Anno XV - Numero 41 - 14 luglio 2009 L’intervista Parla il regista Franco Ripa di Meana A Pag. 2 La storia dell’opera Un dramma prima rifiutato e poi corteggiato A Pag. 4 L’inganno in Tosca Un meccanismo drammatico simbolo di un’epoca A Pag. 7 Le Terme di Caracalla La Stagione estiva nel luogo di salute e piacere della Roma antica A Pag. 9 I Luoghi S. Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo A Pag. 12, 13 e 14 TOSCA di Giacomo Puccini Tosca 2 U Il Giornale dei Grandi Eventi Parla il regista Franco Ripa di Meana Un allestimento che guarda a Roma ed alla pazzia di Tosca na grande foto aerea di Roma, stampata sul palcoscenico inclinato, sulla quale sono evidenziati in rosso i luoghi della fatale storia di Floria Tosca: la chiesa di Sant’Andrea della Valle in Corso Vittorio, palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo. E’ la visione spettacolare posta sul fondale antico e straordinario delle cosiddette “Torri” del Caldarium delle Terme di Cracalla, che accompagnerà fino al 6 agosto gli spettacoli di questa Tosca. Dopo vent’anni d’assenza, tocca, infatti, alla protagonista più famosa delle opere di Giacomo Puccini aprire la pagina lirica della Stagione Estiva 2009 caldaie che scaldavano 24 ore su 24 enormi quantità d’acqua, il cui vapore veniva poi convogliato nelle tubature che correvano – e corrono ancora oggi - lungo le pareti. Inoltre, al di la dei tanti riferimenti e circostanze, ciò che profondamente lega Tosca a Roma è quel caratteristico confronto tra potere e religione, tra sacro e profano, elementi che in tutta la vita della Città ancor oggi si intrecciano e si scindono, ma sempre la permeano, facendone un unicum nel mondo. Per questo ho deciso di “segnare” la città, di evidenziarne i luoghi, facendone vivere e divenire protagonista quel fiume intorno al quale la città e nata e si è espansa». Per la verità tutto l’allestimento è per- La Locandina ~ ~ ~~ Terme di Caracalla, 14 luglio - 6 agosto 2009 TOSCA Opera in tre atti Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica Tratto dal dramma di Victorien Sardou Musica di Giacomo Puccini Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 14.1.1900 Maestro concertatore e Direttore Maestro del Coro Regia Scene Costumi Disegno Luci Paolo Olmi Andrea Giorgi Franco Ripa di Meana Edoardo Sanchi Silvia Aymonino Agostino Angelici Personaggi / Interpreti Floria Tosca (S) Micaela Carosi (14, 16, 21/7, 4, 6/8) Virginia Todisco (15, 17, 22, 30/7) Cavaradossi (T) Fabio Armiliato (14, 16, 21/7, 4, 6/8) Valter Borin (15,17, 22, 30/7) Giorgio Surian (14, 16, 21/7, 4, 6/8) Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30/7) Sagrestano (Bar) Roberto Abbondanza (14, 16, 17, 21, 30/7) Carlo Di Cristoforo (15, 22/7, 4, 6/8) Angelotti (B) Alessandro Svab Spoletta (T) Mario Bolognesi Sciarrone (B) Alessandro Battiato (14, 15, 16, 17, 21/7) Antonio Taschini (22/7, 4/8), Riccardo Coltellacci (30/7, 6/8) Carceriere (B) Angelo Nardinocchi (14, 15, 16, 17, 21, 22, 30/7) Riccardo Coltellacci (4/8) Antonio Taschini (6/8) Pastorello (S) Marta Pacifici Scarpia (Bar) vaso da un anticlericalismo gratuito ed antistorico, al limite del blasfemo quando viene più volte – anche qui gratuitamente - gettato a terra il crocifisso, che diverrà anche l’arma del delitto. C’è poi il finale, così particolare…. «La pazzia di Tosca, immaginata dagli autori del libretto, condivisa e difesa da Puccini fino all’aut aut imposto da Sardou – che proibì di discostarsi in maniera netta dal proprio dramma, pena la negazione dei diritti – è il contributo più interessante dei recenti studi sulla genesi dell’opera. Il ritrovamento della prima versione del finale ed altre testimonianze epistolari sul carattere del terz’atto, che Puccini volle ad ogni costo fulmineo ed affannato (contro l’unanime giudizio) cassando senza pietà lunghe arie del tenore e duetti lirici, dimostra come Puccini fosse affezionato all’idea della progressiva perdita di senno della protagonista. Dunque, Tosca folle, invece che Tosca suicida, mi è Il G iornale dei G randi Eventi sembrata da subito una visione più drammatica e questa Direttore responsabile suggestione guiderà il finale Andrea Marini il quale, all’usuale - quanto Direzione Redazione ed Amministrazione deludente sul palcoscenico salto nel vuoto sostituirà Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma l’immagine dei due corpi dee-mail: [email protected] gli amanti che, dopo la fucilazione di lui, affondano, fiEditore A. M. nalmente uniti, nelle acque Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) catartiche - che tutto lavano e tutto perdonano - del TeveRegistrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore re, il grande secolare testimone muto della Città». Le fotografie sono realizzate in digitale del Teatro dell’Opera. Un titolo, quello di Tosca che debuttò al teatro Costanzi il 14 gennaio del 1900 e che nel 1937 inaugurò la stagione estiva dell’opera, per la prima volta in questo luogo di grande fascino. Nel nuovo allestimento, il regista Franco Ripa di Meana ha immaginato una Tosca segnata dall’acqua, dal fuoco e da un finale inconsueto. «L’idea è nata guardando al dramma originale di Victorien Sardou, nel quale nella seconda scena del terzo atto la casa di Cavaradossi è posta proprio tra le Terme di Caracalla ed il Mausoleo degli Scipioni (che si trova in via di Porta San Sebastiano, n.d.r.), ma anche pensando al luogo dove dovrà andare in scena, con lo sfondo delle rovine del grosso Caldarium, ovvero la parte più calda delle Terme, che è posto proprio dietro al palcoscenico. Li sotto ci sono ancora le grosse con fotocamera Kodak Easyshare V705 And. Mar. CORO DI VOCI BIANCHE DI ROMA DELL'ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA E DEL TEATRO DELL'OPERA diretto da Jose’ Maria Sciutto Altro Maestro del Coro Claudia Morelli ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Nuovo allestimento ~ ~ Prossimi Appuntamenti ~ ~ Stagione estiva - Terme di Caracalla 14 Luglio - 06 Agosto 29 Luglio - 09 Agosto TOSCA di Giacomo Puccini CARMEN di Georges Bizet Stagione 2009 - Teatro Costanzi 02 - 09 Ottobre 29 - 06 Novembre 18 - 31 Dicembre PELLÉAS ET MÉLISANDE di Claude Debussy TANNHÄUSER di Richard Wagner LA TRAVIATA di Giuseppe Verdi Visitate il nostro sito internet www.giornalegrandieventi.it dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale D Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi opo 20 anni di assenza Tosca torna protagonista alle Teme di Caracalla. Tra l’altro, questo titolo pucciniano fu quello che inaugurò nel 1937 la tradizione della Stagione Estiva ospitata in questo maestoso sito archeologico, che mostrava e mostra tutt’ora la spettacolarità e la grandezza della Roma imperiale. Quest’anno nove le recite in cartellone di quest’opera tipicamente romana per i suoi innumerevoli ri- ferimenti e soprattutto per l’ambientazione tra la chiesa di Sant’Andrea della Valle in corso Vittorio, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo, ma anche per l’aver debuttato il 14 gennaio 1900 in quel teatro Costanzi che è oggi il Teatro dell’Opera, iniziando da li un successo che ne ha fatta una delle opere più conosciute e rappresentate al mondo. Questo nuovo allestimento firmato dal regista Franco Ripa di Mea- na e diretto da Paolo Olmi, presenta un finale inconsueto: la cantante Floria Tosca non si getterà, suicida, dai merli di Castel Sant’Angelo, ma scivolerà con l’amante nel Tevere, che come fiume della Città, è elemento centrale e caratteristico della scena. Scena che vede Roma protagonista da una prospettiva particolare, qual è una visione aerea con una immagine realizzata in collaborazione con l’Istituto Geografico Militare. Un finale a sorpresa per Tosca 3 Le Repliche Mercoledì 15 Luglio, ore 21.00 Giovedì 16 Luglio, ore 21.00 Venerdì 17 Luglio, ore 21.00 Martedì 21 Luglio, ore 21.00 Mercoledì 22 Luglio, ore 21.00 Giovedì 30 Luglio, ore 21.00 Martedì 4 Agosto, ore 21.00 Giovedì 6 Agosto, ore 21.00 L’editoriale Addio a Mario Verdone, collaboratore eclettico di Andrea Marini È il pomeriggio del 17 giugno 1800. L’opera inizia senza un’overture mentre l’ex console della repubblica romana ormai caduta, Cesare Angelotti (basso), con l’aiuto della sorella, la Marchesa Attavanti, si rifugia nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui si trova il pittore Mario Cavaradossi (tenore) intento a dipingere una delle cappelle. Colto dalla bellezza della Attavanti egli decide di ritrarla furtivamente. Angelotti e Mario, vecchi amici stanno parlando quando vengono interrotti da Floria Tosca (soprano) la bella cantante amica di Mario. Angelotti è costretto a nascondersi e ad assistere Tosca che fa una scena di gelosia a Mario, per aver riconosciuto nei liniamenti della Maddalena l’ Attavanti. Sopraggiunge il barone Vitellio Scarpia (baritono), capo della polizia, in cerca di Angelotti. Egli persuaso della complicità di Mario (che gli è anche rivale nell’amore per la cantante), cerca di ingelosire Tosca mostrandole un ventaglio con lo stemma della Attavanti trovato vicino ai colori di Cavaradossi e la fa pedinare dal gendarme Spoletta (tenore), dandogli successivo appuntamento a Palazzo Farnese. Scarpia assiste al “Te Deum” di ringraziamento per festeggiare la notizia della presunta vittoria austriaca di Marengo. Il Secondo atto si apre con una tavola imbandita di fronte ad una grande finestra sul cortile di Palazzo Farnese, dove Scarpia consuma un pasto. Cavaradossi è arrestato e subito portato al cospetto del capo della polizia per essere interrogato e quindi sottoposto inutilmente a tortura per conoscere il nascondiglio di Angelotti. Le urla di Cavaradossi portano Tosca a rivelare il rifugio dell’ex console. Giunge il gendarme Sciarrone informando che a Marengo Napoleone non è stato sconfitto ma al contrario ha vinto. Mario, che osteggia Tosca per aver parlato, viene comunque condannato a morte per alto tradimento, ma dopo la condanna grida a Scarpia tutta la sua gioia per la vera vittoria di Marengo. Tosca sulle insistenze di Scarpia decide di concedersi a lui per salvare la vita dell’amato. Scarpia finge di ordinare che i fucili del plotone di esecuzione siano caricati a salve, ma quando cerca di abbracciare Tosca, viene da lei ucciso con un coltello trovato sul tavolo. Terzo atto. L’alba sulla piattaforma di Castel S. Angelo è salutata dallo scampanio delle chiese di Roma. Cavaradossi in attesa di essere giustiziato decide di scrivere a Tosca un’ultima lettera per confermarle il suo amore. Tosca entra nella prigione per avvisare l’amato che la fucilazione sarà una finzione, esortandolo comunque a fingersi colpito. Dopo l’esecuzione Tosca si accorge che Cavaradossi è morto. La donna sfugge ai gendarmi che sono lì per arrestarla avendo scoperto il cadavere di Scarpia e, lacerata dal dolore, si getta dai merli del Castello invocando la giustizia divina al grido: “O Scarpia, avanti a Dio!”. La Trama Con Mario Verdone ho parlato l’ultima volta poco più di un mese prima della sua scomparsa, avvenuta a Roma il 26 giugno scorso, esattamente un mese prima del suo 92 esimo compleanno. Ci sentivamo non spesso ma frequentemente, parlando delle comuni passioni, l’opera e la storia e le tradizioni di Roma. Lo chiamai, dopo averlo visto pochi giorni prima ad una riunione del Gruppo dei Romanisti, per chiedergli se volesse scrivere qualcosa di nuovo per il numero di Pagliacci sulla storia e le tradizioni dei clown, di cui era il massimo esperto. Collaborava al nostro Giornale da diversi anni, sempre con grandissimo entusiasmo, proponendo pezzi curiosi, divertenti e ricchi di significati. Per questo in quella telefonata mi colpì la sua rassegnazione verso la vita, l’improvvisa mancanza di propensione a voler continuare una vita ricchissima di esperienze e successi, di affetti ed interessi. Si lamentava che camminava a fatica e questa cosa l’aveva cominciata a vivere come una limitazione alla propria libertà. Si, perché Mario fu sempre uno spirito libero, precursore dei tempi, eclettico negli interessi, con una comunicativa straordinaria che ne faceva un ragazzo tra i tanti giovani che gli si avvicinavaSegue a pag. 15 Tosca 4 Il Giornale dei Grandi Eventi La storia dell’opera I Un dramma prima rifiutato e poi corteggiato l dramma Tosca, nato dalla penna del francese Victorien Sardou e rappresentato con successo anche grazie alle memorabili interpretazioni di Sarah Bernhardt dal 1887 in molti teatri d’Europa, sollevò l’interesse di Puccini già dal 1889. Tuttavia questi, ancora non famoso, abbandonò l’idea spaventato dal realismo del soggetto e convinto di non ottenere l’assenso dell’autore. Sei anni dopo, l’antico amore fu ravvivato per l’intervento di un altro celebre musicista: l’ormai ottantenne Verdi, il quale a Parigi per la prima francese dell’Otello, venne a conoscenza del soggetto a casa dello stesso Sardou, rimanendone profondamente colpito. L’opera nel frattempo era stata affidata (era il 1894) da Giulio Ricordi al musicista torinese Alberto Franchetti. Il giudizio di Verdi riaccese l’interesse di Puccini, che chiese all’editore Ricordi di trovare il modo di togliere a Franchetti il soggetto, senza sollevare una polemica analoga a quella sorta con Leoncavallo per La Bohème, anche per l’amicizia che lo legava allo stesso Franchetti. Così Ricordi, che aveva fiuto negli affari, con l’aiuto di Illica, cui era stata affidata la stesura del libretto, convinse Franchetti a rinunciare spontaneamente al contratto e nel luglio del 1895 la bella Tosca fu definitivamente di Puccini. Luigi Illica, continuando nel lavoro sul libretto, ridusse a tre i cinque atti del dramma originario. Tra le opere di Sardou, molto in voga ai suoi tempi, solo quella nobilitata dalla partitura pucciniana ha resistito all’implacabile trascorrere del tempo. I lavori del drammaturgo, sebbene apprezzati dal pubblico di allora per la spiccata attualità dei temi (divorzio, la speculazione ecc.) e per l’attenzione ai problemi sociali, risultano però del tutto inattuali oggi. Dai testi di commedie-vaundeville in cui privilegiato è l’intreccio a scapito dei personaggi a quelli storici con forti richiami sociologici, tutte le opere del drammaturgo francese mancano di una vera forza drammatica, spesso ridotta a semplice successione di scene. La sensibilità di Sardou era, dunque, assai diversa da quella descrittiva e lirica di Puccini ed anche di quella del fine lirico Giacosa (nel frattempo entrato al fianco di Illica nella stesura del libretto), che definì la Tosca francese “dramma di grossi fatti emozionali, senza poesia”. Per questi motivi i lavori procedettero a rilento fino al 1898 quando Puccini mise mano concretamente alla composizione. Nell’aprile di quello stesso anno, poco dopo aver iniziato il primo atto, il musi- cista si recò da Sardou per formulare l’accordo sulla pubblicazione del libretto. Il francese ottenne il quindici per cento sui proventi che sarebbero venuti dalla nuova opera (inizialmente aveva richiesto addirittura cinquantamila franchi!) e il musicista ripartì per rinchiudersi per quasi due mesi nella solitudine di Villa Mansi a Monsagrati dove, ospite del marchese Raffaello Mansi, concluse tutto il primo atto e terminò il secondo tra febbraio e luglio 1899. In settembre completò anche il terzo e lo spedì a Ricordi. Questi qualche giorno dopo inviò una lettera a Puccini in cui lo esortava a rimaneggiare completamente il terzo atto, considerato oggi il migliore dell’opera, modificando soprattutto il duetto Tosca-Cavaradossi. Fortunatamente il musicista non si lasciò influenzare e lo mantenne pressoché immutato. Il la- voro proseguì, comunque, a ritmo serrato fino all’inizio delle prove al Teatro Costanzi, scelto in omaggio alla romanità dell’ambientazione. La prima fissata per il 13 gennaio 1900 fu spostata, per una lieve indisposizione del tenore De Marchi, al giorno successivo ed il 14 gennaio del nuovo secolo fu battezzata la più ardente delle eroine pucciniane, segnando una data importante nella storia della lirica. Cl. Ca. Roma protagonista di Tosca I mille riferimenti alla Città Eterna U na delle carte vincenti di Puccini fu sempre quella di evocare atmosfere e colori tipici degli ambienti nei quali ambientava le sue opere. La Roma di Tosca è un mondo completamente diverso dalla Parigi 1830 della Bohème, tuttavia essa è descritta con moltissimi precisi riferimenti, dai particolari più oleografici e paesaggistici, ai puntuali riscontri del momento storico nel quale la vicenda è ambientata. Il territorio di Roma ai primi dell’Ottocento era composto per la maggior parte di orti, vigne e campagne, costellati dalle imponenti vestigia romane. Il popolo viveva un’esistenza priva di prospettive a causa della generale immobilità economica, gravata moralmente dall’eredità di una storia grandiosa definitivamente passata, era sottoposta. «Chi contrista un miscredente si guadagna un’indulgenza», così ridacchia il Sagrestano nel primo atto. Il suo carattere sintetizza alcuni tratti gustosi del popolino romano dell’epoca: infantile, bigotto, superstizioso, malevolo nei confronti dei giacobini e tuttavia innegabilmente simpatico, anche sensuale, nella sua golosa avidità rivolta al fatidico paniere e soprattutto amante delle cerimonie, delle feste, eventi che nella capitale dello Stato Pontificio si svolgevano frequentemente, con apparati liturgici e scenografici ricchissimi, dei quali scrivevano affascinati i memorialisti del primo Ottocento. All’entusiasmo del povero sagrestano, (che verrà presto gelato dall’ingresso di Scarpia), fa riscontro la gioia esplosiva di tutta la cantoria, felice, più che per la notizia della vittoria su Bonaparte, piuttosto per la fiaccolata e per la «nuova cantata con Floria Tosca!» previste per la sera a palazzo Farnese. La figura stessa di Angelotti, «il console della spenta Repubblica romana», e l’incalzante intervento di Sciarrone «Eccellenza quali nuove! Un messaggio di sconfitta!» nel secondo atto, servono a circostan- ziare storicamente quella giornata e mezza del giugno 1800, quando gli austriaci del generale Melas furono sbaragliati a Marengo e costringendo in seguito i borbonici, loro alleati, alla fuga precipitosa da Roma. E ancora, nel primo atto, l’effusione lirica di Tosca durante il duetto con Cavaradossi in Sant’Andrea, è un sognante inno alla notte romana: «Dai boschi e dai roveti, dall’arse erbe, dall’imo dei franti sepolcreti odorosi di timo […]». È suggestivo il contrasto tra la monumentale chiesa barocca inondata di sole e il notturno, fresco e profumato, evocato da Tosca. Tra quelle stesse rovine antiche, coperte di muschi e rampicanti, pascola il gregge guidato dal pastorello che, con il suo stornello in romanesco, apre l’ultimo atto. Roma era all’epoca una specie di grosso centro rurale, attraversato di continuo da greggi di pecore e capre guidati da pastori in ciocie, come testimoniano visivamente le classiciste vedute romane sette-ottocentesche. Il terzo atto è forse il più descrittivo e ricco di particolari: dallo scampanellio del gregge, alle campane che suonano mattutino, al campanone di San Pietro che si sente sullo sfondo e che Puccini volle intonare sulla stessa nota di quello originale, al carceriere assonnato e infreddolito che si fa corrompere immediatamente con un anello, alla procedura accurata e quasi «burocratica» con la quale si svolge l’esecuzione. Una Roma che è più di uno sfondo, è una presenza delicata ma continua che rende estremamente credibili i personaggi principali e la tragica vicenda. An. Ci. Il Giornale dei Grandi Eventi Fabio Armiliato e Valter Borin A Lo sfortunato pittore Cavaradossi d alternarsi nel ruolo di Mario Cavaradossi saranno i tenori Fabio Armiliato (14, 16, 21/7 e 4, 6/8) e Valter Borin (15, 17, 22, 30/7). Fabio Armiliato è uno dei tenori favoriti del pubblico grazie alla sua particolarità vocale ma anche al carisma che sa infonde ai suoi personaggi come Andrea Chènier e Mario Cavaradossi. Nato a Genova, debuttò nel 1984 come Gabriele Adorno nel Simon Boccanegra (Verdi, a Genova) e come Licinio in La Vestale (Spontini, Jesi). Quando nel 1990 partecipò al ciclo Puccini dell’Opera delle Fiandre, il suo nome si consolidò come quello di uno dei più completi interpreti della sua generazione. Nel 1993 debuttò nel Metropolitan Opera House di New York con Il Trovatore (Verdi). Altri importanti debutti sono quelli Fabio Armiliato nel Teatro alla Scala di Milano, Opéra de Paris, Opera di San Francisco, Teatro Real di Madrid (Tosca), Teatro Colón di Buenos Aires (Tosca). Valter Borin è nato a Monza nel 1969 e velocemente intraprende la carriera che lo ha portato a cantare primi ruoli di tenore in importanti Teatri in Italia e all’estero. Alcune delle sue tappe più significative per le opere verdiane sono l’interpretazione di Gabriele Adorno nel Simon Boccanegra ed Ismaele nel Nabucco; e per le opere pucciniane il Rodolfo ne La Bohème, Rinuccio nel Gianni Schicchi, Cavaradossi nella Tosca, Ruggero ne La Rondine e Pinkerton nella Madama Butterfly. Ha cantato nel Requiem di Verdi sotto la direzione di Alberto Veronesi nella sala Verdi del Conservatorio di Milano e al Teatro di Fano. Ha collaborato con grandi registi e direttori d’orchestra. Giorgio Surian e Giovanni Meoni I Scarpia, braccio forte del potere l cinico barone Scarpia avrà la voce dei baritoni Giorgio Surian (14, 16, 21/7 e 4, 6/8) e Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30/7). Giorgio Surian è nato a Fiume dove ha intrapreso i suoi primi studi musicali. Ha debuttato nel 1982 al Teatro alla Scala con Ernani. Di rilievo la sua interpretazione di Guglielmo Tell per l’inaugurazione della Scala (con la direzione di Muti). La brillante carriera lo ha portato nei maggiori teatri del mondo, fra i quali l’Opéra de Paris, il Covent Garden, il Metropolitan di New York, la Staatsoper di Vienna, l’Opéra de Lyon, il Liceu di Barcellona, il Comunale di Firenze e di Bologna, il Massimo di Palermo, l’Arena Verona. Spazia con estrema facilità dal repertorio barocco alle più complesse partiture moderne. Nella stagione 2005/06 interpreta diversi ruoli importanti, come Aida, Mignon, Requiem di Ver- Giorgio Surian Tosca I 5 Micaela Carosi e Virginia Todisco La cantante Floria Tosca l ruolo della cantante Floria Tosca sarà dei soprano Micaela Carosi (14, 16, 21/7 e 4, 6/8) e Virginia Todisco (15, 17, 22, 30/7). Micaela Carosi è una delle più importanti voci di soprano lirico verdiano e pucciniano. Premio della Critica Musicale Abbiati 2006 come migliore Soprano per le interpretazioni nel ruoli protagonistici di Aida (Teatro Regio, Torino) e Madama Butterfly (Teatro Carlo Felice, Genova). Laureata in Lettere Moderne - Storia della musica, é inoltre Diplomata in Canto Lirico con il Massimo dei Voti e la Lode. Ha debuttato a Spoleto nel ruolo di Leonora in Oberto Conte di San Bonifacio di Verdi e nel ruolo di Desdemona nell’Otello di Verdi. Nel 2001, in occasione Micaela Carosi delle celebrazioni del Centenario Verdiano, viene scelta da Franco Zeffirelli per interpretare il ruolo di Aida nel Teatro Verdi di Busseto, con repliche a Milano presso il Teatro Piccolo ed a Roma all’ Argentina. Nel 2002 il suo debutto all’Arena di Verona nel ruolo di Abigaille nel Nabucco. Ha cantato nei lavori verdiani Don Carlo, Requiem, Simon Boccanegra,Ballo in Maschera, Aida,. Debutta inoltre nel 2002 i ruoli pucciniani di Manon Lescaut e Tosca, Madama Butterfly, Il Trittico, Turandot. Ha interpretato Lucrezia Contarini ne I due Foscari al Teatro alla Scala di Milano diretta da R. Muti. per l’Apertura di Stagione a Caracalla dell’Opera di Roma del 2003 è stata Abigaille nel Nabucco diretta da Nelli Santi Nel 2006 è stata Manon Lescaut al Regio di Torino per la celebrazione dei Giochi Olimpici Invernali. Ha interpretato Tosca a Seoul, Art Center ed a Monte-Carlo Salle Garnier diretta da Callegari. Virginia Todisco è nata a Torre del Greco. Studia canto e perfezionamento con il Maestro Nunzio Todisco e si è diplomata in canto presso il Conservatorio di Salerno. Il suo debutto avviene nell’agosto del 1998 nell’opera Don Carlo presso il Teatro Municipale di Rio de Janeiro. Nel 1999 canta Manon Lescaut al Teatro Massimo di Palermo, segue Il Trovatore presso il Teatro Bellini di Catania e nuovamente Manon Lescaut al Teatro Coccia di Novara. Alterna ruoli verdini e pucciniano. Nel 2005 canta Attila e Cavalleria Rusticana presso il Teatro dell’Opera di Roma. Segue nuovamente Attila per lo Zvolen Castle Festival presso il Teatro di Stato in Slovacchia, e Aida alle Terme di Caracalla. Nel 2006 canta Don Carlo al Megaron the Athens Concert Hall ad Atene. Successivamente ancora Don Carlo allo Staatstheater di Wiesbaden. E’ apparsa al Teatro dell’Opera di Roma nella produzione de La Fanciulla del west diretta da Gianluigi Gelmetti nell’aprile 2008. di, Chérubin, Elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, Nabucco e Carmen. La stagione successiva interpreta con grande successo Falstaff, Tosca, Nabucco, Les Contes d’Hoffmann, Macbeth, Die Vögel e Don Pasquale. Recentemente ha cantato in Luisa Miller, Requiem di Verdi, Tosca e Mosè in Egitto. Giovanni Meoni ha inizia la sua carriera col debutto nel 1991 con La Bohème (Marcello) presso il Teatro Flavio Vespasiano di Rieti. Ha calcato i palcoscenici più importanti del mondo, come il Teatro Regio di Torino, il Teatro La Fenice di Venezia, il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Massimo di Palermo; e poi nei teatri di Monaco, Berlino, Stoccarda, Mosca e Baltimora. Nel repertorio verdiano trova la sua naturale collocazione. Pagina a cura di Claudia Moretta – Foto di Corrado M. Falsini 6 Tosca P Con il 3° atto ambientato vicino alle Terme di Caracalla Il Giornale dei Grandi Eventi La vicenda nell’originale dramma di Sardou arlando della Tosca è impossibile non ricordare la trama del dramma di Victorien Sardou - da cui è stata tratta l’opera - che si articola in cinque atti. Ed è interessante sottolineare che il terzo atto si svolge tra le Terme di Caracalla e il Mausoleo degli Scipioni. Atto che Puccini ha eliminato nella versione lirica. La tragedia di Sardou è stata rappresentata per la prima volta il 24 novembre 1887 al Théatre de la Porte-Saint-Martin di Parigi con grande successo, grazie all’interpretazione di Sarah Bernhardt nei panni della protagonista. Puccini trae sì spunto da Sardou, ma riduce da cinque a tre gli atti del melodramma, snellisce di molti particolari la cornice storica ed elimina diversi personaggi secondari, tra cui Giovanni Paisiello. La vicenda pucciniana si concentra così principalmente sul triangolo Scarpia - Tosca - Cavaradossi, L delineandone i caratteri a scapito delle concatenazioni logiche degli avvenimenti. Il dramma dell’amore perseguitato interessa Puccini più del grande affresco storico condito di delitti e di sangue. Sardou, invece, è un maestro nell’intreccio ingegnoso, in cui tutto si incastona alla perfezione e nulla risulta immotivato. Lo sfondo storico e politico è il presupposto indispensabile della tragica vicenda di Tosca e Cavaradossi. Nel settembre del 1799, dopo aver stroncato la Repubblica napoletana, le truppe borboniche entrano nella futura capitale d’Italia, ponendo fine all’effimera esperienza della Repubblica romana, insediatasi in Campidoglio il 15 febbraio 1798. La trama di Sardou Il primo atto della tragedia di Sardou ha luogo nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle ed è simile al primo atto del capolavo- ro pucciniano; il secondo si tiene in uno spettacolare salone di Palazzo Farnese con la regina di Napoli e il compositore Paisiello, mentre il terzo nella villa di Cavaradossi tra le Terme di Caracolla ed il Mausoleo degli Scipioni. In quest’atto Scarpia si reca alla villa del pittore, lo tortura e alla fine costringe Tosca a svelargli il nascondiglio di Angelotti. Il quarto atto, come il secondo di Puccini, è ambientato nella stanza di Scarpia di Palazzo Farnese. Mentre il quinto dalla cella della condanna si sposta al parco - dove l’esecuzione assente nel Victorien Sardou dramma di Sardou - ha già avuto luogo in quello di modificata dai librettisti Illica e Puccini. Giocosa, ma si spara un colpo al Nel finale del dramma di Sarcuore e muore accanto al cadadou, Tosca non si butta dagli vere di colui che era la sua unispalti di Castel Sant’Angelo coca ragione di vita. me nel conclusione pucciniana Fi. Le. Echi storici nella Tosca La battaglia di Marengo del 14 giugno 1800 a vicenda di Tosca si svolge tra il 17 e il 18 giugno 1800. Nel secondo atto dell’opera pucciniana, infatti, voci della folla con gli echi della vittoria napoleonoica nella battaglia di Marengo tra austriaci e francesi di tre giorni prima, giungono dalle finestre nelle sale di Palazzo Farnese, e Scarpia se ne dispera. la speranza di un attacco da parte degli austriaci. Con la caduta di Genova il 4 giugno, Napoleone Bonaparte decise di andare lui incontro a Mélas bilì a Torre Garofoli con poco più di 30.000 uomini, poiché la maggior parte dell'esercito era distaccata in Lombardia e nel Piacentino. Temendo e l'8 giugno si scontrò a Montebello (presso Stradella) con l'armata del generale Ott di ritorno da Genova. Reputando che Mélas lo volesse attaccare aggirandolo dagli Appennini, Napoleone occupò il territorio dello Scrivia e del Bormida ed il 13 giugno si sta- che Mélas gli sfuggisse, Bonaparte inviò in ricognizione altre due divisioni, una verso nord oltre il Po e una verso sud in direzione di Novi. Inaspettatamente il 14 giugno Mélas attaccò con tre colonne da Alessandria, oltrepassando il Bormida ed approfittan- La vicenda storica Intorno alla metà di maggio 1800, il nord Italia era diviso tra austriaci e francesi. Il generale Mélas aveva dislocato la maggior parte delle proprie truppe tra la Liguria e il basso Piemonte, mentre Napoleone si era installato in Lombardia, per favorire gli approvvigionamenti dalle armate del Reno attraverso il passo del San Gottardo e soprattutto per rendere più difficoltose le comunicazione tra Mélas e l'Austria, ma anche con do della dispersione delle truppe francesi su un'area di circa 20 km, arrivò indisturbato da ovest nei pressi Marengo dove si scontrò con la divisione Gardanne, la quale fu costretta ad indietreggiare fin oltre il Fosso del Fontanone (quindi verso est). Con le altre due colonne, il Mélas attaccò da sud e da nord altrettante divisioni francesi che vennero respinte anch'esse verso Marengo. La superiorità numerica degli austriaci mise in crisi le truppe francesi, che iniziavano un ripiegamento disordinato a nord verso Villanova ed a sud verso Cascina Grossa. In questo modo l'armata francese si trovò schierata in uno sbarramento obliquo con asse nord-ovest/sud-est. Napoleone mandò delle staffette a richiamare le divisioni in ricognizione verso Novi e verso il Po, perché si portassero verso Villanova per riequilibrare la situazione. Intanto Mélas volle spedire l'annuncio della vittoria a Vienna, inviando il generale Zach sulla direttrice Tortona-Piacenza. Ma lungo strada questo si scontrò con la divisione francese di Desaix che rientrava da Novi. Nello scontro Desaix venne ucciso ed il comando fu assunto da Boudet. Da questo momento i francesi presero il sopravvento. Gli austriaci, in preda al panico, si ritirano confusamente verso il Bormida. Le truppe austriache rimaste vicino a Marengo resistettero bene, ma non abbastanza per cambiare le sorti della battaglia che si concluse a favore di Bonaparte. Il 15 giugno Mélas ottenne un armistizio a buone condizioni. Fra. Picc. Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi 7 Protagonista al di la dei personaggi L’arte dell’inganno in Tosca «… penso alla Tosca. La scongiuro di far le pratiche necessarie per ottenere il permesso da Sardou, prima di abbandonare l’idea, cosa che mi dorrebbe moltissimo, poiché in questa Tosca vedo l’opera che ci vuole per me…». Scriveva così Puccini il 7 maggio 1889 a Giulio Ricordi. Prima ancora della realizzazione di Manon e di Bohéme, Puccini pensava, dunque, a Tosca. Il dramma di Tosca nato dalla penna di Victorien Sardou e rappresentato con successo anche grazie alle memorabili interpretazioni di Sarah Bernhardt dal 1887 in tutta Europa, aveva affascinato da subito il musi- Franchetti, Mascagni e Puccini cista lucchese quando nel 1889 lo aveva visto al Teatro dei Filodrammatici a Milano: non parlando francese non aveva capito molto del testo, ma era rimasto colpito dalla teatralità della vicenda. Per motivi diversi (non ultimo il difficile rapporto con l’autore francese) Puccini si era però rivolto ad altri argomenti. Da Franchetti a Puccini Sei anni dopo il Lucchese tornò a pensare a Tosca che nel frattempo era stata affidata da Ricordi a Franchetti. Su come il libretto passò dal Barone Franchetti a Puccini esi- stono versioni contrastanti: secondo alcuni studiosi Ricordi convinse il musicista piemontese a rinunciare, secondo altri fu lo stesso compositore, spaventato dalla difficoltà del dramma a cedere spontaneamente i diritti. Comunque si siano svolti i fatti, certo è che nel luglio 1895 il soggetto ed il libretto già elaborati in parte da Illica passarono sotto il controllo del Lucchese. Il lavoro vero e proprio di Puccini iniziò nel 1898 con le consuete discussioni fra musicista e librettisti: a Illica fu, come al solito, affiancato Giacosa che opponeva alla esuberante fantasia del bugia. Si avverte in ognuno il piacere della vendetta. Si pensi all’uccisione di Scarpia: da grande attrice Tosca cura i particolari, la messinscena, dispone le candele, allestisce una sorta di camera mortuaria. A Puccini, Sardou ha regalato una vicenda fosca, notevolmente densa di avvenimenti che rimanda al Verdi del Simon Boccanegra o del Don Carlos. Possibilità espressive straordinarie per un musicista di teatro come il Lucchese, abile a creare melodie fluenti e commoventi (“E lucevan le stelle”, “Recondita armonia” “Vissi d’arte”) autentici cavalli di battaglia collega un maggiore equilibrio e un rigore letterario più spiccato. per intere generazioni di tenori e soprani; ma geniale anche nello strutturare quadri di forte impatto emotivo: basta ricordare la scena della fucilazione che è un autentico capolavoro di teatro. Ecco, proprio la teatralità è una delle qualità maggiori di Tosca. Così come da grande attrice Tosca cura la messinscena del funerale di Scarpia, così vorrebbe rendere spettacolare anche la finta morte dell’amante e non gli risparmia consigli su come porsi davanti al plotone, come cadere, come “fingere”; tanto che allorché i militari sparano e Cavaradossi piomba a terra, lei in uno L’inganno protagonista Tosca rappresenta l’esasperazione della brutalità e l’assunzione dell’inganno a sistema nei rapporti impersonali. Scarpia mente a Tosca ed a Cavaradossi, Tosca a sua volta raggira Scarpia e lo uccide, Cavaradossi crede in una finta fucilazione e cade morto, Tosca si getta da Castel Sant’Angelo. L’utilizzo dell’inganno come meccanismo drammaturgico non costituisce certo una novità, tuttavia non si tratta qui solo di qualche stato di sovreccitazione grida «Ecco un artista». Ma in fatto di teatralità, rimanda ancora a Verdi e in particolare al “Miserere” del Trovatore una delle Sardou con Giacomo Puccini in una cariscene in as- Victorien catura di Sem soluto più periodo sul palcoscenico straordinarie del teatro accade obbiettivamente pucciniano, la conclusiopoco perché prevalgono ne del primo atto. Tosca le espressioni di sentisi è appena congedata da menti e di passioni, non Scarpia che la fa pedinaè questo il caso di Tosca re e si abbandona al suo dove dalla fuga di Angedesiderio erotico. «Va’ lotti dal Castel Sant’AnTosca nel tuo sen si annida gelo è un succedersi di Scarpia», canta e non si eventi: e se l’elemento accorge che alle sue spalstorico rimane nello le si è avviata la processfondo, le azioni implisione del Te Deum. Sacro cano una dinamica nare profano si mescolano rativa incalzante che si con un effetto teatrale asriverbera in un discorso solutamente geniale fino musicale organizzato a che Scarpia non si ravcon estrema genialità, in vede («Tosca mi fai diun continuo alternarsi menticare Iddio!») e si fra squarci lirici di effetunisce al rito religioso. to (le già citate romanze) E’ stata notata la persoe dialoghi serrati, conalità forte, affascinante struiti sulla parola e di Scarpia che è protagoscanditi da un ricco apnista autentico accanto a parato di didascalie in Tosca, tanto che qualcupartitura. no ha suggerito che l’oTosca mostra, inoltre, pera avrebbe potuto una sapiente organizzachiamarsi Scarpia. In efzione armonica e una fetti il temibile capo delmirabile orchestrazione. la polizia non è uno dei Puccini insomma anche tanti cattivi che affollano nella passionalità più la librettistica ottocentemarcata mantiene il tosca. E’ “il” cattivo, colui tale controllo di ogni che tira abilmente le fila componente. E se l’uodi tutta la vicenda, che mo di teatro ha le sue inagisce con crudo realituizioni vincenti, la solismo, assetato da un dedità della mano composiderio erotico e mosso sitiva non viene mai meda un atteggiamento sano, unita al gusto per la dico nei confronti delle ricerca e la sperimentaproprie vittime. Non a zione. Così come avrebcaso l’opera si apre con be fatto in seguito anche una sorta di “tema di in Madama Butterfly ed Scarpia” i tre accordi che in Turandot, si avverte la poi tornano a scandire, volontà di ottenere, con qualche variante la quando necessario, un conclusione del primo e più veritiero colore locadel secondo atto. le. Si pensi a questo proIn Tosca, complice Sarposito al canto dello dou, naturalmente, Pucstornello, all’alba, che cini ha a disposizione un conferisce un sapore rotesto in cui magnificamanesco di particolare mente si combinano moeffetto. menti riflessivi ed azione. Se in altre opere del Roberto Iovino Tosca 8 Il Giornale dei Grandi Eventi Il pittore che disegnò il manifesto, i bozzetti e le scene per la prima della Tosca E’ Adolf Hohenstein, pioniere del manifesto nella storica locandina della Tosca che Adolf Hohenstein tocca la vetta della perfezione grafica e coloristica, grazie alla teatralità di luci e ombre che accentuano il drammatico momento della morte di Scarpia. Ma Hohenstein ha anche elaborato i bozzetti per la prima esecuzione dell’opera pucciniano del 14 gennaio del 1900 al Teatro Costanzi di Roma. Per le scene dei tre atti, l’artista si è ispirato rispettivamente all’altar maggiore di Sant’Andrea della Valle, alla galleria di Palazzo Farnese e alla terrazza di Castel Sant’Angelo con sullo sfondo la cupola di San Pietro. Nel manifesto, Tosca pone, pietosamente, sul petto del barone ucciso un crocifisso. La sua morbidezza sensuale fa toccare con mano la setosità della veste e fa risaltare il brillìo della collana di perle. Ma se da un lato la luce valorizza il suo incarnato, dall’altro la grande ombra scura rende tutta la violenza e la tragicità del gesto. L’enorme macchia rossa che ricorda i velluti, la ricchezza del potere e il sangue sgorgato sparisce proprio nell’ombra. E la scritta Tosca è stata apposta come se fosse un cancello che divide il dramma dagli spettatori. Scarpia è lì immobile, mentre la vera protago- nista occupa la scena con il suo istrionismo. Hohenstein ha donato a Tosca una potenza espressiva ed emozionale unica, puntando sui sentimenti, sull’alternanza dei volumi e dei chiaroscuri. Nel primo atto dell’opera di Puccini Tosca è dura e severa, una matrona della Ro- Manifesto di Hohenstein per i Fratelli Rittatore ma papalina che impugna il bastone da passeggio. Anche nella tavola dei costumi mantiene una rigidità fotografica in contrasto con la fluidità del mantello del terzo atto. Hohenstein appare così un’artista eclettico e poliedrico che entra a pieno titolo nella storia del cartellonismo internazionale. Da San Pietroburgo alla grafica delle grandi opere Nato a San Pietroburgo nel 1854, da genitori tedeschi, si formò artisticamente a Vienna, dove Bozzetto di Hohenstein per il II atto di Tosca realizzò i primi dipinti. La passione per i pennelli assunse un ruolo di primo piano nella sua vita quando si trasferì a Milano nel 1879. Qui iniziò a lavorare come scenografo e costumista al teatro La Scala, con risultati eccellenti ed i contatti con importanti compositori non tardarono ad arrivare. Da Giulio Ricordi gli venne affidato il compito di sovrintendere alla grafica della casa musicale milanese e il suo talento si rivelò immediatamente nelle locandine, nei manifesti e nelle copertine di libretti e spartiti. Ed è in questo contesto che Hohenstein realizzò i suoi celebri manifesti per importanti opere liriche. Non solo quello della Tosca, ma anche: Bohème, Madama Butterfly di Puccini e quelli per il Falstaff di Verdi e l’Iris di Mascagni. Il manifesto della Bohème è il primo esempio in Italia di cartellone operistico, ricco di colori. Il manifesto per Madama Butterfly è caratterizzato dall’esplosiva gestualità del braccio della protagonista proteso verso il bimbo bendato. Il liberty, invece, entrò nella sua opera solo come elemento di decoro. Questo traspare nel manifesto dell’Iris, in cui spicca la sinuosa leggiadria della figura femminile e l’eleganza delle forme floreali. Il pioniere del manifesto amò personalizzare anche il più anonimo dei figurini: fra i più di sessanta costumi disegnati nel 1896 per La Bohème, ritrasse lo stesso Puccini con i due librettisti Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, fra le comparse nelle vesti di un borghese, di uno studente e di un venditore. Nel 1906 vinse il concorso per il simbolo grafico e la cartolina bandito dall’Esposi- Bozzetto di Hohenstein per il I atto di Tosca zione per il Traforo del Sempione e si trasferì prima a Düsseldorf e, nel 1918, a Bonn. Ma Hohenstein lasciò l’Italia con rancore e perciò non dimenticò chi gli aveva permesso di trascorrere quasi vent’anni della sua vita nel cuore di una Milano ricca di fermenti, condividendo i palpiti e le novità dell’avanguardia grafica e musicale. Giulio Ricordi, in- Manifesto di Hohenstein per Bitter Campari fatti, non era solo uno dei più importanti editori musicali nell’Europa di fine Ottocento, ma era anche una persona attenta alle nuove tecnologie. E, in un giorno d’inverno del 1905, Hohenstein chiese a un fotografo di ritrarlo nel suo nuovo studio di Bonn tappezzato di quadri e manifesti. Su quelle pareti si poteva leggere la sua vita di artista versatile; fra quadri di paesaggi e ritratti ad acquerello ed a olio, si scorgono i volti di due donne che salutano da una nave. E’ il cartello pubblicitario della Nave Princess Elisabeth, stampato a Bruxelles da Goffart. Prima di spedire la foto, Hohenstein scrisse una dedica, con la scrittura chiara e morbida con cui per anni sul verso delle tavole di figurini aveva indicato le note del vestiario per le sartorie teatrali: «Al suo indimenticabile Signor Giulio con affetto…». Il 1928 fu l’anno della sua morte. E mentre i suoi quadri sono andati per la maggior parte perduti o se ne è persa traccia, i manifesti, nati per un’apparizione fugace, sono giunti sino a noi. Questo testimonia un gusto, un’inventiva, un’intera epoca. Ma non solo, anche la creatività di un’artista che ha fatto la storia del cartellone in Italia, malgrado per il grande pubblico sia più famoso il suo allievo Metlicovitz (1868-1944). Ma tutto si può dire tranne che Hohenstein sia una celebrità solo per gli intenditori del settore. Il suo biglietto da visita apre anche la memoria dei più giovani. Chi non conosce il manifesto pubblicitario di due uomini seduti al tavolino mentre bevono il Bitter Campari? Oppure il frate con il cane San Bernardo del Cordial o ancora il cartellone del vermut Fratelli Rittatore? Fi. Le. Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi L 9 Piccola guida per capire il monumento La maestosa perfezione delle Terme di Caracalla o spettatore che alza gli occhi dal palco verso la straordinaria quinta antica, è immediatamente colpito da due enormi pilastri dalle pareti curve, che sono le vestigia del caldarium, il cuore delle Terme di Caracalla. Ciò che si vede da questa prospettiva è il retro delle Terme, mentre la facciata principale guarda verso Viale delle Terme di Caracalla. Il caldarium, la parte più calda delle terme, era una grande sala circolare del diametro di 36 metri, coperta da una cupola sostenuta da otto pilastri (due di essi sono quelli visibili) era riscaldato da una serie di enormi fornaci che esistono ancora nel sottosuolo ed illuminato da ampie finestre. Essen- G do rivolto a Sud-Ovest, riceveva luce e calore dall’esterno per tutto il giorno. Al centro della sala c’era una grande vasca circolare con acqua calda. Sei vasche più piccole erano inserite tra i piloni. Da questa sala si accedeva al tepidarium, l’ambiente retrostante, più piccolo, con due vasche ed un’atmosfera temperata. Quindi, ci si trasferiva nel cosiddetto frigidarium, una enorme sala a pianta basilicale, coperta da tre volte a crociera e pavimentata con lastroni di marmo colorato (opus sectile), che costituiva il cuore di tutto l’e- dificio. Infine, parallela al lungo ed alto muro della facciata che guarda alla strada, era disposta la natatio, la grande piscina scoperta (m. 50x22) caratterizzata da un magnifico prospetto architettonico, ricco di marmi policromi con nicchie disposte su due piani occupate da statue. A sinistra ed a destra di questi ambienti, erano di- sposti altri locali, tutti comunicanti tra loro, fra cui le due grandi palestre ubicate lungo i lati corti del complesso, circondate da portici e pavimentate a mosaico; i laconica, ossia i bagni turchi, disposti a sinistra ed a destra del caldarium e distinguibili dai vani d’ingresso obliqui per limitare la dispersione di calore, e gli apodyteria, ovvero gli spogliatoi. In realtà, era a quest’ultimi ambienti che i clienti dello stabilimento accedevano tramite i vestibula, prima di recarsi nel caldarium. Una alternativa era quella di recarsi nella grande piscina scoperta, senza passare dai bagni. Tutto il complesso era circondato da un recinto, la cui parete è ancora ben visibile sulla destra nel percorso dalla biglietteria verso l’attuale spazio teatrale. Sul lato posteriore, alle spalle di questa platea estiva, si apre una struttura munita di gradinate, forse uno stadio od una cascata d’acqua, fiancheggiata dalle due biblioteche (fino ad oggi si è conservata solo quella di destra, vicino alla scalinata che saliva all’Aventino. Vasti giardini occupavano lo spazio tra lo stabilimento termale ed il recinto. Proprio in questi giardini sono ora collocati palcoscenico e platea. Elena Cagiano de Azevedo Divenute nel XV e XVI secolo una miniera inesauribile I mille capolavori ritrovati in queste Terme to interesse per le Terme fu quello degli scavi di Paolo III Farnese per la costruzione del suo nuovo palazzo. Nel 15451547 grandi statue e gruppi colossali furono rinvenuti all’”Antoniana”: e grande sensazione provocò il ritrovamento, nella palestra orientale, del Toro Farnese, il famoso gruppo colossale ricavato da un unico blocco di marmo, nel quale è rappresentato il supplizio di Dirce legata al toro da Anfione e Zeto per vendicare i torti da lei arrecati alla madre Antiope, che assiste alla scena. Date le proporzioni colossali, il gruppo venne collocato nel cortile di Palazzo Farnese che affacciava su via Giulia e Sopra: Il Toro Farnese. A destra: L’Ercole Farnese. non è chiaro ià nel XII secolo le Terme furono cava di materiali per la decorazione di chiese e palazzi: tre capitelli con le aquile e i fulmini, simboli di Zeus, provenienti dalla palestra orientale, furono riadattati nel Duomo di Pisa. La stessa sorte subirono otto capitelli con Iside, Serapide e Arpocrate provenienti dalle biblioteche e riutilizzati nella Chiesa di S. Maria in Trastevere. Un momento di rinnova- se subì interventi di adattamento e di trasformazione, forse in fontana. Era talmente famoso che persino il re di Francia Luigi XIV tentò di acquistarlo e trasportarlo a Parigi; comunque il suo destino non era quello di rimanere a Roma, perché nel 1786 fu trasportato a Napoli, insieme a gran parte della collezione Farnese, dote dell’ultima erede della famiglia, Elisabetta, andata in sposa al re di Spagna. Prima esposto nella Villa Reale di Chiaia, il Toro fu poi trasferito nel 1826 nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove è tuttora conservato insieme agli altri capolavori provenienti dalle stesse Terme. Fra questi, da ricordare il celebre e colossale Ercole in riposo, proveniente dal frigidarium, firmato sul basamento da Glykon, uno scultore ateniese attivo all’inizio del III secolo d.C., la cui fama è dimostrata dalla diffusione di copie di ogni dimensione, da quella di circa tre metri ritrovata alle Terme, fino a terrecotte di poche centimetri. Un altro Ercole di grandi dimensioni fu trovato nel frigidarium delle Terme di Caracalla , il cosidetto “Ercole Latino”, dato per scomparso e poi riconosciuto nella grande statua conservata nella Reggia di Caserta. Ercole era molto amato dalla famiglia dei Severi e spesso presente nelle raffigurazioni delle Terme: in uno dei più famosi capitelli figurati dell’antichità, sempre proveniente dal frigidarium, infatti, il semidio è rappresentato in posizione di riposo appoggiato sulla clava. In tempi diversi furono recuperati altri gruppi famosi, come quello di Atreo con Tieste, statue di Minerva, Venere, busti di personaggi della famiglia imperiale e numerosi frammenti architettonici, fra cui le vasche ora nel cortile del Belvedere in Vaticano e le due splendide di granito grigio, provenienti anch’esse dal frigidarium e riutilizzate dal Rainaldi come fontane in Piazza Farnese. Sempre di granito era la colonna proveniente dalla natatio portata a Firenze nel 1563, dove da Cosimo I de’ Medici fu eretta in Piazza S. Trinità, piazza che ancora la ospita. Marina Piranomonte Tosca 10 G Il Giornale dei Grandi Eventi Al Teatro Costanzi il 14 gennaio 1900 La prima: esordio tra polemiche e tensioni ià nel 1889 Puccini desiderava fortemente scrivere un’opera basata sul testo teatrale di Sardou Tosca, forte nei sentimenti e conciso nella trama. Amore, sadismo, religione e arte, mescolati dalla mano di un cuoco abile quale è Puccini, vengono serviti su un piatto di un importante periodo e scenario storico. Il cast della “prima” era composto da artisti di primo piano quali Hariclea Darclèe, soprano proveniente da Bucarest, scelta più per la sua eccezionale bellezza e il suo grande talento scenico che per le sue doti vocali. Sembra che sia da attribuire alla Darclée l’invenzione del Hariclea Darclée, prima interprete di Floria Tosca vestito e degli accessori da allora divenuti caratteristici di Tosca: il frusciante vestito di seta, il grande cappello piumato, il lungo bastone ed il bouquet. Gli altri due protagonisti erano Emilio de Marchi, tenore ed Eugenio Giraldoni, Baritono. La direzione d’orchestra era affidata a Mugnone su cui Puccini riponeva un’insolita fiducia: “Mugnone ci metterà tutta la sua grande anima d’artista nel concertare e dirigere; e tutti i bravi esecutori faranno mirabilia e daranno tutto”. L’azione di Tosca si svolge a Roma e nel 1900 Ricordi decise di rappresentarla a Roma per lusingare il campanilismo dei romani. Mossa poco astuta che non valutò l’antagonismo esistente tra Roma e l’Italia del Nord e la difficile situazione politica. Infatti, dopo la sfortunata guerra contro l’Abissinia, il Paese era irrequieto e scontento e a causa soprattutto della condizione economica era lacerato da violente lotte politiche. C’erano stati due tentativi di attentato alla vita del Re e la Regina aveva comunicato che sarebbe stata presente alla prima di Tosca. Tutti fattori che contribuirono a creare un cli- ma di grande tensione la sera della Prima. A complicare la situazione, già di per sé tesa, si aggiunse Tito Ricordi, responsabile dell’allestimento. Ricordi portò con sé lo scenografo della Scala, Hohenstein, fatto che suscitò il risentimento dei romani. Si diceva che i rivali di Puccini avrebbero fischiato alla prima, indipendentemente dall’esito della rappresentazione. Sembrava di essere seduti su un barile di polvere. Il che è doppiamente buffo se si ricorda che pochi minuti prima di andare in scena un funzionario di pubblica sicurezza informò Mugnone che durante la rappresentazione ci sarebbe potuto essere il rischio di un attentato Se ciò fosse accaduto, il direttore avrebbe dovuto attaccare con la Marcia Reale. Una serata davvero eccezionale e resa solenne dall’arrivo all’inizio del II atto della Regina Margherita, fermata a corte da un pranzo, con “una leggiadra toilette bianca a trine”. Al suo seguito il presidente del Consiglio, Pelloux; il Ministro della Pubblica Istruzione Baccelli ed il sottosegretario alle poste e telegrafi, Edmondo De Amicis. C’era il sindaco di Roma, principe Colonna e molti tra i più importanti compositori dell’epoca tra i quali Mascagni, Sgambati, Cilea, Marchetti e Spinelli. Tutte personalità che avrebbero giustificato l’ipotesi di un attentato. E forse l’attentato ci fu, ma fu solo un attentato al buon esito della rappresentazione. Un brusio proveniente da un folto gruppo di persone che non riusciva a trovare posto si diffuse per la sala con lo spettacolo già iniziato. Dal loggione qualcuno gridò: “Basta, Giù il sipario”. I tecnici lo presero come un ordine ed il sipario calò. Si dovettero aspettare alcuni minuti per riprendere da capo l’esecuzione. Sul momento il successo non fu così evidente e gli applausi non abbondarono e neanche i bis: “Recondita armonia”, “Vissi d’arte” e “l’Introduzione”. Il vero successo si potè capire solo attraverso le sedici repliche. Il giudizio complessivo della stampa fu negativo anche se le recensioni romane, paragonate a quelle torinesi della Bohème non furono poi così cattive. In realtà molte critiche furono rivolte più al libretto che a Puccini, tanto che il “Corriere d’Italia” nella prima pagina si congra- Eugenio Giraldoni come Scarpia, alla prima dell’epoca tulava con l’autore “pur lamentando che egli si sia cimentato in un tentativo la cui inanità non gli doveva sfuggire”. Puccini pensava di aver fallito! Aveva fallito nell’opera che aveva tanto desiderato scrivere: “poiché in questa Tosca vedo l’opera che ci vuole per me, né di proporzioni eccessive, né come spettacolo decorativo, né tale da dar luogo alla solita sovrabbondanza musicale”. Ma in realtà non fu un fallimento e gli applausi arrivarono, soprattutto, nel finale (interamente ripetuto)e durante il Te Deum il pubblicò si alzò in piedi acclamando a gran voce Giacomo Puccini che si presentò al proscenio. M. V. M. Quando Puccini rischiò l’arresto per ascoltare le campane di Roma Q uanti equivoci e quante tensioni il povero Puccini ha dovuto subire per riuscire a completare Tosca! Le minacce di bombe, attentati alla Regina, fischi e giudizi negativi della stampa alla prima rappresentazione. Ma addirittura l’arresto, rischiare di essere portato in prigione con Mugnone fa davvero sorridere e forse contribuisce a creare quell’alone di mistero, un romanzo sulla storia e forse quel fascino che contraddistingue Tosca a distanza di un secolo. Siamo nella primavera del 1889 ed alla polizia, giunge la voce che al Pincio, in piena notte, si aggira un individuo pericoloso e sospetto, senza alcun dubbio un attentatore o un terrorista. Il sospetto non è solo, ma per tramare i suoi atti vandalici e terroristici passeggia con il suo complice facendo degli strani segni, sicuramente legati al complotto. In questura il panico e la preoccupazione dilagano e considerando il delicato periodo politico che l’Italia sta attraversando si pensa bene di intervenire e di bloccare la sommossa sul nascere. Ad aggravare la situazione, “il suddito fedele e timoroso” che ha rivelato la notizia alle autorità, aggiunge che il Pincio normalmente è chiuso da ampi cancelli e che solo dei malintenzionati avrebbero potuto eludere il sistema di sicu- rezza. L’ordine fu perentorio. Il questore Felsani dispone l’arreso dei due sospetti. È l’alba, il buio ha ormai lasciato il posto alle prime luci del giorno che è salutato dal suono delle campane di Roma e Puccini insieme a Mugnone passeggia al Pincio cercando di riprodurre in note il suono delle campane. Ma ecco che all’ improvviso viene fermato da tre agenti armati, pronti a portare a termine la loro missione. “Fermi, sono un delegato di pubblica sicurezza. Chi siete? Che fate qui a quest’ora? Come siete entrati?”. Puccini e Mugnone, inizialmente stupiti e spaventati scoppiano a ridere capendo l’equivoco sorto e cominciano a spiegare la loro identità e la loro estraneità da qualsiasi atto terroristico. Spiegano inoltre di aver ricevuto le chiavi del cancello qualche giorno prima e che possiedono anche un regolare permesso del Municipio per sostare di notte al Pincio. Il mistero è svelato, l’equivoco è chiarito e Puccini viene ricoperto e travolto dalle scuse degli agenti che si sono nel frattempo resi conto di aver offeso un personaggio di chiara fama. Alla prima di Tosca sono presenti anche i tre agenti di polizia che all’inizio del terzo atto possono sentire il suono delle campane riprodotto da Puccini identico a quello che avevano udito poche mattine prima al Pincio. L. D. D. Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi 11 L’opera pucciniana ed i suoi “disastri” L’indimenticabile suicidio del plotone di esecuzione P oliteama Genovese, ottobre 1901. A grande richiesta viene ripresentata Tosca che, pochi mesi prima, al suo debutto cittadino, aveva letteralmente entusiasmato il pubblico. Al momento della fucilazione, i soldati sbagliano i tempi e sparano in anticipo sicchè Cavaradossi deve stramazzare a terra per conto proprio. Il povero tenore non aveva avuto, nell’occasione, la presenza di spirito di un collega attore che, trovandosi nella medesima, imbarazzante situazione, se l’era cavata egregiamente gridando mentre cadeva: “Muoio avvelenato”. La “falsa” fucilazione di Cavaradossi è uno dei tanti incidenti che contrassegnano la storia dell’opera pucciniana. Uno dei titoli in assoluto più popolari se si considera che fra il 1967 e il 1992 è risultato al terzo posto nella graduatoria delle opere maggiormente rappresentate negli Enti lirici italiani, dopo Aida e Madama Butterfly. Titolo, tuttavia, tra i più “sfortunati” per la serie infinita di incidenti, solitamente comici, che hanno accompagnato numerosi allestimenti in ogni parte del globo. “Colpi di scena” spesso determinati da qualche burlone. Così se un corpulento soprano tedesco difficilmente potrà dimenticare il tiro giocatole da un tecnico che nella scena conclusiva di Salomè sostituì la testa mozza di Giovanni Battista con una pila di sandwich al prosciutto, non avrà certamente dormito per intere notti, il giovane soprano americano che nel 1960 vestì i panni di Tosca al City Center di New York. Era l’epilogo dell’opera: Cavaradossi esanime, lei rioso per liberarsi. Inoltre alla fine del secondo atto, rentrando dietro le quinte, la Verrett cadde, fortunatamente senza conseguenze, e dovette ricorrere alle cure del medico. Di cure ben più serie ebbe bisogno nel luglio del 1995 il tenore Fabio Armiliato, Cavaradossi allo Sferisterio di Macerata. I fucili del plotone di esecuzione funzionarono sin troppo bene tanto che davanti ad una sorpresa Tosca-Kabaiwanska, il cantante genovese fu effettivamente colpito (per fortuna in maniera lieve) ad un piede da uno stoppaccio (il batuffolo di stoppa con cui si fermano gli elementi di carica nei fucili a bacchetta). Armiliato finì in ospedale, la moglie, in platea si sentì male e anche l’addetto ai Manifesto liberty per la Tosca di Puccini fucili pare abbia avuto Verrett chiamata a Genoun comprensibile malova nel maggio 1988 a sore. Per Armiliato, tuttastituire all’ultimo movia, non era finita. Ripremento Raina Kabaiwansentatosi in scena alla seska costretta ad un temconda recita, l’artista, poraneo forfait per gravi forse ancora provato dalproblemi familiari. la precedente disavvenLa grande artista di tura, cadde in scena colore arrivò direttainfortunandosi a una mente dagli Stati Uniti gamba. poche ore prima del deDi una caduta fu vittibutto. Provò al pianoforma al Colon di Buenos te con il direttore Oren, Aires, intorno agli anni passò rapidamente in Cinquanta anche Maria sartoria e andò in scena. Jeritza. Inciampò proForse il vestito non era prio davanti a Scarpia al della misura adatta, formomento di intonare se gli scalini in scena «Vissi d’arte». Non c’era avevano qualche aspeil tempo di rialzarsi e, da rità di troppo: fatto sta grande artista, cantò la che per ben due volte l’acelebre pagina riversa bito si impigliò ad un sul pavimento. Purtropgradino tanto da costrinpo si trovava in una segere la cantante a strapzione del palcoscenico parlo con un gesto impesui bastioni pronta a gettarsi nel vuoto invano inseguita da Spoletta. Un salto, come da copione, per sparire alla vista degli spettatori. Il tappeto posto per attutire la caduta era stato, però, sostituito da un telone elastico. Risultato: la povera cantante rimbalzò una decina di volte, prima di essere definitivamente “placata” dai tecnici. Non allo scherzo di un macchinista ma alla fretta si devono, invece, le disavventure di Shilery non illuminata e i tecnici vagarono invano con i riflettori per tutto il brano prima di riuscire a inquadrare la cantante. Oggi, in epoca di computer, le luci non sono più puntate a mano, ma in molti teatri tutto è scrupolosamente affidato alla memoria di un cervellone. Se qualche dato viene immesso in maniera errata, può accadere il finimondo. A San Diego alla fine degli anni Cinquanta un computer regolava persino lo spegnimento delle candele intorno a Scarpia. Ma Tosca non andava d’accordo con l’elettronica. E così quando lei soffiava sulla candela di destra, si spegneva quella di sinistra fra le risate del pubblico. Il computer, del resto, ha creato qualche problema anche recentemente al Carlo Felice di Genova. Nell’ultima Tosca del ‘99, all’apertura del terzo atto, la struttura scenica che doveva fare da cornice e da fondale a Castel Sant’Angelo è rimasta bloccata e l’imponente costruzione romana è parsa alquanto spaesata fra quinte assolutamente neutre e ben poco paesaggistiche. A generare incidenti, tuttavia, è quasi sempre l’elemento umano. Nel suo libro “Disastri all’opera”, Vickers ha ambientato quest’ultimo episodio a San Francisco nel 1961. Il plotone di esecuzione era composto da studenti universitari arruolati in tutta fretta, pieni d’entusiasmo, ma assolutamente ignari della trama dell’opera. Preso dal turbinio delle prove con i protagonisti, il regista potè dedicare al plotone solo cinque minuti prima dell’inizio dello spettacolo. Le istruzioni furono precise: “Quando il direttore di scena vi fa segno entrate marciando lentamente, aspettate che l’ufficiale abbassi la spada e poi sparate”. “E come ce ne andiamo? ” chiesero gli studenti. “Uscite con i protagonisti” gli fu risposto. Il primo choc gli improvvisati soldati lo provarono quando, entrando sul palcoscenico si trovarono di fronte due persone e non una. Chi fucilare, dunque, la donna o l’uomo? Optarono per la donna ricordando il titolo dell’opera. E rimasero alquanto stupiti quando si accorsero che la donna rimaneva in piedi e l’uomo, pur risparmiato dal loro tiro incrociato, cadeva esanime. Possiamo anche immaginare lo stupore del direttore d’orchestra sul podio e del regista, impotente, dietro le quinte. Ma non era finita. Occorreva uscire. Stava accadendo il finimondo. L’orchestra si gonfiava, Spoletta entrava in scena seguito dai suoi, Tosca correva rapida su per i bastioni. Non c’era tempo per riflettere. E così, mentre il sipario calava, il pubblico vide un intero plotone d’esecuzione gettarsi giù dalle mura in uno spettacolare e indimenticabile suicidio di massa... Roberto Iovino Tosca 12 L Il Giornale dei Grandi Eventi L'ambientazione del I Atto: Sant'Andrea della Valle Un vero passaggio segreto per iniziare la Tosca a successione degli eventi drammatici di Tosca si identifica con tre dei monumenti più famosi di Roma: la seicentesca Chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo, prescelti da Victorien Sardou (e poi confermati da Illica e Giacosa) come luoghi emblematici del potere religioso e politico della Chiesa-Stato tra fine ‘700 e inizi ‘800. Sant’Andrea della Valle possiede, inoltre - con la cupola di Carlo Maderno, la più alta a Roma dopo San Pietro -, un’imponenza volumetrica straordinaria e dista soltanto poche centinaia di metri da Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo: era, pertanto, il luogo perfetto per comparire in una vicenda drammatica, scandita da un ritmo cronologico serrato e veloce, adeguato al pathos espresso. Del resto, fin dalla lettura dei diari romani del ‘600, per finire con le annotazioni sette-ottocentesche del Chracas, sappiamo che a Sant’Andrea della Valle si celebravano, in circostanze particolarmente importanti, solenni e sfarzosi Te Deum, alla presenza di Cardinali e aristocratici, oltre che di “vario popolo”. Dunque, nel libretto per un Te Deum solenne, quale circostanza più importante della notizia di una presunta vittoria austriaca a Marengo su Napoleone, il nemico per eccellenza del pontefice romano? A Sant’Andrea, poi, esistevano le memorie di diverse famiglie fiorentine o di ascendenza toscana (i Rucellai, i Barberini, gli Strozzi); era anzi, storicamente, dopo San Giovanni dei Fiorentini, una chiesa tradizionalmente curata dai Perché Sant’Andrea in Tosca? Da sempre, la critica letteraria e musicale ha cercato di motivare le ragioni dell’invenzione dentro la Chiesa di Sant’Andrea della Valle della Cappella Attavanti, dove trova rifugio Cesare Angelotti, aiutato da Mario Cavaradossi (intento a dipingere una Maddalena con l’effigie della marchesa Attavanti, sorella di Cesare, causa primaria dell’insorgere funesto della gelosia di Tosca). Gli Attavanti appartenevano a un illustre casato fiorentino, giunto a Roma alla fine del ‘400 ma già estinto nel ‘700. Tuttavia, non avevano mai avuto alcun giuspatronato nelle cappelle di Sant’Andrea della Valle ed avevano le sepolture a Santa Maria in Ara Coeli e a Sant’Agostino. Probabilmente Sardou aveva individuato la Cappella Attavanti nella vicina Chiesa di Sant’Agostino, ma preferì spostarne la collocazione nella più imponente Sant’Andrea della Valle per attribuire un “teatro” eccezionale ad un’eccezionale primadonna, quale è la protagonista Floria Tosca. La Cappella Barberini rappresentanti delle massime dinastie toscane presenti a Roma. A questo punto, l’inserto “romanzato” di una cappella dei fiorentini Attavanti risultava una licenza poetica assolutamente verosimile. E, per una simmetria storica ricercata da Puccini stesso, si deve a un religioso toscano, don Pietro Panichelli, amico del musicista lucchese, l’invio di stampe con i costumi delle guardie svizzere e di diverse notizie, utili per l’organizzazione della processione del I atto, nonché la fornitura del tema musicale del Te Deum in uso nelle chiese romane. Quello che si ricercava, sia nel dramma di Sardou che nell’opera di Puccini, era quindi la verosimiglianza storica non la verità storica. In tale prospettiva, risulta assolutamente lecita la sovrapposizione del nome Attavanti a quello Barberini dell’omonima cappella di Sant’Andrea della Valle, tanto più che si trattava di un casato estinto, a cui si poteva attribuire, senza tema di smentita, un esponente rivoluzionario, addirittura console della repubblica romana. La Cappella Barberini Nel sontuoso contesto artistico, si segnala, immediatamente, all’attenzione di qualsiasi visitatore la magnificenza della prima cappella a sinistra: la Cappella Barberini. Voluta dal protonotario apostolico monsignor Francesco Barberini che, nel testamento redatto nel 1600, aveva espresso il desiderio di sepoltura per sé e per i propri familiari nella chiesa dei teatini di Sant’Andrea della Valle, la cappella era stata concessa quattro anni più tardi al nipote, il potente cardinale Maffeo Barberini (futuro papa Urbano VIII), con l’obbligo, fra l’altro, di usare per le decorazioni interne “belli marmi mischi”, simili a quelli, preziosissimi, della vicina Cappella Rucellai. La profusione dei marmi è straordinaria per il valore delle pietre usate e per l’attento studio degli effetti cromatici. Fra tutti spiccano gli eccezionali lapislazzuli, le ametiste, gli alabastri, il verde antico, il marmo pario (usato nei capitelli corinzi delle colonne). Architetto della cappella è stato Matteo da Castello (autore anche della Cappella Rucellai), con l’aiuto di Francesco Rossi che, fin dal 1603, s’impegnò con Maffeo Barberini per il reperimento dei materiali lapidei presso le cave di Trento e Verona. I documenti di archivio ricordano, inoltre, l’ingaggio degli eccellenti scalpellini Bartolomeo Bassi e Domenico Mar- La Chiesa di S. Andrea della Valle chesi e il costo dei no, rispettivamente, di Crilavori, circa 5800 scudi. La stoforo Stati, Pietro Bernicappella era quasi del tutto ni, Ambrogio Bonvicino e completata nel 1616, quanFrancesco Mochi. Per il do, nel giorno dell’Immabreve corridoio che collega colata Concezione, fu inaula Cappella Barberini a gurata e dedicata alla Verquella Rucellai, Gian Logine Assunta. renzo Bernini eseguì i busti La cappella (a pianta retdei genitori di Maffeo e tangolare con due corte Carlo: Antonio Barberini e braccia laterali) è sormonCamilla Barbadori, poi ritata da una cupola elittica. mossi e sostituiti da due A sinistra, un arco introdumedaglioni in porfido, con ce nella cappellina dedicai profili dei defunti, eseguita a San Sebastiano: un picti da Tommaso Fedeli negli colo vano al cui interno si anni 1626-1627. trovano due sculture raffiNella Cappella Barberini, il guranti Monsignor Francepiccolo arco che apre la pasco Barberini seduto sulla rete sinistra introduce nella tomba (post 1613) di Cricappellina di San Sebastiastoforo Stati e Carlo Barbeno e cela un segreto: attrarini (1675) di Giuseppe verso una scala a chioccioGiorgetti e un dipinto del la era possibile l’accesso Passignano raffigurante S. (murato nel 1612 per ragioSebastiano ritrovato nella ni di sicurezza) ai resti delcloaca Massima (1613). Per l’antica chiesetta di San Sel’esecuzione dei dipinti che bastiano, costruita a ricorcelebrano il dogma della do del ritrovamento nella Verginità della Madonna Cloaca Massima sottostan(Nascita della Vergine, Ante del corpo del famoso nunciazione, Visitazione, martire da parte della maPurificazione della Vergitrona romana Lucina. Di ne) e – nella cupola – le sue tale “mistero” restava anVirtù (la Fede, l’Umiltà, la cora vivissima memoria Carità e la Verginità), nonnei documenti ottocenteché l’Assunzione schi di Sant’Andrea della (1613/1615, pala dell’altaValle. Inoltre, lo spazio lire), Maffeo Barberini scelse mitatissimo della cappelliil pittore toscano Domenina rende difficile l’accesso co Cresti detto il Passignaanche ad una sola persona, no. Il programma iconorendendola praticamente grafico era stato approntainvisibile. Un nascondiglio to dal padre gesuita Sfetoideale per un fuggiasco. nio, famoso professore di Chissà che non sia stata retorica e drammaturgo proprio questa intrigante del Collegio Romano, presparticolarità dell’articolaso cui Maffeo e Carlo Barzione architettonica ad esberini avevano studiato. sere notata da Sardou per il Nella zona centrale della nascondiglio di Angelotti? cappella, addossate alle pareti, le sculture con S. Giovanni Evangelista, S. Giovanni Battista, S. Maria Maddalena e S. Marta so- Alba Costamagna Soprintendenza Beni Artistici di Roma Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi D 13 L'ambientazione del 2° atto: Palazzo Farnese Il lussuoso scenario di una vendetta urante la costruzione il colossale maniero sembrò il simbolo dell’eccesso e dello spreco. Rimase famosa una burla : era stata messa sotto la statua “parlante” del Pasquino una cassetta per raccogliere elemosine da destinare ironicamente al palazzone, come se i soldi non bastassero mai! E realmente la fabbrica progettata da Antonio da Sangallo , fin dai primi anni del Cinquecento, crebbe a dismisura in corso d’opera, mentre anche la piazza antistante prendeva la forma di gigantesco atrio che tutt’ora conserva. Morto il Sangallo poco prima della metà del secolo, arrivò l’incarico a Michelangelo Buonarroti per il famoso cornicione, che spicca con una incombenza straordinaria, e per certi lavori interni . Ma l’edificazione durerà ancora a lungo fino a che compare un altro sommo architetto di quei tempi, il Vignola, che mette a punto la facciata posteriore e “chiude” letteralmente la storia. Finalmente il palazzo assume quell’aspetto di fortezza dentro la città che ne farà un modello destinato a durare per secoli . E lo si nota oggi più che mai, dopo il restauro della facciata sulla Piazza Farnese da cui è emerso un paramento stranissimo e inatteso con quegli strani disegni sulla muratura, quasi dei giochi al caleidoscopio o immagini ispirate a un fantastico tappeto orientale il cui senso profondo sfugge. Un effetto, comunque, di leggerezza e grazia che contrasta non poco con quell’aria severa che ha sempre fatto vedere il Palazzo Farnese come immagine per antonoma- sia del potere politico sovrastante il contesto della città, enorme UFO calato su un insieme di vicoli e vicoletti , di piccole piazze, di passaggi misteriosi e slarghi improvvisi. Palazzo Farnese è il Colosseo dei tempi moderni. Un blocco catafratto e chiuso dentro il quale si può immaginare accada di tutto. Visto dal di fuori, cosa potrebbe contenere? Un tribunale implacabile? Un giardino delle delizie e delle trasgressioni? Una raccolta smisurata e inquietante di opere d’arte? Queste ultime certamente si, in coerenza con l’atteggiamento tipico di casa Farnese, del resto necessario perché i Farnese erano, in qualche modo, una nobiltà nuova. Venivano da una stirpe di condottieri che aveva costruito le sue fortune sul campo di battaglia e con le armi in mano. La storia del loro Papa, Paolo III, era destinata a restare negli annali delle più aspre lotte di potere combattute nel sedicesimo secolo, tra aggressione protestante e rigenerazione cattolica. Mentre il Palazzo era in costruzione erano già cominciati gli affreschi dell’allievo di Michelangelo, Daniele da Volterra nelle stanze al primo piano, con opere mitologiche di finissima qualità, troppo presto dimenticate. Ma, soprattutto, era stata decorata la sala centrale al Piano nobile, quella che si vede dalla Piazza al di là del balcone. Francesco Salviati fiorentino, uno dei più grandi pittori del tempo, vi aveva dipinto le imprese belliche dei comandanti farnesiani consolidando un ‘idea dell’arte figurativa quale arte della guerra, da paragonare direttamente con le colonne istoriate degli antichi romani. Salviati non riuscì compiere il suo lavoro. Sopravvenne la morte e il Salone fu completato dai fratelli Taddeo e Federico Zuccari pochi anni dopo. Intanto il Palazzo si riempiva di opere d’arte antiche e moderne e di una insigne biblioteca, per soddisfare le esigenze di un collezionismo ambiziosissimo. Poi le collezioni farnesiane sono andate disperse e quasi più nulla resta lì. Molto e’finito a Napoli, al Museo di Capodimonte e al Museo Archeologico. Ma chi fosse entrato in Palazzo Farnese verso la fine del Cinquecento avrebbe visto cose meravigliose. Quadri magistrali, da Raffaello a Tiziano, sculture sbalorditive come il rinomato Ercole in riposo o il gruppo noto proprio con il nome “Toro Farnese”, nonché una raccolta eccezionale di medaglie e cammei. La grande stagione di Palazzo Farnese culmina nel passaggio tra Cinquecento e Seicento. Il grande padrone è adesso il cardinale Odorado ed è lui a chiamare a Roma Annibale e Agostino Carracci per il cosidetto “Camerino” e la Galleria. Qui Annibale, quasi in concomitanza con il Giubileo dell’anno 1600, compone una stupenda decorazione profana che rappresenta, in buona sostanza, gli amori degli dei dell’Olimpo greco, con al centro della volta la raffigurazione del Trionfo di Bacco e Arianna, una delle opere d’arte più esaltate e imitate forse di tutti i tempi. Così veniva rovesciata, nello stesso Palazzo e su committenza della stessa famiglia l’idea dell’arte della guerra. A distanza di pochi metri era fissato e sviscerato una volta per tutte uno dei grandi temi della cultura occidentale, il contrasto insanabile e sempre risorgente, tra il fare la guerra o il fare l’amore, e per mano di alcuni tra i più insigni pittori attivi nella fase della crisi del Rinascimento . Raggiunto il suo culmine di bellezza e splendori, il Palazzo dopo la morte del cardinale Odoardo nel 1626 cominciò a declinare. Già alla fine del seco- lo diciassettesimo molte opere d’arte venivano inviate a Parma, anche se nel Palazzo continuarono a soggiornare illustri ospiti tra cui la Regina Cristina di Svezia. E nel Seicento la storia di Palazzo Farnese comincia a intrecciarsi in maniera forte con la storia di Francia. Molti grandi dignitari francesi vi risiedettero tra cui Alphonse de Richelieu e il duca di Créquy. Comunque rimase in mano alla famiglia Farnese fino all’estinzione che giunse nel 1731, quando i beni farnesiani passarono tutti in mano al figlio di Filippo V e Elisabetta Farnese, don Carlo e per mezzo di lui ai Borboni di Napoli. E immediatamente un cospicuo gruppo di opere d’arte farnesiane fu trasferito a Napoli per il Real Museo Borbonico. Da quel momento il Palazzo Farnese conobbe una vera e propria agonia da cui si riprese solo nel 1874, quando fu affittato all’Ambasciata di Francia che tutt’ora lo detiene curandolo con impegno continuo . Bisogna immaginarlo come si presentava al cadere dell’Ottocento, ancora in mano borbonica e poi subito dopo, con le sale immense, freddissime e male illuminate, con gli affreschi, totalmente disprezzati perché a diverso titolo ritenuti opere degenerate, o di morboso erotismo o di asfittico manierismo, gravido di un passato irrecuperabile ma latente, dove sarebbe potuta sembrare connaturata alla struttura stessa delle murature l’idea di un potere che gronda lacrime e sangue ma è, nello stesso tempo, ripieno di ansie di bellezza e inconfessabili desideri. Claudio Strinati Tosca 14 S Il Giornale dei Grandi Eventi L'ambientazione del 3° atto: Castel Sant'Angelo Quei merli antichi da cui Floria non si gettò ul terrazzo di Castel S. Angelo la scena si ripete ogni giorno. Gruppi di visitatori con lo sguardo curioso alla ricerca del punto preciso in cui Floria Tosca si sarebbe gettata nel vuoto. Tanta è la fama mondiale del personaggio nato dalla penna di Sardou, che alcuni rifiutano l’idea di Tosca mai esistita come personaggio storico. Vero è, invece, che alcuni ambienti del Castello vennero nei secoli utilizzati come terribili prigioni dove il condannato veniva lasciato morire di fame. I due arcosoli ai lati della sala delle urne, ad esempio, almeno dal primo Quattrocento venivano usati come prigioni (dette “le gemelle”) e qui, per pochi giorni, ci fu imprigionato anche Benvenuto Cellini. Il sepolcro dell’imperatore La storia del Castello però è molto più antica. Inizia con l’imperatore Publio Elio Adriano (117-138) che volle realizzata per lui e per la sua discendenza una gigantesca tomba sulla riva destra del Tevere. Nell’Adrianeo la successione degli elementi architettonici era essenziale: un basamento quadrangolare, da cui spiccava il colossale cilindro nel cui centro s’innalzava a sua volta un cilindro di diametro inferiore, sul quale era posizionata la quadriga bronzea condotta da una statua di Adriano in figura di Sole. Il sepolcro, forse non interamente completato, fu aperto nel 139, allorché un anno dopo la sua morte vi veniva deposto Adriano. E’ difficile affermare quanti altri imperatori e personaggi imperiali appartenenti alla dinastia (vera o presunta) di Adriano varcarono quella soglia per esservi sepolti nella vasta cella funeraria posta al centro del grande cilindro, forse una quindicina, sembra certo, che l’ultimo ad esservi collocato fu l’imperatore Caracalla, ucciso nel 217. Successivamente, infatti, il mausoleo perse la sua funzione sepolcrale. La trasformazione in fortezza Nell’anno 271 l’imperatore Aureliano volle edificare una cinta muraria attorno alla città lunga ben 19 chilometri per difendere Roma minacciata dai barbari. Un sistema difensivo che previde anche l’utilizzazione della tomba di Adriano, opportunamente adattata. La trasformazione del mausoleo in fortezza comportò implicazioni architettoniche e tattico-strategiche che si estesero anche alla zona di Borgo. Con il passare dei secoli, la successiva presenza dei pontefici nella fortezza (che non di rado vi dimorarono, pur se in momenti tragici), imponeva la realizzazione di ambienti confortevoli e di rappresentanza. E’ per questo che vi troviamo l’appartamento di Nicolò V (1447-55), rinnovato da Clemente VIII (1592-1605) con, ad esempio, il grande salone detto “di Apollo”, dalle storie del dio affrescate sulle pareti, nel fondo del quale è collocata la San Michele ripone la spada per la fine della peste N el 590 si scatenò a Roma una terribile epidemia di peste che gli abitanti della città interpretarono come una punizione di Dio per i loro peccati. Il papa Gregorio Magno ordinò che, in segno di espiazione, venisse organizzata una grande processione. Il corteo era aperto da una immagine della Madonna, che sarebbe stata dipinta da San Luca, dietro la quale procedevano devotamente e cantando litanie il Papa, i Cardinali ed il popolo romano. A mano a mano che l’immagine della Madonna avanzava, l’aria – dice la tradizione - si liberò miracolosamente dalla infezione della malattia. Quando la processione arrivò in vista del mausoleo di Adriano, il Papa vide l’Arcangelo Michele posarsi sulla sommità del monumento e riporre la spada nel fodero: questo gesto simbolico esprimeva il perdono di Dio e quindi la fine del flagello. In segno di riconoscenza ed al fine di ricordare l’episodio miracoloso, papa Gregorio decise di far realizzare una statua raffigurante l’Arcangelo Michele da collocarsi sopra il vecchio mausoleo al quale da questo momento venne dato il nome Castel Sant’Angelo. La statua in bronzo che ancora oggi domina la mole non è tuttavia quella originaria, ma l’ultima di una serie che nel corso dei secoli andarono distrutte o furono semplicemente sostituite. L’angelo di bronzo attuale, alto quattro metri con un’apertura di ali di cinque metri, è stato eseguito da uno scultore fiammingo, Pieter Antoon Verschaffelt, a metà del Settecento. L’artista raffigurò San Michele come un giovane guerriero vestito della lorica, ossia una corazza leggera e porta i calzari. Con la mano sinistra l’angelo regge il fodero, mentre il braccio destro è sollevato sopra la testa per sottolineare il gesto del perdono. La statua fu inagurata il 1 luglio 1752, all’indomani della festa di Pietro e Paolo protettori di Roma, da papa Benedetto XIV. Quella sera, per festeggiare l’avvenimento, fu organizzata una girandola di fuochi d’artificio e, come già accaduto in altre solenni occasioni, il Castello fu avvolto dai bagliori colorati che facevano risplendere la superficie ancora lucente dell’angelo di bronzo appena fuso. R. L. cappella di Leone X. Questo appartamento fu abitato dai papi per un centinaio d’anni, fino a quando cioè Paolo III (1534-49) costruì la nuova grandiosa dimora al piano superiore. Gli affreschi della sala Paolina, del Perseo, di Amore e Psiche vennero realizzati da Perin del Vaga, cui successe nel 1547, alla morte del maestro, Domenico Rietti detto Zaga. Estremamente interessante è il bagno di Clemente VII de’ Medici (1523-34) al quale i pontefici, mediante una rampa di pochi gradini salivano dall’appartamento. Questo bagno, con acqua riscaldata da un canale sotto il pavimento – una vera rarità per l’epoca - fu progettato da Bramante per Giulio II nel 1504. Altra sala importante è quella della Biblioteca, i cui affreschi e stucchi, affidati a Luzio Luzi da Todi furono eseguiti nel 1544-45, con scene delle origini di Roma, della vita di Adriano e allegorie della Chiesa e di Roma. Attigua alla sala della Biblioteca è la sala detta del Tesoro in quanto qui erano conservati in sacchetti i denari, poi sistemati in grandi forzieri, e gli oggetti particolarmente preziosi che costituivano le riserve della Camera Apostolica. Da queste sale una stretta rampa elicoidale conduce nuovamente al terrazzo dove è stata ambientata la storia di Tosca. Nei documenti sei-settecenteschi questo terrazzo è detto “delli trofei” o anche “delle corazze”: nome che gli deriva non da protezioni cavalleresche, ma da quelle armature in muratura che tuttora vediamo sull’orlo anteriore, ma che, come elemento decorativo, appaiono raffigurate già in alcuni disegni del tardo Quattrocento. A partire dalla metà del Cinquecento, su questo terrazzo venivano sistemate le botti con la polvere pirica per le celeberrime girandole dei fuochi artificiali. Girandole che, con i loro scoppi, provocavano ogni volta gravi danni e in particolare ai mirabili stucchi ed affreschi dei saloni sottostanti. Roberto Luciani Il Tosca Giornale dei Grandi Eventi Dal 27 al 30 agosto al Gran Teatro di Torre del Lago I La Tosca di Dalla nel tempio pucciniano l paragone tra la Tosca di Lucio Dalla e la versione originale è d’obbligo, ma guai a parlare di “rinnovamento”. Per il cantautore bolognese «c’è soltanto più libertà rispetto al testo del grande Puccini». Ma nonostante questo per la prima volta l’opera del cantautore bolognese entra in due di quelli che sono considerati dei veri templi del melodramma. Così Tosca Amore Disperato sarà rappresentata dal 27 al 30 agosto al Gran Teatro Giacomo Puccini di Torre del Lago, in provincia di Lucca e il 12 settembre all’Arena di Verona. Un’opera colossale, con impianti di riproduzione sonora ultramoderni e proiezioni multimediali spettacolari. Un lavoro che, in comune con la Tosca di Puccini, «ha il fatto di essere un capolavoro», come ammette lo stesso Dalla. «Il vantag- L gio è che non serve la conoscenza », aggiunge. E ricorda un aneddoto che lo vede protagonista nei panni di docente di tecniche pubblicitarie all’università di Urbino: «Ho chiesto ai miei studenti se conoscevano la Tosca e mi hanno guardato smarriti, come se avessi chiesto chissà che cosa…». Da qui l’intento della sua rivisitazione: «C’è bisogno di un nuovo pubblico, perché quello del melodramma è destinato a scomparire». Il suo auspicio è che la magia della musica e dell’opera popolare contagi i più giovani, altrimenti sarà impossibile far sopravvivere il melodramma. «I ragazzi precisa - devono essere avvicinati a un contesto contemporaneo; i libretti per quei tempi erano straordinari, ma il linguaggio è cambiato». La Tosca di Dalla è stata messa in scena per la prima volta nel settem- bre del 2004 ed è stata anche rappresentata, per quasi un mese, al Festival di Klagenfurt, davanti a 150mila spettatori. La novità di quest’anno è l’orchestra. Prima, invece, i cantanti si esibivano dal vivo su una base musicale registrata. «Così l’opera è davvero completa», conclude Dalla con soddisfazione. «Ho voluto realizzarla, perché sono un grande appassionato di Puccini». Un capolavoro coronato da un cast d’eccezione che vede tra i protagonisti alcuni artisti reduci dallo spettacolo che ha aperto la strada a questo genere a cavallo tra opera e musical, Notre Dame de Paris di Cocciante. Tra gli interpreti figurano Vittorio Matteucci nel ruolo di Scarpia, Graziano Galatone in quello di Cavaradossi e Rosalia Misseri nelle vesti di Tosca. Fi. Le. Novità in libreria L’universo operistico di Puccini e celebrazioni per il centenario di un artista sono in genere affollate (soprattutto quando l’autore è quanto mai popolare) anche da iniziative di scarso valore artistico e d’immediata visibilità popolare. Nel “mucchio”, tuttavia, si ritrova spesso anche qualcosa di interessante e, soprattutto, di duraturo. Nel caso delle recenti celebrazioni pucciniane, dalla selva di pubblicazioni che hanno animato il 2008, emerge per serietà e fascino di scrittura il libro pubblicato da Alberto Cantù per i tipi della varesina Zecchini Editore, “L’universo di Puccini, da Le Villi a Turandot”, con una prefazione di Simonetta Puccini e un contributo (limitato a La Rondine) di Alfredo Mandelli. Cantù, musicologo genovese da anni trasferitosi a Milano, coltiva da sempre alcune passioni musicali, perseguite e approfondite con lucido rigore: Paganini e Puccini sono, crediamo, i suoi amori principali. E questo libro per Zecchini ne è una dimostrazione. Cantù struttura il suo studio in dieci capitoli che costituiscono altrettanti saggi, ognuno dedicato a un titolo della produzione pucciniana. Ogni saggio offre un lucido commento sulla genesi e sull’analisi del libretto e dello spartito, in una scrittura controllata e certamente specialistica ma di immediato impatto comunicativo. Un bel libro, insomma, da raccomandare nella biblioteca di qualsiasi melomane, e non solo. Alberto Cantù - L’Universo di Puccini da Le Villi a Turandot - 2008 - Pag. 225 - € 20,00. R. I. Prosegue da pag 3 no e con i quali amava confrontarsi. Parlandoci, non mancava mai qualche suo gustoso aneddoto condito della inconfondibile, leggera cadenza toscana (anche se era nato ad Alessandria, aveva vissuto a lungo a Siena), o qualche battuta sagace e pungente come è proprio della gente di quella terra. Ne usciva una conversazione nella quale l’interlocutore rimaneva affabulato, trovandosi coinvolto in un labirinto di interdisciplinarità, sempre con una semplicità di linguaggio, che alla fine divenivano delle vere lezioni di ironia. Ma le sue grandi passioni sono sempre state il cinema, il futurismo ed il teatro. Fu il primo in Italia ad interessarsi alla storia della settima arte, iniziando negli anni 50 la propria carriera con corsi liberi di “Filmologia”, prendendo poi nel 1965 la prima cattedra di storia e critica del film. In precedenza si era dedicato al giornalismo come critico della redazione senese de La nazione. E proprio la vita senese era rimasta sempre nel suo cuore, come l’attaccamento alla contrada della Selva, tanto da essere insignito nel 1966 del famoso premio “Il Mangia d’Oro”, massimo riconoscimento che Siena attribuisce ai suoi figli. Roberto Rossellini, quando fu nominato presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia lo chiamò come direttore. Il cinema ha cosi accompagnato tutta la sua esistenza ed anche quella dell’intera famiglia, con i figli Carlo attore e Luca raffinato regista e 15 documentarista, ma anche con la figlia Silvia che ha sposato Christian De Sica, figlio del grande Vittorio, suo caro amico come Anton Giulio Bragaglia. C’è poi il Futurismo, una corrente artistica e di pensiero da lui vissuta – è il caso di dirlo – con “dinamismo”. Soprattutto la pittura fu la sua grande passione, che lo portò a confrontarsi con diversi artisti, a scrivere alcuni libri ed a mettere insieme una bella raccolta di opere. C’è infine il teatro e soprattutto la lirica, suo grande amore. Spesso veniva all’Opera con Sofia Corradi, compagna dell’ultima parte della sua vita e con il direttore di sala Franco Lippiello cercavamo di trovargli i posti migliori. Continuava a studiare, a voler conoscere le voci nuove, i titoli in cartellone anche meno di cassetta, gli allestimenti più diversi. Una volta parlando nell’intervallo, mi raccontò che anche lui aveva scritto tre operine buffe, le quali erano state rappresentate con grande successo in Ungheria, Paese che ama l’opera. Non le ho mai lette, ma conoscendo il personaggio sono convinto che si presenteranno molto gustose. Mi sarebbe piaciuto proporle all’Opera per essere rappresentate in “Patria”, ma per una serie di circostanze non c’è stato il tempo. Chissà che un giorno l’ironia di Mario non possa risuonare tra i velluti del Costanzi, con allegre risate di pubblico, aspetto che avrebbe più gradito. Andrea Marini Festival Internazionale della Filatelia ITALIA 2009. Tutti i francobolli del mondo in un solo spazio. A Roma. Con Italia 2009, Roma diventa la capitale mondiale del francobollo. La grande esposizione internazionale sbarca nella città eterna per cinque intensi giorni dedicati alla filatelia. Protagoniste le migliori collezioni d’Europa, dei Paesi del bacino del Mediterraneo, nonché di Canada, Stati Uniti d’America, Argentina, Sudafrica e Australia. Non perdete l’appuntamento con la storia del francobollo. www.italia2009.it Roma - Palazzo dei Congressi 21-25 ottobre 2009