fique–se embora. (Ind–sce) Esp. Espere venha cá! Vem cá. Pal. Não me detenha, que vou com uma pressa. Esp. Sustenha–se que logo irá! Diga, conhece–me? Pal. Eu suponho que V.m. nem meu conhecido quer ser, quanto mais que a seu respeito fiz com que…. Esp. Pois se faz com que olhe para mim direito, mas não me dê olhado. Pal. Porque eu sou torto? Esp. (Por algum jeito que tu tens, é que eu me sinto acobrentado.) (À parte) Pois olha cá. Pal. Diga o mais que tenho visto. Esp. Observa estas barbininas tão venerandas? Pal. Tenho feito nela observação. Esp. Pois saiba primeiramente que aquela rapariga….. mas deixemos isso para outra ocasião, que agora vou acudir ao que me importa, mas advirta….. Porém nos conveniaremos, que se não fora…. saiba que é um pérfido e saiba que aquela moça… porém ei–lo, vai, eu agora vou a exercer a obrigação do meu cargo. Pal. V.m. mostra que tem cargo grande as costas, porque anda muito curvo com o peso. Esp. Saiba que sou Guarda Portão. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 285 Pal. Guarda! Portão! Nobelissima autoridade, o venero com submissão, mas seguro–lhe que se o seu ofício é ser guarda portas, que tem uma vida do cão. Esp. Sabe o que lhe digo? Pal. O que meu senhor. Esp. Que não seja asno. Pal. Isso será se eu querer, mas agora vejo que V.m. é muito meu amigo pelo conselho que me dá. (Já é preciso buscar o meu amo.) (À parte) Ora sempre nele. Esp. Nele em que? Pal. No cuidado do que me emcarrega. (Vai–se) Esp. Vai–te com os cavalos, que eu te vou nas ancas. (Já por ver se a Sinalefa ele buscar vai.) (Vai–se) 220 Sin. Ando fugindo deste velho como quem foge de doenças, a todo o instante me persegue, e parece a minha sombra. E o aborreço da sorte que vê–lo não posso e seu companheiro que aqui entrou com Alcestes é toda a minha glória, pelo contrário Espeto que é todo o meu inferno. Ai amor, tirano amor que com tuas agudas unhas abristes neste coração uma brecha por onde pode entrar aquele homem ou soldado que a poder das batarias me rendeu, sem que eu pudesse….. mas ele que chega, inda hei–de afectar–me mais por apurar sua fé e se é constante. (Sai Palito) Pal. Senhora, senhora. Sin. Senhora que? Diga o mais. Pal. Também não sei o que. Porém olhe o mais que eu lhe vinha dizer! É que bem podia, se quisesse, dar–me um ar da sua graça. Sin. Da minha graça? Pal.Quero dizer que bem podia ensinar–me o seu nome, que me esqueci perguntar–lho no primeiro acto em que nos vimos. Sin. Mas para que o quer saber? Pal. Para procurá–la se acaso de mim fugir negando–me apagados meus excessos. Sin.Olhe o desprezo em mim é a moeda mais corrente, mas porque mo não pergunte outra vez, sabe que o meu nome só se faz…. Pal. Como? Sin. Comendo é como se faz. Pal. Oi, essa agora é galantissima. Ora diga chamar–se a acaso fartura? Sin. Não senhor. Pal. Chamarse–á gulozina? Sin. Nem para lá vai. 220 Ivi, pp. 17-24. 286 Capitolo II Pal. Será cólica? Sin. Deus me livre. Pal. Pois então é mastiga? Sin. Menos. Pal. Pois se mastiga menos, cólica deus me livre, gulozina nem para lá vay, fartura não senhor, que diabo serás então? Sin. Chamo–me Sinalefa. Pal. Sinalefa, boa figura! Assim é que a Sinalefa é aventurada Poetica que só se faz em concomitância de vogais. Suponho que devias ser engendrada por algum Poeta. Sin. Apelo eu por mim não tenho tão baixo nascimento. Pal. Pois minha amada Sinalefa, quere–me ou aborrece–me? Sin. É boa teima, já lhe disse que a minha altivez não se sujeita a querer bem sem mais, nem mais isso tem tempo, V.m. está com muito fogo. Pal. Em materias de amor, o melhor é comer; eu soprar, que estes são as coisas que se querem comidas quentes, que esperas que se acabe a opera sem termos começado? Sin. Sim. Mas o meu risco! Pal. Qual risco? Olha eu sou muito bem nascido, bem visto nas histórias, nas Gazetas, nos mapas, atento guapo, trato–me com muita limpeza (na algibeira) e sou prendado de outras mais partes que a seu tempo…. […] Sin. E então não resolve a ir–se embora da minha presença! Pal. Quisera ir–me por te dar gosto: mas os grilhões destes teus olhos me não deixão pôr passada. Sin. Pois vá–se que eu os volto para cá…. (Volta–se) Pal. Se voltas para lá os olhos é o mesmo que eles me arastram atrás de si…(Chega–se a ela) Ora pois dize somos muito amiguinhos? Sin. Nem muito nem pouco: vá–e […]. Pal. Olha que me parto por aí fora a chorar como puder! Sin. Chorando a!, a! a! a! (Ri–se) […] Pal. Olha, que senão olhas vou meter alguma coisa por mim! Pela boca. (À parte) Sin. Faça nisso o que quiser, que eu estou mais constante que uma rocha. Pal. Olha que vou beber alguma couza. (Indo) Sin. Por mim vá beber o que quiser, inda que seja um veneno, vá, vá meter poção, faça punhal, ou outro instrumento que toque a morrer. (Deus te defenda.) (À parte) Pal. E então se eu me matar? Sin. Que me importa cá isso; de todo se acabou para mim. Pal. Pois vou matar–me. Sin. […] nenhuma inveja lhe tenho. Pal. Assim não has–de chorar por mim? Sin. Vá descansado que todo o bem se fará. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 287 Pal. Pois alto vou a isso. (Indo com pressa) Sin. Ai que se vai deveras matar? Sio; ouve sio? Sio? Ah Senhor Soldado ouve? Pal. Que é o que queres camarada? Sin. Pois vai deveras matar–se? Pal. Se vou? Essa é boa pergunta, e sine remissionem. Sin. Pois deus vá com a sua alma. Pal. Eu cuidei que me chamavas para me apertar a mão; já vejo que não tens dó de mim, pois adeus. (Indoce) Sin. E vai–se sem me dizer o seu nome também? Pal. Eu na sou vaidoso e por isso indo a morrer por ti, nem ao menos quero dizer o nome no mundo. Sin. Era para eu ter a lembrança de quem se morreu por mim. Pal. Olha, se és tu muito minha amiguinha que eu te direi como me chamo. Sin. Serei só o que baste para o saber, diga, diga. Pal. O meu nome é um que tu terás tomado na boca muitas vezes depois de jantar. Sin. Não me pode ocorrer! (Pensa) Pal. Não te esgravatas, dize. Sin. Apostar que se chama Palito! Pal. Palito em carne todo inteiro, e entregado. Sin.Palito! A, a, a, a, (Ri–se) é muito bem posto. Pal. Quem, eu? Sin. Não Senhor o nome em V.m., porque para se palitar um pouco é muito bastante: mas há–de ser depois da barriga cheia e eu inda estou em jejum. Palito vá–-e, não sei até quando, mas olhe, já que vais a morrer saiba que também eu fico a penar! (Muito me descobri com ele.) (À parte) Pal. Que me dizes? Minha Sinalefa desta alma? Sin. Digo que o haja a morte que tantos desarranjos faz. Pal. Ora pois, por não aver dezarranjos a que me tem tirado, adeus, adeus, vá–se, vá–se. (Indo–se) Sin. Vem cá espera, ai que desgosto me salta o coração no peito. Pal. Não me posso demorarar mais, nem mais tenho que dizer. Pois concluamos isto antes que… Sin. Ai cale–se, escute, e esconda–se; que aí vem o negro Espeto, e não quero que aqui o veja na minha casa. Pal. Esta bem, aqui me meterei […] (Nasconde–se) (Sai Espeto com o páu de Guarda Porta) Esp. Aqui venho Sinalefa e estimo achar–te aqui, que podias estar metida em algum verso. Sin. O que eu lhe gabo é a autoridade com que entra na casa alheia. Esp. Porta aberta justo peca, pois sabe ao que aqui venho, ou não? Sin. Eu não senhor. 288 Capitolo II Esp. Pois eu lho digo, primeiramente pergunto: conhece isto que eu aqui trago na mão direita erguida para o ar? Sin. Sim senhor! Esp. Pois o que é, diga! Sin. É hum pauzão com uma pirâmide em cima! Esp. E sabe que esta é a insígnia honorífica com que me faço respeiteiro? Sin. Sim senhor! (O homen vem desancar–me!) (À parte) Esp. E pois se o conhece como, atrevida, nascia falta das nobres atenções da minha esferica caricatura, ousa ultrajar–me chamando–me epítetos desprezativos. Pal. (O homen para uma satisfação traz muito cabedal!) (À parte) Sin. Eu não me lembro de tal, V.m. vem enganado. Esp. Pois não lhe lembro chamar–me orelha de sapato; cá de preto. Sin. Ai meu senhor, aquilo em mim foi fingimento, eu não o disse pelo tanto, mas se quer que eu chore, chorerei até botar pelos olhos. E olhe, lhe digo muito me pesa de… (de lhe não chamar mais chamas dellas!) (À parte) Esp. Pois estás arependida? (Tira um papel da algibeira) Sin. Olhe cá pouco me falta. Esp. Conheces quanto ofendestes o meu honrado carácter? Sin. Quanto basta. Esp. Ora pois esta bem. (Já me pesa ser tão aspero…) Por ora não te consumas mais, que quem bem quer tudo perdoa. Sabe pois que não foi só esta a causa porque eu trouxe isto levantado na mão. Mas que para com isto e com istoutro te intimia uma ordem para este […] Soldado que aqui anda… (Amostra–lhe o papel) Sin. Qual Soldado? Esp. Este Soldado Palito do tal Alcestes. Pal. (Já vejo que isto vai deveras e vem este trazer a resposta que me deu o tal Olinto no mandado de despejo.) (À parte) Sin. (Se será verdade o que diz?) (À parte) Esp. Ficaste sopita ehm? Sin. Pois por ventura o Soldado esta cá a tua ordem. Esp. Não é a ordem minha e o cazo foi este, mais cousa menos cousa. Não sei o que faz com este Alcestes em casa que o senhor Olinto o pôs na sua e manda de cá desapareça também tal creado para o que… vês este papel que aqui trago? Sin. Muito mal, porque o vejo com as lágrimas nos olhos. Pal. (Ai se afogou o meu amor à nascença.) (À parte) Esp. (Certo que a moça cega por ele.) (À parte) Mas dize porque choras e por quem vertes as lágrimas. Sin. É porque sou muito amiga de Alcestes e indo–se ele vai–se toda a minha alegria. Esp. Bem te entendo. Pois alegra–te comigo que sou de lampo, eu entendendo o achasse aqui o queria fazer melhor. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 289 Pal. (Mais balas te atravecem!) (À parte) Sin. (Fiquei sem pinga de sangue!) (À parte) Esp. Torna a ver se vês as letras deste papel. Sin. Não estou capaz de ver nada. Esp. Pois isto lê–se depressa que não dá mais que decreto. Sin. Decreto, e para que? Esp. Este papel toca ao Serviço da nossa Rainha Cleonice; e serve agora para despejo. Sin. Mas eu, olha bem, não leio mais que decreto. (Soletra) Esp. Em dizer decreto é só o que basta, que a minha autoridade faz poder ajuntar a este papel a parte mais necessária (Tudo é finjido para com mais brevidade fazer sair deste Paço ao meo opositor!) Pal. (Eu estou fora de mim com o tal decreto.) (À parte) Sin. Pois senhor Porteiro esse pregão bateu lá aonde o achar, que eu não sei dele. Esp. Pois eu vou em sua casa, e logo sou contigo, e não te falo já no passado, porque, olhe, se vai desta certamente. (Vai–se) Sin. Ai, da que fez o fumo faças tu correio de infaustas novas. (Sai Palito) Pal. Que culpa tenho eu dos pecados de meu Amo? Sin. Se será certa a nova que me traz este mofino, só isto me podia ele trazer. Pal. Eu estou de sorte que não sei como estou. Sin. Eu mal me sinto, eu não estou boa eu…. Pal. Por aqui anda certamente Espeto feito agulha ferrogenta; mas novas lhe traga quem lhe deva algum dinheiro. […] Se será isto mentira talvez? Sin. Qual mentira? Nova ruim sempre é certa: e o meu coração tão frouxo adevinha algum sucesso meu. Em negra ora manejou Cupido as armas contra o meu peito, deixando–me com feridas do numero das incuráveis! Pal. Quem me há–de consolar esta paixão, já de todo deram fim as minhas fortunas. Sin. Estava eu guardada para me darem em esta bala! Pal. Cá ficarás com Espeto… ai ai ai ai. (Chora) E pelo tempo adiante com ele serás mais meiga. Sin. Não me fales em tal, que me arepelo. Pal. Que serviria se eu passasse estes amores sem ser zelos; como diz lá aquele Poeta comico Que tener amor sin zellos Ei lo mismo que querer Tener colete sin cochero. Conditio sine qua non est Amor. 290 Capitolo II Sin. Pois repara no sem sabor com que te falo nesta hora, e verás a prova do meu muito amor. Pal. Eu também por sinal de namorada já tenho o lenço. Ai minha […] Sinalefa e que pobre Poeta me parte sem ti. (Chora) Sin. Ai Palito, que me enterneces com essas palavras, não continues, ou faze lamentações mais plenas. Pal. Quando desembarquei (graças a Apolo) vim pelo mar a pé enxuto, e agora vou de terra para o mar, cuberto de olhos de negro. Sin. Em negra ora cheguei a ver–te, ou a salvar–te. Pal. Quando desembarquei e puz os pés nesta terra, podia mui bem cantar […] do mar eu venho: e agora só posso chorar: hei–de ir para o deserto. Sin E dize–me: te lembrarás de Sinalefa muito e muito? Pal. Eu protesto–te de que nunca nos meus versos deixe de entrar Sinalefa ai ai ai. (Chora) […] e tu has–de me amar sempre, sempre! Sin. Hei–de te amar até a morte: pois que te amei até aqui. Pal. Não mudes de parecer, que has–de ser sempre bonita: e já que os versos são a escritura da tua Palavra, a mim me há–de servir de textos para a minha escritura, lá vai a gloza ainda que para mim toda a Veia Poetica se desatou em lágrimas de sangue. Hei–de te amar até a morte Pois que te amei até aqui Gloza Firme Constante leal Leal firme e mais constante Que é o mesmo eu sempre amante Quero por bem este mal. Eu querer a outra qual Não menina de que sorte Nem o tempo dará morte A meu meu amor sem medida Que inda mais que a propria vida Hei–de te amar até a morte. Hei–de te amar que te adoro. Como viva porque inspiro… Mas ai que chega hum suspiro Mas ai que me acode hum cheiro O que hei–de dizer ignoro: Ora em boa me meti A ideia toda perdi O que eu queria explicar É que sempre te hei de amar Como te amei até aqui. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 291 Sin. Senhor Palito não mais; não lhe dá alguma couza que lhe faça perder o juízo. Pal. Vai–se cobrindo o coração de huma nuvem negra, e isto inda é sinal de agouro para os meus olhos. Sin. Pois veja se pode aliviar. Pal. O como eu podia aliviar era vindo tu comigo para a minha terra então, sim vens, ou não vens? Sin. Não pode ser, querer–lhe eu bem isso sim, mas atrás desta inclinação deixar–me eu ir, isso não. Pal. Nem eu quero proceder contra a ordem. Sin. Tomara eu desmaiarme, que então sentiria menos este caso acidental. Pal. Eu, senão fora fraqueza em um Soldado, também me desmaiava aqui. Sin. Eu sem duvida morrerei. Pal. Tu estás de melhor partido, que és mulher, e tens sete folgos como os gatos, porém eu tenho um só, e esse bem pouca coisa. Sin. Inda assim não sei o que me vai dando pela cabeça, tomara eu já morrer, ai que ai. Vem uma ansia; ai, ai, ai. Pal. Toma a respiração. Sin. Ai que não posso mais. Pal. Àgua de cidreira e de cereijas pretas que é remédio medicinal para ansias feminis. Sin. Não me importa, quero morrer sem remédio. Pal. Se acaso não é fingido és muito amiga; mas eu também me estou indo por mim. (Recitando Aria a duo) Sin. Ai ai de mim que dele o meu alento. Pal. E que dele também o esforço forte. Sin. É verdade. Pal. É verdade o meu tormento. Que farei, que farei buscar a morte. Sin. É certo, e vai–te. Pal. O meu retiro é justo. (Vai–se) Sin. Ai que isto não é vida, só é susto. (Vai–se) 221 (Sai Espeto) Esp. Eu não posso sossegar em quanto este meu rival não vir a perder de vista, tomara já embarcado, que se fosse com a breca; que então fico eu como quero, forte guerra me tem feito o magano a Sinalefa; mas não fora ele Soldado… porém se me não engano, ele lá está conversando com quem quer 221 Ivi, pp. 35-44. Capitolo II 292 que seja, quero chamá–lo, e despedir–me que he coisa que custa pouco. Ah senhor Soldado sio! Ouve? Sio! Sio! Já me ouvio, e para cá vem. […] (Sai Palito) Pal. O que me quer senhor Espeto, vem ver o meu bota-fora. Esp. Eu me vinha despedir da sua boa retirada, com que vai–se meu amigo. Pal. Sim senhor, quer vir comigo dar–lhe–ei lá uma praça. Esp. Praça de que? V.m. está zombando. Ora então porque não parte, já são horas de embarcar. Pal. Estou esperando a maré. Homem você é o meu Olinto, e o tal amigo Olinto o Espeto de meu amo. Que lhe importa, diga lá, que eu parta ou que fique? Esp. Isto em mim é por curiosidade e que eu cá não me importa isso. Pal. Pois cuidei que vinha embarcar–me a mala na estalagem. Ora diga–me como está por lá Sinalefa, tem perguntado por mim? Esp. Olhe nisso não falemos, muito amigos isso sim, mas falar nela isso não. Pal. Eu me admiro não ver ela ao bota-fora, e a despedir–se de mim. Esp. Falemos em outra coisa e quando não, adeus, vou–me. (Indo) Pal. Anda cá (Pega nele) já vay; mas é galante rapariga, e eu gosto muito dela; é formoza até não mais. Esp. Esta galante empertenencia V.m. faz me pirraças, não fale na rapariga porque eu…. Pal. Você o que quer diga, não fique embuchado. Esp. Quer de mim algua coisa? Aqui estou às suas ordens. (Indo) Pal. Ora pois já que se vai quero lhe uma coisa que há tempos tinha guardado e agora por despedido é mui justo que a leve. Esp. Eu por mim aceitarei visto vir da sua mão. Pal. Quer ela por uma vez, ou por mais? Esp. Venha por mais que assim parece maior. Pal. Pois tome, tome barbado, tome mais. (Dá–lhe) Esp. Não quero mais, basta, basta (o Bruto dá mesmo a matar.) (À parte) Pal. Se tornará o sabujo a vir de mim despedir–se, por modo de Espia fora? Vamos seguindo meu amo, que já lá vai, e eu fiquei por afincar no tal velho quatro prancadas de espadas, ah bom Palito. (Vai–se)222 (Sala ordinaria. Sai Sinalefa) Sin. Graças a fortuna que voltou a roda em que me tinha levado o meu Palito, porém depois que deu novamente a sua entrada ainda lhe não falei, e só com uma vista de olhos lhe disse que me desse um arzinho da sua graça. Minha ama com Alcestes, e eu com… 222 Ivi, pp. 56-57. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 293 (Sai Palito) Pal. Oh que ventura é minha Sinalefa o chegar eu a ver em ti os carácteres do teu amor. Sabe que nunca na guerra de Marte tive tanto a morte diante dos olhos como a esta de Cupido! Depois que me faltou a luz desses teus olhos e muitas mais coisas te diria se te não viesse a ver a pessoa. Sin. Isso é deveras senhor Palito? Pal. Pois o morrer eu por ti te parece coisa de outro mundo? Sin. Pois deveras deveras batalhou com a morte a meu respeito ou está zombando? Pal. Sim meu bem, e perdoa a vida se bastou a ganhar–te outra vez. Sin. Isso agora era muita perdição, porém não sei se o cria! Pal. Isso que duvidas de que te digo em prosa, escuta–me em frazìse esdrúxola. Se enjurias eu sofri como Poetica E fosse prisioneiro ao Reino Argolico Vim a ser um mísero bacolico E filosofo o mais peripatetico Ainda que eu corresse ao mar gangetico Que sempre me soprou vento Eolico E me levasse Piloto tão diabolico Inda mais do que se fosse gotico E bem que eu vá levado ao porto sertico Carregado inda mais que a ordem Atica E viva sem ter homen um Paralitico Inda que me acorreta uma ciática Que morra cálido, e que morra estíptico Assim o manda Amor na sua Pragmática. (Sai Espeto com emplastro na face sem ver Palito) Esp. Já este corpinho estará descancado Minha Sinalefa… mas oi! oi! oi! O que quer V.m. aqui depois de se ir embora? Pal. E V.m. aqui o que quer, o que procura? Sin. (Ela está travadinha, temos história entre os dois.) (À parte) Esp. […], você não foi o exterminado por um especial decreto do Palácio, e mais seu amo? Pal. Tudo já esta derrogado, e já cá estou outra vez, e mais o Senhor Alcestes. Esp. Sim lá vão, leias adonde vos quereis, mas esta vai. Vamos a outra lástima. Você sabe em quem deu aqueles muzarrios223 tesos? Pal. Se bem me lembro suponho que foram na sua cara e por sinal que esse emplastro me não deixara mentir. 223 Forse esagerazione per murros, pugni. 294 Capitolo II Esp. E sabe a nódoa negra que me pôs na minha honra? Pal. Se a honra se perde por uma brincadela então… Esp. Brincalheira irra! Vá–se, passa fora, brincalheira, e que faria se não fosse brinco? Pal. Deitava–lhe os dentes fora, e os miolos do toutelo lhe poria a mostra; os olhos lhe saltarião onde nunca mais os visse, e fazer–lhe–ia com que… (Apressado) Sin. Basta, basta senhor Palito, basta. Pal. Para ela saber que eu cá… e mais aquilo foi puoco mais de nada. Esp. Pouco lhe chama, para mim foi de sobejo, eu me vingarei a seu tempo. Pal. O que fará a seu tempo? Esp. Nada, a seu tempo, a seu tempo, e por agora só lhe quero explicar o que outra vez lhe não disse. Saiba que esta moça só está por minha conta, eu com ela me hei–de ajuntar, e não quero cá impedimento. Sin. V.m. senhor Espeto esta já mais ferrugento, e não me serve para nada, Você cazar comigo esteja livre de tal ver. Esp. Pois o porque? Sin. Porque é indigesto, rabugento, e não tem coisa que boa seja. Pal. (Ela o sacude rijamente!) (À parte) Esp. Tu só achas graça nesse filho da fortuna, monstro que deitou a rosa do mar nestas praças nossas: isso é porque ele canta! Assim eu pudesse levantar certos pontos, mas com tudo se me espremer ainda hei–de fazer alguma coisa. Pal. Cale–se lá que não havia de fazer nada, só bimbas. Sin. Eu não sei a razão porque não gosto nada dele, e mais não lhe quero mal algum. Pal. Ora ainda bem. Esp. E que mais tem ele do que eu, e se vamos a falar a verdade, inda ele he menos do que eu por ser Soldado pois tem cobrado o procedimento. E tu casando com ele nunca passarás de seres mulher de Soldado. (O tal Palito está raivoso que eu bem o conheço.) (À parte) Pal. Mas olhe, e ela se casar com Você creio que… Esp. Diga, diga. Sin. Ai, vá–se embora verga carunchosa, que não vale nada para mim. Esp. Sou muito rijo, e sou capaz em casando de aturar muito e muito. […] Sin. Palito é muito do meu gosto. Pal. Bem, bem, bem. Esp. Isto é muito desaforo, eu não sei como tal sofro. Sin. Saiba que um velho é, e assim… Esp. E você é muito criança, e inda fede aos couros. Pal. E você já esta no estado de precisar deles outra vez. Esp. E você é um ruinoso. Pal. Pois você é um remelão. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 295 Sin. Senhor Espeto eu escuso já razões em minha casa de dize tu dizei eu, vá– se embora isto lhe digo, e quando não… Pal. Aliás…. Tire para lá os arranques quando não vou revirando. […] Se meto mão aos arames… Esp. Se lhe afinco quatro couces…. Pal. Não faça força com as pernas, que troará alguma linha. Sin. Deixem–se já destas arengas, e acomodem–se. Esp. Está bem, pois eu me calo. Pal. Pois aqui não está quem falou. Esp. Pois então vá–se, ou não, o que eu quero é que se vá. Sin. Meu Palito vai–te embora e acabemos já com isto. (Junta a Palito com meiguice) Pal. Ora pois ai despejo para V.m. saber… Esp. Ora você faz a mim tolo, cuida que me logrão… Pal. A dar–lhe V.m. é impaciente, e desconfiado eu, posto que seja Soldado, não o sou de contrabando mas no que toca a esta menina hei–de querer dela o mesmo que V.m. pode querer. Ora quer mais? Isto é posto em razão. Sin Ora fação já essas pazes, e fiquem amigos, que é o melhor. Esp. Pois eu por mim aqui estou. Pal. Pois eu não havia de olhar ao seu respeito, e decoro. Esp. Isso agora é outra coisa (Já ele se põe as boas!) (À parte) Sin. Acabem por uma vez de fazerem essas pazes. Pal. Isso veremos. (Olhando só de vez para ele) […] Ora ouça o que por fim dizer quero no que respeita a ausentar–me nesta décima Que o não fará bem o creio Que assim faz a caridade Morder–me é por quididade Em homem do seu acaso Inda ficará mais feio Se essa porcaria faz E creia a fé de rapaz Se a tal coisa se provoca Que é sujar a sua boca Por–me a boca… por detrás. (Vai–se) Esp. Espera velhaco, atrevido, descortês. (Indo para ele) Espera, espera. Sin. Aonde vai tontarrão, quer que lhe casque outra vez. Esp. Por amor de ti me vejo eu desprezado, mas hoje hei–de levar de ti o último dezengano: tu já sabes o que eu quero, tens ouvido as memórias que te faço, […] Já sabes que Cleonice, e mais Fenicio hoje; e assim tu bem entendes. Sin. Sim bem te conheço besugo. E já que tanto aperta para total desengano ouça atento a resposta com que por fim o despacho. Capitolo II 296 Deixe–me rabugento Aredece daqui Com tal figura assim Não queira namorar. Não ouve o que lhe grito Não quero dar–lhe a mão Grito ora tenho dito Por um velho não há casar. (Vai–se) Esp. Mui bem despachado fiquei, mas seria aquilo desdém? Talvez que sim que eu não sou dos mais desastrados, sendo nobre por geração e me parece que melhor lhe estaria nela cobrir–se de nobreza casando comigo do que […] unindo–se a um Soldado. (Vai–se) 224 II.11. Siroe Il Siroe, che viene rappresentato per la prima volta durante il carnevale di Venezia del 1726, conosce due adattamenti portoghesi estremamente divergenti l’uno dall’altro, ma entrambi finalizzati preponderantemente alla focalizzazione dell’attenzione del lettore– spettatore più sull’enredo comico che sulla vicenda originaria. Una vicenda, tuttavia, che già in Metastasio presenta evidenti contorni popolareschi di quotidiniatà e di familiarità antieroica ed antidrammatica criticata, tra l’altro, da uno straniero inglese in visita a Genova come Filippo Helem, ma rivendicata dal poeta cesareo nella seguente missiva del 16 dicembre 1765: Io credo che chi monta sul coturno non debba mai scordarsene la dignità, e che debba anzi evitar sempre lo stile pedestre, anche nella talvolta inevitabile espressione di circostanze basse e comuni, necessaria alla spiegazione ed alla condotta della sua favola. Ma perché, dirà ella, non si è osservata cotesta massima nel luogo citato? Eccogliene la ragione. Quando io da bel principio intrapresi a trattarlo, il nostro dramma musicale non era ancora tragedia; appena s’incominciava a soffrire che fossero escluse dall’intreccio di quello le parti ridicole; ond’era un genere misto più vicino a quello del Ciclope d’Euripide e dell’Anfitrione di Plauto, che a quello dell’Edipo, dell’Elettra e del Filottete. Il nostro popolo, avvezzo a rallegrarsi a teatro, esigeva qualche riguardo da’ poeti che volevano accostumarlo al severo della tragedia. Quindi 224 Ivi, pp. 60-65. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 297 conveniva somministrargli ne’ drammi qualche situazione, se non comica affatto e scurrile, almeno festiva e ridente, ed in tali situazioni è impossibile che lo stile che le seconda non iscemi alquanto dalla tragica austerità. Uscito appena dalla mia prima adolescenza, io non mi credea permesso l’ardire di urtar di fronte il gusto popolare; onde procurava di compiacere i miei giudici anche a dispetto della natural repugnanza. L’esperienza poi mi ha convinto che il popolo è molto più docile di quello che comunemente si crede; ond’ella troverà ben pochi esempi di cotesta mia compiacenza, e questi unicamente in alcuno de’ primi miei drammi225. Dopo la pubblicazione bolognese del Siroe, destinata alla rappresentazione lisbonese nella Sala dell’Accademia di Piazza della Trinità e datata 1738, un adattamento sottoforma di copia manoscritta ad opera di Antonio José de Oliveira del 3 febbraio 1783 ha nel frontespizio la dicitura Opera Nova intitulada Irene na Selecia, il che indica, innanzitutto, il mutamento del nome del personaggio di Emira, principessa di Cambaia, amante di Siroe, in quello di Irene e, in secondo luogo, un conseguente spostamento dell’attenzione narrativa dal protagonista maschile creato dal Metastasio alla figura di questa vendicativa principessa persiana. Altro elemento d’innovazione di quest’ultimo adattamento portoghese è senz’altro la riduzione del numero dei criados da tre a due, personaggi dai nomi che subito allundono ad una probabile bellicosità, come Escopeta (“fucile”) e Arcabuz (“archibugio”), scontro di termini che in realtà non si verifica, utilizzando solo i singolari nomi per giochi di parole sul tema dell’esplodere della passione amorosa. Molti sono i riferimenti e le allusioni erotico– sensuali soprattutto da parte della figura femminile e, inoltre, un richiamo all’elemento metateatrale già riscontrato nell’adattamento del Demetrio e che qui prende la forma del saluto agli spettatori in sala e del riferimento alla Casa da Ópera di Lisbona. Acto I, cena VII Esc.[…]mas ai que aqui está o criado de Orlando, quero vê–lo de meu vagar, a ver se me agrada. Arc. Ó menina procura alguém cá de casa? 225 P. Metastasio, op. cit., vol. IV, pp. 431-432. 298 Capitolo II Esc. Não lhe quero responder a ver o que faz. (À parte) Arc. Ora não esconda entre as sombras dessa cortina as duas melhores estrelas do cheu da formusura. Esc. Elle não parece muito tolo mas é muito feio. (À parte) Arc. Menina não se meta no escuro, faça-se alvo aos amorosos tiros deste racionável Arcabuz. Esc. Não desgosto de o ouvir, assim fora mais capaz de se ver. (À parte) Arc. A rapariga asustou–se com a prespectiva da minha personagem. (Chegando–se a ela) Minha Senhora não me fará o favor de me prespegar esses dois olhos em cima desta cara? Esc. V.m. meu cavalheiro com quatro olhos terá muito que ver. Arc. Mais teria que […] achando–me de posse desses dois cagalumes de amor ou tochas do Cupido. Esc. Ai como é néscio: cuida que na Selecia se admitem groçarias? Arc. Ainda que eu lhe pareça groceiro saiba que o meu amor é muito fino. Esc. Vá–se, vá–se que eu não gosto de estrangeiros. Arc. Não, tem razão pois nunca se deve disprezar um amor peregrino. Esc. Tomarei meu parecer que agora estou de pressa. Arc. Eu também vou descançar que ainda tenho de fazer duas jornadas. (Vai– se)226 Atto II, cena II (Vista de Sala) (Sairá Escopeta) Esc. Há três dias menos três horas, cá pelas minhas contas pouco mais pouco menos, que me pediu minha ama a Senhora D. Nize que da sua parte intimasse o seu amor ao Príncipe Florindo: e assim quisera incontrá–lo, porém ele não quer aparecer e minha ama coitadinha chora de dia, e de noite, eu chorar lágrimas por barbados, não caio nessa esparrela. (Sairá Arcabuz) Arc. Senhora D. […] quisera que os estouros deste amante Arcabuz fizessem eco no ouvido dessa esquiva Escopeta para ver se a branda pólvora do meu amor encaixava na esquivança dos seus repúdios. Esc. Não é sem sabor o tal Arcabuz. (À parte) Meu cavalheiro suspenda a cumprida arenga, e diga–me meu bem se acaso viu ou encontrou quem eu busco. Arc. Vi, e encontrei. 226 Opera Nova intitulada Irene na Selecia, copiada por Antonio Jozé de Oliveira aos 3 de Fevereiro de 1783, p. 13. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Esc. Onde o viu? Arc. Aqui mesmo neste sítio. Esc. E para onde foi sabe meu rico? Arc. Não se foi, aqui está comigo. Esc. Disso agora me rio eu, pois aqui não está mais ninguém contigo, o certo é que estás louco, e sem juízo. Arc. Minha Escopeta, mal pode ter juízo quem traz a memória embaraçada com a lembrança da tua pessoa a quem tanto tanto… olha não me posso explicar. Esc. Senão podes com a boca, dize com o coração, mas dize–me se vistes, ou não vistes, que eu te prometo explicar–te o meu amor, pois te juro que gosto de ti, pelo desusado modo da tua pessoa. Arc. Obrigado fico pelo elogio, porém vi, e não vi, mas não sei a quem só vi, e sei e os olhos a quem quero bem. Esc. Senhor Arcabuz deixe–se de cumprimentos e diga se viu ao Príncipe Florindo que é a quem procuro. Arc. Há pouco estive com ele. Esc. Em que sítio, dize meu bemzinho. Arc. Na casa da Ópera de Lisboa. Esc. Não gosto dessas graças, se me não dá notícia certa vou buscar quem mas dê a outra parte. Arc. Rica Escopeta desta alma não te vais sem primeiro descarregares alguns amorozos tiros no coração de quem tanto te adora, que por ti fará tudo que for do teu serviço. Esc. Pois olhe se você quer alcançar os amantes tiros desta Escopeta, descarregados no ouvido desse Arcabuz faça por mim alguns extremos e apareça mais vezes, e porque me tenho detido muito, adeus que vou para os quartos da minha ama. (Vai–se) Arc. Foi–se e deixou–me a bucha na boca pois fico embuchado, sem saber que quartos serão aqueles, que tem a ama da tal menina se será de vinho, Aguardente Bozaçoes227 porém parece–me que tudo virá a dar em vinagre destemperado pelo destempero do basbaque de minha ama a quem vou ver se incontro, adeus meus senhores. (Vaise)228 Cena V Esc. Senhor Arcabuz não me dirá porque tem tardado tanto? Arc. Se eu foi a Missa que era hoje dia Santo. Esc. Você me parece muito tardantão. Arc. Menina não vês que a Missa tinha sermão. 227 228 Termine dal significato oscuro. Ivi, pp. 16-17. 299 Capitolo II 300 Esc. Sermão, que Missa sendo de noite, quem te derá velhaco muito açoite, ora espera um quase nada que eu vou ver minha ama se está deitada. Arc. Minha Escopeta desta alma não te vás sem primeiro me dizeres aonde estão aqueles tais quartos da Senhora tua ama, em que outro dia me falastes… Esc. Estão dentro do interior do Paço, onde não entrão homens; porque você queria lá ir com esses bigodes? Arc. Eu não queria fazer tal, mas se tu me desses licença tomara por ver se são de vinho ou Aguardente. Esc. Ora vosse é bem pateta, são quartos aonde asiste a gente. Arc. Você perdoe, enganei–me, porém diga–me menina também lá mora? Esc. Eu lho digo, a minha pessoa asiste e mora dentro do coração de quem me adora e porque vem gente, e El–Rei me parece ser, adeus até quando você me queira ver. (Vai–se) Arc. Dizei bem porque dentro do coração sinto um tal bule bule com alguma desiquietação, agora vejo ser Escopeta carregada pela ardente da pólvora, ou pelo fogo com que se foi a cadela, porém eu vou atrás dela. (Vai–se) 229 Acto III, cena II Esc. É feira de graça que não hei–de ter um instante de sossego, o Palácio todo em confusão vejo El–Rei anda todo irado, minha ama aflicta a vejo, e Arcabuz desapareceu, eu ando sem sossego…. (Canta) Aria Se Arcabuz soubera Que eu dele gostava Sem duvida me dera O que eu chego a dar Porém se lhe chego A declarar Sem pejo lhe digo Que quero com ele Logo casar. (Sairá Arcabuz) Arc. Minha Escopeta casar, e mais casar que estou morrendo por isso. Esc. Se está morrendo não póde cazar, faça testamento, e veja o que me deixa, e va morrer já. Arc. Já não quero morrer e só quero viver para contigo casar. 229 Ivi, pp.21-21. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 301 Esc. Se isso deseja, se isso apetece, eu o quero já, e só o que me falta é que levante o dedo para o ar. Arc. Se nisso se encerra, pronto estou já, e o dedo levanto já para o ar. (Levanta o dedo) Esc. Pois que o dedo levantou faça de conta que sua sou já. Arc. Agora menina, que já eu sou teu, e tu já és minha vamo–nos daqui já que El–Rei vem lá. (Vaise) Esc. Marido levo contente, vou já, que neste tempo todas as moças loucas andam só por casar e o peior é que também das velhas há que falar. (Vai–se) 230 Cena VI Esc. Ó quantos suspiros me custa o meu Arcabuz […] ora vamos a falar–lhe. (Entra) Arc. Irra que feiticeira que lá vem. (Fugindo) Ó bruxa de mel, diogos vá de reter satanás aparta–te de mim coisa má, boa de Burro que tal sejas. Esc. Arcabuz vem cá. Arc. Que vá lá não caio nessa, que você é uma bruxa é capaz de me chuchar. Esc. Eu bruxa? Longe vá o teu agouro, pois sabe que se eu não fora vinhas a acabar de estouro, El–Rei to tinha jurado. Arc. Tu és minha Escopeta, agora fico admirado pois te vejo de viúva antes de te teres enoivado. Esc. Pois escuta, os motivos te declaro como no Paço disseram que tu e tua ama cedo serão enforcados, e tendo notícia que Octavio tinha isso a seu cargo lhe fiz um memorial de miséria, declarando–lhe que tu comigo estavas desposado; respondeu que a seu tempo seria despachado. Arc. A rapariga é um raio. (À parte) Porém dize–me porque te vestes de viúva nestes trajes? Esc. Por vir assim desconhecida e poder sair do Paço. Arc. Dize, e para onde caminhava? Esc. A procurar de ti notícias, ou a notícias dar–te, e já que a sorte quis aqui logo encontrar–te sem ninguém o saber, vamo–nos retirando que será bom a meu ver. Arc. Pois já nos vamos receber? Esc. Se você não mandar o contrário. Arc. Já depressa para o Templo marchando vamos. (Vão–se) 231 230 231 Ivi, pp. 26-27. Ivi, pp. 34-35. 302 Capitolo II I personaggi comici del secondo adattamento del Siroe sono protagonisti del manoscritto copiato il 28 giugno 1784 e dal singolare titolo di Filinto perseguido e exaltado. Ancora un mutamento onomastico per il protagonista e per tutti gli altri personaggi del dramma originario e un altro gioco di parole divertito sul significato dei nomi attribuiti ai servi: Pederneira (“pietra focaia”)232, serva di Estella (Laodice nel testo di partenza), Desenfado (“divertimento”), servo di Irene (Emira nel testo originale) e Macaco (“scimmia”), inserviente di Palazzo. Inoltre, insieme ad un ennesimo riferimento alla sottile linea di confine tra realtà e finzione incarnata dalla rappresentazione teatrale in sé (è il momento di uno scambio di battute tra Desenfado e Macaco: «Des. Aonde asiste?/Mac. Aqui entre os bastidores; porque V.m. não vê as luzes que estou espalhando?/Des. Deve de ser alguma vela de sebo!»)233, elemento interessante è il ruolo giocato in un dato momento del dramma da Desenfado, a conoscenza del piano di vendetta di Irene/Emira ai danni del re Policrates/Cosroe, assassino del padre di lei. Temendo d’essere tradita dal servo, la donna sfodera astutamente le sue doti seduttive anche nei confronti di un personaggio “vile” all’interno del più alto dramma metastasiano: «Ai de mim! Se me declara este infame, finalizou a esperança da minha ideia! Que farei? Mas lograrei com agrados o que não consigo com violência (À Parte) Desenfado, fica– te embora, e farei por satisfazer ao teu empenho».234 Ópera intitulada Filinto perseguido e exaltado (1784) Acto I, cena III (Vista de Camera) (Sai Pederneira) 232 Ma forse anche un riferimento a Pederneira, luogo che probabilmente diede i Natali a Gil Vicente e ricordato dallo stesso autore nell’ Auto da Lusitânia. 233 Opera intitulada Filinto perseguido e exaltado, copiada oas 28 de Junho de 1784, p. 20. 234 Ivi, p. 28. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 303 Ped. Ora já me vai tardando o Senhor Desenfado; ele depois que eu lhe pedi os brincos, as meias, os sinaes, anda fugindo de se encontrar comigo. Eu não vi melhor modo para a gente se livrar de amantes, do que é pedir–lhe, que eles por si só dão suspiros e ais. Verdade é que também de nós só recebem parolas: tomara que já me trouxera esta tola para me pegar a outro; que nós somos como peças de leitão, que vamos para quem dá mais. Cuidam estes basbaques que em nos dar muito, que logo nos cativam; mas não se enganam, que nós só nos vendemos, quando a poder de dinheiro somos compradas (Batem dentro) Mas ali sinto gente, suponho que será ele. Quem é? (Vay abrir a porta e sahe Macaco) Mac. Quem há–de ser, bela Pederneira, de quem a minha cara de aço tira tantas suiças que cada huma contempla magnum excitavit incendium. Quem há–de ser, senão o teu Macaco, que preso nas correntes de teus olhos, anda sempre amarrado aos [†] cego do teu nariz. Ped. Ora Senhor Macaco, vá bugiar, e não seja atrevido vir desenquietar ao seo quarto uma donzela. Mac. Ai menina, eu não cuidei que era descrédito ir aos quartos em que moram as donzelas: ainda que nisto me parece que falas com encarecimento; mas sabe que eu vinha… Ped. Ao que vinha? Diga, ao que vinha ao meu quarto? Mac. A fazer horas. Ped. Pois vá–se andando, que não estou para ouvir as suas bofetadas e macaquices. Mac. Ora vejam a bogia235, tu cuidas que eu sou algum momo. Ped. Senhor Nico faça o que lhe digo; vá–se andando, que estou esperando por gente. Mac. Já entendo: suponho que é algum salafrário, que vem petiscar em Pederneira. (À parte) Pois Senhora, eu não me vou. Ped. Porque não? Mac. Porque? Eu não sou capaz de aparecer diante de gente? Ped. Eu estou em minha casa, e posso levantar–me às maiores com Você. Mac. Espera não te levantes comigo. Ah Senhores, tão mau sou eu, que se levantam as pedras contra mim? E pergunto, eu não posso saber que esse sujeito cá vem fazer? Ped. Não Senhor, que cada qual vem ao seo negócio. Mac. Pois eu não sou capaz de falar em negócios, mas de untar as mãos com umas boas luvas. Ped. Que ouço! Este sim, que é bom para amante, que logo promete do pé para a mão. (À parte) Pois se V.m. quer ficar, esta casa é muito às suas ordens. Mas que me há–de Você dar de estar aqui? 235 Termine dal significato oscuro. 304 Capitolo II Mac. Dar–te–ei quanto tu quiseres. Ped. Pois eu o que quero são uns brincos, umas meias e uns sinais. Mac. Ves isso não é nada para quem tanto deseja fazer–te a vontade. Mas eu também quero… Ped. Que quer? Mac. Eu quero fazer contigo um ajuste! Ped. Primeiro me há–de passar para cá o sinal. Mac. Sim, no sinal não haverá dúvida. Ped. Ora diga, diga o que quer! Mac. Eu quero fazer com Você um ajuste: quanto me dá, e prometo ser seus amores. (Chega Desenfado ao bastidor) Des. Parece–me que ouço cá falar: mas antes que entre verei o que se diz. Mas ai, ai meus pecados, cá está a sevandija mor! Tomara saber que confiança tem para cá entrares–te sevandija! Vejamos o que diz. (À parte) Ped. É boa historia! Com que eu é que lhe hei–de dar? V.m. pede como quem se despede. Mac. Pois não diz o que me dá? Ped. Dar–lhe–ei muita pancada. (Sahe Desenfado aos murros a Macaco) Des. Eu vou emparelhado nesse ajuste: mas que contratos são estes? Mac. Ah que del–Rei. Ah Senhora, o Senhor é seu marido? Ped. Não, mas estamos ajustados. Mac. Então visto estarem ajustados, não os quero estorvar. (Faz que se vai) Des. Ah Senhor sevandija, venha cá; a que entrou V.m. aqui? Mac. Eu sim… foi… vim… mas ela… porém paciência. (Faz que se vai) Ped. Espere. Vês? Tão feio é este homem que lhe mete medo? Não curo que Desenfado desconfie de mim, e ao depois me não dê os trastes. (À parte) Diga ao que veio, e não se asuste. Mac. O que hei–de eu dizer? Mas já me ocorre. (À parte) Eu Senhor, tive notícia que esta menina tinha necessidade de uns trastes para seo uso, vinha a traze–lhos, e no tempo do ajuste sucedeu V.m. vir à pancada. Des. Isto é verdade, porque ela me tinha a mim feito a mesma encomenda. (À parte) Mas diga–me, e como soube V.m. que esta rapariga necessitava disso? Mac. Cá por certos sinais. Des. Não há dúvida que ela mos tenha pedido. (À parte) E diga–me trá–los ali? Mac. Aqui só tenho os sinais das pancadas que V.m. me deu. Des. Ora pois vá buscar essas coisas. Mac. Sim Senhor, mas por quem hei–de perguntar quando cá vier? Des. Porque? V.m. não me conhece que estivemos acolá no Templo? Metastasio, padrão de vida do século XVIII 305 Mac. Sim, mas não lhe sey o seo nome. Des. Olhe quando cá vier pergunte por Desenfado Pederneiro. E se V.m. tardar, por quem hei–de inquerir? Mac. Se eu tardar, não tem mais que perguntar por mim. Des. Pergunto, como é o seo epíteto? Mac. O meu nome é que suponho quer saber? Des. Sim Senhor. Mac. Pois eu chamo–me Boncuro. Des. Aonde asiste? Mac. Aqui entre os bastidores; porque V.m. não vê as luzes que estou espalhando? Des. Deve de ser alguma vela de sebo! Mac. Mas falando como gente, com perdão de V.m. eu chamo–me Macaco Gonsalves Barulho, sou aqui creado de El–Rei, e muito amigo do Senhor seu Amo e de Seo Pai, que está gozando do inferno! Des. Bom é ter amigos, que uns puxam pelos outros. Pois Senhor Macaco Gonsalves Barulho, aqui estou para lhe obedecer. Mac. Aos pés do Senhor Desenfado Pederneiro. (Vai–se) Des. Muito bons sapatos e muito boas meias. Ora minha Pederneira… Ped. Primeiro que tudo saibamos se me traz os trastes, quando não pode ir safando. Mac. Eis aí porque eu não trago comigo trastes. Ped. Porquê? Mac. Por me não safar. Des. Pois não mos comprou? Mac. Não, mas andei trastejando todo o dia para os achar. Des. E então o que fez? Mac. Eu posso mais que fazer–me em pedaços por ti. Des. Assim o suponho, que Você já quebrou comigo. Mac. Como quebrei, se nós ainda não dizemos os nossos contratos? Des. Diga, porque me não trouxe os brincos? Mac. Porque são dificultoos a achar; se tu quiseres cadeados isso a cada porta. Des. E as meias também as não achou? Mac. Eu sim achei algumas meias feitas, mas quero deixá–las acabar. Des. Arre lá com o desmazelo! Nada acha. Mac. Tomara–me eu achar, que ando bem perdido por ti. Des. E os sinais? É capaz de dizer–me na minha cara, que os não há. Mac. Não, nos sinais não foi o descuido, o diabo foi esquecer-me. Ped. Ora pois, vá já, e logo a buscá–los. Des. Primeiro temos nós que fazer. Ped. O que? Des. Quero buscar um pé de cantiga para te sossegar. Ped. Agora que estou com pressa he que quer por do, re, mi fa, sol. Des. Ora faça alguma couza Senhora Isabel Macão. Capitolo II 306 Ped. Lá vai, senhor João Gomes. Dueto Des. Se eu morrer enfeitiçado, Choro, lambo o meu feitiço. Ped. Vá–se embora desastrado, Ha de ser para amor disso. Des. Isso mesmo, e porque? Ped. Há–de ser para amor disso. Des. Venha cá. Ped. Não, não quero. Ambos. Ora vá, vá bugiar. Dez. Ai minha Isabel não fujas. Ped. Passa fora. Vá–se, vá–se. Dez. Não, não quero. Ambos. Ora vá, vá bugiar. (Vão–se) 236 Acto II Mac. […] V.m. não me dará notícias daquela menina que certamente, olhe certamente… Dsz. Certamente o que? Mac. Certamente nada. Des. Pois ela é peixe? Mac. Não, antes pelas boas carnes é que eu o dizia. Des. Não seja asno, e saiba que essa rapariga está para ser minha mulher. Mac. Isso em V.m. é graça; mas olhe, se V.m. se quisesse desfazer dela… Des. Ai meus pecados, que me vem pedir a mulher! (À parte) Mas verei o que me diz. (À parte) Olhe, verdade é que senão fora ter–lhe prometiu de casar com ela, também a vontade não é grande. Mac. Pois então! Deixe–a para mim, que lhe tenho uma forte vontade. Des. Meus ditos e meus feitos; mas verei se posso tirar a este tolo alguma tolan para comprar os trastes de Pederneira, senão ela pouco fará em se mudar para Macaco, e mandar–me a mim bugiar. (À parte) Mac. Pois então em que ficamos? Des. Que remédio tenho eu, senão ser paciente? Se eu achasse alguém que quisesse cazar com ela em meu lugar… Mac. Pois que duvida? Aqui está Macaco para suprir o seu lugar. Des. Sim, um Macaco lá póde servir de Desenfado; mas não está ali toda a conta. Mac. Não lhe faz conta. Des. Se eu tivesse algum dinheiro com que rebatesse decreto de casamento… 236 Ivi, pp. 17-20. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 307 Mac. Vês, essa é a dúvida? Quanto quer? Des. A mim bastava–me dez meias dobras. Mac. Sim, eu lhas darei dobradas. Des. Pois isso há–de ser depressa; se as não traz ali, vá buscá–las, ande que o embarga! Mac. Tenho medo que V.m. me embargue o casamento. Mas eu vou e quero pedir–lhe um favor. Des. Diga. Mac. Quisera que V.m. me levasse um escrito, para ver se Pederneira com os meus incêndios se desfazia em fogo, em ordem a pegar a mecha dos meos desejos. Des. Vês? Pois não! Primeiro te hei–de eu comer a isca. (À parte) Mac. Pois eu vou buscar o dinheiro: até logo, espero da mercê que me faz, que me não falte a esta honra.(Vaise) Des. Vá? Certo, que o espero. Pois que vai! Eu feito terceiro de macacos; ora vejam com aquela cara de sagum, também quer casar! Mas venham agora à laia, que depois lhe chegará ao pêlo. ARIA Senhores caluda Deixem vir Macaco Que, como tabaco, Aí ventas por brinco Lhe quero chegar. Depois que o dinheiro Nas mãos acolher Manda–lo–ei beber Daquilo, daquilo, etcetera calar. (Sai Pederneira) Ped. Lindamente, lindamente! Des. Ora estimo que tivesse esta ocasião de me ouvir. Ped. V.m. cantando! Isso é sinal de alegria. Des. Antes quem canta é porque está triste. Ped. V.m. triste? Não, quem não tem cuidados… Des. Agora não tenho cuidados, já eu hoje fui a rua dos ourives mercar uns brincos. Ped. Que diz? Você brinca? E trouxe–os? Des. Não, porque não levava dinheiro. Ped. Então que foi lá fazer? Des. Fui saber–lhe o preço. Olha estavam lá uns bem baratos. Ped. Quanto queriam por eles? 308 Capitolo II Des. Eram muito baratos. Ped. Pois por quanto os davam? Des. Eu não sei, porque lhe não fiz o preço. Ped. Ora vá–se embora, não seja desavergonhado de me vir lograr outra vez, vá– se, vá–se. (Sai Macaco) Mas ali vem Macaco, agora me vingarei, dando–lhe zelos. Meu Macaco… Des. Ai que ela prega–me o momo com Macaco. (À parte) Mac. Espera rapariga: bem sei que queres casar comigo. (À parte) Senhor Desenfado, aqui está o dinheiro, e faça–me o favor de se retirar. Des. Caiu na corriola: vou comprar os trastes de Pederneira, para lhe abrandar a raiva. (À parte) Ah Senior, e o escrito? Mac. Já não é preciso: como eu lhe posso falar, a minha palava é própria escritura. Ped. Meu Macaco, não me respondes? Mac. Digo, que já cá tem feito com ela que seja minha amiga, que eu bem ouço no modo de falar. Des. Isso sim: pois eu havia descuidar–me? E ela está segura em que V.m. lhe quer bem: é capaz de se fazer grave: fique–se com ela, adeus. (Vai–se) Ped. Foise embora sem fazer cazo de mim. Agora se Macaco fora mais de meu gosto, tãobem o caracol de dezenfado havia pollo ao sol, mas como he o meo odio, não quero com elle graças. (Faz que se vay) Mac. Ela ali começa com desdéns. (À parte) Oh V.m. quer que a segue? Ped. Que diz? Mac. Já me disseram que V.m. se havia fazer toda aquela de manto de seda. Ped. Ora não seja asno. Vá–se embora. Mac. Ah senhores, olhem como se finge. (À parte) Você, como sabe que morro em a vendo, por isso é que é aquilo… Ped. Ora está bem tolo! Mac. Ora menina compadece–te de mim. Ped. Tomara o eu ver padecente. Mac. Visto isso, manda–me pôr em três pedaços! Mas olha que já estou feito em pedaços. Ped. Pois eu não quero nada com quebrados. Mac. Olha a tola, tomaras tu casar comigo, que nunca te havia faltar senão tudo o que houvesses mister. Ped. Vá–se Senhor quebrado, que não serve para Marido inteiro. Mac. Ora não te movem este requebrados amores? Ped. Senhor Macaco, vá–se embora, que já fede. Mac. Não pode ser, que eu sou o teu macaquinho de cheiro. Mas já que ela me depreza por bem, quero ver se a levo por mal. (À parte) Oh desavergonhada, oh grandissima porcalhona. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 309 Ped. É bastante atrevimento! Tome! Tome! (Dá–lhe) Mac. Ora graças a deus, estava ali sem me dar nada, não há coisa como por mal: vejam logo como me deu pancadinhas de amor. (À parte) Ora vem cá minha Esposa consórcia. ARIA Ped. Passa fora Macaco, Ai, ai que me come, Se tu não és homen, Não tenhas amor. Vai lá para o mato Buscar companhia, Para ter de ti do! (Vai–se) Mac. É forte disfarçar! Ela vai como um raio, mas todo aquele fuzilar vem a darem calmaria: digo isto, porque já me calmou. Aqueles enfados é o mesmo que renhir para mas querer. Vou dar os agradecimentos a Desenfado, por este passatempo. (Vai–se) 237 Acto III, cena I (Jardim) (Sai Macaco e Dezenfado) Des. Ora Senhor, dê–me notícias das suas fortunas. Mac. Ai meu amigo, deixe beijar–lhe os pés em agradecimento do seu favor. Des. Pois então o que lhe sucedeu? Mac. O que havia de ser! Começou a Senhora Pederneira a fazerse grave ao princípio, mas ao depois foi dando de si. Des. Pois fez–lhe algum favor? Mac. Sim Senhor, fez–me a fineza de me dar dois murros. Olhe aquilo é que é dar deveras, tudo o mais é graça. Des. Grande honra! E como ficaria V.m. contente? Mac. Oh lá, pois não! Bastava–me ser coisa da sua mão. Des. Sim, que manos blancas no ofende. Ora sempre é bem tolo o tal Macaco! (À parte) Mac. Ora diga–me: ela tem–lhe falado em mim? Des. Isso a todo o instante: hoje me deu ela os agradecimentos de lhe dar tão bom noivo. Mac. Isso é lisonja. Des. Não, não é. 237 Ivi, pp. 28-31. Capitolo II 310 Mac. Pois pareciame, mas já vejo que tudo mereço. Des. Também me disse, que morria por V.m. Olhe, sabe agora o que há–de fazer? É desprezá–la, e não lhe dizer finezas, e verá como ela se desfaz toda em amores. Mac. Deveras? Oh meu Dezenfado, deveras? Isso é verdade? Ora V.m. saberá, como eu me faço grave. Des. Em ordem a que me não persiga a pequena, e ainda que ela já esteja bem comigo pelos trastes que lhe dei, com tudo mulheres são muito arriscadas. (À parte) Mac. Ainda não posso crer, que Pederneira estalla por mim. Des. Sim: mas tu não te livras de algum estouro. (À parte) Mac. Ora adeUs, que me não posso deter: veja se lhe presto para alguma coisa, e não me poupe, bem sabe… mas adeus. (Vai–se) Des. Bem sei que é um asno. Ora vamos ver se o Senhor meu amo pediou já a El–Rei a minha Pederneira, que esta noite faço tenção de a render; parece–me que a estou vendo feita minha marida. (Va–ise) 238 (Sai Pederneira com uma caixa na qual traz varios trastes) Ped. Ora já o Senhor Desenfado se esportulou com os trastes, que lhe pedi; agora se eu tivesse outro a quem sacar alguma tola, não era mau. Ora vamos vendo o que vem na tal caixinha; cá vem as meias, e um leque, e é da moda: agora sim, que com isto serei o chefe da francezia. (Tira da caixa um leque da mod, e abanando–se canta o seguinte) MINUETE Ai que ventura Logro ditoso! Chinela bordada! E meia encarnada! Com leque da moda! Mui prança hei–de ser. Sinais na carinha Com tantos caprichos Que bichos, que bichos, me hão–de fazer! Mas cá vem Macaco, fingir–me–ei muito sua amiga, por ver se cai na corriola. (Sai Macaco) 238 Ivi, p. 37. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 311 Mac. Oh cá está Pederneira? Como sei que me quer bem, fingir–me–ei muito grave, que assim me ensinou Desenfado. (À parte) Ped. Meu riquinho Macaco. Mac. Ela comigo; quero fazer–lhe um desprezo amante. (À parte) Arre para lá, não seja tola. (A Ped.) Ped. É bem salvagem! Mas vamos à nossa conveniência. (À parte) Que tem contra mim? Que te fiz eu, meu macaquinho? (Com caricias para Macaco) Mac. Não foi mau desdém; proseguirei na mesma forma. Ah Senhores muito devo aquele Desenfado! Também se ele me não contasse tudo, caia eu agora como um tolo. (À parte) Ped. Não respondes à tua Pederneira, que tanto te quer? Mac. Pois que vai! Ah Senhores, muito devo a Desenfado (À Parte) Já lhe disse que não fosse tola. (A Ped.) Ped. Ele está impertinente mas hei–de lográ–lo. (À parte) Pois estás mal comigo, meu Macaquinho? Mac. Ela está–se desfazendo por instantes mas a quem não renderam estes meus dengues! Quero lhe fazer uma mesguice, dando–lhe um bofetão. (À parte) Para que não seja impertinente, tome, tome. (Dá–lhe) Ped. Oh insolente, oh desavergonhado, cale–se, você me pagará. (Quer ir–se) Mac. Venha cá que estes melindres foram para que você visse que lhe quero dar– lhe com um páu. Ped. Vá–se embora, que o não quero ver mais. Mac. Pois então vem cá, que eu te botarei os olhos fora. Ped. Só se você me der o que lhe pedir. Mac. Sim: pede, pede. Ped. Promete não faltar? Mac. Se eu faltar, eu chegue a ser teu marido. Ped. Dê–me cá a sua mão. Mac. Pois para isso estavas com vergonha? Ah Senhores muito devo a Desenfado, e vejam a brevidade com que fez que me desse a mão. (À parte) Ora aqui está a minha mão. Ped. Pois quero que você me compre um afogador. Mac. Vês, para isso aqui estou eu, que sou notável para carrasco. Mas como nós estamos já casados… Ped. Que diz casados? Mac. Sim, porque nós não demos as mãos? Ped. Ora é bem tolo; mas seguirei a sua asneira. (À parte) Ah sim, não me lembrava. Mac. Ora pois eu o que quero é muita sisudeza, e dize–me, queres o afogador do pescoço ou da garganta? Ped. Do pescoço, porque não é tudo mesmo. Mac. Não, que há uns da garganta, outros do colo. Ped. Pois traga o que lhe parecer. Capitolo II 312 Mac. Em quanto ao meu parecer, o melhor era não trazer nenhum, mas por lhe fazer o gosto, eu vou buscá–lo: ser–me muita sisuda, senão… Ora adeus… (Quer ir–se) (Sai Desenfado) Des. Por onde andará Pederneira? Mas oh ela cá está com Macaco. A que isto me não cheira bem. (À parte) Ped. Importa–me disfarçar por por não perder o afogador. (À parte) Mac. Oh meu amigo, só você sabe ensinar: ela começou com muitos amores, eu dei–lhe um bofetão, ela resa resmungou, eu chamei–a, ela retrocedeu e agora estamos muito amiguinhos. (Para Des.) Des. Ah eu estou perdido! Oh menina, V.m. não me conhece! Ped. Eu só para a servir. Mac. Olhem aquele propósito: como é já ela, vejam o respeito que me tem . (À parte) Ah Senhor Desenfado! Des. Deixa–me tolo. (Dá–lhe) Mac. Irra Senhor Desenfado. Des. Arre meu Macaco. (Aos murros) Ped. Vou–me esgueirando, antes que aqueles carolos me venham dar na cabeça. (Vai–se) Mac. Ah que del–Rei, que me matam. Des. Que é de Pederneira? Esgueirou–se? (Olhando para toda a parte) Mac. Olhe, olhe, ela ali está. Agora marcho, já que me tocaram a caixa. (Vai–se) Dez. Espere maganão: foi–se? Cale–se que eu o apanharei às unhas, e a maganeta já senão lembra do que lhe dei! Pois tome. ARIA Eu feito Bezerro! Arre meu Macaco, Não cabe no saco Já tanto aturar. A gente em me vendo De medo tremendo Julgando–me Touro De mim fugirá. A moça é velhaca, e em meu desabono pregando–me o mono, um touro me faz. (Vai–se) 239 239 Ivi, pp.44-45. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.12. 313 Issipile Sulla storia dell’Issipile, questa vicenda dello sdegno e del furore delle donne di Lenno, abbandonate e tradite dai rispettivi consorti ed ideatrici del «barbaro disegno di ucciderli tutti al primo loro arrivo, simulando tenere accoglienze»240, Jacques Joly si era espresso in uno studio del 1990 giustificando l’eccessiva lunghezza dell’Argomento proposto dal Metastasio con una necessità di accettazione da parte del pubblico del XVIII secolo, il quale avrebbe potuto non gradire una vicenda interamente giocata sul filo della vendetta e del risentimento femminile, portata fino alle estreme conseguenze della violenza fisica più esplicita241. Ma proprio partendo da una tale considerazione, ci è parso del tutto contrario a questo spirito di accettazione e chiarificazione della trama principale del testo di partenza, l’atteggiamento adottato dall’adattatore portoghese dell’Izipile em Lemos ou Os Erros de Learco Premeados, copia manoscritta per mano dell’ormai noto José António de Oliveira, del 25 aprile 1783, laddove si decide per la creazione di un intreccio comico attraverso la consueta presenza dei tre graciosos non solo calcando la mano su volgarità verbali, ma insistendo soprattutto sul clima di violenza fisica che si viene a creare tra la coppia giovane di turno e l’antagonista anziano, padre di lei. In una scena in particolare i tre servi, Bandalho (“straccione, damerino, mascalzone”), criado di Jazon, Cecia (forse da cecear “parlare affettatamente à lisboeta, pronunciando s per z o ss per c”), criada di Izipile, e Trapalhão (“straccione”), vecchio padre di Cecia, sotto la minaccia reale di un pugnale ora nelle mani dell’anziano padre ora in quelle del servo pretendente, imbastiscono una cruenta lotta fisico–verbale finalizzata unicamente alla sottrazione della dote destinata a Cecia. Inizialmente i tre risultano coinvolti nella vicenda centrale del dramma metastasiano vero e proprio, ossia nell’agguato preparato dalle donne di Lenno nei confronti dei mariti 240 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 481. Esattamente a questo proposito si legge in Joly: «Nell’edizione in volume, il libretto è preceduto da un lunghissimo Argomento, che è uno dei più elaborati del Metastasio, e propone già un’interpretazione dell’insieme della vicenda atta a farla accettare a un lettore del Settecento, che avrebbe potuto offendersi di questa storia violenta e mitica di odio, di vendetta e di furore» in J. Joly, op. cit., p. 34. 241 314 Capitolo II dimentichi e fedifraghi, tanto che Cecia decide di rompere la promessa che le imponeva di nascondere il progettato delitto ad ogni altro uomo, per permettere al padre e a Bandalho di nascondersi nel bosco di Diana. In seguito, tuttavia, il triangolo comico abbandonerà la via maestra della narrazione originaria, per andare a creare una commedia dei sotterfugi che vedrà la consueta trovata comica del ricorso al travestimento, con il quale Bandalho si finge Trapalhão per godere delle attenzioni della tanto bramata fanciulla. Dopodichè si arriverà alla scena della violenza di cui si diceva, con una naturalezza quasi scontata, passando dal ridicolo dei lazzi e dei motteggi di qualche momento precedente, ad atti di forza e crudeltà interrotti unicamente dal ritorno alla ragione del personaggio di Cecia che, all’unico scopo di calmare gli animi infervorati, finge uno svenimento improvviso. In questo modo sarà solo l’evento tramautico della perdita dei sensi, quindi della ragionevolezza, a riportare il senno in un momento di totale degenerazione degli usi e delle consuetudini, del tutto sorprendente per l’epoca, soprattutto se pensiamo che vengono calpestati in un solo atto tutte le regole di condotta e rispetto padri– figli e vecchi–giovani. Opera Nova intitulada Izipile em Lemos ou Os Erros de Learco Premeados (1783) Acto I, cena I Trap. Quem é Cecia este Soldado que tanto se comunica? Cec. Eu, meu Pai, agora o vejo. Ban. Pois não me conhece, diga? Trap. Como conhecê–lo posso? Ban. Conhece a Jazon? Cec. Quem o vira já chegado a esta terra? Ban. Pois esta fizonomia não lhe está logo dizendo que dele sai? Cec. E Jazon tardará muito? Ban. Tardar, quando na marinha ancorado está desde hoje? Trap. Não me importa essa notícia, quero filha que me contes o que há–de novo nesta Ilha. Cec. Meu Pai, eu dei juramento de não dizer o que havia, mas sendo o Senhor criado de Jazon, e a tua vida para mim de tanto amparo, foge que as damas malignas esta noite são dos homens os seus crueis homecidas. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 315 Trap. Que dizes filha, me enganas? Ban. Oh Senhora não me minta. Cec. Provera a deus fosse falso! Ban. Pois eu que falar queria a Princeza e dar–lhe conta de Jazon. Trap. Mas minha filha que hei–de fazer? Cec. Ambos juntos nesta mata aqui vizinha se escondam, que eu brevemente tornarei. (Vai–se) Ban. Veja menina que também recado trago para ela. Trap. A rapariga? Ban. Não Senhor para a Princeza. Trap. Isso sem chiton.(Vai–se) Ban. É irra esconder–me com um velho, mas podes ser sogro inda. (Vai–se) 242 Cena II Ban. Este é aquele pirata de cujas unhas podia sair eu maior Bandalho? Trap. Senhor camarada, diga como daqui sairemos, que jogo das escondidas já não é para os meus anos. Ban. Como a saude se arisca neste bosque, eu para a praia parto a procurar notícias de meu amo. Trap. Eu também fora, senão temera a saida e julgo melhor conselho esperar aqui a filha. Ban. E se no entanto chega o diabo que aqui domina e nos leva? Trap. Você pouco parece–me que perdia. Ban. Pois fique você com ele, que se por nada me estima eu tendo a você por muito, fazer–lhe-á muito companhia. (Vai–se) Trap. Ainda assim salvar o corpo como a certo se ajuiza, que posto a filha retorne como aqui estou não me alívia. (Vai–se) (Sai Bandalho) Ban. a em busca de meu amo, porém o medo me incita a que torne acaso fora que encontrasse uma homecida destas que tem só um peito e me esbandalhasse as tripas. (Sai Cecia como as Escuras) Cec. A Deusa Diana seja comigo nesta obra pia que venho fazer aonde acharei meu Pai. Ban. A filha daquele mal encarado é esta, segundo afirma o ruge nige da fala aqui a espero. 242 Opera Nova intitulada Izipile em Lemos ou Os Erros de Learco Premeados. Copiada por Antonio Joze de Oliveira aos 25 de Abril de 1783, pp. 8-9. 316 Capitolo II Cec. Mofina de mim se meu Pai não acho. Ben. Aqui me tens rapariga. (Fingindo–se velho) Cec. De cá a mão, comigo venha. Ban. E os braços também em cima. Cec. Aonde está o criado de Jazon, meu Pai mo diga. Ban. Há menos de duas horas que daqui se foi e ainda que não veio julgo o mataram pelos ais que repetia. Cec. Não há maior crueldade, que dirá Jazon? Ban. Menina para onde vamos, vamos. Cec. Vou tremendo. (Sai Trapalhão) Trap. Não atina a minha idade o camino. (Como as escuras) Cec. Mas gente aqui se avizinha. Ban. Vê, não seja aquela fera que é dos Bandalhos ruina. Cec. Pois chamava–se Bandalho o criado de Jazon? Trap. Da filha é esta voz, não me mente, Cecia onde te emcaminhas? (Gritando) Ban. Deu fim o meu pio paterno, quando outro Pai se acredita. (À Parte) Cec. Pois como a dois Pais encontro, qual é meu Pai não me minta. (Larga a mão) Trap. Com que já me desconheces? Cec. Não senhor, com que ousadia você na mão me pegava fingindo–se meu Pai diga? Ban. Pelo afecto que te tenho, em minha conciência cria ser teu pai. Trap. Senão receara… Cec. Meu Pai que faz, olhe a minha reputação. Trap. Senão fora… Ban. Senhor velho, se imagina a seu crédito perdido eu sou capaz… Trap. Sevandija de que é capaz! Cec. Não se alterem. Ban. De honrar a sua famílha. Cec. Olhem que se aqui nos ouvem mais do que cuidam se arrisca. Trap. Arrisque–se muito embora, que este velhaco me incita. Ban. Veja você como fala, que inda que é Pai da menina, senão me visse as escuras… Trap. Se luz ouvesse veria… (Dentro vozes) Dentr. Vamos ao bosque de Diana. Cec. Ai de mim, que se emcaminha para aqui Eurinome e gente, vamo–nos daqui: de guia lhe servirei meu Pai, ande. (Dá–lhe a mão) e anda tu. (Dá–lhe também a mão) Metastasio, padrão de vida do século XVIII 317 Ban. Anda menina. (Vão–se) 243 Acto II, cena I (Vista de Sala particular) (Sai Trapalhão e Cecia) Cec. Meu Pai não lhe acho razão hei–de donzela morrer? Trap. Não, mas espero has–de ter que te dê estimação. Cec. Pois Bandalho que é Soldado não me dará, sendo certo que está do aumento bem perto, por ser de Jazon criado? Trap. Com Bandalho, isso é loucura, se fora outro qualquer homem… Cec. Ai senhor, veja que o enorme desmente pela figura, sim meu Pai isto há–de ser, eu com ele hei–de casar. Trap. Primeiro te hei–de enforcar de que chegues tal a ver. (Sai Bandalho) Ban. Senhor sogro, que tem cá com Cecia que fala em mim? Trap. VocE, seu villão ruim, quem tal confiaça lhe dá? Ban. Seja comigo mais terno na conceção deste logro, preze–se de ser meu sogro e saiba que hei–de ser seu genro. Trap. Donde estou, que enfurecido não lhe esmurro a conciência! Cec. Senhor Pai, tenha paciência que Bandalho é meu Marido. Trap. Pois não, repara que eu valho mais de que quem te deseja. Ban. Que pouco defere, veja, um Trapalhão de um Bandalho, de mais senão quer que tome a Cecia por mulher fique aqui até que o notefique para as guerras de Eurinome. Cec. Bandalho não faças tal, que é coisa que não convém. Ban. Como senão quer por bem o vinculo marital? Cec. Senhor Pai, isto há–de ser, pode–se desenganar. Trap. Em fim, queres te casar? Ban. Não só, sequer receber. Trap. Que hei–de sofrer este logro. Cec. E também dar–me o meu dote. Trap. Fora segundo, cala–te. Ban. Com que é barro ser meu sogro? Cec. Com que hei–de casar–me, pobre sem limpeza que me vista? Trap. Quem a um Bandalho se alista com pouca roupa se cobre. Ban. Senhor sogro, isso é feição não vestir a rapariga, que quer que o mundo diga, que é filha de um Trapalhão? 243 Ivi, pp. 11-13. Capitolo II 318 Trap. Se eu não quero por tais modos que a apartar–se de mim venha. Ban. e Cec. Não senhor, sustos não tenha, vamos para casa todos. Trap. Para casa, isso é logro e a comer do meu trabalho. Cec. Eu comerei de Bandalho. Ban. E eu de Cecia e mais do sogro. Trap. Em fim remédio não há, queres casar? Cec. Sim Senhor. Trap. Pois eu não quero. Ban. É peior que há muito que feito está. Cec. Pois meu Pai em conclusão, resolvo–me, hei–de casar. Ban. Eu não lhe posso faltar. Cec. Bandalho vem, dá cá a mão. (Dá–lhe a mão e vão–se) Trap. Neste caso, estas cans minhas que farão nestas afrontas, vou–me rezar pelas contas em tanto que troço linhas. (Vai–se) 244 Cena III (Vista de camera de Trapalhão com uma banca ou bofete que tenha gaveta) (Sai Bandalho e Cecia com uma bolsa) Cec. Meu Bandalho, nesta bolsa meu dote tens em moedas, porque não quero que digas me levaste pela orelha. Ban. Eu para casar contigo a ti te buscava Cecia, não pertendia mais dote do que o da tua lindeza, mas bom é que haja dinheiro para as contínuas despesas. Cec. Porém, vê lá onde o metes, não entre o velho em suspeitas, porque inda agora o não sabe que lho tirei da gaveta. Ban. Pois dize–me, sendo avaro podia deixá–la aberta. Cec. Como aberta? A sete chaves a tinha com tal cautela que as seis tinha-as no cuidado, tinha a outra na algibeira, esta lhe pilhei dormindo […] pela experiência ser bem certo que quem dorme também lhe dorme a fazenda. Ban. Porém, que dirá o velho quando tal saiba, que esperas tu dizer–lhe, porque eu possa falar pela boca mesma. Cec. Negar inda que me meta. Ban. Pois eu da própria maneira o farei, inda que morra, porém é verdade certa que ladrão que tem dinheiro na forca nunca pende. Cec. Mas Bandalho, a bolsa esconde, repara que o velho chega e porque em nós não suspeite, vamo–nos daqui depressa. (Vai–se) […] (Sai Trapalhão) 244 Ivi, pp. 17-19. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 319 Trap. Donde estará esta filha, depois que noiva se esmera para cuidar no marido, de mim se esquece; mas veja que ainda tenho aqui guardado (Apontando para o bofete) muito bem debaixo desta (Tira a chave) chave o dote que me pede, mas para que não suceda que quando haja de entregá–lo saiba o mais que aqui se encerra, agora que só me vejo quero separá–lo: oh se ela esta chave me apanhasse! Cerro esta porta, não venha (Fecha a porta) algum deles que regalo (Abrindo a gaveta) é contar dinheiro, seja louvado Baco, que gosto, mas ai de mim que a gaveta (Como acima) primeiro do que eu vejo outrem quem seria senão Cecia? Ah Trapalhão desgraçado (Arrepelando–se, chorando e mordendo– se) mofino que melhor te era seres cativo de Mouros, teres cobradas as pernas, perderes os olhos ambos, andares posto em moletas do que veres que te falta tanto dinheiro. O perversa (Gritando) filha, ó maldito Bandalho, se acaso para esta ideia concorreste hei–de matar–me . (Sai Bandalho e Cecia pela parte contrária) Cec. Senhor Pai de que se queixa? Ban. Senhor sogro porque chora? Trap. Porca ladina, michela, põe aqui todo o dinheiro que me roubaste. Ban. Ora atenda o que fala, que é vergonha de que chore por moedas um barbaro, é ser criança. Cec. Pai e Senhor, nunca creia, cuida que me capacito do que me diz, se isso é treta para não dar–me o meu dote, comigo se engana. Ban. Cecia tem mão, que has–de vencê–lo. Trap. Com que dize, capaz era dizer por uma outra coisa. Ban. È logo verdade certa que algum dinheiro lhe falta? Trap. Alguma soma, não pequena. Ban. Pois quando seja assim, chora por uma tal bacatela? Cec. Pois não sendo por dinheiro, porque causa se lamenta? Ban. Cale–se que me envergonho de ver que meu sogro seja… Cec. Senhor Pai, venha o meu dote que o mais que diz é arengas. Ban. Olhe, cá você não sabe o genro que tem, quisera para dar–lhe esse dinheiro ter já o dote da Cecia. Cec. Escusemos mais tramoias logo e já o dote venha. Trap. Ah que del–Rei, que estou roubado, roubares–me mais não queiras. Cec. Não fale assim, não presuma alguem vendo que se queixa que eu fui a roubadora. Ban. Senhor sogro, se a contenda é pelo dote não faça caso de tal. Cec. Porque regra com que já tu dispor queres do meu dote, isso não, tenha paciência, venha o dote ou senão tenha paciência, Bandalho agarra no velho em quanto eu vou a gaveta. (À parte para Bandalho) (Agarra Bandalho em Trapalhão e Cecia vai a gaveta) Capitolo II 320 Ban. Sim vai descansada. (À parte para Cecia) Diga senhor sogro a porção era muito grande, na verdade que me lastimo, mas nessa capa que tem há rotura volte–se cá. Trap. Que inda mais essa. Ban. Ah mulher agora é tempo. (À parte para Cecia) Cec. Segura-o que não se mexa. (À parte para Bandalho) Trap. Quem me acode que me roubam. (Reparando) Ban. Vá, não faça resistência. Cec. Agora que o dote levo, largá–o e segue–me depressa. (À parte para Bandalho. Vai–se) Ban. Como não hei–de seguir–te, se duas almas me levas. (Vai–se) Trap. Ora estou bem aviado não há quem se compadeça de mim: dando–me um garrote ou veneno: desta feita senão cobro o meu dinheiro, juro pelas barbas mesmas que hei–de fazer um Bandalho maior que Bandalho a Cecia. (Vai–se) 245 Atto III, cena II (Vista de Sala Particular) (Sai Bandalho fugindo de Trapalhão que vem com uma faca atrás dele e Cecia pegando e sustendo o Pai) Cec. Senhor Pai, isto é loucura! Que quer que esta gente diga vendo que com esses anos faz coisas de raparias. Trap. Em ti vil filha também poderei vingar–me. Ban. Cecia tem mão, vê que vibras contra mim o ferro adonde escapares das centenarias iras. Trap. Há–de pagarme, magano, da traição à aleivosia agarrar–me pelas costas para tirar–me da gaveta a china. Ban. Senhor sogro, não abuse da minha prudência. Trap. E ainda fala em prudência velhaco. (Querendo envesti–lo e Cecia o suspende) Cec. Ora não, basta já meu Pai de brigas. Trap. Não basta, sem que lhe tire com este punhal as tripas. (Quer dar–lhe e Cecia suspende-o) Ban. Cecia, adverte que se o largas… Cec. Porque da mão a faca lhe não tiras? Trap. Tirar–me o punhal, tu porca, também contra mim o ensinas. Ban. Sabes tu porque o não faço? Porque o medo é maior que a valentia, porém agarra tu nele. Trap. Que agarre em mim, que malícia! Cec. Senhor Pai, ou se acomode ou veja que me mato. 245 Ivi, pp. 25-28. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 321 (Quer firir–se com o punhal que tirou ao Pai e este o supsende a tempo que anda mudando, apanha Bandalho o punhal e quer dar em Traplhão e Cecia o suspende) Trap. Oh rapariga… Ban. Larga–me esse punhal Cecia, pois senhor sogro queria matar–me, pois morra agora. Cec. Ah Bandalho que fazes? Trap. Ó sevandija, quem lhe meteu na cabeça, diga–me, que eu o temia. (Vai para Bandalho) Band. Senhor sogro eu lhe requeiro que se acaso de mim não se retira… Trap. Que há–de fazer sendo um fona? Ban. O velho conhece–me a cobardia. (À Parte) Cec. Isto só tem remédio quando um desmaio acidental se finja. (À Parte) Ban. Retire–se, olhe que o mato. (Empunhando a faca) Trap. Se tem valor ande em vista. Cec. Ai e não há quem me acuda? Ban. Cecia que tens? Trap. Que é isso rapariga? Cec. Não é mais que um desmaio. (Cai desmaiada) Ban. É muito boa a gracinha. Trap. Você tem a culpa, agora que remédio há–de ter? Ban. Que água fria, ande depressa vá buscá–la. Trap. Se acazo he boa a mezinha eu já correndo aqui torno. (Vaise) Ban. Ai Cecia torna em ti minha menina. Cec. Como já se foi o velho, já torno em mim que queria somente que um se appartasse. Ban. Sim mas logo trará a medicina. Cec. Que importa, se antes que venha nos vamos porque seria tornando e achando–me boa como antes continuar na mesma briga. Ban. Pois Cecia, porque fiquemos de uma vez livre do ginja de Jazon […] Cec. Vamo–nos, antes que chegue, porém vê que a feição minha não merece que me enganes por me levares honrada moça e rica. Ban. Ora nunca te vi asna senão agora: entendias de mim semelhante coisa, nua e crua te amava rapariga, ora anda segue os meus passos que o velho aqui se encaminha. (Vai–se) Cec. Queira amor não nos encontre, porque atrás do dinheiro não nos siga. (Vai– se) (Sahe Trapalhão com uma bilha) Trap. Aqui Bandalho tens água, mas já se foram, bonita ma fizeram os rapazes, ora é certo que quem com eles brinca já se sabe que se é noite o como amanhece; Capitolo II 322 eu cri que era desmaio, em desmaio porém foi estupor na bolsa minha não me hão–de me escapar: atrás deles correndo vou […] (Vai–se) 246 Del tutto differente è l’adattamento copiato dallo stesso de Oliveira esattamente un mese dopo, il 26 maggio 1783, comprensivo di mutamento di genere (da ópera nova a drama trágico e heroico), di mutamento significativo di sottotitolo, Izipile em Lennos ou O Levante das Amazonas, che in questo senso sposta decisamente l’attenzione dagli “errori di Learco premiati” alla centralità della vicenda della vendetta femminile e, infine, comprensiva d’inserimento della maschera comica ridotta al solo conflitto uomo– donna, del resto tensione permeata sin dalla vicenda originale metastasiana, e qui incarnato da soli due criados: Calambeque, servo di Jazon, e Balandra, serva di Izipile, nomi già incontrati nell’adattamento della Didone abbandonata del 1782. Per rimanere sulla linea del rilevamento degli aspetti più singolari degli adattamenti al gusto portoghese, in questo caso possiamo mettere in evidenza un episodio di violenza fisica reale e al femminile, nei confronti del servo Calambeque, naturalmente in sintonia con l’innovativo tema di fondo, oltre ad altre caratteristiche particolari: l’insistere divertito su metafore verbali inerenti all’attività del navigare di Calambeque; il travestimento mirato del servo pretendente sotto mentite spoglie di medico specializzato in acciacchi generici; inesattezze storicocronologiche come il riferimento in un primo tempo al Tempio di Bacco ed in seguito all’invocazione degli angeli. Izipile em Lennos ou O Levante das Amazonas (1783) Acto I, cena I Cal. Ai senhor, aonde vai? Mas adeus luzes que se apagam as candeias. […] ora boa viagem senhor meu amo, mas ai que perdi o rumo daquela e me é difícil seguir a derrota, sempre marco o pano por bombordo a ver se no mar da minha desgraça encontro alguma aragem de fortuna, mas que correntera é esta que me leva? Vamos viajando mas tá que nós temos embarcação a uma vista […] e vou com a proa sobre ela antes que dando–me a popa faça–me 246 Ivi, pp. 41-43. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 323 alguma descortesia e como ela vai com todos os passinhos largos, mas como eu velejo bem dou–lhe caça de carreira. Oh da embarcação! (Grita) (Sai Balandra ao longe) Bal. A este Templo de Baco venho procurar minha Senhora Izipile, e de caminho fazer a minha costumada reverência aos Deuses, porém como estão as portas fechadas tornaremos por onde vivemos. ( Quer ir–se) Cal. Ai sio, oh da embarcação! Bal. Algum Pirata dos Lennos temos. (À Parte) Cal. Arribe, senão boto o catraio fora. Bal. Eu não ouço fallar por buzina. Cal. Não ouve? Pois receberá o que lá for. Bal. É preciso que ache em mim resposta, porque me não leve assim as mãos lavadas. (À Parte) Senhor afaste–se, não, não venha a balouçar com a gente porque levará quatro ameixas. Cal. Boa peça e pelo ronco é vinte e quatro. Bal. Pois não teme que esta Balandra o meta a pique, olhe que descarrego. Cal. Valha–te uma balla. Bal. Olhe que disparo. Cal. Truz truz, lá passaram as palanquetas por cima da minha cabeça, o certo é que isto cá é Calambeque que senão rende a qualquer Balandra. Bal. Senhor arriba ou não arriba? Cal. Não arriba. Bal. Pois só vai uma banda das minhas pelo seu costado. Cal. Oh rapariga, tem mão, não me faças a pontaria ao vazio, que bem vês que já vou em cheio. Bal. Já nós lá vamos. Cal. Não, mal feito. Bal. Pois tome para assagem que me parece que não há–de ser pequena. (Dá– lhe) Cal. Tem mão, oh Balandra, da–me antes pelas obras mortas, e não por parte aonde comece a fazer agora. Bal. Vejam que esta embarcaçaô me havia de aparecer, senhor vai–se o fique neste lugar. Cal. Não! Eu vou–me mas é indo na minha companhia sempre dando a bomba. Bal. Viu–se empurração maior! Cal. (Antes que chegue a mais a sua desesperação) Balandra falemos com o Deus, com os Anjos, vê que eu não sou Calambeque pirata mas Calambeque sambuco, que aqui ando como viram, como alma do outro mundo. Bal. Nome de benta, ora vou–me porque se me arrepiam os cabelos. (Va–ise) Cal. Ora, certamente que a fiz como os meus narizes, mas eu protesto de que trasformando–me em várias formas a pesque em termos em que a reduza para 324 Capitolo II minha amada, que a rapariga é suja que nem um azougue e se chego a casar com ela, que ricos filhos que nós teremos. (Vai–se) 247 Acto II, cena I Bal. Outra coisa se não gaba em Palácio mais que uma lebre, mulher que se vejo introduzir por creada de minha Ama, a Senhora Izipile, eu ainda a não vi, porém dizem que é peça leal também […] Valha a verdade que é mulher prodiga e cura de algumas enfermidades, mas isso veremos nós quando lhe comunicar os meus achaques, porém que desconhecido vulto é o que para mim se vem chegando? Se é de Calambeque a visão, eu te conjuro alma de Barrabas. (Vem saindo Calambeque) Cal. Não se asuste minha rica senhora, que não é nada do que a menina lhe parece. Bal. Tu és aquela celebre mulher que viestes para Palácio, e cura queixas nunca vistas? Cal. Tanto não posso eu dizer minha Senhora. Bal. Já que tanto conheces e pelos corações humanos é, quero que me digas que é o que neste instante penetras de meu melancolico pensamento e se o advinhares dar–te–ei o meu coração e alma e todas as suas potências. Cal. Muito prometes, mas sem receber paga adiantada, o que sentes no teu pensamento é o aperto com que vive neste Palácio de não poderes dar um adeus a quem te adora. Bal. Oh que bem advinhaste, só tu é que podias acender a luz que estava apagada ne candeia da minha memória. Cal. Porém eu te hei–de noticiar um moço, ainda que de tenros annos, muito experiente para curar esses achaques e outros muito mais melindrosos. Bal. E quem é esse moço? Cal. É um meu sobrinho, e entende–se muito bem. Bal. E como é o seu nome? Cal. O doutor Apio. Bal. É moço ou velho? Cal. Não lhe disse já que era rapagão e bem encaixado para desencaixar do pelago do seu entendimento qualquer receita para as maiores queixas de qualquer mulher? Bal. Pois se ele ser optimo remédio a meus males, em mim terás também de amiga quanto agora tens de criada para o teu serviço. (Vai–se) Cal. Pesquei a rapariga, ora o certo é que a indústria é mais da sagacidade, e que sem esperteza de ideia ninguém logra o que se lhe dificulta. 247 Drama tragico e eroico intitulado Izipile em Lennos ou O Levante das Amazonas, copiado por Antonio Jozé de Oliveira aos 26 de Mayo de 1783, pp. 5-6. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 325 Aria No campo minha Avó quis morrer certa história contava em que dizia certo bicho via estar a quem lho deu o nome de raposa o Sol da Índia doze pintos em um destes lhe comeu mas com tal modo e jeito que fazia o furto perdoar–lhe pois se lembrava que sem destro bem ser ninguém caçava. (Vai–se) 248 Acto III, cena II (Sai Calambeque de Médico e logo Calandra) Bal. Serenissimo Sr. doutor aqui está, como lhe tenho dito todo o meu achaque em carne, receite o melhor remédio que no mais Deus nos ajudará. Cal. Entre um calepino de queixas veio um mapa de molestias; e a tal redes de achaques por não bolirmos nesse volume de misérias será melhor usar de alguns remédios tópicos. Bal. Do meu mal, e do meu bem já V.m. esta muito bem inteirado, porque lhe descobri todos os meus poderes. Cal. Ora vamos primeiro por partes. Bota a língua fora. Bal. Botar a minha língua fora como, se me é necessária? Cal. Não diga isso, quero que abras a caixa da boca para examinar o teu palmo de língua. Bal. Pois diga isso, e não que a bote fora! Eu sem a minha rica língua o que seria de mim. (Abre) Cal. Está bastatemente aspera, é preciso logo logo tomar uma boa descarga, porém filha eu não te posso curar com menos tempo de refresco que o de nove mezes. Bal. E em que remédios? Cal. Com uns poucos de banhos. Bal. Banho é do que eu mais tomo no dia. Cal. Não, que estes banhos não são de água tépida. Bal. Pois ainda há outra qualidade de banhos? Cal. Os Parroquiaes em três semanas do mês te há–de dispor esse teu corpo para a evacuação da descarga que necessitas, porque o teu mal todo é cupidista, e nasce de um desmarcado fastio que tens ao Matriomonio. Bal. Visto isso, estou em grande perigo por causa dessa queixa. Cal. Eu não digo que disso morrerá, porém… Bal. Porém ! Que! Eu logo declaro que quero que trate da minha saúde. 248 Ivi, p. 15-v17. Capitolo II 326 Cal. Pois em se comformando com as receitas do médico fique segura que a hei– de por sã como um perro, porém é preciso também de alguma sorte comresponder a quem a cura. Bal. Eu sou daquelas que sempre falei a todos os médicos com o coração na mão. Cal. Pois isso é que não presta, porque as vezes é necessario mentir. Bal. É coisa que nunca fiz, sou rego direito, pão, pão, queixo, queixo; e quem houver de tratar comigo há–de ser do mesmo jaez. Cal. Pois então é chegada a ocasião de te explicar quem sou na realidade: pois sou, ó riquissima Balandra, aquele mesmo Calambeque que andando até agora ao teu socairo sem a certeza da tua palava, te desejo para minha marida. Bal. Pois tu és Calambeque escomungado? Cal. Eu sou o que por ti me fingi velho, entrando em Palácio com o pé da presente transformação de doutor para poder–te dizer quanto o meu ferido coração por ti suspirava. Bal. Grande excesso na verdade, e é de todo o coração esse afecto que declaras? Cal. É dó intimo desta alma, pois pelos meios da voz hoje tanto se explica. Bal. Pois está feito, tomarei os banhos por ver se no decurso dos nove mezes como se dispõe a natureza. Cal. Venham então ambas as mãos, pois desde já te seguro a saúde as carradas. (Vão–se) 249 II.13. Semiramide A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO ~ MADRID Vienna 16 Dicembre 1752. Insieme con questa lettera sarà consegnata al signor don Antonio de Azlor250 la Semiramide riconosciuta da me ridotta all’uso di cotesto real teatro. Questo mestiere di ciabattino non si fa che per l’impareggiabile mio gemello. Per altro io vi sono obbligato d’avermi, per dir così, violentato a farlo, perché quest’opera, di cui io non era pienamente contento, è diventata ora la mia più cara. Ha ella acquistato con questo contrappelo (che per altro vi accorgerete non essere stato leggiero), ha acquistato, dico, una certa continuazione di fuoco, che ristretto in minore spazio dovrebbe fare scoppio maggiore. In fine io ne sono contento; cosa rarissima quando si tratta di mie produzioni251. 249 Ivi, pp. v25-26. Ambasciatore di Spagna a Vienna. 251 P. Metastasio, op. cit., vol. III, p. 768. 250 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 327 La propensione del Metastasio a “ridurre” e modificare l’impianto complessivo delle proprie opere a favore di una maggiore adattabilità ai gusti di quel pubblico a cui di volta in volta erano destinate le relative rappresentazioni e, nel caso specifico, l’atteggiamento già altrove sottolineato di una certa benevolenza nei confronti di quelli che Andrea Chegai ha definito “drammi metastasiani aggiustati”252 in area iberica, stimola ancor di più la nostra riflessione sulla consistenza, efficacia e legittimità dei nostri adattamenti al gusto portoghese, di cui la Semiramis reconhecida del 1785 (fig. 29), che Giuseppe Carlo Rossi attribuisce alla mano di Nicolau Luís, è sicuramente uno tra gli esempi più rappresentativi e riusciti. In realtà l’anno proposto dal Rossi per questa versione adattata della Semiramide (di cui, tra l’altro, versioni in lingua originiale circolavano già dal 1765), dev’essere retrodato di almeno un anno e riportato precisamente al 2 febbraio 1784, data apposta in calce ad un manoscritto, copia probabilmente di versioni ancora precedenti, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Lisbona e sul cui frontespizio possiamo leggere Comedia intitulada Semiramis reconhecida em Babilonia e che, naturalmente, presenta gli stessi criados della traduzione del 1785. La versione precedente potrebbe essere probabilmente quella citata da José da Costa Miranda nei suoi già riferiti appunti su Metastasio, laddove lo studioso portoghese considera il parere favorevole alla pubblicazione di un’opera dal titolo Entre aggravos a constancia, indicata come traduzione della Semiramide metastasiana e risalente al 28 aprile 1776: Pretende Antonio Pinto de Carvalho fazer representar no novo Teatro da Vila de Chaves a Comedia intitulada – Entre aggravos a constancia -. Esta Comedia he uma tradução da Opera de Metastacio – Semiramis –. O Autor lhe introduz algumas scenas escusadas, com episodios estranhos da Fabula, talvez para se acomodar ao abuzo com que o Povo costuma gostar do Teatro. Contudo como não contem couza que offenda a Religião, e Regalia do Estado sou de parecer se lhe conceda a Licença que pede. Lxa. Conferencia de 28 de Abril de 1776. a) Antonio Sta. Maria Lobo da Cunha253. 252 253 A. Chegai, op. cit., p. 38. J. Da Costa Miranda, Apontamentos, cit., p. 134. 328 Capitolo II Di questo parere della Real Mesa Censória, il Miranda rileva soprattutto l’implicita polemica nei confronti di trasformazioni e aggiunte, che non si dovrebbero attribuire tanto al traduttore quanto ao mau gosto que então reinava entre o público que assistia e procurava o espectáculo teatral, de características populares, obrigando [o tradutor] a reger-se segundo situações chocarreiras, de baixo padrão, frases licenciosas, inclusão de personagens de todo estranhos à acção inicialmente conduzida no texto original. Aquela versão de uma obra metastasiana oferece, portanto, ao censor escolhido para a examinar, o pretesto para uma condenação do teatro popular, absorvido pela farsa grosseira. Aceita o facto como uma invencível fatalidade. Lavra, porém, o seu protesto254. Ma, se da un lato il rispetto fedele alla struttura e ai contenuti di partenza emergono principalmente da un concatenarsi di atti e scene del tutto simile all’originale metastasiano, dall’altro le discrepanze inerenti anche all’autentico argomento metastasiano emergono con una certa evidenza. Elementi di originalità nella traduzione del tessuto narrativo originario sono presenti sin dalle prime pagine della versione portoghese quando, ad esempio, si accenna alle circostanze che permisero a Semiramide di salvarsi dopo il ferimento da parte di Idreno, la generosità di un pietoso pescatore per il traduttore lusitano («Por sua mão fui ferida,/e lançada a toda a preça/no soberbo, e ondoso Nilo,/no qual, em fim, eu morrera/se um piedoso Pescador/me não salvara»)255, semplicemente la morbidezza dei salici per Metastasio («Unica e lieve/Fu la ferita; e la selvosa sponda/Co’ pieghevoli salci/La caduta scemò, mi tolse a morte»)256. Oppure sottoforma d’immissione di ornamenti stilistico–lessicali che attingono a figure forti costruite con spettacolarità barocca, com’è il caso dell’apostrofe di Scitalce a Semiramide («Ah perjura, cruel, fera enganosa,/alma, sem ter amor, falsa enganosa,/Crocodilo fatal, Hydra inumana,/Serpente venenosa, em fim, tirana,/malevola mulher, vil 254 Ibidem. Ibidem. 256 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 260. 255 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 329 creatura,/nascida para minha desventura,/nascida para o meu fatal perigo»)257 o dell’aria seguente: EDIZIONE HÉRISSANT 1780-82 Atto I scena V SEMIRAMIS RECONHECIDA 1784 Acto I, cena II Tam. Gran sorte in ver del mio sembiante è questa! Tam. Não posso acreditar, que no teu peito Haja afecto, ternura, incêndio, e agrado; pois génio a domar serás costumado, não pode às leis de Amor estar sujeito. Um coração altivo, o doce afecto não sabe tolerar do Deus vendado, e quando diz, que adora o seu cuidado senão deve atender porque é suspeito. O crédito te usurpa essa fereza, com que finges de amor a fé segura sem mudares doutra a natureza. Pois afecto sem mimo, e sem cultura, mais se mostra lisonja, que fineza, mais parece rigor, do que ternura259. Che quel cor, quel ciglio altero Senta amor, goda in mirarmi, Non lo credo, non lo spero; Tu vuoi farmi insuperbir: O pretendi, allor che torni Ai selvaggi tuoi soggiorni, Rammentar così per gioco L’ amoroso mio martìr258. Per venire all’impressione di quell’eccessivo scivolare nella volgarità colloquiale dei tre graciosos della Semiramis Reconhecida ― che qui hanno nome di Casmurro (“testardo, pignolo”), servo di Semiramide, Zarolho (“guercio” da zarco, “occhio celeste”), servo di Scitalce, e Denguice (“leziosaggine, smanceria”), serva di Tamiri ― basterà citare passaggi come «Casm. Sem duvida que estas ausências/são feitas a meu respeito:/ah porquita, porcalhona!/Deng. 257 Comedia Nova Intitulada Semiramis, copiada por José António de Oliveira, 2 de Fevereiro de 1784, p. 11. 258 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 266. 259 Comedia Nova Intitulada Semiramis Reconhecida, op. cit., p. 8. 330 Capitolo II Só por você estou morrendo./Casm. E não há um bacamarte/com que vos faça em esterco?»260, o informazioni tra il libertino e il progredito come «Casm. […] mas o peir são os filhos,/porém tê–los não é certo,/porque a Senhora Denguice / usa de tais comprimentos,/que suponho…»261. Tuttavia, benché l’azione comica qui si concentri in due lunghe scene centrali nettamente isolabili dalla trama principale, gli interventi dei tre servi compaiono spesso qui e là nel testo per sottolineare o commentare determinate situazioni inerenti ai protagonisti originali della Semiramide, sempre con sfumature comiche che non risparmiano vizi e virtù dei regali personaggi in scena: Denguice commenta così l’impressione ricevuta dalla presentazione di Ircano «Muito feio é este homem!/A voz parece-me um raio»262, e poi ancora «Forte cara de masmarro!»263; così come Casmurro oserà commentare in questo modo lo sprezzo del pericolo proprio dei prìncipi: «Estes Príncipes são tollos,/querem morrer a pé quedo,/quando todos, para a morte,/querem ter os pés ligeiros»264. Immancabile, inoltre, il noto parallelismo tra la linea narrativa “alta” del dramma sentimentale e quella più bassa del triangolo comico– sensuale dei tre servi, qui espresso in una battuta di Zarolho: «Venho, sem saber por onde,/para ver se acaso è certo,/que estes patifes dos Scitas,/com seus costumes travessos,/levam Tamire roubada,/porque se ela foi, receo,/que à minha Denguice/também succeda o mesmo:/vamos ver se incontro alguém/que me informe do sucesso»265. Il primo incontro–scontro tra i due personaggi maschili contendenti in amore viene collocato all’interno di una scena ad alta tensione drammatica, quella che vede Tamiri accogliere i suoi pretendenti, tra i quali Semiramide scopre celarsi il suo antico amante: 260 Ivi, p. 14. Ivi, p. 21. 262 Ivi, p. 5. 263 Ivi, p. 7. 264 Ivi, p. 37. 265 Ivi, p. 35. 261 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 331 Acto I, cena I Casm. Vai com muita pressa, amigo? Espere, que logo vamos. Zar. Não me posso demorar, não vê que vou com meu amo? (Vai–se) Casm. Pois adeus, lá nos veremos, antes da noite no Paço; não me olhe para esta moça, senão quer que o faça em quartos266. Eccoci quindi alle due lungue scene centrali della commedia dei graciosos. 266 Ivi, pp. 7-8. 332 Capitolo II Figura 29. (Co. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 3). Metastasio, padrão de vida do século XVIII Semiramis Reconhecida (1784) Acto I, cena II Zar. Perdido neste Jardim há mais uma hora me vejo, sem poder dar com a entrada de Palácio, vamos vendo se topo alguma alma boa, que me tire deste enredo: o Jardim sim é bonito, tem mui galantes passeios, bonitas casas de murtas, embrechados mui selectos, tem flores mui esquizitas, Estatuas, Fontes, embelecos, mas fruta que manducar é coisa que aqui não tenho: mas parece sinto passos, deve ser o Jardineiro; mas ai, que é a Mocetona por quem de amores me perco; escondido nestes ramos, o que procura veremos. (Esconde–se) (Sai Denguice) Deng. Tenho do Palácio as Salas já corrido com disvélo, em busca daquele moço que ser criado suspeito de Sitalce, sem que possa encontrá–lo para vê–lo: ai amor, como depressa te introduziste no peito! Mas suponho que ele ingrato já terá outros empregos. Zar. Mais que ditoso é menina (Saindo) quem dos teus lábios tão belos ouve tão doce expressão, observa tão fino excesso. Sabe pois que eu desvelado só a teu respeito venho, qual Salamandra, abrazá–lo no fogo dos meus disvélos; pois desde que vi teus olhos tão matadores, tão meigos, me ficou esta alma a um lado. Todo torcido este peito; as pernas com suas caimbras, e os olhos um pouco avessos. Deng. Cale-se, não diga mais; já vejo que é lisonjeiro; olha eu sou muito sincera, de malícia não entendo; a primeira vez que o vi fiquei por você morrendo, porque não sabia que era um tão forte trapaceiro, mas desde agora lhe digo que saiba, que o aborreço. Zar. Esta menina sem dúvida é como o tempo do Inverno, vejo-o com Sol de manhã, e de tarde com chuveiros. (À parte) Ora diga–me, meu bem, (aqui em muito segredo) se inda agora principiam em nós de amor os extremis; já achou que sou ingrato, mentiroso e lisonjeiro? Continue em me querer, verá os doces afectos, com que seriamente a trato sem outro qualquer emprego; antes eu é que devia só do teu amor ter zelos, pois aquele mocetão ser do teu agrado creio, porque os olhos não tirava do teu rostinho tão belo. Deng. Ai, que forte testemunho, Deus me livre, eu o arrenego! (Sai Casmurro) 333 334 Casm. Dos meus zelos aguçado atrás de Denguice venho, pois para este Jardim… mas ai! Meu dito, meu feito. Ela cá está com o tratante, escondido, ouvi–los quero. (Esconde–se) Zar. Não se esconjure, meu bem, ele é todo o seu emprego. Deng. Basta digo-lhe deveras, que a tal homem aborreço. Casm. Sem dúvida que estas ausências são feitas a meu respeito: ah porquita, porcalhona! Deng. Só por você estou morrendo. Casm. E não há um bacamarte com que vos faça em esterco? Zar. Veja lá o que promete, que eu lhe hei–de andar ao cheiro, e se para aquele droga olhar com olhos direitos… Deng. Prometto ser-lhe fiél, e você promete o mesmo? Zar. De mim, não tenha cuidado, sou firme como um rochedo. Casm. Estou capaz de ir massar o corpo deste sendeiro. Deng. Pois, meu bem, não me demoro, porque me pode achar menos minha ama: adeus meus amores, brevemente nos veremos. Zar. Não me dás por despedida um abracinho, ou um beijo? Deng. Olhe, eu sou mui vergonhosa, Nunca nos homens dei beijos, Se quer um abraço só, Venha de mim recebê–lo. Casm. Há maior pouca vergonha, de inveja me estou mordendo! Zar. E dê–mo bem apertado, Capitolo II pois de outra sorte o não quero; aperta menina aperta anda não tenhas receio. Casm. Pé, antepé, vou-me a eles, vejo se posso prendê–los, que em quanto estão devertidos será fácil o fazê–lo. (Sai e vai por detras deles, e os amarra com uma corda sem eles verem). Deng. Abre lá tanto apertar! Zar. Tens razão basta de aperto. Tu dizes que não te aperte, tu estás fazendo o mesmo? Deng. Tu queres com este abraço meter-me as costelas dentro? Zar. Menina, não vai de valha, olha que me aleija o peito. Casm. Ora já estão amarrados, vou-me escondendo ligeiro, que isto hoje há–de ter que ver. (Oculta–se) Zar. Mas, menina, que é o que vejo! Nós estamos um ao outro com uma corda bem presos? Deng. Você é que tem a culpa deste Mágico sucesso, que será de nós agora se soltar-nos não podemos? Zar. Como os cãos, apredejados dos rapazes nós seremos. Casm. Deixem-se estar abraçados, não usem de cumprimentos. Zar. Oh menina, nesta terra há Bruxas, ou Feiticeiros? Isto é couza do Diabo, a corda é como um ferro! Deng. São castigos certamente dos meus costumes travessos; que me importava a mim dar-lhe abraços antes do tempo? Metastasio, padrão de vida do século XVIII Oh minha casta Diana perdoai este meu erro, desatai-me esta prisão. Zar. Olhem que está forte aperto! Casm. Ora quero–lhe outro logro pregar, que vem bem a tempo: vou-me revestir de velha rebolindo, e logo venho. (Vai–se) Deng. Não trazes contigo faca com que esta corda cortemos? Estou vendo se minha ama… Ai de mim, estou morrendo! Zar. Estou vendo se meu amo vem dar com este estafermo! E assim por modo de brinco me faz o corpo em farelos! Deng. Não há desgraça como esta! Zar. Não há caso mais horrendo! Deng. Olhe os seus negros abraços, o que de coisas tem feito! Zar. Olhe, eu tenho dado muitos, mas nunca com tanto aperto. Deng. Isto são pecados meus! Zar. Eu também no mesmo assento. Deng. Mas ai que sinto passadas! Zar. Ai que temos gente perto! Deng. Pois fujamos: porém como! Diana ouve os meus ecos. (Sai Casmurro vestido de velha.) Casm. Aqui me manda Diana (ah velhacos velhaquetos) soltar-vos dessa prisão, e dar–vos um bom varejo; pois loucazinha, bandalha, e tu, Peralta, brejeiro, sabei que a casta Diana não sofre tais desconcertos: quando vocês se abraçaram 335 me mandou para prendê–los, e o gosto dela só era que ficassem sempre presos; mas por minha intercessão mudou seus impios intentos; ela sabe que a Casmurro prometeste casamento, e que por este bandalho lhe fazes muitos despresos; trate de casar com ele… Deng. Bem sabe que é muito feio, e que eu como rapariga… Casm. Se replicar, deixo–os prezos. Deng. Não Senhora, não Senhora, eu deveras lhe prometo… Casm. Qual prometer? Não Senhora, não creio em cumprimentos, a Casmurro mando aqui, e eu lá do meu aposento verei se cumpre a palavra de por Esposo querê–lo, e ele os soltará então depois do recebimento. (Partindo) Zar. Senhora (quem quer que é) solte-me daqui primeiro, que se Casmurro aqui vem me faz o corpo em esterco. Casm. Não, porque essa autoridade inda dada lhe não tenho, porém depois que casado seja com este portento, se você chegar a ela se quer com o pensamento, para lhe tirar a vida poder, então lhe concedo. (Este logro é desmarcado; de rizo me estou perdendo) (À p. e Vai–se) Zar. Vai-te espirito infernal, Dragão do funebre Averno, Capitolo II 336 diabolica agoureira, causa dos meus sentimentos; quem dissera amado bem, que dentro em tão breve tempo se havia extinguir em nós a chama do amante afecto? E agora dize, menina, nunca jamais nos veremos? Deng. O ver, sim, porém falarmos, é coisa, que não podemos. Zar. Pois nem se quer com as pestanas fazermos quatro trejeitos? Deng. Não vez que morre se acaso te resolves a fazê–los? Não ouviste de Diana o inviolável perceito? Zar. Assim è, ai desgraçado! (Chorando) Deng. Não chore que eu esmoreço. Zar. Pois inda me tens amor? Deng. Não posso deixar de tê–lo. Zar. Oh que tão doce expressão oh que mal logrado afecto! Deng. Forte sacrifício faço Em fazer tal casamento. (Sai Casmurro) Casm. Aqui venho por mandado de Diana… (o logro é fero) a ver a pouca vergonha com que vocês, sem respeito, atropelando a modestia, fazendo-me gaudiperios267 em abraços repetidos estão um ao outro preso: mal cuidavam, toleirões, que houvesse este sucesso; 267 Termine dal significato oscuro. é porque saibam vocês o inexplicável apreço, que a deusa Diana faz do meu garbo, e meu talento: vendo que você, traidora, por um tão torpe estafermo, desprezava esta beleza, esta figura, este objecto, em que muitas moças lindas tem invidado o seu resto; te prende onesta figura para castigo e exemplo, dos que forem, como tu, de tão mau procedimento: mas comovida também desses teus anos tão tenros, me pediu interessada, fazendo-me um forte empenho, que te desse a mão de Esposo; eu não queria, por certo, pois quem o demo uma vez tomou, é ditado velho, que sempre o jeito lhe fica: olha-me com arremessos? Oh cão, desavergonhado, ponha-se ai já de joelhos. Zar. Não vê que estou amarrado, e que não posso fazê–lo? Casm. Ajoe–lhe você também, vão os dedinhos erguendo. Zar. Aqui está já levantado. Casm. Nisso é você mui ligeiro; venha esta mão, rapariga, basta já de erguer os dedos, vire para cá o focinho, seu cara de bolo armenio, quero seja testemunha do nosso recebimento; e se põe alguns embargos, vou-me embora, deixo-os presos. Deng. Aqui está a minha mão. Zar. Ai! Ai de mim que arrebento! Casm. Que é isso, tem Metastasio, padrão de vida do século XVIII fernezins? Zar. Não Senhor, eu nada tenho. Casm. Sabe porque lhe não maço esse corpo tão mal feito? Porque mo pede Diana, mas se você for travesso, que para esta Denguice mais olhar, ou pôr o dedo, mortus est Pinius em casca. Zar. Sim Senhor, eu bem percebo. Casm. Ora pois, estão já soltos, vá–se daqui já correndo; (Para Zarolho) e você, minha Denguice, (Para Denguice) saiba que é isto outro tempo, e que o nome de Casmurro não o troco por Cornelio; você ainda se demora? (Para Zarolho) Zar. Dar-lhe os agradecimentos… Casm. Vá–se-me já rebolindo. Zar. Então, sem mais cumprimento.(Vai–se) Deng. (Oh quem pudera dizer-te, adeus meu amado objecto). (À parte) Casm. O mofino inda lhe cheira, é sanguisuga nos termos; vamos, vamos para casa cuidar na cama, que é tempo, que sempre se faz mais fofa em dia de casamento; ora vamos, meu amor, isto agora é outro tempo. Deng. Saiba que nós as mulheres se levam com muito jeito far–lhe–ei bem a vontade. Casm. Não terei outro rimedio. Deng. Você não me merecia, eu se vou é porque quero. Casm. Deixa-te apanhar em casa, Que então lá conversaremos. (Vão-se) 268 Acto II, cena I (Sai Casmurro) Casm. Ora vamos ver se acaso ficaram alguns fragmentos, com que eu, mais minha mulher nossos bandulhos fartemos: ora isto de ser casado sempre é coisa de bem peso! É pensão bem desmarcada, porém eu não me arrependo, que em quanto ouver quem nos dê lambança por este preço, um quarteirão de mulheres eu tivera sem receio; mas o peior são os filhos, porém tê–los não é certo, porque a Senhora Denguice usa de tais comprimentos, que suponho… Mas quem é. (Sai Denguice) Casm. Oh, sois vós meu doce emprego! pois sentai-vos para aqui, e do que ouver comeremos. Deng. A ver se via o meu bem sai do meu aposento, e no cabo vim achar este marido nojento. (À parte) Casm. Pois não ouve o que lhe digo? Va-me mudando esse génio, faça logo o que lhe mando. Deng. Ora digo que não quero. Casm. A mulher é Bazelisco! Por bem quero ver se a levo. (À parte) 268 Ivi, pp. 13-17. 337 338 Ora então, minha Denguice, vamos a cear, que é tempo para depois nos deitar-mos, que eu de somno estou morrendo. Deng. Para nos irmos deitar? A pachorra lhe agradeço; com que com esta figura queria que este portento, sem mais nem mais se deitasse com um homem tão mal feito? Confesso que é meu marido, já que assim o quis o demo, mas as outras ceremonias certamente lhe despenso. Casm. Assim fala, birbantona? De Diana não tem medo? Saiba que a pode outra vez amarrar a qualquer cepo. Deng. Mais tosco cepo que tu, que o não há no mundo, creio, e não posso recear castigo que em mim já vejo. Casm. Ora dize-me, menina, (contrafaçamos o génio) (À parte) para que me trata assim com um tão fero desprezo, quando vê que eu fino a adoro? Não achs isso mal feito? Tão mal parecido sou? O meu rostinho é mui belo, algumas bexigas teve ainda sendo pequeno, porém não me destruiram a perfeição, nem o jeito; se acaso eu fosse enorme, ou não fosse tão perfeito, já agora é minha mulher cuidasse-o quando era tempo; e assim, ó minha Denguice, deixa-te de cumprimentos, hei–de dar-te muita coisa com que brilés com aceio, e se tivermos um filho, Capitolo II que grande contentamento! Ora anda minha menina. Deng. Vou, pois me leva com jeito. Casm. Assenta-te para aqui, aqui ao lado direito, que é o lugar das Esposas; (de gosto me estou lambendo). (À parte) Deng. Eu vontade de comer certamente que não tenho, mas por lhe fazer o gosto… Casm. Isso agora é outro termo, eis aqui o que me agrada, esta união, e sossego; ora come esta Perdiz feita com molho estrangeiro. Deng. Coma-a você, já lhe disse que pouca vontade tenho. Casm. Então não haja demora vamos à cama correndo, que o comer também agora nos fará pouco proveito. Deng. Ai, coma, coma, Senhor, que isso inda tem muito tempo. (Eu estou irresoluta). (À parte) Casm. Nem uma gotinha ao menos? (Bota vinho no copo) Deng. Lá vai à sua saude. (Bebe) Casm. Que lhe faça bom proveito, agora corre por cá, (Bebe) este vinho é bem vermelho. (Sai Zarolho) Zar. Para fartar o bandulho venho para aqui correndo, pois desde que hospede sou não tem havido ao menos quem me diga, camarada, Metastasio, padrão de vida do século XVIII se quer comer chegue assento, porque sempre de levante todo este Palácio vejo; os criados nesta Sala estão chupando nos dedos, e os anos até agora se estiveram bem enchendo. Mas ai! Lá está Casmurro, mais o meu rico portento, quem me dera cá de longe dizer, adeus, doce emprego; mas a fome é o peior, na boca me está fazendo água a valer; de gatinhas, pois não tenho outro remédio me vou debaixo da mesa esconder, e de lá mesmo verei se posso alcançar que o bandulho fique cheio. (Mete–se de gatinhas por baixo da Mesa) Casm. Ora prova um bocadinho deste guisado que é belo. Zar. Sim, por te fazer o gosto cá o como todo inteiro. (Deita a mão tira o prato da Mesa, e entra a comer muito depressa) Casm. Para donde foi o prato? Zar. Está cá no meu louceiro. Deng. Qual prato? Você está doido? Casm. Aqui entrou alguém dentro? Deng. Quem havia aqui entrar, arre lá! Eu o arrenego! Casm. Ora deixa encher o copo. (Deita vinho no copo e volta) Zar. Faze isso que eu o despejo. 339 (Pega no copo, bebe e torna a por na mesa) Casm. Ora bebe huma pinguinha, elle não faz mal, é certo. (Volta) Eu não enchi este copo? Zar. Não estava muito cheio. Deng. Pois você encheo o copo? Quase louco o considero. Casm. Ora eu o torno a encher. (Como assima) Zar. Eu o vazo mais ligeiro. (O mesmo) Casm. Verei se o mesmo sucede… Mas ai de mim que é o que vejo! Inda podes duvidar de que eu tinha o copo cheio! Deng. Cheio parece que está você de vinho por dentro, e por isso estas loucuras me está aqui dizendo. Casm. Ora não quero mais vinho; despejar. (Eu enloqueço). Poderá ser isto engano, mas duas vezes? Não creio. Zar. Cá agarrei uma empada, tem ele um molho estupendo, já a minha barriguinha se vai pondo noutros termos. Casm. Não pode esquecer-me o vinho! Zar. Nem a mim porque era belo, tomara-lhe eu a garrafa pilhar aqui a meu jeito, porque isto de copinhos são uns meros gargarejos. Casm. Eu estou como um ouriço. Deng. Você mui bem o tem feito. Casm. Ora para socegar uma pinguinha tomemos; 340 Capitolo II segura bem neste copo, toma sentido se deito; cá vai a tua saúde. Zar. Não esteve mui mal feito. Casm. Arre, você já me foge, hei–de apanha–lo correndo. (Deita vinho no copo e põe a garrafa na mesa de sorte que Zar. lhe pega) (Anda às rebelões) Zar. Cá vai ao nosso proveito. Casm. Mas donde foi a garrafa? Zar. Foi ali ao taverneiro. Ora aí ta entrego toda. Deng. Não há coisa mais galante, do que esta que estou vendo. Zar. E eu coisa que mais me agrade há muito tempo não vejo, (Põe a garrafa na mesa) (A Deng. saindo debaixo da mesa) Deng. Você parece estar cego. Casm. Deixa que mais uma gota… pois tenho gozado a dita de me ver de ti tão perto. Deng. Estavas aqui escondido? Zar. Vim aqui a teu respeito, pois um instante não posso descansar se te não vejo. Deng. Olhe, em materia de amor, nada lhe fico devendo. Casm. Inda me está resmungando? Deng. Inda assim, eu tenho medo… Zar. Não, não receie, menina, porque ele está em tais termos, que nem os olhos bem abre, e podemos sem receio falar nos nossos amores; mas, diga-me, meu portento, até quando faz tenção que eu ande chupando em seco? Há de aquele marmanjão lograr mimos tão selectos! Estou capaz de matar-me. Deng. Se não fosses estrangeiro, casava logo contigo. Zar. Por isso estava eu morrendo, mas isso não pode ser, pois segundo bem me lembro, já deste a mão a Casmurro. Deng. A mão sim lhe dei, é (Vai a deitar e não acha vinho) Aqui deve andar o demo! Ela tinha muito vinho, agora nada lhe vejo… Zar. O que tinha a tal garrafa foi parar ao cemitério. Casm. Eu hei–de isto examinar. (Levantase) Zar. Se dá comigo estou fresco. Casm. Parece que a luz me treme, eu das pernas cambaleio, enchota-me estes mosquitos, anda, vê se vou direito. (Cambaliando muito bebado) Zar. Esse vinho que bebeste me serve de bem proveito. Deng. Olhe que cai nesse chão. Casm. Há de morrer aqui mesmo, oh cão, ainda me resiste? Quero… não lhe tenho medo, ora ande, leve este talho. (Vai a investir e cai no chão) Metastasio, padrão de vida do século XVIII certo, mas foi só por me livrar daquele tão grande aperto; porém, inda que Diana me ponha trinta preceitos, só contigo casarei. Zar. Promete-me isso de certo? Em final de que é verdade, as nossas mãos ajuntemos. Deng. Não seja como os abraços, Que ficamos ambos presos. Zar. Já vejo que desta sorte nunca então nos casaremos. Deng. Ora aqui está esta mão. Zar. Mais a minha. Casm. Que estou vendo? (Levantando a cabeça) Amb. Ai de mim! Adeus meu bem, brevemente nos veremos. (Vão–se correndo) Casm. Há maior pouca vergonha! Vou-me atrás deles correndo, que se acaso eu os pilhar a murros hei–de moê–los. (Vaise cambeliando ainda muito)269 Acto III, scena II (Sai Zarolho) Zar. Venho, sem saber por onde, para ver se acaso é certo, que estes patifes dos Scitas com seus costumes travessos, levão Tamire roubada, porque se ela foi, receio, que à minhs Denguice 269 Ivi, pp. 21-24. também succeda o mesmo: vamos ver se incontro alguém que me infor-me do sucesso. (Vai–se) (Sai Casmurro) Casm. Há maior pouca vergonha! Não há caso mais horrendo; lá vai a minha Denguice, para o poder de perros; mas ela é que tem a culpa, o castigo é mui bem feito, pois se ela junta comigo dormisse em meu aposento, eles a não roubariam dessa sorte tão ligeiros, pois tenho dez becamartes, doze duzias de morteiros, mais de seiscentas pistolas, de chuços mais de um milheiro; e tenho ao canto da casa mais de uma fanga de seixos, que havia aqueles patifes fazê–los mesmo em farelos: estou capaz de matar-me, eu bem sei que os seus desprezos, os amores que a Zarolho mostrava com tal extremo, me diminuem a pena do seu infeliz sucesso; mas, contudo, sempre fico, nem cazado, nem solteiro, e sem aquela Denguice não posso viver por certo. (Sai Zarolho) Zar. Tenho já tudo corrido, não posso encontrar ao menos quem me diga, sim ou não; mas a Casmurro aqui vejo, dele me quero informar. Casm. Ai de mim, eu arrebento! 341 342 Zar. Senhor Casmurro, que tem? Diga, amigo, será certo… Que Denguice… Casm. Sim, agora venho do seu aposento, achei as portas abertas, todo o Palácio inquieto, não fiz mais que diligente vir para a praia correndo, a ver se inda os alcançava. Zar. Também eu com o mesmo intento, sendo do roubo informado, os passos movi ligeiro, pois como somos amigos… percebe? Casm. Sim, bem percebo, como me caiu nas garras, que o mace a murros tem medo, você cuida, sou tratante, que a lábia lhe não entendo? Sabe porque agora aqui o não piso a muro seco? Porque estou com a minha pena, mas nós nos encontraremos. Zar. Mas eu que lhe fiz? Acaso esta acção pode ofendê–lo? Casm. Você cuida que ontem à noite lhe não vi o atrevimento, de com Denguice falar? Zar. Isso foi sonho. Casm. Foi certo, porém não tratemos disso, vamos nós ambos, pois quero melhor isto averiguar, dos seus agravos me esqueço; já quero ser seu amigo. Zar. Tanto favor lhe agradeço. Casm. Vamos ambos perguntando, e de alguém nos informemos. Capitolo II (Vão–se) 270 Cena III Zar. [rivolto a Semiramide] Ora, Senhora, se acaso tão generosa te vejo fazeres tantas mercês, supplico-te, uma ao menos, e é, que me dês Denguice para lhe apertar os dedos, pois como todos se casam quizera fazer o mesmo. Casm. Não Senhor, eu não consinto, quero-te expor um segredo, ela deu-me já a mão, e depois este sujeito… Percebe? Quis-ma tirar, vai eu… e que faço! Peço, que visto ser cá de casa, parece-me que estou primeiro, e já é muito falado este nosso casamento, eu quereria dever-lhe… Sem. Tens razão, eu ta concedo; Denguice seja só tua. Zar. Fiquei engolido em seco. Deng. Paciência, pois já agora Não tenho outro remédio: aqui está a minha mão. (Vai dar a mão a Casmurro, e Zarolho lhe quer pegar) Casm. Vá–se daí sou brejeiro. Zar. Deixa estar, cara de Bode, que cá fora nos veremos. Casm. Quando quiser, amiguinho, que eu cá não lhe tenho medo271. 270 271 Ivi, pp. 35-36. Ivi, pp. 39-40. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.14. 343 Antigono Una situazione ormai ricorrente nella nostra analisi degli adattamenti metastasiani al gusto portoghese, e che ormai possiamo considerare una regola consolidata data la quantità di tali ritrovamenti, è l’attribuzione della paternità della traduzione, con indicazione solenne su frontespizio, di tutte le edizioni in traduzione fedele e non adattata delle opere dell’abate romano. Anche nel caso della versione dell’Antigono (opera del 1744), laddove ci troviamo di fronte ad esemplari indubbiamente calcati sull’originale, senza guizzi creativi ed arbitrari, campeggia con orgoglio e precisione il nome completo del relativo traduttore. È il caso dell’edizione a stampa dell’Antigono del 1768, copia monolingue tradotta in versi da Marcelino da Fonseca e, tra l’altro, unico caso da noi rinvenuto, tra le varie traduzioni dell’Antigono, in cui si riporta con esattezza il nome del protagonista; ma è anche il caso del manoscritto, piuttosto deteriorato, risalente al 2 dicembre 1793, la cui traduzione viene attribuita all’ormai noto Fernando Lucas Alvim alias Francisco Luís Ameno. Si potrebbero avanzare due ragioni di una tale precisazione: o le traduzioni fedeli, non tacciabili d’illegittimità, plagio o quant’altro stesse provocando all’epoca il nascente diritto d’autore, non risentirono della minaccia incombente di estinzione che di lì a poco avrebbero subìto gli adattamenti di opere altrui in generale, oppure, il ruolo di traduttore fedele delle opere straniere forniva al responsabilie una dignità di divulgatore culturale che consentiva un certo prestigio. In entrambi i casi, un elemento importante che lascia presupporre quali dibattiti, probabilmente polemiche, possono avere avuto luogo tra gli intellettuali portoghesi del XVIII secolo. Oltre all’opera in versione originale del 1772, destinata ad accompagnare la rappresentazione che ebbe luogo nel Teatro da Rua dos Condes di Lisbona, l’adattamento dal titolo Opera Famoza intitulada Antigno em Tezalonica, copia manoscritta del 20 marzo 1785 presente nell’archivio microfilmato della Biblioteca Nazionale (fig. 43), è sicuramente la versione più interessante dal punto di vista degli elementi di originalità 344 Capitolo II rispetto al modello standard degli adattamenti e, naturalmente, rispetto al testo di partenza metastasiano. Innanzitutto, occorre rilevare la presenza di ben quattro personaggi graciosos che rompono la triangolazione sentimentale tipica del rimaneggiamento comico, ricreando un intreccio quadripartito che non solo vede l’opposizione e l’attrazione reciproca tra due donne e due uomini, ma soprattutto il contrasto centrale della contrapposizione giovani–vecchi, argomento dominante di una comicità tutta giocata sulll’assurdità delle pretese di Baluarte (“baluardo”), vecchio servo di palazzo, nei confronti di Resina (“testarda”) giovane nipote di Rebeca (“impertinente”) e pretesa e data in sposa al giovane Murteiro (“mortaio”). Benchè i lazzi comici più importanti siano sempre affidati al personaggio di Murteiro, il fulcro reale della vicenda dei criados rimane Resina, su cui si concentrano tutte le attenzioni e verso cui si indirizzano i dialoghi non solo delle due figure maschili condententi, ma soprattutto dell’anziana zia, forsennatamente intenta a preservarne la purezza fisica, fino al colpo di scena finale della rivelazione dell’avvenuto rapporto sessuale tra i due giovani. A questo punto, attraverso allusioni all’amplesso in termini di falsa pudicizia da parte delle due donne del popolo, si stempera la tensione narrativa fino ad allora acuita dalla condizione di fuggiaschi senza riparo dei servi, alla ricerca di riposo e sostentamento, e dalle afflizioni provocate dal pignoramento degli abiti di Rebeca in cambio di cibo, fino alla normale conclusione degli eventi nel necessario lieto fine matrimoniale tra i due giovani. Per quanto riguarda il rapporto con i personaggi primari della vicenda metastasiana originale, citiamo l’ormai noto esempio dell’insopportabilità dei “grandi” rispetto alle incoerenze dei servi, intemperanze che i personaggi metastasiani non portano qui alle estreme conseguenze delle percosse fisiche che abbiamo visto messe in atto dall’Enea della Dido desamparada, ma che vi si avvicinano attraverso esplicite minacce di morte. Si osservi a questo proposito la reazione di Alexandre, re dell’Epiro, nei confronti di Baluarte, prima di passare alla trascrizione delle scene salienti dell’adattamento: Metastasio, padrão de vida do século XVIII 345 Bal. Meu Senhor! (Ajoelha) Alex. Que pertendes? Bal. Queria... mas não, não; eu intentava... Alex. O que? Bal. Vinha... porém... não senhor, eu me vou... (Levanta–se) Alex. Não espera, explicate senão te mato. Bal. Mas se eu já nada quero! Alex. Então a que vieste a este sítio? Bal. Vinha ver... eu sou... ai! Tenho medo. Alex. Fala. Bal. Eu sou... mas! Já não sou... Alex. Deixa–me louco.272 272 Opera Famoza intitulada Antigno em Tezalonica, copiada aos 20 de Março de 1785, p. 14. 346 Figura 30. (BN, F.R. 803). Capitolo II Metastasio, padrão de vida do século XVIII Opera Famoza intitulada Antigno em Tezalonica (1785) Acto I Reb. [...] Já sairam das náus e para onde também... também tu... captivos todos... nós somos... não... seremos... para sempre... não há quem nos acuda. Res. Ai! Mas onde estou eu? Vão–se malditas. Murt. Não te asuste menina, vem comigo que em palácio não ficas tu segura da Tropa de Alexandre. Res. Ai! Minha tia, que fazer devemos? Reb. Eu não sei que te diga, a fugir quem nos há de defender! Murt. Pois ainda julga que um Murteiro é pouco? Bal. Um Baluarte ainda é maior defesa. Murt. Que diz seu jarra? Todos sabem que um Murteiro se lhe dão fogo até os Baluartes põe por terra, em ti menina levo pólvora e bala, meu amor é murrão que existe aceso. Até o mesmo Alexandre há–de temer–me. Bal. A estas cans, e a este meu respeito ninguém há–de atrever–se. Murt. Que respeito? Que cans? Mijaram nelas. Bal. Oh atrevido, pois por elas juro que não hei–de deixar levar a moça. Murt. Você não teme, que eu o deite a terra, pois desta peça experimente as balas. (Dá–lhe) Bal. Ai... ai... ai... ai... ai... ai. Reb. Não dê no velho. Murt. Se com ele quer ir, vá–se abalando que Resina comigo vai segura de que hei–de defendê–la. Reb. Uma moça donzela há–de ir sem mim? Murt. Que? Veremos! Veremos! Bal. Vai melhor com um homem já maduro. Murt. Se está maduro, mui depressa é podre. Bal. Vem comigo menina. Murt. Pega fogo outra vez: leve mais esta... (Dá–lhe) Bal. Ai, ai, ai, ai, ai, ai, minhas fontes. Murt. Oh cão, que é isso, já lhe dei na brecha toma e toma... Res. Oh tia vamo–nos com Murteiro, se nos livrar será meu Marido. Bal. Não casará, que vou a por–lhe embargo. Murt. Fogo artilheiro até deitar a terra. (Dá–lhe) Bal. Ai, ai, ai, ai, ai, ai... (Parte) Murt. Vamo–nos tia, vamos. Reb. Olha Resina lá não te arrependas. Res. Não minha tia, não e tu serás constante? Murt. Sou bronze, firme mais do que uma pedra. 347 348 Capitolo II Reb. Mas em quanto não casa tenha conta, não se chegue a Resina que com calor é coisa que se pega. Murt. Não senhora isso é graça. Reb. Pois ande lá adiante. Murt. Vá vossa mercê que é muito mais velha. Reb. Sim, anda rapariga... (Andando) Res. Sim minha tia vamos. (Andando mais atrás) Murt. Apertame esta mão, aperta, aperta. (Partem) 273 Acto II, cena II (Bosque) (Sai Rebeca e Resina) Reb. Ai Rapariga já não posso andar, venho deitando os bofes pela boca, eu não sei que há–de ser de nós: fugidas donde iremos parar? Eu de fraqueza já falar não oiço as minhas fontes e se fechão morro, nem eu posso curá–las. Não soubeste trazer umas rodilhas, nem a cera das bodas fedem tanto! Tomara perfumar–me. Res. Ai minha tia o cheiro não são das fontes, são dos flatos baixos. Reb. Oh atrevida! Tu sentiste algum, tenho oitenta annos nunca tal me ouvirão. Aia foi da Princeza sete vezes dez, e um e sempre os meos flatos tanto lhe cheiraram que me disse mil vezes, ai minha Aia você que traz consigo, que me cheira não sei dizer a que? Sei que engraçado acho esse cheiro seu. As minhas roupas não me cheiram tanto. Res. Mas minha tia porque não casou? Reb. Só por não aturar um homem porco com os pés suados todo tabaquento vindo da rua cheio de imundícia sujar–me a casa: são uns porcos todos. Res. Não é Murteiro assim, que é asseado, até parece que dele o pó se afasta, tomara eu que ele já me aparecesse. Reb. Oh atrevida, não te lembra Ismene que tantos dias não sabemos dela, só Murteiro te lembra, que inda agora ali deixamos. És mui insolente. Res. Assim é coitadinha da nossa ama, coitadinha! Estará já prisioneira, oh maldito Alexandre, coitadinha. Reb. Desgraçada Princeza! Res. Melhor lhe fora ser uma rapariga, tomara ela trocar hoje comigo. Reb. Oh petulante, vê que falas néscia, trocar contigo! Sabes o que dizes? (Sai Murteiro) 273 Opera Famosa intitulada Antigno em Tezalonica, copiada aos 20 de Março de 1785, p. 7. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 349 Murt. Ora aqui venho socorrer a praça. (Traz alforge) Oh minha tia se você soubera a pinga que aqui trago! [...] trago pão, trago queixo, peixe frito, bela fruta também, não falta nada já tenho crédito aberto nessa venda, lá deixeis de penhor a trouxa dos vestidos. Reb. Que vestidos, os meus? Murt. Pois queria morrer a sede e a fome? Reb. Desgraçada de mim! Vamos buscar. Res. Também os meus? Oh sorte desgraçada, oh tiazinha dê–lhe o seu cordão antes ele lá fique com os vestidos. Reb. O meu cordão um dardo. Res. Pois dê–lhe os brincos. Reb. Os meus brincos, dar–lhe–ei uma punhada. Res. Dê–lhe as suas memórias. Murt. Sim minha tia, qualquer coisa baste, pouco gasto se fez, deste–lhe a conta, quatro vintens de pão, e de pão quatro outros, quatro de queixo. Res. São sete tiazinha. Reb. Sete? Aliás são quinze. Murt. De fruta dois... Res. São dez agora. Reb. Treze, conta bem toleirona. Res. Vossa mercê se engana. Reb. Não desmintas. Murt. Tem razão a tia e de fruta dois. Reb. Doze, em negra hora [†] os meus vestidos... Res. São duas vezes fruta! Murt. Sim, que é fruta de duas qualidades, já me perdi na conta. Reb. Eu não quero comer, quero os vestidos. Res. Isso não minha tia, sem comer os vestidos de que servem? Reb. Os meus vestidos vá buscá–los já. Murt. Quatro de bacalhau... Res. Tiazinha vá lá detendo a conta. Reb. Os meus vestidos quero vê–los já. Murt. De vinho três canadas. Reb. Ó rapariga vamo–nos embora. Res. E os vestidos hão–de cá ficar? Murt. Então tia não quer fazer a conta? Reb. Quero que vá buscar os meos vestidos, olhe que hei–de gritar, ah que del–Rei. (Alto) Murt. Vamos Resina, tua tia é doida. Reb. Só comigo é que há–de ir a rapariga. Res. Vá buscar os vestidos. Murt. Pois tu queres deixar–me? Res. Você não é capaz de sustentar–nos. Murt. Eu trago de comer para fartá–las. Capitolo II 350 Ambas. Mas os nossos vestidos é que pagam! Murt. Ora não falem mais em bacatelas. Reb. Bacatellas lhe chama! Oh sevandija, ganhei–os com o suor deste meu rosto. Murt. Pois por isso eles são já tão suados. Reb. Você não é capaz de nos dar victos. Murt. Porque não? Sabe mal os brios que tenho. Reb. Eu quero os meus vestidos tenho dito. Murt. E eu quero comer. Reb. Não seja mandrião e vá ganha–lo. Murt. Voces não vem que tudo anda revolto, que não posso ir pedir a Demetrio meu amo os ordenados em podendo falar–lhe, eu lhes darei vestidos novos, capaz a moderna, mas agora não devo deixar sem mim aqui duas donzelas, que será de vocês sem mim? Ah néscias, podem vir os Soldados de Alexandre roubar–lhes tudo quanto, Deus lhe deu você, tia não tem já que perder. Porém Resina... Reb. Resina, não tem mais que perder do que eu não tenha. Murt. Isso é bazófia. Reb. Pois você que cuida! Nunca tive ninguém que me dizer. (Partem)274 Acto III, cena III (Salas de Palacio) (Sai Rebeca e Resina) Reb. Ainda não creio estar restituida a estas ricas salas de palácio, dormindo pelo chão lá tantos dias. Triste e amargurada velhice! Dói– me o corpo. Res. Também eu minha tia, toda a noite os olhos não pregava tantos bichos havia pelo bosque que inda às vezes me parece que os vejo. Reb. Nunca cuidei que Ismene tão depressa nos perdoasse a fuga, que fazemos agora, logo vou pedir lhe mande prender Murteiro, que é ladrão ladino. Res. Ai minha tia, tal não faça, não. Reb. Hei–de pô–lo na forca, os meos vestidos há–de mos pagar. Res. E se casar comigo? Reb. Case, ou não case quero os meos vestidos, hei–de enforcá–lo em quanto mos não der. Res. Um com sobrinho inforcar pertende? Reb. Com sobrinho, que coisa é com sobrinho? Res. É o homem casado com a sobrinha. 274 Ivi, pp. 21-23. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 351 Reb. Casado? Ainda não. Res. Mas tanto monta. Reb. Tanto monta, que dizes? Res. Eu... já não digo nada. Reb. Não? Quero saber esse tanto monta aonde vai parar. Res. V.m. bem sabe. Reb. Bem sei? Oh atrevida, que sei eu? Que sei eu? Quem tal ouvir julgará que eu que sou consentidora. Res. Pois não sabe quando eu foi lá no bosque fugindo do lagarto, que Murteiro correu atrás de mim para livrar–me que tardamos, e quando aparecemos que eu vinha com a cara descorada que umas vezes chorava, outras me ria, que Murteiro dizia me cala–se? Reb. Isso sei eu, porém não sei mais nada. Res. Pois viu–me a cor perdida, ou não? Reb. Bem vi. Res. Viu também que chorava? Reb. Vi também. Res. E que me ria. Reb. Vi, pois que tem isso? Res. Sim! Pois então é que foi. Reb. Porém que foi então? Res. Eu não queria... Reb. Senão te explicas mais eu não te entendo. Res. Entende sim, entende. Reb. Hei–de pô–lo na forca por ladrão, empenhou–me os vestidos na taverna, há–de pagá–los a poder que eu possa. Res. Eu hei–de ficar sem ter Marido? Reb. Com outro casarás, mas não com ele. Res. Não pode ser. Reb. Porque? Res. Já lé disse porque, mais não me apure. Reb. Senão te explicas mais eu não te entendo. Res. Tenho vergonha a falar mais claro. Reb. Tu serás a deshonra do meu sangue, de falar tens vergonha, atrás de ti Murteiro foi correndo, tu não querias? Vinhas descorada, rindo, e chorando! Res. Mais não fale nisso, em sendo meu Marido bem tem pago. Reb. Mal tem pago! Porém os meus vestidos... (Sai Antigno com acompanhamento, Alexandre desarmado entre Soldados Macedonios, Baluarte e Murteiro) Reb. Justiça Senhor, Senhor peço justiça. Murt. e Res. Piedade. Capitolo II 352 Bal. e Reb. Justiça. Ant. Contra quem me pedir essas virtudes? Os Trez. Para Murteiro. Ant. Que vos fez Murteiro? Reb. Me empenhou os vestidos na taverna. Bal. Deu–me muita pancada. Res. Que lhe perdoes peço e me deixes casar com ele. Ant. Sim. Geral perdão a todos eu concedo. Murt. e Res. Sempre sejas feliz, sempre ditoso. (Partem) Reb. E os meus vestidos? Ficarei sem eles? Bal. E as pancadas? Ficarei com elas? Ant. Ide–vos que eu a tudo darei prompto remédio. Reb. Os meus vestidos... (Parte) 275 II.15. L’Olimpiade Il capolavoro che Metastasio fece rappresentare nel giardino dell’Imperial Favorita il 28 agosto 1733, ebbe in Portogallo diffusione sia come libretto bilingue già dal 1737, sia nella versione originale priva di testo a fronte, come per l’edizione in occasione della rappresentazione nel Real Teatro da Ajuda del 1774, sia in sola traduzione portoghese, ma molto fedele all’originale (come denuncia l’indicazione di genere di ópera dramatica) che venne prodotta a Lisbona nell’Officina di Domingos Gonsalves nel 1787 (fig. 31). Tuttavia, lo stesso anno di quest’ultima edizione venne pubblicata per i tipi di Filippe da Silva e Azevedo una commedia–adattamento decisamente originale rispetto al testo di partenza metastasiano e dal titolo significativo di As rigorosas leis da amizade compridas em Olimpiade (fig. 32), corrispondente evidentemente all’esigenza moralizzante che poneva l’attenzione principalmente sugli aspetti positivi ed edificanti di ogni vicenda portata sulle scene, in questo caso quel motivo dell’amicizia perfetta che può e deve superare le ragioni dell’amore, come già aveva rilevato il Robuschi: 275 Ivi, pp. 34-35. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 353 la vicenda è solo sentimentale: un’amicizia perfetta che poteva essere in Grecia come in Roma, nell’antichità classica come nel ’700 cosmopolita. È vero che l’azione è ambientata nell’antica Grecia, ma rivela subito come si tratti di una Grecia vista attraverso la trasfigurazione, o se vogliamo, la deformazione arcadica, ridotta cioè ora a quadro idillico, ove possono vivere pastorelle–regine, ora a semplice oleografia d’antico tempio, sui cui gradini si snoda la teoria dei sacerdoti teatralmente agghindati. Il motivo dominante non è più dato dal dovere in contrasto, spontaneo o forzato, col sentimento, ma da un sentimento in contrasto con un altro, dall’amore in constrasto con l’amicizia in gara di intensità. La gara però non si trasforma in aspro cimento, poiché è solo pretesto all’espansione delicata dell’uno e dell’altro sentimento, che s’intrecciano, si librano in lirici voli, si fondono quasi, tanto che ad un tratto amore e amicizia parlano un unico linguaggio e se non si vedessero i personaggi nell’azione teatrale, o non ne leggessimo in margine alla pagina, si potrebbe credere amante l’amico o amico l’amante276. Le molte divergenze rispetto alla lezione dell’originale dell’adattamento del 1787 arrivano ad un tale grado di discrepanza da rendere il testo di partenza quasi irriconoscibile, sia per quel che concerne le modalità espressive dei personaggi principali, sia dal punto di vista delle azioni messe in campo per lo svolgersi della fabula originaria. Si parte da una prima intromissione del nome di uno dei criados dell’adattamento, in luogo di un semplice riferimento al servo di Licida, mantenuto anoninimo nel testo metastasiano. Laddove infatti Aminta afferma semplicemente «Forse il tuo servo/Subito nol rinvenne»277, il traduttore opta per una prima citazione del reale protagonista di questa comedia nova: «É distante a Creta donde/O foi chamar Fosco»278. Divergenze d’impostazione, come la frequente soppressione dei cori o la resa stilistica originale delle battute dei protagonisti metastasiani, si possono allora comprendere da un semplice raffronto comparativo: 276 Metastasio, Olimpiade, a c. di G. Robuschi, Plein, Milano, 1962, pp. 10-11. P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 581. 278 Comedia Nova intitulada As rigorozas leis da amizade compridas em Olimpiade, do Abbade Pedro Metastazio, Lisboa, na Officina de Felippe da Silva e Azevedo, anno de 1787, p. 2. 277 Capitolo II 354 L’OLIMPIADE 1733 Atto I, scena I Aminta Ed Argene? Licida Ed Argene Più riveder non spero. Amor non vive Quando muor la speranza279. AS RIGOROZAS LEIS DA AMIZADE 1787 Acto I, cena I Aminta Dize: Argene a quem rendido Adoravas? Licida Reconheço Que foi da minha alma encanto, E que a seu nume supremo Vítima atenta o meu nobre Amor, tributou por feudo, Potencias, vida, sentimentos Em os altares do obséquio; Porém ausente, e ignorada Como jamais vê–la espero, Esta esperança perdida Do lugar a que outro objecto Produza em minha alma um novo Abrasador mongibello280. I criados Fosco, Indatirsa e Belermo, che in questo adattamento dell’Olimpiade vengono quasi sempre trattati con sufficienza e con impazienza dai loro padroni e in generale dai personaggi seri della vicenda (frequenti sono i rimbrotti del tipo «Com ignorâncias não gastes/Tempo»281 o «Cala, louco»282) sono presenti in tutte le scene della commedia, interagendo e interloquendo con i veri personaggi metastasiani ora per indirizzare e consigliare, cercando di chiarire dubbi ed incertezze, ora per sottolineare, commentare, interpretare secondo una visione chiaramente comico–grottesca a loro affidata dall’anonimo adattatore portoghese, per infarcire di guizzi d’ironia situazioni d’alta tensione drammatica: 279 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 582. As rigorozas lesi da amizade compridas em Olimpiade, op. cit., p. 3. 281 Ivi, p. 3. 282 Ivi, p. 27. 280 Metastasio, padrão de vida do século XVIII 355 Acto I, cena I Megacle. Dize, em que posso servir-te? Licida. Em meu nome combatendo Neste Olimpico certame. Fosco. É para que molhe os beiços Com este acepipezinho; Olém para que Folguedo Manda chamar o coitado! (À parte) Megacle. A luta, Principe, aceito: Como em Elide não haja O menor conhecimento Da tua pessoa. Fosco. Donde Hirá parar este enredo! (À parte) Licida. Ninguém me conhece. Fosco. É que ele Tomou a vida de morcego, E como de noite é que anda, Ninguém pode conhecê–lo.283 Cena III Fosco. O Cheu me seja propício Neste lance desastrado, Pois no que tenho tratado Bem dei de criado o indício. Licida. Começava o Sacrifício Quando vieste? Megacle. Não arde Inda a Vítima, que alarde É deste voto primeiro. Fosco. Apesar do furateiro Chego-lhe ao nariz mui tarde! Reparo em mim não tem feito Nenhum dele até agora!284 Nel primo incontro tra graciosos vengono rivelate le relazioni di parentela e i rispettivi ruoli dei servi, fornendo subito allo 283 284 Ivi, p. 4. Ivi, pp. 13-14. Capitolo II 356 spettatore la chiave di lettura di tutto l’episodio comico, di cui ormai siamo in grado di prevedere modalità e contenuti. Qui il triangolo comico presenta l’unica originalità di vedere in gioco un padre, Belermo, e la rispettiva figlia, Indatirsa, stranamente allearsi ai danni di quello che possiamo considerare il vertice nella geometria di questi criados: Fosco, servo di Licida. Padre e figlia, in altre parole, non sottostanno al gioco d’inganni e di raggiri messi in atto dall’astuto servo di turno, ma reagiscono ripagandolo con la stessa moneta dell’imbroglio, in un gioco di travestimenti e di tranelli. Così il consueto lieto fine (matrimonio dei due giovani servi) che conclude la serie di intrecci imbastita lungo i tre atti dell’adattamento, sembra qui qualcosa di forzato e non congruente con l’impianto centrale dell’azione dei tre comici, una mera evoluzione obbligata da esigenze di genere. Infine, per un ultimo raffronto con il teatro vicentino, ci sembra di poter scorgere nel personaggio che compare in scena spacciandosi per mercante ed escalamando Quem compra leques, agulhas, Pentes, fitas, e medalhas Da moda, que hoje é mais moda. [...] Eu vendo mil bugiarias Da Europa, India, e Trácia, Do Japão, de Africa, Egipto, E Sobre tudo de Itália: Soube que em Ilide joga A gente que hoje mais campa Para ostentação do brio Em que se vê exaltada. E venho pelas aldeias; Para a Corte vou já de marcha, A ver se me compram dixes Para adorno das samarras, Que lá dizem terei gasto Nestas minhas traquitanas285. 285 Ivi, p. 5. Metastasio, padrão de vida do século XVIII 357 la figura del diabo dell’Auto da Feira, colui che compare con uma tendinha diante de si, como bufanheiro, e diz: DIABO Eu bem me posso gabar, E cada vez que quizer, Que na feira onde eu entrar Sempre tenho que vender, E acho quem me comprar. E mais vendo muito bem, Porque sei bem o que entendo; E de tudo quanto vendo Não pago sisa a ninguem Por tracto que ande fazendo. Quero-me fazer á vela Nesta sancta fira nova. Verei os que vem a ella, E mais verei quem m’estrova De ser eu o maior della. [...] Vendo dessa marmelada, E ás vezes grãos torrados, Isto não revela nada; E em todolos mercados Entra minha quintalada. [...] Ás vezes vendo virotes, E trago d’Andaluzia Naipes com que os sacerdotes Arreneguem cada dia, E joguem té os pellotes286. 286 G. Vicente, op. cit., pp. 399-401. 358 Capitolo II Figura 31. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 219). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 359 Figura 32. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 709). Comedia Nova intitulada As Rigorozas Leis da Amizade compridas em Olimpiade (1787) Acto I, cena I Indat. Justiça de Deus. Justiça. Fosc. Que é isto? (Sai Belerm, e Indatirsa) Bel. Que nos calemos, Não me seja rezingueira. Fosc. Que bulha é esta? Indat. Este gebo... Bel. Esta grande serrazina... Bel. e Indat.Que teima mais, do que eu Teimo. Fosc. Que teima é esta? Saibamos. Indat. Que me leve lhe requeiro Aos jogos. Bel. E eu que fique Em casa é que lhe aconselho; Porque lá pela Cidade Há maganos de cabresto, Que em vendo moças bonitas Põem-lhe nomes muitos feios. Fosc. Pois é sobre isto a contenda? Indat. Este foi o seu começo Veja se pode aturar-se Quem com tantos destemperos Me traz sempre espezinhada. Bel. Tenho já muitos Janeiros, E sei que é mui perigoso Já na Corte o gado fêmeo. Fosc. É seu tutor, por ventura Menina, este badameco? Indat. É meu pai; mas da rabuje Sabe o mundo é ele o centro. Fosc. Isso está mostrando aquela Carranca, e medonho aspecto! Bel. Ela é, Senhor, mui teimosa. É uma pele do demo. Fosc. Antes bem ensinadinha Parece no seu bom termo. Indat. Não me quer crer ele isso, Ainda que lhe quebre os testos Com uma foice roçadora. Fosc. Isso é que é duro dos seixos. Bel. Agora, isto é ter fogo. Indat. Em isca de pano velho. Fosc. Que a menina é bem criada No bem que fala estou vendo. Bel. Deve fazer escuro, Que nada bom nela enxergo. Fosc. É porque oculos não usa, Tendo idade de trazê–los. Indat. Melhor lhe estavam cangalhas De burrinho de aguadeiro. Fosc. Deixemos chufas, e digam Se houve neste rompimento Coisa de taponas? Bel. Houve. Houve um par de murros secos. Indat. Mente; que foram molhados Com as lágrimas que verto. Fosc. Pois vá querelar dele. Indat. Como? Se por meu ensino levo. Fosc. Bom fora pagar a injúria. Bel. O motim já está quieto. Indat. Como eu vá logo à Cidade Tudo se acaba. Bel. Não quero. Fosc. Tenho visto, que é prolixo. Indat. E tanto que deixa aberto O portal da nossa casa, E atrás de mim vem correndo. Fosc. Isso faz-se? É bom descuido Metastasio, padrão de vida do século XVIII Andando ladrões aos centos! Donde mora, senhor meu? Irei a porta fechar–lhe. Bel. Em tal não convenho. Que estão lá coisas miudas, Que se vão por entre os dedos. Fosc. Isso que importa Bel. Há borracha... Fosc. Borracha? Não provaremos, Que tal é por cá a pinga. Bel. Toldou-se, e está muito azedo. Indat. Não seja sofrego, dê-lhe Uma escudela. Bel. Tem gesso. Fosc. Vejamos. Bel. Entende disso? Fosc. Como o melhor sapateiro. Bel. Isso me obriga a hir buscar–lho: Não o verás tu nos queixos. (À parte, e vai–se) Fosc. Menina, desses olhinhos Vem não sei que raios vesgos. Que tem jeito de matar–me Pelo airoso do seu jeito: Ao vê–los, nesta alma pobre Não sei que me está mexendo, Que me parece assim coisa De bichinho carpinteiro. Indat. Eu não sei de mexedelas, Vá curar-se se está enfermo. Fosc. Sabes quem pode sanar–me? Indat. Nem sei, nem quero sabê–lo. Fosc. Pois é o teu amor. Indat. Donde É que mora esse boneco? Fosc. Em o templo de teus olhos Lhe deu culto, e oferto incenso. Indat. Ora veja! Nem por isso Cá me chegou inda o cheiro. Fosc. Morro por ti. 363 Indat. Cale, que ando Para honra e casamento. Fosc. E tens noivo? Indat. Isso é que falta: Tenho mais de quatrocentos, Não fora aqueles que às duzias Me servem para o desprezo. Fosc. Ah tiranna, que me destes No meio d’alma cum fecho. Inat. Veja como há de sará–la, Que há na botica unguentos. Fosc. Pois não me dás esperanças? Indat. Nada que é favor dispenso, Que tenho de lascarina No meu génio o contrapeso. Fosc. Eu hei–de te amar acinte. Donde moras? Indat. Nos cabeços Junto ao cabo da montanha. Fosc. Por filha desses penedos, Em o cabo me tem posto Teu rigor! Indat. Eu o arrenego: Você tem pilhas de graça No estilo dos seus requebros! Fosc. Agradam-te? Indat. Gosto às vezes Inda que não sopeteo. Fosc. Pois olha cá, não me mates Tanto, com teus olhos belos. Indat. Faça a sua diligência, A ver se acaso me rendo: Mas meu Pai não aparece! Fosc. Devia dar-lhe o peco. Indat. O não ter vindo é por peça: É homem muito travesso! Ainda naqueles annos É mais destro que um Sargento: Vou buscá–lo. Fosc. Isso é tolice, Que pode ir um gandaeiro Capitolo II 364 Para o achar na enxurrada. Indat. Você por saco de esterco É só, quem lá pode achar-se: Vá–se, que deita má cheiro. Fosc. Fedo? E a que? Indat. Por menino, A que fede é aos coeiros. Fosc. Eu sou um homem tamanho, Que já podia ter netos. Indat. Adeus, Senhor homem grande, Que eu só brinco c’os pequenos. Fosc. Adonde vás? Indat. Que lhe importa? Vou para aí fazer meus feitos. (Vai–se) Fosc. Para isso tens tu língua: Mas eu hei–de ver se a pesco: Espera-me mal [†], Não fujas lindo tareco, Que me perdes, e eu perdido Para marido não presto. (Vai-se) 287 Cena II (Sai Fosco de Bufarinheiro) Fosc. Quem compra leques, agulhas, Pentes, fitas, e medalhas Da moda, que hoje é mais moda. Indat. Baco, que horrenda fantasma! Argene. Que Estrangeiro é este? Bel. Nunca Por estes montes vi cara Tão esquizita! Indat. Parece Fugio de um painel de almagre! Argene. Estrangeiro, que 287 Ivi, pp. 5-6. procuras? Fosc. Dei c’o negocio em pantana. Que se acha aqui a Princeza Para estorvar-me as ganancia. (À parte) Eu vendo mil bugiarias Da Europa, India, e Trácia, Do Japão, de Africa, Egipto, E Sobre tudo de Itália: Soube que em Ilide joga A gente que hoje mais campa Para ostentação do brio Em que se vê exaltada. E venho pelas aldeias; Para a Corte vou já de marcha, A ver se me compram dixes Para adorno das samarras, Que lá dizem terei gasto Nestas minhas traquitanas. Bel. Não me lembro bem aonde Vi este panal de palha! (À parte) Argene. Os serranos gastam pouco Dessas drogas. Indat. Maravilhas. Traz por aí? Fosc. Maravilhas Trago, se quiser comprá–las. Bel. Oh rapariga, o dinheiro É pouco, vê que se o gastas, Lá vai o dote. Fosc. Que dote Melhor que umas mãos de nata? Enfeire minha menina, Que não lhe há–de custar cara Esta fazenda288. Fosc. Ah Senhora, nada compra Destas minhas traficâncias? Indat. Cá compraremos se acaso Trouxer coisas mui baratas. 288 Ivi, p. 11. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Bel. Vejamos o que se encerra Nessa trouxa, ou nessa albarda. Fosc. Quanto me pedir prometo Dar–lhe: que quer? Indat. Umas varas De casta, que cá nos montes Se usa. Fosc. Se é ordinaria Por cá essa droga, pode Chegar à Moita a comprá–la. Bel. Trará você barbas feitas? Fosc. Agora essa os queixos rapa! Não trago, porém à unha Lha farei de boa casta. Bel. Eu trago a barba comprida Por ter medo das navalhas. Fosc. Rapariga, eu sou aquele A quem deixaste na estrada, E venho por teu respeito Disfarçado. (À parte a Indat.) Indat. Que ignorância! Bel. Pois essa tenda não mostra! Fosc. Vejamos essas alfaias: Eu hei–de pregar-lhe a peça, E se me não faz trapaça Há–de cahir, que é patinho; (À parte) Diga, senhor, da alforjada Você vai para a Cidade? Fosc. Sim, quer para lá companhia? Indat. E a pé? Fosc. Não, vou a cavalo De brida nas minhas calças. Indat. Pois já lá não chega a tempo De ver a entrada das Danças, Que tem feito as raparigas Para os jogos. Fosc. Com quem fala? Não vê, que sou manja léguas? Bel. Que me diz? Indat. Por Dues não manja, Que vai muito carregado: 365 Olhe, na nossa choupana, Que é ali, por ir mais leve, Podia deixar a carga, E depois de festa venha Ou quando quiser buscá–la. Fosc. Muito agradeço o partido: A moça entendeu-me a farsa, E quer que repita o vela. (À parte) Aqui fica, e o camarada Poderá levá–la agora Lá para essa barraca, Que eu o frete pago. Bel. Pois venha. Fosc. Já quer? Uma facada: Na volta pagarei tudo. (Dá a trouxa a Belermo) Bel. Promete? Indat. O homem tem laia. (Para Belermo) Fosc. Em passando a festa venho. Bel. Para então boas são mangas. (Vai–se) Fosc. E hás–de ser firme? Indat. Sou rocha; Mais ficando penhorada. Fosc. Vê lá que dizes. Indat. Não zombo. Fosc. Deveras? Indat. Dar–lhe–ei fiança. Fosc. Trata-me bem uma vida, Que te entrego. Indat. Dar–lhe–ei fiança paa. (Vaõ–e) 289 Acto II, cena II (Vista de Bosque com longe de Cidade) (Sai Fosco) 289 Ivi, pp. 12-13. 366 Capitolo II Fosc. Foi-se, mas eu que não posso Parar de saudades ternas, Em quanto se fazem horas, Vou ver se vejo... oh quem dera! Sinto passos, e é preciso; Porque meu amo não seja, E me embarace a jornada, Esconder-me, que é o que resta, Para que eu pareça agora Escondido de Comédia. (Ritira–se ao bastidor) (Sai Belermo com a trouxa, e Indatirsa) Bel. Venho-lhe trazer a trouxa. Indat. Faz nisso uma grande asneira. Bel. Com que queres venha o homem Gritar-me a casa por ela? Indat. Logo ele há–de fazer isso? Bel. O medo tem cara feia. Indat. Ora já que há–de entregá–la, Registemos o que encerra. Fosc. Temos armada tramoia. Bel. Tens razão que te sobeja E será justo, que pague Carreto, portaje, etcetera. Indat. Venha a juizo o que encobre. (Quer abrir a trouxa, e Fosco o embaraça) Fosc. Apelo dessa Sentença. Indat. Ai que susto! Homem do demo... Bel. Donde estava este pateta? Fosc. Ali mui bem escondido, Espreitando esta desfeita. Indat. Você adevinha acaso? Fosc. Pois não! Por uma unha negra Tenho um dedo que adevinha Melhor que mil Feiticeiras. Indat. Será, porque você come Aquilo de Mocho. Fosc. Pega. Indat. Pois, Senhor adevinhante Esta já se não remedeia, Havemos ver este fardo. Fosc. Ponho embargos à primeira. Indat. e Bel. Se falar, olhe as bochechas! Fosc. A que del–Rei, que me roubam. Bel. Cale a língua, se não leva. (Abrem, e acham trapagem) Indat. É fermosa mercancia! Com isso é que vem à feira! Fosc. Vocês é que me trocaram As drogas nessa miséria. Bel. Mente, maroto. Indat. E remente, Villão ruim farto de verças. Fosc. Mentirei, que sou de carne. Indat. Você? Nem de beldroegas. Bel. Tenha vergonha, vadio. Fosc. Tenha-a você, seu taverna. Bel. Não torne cá pelo vezo. Indat. Venha, terá para peras. Fosc. Vocês são ladrões, e ainda Me cantam a chansoneta? Indat. Cale a língua. Bel. Tape a boca. Indat. e Bel. Não lhe cocem as bostelas. Fosc. Eu cá não temo ameaças. Indat. e Bel. Cá fóra é que se experimenta. (Vão–se) Metastasio, padrão de vida do século XVIII Fosc. Esperem; porque acusá–los Vou ao Juiz da Vintena. (Vai–se, levando os tarecos) 290 Cena III (Sai Belermo) Bel. Oh moça, isto é ter vergonha, Ou pejo! Indat. O que diz? Bel. Mofina, Nunca te hei–de achar na aldeia! Indat. Isso é porque sou vadia. Bel. Quero, que o gabão me amanhes, Que ando aqui feito em estilhas, E nem para isso me serves! Indat. É que tenho serventia Para coisas de mais porte. Bel. Não vejo para que sirvas. Indat. Viera uma hora mais cedo, E veria, então veria Se era Dama de Palácio, Como a mais pintada Ninfa; Pois tive a bela Aristéa Nos meus braços desmaiada. Bel. Ora quem te há–de crer esse Louco aranzel de mentiras? Indat. Por sinal que certo Adonis Lhe disse doces cousinhas. Bel. Vai bugiar mentirosa, Que isso é impróprio nas Rainhas. Indat. Elas também são mulheres. Bel. Mas feitas de alcamonia: Em fim, vamos para casa. 290 Ivi, pp. 20-21. 367 Indat. Lá lhe direi se me atiça, Que veio logo outro guapo, E ela de ouvi–lo respinga. Bel. Devias de sonhar moça. Indat. Isso fora se eu dormira. Bel. Outra coisa é que eu tomara, Que se o soubesses me digas. Indat. E o que é? Bel. Como do da troxa Nos havemos vingar, filha, Que estou picado do chasco, Que nos deu o sevandija. Indat. Muito bom cuidado tenho De me vingar do xinchila291. Bel. Eu mato-o, se vem à aldeia. Indat. Não, se ele lá vai, lá fica, Que lhe faço uma falada. Bel. Pois digo, vamos urdi–la, Não nos apanhe descalços. Indat. Não já a mim, que sou peralvilha. Bel. Vamos. Bel. e Indat. Ah falso tratante, Nunca tenhas paz nas tripas. (Vão–se)292 Acto III, cena I (Sai Belermo, e Indatirsa ambos por Fosco) Bel. Ande para ali, maroto. Indat. Ande para ali, casquilho, Que é um ladrão. Fosc. Mentes porca, E mentem a dois carrilhos Teus parentes, teus cunhados, Teus netos, teus adventícios. 291 Termine popolare con il significato di ’uomo di brutto aspetto’. 292 Ivi, p. 26. 368 Capitolo II Alcandro. Que ruído é este? Bel. Essa é boa! Inda pergunta, que ruído? É trazer este homem preso Por isto, e mais por aquilo, Que ele fez, e fez seu amo. Alcandro. Pois que fez? Indat. Que fez? Coriscos! Seu amo foi tão afoito, Que com um furor maldito Quiz matar ao Rei Clistene. Fosc. Que tem cá isso comigo; É por ventura o ser louco Contagioso tabardilho, Que desse dos gabinetes Aos xaugões293 do lacaismo? Bel. Encontramo–lo na aldeia A modo de sub-reptício Olhando para trás, como Que teme, que o vão seguindo: Perguntamos-lhe que tinha: E sem tratos, nem atilhos, Diz que seu amo quisera Por estar louco varrido, Matar o Rei (linda história!) E que ele se vai soquindo. Fosc. Por escapar das loucuras Deste Príncipe daninho. Alcandro. Deixai ir solto o inocente. Aristéa. Ele não é comprehendido: Dai–lhe liberdade. Fosc. Vivas Mais annos, que um Pai faminto, Que tem filho, que deseja Por–lhe a mão pelos conquibio. [...] Indat. Ficamos sós, como espargos Solitários montezinhos! Fosc. Eu inda estou desta história Pasmado, tolo e aturdido. Indat. Você é mui vadio. Bel. Qual! É dura do toutiço. Fosc. Sou um chorão sempiterno. Vendo-te este génio arrisco. Indat. Você chora! Olha o porco! Fosc. Lava-me, andarei mais limpo. Bel. Minha filha não foi nunca Lavandeira. Fosc. Bem sei isso, Pois sei, que é minha Senhora. Bel. Devagar no encarecido, Que isso cheirou-me a requebro. Fosc. Se isto não fora sigilo Reservado de um Pai jarra294, Dissera... Bel. Diga o seu dito. Indat. Diga lá o que dissera. Fosc. Receio... Indat. Fale expedido. Fosc. Não sei que acho na garganta. Bel. Será defluxo? Indat. É o cirro? Fosc. Deve ser, que estou morrendo Por te dizer mil carinhos. Indat. Vocês não vem! Bel. O que eu gabo Neste moço, é o derretido! Indat. Pois deveras, você quer–me? Fosc. Se não me estivera ouvindo Aquele malvado ginja, Franzindo-me o frontispício Da carranca, eu te dissera 294 293 Termine dal significato oscuro. Nel significato di jarreta, persona anziana. Metastasio, padrão de vida do século XVIII Requebros, com sustenidos Porém temo... Bel. Não se acanhe, Que eu de nada desconfio. Fosc. Pois eu trago uns bons desejos De me receber contigo. (Para Bel.) Bel. Salva tal lugar, irrorio!295 Appelo desse partido. Indat. Pois quer-se casar cum velho, Cum fedeiro no focinho? Fosc. Não, mas é Pai: e com ele O negócio esponsalicio Devo de tratar. Bel. Agora Percebo o arre burrinho. Indat. Ai meu Pai, não queira dar–me Tal tratante por marido: Bem se vai dispondo a farsa. (À parte) Bel. Boa a leva a mal trapilho (À parte) Diga, e deveras intenta Ser zangão do meu cortiço! Fosc. Desde que vi esta moça, Ando alugando padrinhos De recebimento. Indat. Felgo, E está tudo concluido? Fosc. Sim. Bel. Quem são? Fosc. Homens da praça: E é o Apolo. Bel. Gente gorda! Indat. São sujeitos de caprichos! Bel. E você, que tem de renda? Que ofício, ou que benefício? Fosc. Risco no jogo da bola, E tiro o fel aos quartilhos. 295 Come irra!, caspita! 369 Bel. Dessa sorte já desde hoje Tenho genro. Indat. Não respingo, Que estou muito namorada Do noivo pelo feitio. Fosc. Oh Velho da minha vida, Que me obrigas... (Abraça a Belermo) Bel. Fora grelo: Você vem cá abraçar-me? Fosc. Perdi de louco o caminho: Ai que ventura, que alcanço, No belo peixe que pilho! Bel. Pois que falta? Fosc. Receber-nos. Indat. Quem dera desses cosidos. Bel. Pois se há–de ser, seja logo. Fosc. Isso é que é fazer o siso. Bel. Vai-te tu vestir de noiva, Em quanto dou parte disto A todos nossos parentes. Indat. e Bel. Espera, que logo vimos. (Vaõse) Fosc. Não tardarão, porque correm Appressados corropios: Ora pode haver fortuna Maior do que eu conquisto? Já me parece que a noiva Chwga, e com garboso pico Melindrosa a saia apanha Da ilharga com dois olhos piscos, Chega a mim: faz-me misura, E eu fico assim tamanito, Que em pontos de matrimonio Hei–de estranhar por noviço: Digo-lhe: minha querida, E ela dis-me: meu menino, Eu respondo: que ventura! Diz ela: faça-me mimos, E casemos já, que é tempo 370 Capitolo II De ter, o porque me fino; Porque a gente que é casada, Pode andar por esses trigos, Sem que tenha no recato Escrupolos de estrovilho; Avie, Avie, casemos, Não se me ponha em pontinhos, Que o não quero vergonhoso, Quando o procuro ladino. Tem razão, digo: casemos, Não anderei alfairio, Dê–me essa mão. Tripas; e ventre vomito. Bel. Pois que cuidava? Olhe o tolo, Que se havia ficar rindo Da trouxa? Fosc. Ah sorte malvada! Bel. Dê–me a mão, que me esganiço, Dizendo, me deve a honra. Fosc. Mas que levante o bramido, Não hei–de casar com ela. Bel. Pega-o pelos gorgomilos. (Sai Belermo de mulher muito ridículo) (Arremete a Fosco) Bel. Ei–la em carne. Fosc. Que gosto... fora lá grifo! Deve de ser mão de rabos, Que traz dedos de pepino! Bel. Que, estranha! Não me conhece: Quem o fez espantadiço! Não sabe, que o meu recato Sempre foi o seu feitiço: Se acaso me estranha as galas, É porque hoje à moda visto. Fosc. Sabe, co’ as galas da moda! Vieram-lhe dos quintos Infernos! Bel. Filha, meu dengue Daqueles seus atavios, Que achei a furtá–lho fato Da trouxa nos escaninhos. Fosc. Tornou-se Indatirsa em mono! Bel. Não me quer, meu [†]! Fosc. Quero o diabo, que a leve Marafona do intestino. Bel. Já me não conhece, diga! Fosc. Já não sou seu conhecido. Bel. Ora dê–me a mão. Fosc. Com essa, Fosc. Ai, que bruxa me arrebata! Bel. E você é algum jacinto! Fosc. Ai, que me affoga! Bel. Cala–lo, Que leva por seu ensino. (Vão-se)296 Cena III Fosc. Oução duas Palavrinhas, meus Senhores. Bel. Que sairá desta alfurja? Licida. Tu Fosco, não supões nada? Fosc. Salvando a supositura, Digo, que quero casar-me; Pois sou vivo c’o esta Chula. Indat. Eu não quero. Bel. Eu não consinto. Fosc. Anda cá, para que és burra! Se esta festa está no cabo, Pertendes ficar viúva! Indat. Tem razão, toque estes dedos. Bel. Ahi lha dou, mas núa e crúa297. 297 Ivi, pp. 31-35. Metastasio, padrão de vida do século XVIII II.16. 371 Dubbie attribuzioni Il discorso sulla questione delle dubbie attribuzioni ci pone di fronte ad una situazione piuttosto complessa, sia perché in parte è necessario rivedere la stessa catalogazione delle opere che gli archivi portoghesi consultati identificano come traduzioni di testi metastasiani, sia perché ci costringe a risalire a testi di altri autori settecenteschi per poter ristabilire la derivazione di alcune traduzioni erroneamente descritte come versioni di opere del Metastasio. La prima circostanza si è verificata nel caso del manoscritto intitolato Farnace em Eraclea, copia autografa del già citato António José de Oliveira datata 8 febbraio 1783 e che, pur se priva di ogni riferimento all’originale metastasiano, dal registo bibliográfico del sistema informatico di ricerca preferenziale IPAC della Biblioteca Nazionale ci viene proposta come traduzione di opera del poeta cesareo, già pubblicata nel 1764 presso Francisco Borges de Sousa con il titolo di Ódio, vallor e affecto, secondo l’edizione coimbrã del 1974 (Catálogo da colecção de miscelâneas: teatro, p. 25) e con il titolo Ódio, vallor e affecto, ou Farnace em Eraclea nel 1787 presso l’officina di Domingos Gonsalves, così come riportano Inocêncio (VI 284) e Forjaz de Sampaio (1920, p. 68). In realtà, nessuna delle opere di Metastasio ha per titolo Farnace o è ambientata in Eraclea o ha per argomento un tale soggetto, e l’unica opera riconducibile a questo personaggio è il Farnace di Antonio Maria Lucchini, rappresentato a Venezia nel 1727 e musicato da Vivaldi, di cui Giovanni Porta (Bologna, 1731) e Tommaso Traetta (Napoli, 1751) curarono la parte musicale in successive realizzazioni sceniche. Probabilmente gli studiosi che nel Novecento hanno operato l’identificazione del manoscritto portoghese come traduzione–adattamento di un’opera di Metastasio sono stati tratti in inganno dalla presenza in Portogallo di un testo a stampa bilingue della medesima opera risalente al 1735 ed edito da Giuseppe Longi direttamente a Bologna, molto simile nella sua fattura esteriore e nella composizione di frontespizio ai testi ben curati delle prime traduzioni metastasiane prodotte nella Stamperia Reale portoghese (fig. 33). È interessante, tuttavia, analizzare in breve l’azione dei tre graciosos ospitati dal manoscritto del Farnace em Eraclea, sia perché è l’unico adattamento da noi incontrato che 372 Capitolo II identifichi esplicitamente due dei tre criados come marito e moglie, Melcatrefe (“individuo insignificante” e termine generico di disprezzo per soggetti maschili) e Bodilha (forse da botelha oppure “donna molto grassa”), sia perché si assiste a scene di incredibile, continua ed esplicita violenza fisica, percosse eccessive e ingiustificate che costringono il personaggio principale di Berenice ad intervenire direttamente nella disputa, attuando però a sua volta un’ulteriore violenza esplicita nel decretare l’impiccagione di Melcatrefe scortato dal rivale Trapo. Siamo di fronte, cioè, alla decadenza dell’adattamento, ormai degenerato sul finire del secolo in lazzi e guizzi non più comici o tragicomici, bensì semplicemente tragico– grotteschi, non più finalizzati alla risata facile di un pubblico popolare, bensì “romanticamente” volti ad intenzionalità decisamente più drammatiche, paradossali, estreme. In ciò forse il continuo ribadire l’elemento della sorte avversa, del destino infausto, della sventura che accompagna sempre gli individui minori, appartenenti alle classi meno abbienti e, quasi solo per questa ragione, vessati continuamente dalla disgrazia e dagli inganni giocati non solo dai propri pari ma anche dai personaggi “alti” della vicenda rappresentata. Altro caso emblematico è il testo a stampa della comédia nova dal titolo Laura reconhecida, prodotta dall’officina lisbonese di José da Silva Nazareth nel 1785 e dall’argomento non certo attribuibile ad opera del Metastasio (fig. 34). Si tratta, infatti, della vicenda di Ismene, figlia del re di Trinacria ucciso dal fratello Rogero per usurpare Regno ed eredità alla piccola principessa, della cui morte incarica il Duca Alberto. Quest’ultimo, mosso a pietà dalla piccola che all’epoca aveva solo due anni, decide di affidarla ad Arnesto, affinché la allevi in un’isola disabitata. Qui i due vivono all’insaputa di tutti e privi di contatti umani per quindici anni, quando sulle sponde dell’isola naufraga Federico, Conte di Barcellona, ma celato sotto la finta identità di Lisardo, il quale s’innamora, ricambiato, della bella Ismene. Nel frattempo sbarca sulla medesima isola la nave del Generale Ludovico, figlio del Duca Alberto, di ritorno dalla guerra vittoriosa contro i Saraceni. Anche costui incontra la bella Ismene e il neo arrivato Federico, decide di rapirli e di condurli alla Reggia di Tinacria, dove nel frattempo regna la Duchessa Matilde, figlia di Rogerio. All’arrivo dei due sconosciuti, la Duchessa s’innamora Metastasio, padrão de vida do século XVIII 373 immediatamente di Federico, da quel momento combattuto tra le due passioni per la bella Ismene, benché di rango inferiore, e la nobildonna siciliana. Nel frattempo, la Duchessa deve far fronte alle insistenze del popolo che la costringono a prendere marito al più presto, dato che il defunto padre l’aveva destinata ad Henrique, figlio del re di Napoli, rifiutato a più riprese da Matilde. Ma il pretendente ripudiato trova in questo diniego un motivo per muovere guerra alla Trinacria intera. Si svolge così una dura battaglia tra opposti fronti nella quale prendono parte non solo Ludovico, ma anche Federico e la stessa Ismene, cresciuta coraggiosamente tra le selve. L’intreccio sarà infine sciolto da Arnesto, il quale giunge a Palermo rivelando la vera identità di Ismene: è Laura figlia del Re di Trinacria assassinato e, di conseguenza, legittima erede al trono. Sul finale Laura–Ismene decide di sposare il Generale Ludovico sia per la costanza dell’amore dimostratole, sia per vendetta nei confronti di Federico, costantemente indeciso tra le due donne e in un’occasione dispregiatore degli infimi natali dell’ex isolana. Si tratta di una storia ispirata probabilmente ad opere del Metastasio quali L’Isola disabitata (1753), per la somiglianza del carattere di Ismene con quello di Costanza, ma anche per il riferimento alla vita pastorale e per il naufragio di Gernando quasi coincidente con quello di Federico, e forse anche al Ciro Riconosciuto, per il tentativo di uccisione del re Astiage nei confronti del protagonista ancora in fasce, poi affidato al pastore Mitridate; oppure a Il Re pastore (1751) Aminta, che «ignoto a se medesimo, povera e rustica vita traeva nella vicina campagna»298. Inoltre, l’adattamento include (anche se appena abbozzata), l’azione dei criados Flora e Taleigo (“sacco, bisaccia”299, ma si tenga presente soprattutto l’espressione dar aos taleigos “chiacchierare molto”), servo di Federico, immediatamente elevato al rango di Regio Bibliotecario. I due servi, tranne qualche commento beffardo riguardo il comportamento dei protagonisti, non imbastiscono alcuna trama comica tra loro, inserendosi piuttosto in quella vera e propria 298 P. Metastasio, op. cit., vol. I, p. 1117. Una nota a margine. Si è parlato in precedenza di somiglianza del gracioso portogése con il buffone di corte e con il "folle" shakespeariano. Sarà forse un caso cé Taleigo significhi ’sacco, bisaccia’ e cé il latino follem indicasse originariamente il mantice, il sacco di cuoio e il pallone, da cui poi il senso di ’testa vuota’? 299 374 Capitolo II commedia goldoniana che è tutto il secondo atto, dove hanno spazio più che altro i personaggi di Ismene, ridicolizzata dal tentativo di Flora di insegnarle i rudimenti dello stare in società, di Federico, per le continue esasperate gelosie, e di Matilde, che quasi si appresta ad una lotta fisica con la bella selvaggia pseudo–metastasiana. A queste false attribuzioni di traduzioni dal Metastasio si deve inoltre aggiungere una copia a stampa del 1802 dal titolo A Gricelda ou A Rainha Pastora (fig. 35), priva di graciosos e, con tutta probabilità, versione portoghese della Griselda che Apostolo Zeno scrisse nel 1701, della cui opera sono stati arbitrariamente mutati solo alcuni nomi di personaggi (Lotario della versione portoghese al posto di Gualtiero, Emirena per Costanza, Rosmano per Roberto, Clistenio per Corrado), e rispetto alla quale si nota la presenza di un personaggio, benché dalla partecipazione poco significativa, non previsto nell’originale dello Zeno: Everardo, figlio di Lotario e di Griselda e dell’età di soli due anni. Lo stesso Zeno, del resto, nell’Avviso ai lettori della prima edizione veneziana, sottolineava l’interesse che la vicenda della Griselda narrata dal Petrarca e dal Boccaccio suscitò prima di lui nei commediografi Paolo Mazzi (1620), Ascanio Massimo (1630) e Carlo Maria Maggi, la cui Griselda venne pubblicata postuma nel 1700 dal Muratori. Ma il caso certamente più interessante è rappresentato da una Comedia Famosa realizzata presso l’officina di Domingos Gonsalves nel 1787 e dal titolo originale di Emira em Suza, e Fugir à Tirannia para imitar a Clemencia «composta em Italiano pelo Abbade Pedro Matestacio» (fig. 36). Il caso è singolare in quanto dopo approfondite ricerche non è stato possibile venire a capo né di un autore settecentesco che in Italia abbia composto un’opera simile né, esaminando anche opere di drammaturghi cosiddetti minori, si è ottenuto un qualche risultato. Solo l’archivio della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano possiede un libretto a stampa del 1756 che sul frontespizio riporta il titolo di Emira «dramma per musica da rappresentarsi nel Regio Ducal Teatro di Milano, Nel Carnovale dell’anno 1756». Benché il testo sia privo di autore e benché la Dedica al Duca di Modena sia semplicemente firmata da «Gl’Interessati nel Regio Appalto del Teatro», in un testo di Antonio Pagliacci Brozzi del 1893–94 dedicato agli aneddoti relativi al Regio Metastasio, padrão de vida do século XVIII 375 Ducal Teatro di Milano per gli anni 1701-1776, l’opera viene attribuita all’autore delle musiche Gioacchino Cocchi, maestro del Conservatorio degli Incurabili di Venezia300. Dall’argomento del dramma (che, dall’elenco di un testo del 1998 a cura di Tintori e Schito, sappiamo rappresentato in precedenza nel gennaio del 1737 presso il medesimo Teatro)301 veniamo a conoscenza della trama di tutta la storia: Emira, Regina di Media, tenera madre d’Almerindo unico suo figlio, ed Amante sviscerato d’Orontea, parimenti unica prole di Orsmida, Re di persia, Principessa la più rinomata di quel tempo per belezza non meno, che per virtù, [che] avendo tentato invano di compiacere alle brame del figlio, con renderla sua Consorte, si vendicò finalmente della ostinazione d’Orsmida, in denegargliela, con farlo morir di veleno; ma non potendo, dopo la morte del Genitore, indurre quella costante Principessa a cui succeduta nel trono, alle nozze d’Almerindo, fece sì, che Dorimaspe suo consorte la stringesse d’assedio nella città di Susa, capitale del di lei Regno. Idreno Principe Parto invaghito per fama delle beltà d’Orontea, inteso il di lei periglio, con poderoso esercito portossi a soccorrerla302. È molto probabile che il traduttore portoghese sia stato indotto alla falsa attribuzione o per il fatto che proprio presso il Regio Ducal Teatro milanese ebbe luogo il 26 dicembre del 1725 la prima di un’altra opera del poeta cesareo quale il Siface, opera che molto deve aver suscitato l’interesse dei lettori delle sponde del Tejo soprattutto per la presenza di un personaggio quale Viriate, principessa di Lusitania; oppure per l’estrema somiglianza di alcuni passaggi dell’Emira ai versi di altri drammi metastasiani tradotti in terra iberica. Sorprendenti sono infatti le somiglianze tra la battuta di Dorimaspe all’inizio del secondo atto e l’incipit dell’Alessandro nell’Indie. 300 Cfr. Antonio Pagliacci Brozzi, Il regio Ducal Teatro di Milano nel secolo XVIII. Notizie aneddoticé 1701-1776, G. Ricordi & C., Milano, 1893-1884. 301 Cfr. Il Regio Ducal Teatro di Milano (1717-1778). Cronologia delle opere e dei balli con 10 indici, a c. di G. Tintori e M.M. Schito, Bertola & Locatelli Editori, Cuneo, 1998. 302 Emira, dramma per musica da rappresentarsi nel regio Ducal teatro di Milano, Nel carnevale dell’Anno 1756. Dedicato a sua Altezza Serenissima il Duca di Modena, Reggio, Mirandola ec. ec. Amministratore, e capitano Generale della Lombardia Austriaca ec. ec., in Milano, 1756, nella Regia Ducal Corte, per Giuseppe Richino Malatesta Stampatore Regio Camerale, s.p. 376 Capitolo II La versione portoghese, composta mescolando variabilmente rime alternate e baciate con frequenza di sequenza da strambotto del tipo ABABCC (stile perfetto per argomenti di tipo popolare e satirico) rimaneggia sensibilmente il testo di partenza optando per un protrarsi ed un dilatarsi delle singole scene, in parte appesantite, ma descritte con maggiore ricchezza di dettagli soprattutto per quanto riguarda i personaggi centrali di Emira ed Orontea, quest’ultima certamente carattere più complesso e sfaccettato, con zone d’ombra ben più evidenti della semplice vittima sacrificale raccontata dal dramma italiano. La parte dei graciosos, invece, non ha in questo adattamento grande rilevanza, quasi non costituisce azione a sé, se non per due brevi episodi isolati centrati sul gioco comico che deriva dal legare insieme concetti tanto distanti come il cibo e la guerra, in un caso, e nell’altro riprendendo la situazione del mascheramento e del travestimento già incontrata nel Calote dell’Alexandre na India. Le poche particolarità che si evidenziano rispetto alle precedenti modalità dell’azione dei criados (di cui la coppia dell’Emira ripropone fondamentalmente la funzione di commento) sono rappresentate da un’accresciuta gestualità del servo di Almerindo, Gafanhoto (“cavalletta” ma anche “individuo stravagante”), l’accentuazione di una certa fisicità nel continuo gesticolare e nella descrizione fisica del travestimento tra l’infernale e l’animalesco molto realistica e particolareggiata, insieme ad una maggiore concentrazione sul gioco di parole omofonico in un crescendo barocco di complessità linguistiche e con l’insistia caricatura delle modalità espressive melodrammatiche, rese comiche attraverso la tecnica del controcanto ironico. Un giusta chiusura alle comparazioni degli adattamenti al gusto portoghese delle opere metastasiane è allora la battuta finale della serva di quest’opera, Borboleta (“farfalla” ma anche “persona volubile”). Ecco nella seconda scena del primo atto una sorta di manifesto generale delle motivazioni di fondo che stanno alla base della scelta del rimaneggiamento operistico attuato dai traduttori fin qui presentati: Ora o que vai pelo mundo; tudo são confusões tantas, Metastasio, padrão de vida do século XVIII 377 Figura 33. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 600). 378 Capitolo II Figura 34. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 66). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 379 Figura 35. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 676). 380 Capitolo II Figura 36. (Col. Teatro de Cordel, FCG, Biblioteca de Arte, TC 29). Metastasio, padrão de vida do século XVIII 381 uns aos murros, outros quietos; uns com muito, outros sem nada; uns se riem, outros se choram, uns sopram, outros se escaldam; mas, em fim, o que quiser levar uma vida guapa, há–de olhar para estas coisas, e pregar-lhe duas risadas303. 303 Comedia Famoza intitulada Emira em Suza, e Fugir à Tirannia para imitar a Clemencia, composta em Italiano pelo Abbade Pedro Matestacio, na off. de Domingos Gonsalves, Lisboa, 1787, p. 10. 382 Capitolo II CONCLUSIONI Alla fine di questo percorso attraverso le rese lusitane del melodramma metastasiano, vogliamo accennare brevemente a quelle che furono le reazioni al dilagare della corrente dei rifacimenti operistici nei due autori di spicco della più seria drammaturgia portoghese tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Ci riferiamo a Manuel de Figueiredo (1725–1801) e ad Almeida Garrett (1799–1854), autori e teorici di teatro che in parte condanno e in parte sembrano recuperare i canoni comico–grotteschi degli adattamenti qui analizzati. L’insofferenza nei confronti del dilagare dell’influenza operistica italiana a discapito di una genuina produzione drammaturgica e musicale nazionale è testimoniata già da un passo del prologo ai Viajantes ditosos, commedia in due atti musicata da Marcos Portugal e rappresentata presso il Teatro do Salitre nel 1790, in cui l’anonimo autore protesta il suo diritto a superare il modello straniero per fondare un genere operistico, per così dire, di stampo nazionale: É verdade que a Itália tem o direito de dar cantando um tom mais agradável aos teatros de todas as cortes, não só porque a sua linguagem pura sofre cortar-se, estender-se e ageitar-se à medida das colcheias, fusas, etc., mas porque os seus antigos seminários musicos abundaram sempre e primeiro que todos destas agradáveis composições. Porém agora que vemos entre nós felizmente estabelecido e patrocinado pelos nossos augustíssimos soberanos um seminário destes, de onde saem aproveitados génios e talentos capazaes de emparelhar com Jomelli, com Peres, com Paesiello, com Cimarosa e com todos os bons italianos, porque os deixariamos em ocio perder a fama, que eles podem ganhar para os seus portugueses? E porque tendo de nosso para nos deleitarmos, iremos sempre mendigar um favor estrangeiro? E muito mais vendo com o exemplo, que a nossa mesma linguagem não resiste à arte do perito, que cuide em a pôr nas regras da harmonia musical? Acresce a isto mais a razão de atendermos a que na nossa linguagem se faz mais geral a instrução e mais proporcionado o divertimento para os nossos patricios 1 ouvintes. 1 J. J. Marques, op. cit., pp. 137-138. 383 384 Conclusioni Ma è soprattutto Manuel de Figueiredo a lasciarci una serie di discorsi accademici in favore di una riforma in senso nazionalistico del teatro portoghese e una quantità considerevole tra drammi, commedie e tragedie che, tuttavia, non ebbero quasi mai il privilegio di un allestimento teatrale. Il rapporto con la moda operistica italianizzante non si concretizzerà nella composizione di rifacimenti o di adattamenti al gusto portoghese come nei testimoni che abbiamo analizzato nel capitolo precedente. Al contrario, troveremo spesso nel drammaturgo portoghese critiche pesanti al facile successo di quel tipo di rappresentazione. Molti passaggi dei suoi testi si richiamano con tutta evidenza alla realtà del successo di pubblico delle rappresentazioni d’ispirazione italiana e dei relativi adattamenti. Ciononostante, Figueiredo non si sottrasse affatto alla lettura dei suoi contemporanei francesi, spagnoli e, ciò che più ci interessa, italiani. Spesso nei discorsi di introduzione alle sue commedie, l’autore lusitano cita il nostro teatro settecentesco come massimo rappresentante della decadenza degli usi e dei costumi culturali, pur avendono indubbiamente subìto il fascino2. Scrive infatti nel Discurso di presentazione alla sua traduzione del Catone di Addison: De que servio a Moliere ser bufão, e ao famoso Goldoni fazer Comedias más? Se elles tivessem melhorado os costumes, ou o gosto da sua Nação, não os imitaria eu? Eu que não escrevo por outro algum interesse? Analizem lá os costumes dos Italianos, e dos Francezes antes que Moliere, e Goldoni 2 Della stessa opinione è Maria Luísa Malato: «é certo que reprova em muitos textos o gosto do público português, fascinado pelo balandrão dos dramas dos bonecos, as graças das comédias atelanas, as máscaras do teatro italiano. Mas ao próprio árcade não é estranho este fascínio.[...] alude encomiasticamente às obras de António José da Silva [...] E ainda aquelas máscaras do teatro italiano, intrigas simplistas da commedia dell’arte, que a contragosto o deleitam. [...] Fala pelo autor a imensa colecção, na sua biblioteca, de dramas e farsas carnevalescas redigidas em italiano, umas das quais, até, intitulada A mãe indiscreta, da autoria de Caetano Martinelli, compadre de Frei Manuel do Cenáculo, o qual, sem dúvida, conjuntamente com um enigmático J. N., Senhor de Luca, leitor de Goldoni, proporcionariam a Manuel de Figuereido o convívio com alguns livros dos seus compatriotas. Não resistitu mesmo o dramaturgo a experimentar a mão naquele género, e desculpando-se com o intuito de auscultar os gostos da nação, deu gosto ao seu, redigindo – em data incerta, mas que situamos por volta de 1775 –, um sainete em castelhano, introduzido pelas figuras de um Arlequim tocando tambor e uma Prochinela [sic] de balde, broche e cartazes.» in Luísa Malato da Rosa Borralho, Manuel de Figueiredo. Uma perspectiva do neoclassicismo português (1745-1777), IN–CM, Lisboa, 1995 pp. 104-105. Conclusioni 385 compuzessem, comparem-nos com os de hoje, e digão-me a differença. No gosto fallarei eu, porque vejo como d’antes encher-se o Theatro Italiano em París, e leio os Dramas, que aqui nos chegão todos os dias de Italia, e ainda de França. Desapparecerão os marquezes, e os pedantes em França em quanto Moliere, e os mais Poetas cuidárão mais em envergonhallos, que em os fazer rir. E fazer-se hum Poeta ridiculo por nada, he ser mais fatuo do que matar-se pelo Povo3. Un esempio pratico di come Figueiredo intendesse riformare i personaggi tipici degli adattamenti al gusto portoghese è la figura del criado italiano Genaro creato per la commedia Apologias das Damas (1773), servo davvero sui generis in quanto disegnato intorno alla caratteristica principale dell’erudizione, del costante citazionismo, della saggezza filosofica in grado di superare in acume i personaggi di rango superiore, loro questa volta definiti loucos. Davvero un caso eccezionale all’interno della canonica tipologia del gracioso, dal quale evidentemente il Figueiredo intende in questo modo allontanarsi: Luiz Tu não és um pateta, como são Os criados do tempo, tu nasceste Para melhor fortuna; tens juízo; Tiveste educação; tens que perder: Genaro Ma un loco haze ciento, aun por esso. [...] Genaro Quem é? Luiz Sou eu. Genaro Perdoe, que estava lendo El Diablo Coxuelo. 3 219. Manuel de Figueiredo, Teatro, Tomo VIII, Impressão Régia, Lisboa, 1804-1815, p. 218- Conclusioni 386 Luiz Boa especie! Genaro Queria refrescar-me na pintura Da guardilha do Magico. (Mostra-lhe a estampa do livro) Luiz E porque? Genaro. Porque foi entregar aquela carta, Que meu amo me deo no Galetás, Àgua furtada, ou seja mesanino Do tal Licenciado; e já sonhei Cousas extravagantes, e a propósito. Luiz Raro humor, que sonhaste? Genaro Que o Diabo Partíra com meu amo pelos ares, E lá desde a Giralda de Sevilha, Destelhadas as casas de seu Pai, Lhe mostrava Isabel, que em solilóquio Bocados de ouro diz, chorando a môco Môco tendido, sobre o seu retrato. Luiz Se sonharas, Genaro, que era morta, Sonharas a verdade. Genaro. Morta? Luiz Morta. Pois não viste o desdém, com que teu amo Tratou o seu bilhete? Genaro Lá me fez Alguma novidade; mas eu tenho-o Conclusioni Por louquinho desde ontem, e ao Senhor. Luiz Havendo sete meses, que não tinha Notícia alguma dela! Genaro Pois morreu De repente, Senhor? Há duas horas Não escreveo aquele tal bilhete! Luiz De repente morreu. Genaro Sim! Luiz Que outra Dama, De pouco mais, ou menos, lhe tirou O coração de Vasco. Genaro Requiescat. Luiz Mas com acções talvez, que não terião Muitas de circumstancias. Genaro Já se sabe: Há-de ser de novela; e sempre as acha! Luiz Parece que o Demonio lhas depara! Genaro Mas segundo a define, foi a troca Muito a nosso favor, e a favor dele: Por essa não teremos tantos sustos, Ou já de vello morto, ou de caminho Para a pátria, levando em fé de Ofícios Sua carta de guia, e la besace. (São alforges) 387 388 Conclusioni Luiz Morrer pobre, é melhor que ser velhaco. Genaro Há nisso opiniões, e a mais seguida, Se me dessem licença, eu a diria. Luiz Enganar, e perder uma donzela! Uma mulher distincta! [...] Diz Lope (quando nada) Asta la lengua parece, que es tambien enamorada 4. Imitare i grandi classici del passato, evitare la commedia di carattere poco consona al contesto portoghese, sottrarsi alla rappresentazione dei cosiddetti tipi universali, macchiette poco verosimili, la poetica di Figueiredo dichiara guerra aperta a tutte le “estranhezas”5 del moderno teatro, alle “bufonadas ridiculas”6, al “caracter mal preparado”7, e con l’unico obiettivo di educare positivamente la gioventù. L’avversione nei confronti degli imitatori, dei traduttori infedeli e di ogni genere di adattamento è addirittura condensata nel motto legato al suo ritratto – Non ego ventosae plebis suffragia venor – e alla citazione di apertura della collezione integrale del suo teatro: O imitatores servum pecus. Attacca quindi l’uso smodato delle romanticherie, l’eccesso di “galanterie & coquetterie”8 negli intrecci drammatici a discapito di quei temi che fecero la gloria delle “almas grandes”9 greche e romane, la spettacolarità barocca di pura suggestione scenica. Nonostante Figueiredo stesso abbia ceduto al gusto dominante per accattivarsi i favori di un eventuale pubblico spettatore, creando «a personagem Ginja que, embora nada entendesse do enredo, não perdia espectáculo dos italianos»10, o iniziando, su 4 M. de Figueiredo, op. cit., Tomo II, pp.215-291. Ivi, Tomo IX, p. V. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. VIII. 8 Ivi, tomo VIII, p. 209 9 Ibidem. 10 M. L. Malato da Rosa Borralho, op. cit., p. 76. 5 Conclusioni 389 richiesta di un amico, un’opera italianizzante intitolata Diomedes e di cui ci rimane la sola prefazione, il suo unico scopo è la riforma della società attraverso l’exemplum teatrale, sia mettendo in discussione «o servilismo cómodo perante os gostos do público»11 dei drammaturghi nazionali, sia rifiutando qualsiasi tipo di ibridismo letterario, il riso facile, la battuta oscena, il linguaggio sboccato e, lo ribadisce spesso, l’uso di temi non legati alla realtà lusitana: Maior desgraça experimentão os Theatros, que não tem Poetas Nacionaes; porque supposto que o vicio deva ser geral; o jogo, que elle tem com os costumes, e maximas do Paiz, em que se escreveo a Fabula, faz com que ella muitas vezes nos suscite os que não temos; ou que não lhes conhecendo originaes, percamos o interesse, tanto da parte da instrucção, como do divertimento: porque está bastantemente provado, vendo-se que a Fabula ouvida com acclamações em huma Capital, se não póde sustentar em outra, ainda sem mudar de linguagem12. Intenti moralizzatori, teatro educativo e critica sociale costruttiva che gli sono valsi la commissione di ben tre opere da parte dello stesso marchese di Pombal (O Avaro Dissipador, O Indolente Miserável e O Fidalgo da sua própria casa) e la definizione di “teatro a tesi” dell’insieme delle sue opere composte tra 1745 e 1777. Il principio poetico al quale l’autore si ispira per mettere in pratica quella che egli stesso definì “escola de costumes”13, finalizzata esclusivamente alla ricerca dell’utile, è dunque quella verosimiglianza che Figueiredo riconduce ad un’idea di fabula la cui costruzione non si discosti dalla vita reale ― il che significa eliminare dalla scena «esses monstros da inverisimilhança»14 che sono gli “a parte” e i soliloqui ― pur pilotando intreccio e situazioni verso una conclusione eticamente sostenibile. A tal fine occorre che il pubblico spettatore venga guidato nella scelta della giusta rappresentazione teatrale, evitando di adeguarsi al mal gusto dominante che induce a “beber nos charcos”15 quando è possibile specchiarsi nelle acque chiare del suo 11 Ivi, p. 28. M. de Figueiredo, op. cit., Tomo I, p. II. 13 Ivi, p. IV. 14 Ivi, Tomo II, p. 176. 15 Ibidem. 12 Conclusioni 390 teatro di riflessione. Una posizione che tuttavia sembra non esclude totalmente l’elemento comico, purché il ridicolo operi sempre a vantaggio della correzione del vizio. Quelle del Figuereido sono infatti tipologie comiche rinnovate, epurate da quella «miserável 16 complacência de fazer rir o vulgo» che l’autore considerava causa di tutti i mali del teatro portoghese, così permeabile alle devastanti influenze straniere da cedere anche al buon uso della lingua: O Theatro, que em toda a parte he o modêlo da lingua, será a Escola do Barbarismo, em quanto não houver Dramaticos Nacionaes. Que cousa mais rara, que hum Traductor? Que importa, que no discurso de largos annos appareça huma boa versão, se todos os dias se estão ouvindo as mais vergonhosas para a Nação, e para os desgraçados Autores? Vemos a frase Portugueza mais adulterada nos escritos dos Comicos, que na boca dos Estrangeiros, de poucos mezes chegados a Lisboa. Quale he o Espectador, que pelo idiotismo da traducção não conhece immediatamente a linguagem original do Poema? E qual he o que não vê pela dilaceração da Fabula, pelos contrarios effeitos, que causão as paixões, e até pela mudança dos Titulos, que o Traductor se entendeo a Grammatica, ignorou rhetorica, e poeticamente o que traduzia?17 A sua volta Almeida Garrett, promotore di quella riforma teatrale per la quale si adoperò sia a livello istituzionale, sia attraverso una fervida attività di drammaturgo, e con l’unico scopo di rifondare il teatro nazionale portoghese parzialmente assopitosi all’indomani degli splendori del teatro cinquecentesco vicentino, fu sempre mosso nelle sue battaglie culturali dall’idea di dover imprimere nuovo impulso e nuovo vigore alla drammaturgia lusitana. È infatti contenuta nella prefazione ad Um Auto de Gil Vicente, dramma rappresentato per la prima volta nel teatro da Rua dos Condes il 15 agosto 1838, la constatazione dello stato penoso in cui versava la produzione letteraria per la scena portoghese, a causa delle molteplici influenze operistiche italiane, spagnole e francesi: Em Portugal nunca chegou a haver teatro; o que se chama teatro nacional nunca; [...] a nossa [cena] andou fazendo «operações mistas» com a Itália e Castela, até que, fatigada de uma existência difícil, toda de privações e sem 16 17 Ivi, p. VI. Ivi, pp. VII-VIII. Conclusioni 391 glória, arreou a bandeira nacional, que nunca içara com verdadeiro e bom direito, e entregou-se à invasão francesa. [...] E todavia Gil Vicente tinha lançado os fundamentos de uma escola nacional. Mas foi como se a pintura moderna acabasse no Perugino18. Preoccupazioni che sono ancora presenti nei Viagens na minha Terra composti tra 1843 e 1845, dove troviamo un tale giudizio sullo stato delle rappresentazioni teatrali alla moda: Pois o teatro... Que se lembre alguém, na provincia, dos martírios que sofreu o ouvido com os berros da prima-dona, as desafinações do tenor, ou com o enfadonho ressonar daquela adormecida orquestra de S. Carlos! A enjoativa tradução de uma comédia da Rua dos Condes, roída de incurável sífilis, afigura-se aveludada de todas as graças do estilo de Scribe. E o destempero original de um drama plusquam romántico, laureado das imarcescíveis palmas do Conservatório, para eterno abrimento das nossas bocas! Lá de longe, aplaude-o a gente com furor e esquece-se que fumou todo o primeiro acto cá fora, que dormiu no segundo e conversou nos outros, até à infalível cena da xácara, do subterrâneo, do cemitério, ou quejanda, em que a dama, soltos os cabelos e em penteador branco, endoudece de rigor, o galã, passando a mão pela testa, tira do profundo tórax os três ahs! do estilo, e promete matar o seu próprio pai que lhe apareça, o centro perde o centro de gravidade, o barbas arrepela as barbas... e maldição, maldição, inferno!... – «Ah, mulher idigna! Tu não sabes que neste peito há um coração; que nestas veias corre sangue... sangue, sangue! Eu quero sangue, porque eu tenho sede, e é de sangue... Ah! Pois tu cuidavas!?... Ajoelha, mulher, que te quero matar... esquartejar, chacinar!» – E a mulher ajoelha e não há remédio senão aplaudir... E aplaude-se sempre19. Eppure, durante la sua formazione, il giovane Garrett subì l’influenza della tradizione operistica italiana in maniera determinante, tanto da comporre nel 1820 un breve testo dal titolo italiano di La lezione agli amanti – Opera bufa, parodia di genere infarcita di tutti i classici motivi della comicità al gusto portoghese: um padrone stolto, un criado astuto a quanto pare rappresentato dall’autore stesso, una fanciulla capricciosa ed insensibile ed un tema alla moda come la 18 Almeida Garrett, Um Auto de Gil Vicente, Publicações Europa-América, 2a ed., Lisboa, 1995, p. 29. 19 Almeida Garrett, Viagens na minha Terra, intr. por M. E. Tarracha Ferreira, Ulisseia, Lisboa, 13a ed., 2002, p. 201. Conclusioni 392 disputa tra prosa e poesia nella lode all’amata. Una breve parentesi pseudo–operistica nella produzione letteraria di Garrett che merita di essere riprodotta integralmente. LA LEZIONE AGLI AMANTI Opera bufa Da rapresentarsi nel R. Theatro di ... Personas que hablan en ella O Snr Manuel A Sobred.a 20 Sra que faz annos Este seu criado Côro. A cena é onde for possível. Que vos fazer os meus versos Onde está a sua prosa? Nicol. Tolent. Falo eu, e digo Meu Manoel aí te envio Uma ode... Manoel É peta; é história. Qual! Nem peso, nem feitio Tem disso a tal mistifória. Eu Pois bem, Sr. Manoel, tenha paciência: Fiz o que pude em minha consciência. Saberá, meu senhor Que as musas são mulheres, Como elas caprichosas, Dengues, e desdenhosas, Por mais que um homem segurá–las queira Promptas nem sempre estão pra brincadeira. Aria 20 Forse abbreviazione di “sobredoirada”, "vanitosa”? Conclusioni Atrás de Daphne Corria Apolo, Já todo um bolo Feito d’amor. E a toleirona Feita beata, Como uma gata Põe-se a gritar. Se inda vivesse No outro dia Talvez inda 21 Tras dele iria Também correr. Manoel Sr. Poeta, uma ode eu lhe pedia. Sermões não quero de mitologia. Eu Sempre um exemplo achara um calcanhar Entremos em matéria. Esses meus versos Sejam ode, ou soneto Ou quintilha, ou terceto Elegia, epicedio Canção, epithalamio, Epopea, ou tragédia, Epinício, ou comédia, Fabula, endecha, satira, ou cantata Servem para o seu fim optimamente E se duvìda disto, experimente. Manoel A tanto não me atrevo. Eu E porque meu amigo? Manoel Aria Porque dos versos Logo no meio 21 Verso soppresso dall’autore. 393 Conclusioni 394 No êxito receio Que a minha amada Entre a roncar. Eu Tu me insultas, Manoel! Manoel Digo a verdade. Eu Ora experimenta. Manoel Não. Eu Vai, toleirão, fazer o que te digo; E da boca, do ouvido, olhos, umbigo Verás a borbotões Suspirões a montões, Ais, prantos, e gemidos, Soluços, e bramidos... Os lenços já não chegam, Toalhas, nem lenções... Bacias, ourinais Por fora a trasbordar... Oh ditoso Manoel, corre sem medo Para onde te aponta amor co’ dedo. Manoel Convenceste-me em fim. Andiamo, andiamo Ad implorar la bella.22 Aria Ai piedi suoi Pianti, e sospiri Dei miei martiti Chiedon pietà. Io son, amore Tuo servitore; 22 In italiano nel testo. Conclusioni 395 Al mio dolore Solievo dà.23 (Sala régia em casa de Maria Joanna. Sai a Sobred.a cuja senhora, que faz anos e canta) Recitado Aonde estás ingrato, Meu Manoel, onde estás que inda não vens Para dar-me os devidos parabéns De fazer anos hoje a tua amada? Aria Da sua Dido O ingrato Eneas Pelas ameas Assim fugia E nos teus annos, Triste rainha O tal chochinha Não quis dançar. Mas alguém chega. (Entra o Sr. Manoel e diz) Eu sou meu bem que chego Com uma ode famosa; Que diz que és tão formosa, Que jamais no universo Não houve em prosa, ou verso Ninguem, ninguem tão bela como tu. Lê, meu bem. A Sobred.a Eu ler versos! Lê-os tu. Manoel (lendo) "Salve, dia gentil... 23 In italiano nel testo. 396 Conclusioni A Sobred.a Que linda causa! Parece-me que diz – salve rainha. Dize, dize, meu bem. Manoel (lendo) "Dia formoso "Bella, risonha aurora "Que a [†] encantadora... Mas... tu roncas, meu bem?... Que é isso? A Sobred.a (acordando) O que?... que?... Dize Dize, que é bem bonito. Manoel (Estou perdido) (À parte) "Trouxeste ao mundo... E esta!... Ei-la adorme. Ora leve o diabo os tais poetas, E mais o tolo, que lhe engole as petas. Versos a moças! Versos a madamas! Eu só caio em tal logro. Vejamos se a desperta, e se inda pode Esquecer-se de que há versos, nem ode. Aria Meu bem acorda, Dá-me atenção, Que o tal sermão Já, já lá vai. Odes, sonetos, Motes, e glosas As minhas prosas Te supprirão. A Sobred.a Pois sim, meu bem: De versos nada; Prosa resada, E nada mais. Coro Amor não fala Senão em prosa: Nada de glosa, Sr. Manoel. Conclusioni 397 E vós, rapazes, Que namorais, D’asneiras tais Tirai lição: Co’as vossas belas Sempre falar O que dictar O coração.24 Un lascito del genere dell’adattamento al gusto portoghese, questo, che avrà certamente segnato in profondità la sensibilità artistica di Garrett, visto che ne ritroviamo traccia nel frammento di un suo intermezzo datato 1841 e intitolato Entremez dos velhos namorados que ficaram logrados, bem logrados, pubblicato per la prima volta da Damien Saunal nel 1954, e nel quale concorrono tutti i topoi della letteratura teatrale di cordel tanto in voga nel Settecento: dalla caratteristica del nomen omen dei personaggi, per cui abbiamo um Redondo (“rotondo, grasso”), una Bicuda (“beccaccia”), una serva Ladina (“astuta, furba”) ed un criado Fandango (“danza spagnola” o “cencio”), al classico intreccio degli anziani padroni invaghiti dei giovani servitori e derisi da questi ultimi tramite farsesche sottrazioni di cibo o provocate cadute. Un Garrett che, come possiamo leggere qui di seguito, ci appare decisamente lontano dall’immagine classica dello scrittore impegnato che siamo abituati a conoscere. 24 Almeida Garrett, La Lezione agli amanti, Opera bufa da rapresentarsi nel R. Theatro di..., Porto, 1820, pp. 370-379. Conclusioni 398 ENTREMEZ DOS VELHOS NAMORADOS QUE FICARAM LOGRADOS, BEM LOGRADOS Para se representar no theatro da Rua Formosa 1841 Pessoas Pancrácio Redondo – Velho com fama de rico. Gertrudes Bicuda – Velha, sua vizinha, com a mesma fama. Ladina – Criada de Pancrácio. Fandango – Criado de Gertrudes. A cena é em casa de Bicuda. Cena 1 (Gertrudes Bicuda, Fandango) (A velha arranjando a mesa com dois talheres, etc.; o criado batendo os ovos para os filhoses numa tigela) Gertrudes Anda, Fandango, aviemos, que ja é tarde e o meu Pancrácio há–de estar a chegar. Que bela noite vamos passar aqui! Está tudo pronto para os filhoses; não é mais que frigir. Frijo eu e abanas tu, o fogareiro está aceso; é um instante. Ó que bela quinta feira de comadres! Não é assim meu Fandango (Fazendo-lhe mimos). Fandango Tire para lá, Senhora Gertrudes, tire para lá, que eu não sou o seu Pancrácio. (À parte). (Escomungada velha!). Gertrudes Não sejas ingrato, Fandango: não sabes que está n’esta casa há tanto tempo como se fosses senhor dela, que te trato tão bem... Fandango (À parte) (Bem de mais! Tonta da velha). Pois sim senhora; mas lá essas festas guarde-as para o seu compadre. Gertrudes O Fandango, meu Fandango, pois tu... será caso que tu tenhas ciúmes do velho! Fandango Eu! Ora a senhora tem coisas. Essa agora! (Rindo) Conclusioni 399 Gertrudes Não tens razão, rapaz. O velho é rico, chegou da Bahia com muito dinheiro, cuida que eu que o tenho e quer casar comigo. Há–de ficar logrado; porque dinheiro não o vê, que o não há cá, e o coração é todo para ti, meu Fandanguinho; bem sabes... (Querendo abraçá-lo) Fandango (À parte) (Irra coa velha!) Senhora, Senhora, que me entorna as filhoses... (Atiralhe com uma colherada da tigela pela cara) Gertrudes Rapaz, que me cegaste! E Jesus, e a minha colereta que me custou tanto a engomar. Fandango Não é nada, Senhora Ama, não é nada... Também para que vem cá mexer?... Gertrudes (Limpando-se, à parte) Está como uma bicha o rapaz. Fandango Ah, Senhora Ama, quantas filhoses hão–de levar estopa? Gertrudes Uma só para o velho, outra para a lambisgóia da creada que há–de vir com ele. Não há remédio, se ele é tonto e tropego, senão trazer a creada. Que lhe tenho uma zanga à tal Ladina... Fandango Ah! A ladina vem? Gertrudes Vem, sim senhor; mas olhe vocemecê como se porta com ela. Nem palavra à rapariga: nem ela vale a pena; olha tu, é uma sensaborona. Bonita qual! Não é, é uma grosseira de uma criada. Não, d’aquela não tenho eu ciumes. Pudera! Pois dize cá, rapaz, achas n’aquilo alguma coisa que preste? Fandango Eu sim; importa-me cá a Ladina! Gertrudes Bonito rapaz; isso é que são sentimentos. Pois eu, meu Fandango, inda não sou tam velha que... 400 Conclusioni Fandango (À parte) (Ora o demo da bonita, o que se lhe havia de meter na cabeça! Deixa então que eu te ensinarei). Qual velha! Está uma flor. Gertrudes Dizes-me isso deveras? Fandango Digo, sim Senhora, Senhora Bicuda. Gertrudes Mas olha. O diacho da Ladina parece-me que embruxou com o Pancrácio e é preciso tirar-lhe essa tolice da cabeça antes que ele faça alguma. Em nós lhe apanhando o dinheiro, adeus! Não me importa; mas agora é preciso. Fandango Deixe estar, deixe isso por minha conta, que eu falarei coa Ladina. Gertrudes Pois sim; mas vê lá como lhe falas! Não va cuidar a tola da rapariga que tu te importas com ela. Fandango Não cuida, não senhora; qual! Ella sim! (Batem à porta) Gertrudes Ei–los aí, ei–los aí. Estou bem preparada não estou? Que tal me achas? Fandango Está mesmo como aquela coisa de S. Pedro d’Alcântara. Gertrudes O jardim, magano? Fandango A cascata, tola. Cena 2 (Ditos, Pancrácio e Ladina) (Ladina vem ajudando o velho a andar) Conclusioni 401 Pancrácio Ora aqui, estou, Senhora Comadre, minha rica vizinha, Senhora D. Gertrudes Bicuda. Como vão estas filhoses e estas saudes d’esta casa? Desde quinta-feira passada que nos saiu esta comadria até agora ainda não cismei noutra coisa. Dizia eu comigo, Pancrácio, meu Pancrácio, quinta-feira que vem, oh, que filhoses, oh, que filhoses! – Ladina não saias do pé de mim. Gertrudes Chega uma cadeira ao Senhor Pancrácio, Fandango. Pancrácio Oh, ca está o gaiato do Fandango, Ladina! Ladina Senhor? Pancrácio Anda, vamos. (Fandango finge que lhe chega uma cadeira, e dá um beliscão em Ladina. Esta diz: ai! E larga o velho que cai de pernas para o ar) Pancrácio Ai quem me acode! Todo os três (Rindo) Ah! Ah! Ah! Pancrácio Espera-me, gaiato, Fandango maldito, espera-me. Senhora Bicuda, este maroto, não vê que me fez cair e está a rir... Fandango Eu Senhor! Essa é boa. Ora levante-se. (Pucha-lhe por uma orelha até que o faz levantar) Pancrácio Ai minha orelha, ai ai! (Vai com as dores e chiando cai nos braços da Senhora Bicuda que o sustém). 402 Conclusioni Gertrudes Senhor Pancrácio, meu Compadre, tenha mão em si. Vamos: não foi nada. Sentemo-nos à mesa, e vamos a estas filhoses que espero que estejam do seu gosto. Fandango (Pegando na tigela e batendo:) Olhe, batidas vão elas, Sr. Pancrácio, que é um regalo! Pancrácio Já, e parece que as não quero. Se és tu a batê-las, escomungado! Gertrudes Mas hei–de ser eu a frigi-las, meu... Pancrácio Diga, meu bem; diga: pois não sou eu o seu bem. Gertrudes Isso é... Mas que digo! A minha modestia... Uma Senhora donzela não deve... (Sentam-se ambos à mesa. Ladina e Fandango cochicham) Pancrácio Ladina? Ladina Senhor? Pancrácio Anda para aqui. Que estás tu aí a fazer? Gertrudes Deixe-os, vizinho. Deixe-os: não me tem a mim aqui para o servir para tudo o que quiser; não sou eu quase como que ja fosse... Pancrácio Pois sim; mas é que a rapariga... Gertrudes Dá-lhe muito cuidado a rapariga, Senhor Compadre. Se eu fosse desconfiada, sempre lhe digo que... Conclusioni 403 Pancrácio Ai Comadre, não desconfie! Bem sabe que eu... Gertrudes (À parte) Sei que és um forte piegas, meu... Eu te ensinarei... (Alto) Deixe-me ir às filhoses. Fandango, anda, vamos... Cena 3 (Pancrácio e Ladina) Pancrácio Ladina! Ladina Senhor meu amo? Pancrácio Tu queres que eu perca o respeito a esta casa, e que aqui mesmo diante da minha Comadre te ensine a ter juízo. A cochichar, char, char sempre com aquele maroto do Fandango, que é uma joia... Ladina Agora cá cochichar! A gente o que faz é rir. Pancrácio Rir, rir, ó rapariga: pois vocês estão a rir, de mim, hem? Ladina Do Senhor! É da velha, da tonta da velha que cuida que... Pancrácio Ah! Ela cuida que... Então é outro caso. Então ri-te, rapariga. Fandango vem de dentro com uma filhos n’uma colher e a dá a Ladina que a come. Fandango retira-se fazendo gaifonas ao velho) Pancrácio Que é isso que estás tu a comer? Ladina (Com a boca cheia:) É uns soluços que me dão às vezes... 404 Conclusioni Pancrácio Olha rapariga, faze assim (Fazendo como quem engole) que logo te passam. Ladina (Engolindo) É verdade, já me passaram. Pancrácio Aí verás: toma sempre os meus conselhos, que te has–de achar bem. (Baixo) Com que a tola da velha, é Ladina? Forte logro lhe prego. Ladina (À parte) Veremos quem fica logrado por fim, meu paparatos. Cena 4 (Ditos e Gertrudes e Fandango trazendo cada um seu prato de filhoses). Gertrudes Ora ellas aqui, estão quentinhas e dizendo: comei-me. Vamos a isto. (Sentam-se os dois velhos um defronte do outro) Pancrácio Ladina, vai tu para aquela banda e fica detrás da minha comadre para a servires (À parte) (e mais quero ver o que fazes). Gertrudes E tu, Fandango, para aquela, e serve ao Senhor Pancrácio. (Fandango e Ladina fazem o que lhe dizem) Pancrácio (Pondo o guardanapo) Aperta-me isso rapaz. (Fandango aperta-lhe o guardanapo até o velho deitar a língua de fora) Pancrácio Ai que me afogas, que me enfocas, judeu de rapaz. Fandango Qual! É o guardanapo que é pequeno e vocemecê tem um pescoço. Olhe que sempre tem um pescoço. Forte pescoço!... Conclusioni 405 Gertrudes Fandango! Fandango Senhora. Gertrudes (Baixo) Qual d’estes pratos é o... o... ? Fandango Este. Deixe que eu o sirvo. (Ao passar da duas filhoses a Ladina que as deita no prato da velha fingindo que tira do outro: os dois velhos ficam com as filhoses de estopa nos pratos. Fandango e Ladina comem das boas) Pancrácio (À parte, mastigando com grande am) Estão duritas... custa... oh diaxo será dos meus dentes... ou é que... Querem ver que é logro? Pois não me quero dar por cansado abaixo!... Am, am, am... (Engasgando). Vamos a provar d’este vinho. (Deita vinho no copo). Ora minha Senhora, como eu lhe ia dizendo... (Fandango bebe-lhe o vinho) o nosso ajuste... À saude do nosso ajuste. (Pega no copo e lava-o à boca sem reparar) ... Esta agora enganei-me (Achando-o vazio) cuidei que tinha deitado vinho no copo. Gertrudes (Rindo e fazendo signaes de inteligencia a Fandango) É boa! Ah, ah, ah! – Fandango, deita vinho no copo do Compadre. (Fandango deita vinho no copo e bebe-o) Gertrudes (Rindo) O nosso ajuste. Eu sei, pois ele, a falar a verdade... (Começa a comer as filhoses e a engasgar-se). E esta, querem ver que troquei os pratos. Am, am, am... (Deita vinho no copo). Dizia vocemecê, Senhor Pancrácio (Ladina bebe-lhe o vinho e deita-lhe pós no copo). À sua saude (tosse e assopra os pós que caem pela mesa e pela cara dos dois velhos). Isto será bruxaria! Credo! Ó Fandango. Fandango Isso é flor do vinho: é com estes frios. (À parte) Engole, parva. 406 Conclusioni Gertrudes Deita vinho, Ladina. Pancrácio (Rindo e fazendo gestos de inteligência a Ladina) Deita vinho no copo da Senhora Comadre, Ladina. (Ladina vai a deitar o vinho, finge que se engana e vasa a garafa pela cabeça da velha. – Grande gargalhada do velho) Gertrudes Senhor Compadre, que descoco é este da sua criada? forte lambisgoia! Devia ter vergonha vocemecê, um homem da sua idade, de ter na sua companhia semelhante... nem eu sei como lhe chame... Pancrácio (Perdido de riso) Meu bem, minha querida, essa é boa, se a rapariga lhe não serve... O diaxo é a rapariga a falar a verdade... Gertrudes Enfim, meu Compadre, quer vocemecê que eu lhe dê a mão d’esposa? Pancrácio Se quero? Suspiro por isso, minha vida. Gertrudes Ha–de me ser...25 Sono queste le ultime tracce del nostro melodramma settecentesco nei drammaturghi portoghesi dell’epoca. Un recupero parziale, certo, ma comunque lo si voglia giudicare, un debito nei confronti di quella letteratura italiana che diede grande impulso alla produzione locale e che consente quindi di ridimensionare l’opinione diffusa di un Settecento portoghese sostanzialmente privo di fenomeni letterari di rilievo. Il vivo interesse del pubblico, colto e non, nei confronti della rappresentazione teatrale, pur se condizionata da influenze esterne e 25 Textes inédits d’Almeida Garrett: fragments d’oeuvres dramatiques, intr. De Damien Saunal, tirage à part du Bolletin d’Histoire du Théatre Portugais, 5, Lisbonne, 1954, pp. 1927. Conclusioni 407 priva di autori di spicco, è dunque segno di un fermento culturale mai veramente assopitosi. Il particolare risultato dell’adattamento al gusto portoghese dell’opera metastasiana è inoltre prova, pur nella realizzazione di prodotti editoriali poco accurati, del desiderio di dare vita ad un’opera originale e autonoma rispetto al suo diretto modello. In altre parole, attraverso un processo di assimilazione dei testi teatrali italiani si è avuta in Portogallo una corrente di riscrittura che corrisponde a ciò che Antoine Berman definì “traduzione ipertestuale”, una traduzione cioè che parte da un altro testo, ma che ha una forte componente etnocentrica in grado di ricondurre tutto alla propria cultura e che considera lo straniero degno di essere adattato26. In sostanza, sembra si sia seguita ante litteram l’idea che Gideon Toury espresse a proposito delle finalità delle traduzioni. Per lo studioso israeliano, infatti, queste appartengono unicamente al sistema di arrivo, di conseguenza sono sempre progettate come target oriented, nella convinzione che ciò che più conta è il problema della ricezione, lo scambio fra due culture e le possibilità di comunicazione interculturale che la traduzione permette27. 26 Cfr. Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’Auberge du lointain, in «Testo a fronte», 1994, n. 11. 27 Cfr. Gideon Toury, A rationale for descriptive translation studies, in The manipulation of literature. Studies in literary translation, a cura di T. Hermans, Croom Helm, London, 1985. 408 Conclusioni APPENDICE CRONOLOGICA L’OPERA ITALIANA IN PORTOGALLO ORIGINALI, TRADUZIONI E ADATTAMENTI RAPPRESENTATI TRA 1728 E 1808 409 410 Appendice cronologica Teatro do Paço da Ribeira 1728 Il D. Chisciotte della mancia, musica di D. Scarlatti. 1733 La pazienza di Socrate, testo di A. Gusmão, musica de F. A. de Almeida La finta pazza, testo di A. Gusmão, musica de F. A. de Almeida. Le risa di Democrito. La Spinalba ovvero il vecchio matto, musica di F. A. de Almeida. L’Ippolito, testo di F. A. Almeida, musica di A. Tedeschi. Il Siroe, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di D. Perez. L’eroie cinese, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D. Perez. L’Artaserse, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio, musica di D. Perez. La clemenza di Tito, testo di Metastasio, musica di A. Mazzoni. Olimpiade, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Artaserse, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Farnace, testo di Metastasio. 1735 1736 1739 1752 1753 1754 1755 Academia da Trindade 1734 1735 1736 Farnace em Eraclea, testo de Metastasio. Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio, musica di G. M. Schiassi. Demetrio, testo di Metastasio, musica di Caldara. 411 412 Appendice cronologica 1737 1738 L’ Olimpiade, testo di Metastasio, musica di Caldara. Siface, musica di L. Leo. Demofoonte, testo di Metastasio, musica di G. M. Schiassi. Livietta e Tracollo, musica di G. B. Pergolesi. Artaserse, testo di Metastasio, musica di G. M. Schiassi. Anagilda, musica de G. M. Schiassi. Sesotris re d’Egitto, testo di A. Zeno, musica di L. Leo. Emira, testo di Metastasio, musica di L. Leo. 1738 A clemencia de Tito, testo di Metastasio. 1738 Teatro nas Hortas do Conde Teatro Novo da Rua dos Condes 1739 1740 1741 1765 1766 L’Emira, testo di Metastasio. Merope, testo di Metastasio. Il Vologeso, musica di N. Jommelli. La Spinalba, musica di F. A. de Almeida. Demetrio, testo di Metastasio, musica di G. M. Schiassi. Carlo Calvo. Siface, musica di L. Leo. Alexandre na India, testo di Metastasio. Catão em Utica, testo di Metastasio, musica di R. Di Capua. Ciro riconosciuto, testo di Metastasio, musica di Caldara. Ezio, testo di Metastasio. Marquez do Tulipano. Didone abbandonata, testo di Metastasio, musica di R. Di Capua. Ipermestra, testo di Metastasio, musica di R. Di Capua. Le contadine bizzarre, musica di N. Piccinni. La calamità dei cuori, testo di N. Tassi, musica di Galluppi. Il ciarlone, testo di A. Polomba, musica di J. Avossa. Appendice cronologica 1768 1772 1773 1774 1778 1790 1791 413 Perseguimento del ciarlone, testo di G. Friozini, musica di L. Marescalchi. L’Olandese in Itlaia, testo di N. Fassi, musica di G. M. Rutili. O falador imprudente ou A donzela espirituoza, testo di Goldoni. Arcifanfano, musica di G. Scolari. Artaserse, testo di Metastasio, musica di G. Scolari. Il disertore, musica di P. Guglielmi. L’isola di Alsina, testo di G. Bertati, musica di G. Gazzaniga. Antigono, testo di Metastasio, musica di F. Di Majo. L’anello incantato, testo di G. Bertati, musica di F. Bertoni. Il barone di Rocca Antica, musica di C. Franchi. Le orfane svizzere, testo de P. Chiari, musica di A. Baroni. La giardiniera brillante, musica di G. Sarti. Il matrimonio per concorso, musica di F. Alessandri. La sposa fedele, musica di P. Gulherme. Il Cid, testo di G. Pizzi, musica di A. sacchini. La Morinella, musica di N. Piccinni. L’impresa d’opera, musica di P. Guglielmi. L’isola d’amore, musica di A. Sacchini. O praezr de Olissea, testo di S. Machado di Oliveira, musica di A. da Silva Gomez. I tempi della gloria, testo di E. Manfredi, musica di C. Spontini. Il marchese di Tulipano, musica di G. Paisiello. Os filosofos imaginarios, musica di G. Paisiello. L’italiana in Londra, musica di D. Cimarosa. Il conte di bell’umore, musica di M. Di Capua. La moglie capricciosa, musica di G. Gazzaniga. 414 Real Teatro da Corte Appendice cronologica 1752 1753 Il Siroe, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Adriano in Siria, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Olimpiade, testo de Metastasio, musica de D. Perez. La clemenza di Tito, testo di Metastasio, musica di A. Mazzoni. Alessandro nelle Indie, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Enea in Italia, musica di D. Perez. Giulio Cesare, musica di D. Perez. Le Grazie vendicate, musica di L. X. Dos Santos. Isacco figura del redentore, musica di L. X. Dos Santos. La fantesca, musica di Hasse. 1756 1757 Didone abbandonata, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Siroe, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Solimano, musica di D. Perez. 1754 1755 1759 1763 Real Teatro de Salvaterra Il barbiere di Siviglia ovvero La precauzione inutile, testo di Beaumarchais, musica di G. Paisiello. Gli zingari in fiera, musica di G. Paisiello. I due supposti conti, musica di D. Cimarosa. Il marito disperato, musica di D. Cimarosa. Serva padrona, musica di G. Paisiello. L’impresario in angustie, musica di D. Cimarosa. Chi dell’altrui si veste presto si spoglia, musica di D. Cimarosa. Don Giovanni ossia Il convitato di pietra, testo di Da Ponte, musica di G. Gazzaniga. Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Appendice cronologica 1764 1765 1766 1767 1768 1769 1770 1771 1772 1773 415 Il mercato di Malmantile, testo di Polisseno Fegejo, musica di D. Fischietti. Il dottore, testo di Polisseno Fegejo, musica di autor anónimo. Amor contadino, testo di Polisseno Fegejo, musica di G. B. Lampugnani. Arcadia in Brenta, testo di Polisseno Fegejo, musica di J. Cordeiro da Silva. Demetrio, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Il mondo della Luna, testo di Polisseno Fegejo, musica di P. A. Avondano. La cascina, testo di Polisseno Fegejo, musica di G. Scolari. Demetrio, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Notte critica, testo de Goldoni, musica de N. Piccinni. Enea nel Lazio, musica di N. Jommelli. Le vicende amorose, testo di Pallavicino, musica di F. Bertoni. Pelope, testo di M. Verazzi, musica di N. Jommelli. Il Vologeso, musica di N. Jommelli. La finta astrologa, musica di N. Piccinni. Il re pastore, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. Il matrimonio per concorso, testo di G. Martinelli, musica di N. Jommelli. Semiramide, testo de Metastasio, musica de N. Jommelli. Il cacciatore deluso, testo de G. Martinelli, musica de N. Jommelli. La scaltra letterata, testo di A. Palomba, musica di N. Piccinni. Lo spirito di contraddizione, testo di A. Palomba, musica di F. Lima. Le lavanderine, testo di F. Mari, musica di F. Zanetti. La fiera di Sinigallia, testo di Polisseno Fegejo, musica di D. Fischietti. 416 Appendice cronologica 1774 1775 1776 1784 1785 1786 1787 1788 La pastorella illustre, tratto dalla Pastora delle Alpi di Marmontel, testo di Tagliazzucci, musica di N. Jommelli. Il nemico delle donne, testo di G. Bertati, musica di B. Galluppi. Creusa in Delfo, testo di G. Martinelli, musica di D. Perez. Il superbo deluso, testo di M. Coltenilli, musica di F. Gasman. L’Incostante, musica di N. Piccinni. I filosofi immaginari, musica di G. Astarita. Il Testore ingannato, musica di L. Marescalchi. Lucio Papiro dittatore, testo di A . Zeno, musica di G. Paisiello. L’Accademia di musica, musica di N. Jommelli. La conversazione, musica di N. Jommelli. Ifigenia in Tauride, testo di M. Verazzi, musica di N. Jommelli. Il tutore ingannato, musica di L. Marescalchi. Il filosofo amante, musica di G. B. Borghi. La cameriera per amore, musica di Felice Alessandri. La contadina superba ovvero il giocatore burlato, musica di P. Guglielmi. Dal finto al vero, testo di S. Zini, musica di G. Paisiello. La vera costanza, musica di J. F. De Lima. L’amor costante, musica di D. Cimarosa. Conte di bello umore, musica di N. Piccinni. Gli intrighi di D. Facilone, musica di P. Guglielmi. I fratelli Pappamosca, musica di P. Guglielmi. La finta giardiniera, musica di P. Anfossi. Amor costante, musica di D. Cimarosa. Il conte di bell’umor, musica di M. Di Capua. La vera costanza, musica di J. F. De Lima. Socrate immaginario, musica di G. Paisiello. Appendice cronologica 1790 1791 1792 Real Teatro da Ajuda 1753 1754 1764 1765 1766 1767 1768 1769 1770 417 L’Italiana in Londra, musica di D. Cimarosa. Amor ingegnoso, musica di G. Paisiello. La virtuosa in mugelina, musica di P. Guglielmi. La bella pescatrice, musica di P. Guglielmi. Li due baroni, musica di D. Cimarosa. Riccardo cor di leone, testo di M. J. Sedaine. Musica di A. M. Grétry. Il finto astrologo, musica di F. Bianchi. La modista raggiratrice, musica di G. Paisiello. L’eroe cinese, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Ipermestra, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Il cavaliere per amore, musica di N. Piccinni. Le difese dell’amore, musica di P. A . Avondano. I Francesi brillanti, musica di G. Paisiello. Gli stravaganti. L’amore in musica, musica di A. Bertoni. Le vicende della sorte, testo di G. Petrosellini, musica di N. Piccinni. L’incognita perseguita, testo di G. Petrosellini, musica di N. Piccinni. La danza, testo di Metastasio, musica di L. X. Dos Santos. Il ratto della sposa, musica di P. Guglielmi. L’isola della fortuna, testo di G. Barti, musica di A. Luchezi Veneti. Solimano, musica di D. Perez. Le due serve rivali, musica di T. Trajetta. L’amore industrioso, musica di J. de Sousa Cravalho. Faetonte, testo di M. Verazzi, musica di N. Jommelli. La schiava liberata, testo di G. Martinelli, musica di N. Jommelli. 418 Appendice cronologica 1771 1772 1773 1774 1775 1778 1779 1780 1783 1784 La Nitteti, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. La clemenza di Tito, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. La Nitteti, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. Il voto di Jefte, testo di G. Tonioli, musica di P. A. Avondano. Ezio, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. Le avventure di Cleomede, testo di MArtinelli, musica di N. Jommelli. Adamo ed Eva, musica di P. A. Avondano. Armida abbandonata, musica di P. A. Avondano. Eumene, testo di A. Zeno, musica di J. de Sousa Carvalho. L’Olimpiade, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. Il Trionfo di Clelia, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. Demofoonte, testo di Metastasio, musica di N. Jommelli. I Napoletani in America, musica di N. Jommelli. Gioas re di Giudea, musica di A. da Silva. Gli Orti Esperidi, musica di J. Francisco de Lima. Edolide e Cambise, musica di J. Cordeiro da Silva. Testoride argonauta, testo di G. MArtinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. Salomé madre de’ setti Macabei, musica di J. Cordeiro da Silva. Tamiri, testo di Martinelli, musica di J. F. de Lima. Hymeneo, testo di Martinelli, musica di J. F. de Lima. Il ritorno di Tobia, musica di Haydn. Alcione, musica di Haydn. Appendice cronologica 1785 1786 1787 1788 1789 1790 1791 Real Teatro da Corte – Casa da Índia Teatro do Bairro Alto 1753 1755 1765 419 Nettuno e Egle, musica di J. de Sousa Carvalho. Gli Imenei di Delfo, musica di A. Leal Moreira. Esther, testo di MArtinelli, musica di A. L. Moreira. Passione di Gesù Cristo, musica di N. Jommelli. Alcione, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. Gli Imenei di Delfo, testo di Martinelli, musica di A. Leal Moreira. Gli eroi spartani, musica di A. Leal Moreira. Megara Tebana, testo di MArtinelli, musica di J. Cordeiro da Silva. Lindame e Dalmire, testo di MArtinelli, musica di J. Cordeiro da Silva. La vera costanza, testo di Metastasio, musica di J. F. de Lima. Numa Pompilio secondo re de Romani, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. Bauce e Palemone, musica di J. Cordeiro da Silva. Castelo de S. Jorge de Lisboa, Gli affetti del genio lusitano, testo di Martinelli, musica di A. Leal Moreira. Le trame deluse, musica di D. Cimarosa. Axur re d’Ormus, musica di Salieri. La pastorella nobile, musica di P. Guglielmi. Attalo re di Bitinia, musica di Robuschi. Artaserse, testo di Metastasio, musica di D. Perez. L’eroe cinese, testo di Metastasio, musica di D. Perez. L’eroe coronato, serenata di Martinelli. Achilles in Sciro, testo di Metastasio, musica di autore anonimo. Didone, testo di Metastasio, musica di D. Perez. 420 Appendice cronologica 1766 1770 1771 Teatro de Queluz 1775 1778 1780 1788 1763 1764 1767 1768 1771 1772 1773 1774 1778 1779 1780 Zenobia, testo di Metastasio, musica di D, Perez. Semiramide riconosciuta, testo di Metastasio, musica di D. Perez. L’amore artigiano, testo di Goldoni, musica di G. Latilla. Il viaggiatore ridicolo, testo di Goldoni, musica di G. Scolari. L’incognita perseguita, testo di G. Petroselli, musica di N. Piccinni. Il Beiglierbei di Camarana, testo di G. Tonioli, musica di G. Scolari. A herdeira venturosa, testo di Goldoni. A mulher amorosa, testo di Goldoni. A esposa persiana, testo di Goldoni. A bella selvagem, testo di Goldoni. L’amante ridicolo, musica di N. Piccinni. Gli Orti Esperidi, musica di L. X. Dos Santos. L’isola disabitata, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Il sogno di Scipione, testo di Metastasio, musica di L. X. Dos Santos. Il Palladio conservato, musica di L. X. Dos Santos. Issea, musica di G. Pugnani. La finta ammalata, farsetta di G. Pugnani. Il ritorno di Ulisse in Itaca, testo di M. B. Martinelli, musica di D. Perez. Il natale di Giove, musica di J. de Sousa Carvalho. Angelica, musica di J. de Sousa Carvalho. Alcide al bivio, musica di L. X. Dos Santos. Il ritorno di Ulisse in Itaca, testo di Mirtillo Felsineo, musica di D. Perez. Ati a Sangaride, musica di L. X. Dos Santos. Perseo, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. La Galatea, musica di A. da Silva.\ Testoride argonauta, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. Appendice cronologica 1781 1782 1783 1784 1785 1787 421 Edalide e Cambise, testo di Martinelli, musica di J. Cordeiro da Silva. Palmira di Tebe, testo di Martinelli, musica di L. X. Dos Santos. Il natal d’Apollo, testo di S. Mattei, musica di P. Cefaro. Seleuco re di Siria, musica di J. de Sousa Carvalho. Everardo II re di Lituania, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa de Carvalho. Bireno ed Olimpia, testo di Martinelli, musica di A. Leal Moreira. Culliroè in Siria, musica di A. da Silva. Endimione, testo di Metastasio, musica di J. de Sousa Carvalho. Siface e Sophonisba, musica di A. Leal Moreira. Teseo, testo di Martinelli, musica di J. F. de Lima. Il ratto di Proserpina, testo di Martinelli, musica di J. Cordeiro da Silva. Angelica, musica di J. de Sousa Carvalho. Il ritorno di Tobia, musica di Haydn. Ezione, testo di Martinelli, musica di L. X. Dos Santos. Adrasto re degli Argivi, testo di Martinelli, musica di J de Sousa Carvalho. Cadmo, musica di A. da Silva. Siface e Sofonisba, musica di A. Leal Moreira. Archelao, musica di J. Cordeiro da Silva. Ercole sul Tago, testo di V. A. Cigna, musica di L. X. Dos Santos. Ascanio in Alba, musica di A. Leal Moreira. Telemaco nell’isola di Calipso, musica di J. Cordeiro da Silva. Il trionfo di David, testo di Martinelli, musica di B. de Lima. Nettuno ed Egle, musica di J. de Sousa Carvalho. Secolo d’oro, musica di G. R. Fond. 422 Real Câmara Appendice cronologica 1778 1779 1781 1782 1783 Teatro do Salitre 1788 1789 1790 Ópera do Tejo 1791 1755 1793 1798 1799 Ercole sul Tago, testo di V. A. Cigna, musica di L. X. Dos Santos. Archelao, testo di Martinelli, musica di J. Cordeiro da Silva. Il Gioas re di Giuda, musica di A. da Silva. Gli Orti Esperidi, testo di Metastasio, musica di J. F. de Lima. Enea in Tracia, musica di J. F. de Lima. Penelope nella partenza da Sparta, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. Tamiri, testo di Martinelli, musica di J. de Sousa Carvalho. La passione di Gesù Cristo, musica di L. X. Dos Santos. Idillio, testo di J. Procópio Monteiro, musica di m. Portugal. Licença metrica, autori anonimi. Paz perpetua, testo di F. J. de Almeida, musica di autore anonimo. O amor conjugal, testo di J. Procópio Monteiro, musica di M. Portugal. Pequeno drama, autori anonimi. Gratidão, testo di J. A. Neves Estrela, musica di M. Portugal. Viajantes ditosos, musica di M. Portugal. A noiva fingida, musica di M. Portugal. O lunatico iludido, musica di M. Portugal. Alessandro nell’Indie, testo di Metastasio, musica di D. Perez. La clemenza di Tito, testo di Metastasio, musica di D. Perez. Raollo, musica di A. Leal Moreira. Serva riconoscente, musica di A. Leal Moreira. Semiramide, musica di L. Borghi. La donna di genio volubile, musica di M. Portugal. Rinaldo d’Asti, musica di M. Portugal. Il Barone di Spazzacamino, musica di M. Portugal. Appendice cronologica Teatro di S. Carlos 1800 1801 1793 1808 423 Adrasto, musica di M. Portugal. L’isola piacevole, musica di M. Portugal. Fra i due litiganti il terzo gode, musica di G. Sarti. Le gelosie villane, testo di Goldoni, musica di G. Sarti. Il Demofoonte, testo di Metastasio, musica di M. Portugal. 424 Appendice cronologica BIBLIOGRAFIA I. Adattamenti e traduzioni di opere italiane Per i riferimenti bibliografici di questa sezione si rimanda all’elenco in fondo al primo capitolo. II. Opere di consultazione ALMEIDA GARRETT, Um Auto de Gil Vicente, 2a ed., Publicações Europa-América, Mem Martins, 1991. ID., Viagens na minha terra, intr. por M. E. Tarracha Ferreira, Editora Ulisseia, Lisboa, 2002. 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