Anno XV - Numero 41 - 14 luglio 2009
L’intervista
Parla il regista
Franco Ripa di Meana
A Pag.
2
La storia dell’opera
Un dramma prima rifiutato
e poi corteggiato
A Pag.
4
L’inganno in Tosca
Un meccanismo drammatico
simbolo di un’epoca
A Pag.
7
Le Terme di Caracalla
La Stagione estiva nel
luogo di salute e piacere
della Roma antica
A Pag.
9
I Luoghi
S. Andrea della Valle,
Palazzo Farnese e
Castel Sant’Angelo
A Pag.
12, 13 e 14
TOSCA
di Giacomo Puccini
Tosca
2
U
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Parla il regista Franco Ripa di Meana
Un allestimento che guarda a Roma ed alla pazzia di Tosca
na grande foto aerea di Roma,
stampata sul palcoscenico inclinato, sulla quale sono evidenziati in rosso i luoghi della fatale storia
di Floria Tosca: la chiesa di Sant’Andrea della Valle in Corso Vittorio, palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo. E’
la visione spettacolare posta sul fondale antico e straordinario delle cosiddette “Torri” del Caldarium delle Terme di
Cracalla, che accompagnerà fino al 6
agosto gli spettacoli di questa Tosca.
Dopo vent’anni d’assenza, tocca, infatti, alla protagonista più famosa delle
opere di Giacomo Puccini aprire la pagina lirica della Stagione Estiva 2009
caldaie che scaldavano 24 ore su 24 enormi
quantità d’acqua, il cui vapore veniva poi
convogliato nelle tubature che correvano –
e corrono ancora oggi - lungo le pareti.
Inoltre, al di la dei tanti riferimenti e circostanze, ciò che profondamente lega Tosca a
Roma è quel caratteristico confronto tra potere e religione, tra sacro e profano, elementi che in tutta la vita della Città ancor oggi
si intrecciano e si scindono, ma sempre la
permeano, facendone un unicum nel mondo. Per questo ho deciso di “segnare” la
città, di evidenziarne i luoghi, facendone vivere e divenire protagonista quel fiume intorno al quale la città e nata e si è espansa».
Per la verità tutto l’allestimento è per-
La Locandina ~ ~
~~
Terme di Caracalla, 14 luglio - 6 agosto 2009
TOSCA
Opera in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Tratto dal dramma di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione: Roma, Teatro Costanzi, 14.1.1900
Maestro concertatore
e Direttore
Maestro del Coro
Regia
Scene
Costumi
Disegno Luci
Paolo Olmi
Andrea Giorgi
Franco Ripa di Meana
Edoardo Sanchi
Silvia Aymonino
Agostino Angelici
Personaggi / Interpreti
Floria Tosca (S)
Micaela Carosi (14, 16, 21/7, 4, 6/8)
Virginia Todisco (15, 17, 22, 30/7)
Cavaradossi (T)
Fabio Armiliato (14, 16, 21/7, 4, 6/8)
Valter Borin (15,17, 22, 30/7)
Giorgio Surian (14, 16, 21/7, 4, 6/8)
Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30/7)
Sagrestano (Bar)
Roberto Abbondanza (14, 16, 17, 21, 30/7)
Carlo Di Cristoforo (15, 22/7, 4, 6/8)
Angelotti (B)
Alessandro Svab
Spoletta (T)
Mario Bolognesi
Sciarrone (B)
Alessandro Battiato (14, 15, 16, 17, 21/7)
Antonio Taschini (22/7, 4/8), Riccardo Coltellacci (30/7, 6/8)
Carceriere (B)
Angelo Nardinocchi (14, 15, 16, 17, 21, 22, 30/7)
Riccardo Coltellacci (4/8) Antonio Taschini (6/8)
Pastorello (S)
Marta Pacifici
Scarpia (Bar)
vaso da un anticlericalismo gratuito ed
antistorico, al limite del blasfemo quando viene più volte – anche qui gratuitamente - gettato a terra il crocifisso, che
diverrà anche l’arma del delitto.
C’è poi il finale, così particolare…. «La
pazzia di Tosca, immaginata dagli autori
del libretto, condivisa e difesa da Puccini fino all’aut aut imposto da Sardou – che
proibì di discostarsi in maniera netta dal
proprio dramma, pena la negazione dei diritti – è il contributo più interessante dei recenti studi sulla genesi dell’opera. Il ritrovamento della prima versione del finale ed
altre testimonianze epistolari sul carattere
del terz’atto, che Puccini volle ad ogni costo
fulmineo ed affannato (contro l’unanime
giudizio) cassando senza pietà lunghe arie
del tenore e duetti lirici, dimostra come
Puccini fosse affezionato all’idea della progressiva perdita di senno della protagonista. Dunque, Tosca folle, invece che Tosca suicida, mi è
Il G iornale dei G randi Eventi
sembrata da subito una visione più drammatica e questa
Direttore responsabile
suggestione guiderà il finale
Andrea Marini
il quale, all’usuale - quanto
Direzione Redazione ed Amministrazione
deludente sul palcoscenico salto nel vuoto sostituirà
Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma
l’immagine dei due corpi dee-mail: [email protected]
gli amanti che, dopo la fucilazione di lui, affondano, fiEditore A. M.
nalmente uniti, nelle acque
Stampa Tipografica Renzo Palozzi
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catartiche - che tutto lavano
e tutto perdonano - del TeveRegistrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995
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re, il grande secolare testimone muto della Città».
Le fotografie sono realizzate in digitale
del Teatro dell’Opera. Un titolo, quello
di Tosca che debuttò al teatro Costanzi
il 14 gennaio del 1900 e che nel 1937
inaugurò la stagione estiva dell’opera,
per la prima volta in questo luogo di
grande fascino.
Nel nuovo allestimento, il regista Franco Ripa di Meana ha immaginato una
Tosca segnata dall’acqua, dal fuoco e
da un finale inconsueto. «L’idea è nata
guardando al dramma originale di Victorien Sardou, nel quale nella seconda scena
del terzo atto la casa di Cavaradossi è posta
proprio tra le Terme di Caracalla ed il Mausoleo degli Scipioni (che si trova in via di
Porta San Sebastiano, n.d.r.), ma anche
pensando al luogo dove dovrà andare in scena, con lo sfondo delle rovine del grosso
Caldarium, ovvero la parte più calda delle
Terme, che è posto proprio dietro al palcoscenico. Li sotto ci sono ancora le grosse
con fotocamera Kodak Easyshare V705
And. Mar.
CORO DI VOCI BIANCHE DI ROMA DELL'ACCADEMIA NAZIONALE
DI SANTA CECILIA E DEL TEATRO DELL'OPERA
diretto da Jose’ Maria Sciutto Altro Maestro del Coro Claudia Morelli
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Nuovo allestimento
~ ~ Prossimi Appuntamenti ~ ~
Stagione estiva - Terme di Caracalla
14 Luglio - 06 Agosto
29 Luglio - 09 Agosto
TOSCA
di Giacomo Puccini
CARMEN
di Georges Bizet
Stagione 2009 - Teatro Costanzi
02 - 09 Ottobre
29 - 06 Novembre
18 - 31 Dicembre
PELLÉAS ET MÉLISANDE
di Claude Debussy
TANNHÄUSER
di Richard Wagner
LA TRAVIATA
di Giuseppe Verdi
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dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale
D
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
opo 20 anni di assenza Tosca torna protagonista alle
Teme di Caracalla. Tra l’altro, questo titolo pucciniano fu
quello che inaugurò nel 1937 la
tradizione della Stagione Estiva
ospitata in questo maestoso sito
archeologico, che mostrava e mostra tutt’ora la spettacolarità e la
grandezza della Roma imperiale.
Quest’anno nove le recite in cartellone di quest’opera tipicamente
romana per i suoi innumerevoli ri-
ferimenti e soprattutto per l’ambientazione tra la chiesa di
Sant’Andrea della Valle in corso
Vittorio, Palazzo Farnese e Castel
Sant’Angelo, ma anche per l’aver
debuttato il 14 gennaio 1900 in
quel teatro Costanzi che è oggi il
Teatro dell’Opera, iniziando da li
un successo che ne ha fatta una
delle opere più conosciute e rappresentate al mondo.
Questo nuovo allestimento firmato dal regista Franco Ripa di Mea-
na e diretto da Paolo Olmi, presenta un finale inconsueto: la cantante
Floria Tosca non si getterà, suicida, dai merli di Castel Sant’Angelo, ma scivolerà con l’amante nel
Tevere, che come fiume della
Città, è elemento centrale e caratteristico della scena. Scena che vede Roma protagonista da una prospettiva particolare, qual è una visione aerea con una immagine realizzata in collaborazione con l’Istituto Geografico Militare.
Un finale a sorpresa per Tosca
3
Le Repliche
Mercoledì 15 Luglio, ore 21.00
Giovedì 16 Luglio, ore 21.00
Venerdì 17 Luglio, ore 21.00
Martedì 21 Luglio, ore 21.00
Mercoledì 22 Luglio, ore 21.00
Giovedì 30 Luglio, ore 21.00
Martedì 4 Agosto, ore 21.00
Giovedì 6 Agosto, ore 21.00
L’editoriale
Addio a
Mario Verdone,
collaboratore
eclettico
di Andrea Marini
È
il pomeriggio del 17 giugno 1800. L’opera inizia
senza un’overture mentre
l’ex console della repubblica romana ormai caduta,
Cesare Angelotti (basso), con l’aiuto della sorella, la
Marchesa Attavanti, si rifugia nella Chiesa di
Sant’Andrea della Valle. Qui si trova il pittore Mario Cavaradossi (tenore) intento a dipingere una delle cappelle. Colto dalla bellezza della Attavanti egli
decide di ritrarla furtivamente. Angelotti e Mario,
vecchi amici stanno parlando quando vengono interrotti da Floria Tosca (soprano) la bella cantante
amica di Mario. Angelotti è costretto a nascondersi e
ad assistere Tosca che fa una scena di gelosia a Mario, per aver riconosciuto nei liniamenti della Maddalena l’ Attavanti. Sopraggiunge il barone Vitellio
Scarpia (baritono), capo della polizia, in cerca di Angelotti. Egli persuaso della complicità di Mario (che
gli è anche rivale nell’amore per la cantante), cerca
di ingelosire Tosca mostrandole un ventaglio con lo
stemma della Attavanti trovato vicino ai colori di
Cavaradossi e la fa pedinare dal gendarme Spoletta
(tenore), dandogli successivo appuntamento a Palazzo Farnese. Scarpia assiste al “Te Deum” di ringraziamento per festeggiare la notizia della presunta vittoria austriaca di Marengo.
Il Secondo atto si apre con una tavola imbandita
di fronte ad una grande finestra sul cortile di Palazzo Farnese, dove Scarpia consuma un pasto. Cavaradossi è arrestato e subito portato al cospetto del
capo della polizia per essere interrogato e quindi sottoposto
inutilmente a tortura per conoscere il nascondiglio di Angelotti. Le urla di Cavaradossi portano Tosca a rivelare il rifugio dell’ex console. Giunge il gendarme Sciarrone informando che
a Marengo Napoleone non è stato sconfitto ma al
contrario ha vinto. Mario, che osteggia Tosca per
aver parlato, viene comunque condannato a morte
per alto tradimento, ma dopo la condanna grida a
Scarpia tutta la sua gioia per la vera vittoria di Marengo. Tosca sulle insistenze di Scarpia decide di
concedersi a lui per salvare la vita dell’amato.
Scarpia finge di ordinare che i fucili del plotone
di esecuzione siano caricati a salve, ma quando cerca di abbracciare Tosca, viene da lei ucciso con un
coltello trovato sul tavolo.
Terzo atto. L’alba sulla piattaforma di Castel S.
Angelo è salutata dallo scampanio delle chiese di
Roma. Cavaradossi in attesa di essere giustiziato decide di scrivere a Tosca un’ultima lettera per confermarle il suo amore.
Tosca entra nella prigione per avvisare l’amato
che la fucilazione sarà una finzione, esortandolo comunque a fingersi colpito. Dopo l’esecuzione Tosca
si accorge che Cavaradossi è morto. La donna sfugge ai gendarmi che sono lì per arrestarla avendo scoperto il cadavere di Scarpia e, lacerata dal dolore, si
getta dai merli del Castello invocando la giustizia
divina al grido: “O Scarpia, avanti a Dio!”.
La Trama
Con Mario Verdone ho
parlato l’ultima volta
poco più di un mese prima della sua scomparsa,
avvenuta a Roma il 26
giugno scorso, esattamente un mese prima
del suo 92 esimo compleanno. Ci sentivamo
non spesso ma frequentemente, parlando delle
comuni passioni, l’opera
e la storia e le tradizioni
di Roma. Lo chiamai,
dopo averlo visto pochi
giorni prima ad una riunione del Gruppo dei Romanisti, per chiedergli se
volesse scrivere qualcosa di nuovo per il numero di Pagliacci sulla storia e le tradizioni dei
clown, di cui era il massimo esperto. Collaborava al nostro Giornale da
diversi anni, sempre con
grandissimo entusiasmo, proponendo pezzi
curiosi, divertenti e ricchi di significati. Per
questo in quella telefonata mi colpì la sua rassegnazione verso la vita,
l’improvvisa mancanza
di propensione a voler
continuare una vita ricchissima di esperienze e
successi, di affetti ed interessi. Si lamentava che
camminava a fatica e
questa cosa l’aveva cominciata a vivere come
una limitazione alla propria libertà. Si, perché
Mario fu sempre uno
spirito libero, precursore dei tempi, eclettico
negli interessi, con una
comunicativa straordinaria che ne faceva un
ragazzo tra i tanti giovani che gli si avvicinavaSegue a pag. 15
Tosca
4
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La storia dell’opera
I
Un dramma prima
rifiutato e poi corteggiato
l dramma Tosca, nato dalla penna del francese Victorien Sardou e rappresentato con successo anche
grazie alle memorabili interpretazioni
di
Sarah
Bernhardt dal 1887 in molti
teatri d’Europa, sollevò l’interesse di Puccini già dal
1889. Tuttavia questi, ancora
non famoso, abbandonò l’idea spaventato dal realismo
del soggetto e convinto di
non ottenere l’assenso dell’autore. Sei anni dopo, l’antico amore fu ravvivato per
l’intervento di un altro celebre musicista: l’ormai ottantenne Verdi, il quale a Parigi
per la prima francese dell’Otello, venne a conoscenza del
soggetto a casa dello stesso
Sardou,
rimanendone
profondamente colpito. L’opera nel frattempo era stata
affidata (era il 1894) da Giulio Ricordi al musicista torinese Alberto Franchetti. Il
giudizio di Verdi riaccese
l’interesse di Puccini, che
chiese all’editore Ricordi di
trovare il modo di togliere a
Franchetti il soggetto, senza
sollevare una polemica analoga a quella sorta con Leoncavallo per La Bohème, anche
per l’amicizia che lo legava
allo stesso Franchetti. Così
Ricordi, che aveva fiuto negli
affari, con l’aiuto di Illica, cui
era stata affidata la stesura
del libretto, convinse Franchetti a rinunciare spontaneamente al contratto e nel
luglio del 1895 la bella Tosca
fu definitivamente di Puccini. Luigi Illica, continuando
nel lavoro sul libretto, ridusse a tre i cinque atti del
dramma originario.
Tra le opere di Sardou, molto in voga ai suoi tempi, solo
quella nobilitata dalla partitura pucciniana ha resistito
all’implacabile trascorrere
del tempo. I lavori del drammaturgo, sebbene apprezzati
dal pubblico di allora per la
spiccata attualità dei temi
(divorzio, la speculazione
ecc.) e per l’attenzione ai problemi sociali, risultano però
del tutto inattuali oggi. Dai
testi di commedie-vaundeville in cui privilegiato è l’intreccio a scapito dei personaggi a quelli storici con forti richiami sociologici, tutte le
opere del drammaturgo
francese mancano di una vera forza drammatica, spesso
ridotta a semplice successione di scene.
La sensibilità di Sardou era,
dunque, assai diversa da
quella descrittiva e lirica di
Puccini ed anche di quella
del fine lirico Giacosa (nel
frattempo entrato al fianco di
Illica nella stesura del libretto), che definì la Tosca francese “dramma di grossi fatti
emozionali, senza poesia”. Per
questi motivi i lavori procedettero a rilento fino al 1898
quando Puccini mise mano
concretamente alla composizione. Nell’aprile di quello
stesso anno, poco dopo aver
iniziato il primo atto, il musi-
cista si recò da Sardou per
formulare l’accordo sulla
pubblicazione del libretto.
Il francese ottenne il quindici per cento sui proventi
che sarebbero venuti dalla
nuova opera (inizialmente
aveva richiesto addirittura cinquantamila franchi!)
e il musicista ripartì per
rinchiudersi per quasi due
mesi nella solitudine di
Villa Mansi a Monsagrati
dove, ospite del marchese
Raffaello Mansi, concluse
tutto il primo atto e terminò il
secondo tra febbraio e luglio
1899. In settembre completò
anche il terzo e lo spedì a Ricordi. Questi qualche giorno
dopo inviò una lettera a Puccini in cui lo esortava a rimaneggiare completamente il
terzo atto, considerato oggi il
migliore dell’opera, modificando soprattutto il duetto
Tosca-Cavaradossi. Fortunatamente il musicista non si lasciò influenzare e lo mantenne pressoché immutato. Il la-
voro proseguì, comunque, a
ritmo serrato fino all’inizio
delle prove al Teatro Costanzi, scelto in omaggio alla romanità dell’ambientazione.
La prima fissata per il 13 gennaio 1900 fu spostata, per
una lieve indisposizione del
tenore De Marchi, al giorno
successivo ed il 14 gennaio
del nuovo secolo fu battezzata la più ardente delle eroine
pucciniane, segnando una
data importante nella storia
della lirica.
Cl. Ca.
Roma protagonista di Tosca
I mille riferimenti
alla Città Eterna
U
na delle carte vincenti di Puccini fu sempre quella di evocare
atmosfere e colori tipici degli
ambienti nei quali ambientava le sue opere. La Roma di
Tosca è un mondo completamente diverso dalla Parigi
1830 della Bohème, tuttavia
essa è descritta con moltissimi precisi riferimenti, dai
particolari più oleografici e
paesaggistici, ai puntuali riscontri del momento storico
nel quale la vicenda è ambientata.
Il territorio di Roma ai primi
dell’Ottocento era composto
per la maggior parte di orti,
vigne e campagne, costellati
dalle imponenti vestigia romane. Il popolo viveva un’esistenza priva di prospettive
a causa della generale immobilità economica, gravata
moralmente dall’eredità di
una storia grandiosa definitivamente passata, era sottoposta.
«Chi contrista un miscredente
si guadagna un’indulgenza»,
così ridacchia il Sagrestano
nel primo atto. Il suo carattere sintetizza alcuni tratti gustosi del popolino romano
dell’epoca: infantile, bigotto,
superstizioso, malevolo nei
confronti dei giacobini e tuttavia innegabilmente simpatico, anche sensuale, nella
sua golosa avidità rivolta al
fatidico paniere e soprattutto amante delle cerimonie,
delle feste, eventi che nella
capitale dello Stato Pontificio si svolgevano frequentemente, con apparati liturgici
e scenografici ricchissimi,
dei quali scrivevano affascinati i memorialisti del primo
Ottocento. All’entusiasmo
del povero sagrestano, (che
verrà presto gelato dall’ingresso di Scarpia), fa riscontro la gioia esplosiva di tutta
la cantoria, felice, più che
per la notizia della vittoria
su Bonaparte, piuttosto per
la fiaccolata e per la «nuova
cantata con Floria Tosca!» previste per la sera a palazzo
Farnese.
La figura stessa di Angelotti,
«il console della spenta Repubblica romana», e l’incalzante
intervento di Sciarrone «Eccellenza quali nuove! Un messaggio di sconfitta!» nel secondo atto, servono a circostan-
ziare storicamente quella
giornata e mezza del giugno
1800, quando gli austriaci
del generale Melas furono
sbaragliati a Marengo e costringendo in seguito i borbonici, loro alleati, alla fuga
precipitosa da Roma.
E ancora, nel primo atto, l’effusione lirica di Tosca durante il duetto con Cavaradossi
in Sant’Andrea, è un sognante inno alla notte romana:
«Dai boschi e dai roveti, dall’arse erbe, dall’imo dei franti sepolcreti odorosi di timo […]». È
suggestivo il contrasto tra la
monumentale chiesa barocca
inondata di sole e il notturno, fresco e profumato, evocato da Tosca.
Tra quelle stesse rovine antiche, coperte di muschi e rampicanti, pascola il gregge guidato dal pastorello che, con il
suo stornello in romanesco,
apre l’ultimo atto.
Roma era all’epoca una specie di grosso centro rurale,
attraversato di continuo da
greggi di pecore e capre guidati da pastori in ciocie, come testimoniano visivamente le classiciste vedute romane sette-ottocentesche.
Il terzo atto è forse il più descrittivo e ricco di particolari: dallo scampanellio del
gregge, alle campane che
suonano mattutino, al campanone di San Pietro che si
sente sullo sfondo e che Puccini volle intonare sulla stessa nota di quello originale, al
carceriere assonnato e infreddolito che si fa corrompere immediatamente con
un anello, alla procedura accurata e quasi «burocratica»
con la quale si svolge l’esecuzione.
Una Roma che è più di uno
sfondo, è una presenza delicata ma continua che rende
estremamente credibili i personaggi principali e la tragica vicenda.
An. Ci.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Fabio Armiliato e Valter Borin
A
Lo sfortunato
pittore Cavaradossi
d alternarsi nel ruolo di Mario Cavaradossi saranno i tenori Fabio
Armiliato (14, 16, 21/7 e 4, 6/8) e Valter Borin (15, 17, 22, 30/7). Fabio Armiliato è uno dei tenori favoriti del pubblico grazie alla
sua particolarità vocale ma anche al carisma che sa infonde ai suoi
personaggi come Andrea Chènier e Mario
Cavaradossi. Nato a Genova, debuttò nel 1984
come Gabriele Adorno
nel Simon Boccanegra
(Verdi, a Genova) e come Licinio in La Vestale
(Spontini, Jesi). Quando
nel 1990 partecipò al ciclo Puccini dell’Opera
delle Fiandre, il suo nome si consolidò come
quello di uno dei più
completi interpreti della
sua generazione. Nel
1993 debuttò nel Metropolitan Opera House di
New York con Il Trovatore (Verdi). Altri importanti debutti sono quelli
Fabio Armiliato
nel Teatro alla Scala di
Milano, Opéra de Paris, Opera di San Francisco, Teatro Real di Madrid (Tosca), Teatro Colón di Buenos Aires (Tosca).
Valter Borin è nato a Monza nel 1969 e velocemente intraprende la
carriera che lo ha portato a cantare primi ruoli di tenore in importanti Teatri in Italia e all’estero. Alcune delle sue tappe più significative
per le opere verdiane sono l’interpretazione di Gabriele Adorno nel
Simon Boccanegra ed Ismaele nel Nabucco; e per le opere pucciniane il
Rodolfo ne La Bohème, Rinuccio nel Gianni Schicchi, Cavaradossi nella
Tosca, Ruggero ne La Rondine e Pinkerton nella Madama Butterfly. Ha
cantato nel Requiem di Verdi sotto la direzione di Alberto Veronesi
nella sala Verdi del Conservatorio di Milano e al Teatro di Fano. Ha
collaborato con grandi registi e direttori d’orchestra.
Giorgio Surian e Giovanni Meoni
I
Scarpia, braccio forte
del potere
l cinico barone Scarpia avrà la voce dei baritoni Giorgio Surian (14, 16,
21/7 e 4, 6/8) e Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30/7). Giorgio Surian
è nato a Fiume dove ha intrapreso i suoi primi studi musicali. Ha
debuttato nel 1982 al Teatro alla Scala con Ernani. Di rilievo la sua
interpretazione di Guglielmo Tell per l’inaugurazione della Scala
(con la direzione di Muti). La
brillante carriera lo ha portato
nei maggiori teatri del mondo, fra i quali l’Opéra de Paris,
il Covent Garden, il Metropolitan di New York, la Staatsoper di Vienna, l’Opéra de
Lyon, il Liceu di Barcellona, il
Comunale di Firenze e di Bologna, il Massimo di Palermo,
l’Arena Verona. Spazia con
estrema facilità dal repertorio
barocco alle più complesse
partiture moderne. Nella stagione 2005/06 interpreta diversi ruoli importanti, come
Aida, Mignon, Requiem di Ver- Giorgio Surian
Tosca
I
5
Micaela Carosi e Virginia Todisco
La cantante Floria Tosca
l ruolo della cantante Floria Tosca sarà dei soprano Micaela Carosi (14, 16, 21/7 e 4, 6/8) e Virginia Todisco (15, 17, 22, 30/7).
Micaela Carosi è una delle più importanti voci di soprano lirico
verdiano e pucciniano. Premio della Critica Musicale Abbiati 2006
come migliore Soprano per le interpretazioni nel ruoli protagonistici di Aida (Teatro
Regio, Torino) e Madama Butterfly (Teatro
Carlo Felice, Genova).
Laureata in Lettere
Moderne - Storia della
musica, é inoltre Diplomata in Canto Lirico con il Massimo dei
Voti e la Lode. Ha debuttato a Spoleto nel
ruolo di Leonora in
Oberto Conte di San Bonifacio di Verdi e nel
ruolo di Desdemona
nell’Otello di Verdi.
Nel 2001, in occasione Micaela Carosi
delle celebrazioni del
Centenario Verdiano, viene scelta da Franco Zeffirelli per interpretare il ruolo di Aida nel Teatro Verdi di Busseto, con repliche a Milano presso il Teatro Piccolo ed a Roma all’ Argentina. Nel 2002 il
suo debutto all’Arena di Verona nel ruolo di Abigaille nel Nabucco.
Ha cantato nei lavori verdiani Don Carlo, Requiem, Simon Boccanegra,Ballo in Maschera, Aida,. Debutta inoltre nel 2002 i ruoli pucciniani di Manon Lescaut e Tosca, Madama Butterfly, Il Trittico, Turandot. Ha interpretato Lucrezia Contarini ne I due Foscari al Teatro alla Scala di Milano diretta da R. Muti. per l’Apertura di Stagione a
Caracalla dell’Opera di Roma del 2003 è stata Abigaille nel Nabucco
diretta da Nelli Santi Nel 2006 è stata Manon Lescaut al Regio di Torino per la celebrazione dei Giochi Olimpici Invernali. Ha interpretato Tosca a Seoul, Art Center ed a Monte-Carlo Salle Garnier diretta da Callegari.
Virginia Todisco è nata a Torre del Greco. Studia canto e perfezionamento con il Maestro Nunzio Todisco e si è diplomata in canto
presso il Conservatorio di Salerno. Il suo debutto avviene nell’agosto del 1998 nell’opera Don Carlo presso il Teatro Municipale di Rio
de Janeiro. Nel 1999 canta Manon Lescaut al Teatro Massimo di Palermo, segue Il Trovatore presso il Teatro Bellini di Catania e nuovamente Manon Lescaut al Teatro Coccia di Novara. Alterna ruoli verdini e pucciniano. Nel 2005 canta Attila e Cavalleria Rusticana presso
il Teatro dell’Opera di Roma. Segue nuovamente Attila per lo Zvolen Castle Festival presso il Teatro di Stato in Slovacchia, e Aida alle
Terme di Caracalla. Nel 2006 canta Don Carlo al Megaron the Athens
Concert Hall ad Atene. Successivamente ancora Don Carlo allo Staatstheater di Wiesbaden. E’ apparsa al Teatro dell’Opera di Roma nella produzione de La Fanciulla del west diretta da Gianluigi Gelmetti
nell’aprile 2008.
di, Chérubin, Elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, Nabucco e Carmen.
La stagione successiva interpreta con grande successo Falstaff, Tosca,
Nabucco, Les Contes d’Hoffmann, Macbeth, Die Vögel e Don Pasquale.
Recentemente ha cantato in Luisa Miller, Requiem di Verdi, Tosca e
Mosè in Egitto.
Giovanni Meoni ha inizia la sua carriera col debutto nel 1991 con La
Bohème (Marcello) presso il Teatro Flavio Vespasiano di Rieti. Ha calcato i palcoscenici più importanti del mondo, come il Teatro Regio di
Torino, il Teatro La Fenice di Venezia, il Teatro dell’Opera di Roma,
il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Massimo di Palermo; e poi nei
teatri di Monaco, Berlino, Stoccarda, Mosca e Baltimora. Nel repertorio verdiano trova la sua naturale collocazione.
Pagina a cura di Claudia Moretta – Foto di Corrado M. Falsini
6
Tosca
P
Con il 3° atto ambientato vicino alle Terme di Caracalla
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La vicenda nell’originale dramma di Sardou
arlando della Tosca è impossibile non ricordare la
trama del dramma di Victorien Sardou - da cui è stata
tratta l’opera - che si articola in
cinque atti. Ed è interessante
sottolineare che il terzo atto si
svolge tra le Terme di Caracalla
e il Mausoleo degli Scipioni. Atto che Puccini ha eliminato nella versione lirica.
La tragedia di Sardou è stata
rappresentata per la prima volta
il 24 novembre 1887 al Théatre
de la Porte-Saint-Martin di Parigi con grande successo, grazie
all’interpretazione di Sarah
Bernhardt nei panni della protagonista.
Puccini trae sì spunto da Sardou, ma riduce da cinque a tre
gli atti del melodramma, snellisce di molti particolari la cornice storica ed elimina diversi
personaggi secondari, tra cui
Giovanni Paisiello. La vicenda
pucciniana si concentra così
principalmente sul triangolo
Scarpia - Tosca - Cavaradossi,
L
delineandone i caratteri a scapito delle concatenazioni logiche
degli avvenimenti. Il dramma
dell’amore perseguitato interessa Puccini più del grande affresco storico condito di delitti e di
sangue. Sardou, invece, è un
maestro nell’intreccio ingegnoso, in cui tutto si incastona alla
perfezione e nulla risulta immotivato.
Lo sfondo storico e politico è il
presupposto indispensabile della tragica vicenda di Tosca e Cavaradossi. Nel settembre del
1799, dopo aver stroncato la Repubblica napoletana, le truppe
borboniche entrano nella futura
capitale d’Italia, ponendo fine
all’effimera esperienza della Repubblica romana, insediatasi in
Campidoglio il 15 febbraio 1798.
La trama di Sardou
Il primo atto della tragedia di
Sardou ha luogo nella Chiesa di
Sant’Andrea della Valle ed è simile al primo atto del capolavo-
ro pucciniano; il secondo
si tiene in uno spettacolare
salone di Palazzo Farnese
con la regina di Napoli e il
compositore
Paisiello,
mentre il terzo nella villa
di Cavaradossi tra le Terme di Caracolla ed il Mausoleo degli Scipioni. In
quest’atto Scarpia si reca
alla villa del pittore, lo tortura e alla fine costringe
Tosca a svelargli il nascondiglio di Angelotti.
Il quarto atto, come il secondo di Puccini, è ambientato nella stanza di
Scarpia di Palazzo Farnese. Mentre il quinto dalla
cella della condanna si
sposta al parco - dove l’esecuzione assente nel
Victorien Sardou
dramma di Sardou - ha già
avuto luogo in quello di
modificata dai librettisti Illica e
Puccini.
Giocosa, ma si spara un colpo al
Nel finale del dramma di Sarcuore e muore accanto al cadadou, Tosca non si butta dagli
vere di colui che era la sua unispalti di Castel Sant’Angelo coca ragione di vita.
me nel conclusione pucciniana
Fi. Le.
Echi storici nella Tosca
La battaglia di Marengo del 14 giugno 1800
a vicenda di Tosca
si svolge tra il 17 e
il 18 giugno 1800.
Nel secondo atto dell’opera pucciniana, infatti,
voci della folla con gli
echi della vittoria napoleonoica nella battaglia
di Marengo tra austriaci
e francesi di tre giorni
prima, giungono dalle finestre nelle sale di Palazzo Farnese, e Scarpia se
ne dispera.
la speranza di un attacco
da parte degli austriaci.
Con la caduta di Genova
il 4 giugno, Napoleone
Bonaparte decise di andare lui incontro a Mélas
bilì a Torre Garofoli con
poco più di 30.000 uomini, poiché la maggior
parte dell'esercito era distaccata in Lombardia e
nel Piacentino. Temendo
e l'8 giugno si scontrò a
Montebello (presso Stradella) con l'armata del
generale Ott di ritorno
da Genova. Reputando
che Mélas lo volesse attaccare aggirandolo dagli Appennini, Napoleone occupò il territorio
dello Scrivia e del Bormida ed il 13 giugno si sta-
che Mélas gli sfuggisse,
Bonaparte inviò in ricognizione altre due divisioni, una verso nord oltre il Po e una verso sud
in direzione di Novi.
Inaspettatamente il 14
giugno Mélas attaccò
con tre colonne da Alessandria, oltrepassando il
Bormida ed approfittan-
La vicenda storica
Intorno alla metà di
maggio 1800, il nord Italia era diviso tra austriaci e francesi. Il generale
Mélas aveva dislocato la
maggior parte delle proprie truppe tra la Liguria
e il basso Piemonte,
mentre Napoleone si era
installato in Lombardia,
per favorire gli approvvigionamenti dalle armate del Reno attraverso
il passo del San Gottardo
e soprattutto per rendere
più difficoltose le comunicazione tra Mélas e
l'Austria, ma anche con
do della dispersione delle truppe francesi su
un'area di circa 20 km,
arrivò indisturbato da
ovest nei pressi Marengo
dove si scontrò con la divisione Gardanne, la quale fu
costretta ad indietreggiare fin
oltre il Fosso del
Fontanone
(quindi verso
est).
Con le altre due
colonne, il Mélas attaccò da
sud e da nord
altrettante divisioni francesi
che vennero respinte anch'esse
verso Marengo.
La superiorità
numerica degli austriaci
mise in crisi le truppe
francesi, che iniziavano
un ripiegamento disordinato a nord verso Villanova ed a sud verso Cascina Grossa. In questo
modo l'armata francese
si trovò schierata in uno
sbarramento obliquo con
asse nord-ovest/sud-est.
Napoleone mandò delle
staffette a richiamare le
divisioni in ricognizione
verso Novi e verso il Po,
perché si portassero verso Villanova per riequilibrare la situazione. Intanto Mélas volle spedire
l'annuncio della vittoria
a Vienna, inviando il generale Zach sulla direttrice Tortona-Piacenza. Ma
lungo strada questo si
scontrò con la divisione
francese di Desaix che
rientrava da Novi. Nello
scontro Desaix venne ucciso ed il comando fu assunto da Boudet. Da questo momento i francesi
presero il sopravvento.
Gli austriaci, in preda al
panico, si ritirano confusamente verso il Bormida. Le truppe austriache
rimaste vicino a Marengo resistettero bene, ma
non abbastanza per cambiare le sorti della battaglia che si concluse a favore di Bonaparte. Il 15
giugno Mélas ottenne un
armistizio a buone condizioni.
Fra. Picc.
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
7
Protagonista al di la dei personaggi
L’arte dell’inganno in Tosca
«… penso alla Tosca. La
scongiuro di far le pratiche
necessarie per ottenere il
permesso da Sardou, prima
di abbandonare l’idea, cosa
che mi dorrebbe moltissimo, poiché in questa Tosca
vedo l’opera che ci vuole
per me…».
Scriveva così Puccini il 7
maggio 1889 a Giulio Ricordi. Prima ancora della
realizzazione di Manon e
di Bohéme, Puccini pensava, dunque, a Tosca. Il
dramma di Tosca nato
dalla penna di Victorien
Sardou e rappresentato
con successo anche grazie alle memorabili interpretazioni di Sarah
Bernhardt dal 1887 in
tutta Europa, aveva affascinato da subito il musi-
Franchetti, Mascagni e Puccini
cista lucchese quando
nel 1889 lo aveva visto al
Teatro dei Filodrammatici a Milano: non parlando francese non aveva capito molto del testo,
ma era rimasto colpito
dalla teatralità della vicenda. Per motivi diversi
(non ultimo il difficile
rapporto con l’autore
francese) Puccini si era
però rivolto ad altri argomenti.
Da Franchetti a Puccini
Sei anni dopo il Lucchese
tornò a pensare a Tosca
che nel frattempo era
stata affidata da Ricordi
a Franchetti. Su come il
libretto passò dal Barone
Franchetti a Puccini esi-
stono versioni contrastanti: secondo alcuni
studiosi Ricordi convinse il musicista piemontese a rinunciare, secondo
altri fu lo stesso compositore, spaventato dalla
difficoltà del dramma a
cedere spontaneamente i
diritti. Comunque si siano svolti i fatti, certo è
che nel luglio 1895 il soggetto ed il libretto già
elaborati in parte da Illica passarono sotto il controllo del Lucchese. Il lavoro vero e proprio di
Puccini iniziò nel 1898
con le consuete discussioni fra musicista e librettisti: a Illica fu, come
al solito, affiancato Giacosa che opponeva alla
esuberante fantasia del
bugia. Si avverte in
ognuno il piacere della
vendetta. Si pensi all’uccisione di Scarpia: da
grande attrice Tosca cura
i particolari, la messinscena, dispone le candele, allestisce una sorta di
camera mortuaria. A
Puccini, Sardou ha regalato una vicenda fosca,
notevolmente densa di
avvenimenti che rimanda al Verdi del Simon
Boccanegra o del Don Carlos. Possibilità espressive
straordinarie per un musicista di teatro come il
Lucchese, abile a creare
melodie fluenti e commoventi (“E lucevan le
stelle”, “Recondita armonia” “Vissi d’arte”) autentici cavalli di battaglia
collega un maggiore
equilibrio e un rigore letterario più spiccato.
per intere generazioni di
tenori e soprani; ma geniale anche nello strutturare quadri di forte impatto emotivo: basta ricordare la scena della fucilazione che è un autentico capolavoro di teatro.
Ecco, proprio la teatralità è una delle qualità
maggiori di Tosca. Così
come da grande attrice
Tosca cura la messinscena del funerale di Scarpia, così vorrebbe rendere spettacolare anche la
finta morte dell’amante e
non gli risparmia consigli su come porsi davanti al plotone, come cadere, come “fingere”; tanto
che allorché i militari
sparano e Cavaradossi
piomba a terra, lei in uno
L’inganno protagonista
Tosca rappresenta l’esasperazione della brutalità e l’assunzione dell’inganno a sistema nei
rapporti impersonali.
Scarpia mente a Tosca ed
a Cavaradossi, Tosca a
sua volta raggira Scarpia
e lo uccide, Cavaradossi
crede in una finta fucilazione e cade morto, Tosca si getta da Castel
Sant’Angelo. L’utilizzo
dell’inganno come meccanismo drammaturgico
non costituisce certo una
novità, tuttavia non si
tratta qui solo di qualche
stato di sovreccitazione
grida
«Ecco un artista».
Ma in fatto
di teatralità,
rimanda ancora a Verdi
e in particolare al “Miserere” del
Trovatore
una
delle
Sardou con Giacomo Puccini in una cariscene in as- Victorien
catura di Sem
soluto più
periodo sul palcoscenico
straordinarie del teatro
accade obbiettivamente
pucciniano, la conclusiopoco perché prevalgono
ne del primo atto. Tosca
le espressioni di sentisi è appena congedata da
menti e di passioni, non
Scarpia che la fa pedinaè questo il caso di Tosca
re e si abbandona al suo
dove dalla fuga di Angedesiderio erotico. «Va’
lotti dal Castel Sant’AnTosca nel tuo sen si annida
gelo è un succedersi di
Scarpia», canta e non si
eventi: e se l’elemento
accorge che alle sue spalstorico rimane nello
le si è avviata la processfondo, le azioni implisione del Te Deum. Sacro
cano una dinamica nare profano si mescolano
rativa incalzante che si
con un effetto teatrale asriverbera in un discorso
solutamente geniale fino
musicale organizzato
a che Scarpia non si ravcon estrema genialità, in
vede («Tosca mi fai diun continuo alternarsi
menticare Iddio!») e si
fra squarci lirici di effetunisce al rito religioso.
to (le già citate romanze)
E’ stata notata la persoe dialoghi serrati, conalità forte, affascinante
struiti sulla parola e
di Scarpia che è protagoscanditi da un ricco apnista autentico accanto a
parato di didascalie in
Tosca, tanto che qualcupartitura.
no ha suggerito che l’oTosca mostra, inoltre,
pera avrebbe potuto
una sapiente organizzachiamarsi Scarpia. In efzione armonica e una
fetti il temibile capo delmirabile orchestrazione.
la polizia non è uno dei
Puccini insomma anche
tanti cattivi che affollano
nella passionalità più
la librettistica ottocentemarcata mantiene il tosca. E’ “il” cattivo, colui
tale controllo di ogni
che tira abilmente le fila
componente. E se l’uodi tutta la vicenda, che
mo di teatro ha le sue inagisce con crudo realituizioni vincenti, la solismo, assetato da un dedità della mano composiderio erotico e mosso
sitiva non viene mai meda un atteggiamento sano, unita al gusto per la
dico nei confronti delle
ricerca e la sperimentaproprie vittime. Non a
zione. Così come avrebcaso l’opera si apre con
be fatto in seguito anche
una sorta di “tema di
in Madama Butterfly ed
Scarpia” i tre accordi che
in Turandot, si avverte la
poi tornano a scandire,
volontà di ottenere,
con qualche variante la
quando necessario, un
conclusione del primo e
più veritiero colore locadel secondo atto.
le. Si pensi a questo proIn Tosca, complice Sarposito al canto dello
dou, naturalmente, Pucstornello, all’alba, che
cini ha a disposizione un
conferisce un sapore rotesto in cui magnificamanesco di particolare
mente si combinano moeffetto.
menti riflessivi ed azione. Se in altre opere del
Roberto Iovino
Tosca
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Il pittore che disegnò il manifesto, i bozzetti e le scene per la prima della Tosca
E’
Adolf Hohenstein, pioniere del manifesto
nella storica locandina della
Tosca che Adolf
Hohenstein tocca la vetta della perfezione grafica e coloristica, grazie
alla teatralità di luci e
ombre che accentuano il
drammatico momento
della morte di Scarpia.
Ma Hohenstein ha anche elaborato i bozzetti
per la prima esecuzione
dell’opera pucciniano
del 14 gennaio del 1900
al Teatro Costanzi di
Roma. Per le scene dei
tre atti, l’artista si è ispirato rispettivamente all’altar maggiore di
Sant’Andrea della Valle,
alla galleria di Palazzo
Farnese e alla terrazza
di Castel Sant’Angelo
con sullo sfondo la cupola di San Pietro.
Nel manifesto, Tosca
pone, pietosamente, sul
petto del barone ucciso
un crocifisso. La sua
morbidezza sensuale fa
toccare con mano la setosità della veste e fa risaltare il brillìo della
collana di perle. Ma se
da un lato la luce valorizza il suo incarnato,
dall’altro la grande ombra scura rende tutta la
violenza e la tragicità
del gesto. L’enorme
macchia rossa che ricorda i velluti, la ricchezza
del potere e il sangue
sgorgato sparisce proprio nell’ombra. E la
scritta Tosca è stata apposta come se fosse un
cancello che divide il
dramma dagli spettatori. Scarpia è lì immobile,
mentre la vera protago-
nista occupa la scena
con il suo istrionismo.
Hohenstein ha donato a
Tosca una potenza
espressiva ed emozionale unica, puntando sui
sentimenti, sull’alternanza dei volumi e dei
chiaroscuri. Nel primo
atto dell’opera di Puccini Tosca è dura e severa,
una matrona della Ro-
Manifesto di Hohenstein per
i Fratelli Rittatore
ma papalina che impugna il bastone da passeggio. Anche nella tavola dei costumi mantiene una rigidità fotografica in contrasto con
la fluidità del mantello
del terzo atto. Hohenstein appare così un’artista eclettico e poliedrico che entra a pieno titolo nella storia del cartellonismo internazionale.
Da San Pietroburgo alla
grafica delle grandi
opere
Nato a San Pietroburgo
nel 1854, da genitori tedeschi, si formò artisticamente a Vienna, dove
Bozzetto di Hohenstein per il II atto di Tosca
realizzò i primi dipinti.
La passione per i pennelli assunse un ruolo di
primo piano nella sua
vita quando si trasferì a
Milano nel 1879. Qui
iniziò a lavorare come
scenografo e costumista
al teatro La Scala, con risultati eccellenti ed i
contatti con importanti
compositori non tardarono ad arrivare. Da
Giulio Ricordi gli venne
affidato il compito di sovrintendere alla grafica
della casa musicale milanese e il suo talento si
rivelò immediatamente
nelle locandine, nei manifesti e nelle copertine
di libretti e spartiti. Ed è
in questo contesto che
Hohenstein realizzò i
suoi celebri manifesti
per importanti opere liriche. Non solo quello
della Tosca, ma anche:
Bohème, Madama Butterfly di Puccini e quelli per
il Falstaff di Verdi e l’Iris
di Mascagni. Il manifesto della Bohème è il primo esempio in Italia di
cartellone
operistico,
ricco di colori. Il manifesto per Madama Butterfly
è caratterizzato dall’esplosiva gestualità del
braccio della protagonista proteso verso il bimbo bendato. Il liberty,
invece, entrò nella sua
opera solo come elemento di decoro. Questo traspare nel manifesto dell’Iris, in cui spicca
la sinuosa leggiadria
della figura femminile e
l’eleganza delle forme
floreali. Il pioniere del
manifesto amò personalizzare anche il più
anonimo dei figurini: fra i più di sessanta costumi disegnati nel 1896 per La
Bohème, ritrasse lo
stesso Puccini con i
due librettisti Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, fra le comparse nelle vesti di
un borghese, di uno
studente e di un venditore.
Nel 1906 vinse il concorso per il simbolo
grafico e la cartolina
bandito dall’Esposi-
Bozzetto di Hohenstein per il I atto di Tosca
zione per il Traforo del
Sempione e si trasferì
prima a Düsseldorf e, nel
1918, a Bonn. Ma Hohenstein lasciò l’Italia con
rancore e perciò non dimenticò chi gli aveva
permesso di trascorrere
quasi vent’anni della
sua vita nel cuore di una
Milano ricca di fermenti, condividendo i palpiti e le novità dell’avanguardia grafica e musicale. Giulio Ricordi, in-
Manifesto di Hohenstein per
Bitter Campari
fatti, non era solo uno
dei più importanti editori musicali nell’Europa
di fine Ottocento, ma era
anche una persona attenta alle nuove tecnologie.
E, in un giorno d’inverno del 1905, Hohenstein
chiese a un fotografo di
ritrarlo nel suo nuovo
studio di Bonn tappezzato di quadri e manifesti.
Su quelle pareti si poteva
leggere la sua vita di artista versatile; fra quadri
di paesaggi e ritratti ad
acquerello ed a olio, si
scorgono i volti di due
donne che salutano da
una nave. E’ il cartello
pubblicitario della Nave
Princess Elisabeth, stampato a Bruxelles da Goffart. Prima di spedire la
foto, Hohenstein scrisse
una dedica, con la scrittura chiara e morbida
con cui per anni sul verso delle tavole di figurini
aveva indicato le note
del vestiario per le sartorie teatrali: «Al suo indimenticabile Signor Giulio
con affetto…».
Il 1928 fu l’anno della
sua morte. E mentre i
suoi quadri sono andati
per la maggior parte perduti o se ne è persa traccia, i manifesti, nati per
un’apparizione fugace,
sono giunti sino a noi.
Questo testimonia un
gusto,
un’inventiva,
un’intera epoca. Ma non
solo, anche la creatività
di un’artista che ha fatto
la storia del cartellone in
Italia, malgrado per il
grande pubblico sia più
famoso il suo allievo Metlicovitz (1868-1944). Ma
tutto si può dire tranne
che Hohenstein sia una
celebrità solo per gli intenditori del settore. Il
suo biglietto da visita
apre anche la memoria
dei più giovani. Chi non
conosce il manifesto
pubblicitario di due uomini seduti al tavolino
mentre bevono il Bitter
Campari? Oppure il frate
con il cane San Bernardo
del Cordial o ancora il
cartellone del vermut
Fratelli Rittatore?
Fi. Le.
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
L
9
Piccola guida per capire il monumento
La maestosa perfezione delle Terme di Caracalla
o spettatore che alza
gli occhi dal palco
verso la straordinaria quinta antica, è immediatamente colpito da
due enormi pilastri dalle
pareti curve, che sono le
vestigia del caldarium, il
cuore delle Terme di Caracalla.
Ciò che si vede da questa
prospettiva è il retro delle
Terme, mentre la facciata
principale guarda verso
Viale delle Terme di Caracalla.
Il caldarium, la parte più
calda delle terme, era una
grande sala circolare del
diametro di 36 metri, coperta da una cupola sostenuta da otto pilastri
(due di essi sono quelli visibili) era riscaldato da
una serie di enormi fornaci che esistono ancora nel
sottosuolo ed illuminato
da ampie finestre. Essen-
G
do rivolto a Sud-Ovest, riceveva luce e calore dall’esterno per tutto il giorno. Al centro della sala
c’era una grande vasca
circolare con
acqua calda.
Sei vasche più
piccole erano
inserite tra i
piloni.
Da questa sala
si accedeva al
tepidarium,
l’ambiente retrostante, più
piccolo, con
due vasche ed
un’atmosfera
temperata. Quindi, ci si
trasferiva nel cosiddetto
frigidarium, una enorme
sala a pianta basilicale,
coperta da tre volte a crociera e pavimentata con
lastroni di marmo colorato (opus sectile), che costituiva il cuore di tutto l’e-
dificio. Infine, parallela al
lungo ed alto muro della
facciata che guarda alla
strada, era disposta la natatio, la grande piscina
scoperta (m. 50x22) caratterizzata da un magnifico
prospetto architettonico,
ricco di marmi policromi
con nicchie disposte su
due piani occupate da
statue.
A sinistra ed a destra di
questi ambienti, erano di-
sposti altri locali, tutti comunicanti tra loro, fra cui
le due grandi palestre
ubicate lungo i lati corti
del complesso, circondate
da portici e
pavimentate a
mosaico; i laconica, ossia i
bagni turchi,
disposti a sinistra ed a destra del caldarium e distinguibili dai vani d’ingresso
obliqui per limitare la dispersione di
calore, e gli apodyteria, ovvero gli spogliatoi.
In realtà, era a quest’ultimi ambienti che i clienti
dello stabilimento accedevano tramite i vestibula,
prima di recarsi nel caldarium. Una alternativa era
quella di recarsi nella
grande piscina scoperta,
senza passare dai bagni.
Tutto il complesso era circondato da un recinto, la
cui parete è ancora ben
visibile sulla destra nel
percorso dalla biglietteria
verso l’attuale spazio teatrale. Sul lato posteriore,
alle spalle di questa platea estiva, si apre una
struttura munita di gradinate, forse uno stadio
od una cascata d’acqua,
fiancheggiata dalle due
biblioteche (fino ad oggi
si è conservata solo quella di destra, vicino alla
scalinata che saliva all’Aventino.
Vasti giardini occupavano lo spazio tra lo stabilimento termale ed il recinto. Proprio in questi giardini sono ora collocati
palcoscenico e platea.
Elena Cagiano de Azevedo
Divenute nel XV e XVI secolo una miniera inesauribile
I mille capolavori ritrovati in queste Terme
to interesse per le Terme
fu quello degli scavi di
Paolo III Farnese per la
costruzione del suo nuovo palazzo. Nel 15451547 grandi statue e
gruppi colossali furono
rinvenuti all’”Antoniana”: e grande sensazione provocò il ritrovamento, nella palestra
orientale, del Toro Farnese, il famoso gruppo
colossale ricavato da un
unico blocco di marmo,
nel quale è rappresentato il supplizio di Dirce
legata al toro da Anfione
e Zeto per
vendicare i
torti da lei
arrecati alla
madre Antiope, che assiste alla scena.
Date le proporzioni colossali,
il
gruppo venne collocato
nel cortile di
Palazzo Farnese che affacciava su
via Giulia e
Sopra: Il Toro Farnese. A destra: L’Ercole Farnese. non è chiaro
ià nel XII secolo le
Terme furono cava di materiali
per la decorazione di
chiese e palazzi: tre capitelli con le aquile e i fulmini, simboli di Zeus,
provenienti dalla palestra orientale, furono riadattati nel Duomo di Pisa. La stessa sorte subirono otto capitelli con
Iside, Serapide e Arpocrate provenienti dalle
biblioteche e riutilizzati
nella Chiesa di S. Maria
in Trastevere.
Un momento di rinnova-
se subì interventi di
adattamento e di trasformazione, forse in fontana. Era talmente famoso
che persino il re di Francia Luigi XIV tentò di acquistarlo e trasportarlo a
Parigi; comunque il suo
destino non era quello di
rimanere a Roma, perché
nel 1786 fu trasportato a
Napoli, insieme a gran
parte della collezione
Farnese, dote dell’ultima
erede della famiglia, Elisabetta, andata in sposa
al re di Spagna. Prima
esposto nella Villa Reale
di Chiaia, il Toro fu poi
trasferito nel 1826 nel
Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove è
tuttora conservato insieme agli altri capolavori
provenienti dalle stesse
Terme.
Fra questi, da ricordare il
celebre e colossale Ercole in riposo, proveniente
dal frigidarium, firmato
sul
basamento
da
Glykon, uno scultore
ateniese attivo all’inizio
del III secolo d.C., la cui
fama è dimostrata dalla
diffusione di copie di
ogni dimensione, da
quella di circa tre
metri ritrovata alle Terme, fino a terrecotte di
poche
centimetri. Un altro Ercole
di grandi
dimensioni
fu trovato
nel frigidarium delle
Terme di Caracalla , il cosidetto “Ercole Latino”, dato per scomparso e poi riconosciuto nella
grande statua conservata
nella
Reggia di Caserta.
Ercole era molto amato
dalla famiglia dei Severi
e spesso presente nelle
raffigurazioni delle Terme: in uno dei più famosi capitelli figurati dell’antichità, sempre proveniente dal frigidarium,
infatti, il semidio è rappresentato in posizione
di riposo appoggiato
sulla clava. In tempi diversi furono recuperati
altri gruppi famosi,
come quello di
Atreo con Tieste, statue di
Minerva, Venere, busti di personaggi della
famiglia imperiale e numerosi
frammenti architettonici, fra cui
le vasche ora
nel cortile del
Belvedere in
Vaticano e le
due splendide di granito
grigio, provenienti anch’esse dal
frigidarium e
riutilizzate
dal Rainaldi
come fontane in Piazza
Farnese. Sempre di granito era la colonna proveniente dalla natatio
portata a Firenze nel
1563, dove da Cosimo I
de’ Medici fu eretta in
Piazza S. Trinità, piazza
che ancora la ospita.
Marina Piranomonte
Tosca
10
G
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Al Teatro Costanzi il 14 gennaio 1900
La prima: esordio tra polemiche e tensioni
ià nel 1889 Puccini desiderava fortemente
scrivere un’opera basata sul testo teatrale di Sardou Tosca, forte nei sentimenti e conciso nella trama. Amore, sadismo, religione e arte,
mescolati dalla mano di un
cuoco abile quale è Puccini,
vengono serviti su un piatto
di un importante periodo e
scenario storico. Il cast della
“prima” era composto da artisti di primo piano quali Hariclea Darclèe, soprano proveniente da Bucarest, scelta più
per la sua eccezionale bellezza e il suo grande talento scenico che per le sue doti vocali.
Sembra che sia da attribuire
alla Darclée l’invenzione del
Hariclea Darclée, prima interprete di Floria Tosca
vestito e degli accessori da allora divenuti caratteristici di
Tosca: il frusciante vestito di
seta, il grande cappello piumato, il lungo bastone ed il
bouquet. Gli altri due protagonisti erano Emilio de Marchi,
tenore ed Eugenio Giraldoni,
Baritono.
La direzione d’orchestra era affidata a Mugnone su cui Puccini riponeva un’insolita fiducia:
“Mugnone ci metterà tutta la
sua grande anima d’artista nel
concertare e dirigere; e tutti i
bravi esecutori faranno mirabilia e daranno tutto”.
L’azione di Tosca si svolge a
Roma e nel 1900 Ricordi decise di rappresentarla a Roma
per lusingare il campanilismo
dei romani. Mossa poco astuta che non valutò l’antagonismo esistente tra Roma e l’Italia del Nord e la difficile situazione politica. Infatti, dopo
la sfortunata guerra contro
l’Abissinia, il Paese era irrequieto e scontento e a causa
soprattutto della condizione
economica era lacerato da
violente lotte politiche. C’erano stati due tentativi di attentato alla vita del Re e la Regina aveva comunicato che sarebbe stata presente alla prima di Tosca. Tutti fattori che
contribuirono a creare un cli-
ma di grande tensione la sera
della Prima. A complicare la
situazione, già di per sé tesa,
si aggiunse Tito Ricordi, responsabile dell’allestimento.
Ricordi portò con sé lo scenografo della Scala, Hohenstein,
fatto che suscitò il risentimento dei romani. Si diceva che i
rivali di Puccini avrebbero fischiato alla prima, indipendentemente dall’esito della
rappresentazione. Sembrava
di essere seduti su un barile di
polvere. Il che è doppiamente
buffo se si ricorda che pochi
minuti prima di andare in scena un funzionario di pubblica
sicurezza informò Mugnone
che durante la rappresentazione ci sarebbe potuto essere
il rischio di un attentato Se ciò
fosse accaduto, il direttore
avrebbe dovuto attaccare con
la Marcia Reale.
Una serata davvero eccezionale e resa solenne dall’arrivo
all’inizio del II atto della Regina Margherita, fermata a corte da un pranzo, con “una leggiadra toilette bianca a trine”.
Al suo seguito il presidente
del Consiglio, Pelloux; il Ministro della Pubblica Istruzione Baccelli ed il sottosegretario alle poste e telegrafi, Edmondo De Amicis. C’era il
sindaco di Roma, principe
Colonna e molti tra i più importanti compositori dell’epoca tra i quali Mascagni, Sgambati, Cilea, Marchetti e Spinelli. Tutte personalità che
avrebbero giustificato l’ipotesi di un attentato. E forse l’attentato ci fu, ma fu solo un attentato al buon esito della
rappresentazione. Un brusio
proveniente da un folto gruppo di persone che non riusciva a trovare posto si diffuse
per la sala con lo spettacolo
già iniziato. Dal loggione
qualcuno gridò: “Basta, Giù il
sipario”. I tecnici lo presero
come un ordine ed il sipario
calò. Si dovettero aspettare alcuni minuti per riprendere da
capo l’esecuzione.
Sul momento il successo non
fu così evidente e gli applausi
non abbondarono e neanche i
bis: “Recondita armonia”,
“Vissi d’arte” e “l’Introduzione”. Il vero successo si potè
capire solo attraverso le sedici
repliche. Il giudizio complessivo della stampa fu negativo
anche se le recensioni romane, paragonate a quelle torinesi della Bohème non furono poi così cattive. In realtà
molte critiche furono rivolte
più al libretto che a Puccini,
tanto che il “Corriere d’Italia”
nella prima pagina si congra-
Eugenio Giraldoni come Scarpia,
alla prima dell’epoca
tulava con l’autore “pur lamentando che egli si sia cimentato in un tentativo la cui
inanità non gli doveva sfuggire”. Puccini pensava di aver
fallito! Aveva fallito nell’opera che aveva tanto desiderato
scrivere: “poiché in questa
Tosca vedo l’opera che ci vuole per me, né di proporzioni
eccessive, né come spettacolo
decorativo, né tale da dar luogo alla solita sovrabbondanza
musicale”.
Ma in realtà non fu un fallimento e gli applausi arrivarono, soprattutto, nel finale (interamente ripetuto)e durante
il Te Deum il pubblicò si alzò
in piedi acclamando a gran
voce Giacomo Puccini che si
presentò al proscenio.
M. V. M.
Quando Puccini rischiò l’arresto
per ascoltare le campane di Roma
Q
uanti equivoci e quante tensioni il povero
Puccini ha dovuto subire per riuscire a completare
Tosca! Le minacce di bombe,
attentati alla Regina, fischi e
giudizi negativi della stampa
alla prima rappresentazione.
Ma addirittura l’arresto, rischiare di essere portato in
prigione con Mugnone fa
davvero sorridere e forse contribuisce a creare quell’alone
di mistero, un romanzo sulla
storia e forse quel fascino che
contraddistingue Tosca a distanza di un secolo.
Siamo nella primavera del
1889 ed alla polizia, giunge la
voce che al Pincio, in piena
notte, si aggira un individuo
pericoloso e sospetto, senza
alcun dubbio un attentatore o
un terrorista. Il sospetto non è
solo, ma per tramare i suoi atti vandalici e terroristici passeggia con il suo complice facendo degli strani segni, sicuramente legati al complotto.
In questura il panico e la
preoccupazione dilagano e
considerando il delicato periodo politico che l’Italia sta
attraversando si pensa bene
di intervenire e di bloccare la
sommossa sul nascere. Ad aggravare la situazione, “il suddito fedele e timoroso” che ha
rivelato la notizia alle autorità, aggiunge che il Pincio
normalmente è chiuso da ampi cancelli e che solo dei malintenzionati avrebbero potuto eludere il sistema di sicu-
rezza. L’ordine fu perentorio.
Il questore Felsani dispone
l’arreso dei due sospetti. È
l’alba, il buio ha ormai lasciato il posto alle prime luci del
giorno che è salutato dal suono delle campane di Roma e
Puccini insieme a Mugnone
passeggia al Pincio cercando
di riprodurre in note il suono
delle campane. Ma ecco che
all’ improvviso viene fermato
da tre agenti armati, pronti a
portare a termine la loro missione. “Fermi, sono un delegato di pubblica sicurezza.
Chi siete? Che fate qui a quest’ora? Come siete entrati?”.
Puccini e Mugnone, inizialmente stupiti e spaventati
scoppiano a ridere capendo
l’equivoco sorto e cominciano
a spiegare la
loro identità e
la loro estraneità da qualsiasi atto terroristico. Spiegano inoltre di
aver ricevuto le
chiavi del cancello qualche
giorno prima e
che possiedono
anche un regolare permesso del Municipio
per sostare di notte al Pincio.
Il mistero è svelato, l’equivoco è chiarito e Puccini viene
ricoperto e travolto dalle
scuse degli agenti che si sono
nel frattempo resi conto di
aver offeso un personaggio
di chiara fama. Alla prima di
Tosca sono presenti anche i
tre agenti di polizia che all’inizio del terzo atto possono
sentire il suono delle campane riprodotto da Puccini
identico a quello che avevano udito poche mattine prima al Pincio.
L. D. D.
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
11
L’opera pucciniana ed i suoi “disastri”
L’indimenticabile suicidio
del plotone di esecuzione
P
oliteama Genovese, ottobre 1901. A
grande richiesta
viene ripresentata Tosca
che, pochi mesi prima, al
suo debutto cittadino,
aveva letteralmente entusiasmato il pubblico.
Al momento della fucilazione, i soldati sbagliano
i tempi e sparano in anticipo sicchè Cavaradossi
deve stramazzare a terra
per conto proprio. Il povero tenore non aveva
avuto, nell’occasione, la
presenza di spirito di un
collega attore che, trovandosi nella medesima,
imbarazzante situazione, se l’era cavata egregiamente gridando mentre cadeva: “Muoio avvelenato”.
La “falsa” fucilazione
di Cavaradossi è uno dei
tanti incidenti che contrassegnano la storia dell’opera pucciniana.
Uno dei titoli in assoluto più popolari se si
considera che fra il 1967
e il 1992 è risultato al
terzo posto nella graduatoria delle opere
maggiormente rappresentate negli Enti lirici
italiani, dopo Aida e Madama Butterfly.
Titolo, tuttavia, tra i
più “sfortunati” per la
serie infinita di incidenti,
solitamente comici, che
hanno accompagnato
numerosi allestimenti in
ogni parte del globo.
“Colpi di scena” spesso determinati da qualche burlone. Così se un
corpulento soprano tedesco difficilmente potrà
dimenticare il tiro giocatole da un tecnico che
nella scena conclusiva di
Salomè sostituì la testa
mozza di Giovanni Battista con una pila di
sandwich al prosciutto,
non avrà certamente
dormito per intere notti,
il giovane soprano americano che nel 1960 vestì
i panni di Tosca al City
Center di New York. Era
l’epilogo dell’opera: Cavaradossi esanime, lei
rioso per liberarsi. Inoltre alla fine del secondo
atto, rentrando dietro le
quinte, la Verrett cadde,
fortunatamente senza
conseguenze, e dovette
ricorrere alle cure del
medico.
Di cure ben più serie
ebbe bisogno nel luglio
del 1995 il tenore Fabio
Armiliato, Cavaradossi
allo Sferisterio di Macerata. I fucili del plotone
di esecuzione funzionarono sin troppo bene
tanto che davanti ad una
sorpresa
Tosca-Kabaiwanska, il
cantante genovese fu effettivamente
colpito (per
fortuna
in
maniera lieve) ad un piede da uno
stoppaccio (il
batuffolo di
stoppa con
cui si fermano gli elementi di carica nei fucili a
bacchetta).
Armiliato finì
in ospedale,
la moglie, in
platea si sentì
male e anche
l’addetto ai
Manifesto liberty per la Tosca di Puccini
fucili pare abbia avuto
Verrett chiamata a Genoun comprensibile malova nel maggio 1988 a sore. Per Armiliato, tuttastituire all’ultimo movia, non era finita. Ripremento Raina Kabaiwansentatosi in scena alla seska costretta ad un temconda recita, l’artista,
poraneo forfait per gravi
forse ancora provato dalproblemi familiari.
la precedente disavvenLa grande artista di
tura, cadde in scena
colore arrivò direttainfortunandosi a una
mente dagli Stati Uniti
gamba.
poche ore prima del deDi una caduta fu vittibutto. Provò al pianoforma al Colon di Buenos
te con il direttore Oren,
Aires, intorno agli anni
passò rapidamente in
Cinquanta anche Maria
sartoria e andò in scena.
Jeritza. Inciampò proForse il vestito non era
prio davanti a Scarpia al
della misura adatta, formomento di intonare
se gli scalini in scena
«Vissi d’arte». Non c’era
avevano qualche aspeil tempo di rialzarsi e, da
rità di troppo: fatto sta
grande artista, cantò la
che per ben due volte l’acelebre pagina riversa
bito si impigliò ad un
sul pavimento. Purtropgradino tanto da costrinpo si trovava in una segere la cantante a strapzione del palcoscenico
parlo con un gesto impesui bastioni pronta a gettarsi nel vuoto invano inseguita da Spoletta. Un
salto, come da copione,
per sparire alla vista degli spettatori. Il tappeto
posto per attutire la caduta era stato, però, sostituito da un telone elastico. Risultato: la povera cantante rimbalzò una
decina di volte, prima di
essere definitivamente
“placata” dai tecnici.
Non allo scherzo di un
macchinista ma alla fretta si devono, invece, le
disavventure di Shilery
non illuminata e i tecnici vagarono invano
con i riflettori per tutto il brano prima di
riuscire a inquadrare
la cantante.
Oggi, in epoca di
computer, le luci non
sono più puntate a
mano, ma in molti
teatri tutto è scrupolosamente affidato alla memoria di un cervellone. Se qualche
dato viene immesso
in maniera errata,
può accadere il finimondo.
A San Diego alla fine
degli anni Cinquanta un
computer regolava persino lo spegnimento delle candele intorno a Scarpia. Ma Tosca non andava d’accordo con l’elettronica. E così quando lei
soffiava sulla candela di
destra, si spegneva quella di sinistra fra le risate
del pubblico.
Il computer, del resto,
ha creato qualche problema anche recentemente al Carlo Felice di
Genova. Nell’ultima Tosca del ‘99, all’apertura
del terzo atto, la struttura scenica che doveva fare da cornice e da fondale a Castel Sant’Angelo è
rimasta bloccata e l’imponente costruzione romana è parsa alquanto
spaesata fra quinte assolutamente neutre e ben
poco paesaggistiche.
A generare incidenti,
tuttavia, è quasi sempre
l’elemento umano. Nel
suo libro “Disastri all’opera”, Vickers ha ambientato quest’ultimo
episodio a San Francisco
nel 1961. Il plotone di
esecuzione era composto
da studenti universitari
arruolati in tutta fretta,
pieni d’entusiasmo, ma
assolutamente
ignari
della trama dell’opera.
Preso dal turbinio delle
prove con i protagonisti,
il regista potè dedicare al
plotone solo cinque minuti prima dell’inizio
dello spettacolo. Le
istruzioni furono precise: “Quando il direttore
di scena vi fa segno entrate marciando lentamente, aspettate che l’ufficiale abbassi la spada e
poi sparate”. “E come ce
ne andiamo? ” chiesero
gli studenti. “Uscite con i
protagonisti” gli fu risposto.
Il primo choc gli improvvisati soldati lo provarono quando, entrando sul palcoscenico si
trovarono di fronte due
persone e non una. Chi
fucilare, dunque, la donna o l’uomo? Optarono
per la donna ricordando
il titolo dell’opera. E rimasero alquanto stupiti
quando si accorsero che
la donna rimaneva in
piedi e l’uomo, pur risparmiato dal loro tiro
incrociato, cadeva esanime. Possiamo anche immaginare lo stupore del
direttore d’orchestra sul
podio e del regista, impotente, dietro le quinte.
Ma non era finita. Occorreva uscire. Stava accadendo il finimondo.
L’orchestra si gonfiava,
Spoletta entrava in scena
seguito dai suoi, Tosca
correva rapida su per i
bastioni. Non c’era tempo per riflettere. E così,
mentre il sipario calava,
il pubblico vide un intero plotone d’esecuzione
gettarsi giù dalle mura
in uno spettacolare e indimenticabile suicidio di
massa...
Roberto Iovino
Tosca
12
L
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L'ambientazione del I Atto: Sant'Andrea della Valle
Un vero passaggio segreto per iniziare la Tosca
a successione degli
eventi drammatici di
Tosca si identifica
con tre dei monumenti più
famosi di Roma: la seicentesca Chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo
Farnese e Castel Sant’Angelo, prescelti da Victorien
Sardou (e poi confermati
da Illica e Giacosa) come
luoghi emblematici del potere religioso e politico della Chiesa-Stato tra fine ‘700
e inizi ‘800.
Sant’Andrea della Valle
possiede, inoltre - con la
cupola di Carlo Maderno,
la più alta a Roma dopo
San Pietro -, un’imponenza
volumetrica straordinaria e
dista soltanto poche centinaia di metri da Palazzo
Farnese e Castel Sant’Angelo: era, pertanto, il luogo
perfetto per comparire in
una vicenda drammatica,
scandita da un ritmo cronologico serrato e veloce,
adeguato al pathos espresso.
Del resto, fin dalla lettura
dei diari romani del ‘600,
per finire con le annotazioni sette-ottocentesche del
Chracas, sappiamo che a
Sant’Andrea della Valle si
celebravano, in circostanze
particolarmente importanti, solenni e sfarzosi Te
Deum, alla presenza di
Cardinali e aristocratici, oltre che di “vario popolo”.
Dunque, nel libretto per un
Te Deum solenne, quale
circostanza più importante
della notizia di una presunta vittoria austriaca a
Marengo su Napoleone, il
nemico per eccellenza del
pontefice romano?
A Sant’Andrea, poi, esistevano le memorie di diverse
famiglie fiorentine o di
ascendenza toscana (i Rucellai, i Barberini, gli Strozzi); era anzi, storicamente,
dopo San Giovanni dei
Fiorentini, una chiesa tradizionalmente curata dai
Perché Sant’Andrea
in Tosca?
Da sempre, la critica letteraria e musicale ha cercato di
motivare le ragioni dell’invenzione dentro la Chiesa
di Sant’Andrea della Valle
della Cappella Attavanti,
dove trova rifugio Cesare
Angelotti, aiutato da Mario
Cavaradossi (intento a dipingere una Maddalena
con l’effigie della marchesa
Attavanti, sorella di Cesare,
causa primaria dell’insorgere funesto della gelosia di
Tosca).
Gli Attavanti appartenevano a un illustre casato fiorentino, giunto a Roma alla
fine del ‘400 ma già estinto
nel ‘700. Tuttavia, non avevano mai avuto alcun giuspatronato nelle cappelle di
Sant’Andrea della Valle ed
avevano le sepolture a Santa Maria in Ara Coeli e a
Sant’Agostino. Probabilmente Sardou aveva individuato la Cappella Attavanti nella vicina Chiesa di
Sant’Agostino, ma preferì
spostarne la collocazione
nella
più
imponente
Sant’Andrea della Valle per
attribuire un “teatro” eccezionale ad un’eccezionale
primadonna, quale è la protagonista Floria Tosca.
La Cappella Barberini
rappresentanti delle massime dinastie toscane presenti a Roma. A questo
punto, l’inserto “romanzato” di una cappella dei fiorentini Attavanti risultava
una licenza poetica assolutamente verosimile. E, per
una simmetria storica ricercata da Puccini stesso, si
deve a un religioso toscano, don Pietro Panichelli,
amico del musicista lucchese, l’invio di stampe
con i costumi delle guardie
svizzere e di diverse notizie, utili per l’organizzazione della processione del
I atto, nonché la fornitura
del tema musicale del Te
Deum in uso nelle chiese
romane. Quello che si ricercava, sia nel dramma di
Sardou che nell’opera di
Puccini, era quindi la verosimiglianza storica non la
verità storica.
In tale prospettiva, risulta
assolutamente lecita la sovrapposizione del nome
Attavanti a quello Barberini dell’omonima cappella
di Sant’Andrea della Valle,
tanto più che si trattava di
un casato estinto, a cui si
poteva attribuire, senza tema di smentita, un esponente rivoluzionario, addirittura console della repubblica romana.
La Cappella Barberini
Nel sontuoso contesto artistico, si segnala, immediatamente, all’attenzione di
qualsiasi visitatore la magnificenza della prima cappella a sinistra: la Cappella
Barberini. Voluta dal protonotario apostolico monsignor
Francesco Barberini che, nel
testamento redatto nel 1600,
aveva espresso
il desiderio di
sepoltura per
sé e per i propri familiari
nella chiesa dei
teatini
di
Sant’Andrea
della Valle, la
cappella era
stata concessa
quattro anni
più tardi al nipote, il potente
cardinale Maffeo Barberini
(futuro papa Urbano VIII),
con l’obbligo, fra l’altro, di
usare per le decorazioni interne “belli marmi mischi”,
simili a quelli, preziosissimi, della vicina Cappella
Rucellai. La profusione dei
marmi è straordinaria per il
valore delle pietre usate e
per l’attento studio degli
effetti cromatici. Fra tutti
spiccano gli eccezionali lapislazzuli, le ametiste, gli
alabastri, il verde antico, il
marmo pario (usato nei
capitelli corinzi delle colonne).
Architetto della cappella è
stato Matteo da Castello
(autore anche della
Cappella Rucellai),
con l’aiuto di Francesco Rossi che, fin
dal 1603, s’impegnò con Maffeo
Barberini per il reperimento dei materiali lapidei presso le cave di Trento
e Verona. I documenti di archivio
ricordano, inoltre,
l’ingaggio degli eccellenti scalpellini
Bartolomeo Bassi e
Domenico Mar- La Chiesa di S. Andrea della Valle
chesi e il costo dei
no, rispettivamente, di Crilavori, circa 5800 scudi. La
stoforo Stati, Pietro Bernicappella era quasi del tutto
ni, Ambrogio Bonvicino e
completata nel 1616, quanFrancesco Mochi. Per il
do, nel giorno dell’Immabreve corridoio che collega
colata Concezione, fu inaula Cappella Barberini a
gurata e dedicata alla Verquella Rucellai, Gian Logine Assunta.
renzo Bernini eseguì i busti
La cappella (a pianta retdei genitori di Maffeo e
tangolare con due corte
Carlo: Antonio Barberini e
braccia laterali) è sormonCamilla Barbadori, poi ritata da una cupola elittica.
mossi e sostituiti da due
A sinistra, un arco introdumedaglioni in porfido, con
ce nella cappellina dedicai profili dei defunti, eseguita a San Sebastiano: un picti da Tommaso Fedeli negli
colo vano al cui interno si
anni 1626-1627.
trovano due sculture raffiNella Cappella Barberini, il
guranti Monsignor Francepiccolo arco che apre la pasco Barberini seduto sulla
rete sinistra introduce nella
tomba (post 1613) di Cricappellina di San Sebastiastoforo Stati e Carlo Barbeno e cela un segreto: attrarini (1675) di Giuseppe
verso una scala a chioccioGiorgetti e un dipinto del
la era possibile l’accesso
Passignano raffigurante S.
(murato nel 1612 per ragioSebastiano ritrovato nella
ni di sicurezza) ai resti delcloaca Massima (1613). Per
l’antica chiesetta di San Sel’esecuzione dei dipinti che
bastiano, costruita a ricorcelebrano il dogma della
do del ritrovamento nella
Verginità della Madonna
Cloaca Massima sottostan(Nascita della Vergine, Ante del corpo del famoso
nunciazione, Visitazione,
martire da parte della maPurificazione della Vergitrona romana Lucina. Di
ne) e – nella cupola – le sue
tale “mistero” restava anVirtù (la Fede, l’Umiltà, la
cora vivissima memoria
Carità e la Verginità), nonnei documenti ottocenteché
l’Assunzione
schi di Sant’Andrea della
(1613/1615, pala dell’altaValle. Inoltre, lo spazio lire), Maffeo Barberini scelse
mitatissimo della cappelliil pittore toscano Domenina rende difficile l’accesso
co Cresti detto il Passignaanche ad una sola persona,
no. Il programma iconorendendola praticamente
grafico era stato approntainvisibile. Un nascondiglio
to dal padre gesuita Sfetoideale per un fuggiasco.
nio, famoso professore di
Chissà che non sia stata
retorica e drammaturgo
proprio questa intrigante
del Collegio Romano, presparticolarità dell’articolaso cui Maffeo e Carlo Barzione architettonica ad esberini avevano studiato.
sere notata da Sardou per il
Nella zona centrale della
nascondiglio di Angelotti?
cappella, addossate alle
pareti, le sculture con S.
Giovanni Evangelista, S.
Giovanni Battista, S. Maria
Maddalena e S. Marta so-
Alba Costamagna
Soprintendenza Beni
Artistici di Roma
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
D
13
L'ambientazione del 2° atto: Palazzo Farnese
Il lussuoso scenario di una vendetta
urante la costruzione il
colossale maniero sembrò il simbolo dell’eccesso e dello spreco. Rimase famosa una burla : era stata messa
sotto la statua “parlante” del
Pasquino una cassetta per raccogliere elemosine da destinare
ironicamente al palazzone, come se i soldi non bastassero
mai! E realmente la fabbrica
progettata da Antonio da Sangallo , fin dai primi anni del
Cinquecento, crebbe a dismisura in corso d’opera, mentre anche la piazza antistante prendeva la forma di gigantesco atrio
che tutt’ora conserva.
Morto il Sangallo poco prima
della metà del secolo, arrivò
l’incarico a Michelangelo Buonarroti per il famoso cornicione,
che spicca con una incombenza
straordinaria, e per certi lavori
interni .
Ma l’edificazione durerà ancora a lungo fino a che compare
un altro sommo architetto di
quei tempi, il Vignola, che mette a punto la facciata posteriore
e “chiude” letteralmente la storia. Finalmente il palazzo assume quell’aspetto di fortezza
dentro la città che ne farà un
modello destinato a durare per
secoli . E lo si nota oggi più che
mai, dopo il restauro della facciata sulla Piazza Farnese da cui
è emerso un paramento stranissimo e inatteso con quegli strani
disegni sulla muratura, quasi
dei giochi al caleidoscopio o immagini ispirate a un fantastico
tappeto orientale il cui senso
profondo sfugge. Un effetto, comunque, di leggerezza e grazia
che contrasta non poco con
quell’aria severa che ha sempre
fatto vedere il Palazzo Farnese
come immagine per antonoma-
sia del potere politico sovrastante il contesto della città,
enorme UFO calato su un insieme di vicoli e vicoletti , di piccole piazze, di passaggi misteriosi e slarghi improvvisi.
Palazzo Farnese è il Colosseo
dei tempi moderni. Un blocco
catafratto e chiuso dentro il quale si può immaginare accada di
tutto. Visto dal di fuori, cosa potrebbe contenere? Un tribunale
implacabile? Un giardino delle
delizie e delle trasgressioni?
Una raccolta smisurata e inquietante di opere d’arte?
Queste ultime certamente si,
in coerenza con l’atteggiamento
tipico di casa Farnese, del resto
necessario perché i Farnese erano, in qualche modo, una nobiltà nuova. Venivano da una
stirpe di condottieri che aveva
costruito le sue fortune sul
campo di battaglia e con le armi
in mano. La storia del loro Papa,
Paolo III, era destinata a restare
negli annali delle più aspre lotte
di potere combattute nel sedicesimo secolo, tra aggressione
protestante e rigenerazione cattolica.
Mentre il Palazzo era in costruzione erano già cominciati
gli affreschi dell’allievo di Michelangelo, Daniele da Volterra
nelle stanze al primo piano, con
opere mitologiche di finissima
qualità, troppo presto dimenticate. Ma, soprattutto, era stata
decorata la sala centrale al Piano nobile, quella che si vede
dalla Piazza al di là del balcone.
Francesco Salviati fiorentino,
uno dei più grandi pittori del
tempo, vi aveva dipinto le imprese belliche dei comandanti
farnesiani
consolidando un
‘idea dell’arte figurativa quale
arte della guerra, da paragonare
direttamente con le colonne istoriate degli antichi romani.
Salviati non riuscì
compiere il suo lavoro.
Sopravvenne la morte e
il Salone fu completato
dai fratelli Taddeo e Federico Zuccari pochi anni dopo.
Intanto il Palazzo si
riempiva di opere d’arte
antiche e moderne e di
una insigne biblioteca,
per soddisfare le esigenze di un collezionismo
ambiziosissimo. Poi le
collezioni farnesiane sono andate disperse e
quasi più nulla resta lì.
Molto e’finito a Napoli,
al Museo di Capodimonte e al
Museo Archeologico. Ma chi
fosse entrato in Palazzo Farnese
verso la fine del Cinquecento
avrebbe visto cose meravigliose.
Quadri magistrali, da Raffaello
a Tiziano, sculture sbalorditive
come il rinomato Ercole in riposo o il gruppo noto proprio con
il nome “Toro Farnese”, nonché
una raccolta eccezionale di medaglie e cammei.
La grande stagione di Palazzo
Farnese culmina nel passaggio
tra Cinquecento e Seicento. Il
grande padrone è adesso il cardinale Odorado ed è lui a chiamare a Roma Annibale e Agostino Carracci per il cosidetto
“Camerino” e la Galleria. Qui
Annibale, quasi in concomitanza con il Giubileo dell’anno
1600, compone una stupenda
decorazione profana che rappresenta, in buona sostanza, gli
amori degli dei dell’Olimpo
greco, con al centro della volta
la raffigurazione del Trionfo di
Bacco e Arianna, una delle opere d’arte più esaltate e imitate
forse di tutti i tempi. Così veniva rovesciata, nello stesso Palazzo e su committenza della stessa
famiglia l’idea dell’arte della
guerra. A distanza di pochi metri era fissato e sviscerato una
volta per tutte uno dei grandi
temi della cultura occidentale, il
contrasto insanabile e sempre
risorgente, tra il fare la guerra o
il fare l’amore, e per mano di alcuni tra i più insigni pittori attivi nella fase della crisi del Rinascimento .
Raggiunto il suo culmine di
bellezza e splendori, il Palazzo
dopo la morte del cardinale
Odoardo nel 1626 cominciò a
declinare. Già alla fine del seco-
lo diciassettesimo molte opere
d’arte venivano inviate a Parma, anche se nel Palazzo continuarono a soggiornare illustri
ospiti tra cui la Regina Cristina
di Svezia. E nel Seicento la storia di Palazzo Farnese comincia
a intrecciarsi in maniera forte
con la storia di Francia. Molti
grandi dignitari francesi vi risiedettero tra cui Alphonse de Richelieu e il duca di Créquy. Comunque rimase in mano alla famiglia Farnese fino all’estinzione che giunse nel 1731, quando i
beni farnesiani passarono tutti
in mano al figlio di Filippo V e
Elisabetta Farnese, don Carlo e
per mezzo di lui ai Borboni di
Napoli. E immediatamente un
cospicuo gruppo di opere d’arte
farnesiane fu trasferito a Napoli
per il Real Museo Borbonico.
Da quel momento il Palazzo
Farnese conobbe una vera e propria agonia da cui si riprese solo nel 1874, quando fu affittato
all’Ambasciata di Francia che
tutt’ora lo detiene curandolo
con impegno continuo .
Bisogna immaginarlo come si
presentava al cadere dell’Ottocento, ancora in mano borbonica e poi subito dopo, con le sale
immense, freddissime e male illuminate, con gli affreschi, totalmente disprezzati perché a diverso titolo ritenuti opere degenerate, o di morboso erotismo o
di asfittico manierismo, gravido
di un passato irrecuperabile ma
latente, dove sarebbe potuta
sembrare connaturata alla struttura stessa delle murature l’idea
di un potere che gronda lacrime
e sangue ma è, nello stesso tempo, ripieno di ansie di bellezza e
inconfessabili desideri.
Claudio Strinati
Tosca
14
S
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L'ambientazione del 3° atto: Castel Sant'Angelo
Quei merli antichi da cui Floria non si gettò
ul terrazzo di Castel S.
Angelo la scena si ripete ogni giorno. Gruppi
di visitatori con lo sguardo
curioso alla ricerca del punto preciso in cui Floria Tosca si sarebbe gettata nel
vuoto. Tanta è la fama mondiale del personaggio nato
dalla penna di Sardou, che
alcuni rifiutano l’idea di Tosca mai esistita come personaggio storico.
Vero è, invece, che alcuni
ambienti del Castello vennero nei secoli utilizzati come terribili prigioni dove il
condannato veniva lasciato
morire di fame. I due arcosoli ai lati della sala delle
urne, ad esempio, almeno
dal primo Quattrocento venivano usati come prigioni
(dette “le gemelle”) e qui,
per pochi giorni, ci fu imprigionato anche Benvenuto
Cellini.
Il sepolcro dell’imperatore
La storia del Castello però è
molto più antica. Inizia con
l’imperatore Publio Elio
Adriano (117-138) che volle
realizzata per lui e per la
sua discendenza una gigantesca tomba sulla riva destra del Tevere. Nell’Adrianeo la successione degli elementi architettonici era essenziale: un basamento quadrangolare, da cui spiccava
il colossale cilindro nel cui
centro s’innalzava a sua
volta un cilindro di diametro inferiore, sul quale era
posizionata la quadriga
bronzea condotta da una
statua di Adriano in figura
di Sole.
Il sepolcro, forse non interamente completato, fu aperto
nel 139, allorché un anno
dopo la sua morte vi veniva
deposto Adriano. E’ difficile
affermare quanti altri imperatori e personaggi imperiali appartenenti alla dinastia
(vera o presunta) di Adriano varcarono quella soglia
per esservi sepolti nella vasta cella funeraria posta al
centro del grande cilindro,
forse una quindicina, sembra certo, che l’ultimo ad esservi collocato fu l’imperatore Caracalla, ucciso nel
217. Successivamente, infatti, il mausoleo perse la sua
funzione sepolcrale.
La trasformazione
in fortezza
Nell’anno 271 l’imperatore
Aureliano volle edificare
una cinta muraria attorno alla città lunga ben 19 chilometri per difendere Roma
minacciata dai barbari. Un
sistema difensivo che previde anche l’utilizzazione della tomba di Adriano, opportunamente adattata. La trasformazione del mausoleo in
fortezza comportò implicazioni architettoniche e tattico-strategiche che si estesero
anche alla zona di Borgo.
Con il passare dei secoli, la
successiva presenza dei pontefici nella fortezza (che non
di rado vi dimorarono, pur
se in momenti tragici), imponeva la realizzazione di ambienti confortevoli e di rappresentanza. E’ per questo
che vi troviamo l’appartamento di Nicolò V (1447-55),
rinnovato da Clemente VIII
(1592-1605) con, ad esempio,
il grande salone detto “di
Apollo”, dalle storie del dio
affrescate sulle pareti, nel
fondo del quale è collocata la
San Michele ripone la spada
per la fine della peste
N
el 590 si scatenò a Roma una terribile epidemia di peste che gli abitanti della città
interpretarono come una punizione di Dio per i loro peccati. Il papa Gregorio Magno ordinò che, in segno di espiazione, venisse organizzata una grande processione. Il corteo era aperto da una immagine della Madonna, che sarebbe stata dipinta da
San Luca, dietro la quale procedevano devotamente e cantando litanie il Papa, i Cardinali ed il popolo romano. A mano a mano che l’immagine della Madonna avanzava, l’aria
– dice la tradizione - si liberò miracolosamente dalla infezione della malattia. Quando la
processione arrivò in vista del mausoleo di Adriano, il Papa vide l’Arcangelo Michele posarsi sulla sommità del monumento e riporre la spada nel fodero: questo gesto simbolico
esprimeva il perdono di Dio e quindi la fine del flagello.
In segno di riconoscenza ed al fine di ricordare l’episodio miracoloso, papa Gregorio decise di far realizzare una statua raffigurante l’Arcangelo Michele da collocarsi sopra il
vecchio mausoleo al quale da questo momento venne dato il nome Castel Sant’Angelo.
La statua in bronzo che ancora oggi domina la mole non è tuttavia quella originaria, ma
l’ultima di una serie che nel corso dei secoli andarono distrutte o furono semplicemente
sostituite. L’angelo di bronzo attuale, alto quattro metri con un’apertura di ali di cinque
metri, è stato eseguito da uno scultore fiammingo, Pieter Antoon Verschaffelt, a metà del
Settecento. L’artista raffigurò San Michele come un giovane guerriero vestito della lorica,
ossia una corazza leggera e porta i calzari. Con la mano sinistra l’angelo regge il fodero,
mentre il braccio destro è sollevato sopra la testa per sottolineare il gesto del perdono. La
statua fu inagurata il 1 luglio 1752, all’indomani della festa di Pietro e Paolo protettori di
Roma, da papa Benedetto XIV. Quella sera, per festeggiare l’avvenimento, fu organizzata una girandola di fuochi d’artificio e, come già accaduto in altre solenni occasioni, il Castello fu avvolto dai bagliori colorati che facevano risplendere la superficie ancora lucente dell’angelo di bronzo appena fuso.
R. L.
cappella di Leone X.
Questo appartamento fu abitato dai papi per un centinaio d’anni, fino a quando
cioè Paolo III (1534-49) costruì la nuova grandiosa dimora al piano superiore. Gli
affreschi della sala Paolina,
del Perseo, di Amore e Psiche vennero realizzati da Perin del Vaga, cui successe nel
1547, alla morte del maestro,
Domenico Rietti detto Zaga.
Estremamente interessante è
il bagno di Clemente VII de’
Medici (1523-34) al quale i
pontefici, mediante una
rampa di pochi gradini salivano dall’appartamento.
Questo bagno, con acqua riscaldata da un canale sotto il
pavimento – una vera rarità
per l’epoca - fu progettato
da Bramante per Giulio II
nel 1504.
Altra sala importante è quella della Biblioteca, i cui affreschi e stucchi, affidati a Luzio Luzi da Todi furono eseguiti nel 1544-45, con scene
delle origini di Roma, della
vita di Adriano e allegorie
della Chiesa e di Roma. Attigua alla sala della Biblioteca
è la sala detta del Tesoro in
quanto qui erano conservati
in sacchetti i denari, poi sistemati in grandi forzieri, e
gli oggetti particolarmente
preziosi che costituivano le
riserve della Camera Apostolica. Da queste sale una
stretta rampa elicoidale conduce nuovamente al terrazzo dove è stata ambientata la
storia di Tosca. Nei documenti sei-settecenteschi questo terrazzo è detto “delli
trofei” o anche “delle corazze”: nome che gli deriva non
da protezioni cavalleresche,
ma da quelle armature in
muratura che tuttora vediamo sull’orlo anteriore, ma
che, come elemento decorativo, appaiono raffigurate
già in alcuni disegni del tardo Quattrocento. A partire
dalla metà del Cinquecento,
su questo terrazzo venivano
sistemate le botti con la polvere pirica per le celeberrime girandole dei fuochi artificiali. Girandole che, con i
loro scoppi, provocavano
ogni volta gravi danni e in
particolare ai mirabili stucchi ed affreschi dei saloni
sottostanti.
Roberto Luciani
Il
Tosca
Giornale dei Grandi Eventi
Dal 27 al 30 agosto al Gran Teatro di Torre del Lago
I
La Tosca di Dalla nel
tempio pucciniano
l paragone tra la Tosca di Lucio Dalla e
la versione originale
è d’obbligo, ma guai a
parlare di “rinnovamento”. Per il cantautore bolognese «c’è soltanto più libertà rispetto al testo del grande Puccini».
Ma nonostante questo
per la prima volta l’opera del cantautore bolognese entra in due di
quelli che sono considerati dei veri templi del
melodramma.
Così Tosca Amore Disperato sarà rappresentata
dal 27 al 30 agosto al
Gran Teatro Giacomo
Puccini di Torre del Lago, in provincia di Lucca e il 12 settembre all’Arena di Verona.
Un’opera colossale, con
impianti di riproduzione sonora ultramoderni
e proiezioni multimediali spettacolari. Un lavoro che, in comune con
la Tosca di Puccini, «ha il
fatto di essere un capolavoro», come ammette lo
stesso Dalla. «Il vantag-
L
gio è che non serve la conoscenza », aggiunge. E
ricorda un aneddoto
che lo vede protagonista nei panni di docente
di tecniche pubblicitarie
all’università di Urbino:
«Ho chiesto ai miei studenti se conoscevano la
Tosca e mi hanno guardato smarriti, come se avessi
chiesto chissà che cosa…».
Da qui l’intento della
sua rivisitazione: «C’è
bisogno di un nuovo pubblico, perché quello del
melodramma è destinato a
scomparire». Il suo auspicio è che la magia
della musica e dell’opera popolare contagi i
più giovani, altrimenti
sarà impossibile far sopravvivere il melodramma. «I ragazzi precisa - devono essere
avvicinati a un contesto
contemporaneo; i libretti
per quei tempi erano
straordinari, ma il linguaggio è cambiato».
La Tosca di Dalla è stata
messa in scena per la
prima volta nel settem-
bre del 2004 ed è stata
anche
rappresentata,
per quasi un mese, al
Festival di Klagenfurt,
davanti a 150mila spettatori. La novità di quest’anno è l’orchestra.
Prima, invece, i cantanti
si esibivano dal vivo su
una base musicale registrata. «Così l’opera è davvero completa», conclude
Dalla con soddisfazione.
«Ho voluto realizzarla,
perché sono un grande appassionato di Puccini».
Un capolavoro coronato
da un cast d’eccezione
che vede tra i protagonisti alcuni artisti reduci dallo spettacolo che
ha aperto la strada a
questo genere a cavallo
tra opera e musical, Notre Dame de Paris di Cocciante.
Tra gli interpreti figurano Vittorio Matteucci
nel ruolo di Scarpia,
Graziano Galatone in
quello di Cavaradossi e
Rosalia Misseri nelle vesti di Tosca.
Fi. Le.
Novità in libreria
L’universo operistico di Puccini
e celebrazioni per il centenario di
un artista sono in genere affollate
(soprattutto quando l’autore è
quanto mai popolare) anche da iniziative di scarso
valore artistico e d’immediata visibilità popolare.
Nel “mucchio”, tuttavia,
si ritrova spesso anche
qualcosa di interessante
e, soprattutto, di duraturo. Nel caso delle recenti
celebrazioni pucciniane,
dalla selva di pubblicazioni che hanno animato
il 2008, emerge per serietà
e fascino di scrittura il libro pubblicato da Alberto
Cantù per i tipi della varesina Zecchini Editore,
“L’universo di Puccini,
da Le Villi a Turandot”, con una prefazione di Simonetta Puccini e un contributo (limitato a La Rondine) di Alfredo
Mandelli.
Cantù, musicologo genovese da anni
trasferitosi a Milano, coltiva da sempre
alcune passioni musicali, perseguite e
approfondite con lucido rigore: Paganini e Puccini sono, crediamo, i suoi amori principali. E questo libro per Zecchini ne è una
dimostrazione.
Cantù
struttura il suo studio in
dieci capitoli che costituiscono altrettanti saggi,
ognuno dedicato a un titolo della produzione
pucciniana. Ogni saggio
offre un lucido commento sulla genesi e sull’analisi del libretto e dello
spartito, in una scrittura
controllata e certamente
specialistica ma di immediato impatto comunicativo. Un bel libro, insomma, da raccomandare
nella biblioteca di qualsiasi melomane,
e non solo.
Alberto Cantù - L’Universo di Puccini da Le
Villi a Turandot - 2008 - Pag. 225 - € 20,00.
R. I.
Prosegue da pag 3
no e con i quali amava
confrontarsi. Parlandoci, non mancava mai
qualche suo gustoso
aneddoto condito della
inconfondibile, leggera
cadenza toscana (anche
se era nato ad Alessandria, aveva vissuto a
lungo a Siena), o qualche battuta sagace e
pungente come è proprio della gente di quella terra. Ne usciva una
conversazione nella quale
l’interlocutore rimaneva
affabulato, trovandosi coinvolto in
un labirinto di interdisciplinarità, sempre
con
una semplicità di
linguaggio, che alla fine
divenivano delle vere
lezioni di ironia.
Ma le sue grandi passioni sono sempre state
il cinema, il futurismo
ed il teatro. Fu il primo
in Italia ad interessarsi
alla storia della settima
arte, iniziando negli anni 50 la propria carriera
con corsi liberi di “Filmologia”, prendendo
poi nel 1965 la prima
cattedra di storia e critica del film. In precedenza si era dedicato al
giornalismo come critico della redazione senese de La nazione. E
proprio la vita senese
era rimasta sempre nel
suo cuore, come l’attaccamento alla contrada
della Selva, tanto da essere insignito nel 1966
del famoso premio “Il
Mangia d’Oro”, massimo riconoscimento che
Siena attribuisce ai suoi
figli. Roberto Rossellini, quando fu nominato
presidente del Centro
Sperimentale di Cinematografia lo chiamò
come direttore. Il cinema ha cosi accompagnato tutta la sua esistenza ed anche quella
dell’intera
famiglia,
con i figli Carlo attore e
Luca raffinato regista e
15
documentarista, ma anche con la figlia Silvia
che ha sposato Christian De Sica, figlio del
grande Vittorio, suo caro amico come Anton
Giulio Bragaglia.
C’è poi il Futurismo,
una corrente artistica e
di pensiero da lui vissuta – è il caso di dirlo –
con “dinamismo”. Soprattutto la pittura fu la
sua grande passione,
che
lo
portò a
confrontarsi con
diversi
artisti, a
scrivere
alcuni libri ed a
mettere
insieme
una bella
raccolta
di opere.
C’è infine
il teatro e
soprattutto la lirica, suo grande amore. Spesso veniva all’Opera con Sofia
Corradi,
compagna
dell’ultima parte della
sua vita e con il direttore di sala Franco Lippiello cercavamo di
trovargli i posti migliori. Continuava a studiare, a voler conoscere le
voci nuove, i titoli in
cartellone anche meno
di cassetta, gli allestimenti più diversi. Una
volta parlando nell’intervallo, mi raccontò
che anche lui aveva
scritto tre operine buffe, le quali erano state
rappresentate
con
grande successo in Ungheria, Paese che ama
l’opera. Non le ho mai
lette, ma conoscendo il
personaggio sono convinto che si presenteranno molto gustose.
Mi sarebbe piaciuto
proporle all’Opera per
essere rappresentate in
“Patria”, ma per una
serie di circostanze
non c’è stato il tempo.
Chissà che un giorno
l’ironia di Mario non
possa risuonare tra i
velluti del Costanzi,
con allegre risate di
pubblico, aspetto che
avrebbe più gradito.
Andrea Marini
Festival Internazionale della Filatelia ITALIA 2009.
Tutti i francobolli del mondo
in un solo spazio. A Roma.
Con Italia 2009, Roma diventa la capitale
mondiale del francobollo. La grande esposizione
internazionale sbarca nella città eterna per
cinque intensi giorni dedicati alla filatelia.
Protagoniste le migliori collezioni d’Europa,
dei Paesi del bacino del Mediterraneo, nonché
di Canada, Stati Uniti d’America, Argentina,
Sudafrica e Australia. Non perdete
l’appuntamento con la storia del francobollo.
www.italia2009.it
Roma - Palazzo dei Congressi
21-25 ottobre 2009
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