UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO -BICOCCA
A.A. 2015-2016
DISPENSE DI LINGUISTICA ITALIANA (A-L, M-Z)
SOMMARIO
1. L’ITALIANO DI OGGI . STANDARD E NEOSTANDARD
1.1. L’ITALIANO STANDARD
1.2. ITALIANO DELL ’USO MEDIO O NEOSTANDARD
2. IL LESSICO DELL ’ITALIANO CONTEMPORANEO
2.1. OSSERVAZIONI GENERALI
2.2. I PRESTITI
2.3. I CALCHI
2.4. I PROCESSI DI NEOFORMAZIONE : LA DERIVAZIONE
2.5. I PROCESSI DI NEOFORMAZIONE : LA COMPOSIZIONE
2.6. LE UNITÀ LESSICALI SUPERIORI
3. LE VARIETÀ DELL ’ITALIANO
3.1. LA VARIAZIONE DIAMESICA
3.1.1. OSSERVAZIONI GENERALI
3.1.2. DIFFERENZE TRA SCRITTO E PARLATO
3.2. La vARIAZIONE DIATOPICA
3.2.1. LINGUA E DIALETTI
3.2.2. CARATTERI DELLA VARIAZIONE DIATOPICA
3.2.3. LE MINORANZE ALLOGLOTTE
3.3. LA VARIAZIONE DIASTRATICA
3.4. LA VARIAZIONE DIAFASICA
3.4.1. SOTTOCODICI E LINGUE SPECIALI
3.4.2. I LINGUAGGI TECNICO -SCIENTIFICI
1
1. L’ITALIANO DI OGGI . STANDARD E NEOSTANDARD
Queste dispense si propongono di illustrare alcune delle strutture linguistiche fondamentali
delle principali varietà dell’italiano contemporaneo.
La prospettiva adottata è quella della sociolinguistica, che in linea generale si occupa delle
relazioni che intercorrono tra il sistema lingua e gli elementi del contesto extralinguistico.
Per molti secoli l’italiano è stato una lingua utilizzata fondamentalmente se non
esclusivamente nella comunicazione scritta. Possiamo dire che una delle maggiori conquiste,
e certo tra le più lunghe e difficili e comunque tuttora in atto, ottenute grazie all’unità d’Italia
è stata quella di far parlare gli italiani con un’unica lingua. Questa lingua in realtà non è una
lingua sola, nel senso che il panorama linguistico italiano, non diversamente da quello di altre
lingue, è dominato da una condizione di variabilità che ha portato e porta al formarsi di
diverse varietà di lingua.
Prima di affrontare i problemi legati alla variazione linguistica è opportuno ricordare le
principali ragioni non specificamente linguistiche, non cioè intralinguistiche, che hanno
favorito la diffusione dell’italiano come lingua parlata (cfr. su questo De Mauro 1970; si veda
anche il cap. 1 del libro della Lo Duca):
- la diffusione della burocrazia (e dell’italiano burocratico) attraverso il decentramento
amministrativo;
- la deruralizzazione e conseguente urbanizzazione progressiva del Paese;
- l’aumento della scolarizzazione;
- la leva militare obbligatoria;
- la nascita, lo sviluppo e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa.
Il processo che ha condotto al passaggio dell’italiano da lingua fondamentalmente scritta a
lingua parlata (e certo anche scritta) da una percentuale sempre maggiore di popolazione non
poteva non avere conseguenze sul modello di lingua che si era andato costituendo nel corso
dei secoli. Nel giro di pochi decenni si è infatti passati da una situazione di diffuso
monolinguismo dialettale con una ridotta percentuale di bilingui (italiano-dialetto) ad un
diffuso bilinguismo, con una progressiva ampia percentuale di monolingui (a scapito
evidentemente del dialetto).
L’italiano cioè è via via diventato la lingua della socializzazione primaria e la lingua d’uso
di una larga parte della popolazione. Nel processo di acquisizione della lingua nazionale tutti
2
gli apprendenti hanno così dovuto confrontarsi in varia misura con il cosiddetto Italiano
standard.
La nozione di standard è stata variamente discussa dagli studiosi, non solo italiani.
Possiamo tenere presente il fatto che il concetto di standard ha a che fare con il concetto di
modello, di lingua di riferimento per una determinata comunità di parlanti.
In questo senso la lingua standard sembra disporre di una serie di requisiti o valori che
possono essere indicati seguendo le indicazioni di Berruto:
un primo possibile valore della nozione di standard equivale a quello di “neutro”, non marcato
su nessuna delle dimensioni di variazione; un secondo valore è quello di normativo, codificato
dai manuali e dalla tradizione scolastica, accettato come corretto e “buona lingua”; un ulteriore
possibile valore, semplificando molto, è quello di normale (per i parlanti colti), statisticamente
più diffuso. 1
Possiamo a questo punto definire l’italiano standard come la varietà di lingua, posseduta
soprattutto dalle persone colte, che viene assunta, anche implicitamente, come modello
da tutti i parlanti e gli scriventi, è prescritta come esemplare nell’insegnamento ed è
descritta e disciplinata da dizionari e grammatiche.
Per il fatto di avere un notevole prestigio, l’italiano standard è altresì tradizionalmente
riservato agli usi scritti più nobili e formali, come quello intellettuale, scientifico, letterario e
burocratico.
1.1. ITALIANO DELL ’USO MEDIO O NEOSTANDARD :
Il contesto di partenza può essere sintetizzato con le parole di Berruto:
Nello sviluppo recente dell’italiano, è indubbio che si sono affermati, o si vanno
affermando, o ci sono sintomi che comincino ad affermarsi, come standard costrutti forme
e realizzazioni che non erano presentate nel canone ammesso dalle grammatiche e dai
manuali, o che, quando vi erano menzionate, lo venivano quali costrutti, forme e
realizzazioni del linguaggio popolare o familiare o volgare, oppure regionali, e quindi da
1
Gaetano Berruto, Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La
variazione e gli usi, a cura di Alberto A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 37-92, qui p. 84.
3
evitare nel ben parlare e scrivere. È a questo insieme di fatti che qui diamo il nome di neostandard. 2
Se le dinamiche indicate da Berruto per inquadrare il processo di mutamento a cui è
soggetto l’italiano contemporaneo trovano sostanzialmente d’accordo la maggior parte dei
linguisti, una più articolata discussione si nota in merito alla valutazione complessiva del
fenomeno e anche al nome da adottare per lo stesso.
Francesco Sabatini ad esempio, che per primo ha individuato tale tipologia di variazioni,
preferisce la denominazione di «italiano dell’uso medio parlato e scritto» e considera questa
nuova varietà come destinata ad «occupare […] il baricentro dell’intero sistema linguistico
italiano» (ivi, 175).
Vale la pena, prima di passare alla fase descrittiva, ricordare alcune considerazioni dello
stesso Sabatini, che aggancia questi fenomeni alla centralità che il parlato ha assunto nello
sviluppo dell’italiano contemporaneo:
i processi in corso nella situazione linguistica italiana hanno ormai portato alla diffusione e
all’accettazione, nell’uso parlato e scritto di media formalità, di un tipo di lingua che si
differenzia dallo “standard” ufficiale più che per i tratti
propriamente regionali (via via
sottoposti anche a conguagli), soprattutto perché è decisamente ricettivo dei tratti generali del
parlato. 3
Vediamo ora una serie di fenomeni caratteristici dell’italiano neo-standard o dell’uso
medio. L’elenco rappresenta una selezione di tratti desunta incrociando quelli individuati da
Sabatini e Berruto:
1. FONOMORFOLOGIA .
1.1. assenza di distinzione e pertanto neutralizzazione dell’opposizione tra vocali
aperte e chiuse nei parlanti non toscani;
1.2. assenza di distinzione tra s sorda ([s]) e sonora ([z]) in posizione intervocalica
secondo la norma toscana. Nel settentrione la pronuncia è sempre sonora, a Roma e al
Sud sempre sorda;
1.3. forte diminusione nell’uso scritto di elisione e troncamento.
2
Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987, p. 62.
Francesco Sabatini, L’“italiano dell’uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Holtus G.Radtke E. (Hrsg.), Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, Narr, Tübingen, pp. 154-84.
3
4
2. MORFOLOGIA E MORFOSINTASSI .
2.1. Ristrutturazione del sistema dei pronomi. In generale è in corso un processo di
semplificazione:
2.1.1. Pronomi personali soggetto: uso di lui, lei, loro in luogo di egli, ella,
essi/e, ossia con funzioni di soggetto e non solo di complemento oggetto (come
invece nello standard). La disponibilità a ricoprire anche le funzioni di soggetto
di lui, lei, loro si nota nel parlato (non solo informale), ma anche nell’uso scritto
di media formalità. Si tenga presente che l’uso di lui e lei come soggetto era vivo
già nel Quattrocento (Bembo, Prose della volgar lingua,
III
16, nota questo fatto
e lo censura). La sostituzione di egli/ella con lui/lei avviene dunque in un lungo
corso del tempo, dopo un periodo di convivenza delle due forme in cui però
egli/ella occupa comunque il registro più alto e lui/lei quello più basso. Va
considerato inoltre che il sistema si struttura con due opzioni che possono
sostituire egli/ella: da un lato lui/lei (pronomi che mantengono pur sempre un
valore marcato, di cambiamento del tema rispetto alla frase precedente),
dall’altro l’assenza del pronome (o pronome zero: Ø). La scelta è marcata sul
piano diafasico, nel senso che lui tonico appare accanto a Ø nel parlato mentre
nello scritto di registro alto di solito il soggetto non è esplicitato attraverso il
pronome (si ha cioè pronome zero, o si ricorre a perifrasi).
Secondo Renzi (2012) dunque «l’introduzione di lui soggetto in it. mod. è stata
sì una semplificazione da un lato, in quanto ha eliminato l’opposizione tra forma
diretta e obliqua a favore di una sola forma, ma dall’altro ha introdotto una
nuova distinzione: quella tra lui e Ø nel pronome soggetto».
2.1.2. Pronomi clitici: uso della forma dativale gli per il femminile le (gli ho
dato = ‘ho dato a lei’) e per il plurale loro (gli ho dato = ‘ho dato loro’).
2.1.3. La particella pronominale ci ha ormai sostituito nella lingua parlata vi, che
resiste in parte soltanto nello scritto;
2.2. Questioni relative a ci e vi.
2.2.1. Ci: in molti verbi non appare più come un elemento esterno, ma come
componente di una unità lessicale nuova (averci, volerci), anche se formalmente
mantiene libertà di movimento. Più in generale la particelle ci e ne in unione con
altri clitici sono frequenti in verbi pronominali come andarsene, farcela,
starsene ecc. Come tutte le forme obbligate ad alta frequenza d’uso, i pronomi
5
clitici in questi casi stanno perdendo il loro valore semantico, si stanno cioè
grammaticalizzando: diventano dal punto di vista della funzione delle mere parti
di parola, anche se formalmente si comportano ancora come morfemi liberi (nel
senso che si dice me ne sto, non *stommene);
2.2.2. Notevole l’uso di ci in unione con il verbo avere, al punto che può essere
considerata in tutto e per tutto una unità lessicale distinta (averci, c’ho).
Frequentissima nel parlato, una forma come c’ho stenta a entrare nell’uso scritto
per difficoltà legate al sistema di trascrizione grafica (resa della c palatale,
elisione, la h del verbo motivata da mera convenzione). Le soluzioni possibili
sarebbero tre, ma tutte in vario modo insoddisfacenti: c’ho (in italiano c + o, a è
pronunciata velare), ciò (viola la morfologia non indicando graficamente i
singoli elementi), ci ho (invita a pronunciare la i di ci);
2.3. Sugli interrogativi.
2.3.1. Prevalenza del semplice cosa (in origine settentrionale) in luogo di che
cosa nelle interrogative. Il che interrogativo semplice, usato al Sud, a livello
panitaliano si è specializzato in diverse formule (“che dire?”, “che fare?”);
2.3.2. Che aggettivo interrogativo prevale su quale (“Che strada bisogna
prendere?” anziché “Quale strada bisogna prendere?”);
2.4. Concordanza a senso tra un nome collettivo soggetto e il predicato, coniugato al
plurale. Questa concordanza si ha più spesso quando il nome collettivo è seguito da un
partitivo costituito da un sostantivo al plurale (es.: “mi sono arrivati un sacco di
regali”). Si tratta di una soluzione ritenuta accettabile nel neostandard;
2.5. Sull’uso dei verbi.
2.5.1. Il presente indicativo sta soppiantando quasi completamente, almeno nel
parlato e in presenza di determinazioni temporali, il futuro semplice (“domani
vado all’università”, “quest’estate vado in Provenza”): è il cosiddetto ‘presente
pro futuro’;
2.5.2. Tendenza all’uso esclusivo del passato prossimo come realizzazione del
perfetto o passato remoto. Tra i perfetti, la scelta tra passato prossimo e passato
remoto è dettata sia dal grado di formalità del testo (cfr. variazione diafasica),
sia soprattutto dalla zona di provenienza del parlante (cfr. variazione
diatopica). Da parlanti colti settentrionali ad es., il p. remoto è usato solo in
contesti di registro alto, mentre nel parlato è pressochè unico l’uso del p.
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prossimo. La tendenza è destinata a radicalizzarsi, visto soprattutto il prestigio
sociale della variante settentrionale.
2.5.3. Frequenza dell’uso modale dell’imperfetto esprimente non fattualità o
controfattualità. L’imperfetto indica normalmente l’aspetto durativo, la natura
stativa, continuativa dell’azione: ma oltre a quest’uso canonico l’imperfetto ha
un possibile uso modale (il modo del verbo segnala l’atteggiamento del
locutore, parlante o scrivente, nei confronti del contenuto dell’enunciato:
certezza, comando, speranza, possibilità). Da notare che in questi casi il valore
temporale dell’imperfetto è sacrificato: non indica più un tempo passato, ma
una modalità dell’azione (imponendosi come forte concorrente soprattutto del
condizionale):
. imperfetto ipotetico: il caso più abituale è il doppio imperfetto per il
periodo ipotetico dell’irrealtà (“se venivi prima, riuscivi a entrare”), o anche
solo nella protasi (“se venivi prima, saresti riuscito a entrare”) o solo
nell’apodosi (“se tu fossi venuto prima, riuscivi a entrare”). È una
costruzione in origine tipica dei registri bassi e colloquiali, ma si sta
notevolmente diffondendo nella lingua parlata, anche tra parlanti colti;
. imperfetto potenziale: esprime una forma di supposizione (“non capisco
cos’è successo, doveva essere qui alle 8”);
. imperfetto ludico: relativo alla creazione di mondi possibili, come nei
giochi dei bambini (“[facciamo che] io ero la principessa e tu il principe
azzurro”);
. imperfetto di cortesia: molto frequente è l’uso attenuativo dell’imperfetto,
teso ad attenuare richieste (“volevo un chilo di mele”) o asserzioni (“volevo
discutere con te questo problema”);
. Imperfetto epistemico: richiama, in previsione del futuro, presupposti o
conoscenze precedenti (“andavano al cinema, ma hanno incontrato Mario”).
. Nel discorso indiretto, l’imperfetto è utilizzato spesso per indicare il futuro
nel passato (“mi ha detto che veniva” = “mi ha detto che sarebbe venuto”).
2.5.4. Tendenziale calo dell’uso del congiuntivo nelle subordinate. Non tutti gli
studiosi sono d’accordo sulla reale portata di questo calo, soprattutto
nell’italiano scritto. Nell’italiano parlato invece – nel parlato semiformale – c’è
una decisa tendenza a sostituire nelle frasi dipendenti il congiuntivo con
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l’indicativo. La sostituzione è avvertita come più accettabile nelle frasi in cui
viene espressa una certezza (“Sono certo che Giorgio è [sia] arrivato in
tempo”), rispetto a quelle dove il congiuntivo segna una marca di eventualità
(“Mi sembra che tu stia eludendo la mia domanda” vs “Mi sembra che tu stai
eludendo la mia domanda”). La tendenza è maggiore tanto più il parlato è di
livello informale, e tanto meno i parlanti sono colti.
2.5.6. Ampia diffusione del si passivante (“di questo si è parlato abbastanza”),
utilizzato spesso per la diatesi passiva, la quale del resto è in grande calo.
2.5.7. Tra le forme perifrastiche è particolarmente diffusa ‘stare + gerundio’,
che esprime aspetto progressivo (“sto arrivando”, “sto aspettando l’autobus”).
Questa struttura è sempre esistita in italiano, ma è oggi fortemente incoraggiata
dall’analogia con il presente durativo in -ing dell’inglese (“I’m cooking a fish”
= “sto cucinando un pesce”). Si pensi a come “sto arrivando” stia soppiantando
una forma come “arrivo”, o “arrivo subito”, un tempo più diffusa.
3. SINTASSI .
3.1. Sintassi del periodo o macrosintassi. Si nota una tendenza alla diminuzione delle
subordinate (cioè una tendenza alla paratassi) e l’abbondanza di periodi
monoproposizionali, spesso caratterizzati da frasi nominali (senza verbo);
3.2. Alta frequenza nell’italiano parlato del cosiddetto ‘che polivalente’, usato come:
3.2.1. subordinatore generico: il che serve per legare tra loro una reggente e
una dipendente nei casi in cui la lingua scritta o comunque più formale farebbe
uso di una congiunzione subordinante più specifica. Ess.: “vieni più tardi che
ora non posso” (che = perché); “sono arrivato che il treno era appena partito”
(che = quando);
3.2.2. sostituto di un pronome relativo (in caso) obliquo: nelle situazioni in cui
la lingua più formale farebbe uso di un pronome relativo: “Gianni è uno che ci
si può fidare” (che = di cui); “Roma è una città che ci andrei a vivere” (che = in
cui), “maledetto il giorno che ti ho incontrato” (che = in cui), “è quello che hai
conosciuto sua moglie” (che = di cui). Questi esempi hanno vari gradi di
accettabilità (in genere il più accettabile è il che sostituto di in cui con valore
temporale), e sono comunque da considerarsi tipici del parlato, e di quella
variante scritta che imita, volutamente o no, il parlato (quindi in certi romanzi,
o nello scritto semicolto).
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4. SINTASSI DELLA STRUTTURA INFORMATIVA .
Ogni periodo contiente un’informazione. Tuttavia un enunciato non si limita
semplicemente a trasmettere un contenuto informativo, bensì organizza questo stesso
contenuto, lo adatta in relazione al contesto nel quale è destinato a manifestarsi. Un enunciato:
(1) può qualificare una parte del suo contenuto semantico come già “conosciuto”
dall’interlocutore, il che può anche essere inteso come “presente all’attenzione
dell’interlocutore”, in quanto già nominato nel contesto precedente o perché
l’argomentazione in corso gli conferisce una particolare rilievo;
(2) può qualificare un’altra parte come elemento informativo nuovo, non apparso in
precedenza nel contesto comunicativo.
Il modo in cui il contenuto informativo è strutturato (cioè il modo in cui si esprime la
‘struttura informativa’, information structure secondo la terminologia di Halliday) influenza
la sintassi (micro- e macrosintassi: l’ordine delle parole e quello delle frasi all’interno del
periodo).
Le più importanti unità di analisi della struttura informativa sono le coppie (1) ‘dato /
nuovo’ e (2) ‘tema (topic) / rema (comment)’.
(1) Il dato è tutto ciò che viene dato per già conosciuto (perché è formalmente segnalato
come tale, o per influenza del contesto o del cotesto (il contesto discorsivo), mentre il nuovo è
ciò che viene dato come non (ancora) identificabile.
Es.: “Ho visto un cane [nuovo]. Quel cane [dato] era un beagle”.
(2) Il tema (o topic) è ciò di cui “parla” l’enunciato, il rema (o comment) è ciò che viene
detto (la predicazione) del tema. È importante ricordare che non sempre il tema coincide con
il soggetto grammaticale: dipende dall’ordine in cui l’informazione è presentata.
Es. “Giovanni [tema] è andato a Genova [rema]”; “A Genova [tema], Giovanni non ci
è andato [rema]”.
Sotto questo riguardo l’italiano contemporaneo ha ampliato l’uso di alcuni mezzi di messa
in evidenza della struttura informativa, peraltro da sempre esistenti nella lingua parlata. Ossia,
con le parole di Berruto, l’italiano contemporaneo evidenzia «l’incipiente standardizzazione
di costrutti originariamente marcati e specifici del parlato».
Sono da ricordare:
-
la dislocazione a sinistra. Il tema viene messo in evidenza con la sua collocazione
alla sinistra dell’enunciato: “il caffè, l’ho già preso”. Il tema viene marginalizzato a sinistra
(pausa intonativa, oppure virgola nello scritto) e, in genere ripreso da un pronome clitico (=
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atono) nella parte destra dell’enunciato (si parla allora di ripresa pronominale: nel caso citato
il clitico lo in “l’ho già preso”);
L’effetto di una dislocazione a sinistra è dunque quello di evidenziare ciò che il parlante
ritiene centrale nel suo discorso, alterando l’ordine neutro (non marcato) dei costituenti,
a beneficio del ricevente. Questa struttura è sempre più frequente nel parlato e dilaga
anche nello scritto, specie là dove esso simula l’oralità o vi si vuole avvicinare. La
forma più frequente vede dislocato a sinistra l’oggetto (“il libro, non l’ho letto”,
“Giorgio, non l’ho visto”) e, se il soggetto grammaticale è di terza plurale, può
sostituire una frase al passivo (“la casa, l’hanno venduta”;). In ordine di frequenza,
segue la dislocazione del complemento indiretto dativo o genitivo (“di Mario, non ne so
più nulla”; “a lei, non le dico più niente”; “a me, nessuno (mi) ha detto niente”); quindi
altre espansioni: “A Roma, non ci voglio andare”. Tra i temi dislocati prevalgono quelli
emozionalmente più coinvolgenti per il parlante. Alcuni esempi: “a scuola ci andavo
poco”; “con lui non ci gioco”; “di difetti ne abbiamo tutti”.
-
la dislocazione a destra. Il tema viene marginalizzato (intonativamente, o con la
virgola nello scritto) a destra dell’enunciato, in genere preceduto da un’anticipazione
pronominale per mezzo di un clitico. Es. “l’ho già preso, il caffè”;
-
tema sospeso (nomativus pendens): è una struttura simile alla dislocazione a sinistra.
L’elemento marginalizzato rimane però qui del tutto esterno alla frase, dal punto di vista sia
sintattico (non è preceduto da preposizione e quindi manca l’indicazione della sua funzione
sintattica) che intonativo (è sempre separato da una pausa, rappresentata nello scritto da una
virgola): “Marco, gli è sempre piaciuto il gelato” (= “A Marco è sempre piaciuto il gelato”);
“Francesca, non le parlo più” (= “Non parlo più con Francesca”). Questo costrutto viene
definito dalla retorica tradizionale anacoluto, ed è ovviamente ristretto al parlato informale,
anche se si può incontrare talora in altri contesti, per la sua particolare funzionalità espressiva.
In particolare è molto utilizzato nei titoli dei giornali per ragioni di brevità e sintesi:
“Sequestro Ilva, si dimette il Cda”, “Telecom, soci divisi sulla rete” («Il Sole 24 ore», 26
maggio 2013);
-
c’è presentativo. È il periodo con struttura ‘c’è x [tema] che’ (es. “c’è qualcuno che
dice no”), in cui il tema viene messo in evidenza (presentato) dal c’è;
-
frase scissa. Si tratta di una costruzione del tipo È Luca che mi presta la bici, È con
Maria che ne ho parlato. È dunque formata da una voce del verbo essere priva di soggetto
seguita da un complemento (nominale, preposizionale, avverbiale) e da una subordinata
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introdotta da che. Rispetto a una frase semplice con ordine lineare dei costituenti (Luca mi
presta la bici, Ne ho parlato con Maria) la frase scissa serve a isolare un elemento (Luca,
Maria) come focus, ossia come elemento informativamente più importante, quello che
contiene l’informazione principale (per identificare il focus di una frase si può inserirla in un
contesto di domanda e risposta: Chi mi presta la bici? Con chi ne hai parlato?: spesso, ma
non sempre, coincide con il nuovo e con il rema). Stessa funzione hanno anche frasi implicite
come È stato Fabio a chiedermelo, in cui la subordinata è una infinitiva introdotta da a (frasi
scisse implicite).
2. IL LESSICO DELL ’ITALIANO CONTEMPORANEO
2.1. OSSERVAZIONI GENERALI
Il lessico è la componente della lingua che attira maggiormente l’interesse del non
linguista, ed è anche quella la cui evoluzione è più legata al contesto sociale. Il lessico cambia
con la società, attraverso essa e a fianco di essa.
Il lessico italiano ha una storia di grande stabilità, che dipende certamente dalla scarsità
dell’uso parlato fino al XX secolo. La continuità del lessico italiano può essere testimoniata
dai dati di vocabolari che riportino le date della – probabile – prima attestazione di un lemma.
Dai quali dati si ricava ad es. che in un vocabolario di circa 140000 lemmi oltre 5000 parole
sono già attestate nel Duecento, quasi 14000 nel Trecento e altrettanti in seguito solo
nell’Ottocento; per superare questa quota occorre attendere il Novecento, dove si registrano
più di 30000 nuove attestazioni. E la stabilità del lessico è ancora più vistosa se si considera il
lessico di base, ovvero le parole a più alta frequenza nella lingua standard: ben il 21% dei
lessemi è già attestato nel Duecento, il 31,5 nel Trecento (quindi più del 50% entro il XIV
secolo) e gli stessi valori percentuali dell’Ottocento presenta anche il Cinquecento (10%),
mentre il Novecento partecipa col solo 9%. Un risultato analogo, anche più retrodatante, si
ottiene osservando i dati del GRADIT [= Grande Dizionario della lingua italiana, ideato e
diretto da T. De Mauro, Torino, Utet, 1999, 6 voll.]: “le parole del vocabolario fondamentale
di una lingua [i duemila vocaboli più frequenti nella lingua standard] occupano, in media, il
92 o 93% di tutte le parole che figurano nei testi e discorsi”, osserva De Mauro nella
postfazione all’opera. Ebbene – nota De Mauro –, “quando Dante comincia a scrivere la
Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo
integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento il vocabolario
fondamentale è configurato e completo al 90%”. Anche una scelta di lessico un po’ più
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ampia, il vocabolario di alto uso (che unito al vocabolario fondamentale, copre il 97-99%
delle occorrenze lessicali in testi e discorsi in lingua italiana) ha origine per l’86% entro la
fine del Trecento.
Il lessico di una lingua, e dell’italiano come delle altre, si compone di: 1) lessemi
patrimoniali, appartenenti a una lingua fin dalla sua origine; 2) lessemi esogeni, provenienti
da altre lingue; 3) neoformazioni endogene, cioè lessemi che si creano a partire dalle basi
fornite dai due primi gruppi attraverso i normali procedimenti di formazione delle parole.
Il latino è alla base della larghissima parte del lessico patrimoniale, ma interviene anche
come principale fonte esogena attraverso i passaggi definiti come esiti “dotti”, cioè ripescati
direttamente dal latino senza la mediazione delle trasformazioni fonomorfologiche volgari.
Tenendo conto che, ovviamente, l’italiano è il maggior fornitore di sé stesso (il 65% circa del
patrimonio lessicale nasce da neoformazioni endogene), il latino viene subito dopo: i lessemi
di origine latina – secondo il GRADIT – costituiscono il 14% circa del totale, ma ben il 52,2%
se si prende in considerazione il solo vocabolario di base. La maggior parte di latinismi
entrano in italiano nei primi secoli, e particolarmente nel Duecento e nel Quattrocento.
Parecchi lessemi di origine latina entrano anche nei secoli XIX e XX, ma si tratta ormai quasi
solamente di tecnicismi del latino scientifico, quello delle classificazioni tassonomiche.
La lingua esterna che maggiormente alimenta l’italiano, dopo il latino, è senz’altro il greco
antico. Un primo lotto di lessemi di origine greca entra nel latino classico,
fonomorfologicamente adattato, e di lì passa in italiano. Altri lessemi greci compiono lo
stesso percorso, ma conservando una forma più vicina all’origine greca, il che li rende
maggiormente distinguibili (ad es. filosofia e filologia, che non a caso conservano l’accento
sulla penultima come in greco, di contro ai lat. philosòphia e philològia). Un terzo strato di
grecismi sono quelli passati in italiano senza un’attestazione latina classica o anche tarda (es.
cosmo da κόσµος). La maggior parte dei grecismi dell’attuale lessico italiano, peraltro, è
entrata soltanto nei secoli XIX e XX, attraverso il canale della terminologia tecnicoscientifica, fondata – fin dal Settecento – su neoconiazioni di base greca.
Le lingue che hanno dato all’italiano almeno una cinquantina di lessemi di uso non
peregrino (ci si riferisce ai lemmi registrati nel GRADIT: tra parentesi si inserisce il numero di
lemmi per ogni lingua di origine che questo vocabolario accoglie) sono, in ordine decrescente:
12
•
greco (8354);
•
giapponese (212);
•
inglese (6292);
•
portoghese (208);
•
francese (4944);
•
turco (172);
•
spagnolo (1055);
•
longobardo (114);
•
tedesco (648);
•
ebraico (113);
•
arabo (633);
•
sanscrito (92);
•
provenzale (240);
•
hindi (79);
•
russo (234);
•
cinese (62).
Come è evidente, nessuna altra lingua – fatta eccezione per il caso particolare del greco
antico – è paragonabile all’inglese (fornitore massimo nel XX secolo) e al francese
(influentissimo nel Settecento, e poi anche nell’Ottocento) nel fornire apporti lessicali alla
lingua italiana. Anche lo spagnolo, che pure ha fatto entrare nell’italiano parecchi lessemi nel
Cinquecento e soprattutto nel Seicento, ha immesso una quantità di lessemi di oltre quattro
volte inferiore rispetto al francese.
In linea generale è da notare che molti forestierismi, o lessemi di origine straniera, sono
riconducibili alla terminologia tecnico-scientifica, ciò che testimonia la prevalenza dei canali
specialistici nel promuovere gli apporti esogeni.
2.2. I PRESTITI
Importare parole nuove da altre lingue è una delle componenti di permanente innovazione
di una lingua. Quando un lessema non fa parte del lessico patrimoniale ed è desunto da una
lingua straniera si ha un prestito linguistico.
Il prestito, valutato soprattutto come fenomeno di influsso lessicale, è strettamente
connesso a fattori extralinguistici come i rapporti culturali fra le diversi paesi, gli scambi
economici e commerciali, i viaggi e le scoperte. L’entità degli scambi fra le lingue è
ovviamente influenzata da fattori geografici: due entità nazionali confinanti sono
generalmente costrette a un certo grado di bilinguismo, almeno nelle zone di frontiere (si veda
il caso della vicinanza geografica della Francia, che ha stimolato un afflusso costante nel
tempo di gallicismi, favorito anche dal fatto che l’italiano e il francese sono strettamente
imparentati per genesi e per storia). Tuttavia l’apporto lessicale di una lingua estera non è
direttamente proporzionale alla vicinanza territoriale: lingue lontanissime ma di grande
13
rilevanza culturale come il cinese e il giapponese hanno portato più lessemi in italiano delle
vicine lingue slave.
Di particolare interesse è lo scambio fra lingue interferenti che avviene per via culturale,
quando alla diffusione dei prodotti di una civiltà straniera consegue l’ingresso, nella lingua
ricevente, di materiale lessicale allogeno. Generalmente, i rapporti di tipo culturale non hanno
luogo su di un piano di parità poiché le lingue di maggior prestigio influenzano in modo più
profondo quelle dotate di minor forza di espansione. Tra Sette e Ottocento, attraverso i
contatti con i paesi colti d’Europa, l’italiano accoglie un numero altissimo di termini
forestieri. Il grande rinnovamento che in questo periodo si manifesta nelle industrie, nei
commerci, nei sistemi politici imprime un carattere sovranazionale alla circolazione delle
terminologie speciali. L’egemonia culturale del paese dove è parlata fa insomma di una lingua
il maggiore fornitore lessicale dei paesi geograficamente vicini, o tali in virtù delle reti di
informazione. In italiano, come si è detto, nel Sette-Ottocento il maggior esportatore è stato il
francese. Negli ultimi cinquant’anni del Novecento l’inglese ha sostituito il francese come
lingua straniera più conosciuta e più influente in Italia, come nel resto del mondo occidentale;
questo mutamento (che ha subito un’accelerazione a partire dagli anni Settanta) è comune ad
altri paesi europei e dipende dall’affermarsi degli Stati Uniti come paese dominante
dell’economia e della politica a livello mondiale. Nel Novecento, dunque, i prestiti vengono
all’italiano principalmente dai paesi di lingua anglosassone che detengono la supremazia
economica, tecnica e scientifica.
I prestiti si possono distinguere per motivazione e per forma:
a) per motivazione
1) prestito di necessità
2) prestito di lusso
b) per forma
1) prestito non adattato (o prestito integrale)
2) prestito adattato
Dal punto di vista della motivazione, i prestiti, secondo una distinzione ormai invalsa
benché discutibile, si possono dividere in prestiti di necessità e prestiti di lusso.
I prestiti di necessità riguardano quei lessemi stranieri che designerebbero concetti e
oggetti sconosciuti alla lingua ricevente: in altre parole si acquisisce il lessema unitamente al
suo referente. Si pensi a patata, parola haitiana giunta in italiano attraverso lo spagnolo
14
insieme al tubero che designa; caffè, dal turco; zero, dall’arabo; tram (da tramway), juke-box
dall’inglese.
I prestiti di lusso riguardano invece quei lessemi stranieri che incontrano nella lingua
ricevente un termine semanticamente coesteso o almeno sinonimico. Il prestito di lusso può
avere un fine espressivo-stilistico, oppure di promozione sociale, evocando una civiltà o
cultura o modo di vita considerati prestigiosi; sono considerati prestiti di lusso ad esempio:
leader, baby-sitter, weekend, lessemi sostituibili con capo, bambinaia, fine settimana.
È vero che questa distinzione ha il merito di mettere in rilievo la centralità dei criteri
extralinguistici per il trattamento dei prestiti, ma certamente pecca di semplicismo. In assoluto
la necessità di un prestito non esiste, perché ogni lingua possiede i mezzi – formazione di
composti, perifrasi, neologismi – per indicare i nuovi oggetti o concetti, senza ricorrere ai
forestierismi. D’altra parte è evidente che l’uso di parole straniere risponde a qualche esigenza
dell’emittente, sociale o stilistica che sia. Pertanto si può parlare di inutilità dei prestiti di
lusso solo a un mero livello lessicale, poiché, nella prospettiva del parlante, il prestito di lusso
è connotato da marche semantiche che sono assenti nella equivalente parola italiana. L’uso
prevalente nella lingua standard del prestito linguistico sarà in primo luogo determinato dalla
riconoscibilità sociale: in altre parole dalla moda, in evidente relazione con il prestigio che i
parlanti attribuiscono alla civiltà e alla cultura espresse dalla lingua straniera. A un livello più
conscio, il forestierismo può anche essere usato come testimonianza di appartenenza a un
determinato gruppo sociale di cui si conosce e usa il codice distintivo, tagliando fuori e
“impressionando” chi questo codice non possiede: si pensi al lettore semicolto che incontra
sul quotidiano tecnicismi come governance, fiscal drag, spoils-system.
Dal punto di vista della forma, i prestiti si distinguono in base al processo di adattamento
che la forma ha subìto ad opera della lingua che la acquisisce: si discorre in questi casi di
prestito adattato. Il processo di adattamento può interessare:
− il piano fonomorfologico, come in bistecca (dall’ingl. beef-steak) e treno (ingl.
train);
− il piano fonetico, come in camion (fr. camion, ma con accento sulla sillaba finale) e
computer (ingl. computer, ma pronunciato /kɘm’pju:tɘr/);
− il piano puramente grafico, come in gol (ingl. goal) e sciampo (ingl. shampoo).
Quando non si verifica processo di adattamento, come è oramai prevalente nell’italiano di
oggi, il prestito è detto integrale o non adattato: si pensi alle tante voci pertinenti all’impiego
15
dei nuovi mezzi di comunicazione elettronici, da chat a mail, da mouse a webcam, e via
dicendo.
2.3. I CALCHI
Il calco è un neologismo formato con materiale italiano sul modello straniero: in altri
termini, un lessema straniero viene tradotto con lessemi già disponibili nella lingua ricevente.
Dal momento che non riproduce il significante, il fenomeno di interferenza linguistica risulta
in genere meno facilmente avvertibile.
Vediamone alcune tipologie:
Calco semantico
Il calco semantico o di significato comporta un mutamento della funzione semantica di un
lessema preesistente sulla base della semantica di un lessema appartentente alla lingua presa a
modello.
Il calco semantico presuppone che siano soddisfatte alcune condizioni: 1) che il significato
del lessema straniero sia articolato in tratti semantici che trovano una corrispondenza solo
parziale in un lessema della propria lingua; 2) che nella propria lingua sia individuato un
lessema preesistente il cui significato coincida con uno dei tratti semantici del lessema
straniero; 3) che venga compreso il rapporto di motivazione tra i vari tratti semantici del
lessema straniero e interpretato come significato fondamentale quello condiviso dai due
lessemi, come significati secondari le accezioni che non trovano riscontro nel lessema della
propria lingua.
Il calco semantico consiste quindi nel fare combaciare nel modo più ampio possibile le
funzioni semantiche delle due parole (quella della lingua straniera e quella della propria), fra
le quali viene istituito un rapporto basato sulla esclusiva comunanza di tratti semantici. In tal
modo viene colmata la divergenza semantica avvertita frai due termini.
Esempi:
-
ingl. hawk ‘falco’ e nelle controversie internazionali ‘sostenitore di una linea
politica drastica e intransigente’; it. falco (GRADIT: 1966). Il lessema italiano amplia
il suo spettro semantico fino ad acquisire il tratto metaforico. Oggi la voce è diffusa
nel lessico giornalistico, spesso associata al suo antonimo colomba (falchi e colombe;
cfr. hawks and doves);
-
ingl. to pay ‘essere vantaggioso, utile’; it. pagare (“il crimine non paga”);
16
-
ingl. to save ‘registrare nella memoria centrale di un computer o su altro
supporto i dati, archiviare i dati’; it. salvare (“hai salvato il file della tesi?”).
Calco strutturale
Consiste nella riproduzione di un modello straniero dal punto di vista tanto del significato
quanto della struttura; si attua utilizzando materiale linguistico preesistente nella lingua
imitante, ma comporta di fatto la formazione di un neologismo, eminentemente per via di
composizione. Anche in questo caso occorre sia compresa a fondo la motivazione formale e
semantica del modello straniero, e dunque il rapporto semantico fra i costituenti dell’unità
lessicale.
Esempi:
-
ingl. skyscraper; it. grattacielo. Si notino la perfetta riproduzione della
struttura composizionale e del significato ma l’imperfetta riproduzione dell’ordine fra
costituenti, in quanto il calco rispetta il normale ordine delle parole vigente in italiano
(grattacielo come lavavetri e tanti altri composti V+N: vd. il tipo al § 2.5);
-
ingl. flatfoot; it. piedipiatti ‘poliziotto’. Il calco strutturale è imperfetto come il
precedente;
-
ingl. outlaw; it. fuorilegge. Il calco è strutturalmente perfetto.
Si danno poi vari casi di calchi strutturali formati da prefissoide (vd. sotto al § 2.4) più
sostantivo, ancora per spinta di modelli angloamericani che sfruttano elementi compositivi di
antica matrice classica.
Esempi:
-
ingl. selfdetermination; it. autodeterminazione ‘capacità che popolazioni
sufficientemente definite etnicamente e culturalmente hanno di disporre di sé stesse;
diritto che un popolo di uno Stato ha di scegliersi la forma di governo’. Il termine si
diffonde con il celebre discorso dei “quattordici punti” del presidente statunitense
Wilson nel 1918;
-
ingl. selfsufficient; it. autosufficiente;
-
ingl. selfgovernment; it. autogoverno.
17
Calco sintagmatico
È un particolare tipo di calco strutturale che interessa non singoli lessemi composti ma
sintagmi. In genere i sintagmi angloamericani mutuati dall’italiano sono costituiti da due
elementi: 1) aggettivo e sostantivo (secondo l’ordine dei costituenti in inglese); 2) sostantivo
+ sostantivo, e si parla in tal caso di giustapposizione di sostantivi (in inglese secondo l’ordine
determinante + determinato, dove il determinante funge da modificatore del determinato alla
stessa stregua di un aggettivo). L’ordine delle parole italiano condiziona spesso la resa del
calco, che presceglie l’ordine sostantivo + aggettivo o determinato + determinante, con l’esito
di calchi sintagmatici imperfetti; talora si osserva l’inserzione di una preposizione
(determinato + sintagma preposizionale).
Esempi del tipo aggettivo + sostantivo:
-
ingl. fiscal drag; it. drenaggio fiscale ‘incremento del prelievo fiscale
imputabile alla crescita artificiosa dei redditi monetari dovuta all’inflazione’. È un
calco sintagmatico imperfetto non solo nell’ordine dei costituenti ma anche dal punto
di vista semantico, dal momento che drag significa ‘traino, trascinamento’ e non
‘drenaggio’; ma ciò si dovrà ad influsso del significante ( DRenaggio – DRag), o forse a
confusione con l’ingl. drain ‘drenaggio’;
-
ingl. underground economy; it. economia sommersa. Di qui in italiano
l’estrapolazione dell’agg. sommerso, usato anche al di fuori del lessico economico, e
della sostantivazione il sommerso ‘insieme di beni o attività non dichiarati al fisco’;
-
ingl. new frontier; it. nuova frontiera. Calco perfetto dello slogan usato da John
Kennedy nelle elezioni presidenziali del 1960 per indicare un ampio programma di
riforme sociali.
Esempi del tipo sostantivo + sostantivo:
-
ingl. data base, data bank; it. base dati, banca dati. Si badi che è invece un
prestito data base, con pronuncia adattata o meno;
-
ingl. press conference, press room; it. conferenza stampa, sala stampa;
-
ingl. shadow cabinet; it. governo ombra ‘membri dell’opposizione che
svolgono compiti paralleli a quelli del governo ufficiale’, tipica istituzione
anglosassone connessa alla tradizionale alternanza al governo di partito laburista e
partito conservatore. In italiano si è verificata l’estrapolazione del lessema ombra
(ministro ombra, giunta ombra, finanziaria ombra);
Esempi con nesso preposizionale:
18
-
ingl. count down; it. conto alla rovescia. Il calco è imperfetto non solo per
l’introduzione della preposizione ma anche per l’imprecisa rispondenza semantica fra
down e alla rovescia;
-
ingl. brain drain; it. fuga di cervelli. Con divergenza semantica: drain
‘prosciugamento, esaurimento’ non corrisponde a fuga.
Calco sintematico
Il sintema è una combinazione di lessemi nel quale i costituenti, “pur essendo in altro
contesto autosemantici, diventano sinsemantici, perdono cioè la loro autonomia di significato”
(Gusmani), acquistando dunque un unico significato complessivo, non analizzabile nei suoi
componenti lessicali.
Esempi:
-
ingl. cold war; it. guerra fredda ‘stato di acuta tensione fra due Stati senza
scontri militari’ (il sintagma non è analizzabile dal punto di vista semantico: non è una
guerra; non è fredda);
-
ingl. honey moon; it. luna di miele, con nesso preposizionale (non è una luna;
non è di miele).
Calco parziale
È detto anche calco prestito. Si tratta di un calco sintagmatico nel quale uno dei costituenti
non viene ricalcato ma acquisito attraverso prestito.
Esempi:
-
ingl. brain trust; it. trust di cervelli. È diffuso però anche il prestito integrale
brain trust;
-
ingl. generation gap; it. gap generazionale; il sintagma sostantivo + sostantivo
è reso attraverso quello sostantivo + aggettivo.
Prestito camuffato
Affine per procedimento al calco semantico, il prestito camuffato è un calco solo in
apparenza. Un tratto semantico di un lessema straniero viene acquisito a un lessema della
propria lingua esclusivamente sulla base di una marcata assonanza formale fra i due (che
spesso è l’effetto di una comune etimologia), prescindendo totalmente dall’eventuale
esistenza di tratti semantici in comune. Non è sempre facile distinguere quando si sia in
19
presenza di un prestito camuffato e non già di un calco semantico, e ci sono casi che si
collocano per dir così al confine fra l’una categoria e l’altra. Fra i criteri dirimenti per
individuare un prestito camuffato si annoverano: 1) la discontinuità fra il significato originario
del termine indigeno preesistente e il significato del neologismo (vd. sotto gli ess. di
realizzare, suggestione); 2) l’appartenenza del termine straniero a lessici specifici ossia a
lingue speciali (vd. sotto gli ess. di scenario, severo); 3) la simultanea adozione sotto forma di
prestito non adattato, a dimostrazione del fatto che nel momento in cui si è verificata
l’interferenza della lingua straniera il parlante non ha stabilito relazioni dirette con il termine
preesistente (vd. sotto l’es. di casual).
Esempi:
-
ingl. to realize; it. realizzare ‘rendersi conto, comprendere’ e non ‘portare a
compimento’;
-
ingl. suggestion; it. suggestione ‘suggerimento’;
-
ingl. severe; it. severo ‘importante, preoccupante’, detto spec. di patologie nel
lessico della medicina;
-
ingl. casual; it. casuale ‘disinvolto, informale’, detto spec. di abbigliamento.
2.4. I PROCESSI DI NEOFORMAZIONE : LA DERIVAZIONE
Le neoformazioni si producono essenzialmente attraverso procedure di derivazione e di
composizione.
La derivazione è la formazione di una parola nuova che avviene attraverso la modifica di
una base mediante un affisso, privo di autonomia a livello lessicale. La derivazione mediante
affisso può risultare da suffissazione, da prefissazione, o dalla concomitanza di entrambe le
procedure (si parla in tal caso di forme parasintetiche come disboscare da bosco o
immangiabile da mangiare).
La derivazione può dare origine a parole di uguale categoria lessicale – come
obbligatoriamente nel caso dei prefissi – o diversa da quella della base di partenza (verbo
→
verbo: fare → rifare; sostantivo → aggettivo: polvere → polveroso). Quando la parola
derivata di classe diversa è ottenuta senza bisogno di affisso si danno i casi di derivazione a
suffisso zero (indennizzo, inoltro, collaudo dai rispettivi verbi) e quelli di conversione ossia
cambio di categoria lessicale di un lessema: si pensi all’uso sostantivale o aggettivale del
participio passato (l’accaduto, il fatto) e presente (il paziente) e all’uso sostantivato di verbi
(ammontare, avere); si hanno anche aggettivi sostantivati attraverso l’articolo (un povero, gli
20
antichi); nomi da aggettivi con ellissi (la finanziaria, dal sintagma legge finanziaria; e così
vale per arenaria, atomica, raccomandata).
La composizione, che sarà oggetto del § 2.5, è invece l’unione di elementi lessicali
autonomi. Si noti però che la neoformazione composta può essere costituita non solo da
lessemi patrimoniali (attaccabottoni, portafinestra) ma anche da uno o entrambi i lessemi di
origine latino-greca (telecomando, citofono). Questo particolare tipo di composizione, che
adopera semiparole di origine greca o latina o anche forme italiane contratte (come elettro, da
elettrico), è – per così dire – a metà strada tra la composizione e la derivazione: si parla
pertanto a questo proposito non di prefissi e suffissi, ma di primi e secondi elementi di
composizione o di prefissoidi e suffissoidi o anche forme semilibere o semiparole: per questa
ragione il fenomeno verrà trattato nel presente paragrafo dedicato alla derivazione.
Gran parte dei lemmi di un dizionario sono costituiti da lessemi derivati. In un dizionario
di medie dimensioni (circa 140000 lemmi), ad esempio, sono circa 40000 a essere frutto di
derivazione. Di questi, 30000 circa sono derivati per suffissazione (nell’ordine: sostantivi,
aggettivi e verbi): la maggior parte (ben oltre un terzo) originatisi nel XX secolo, quasi due
terzi tra il XIX e il XX secolo. I derivati per prefissazione, sono circa un decimo (4000); i più
frequenti, in ordine decrescente, i derivati con ri-, in-, di- dis- de-, s-, a-; quelli con inparticolarmente attivi nel XVII e XVIII secolo e quindi anche nell’Ottocento e Novecento. I
composti, per lo più sostantivi, si sono affermati con grande frequenza nel Novecento (circa il
60% del totale dei composti).
Il più produttivo meccanismo di formazione di parole nuove nel XX secolo è certamente la
suffissazione. Risulta che il 50% dei neologismi novecenteschi siano nati attraverso il
processo della derivazione tramite suffisso (pulsionale 1968; programmazione 1931,
privatizzare e privatizzazione 1963; la data della prima attestazione è quella fornita dal DISC
[Dizionario italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti, 1998 e succ. rist.]), magari anche con
presenza contemporanea di prefisso (defibrillatore 1987); il 9,5% tramite prefisso
(preriscaldamento 1968; prefabbricato 1942); il 17 % attraverso composizione di elementi
latino-greci (gastroscopia 1960; omosessuale 1908; paramedico 1978; citofono 1942,
stereofonia 1942); il 7% da composizione di lessemi nativi (portamonete 1958, paraurti
1941; lavastoviglie 1942).
21
Se si considerano gli stessi dati in diacronia (dal 1908 al 1989) si può notare: sostanziale
stabilità della suffissazione, decrescita dei composti neoclassici, raddoppiamento della
prefissazione, stabilità (con tendenza all’aumento) dei composti nativi, crescita forte dei
composti con prefissoide (es.: multiproprietà 1978), e delle conversioni (un espresso,
direttissima 1905, 740, cellulare nell’accezione di apparecchio telefonico radiomobile, 1990).
Si veda una rassegna dei principali suffissi:
-aro: palazzinaro 1966, paninaro 1981, panchinaro, metallaro;
-ismo: liberismo, fascismo, garantismo 1925, abusivismo 1942, consumismo 1964,
decisionismo 1972, pendolarismo 1975, celodurismo anni ’90, dal famigerato motto
bossiano;
-ista: basista, buonista, difensivista, forzista, migliorista ecc.; per i nomina agentis
(chi fa qualcosa per caso abitudine, mestiere) è il suffisso più produttivo, mentre sono
invece in regresso i suffissi in -aio (benzinaio, fornaio), relegato a mestieri
pretecnologici e oggi insidiato dal concorrente -aro (vd. sopra) perlopiù di valore
ironico, -aiolo (festaiolo) e -iere (bancarottiere);
-tore, -trice: urlatore, parcheggiatore, posteggiatore, agopuntore, climatizzatore
1990, lavatrice 1932;
-istica:
anglistica,
componentistica,
insiemistica,
italianistica,
oggettistica,
tempistica;
-zione: delegittimazione, indicizzazione, informatizzazione 1981, lottizzazione,
masterizzazione,
ottimizzazione,
parcellizzazione,
cartolarizzazione
(di
recente
diffusione, in dipendenza da un provvedimento della legge finanziaria del 2002);
-ità: abitabilità 1881, affidabilità, fallosità, invivibilità, sportività;
-aggio: depistaggio, monitoraggio, sciacallaggio, volantinaggio;
-oso: caramelloso, sballoso; il suffisso ha avuto una certa diffusione nel linguaggio
pubblicitario degli anni ’80-’90, ma ora sembra meno attivo;
-ale: decisionale, occupazionale, promozionale, manageriale, digitale 1963;
-ese: politichese, sinistrese 1976, sindacalese 1977, burocratese;
-izzare: criminalizzare, digitalizzare, inizializzare, sponsorizzare, strumentalizzare;
la fortuna di questo suffisso si inscrive nella più generale produttività dei verbi della
prima coniugazione che dà una grande quantità di denominali (cioè forme che derivano
da basi nominali) semplici come crossare, commissariare, formattare, implementare,
movimentare, spintonare, testare (spesso da basi forestiere). La frequenza di -izzare è
22
dovuta all’influenza del francese (centralizzare, concretizzare) e dell’inglese
(inizializzare, ottimizzare) e più in generale alla sua duttilità: è applicabile a basi di
almeno tre sillabe, sostantivi in -ìa (etimologizzare, sodomizzare), -esi e -isi (ipotizzare,
psicanalizzare),
nomi
propri
(berlusconizzare),
sigle
(irizzare),
forestierismi
(containerizzare) e composti (cattocomunistizzare); è particolarmente attivo in ambito
parascientifico coi tipi impermeabilizzare, informatizzare ecc. e nelle neoformazioni
scientifiche sostituisce il suffisso tradizionale -eggiare;
-ificare: ratificare, rettificare, fortificare; si applica a basi più brevi, nomi concreti
(acetificare, pietrificare) e aggettivi (specie in -ido: acidificare, fluidificare,
umidificare).
È bene ricordare qui che le lingue speciali danno valori specifici ai suffissi.
1) Medicina: -ite (infiammazione acuta): appendicite, otite, nevrite; -osi
(infiammazione – o, più in generale, patologia – cronica): foruncolosi, artrosi; -oma
(tumore): adenoma, carcinoma, epitelioma.
2) Botanica e zoologia: -idi (famiglia animale): mustelidi, canidi; -acee (famiglia
vegetale): liliacee, rosacee; -ali (ordine di piante): rosali, parietali.
3) Chimica: -oso (valenza minima): solforoso; -ico (valenza maggiore): solforico;
-ano (idrocarburo saturo): metano, propano; -uro (idracido + base): cloruro.
4) Fisica: -anza, -enza: induttanza, reattanza, luminanza, risonanza, portanza,
impedenza, luminescenza, turbolenza, coibenza.
Una particolare forma di derivazione è l’alterazione, che mediante suffisso (o infisso, nel
caso dei verbi) modifica una base senza variarne la categoria grammaticale, mutando il suo
significato non nella sostanza ma solo per alcuni aspetti particolari come la quantità, la qualità
o il giudizio del parlante nei confronti del referente (fuoco → fuocherello, pazzo →
pazzerello, carattere → caratteraccio, pullman → pulmino). L’alterazione è una componente
non secondaria nella formazione delle parole, perché gli alterati non sempre conservano il
significato della base appena modificato, ma spesso danno vita a un nuovo lessema
semanticamente autonomo: si pensi a lavoretto, posticino, attimino, stuzzichino, pensierino,
leggiucchiare, ridacchiare, donnetta, donnaccia, o a casi di lessemi alterati che,
specializzandosi in un nuovo significato, hanno perso qualunque valore diminutivo
(patentino, fustino, pendolino, pennarello, panino, tramezzino, cassonetto, telefonino),
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accrescitivo (tormentone, cazzone, ribaltone), o peggiorativo (battutaccia, figuraccia,
bonazza).
Passando alla prefissazione, si dovrà subito registrare come essa sia una procedura
antichissima dell’italiano, per quanto la modifica di una base mediante prefisso sia nella
lingua di oggi più frequente che in quella di ieri: ad s. rianimazione 1959, ricircolo 1991,
riciclaggio 1971, diseconomico 1983, disinquinare 1983, sdemanializzare 1991, scongelare
1983.
I prefissi più diffusi sono senza dubbio s- e ri-, seguiti da in- locativo e in- negativo, da aproveniente dal lat. AD, da dis- e a- negativo.
Si vedano alcuni prefissi di origine latina:
extra-: uterino, parlamentare, lusso (agg.), comunitario 1980;
inter-: city, facoltà, stellare, classista;
post-: operatorio 1954, moderno 1980, comunista 1989, laurea (agg.);
pre-: pagato, pensionamento 1981, allarme, lavaggio 1964, scolare, fabbricato
1942;
super-: accessoriato, attico, ego, bollo, dotato, nova 1960, potenza 1954;
trans-: nazionale 1979, sessuale 1972.
Altri prefissi diffusi sono di origine greca come:
anti- (gr. antì ‘contro’): comunista, parassitario 1941, congelante, trust, polio 1963,
fascista 1920. Ma anti- può anche derivare dal lat. ANTE : anticamera;
iper-: ipermercato, iperattività.
E anche: ana-, meta-, para-, peri-, ecc.
Meno frequenti i casi di preposizione italiana patrimoniale come prefisso:
contro-: proposta, informazione 1970, figura 1942, mano 1950, piede 1942;
dopo- : partita, barba 1959 (anche agg.), lavoro 1925, sole (anche agg.);
oltre-: oceano 1912, tomba, cortina;
sotto-: sottoprefetto, sottofondo 1950, sottoimpiegato.
A metà strada tra derivazione e composizione sta tutta una serie di lessemi in cui uno dei
due elementi non è una semplice parola grammaticale, ma neppure un lessema
24
semanticamente autonomo. Si tratta di forme semilibere, per le quali, come si è detto, è
invalsa la denominazione di prefissoidi e suffissoidi coniata da Bruno Migliorini: è una
denominazione che gode ancor oggi di una certa fortuna e che anche qui per comodità si
adotta. Va tuttavia ricordato che si tratta di una nozione molto problematica, data la labilità
del confine che spesso si constata fra derivazione (e in particolare prefissazione) e
composizione (cfr. gli ess. 18 e 20 della TAB. 2 di Scalise riportata al § 2.5).
I prefissoidi sono in genere di origine classica e specialmente greca. Ecco una lista:
aero- (gr.): linea, mobile, plano, porto;
audio- (lat.): libro, visivo;
auto- (gr.): certificazione, controllo, mobile, sufficiente; ma anche auto- da
automobile: botte, radio, scuola, stop, strada, trasporto, treno;
bio- (gr.): degradabile, ingegneria, tecnologie;
cardio- (gr.): chirurgia, logia, patia;
eco- (gr.): sistema, logia; ma anche eco- da ecologia: catastrofe, tassa; e pure ecodal lat. echo coniato sul gr. echó ‘suono’: grafia, cardiogramma;
etero- (gr.): sessuale;
fono- (gr.): assorbente, riproduttore (anche come secondo elemento: telefono,
citofono);
foto- (gr.): cellula, sintesi; ma anche foto- da fotografia: composizione, genico,
montaggio, romanzo, tessera;
geo- (gr.): linguistica, politica;
idro- (gr.): massaggio, via, volante;
macro- (gr.): biotico, economia, molecola, testo;
maxi- (lat.): stangata;
mega- (gr.): contratto, fono;
micro- (gr.): processore;
mini- (lat. via ingl.): condono, gonna;
mono- (gr.): blocco, camera, colore;
moto-: carro, compressore, furgone, peschereccio, scafo,; ma anche moto- da
motocicletta: cross, raduno;
multi- (lat.): proprietà, sala, razziale;
narco- (gr. via ingl.): traffico;
neo- (gr.): centrista, fascista;
25
pluri- (lat.): inquisito, linguismo;
poli- (gr.): sportiva, valente;
psico- (gr.): analisi, dramma, farmaco;
radio- (lat.): amatore, mobile, segnale, trasmissione; ma anche da radio (apparecchio
e trasmissioni): ascoltatore, cronaca, dramma, giornale, sveglia;
tecno- (gr.): crate;
tele- (gr.): comando, guidare, visione; ma anche tele- da televisione: dipendenti,
schermo, utente;
termo- (gr.): isolante, reattore;
video- (lat.): cassetta, citofono, gioco, registratore, scrittura.
È interessante notare la compresenza e diversità di valore di alcuni prefissi o prefissoidi
dotti (greci e latini) semanticamente equivalenti a quelli patrimoniali. Spesso si ha l’intera
serie a tre (greco, latino e italiano): ad es. trans- (alpino) e dia- (stratico, topico, sistema);
sopra- (coperta, tassa), super- (sonico, strada) e iper- (teso, sensibile) o epi- (cardio); extra(parlamentare), fuori- (bordo, campo, classe), ecto- (ectoplasma) o eso- (esocarpo), nonché
ultra- (violenza); intra- (introspettivo, entrobordo) ed endo- (endogeno, endovena); oltre(mare), ultra- (suono, moderno) e meta- (fisica, tarso, linguaggio); sotto- (passaggio,
scrizione, occupazione, suolo), sub- (appalto, affitto), ipo- (tensione) o infra- (struttura,
rosso); mezzo- (busto, mezzaluna), semi- (lavorato, vocale) e emi- (emiparesi. emicrania);
bene- (benpensante) e eu- (ritmico); male- (maldicente) e caco- (fonia); contro(controffensiva, controproposta) e anti- (carro, anticomunista).
Anche i suffissoidi sono per lo più di origine greca, e talvolta latina. Si veda questo breve
elenco:
-ficio (lat.): esami, pasti;
-mania (gr.): tele, calcio;
-metro (gr.): baro, tassa;
-teca (gr.): cine, video;
-crazìa (gr.): merito, partito;
-filia (gr.): anglo, biblio;
-fobia (gr.): claustro;
-fono (gr.): cito, micro;
26
-grafia (gr.): cardio, eco;
-logìa (gr.): bio, psico, cardio;
-logo (gr.): massmediologo, tuttologo;
-scopia (gr.): colon, gastro.
2.5. I PROCESSI DI NEOFORMAZIONE : LA COMPOSIZIONE
Mentre nella derivazione si ha la concatenazione di una forma libera e di una forma legata,
cioè priva di autonomo valore lessicale (sono i prefissi e i suffissi), nel processo di
composizione si ha la concatenazione di due forme libere. Ecco alcuni esempi di
composizione:
TAB .
1
Parola1
Parola2
Composto
campo N
santo A
→
camposanto N
alto A
piano N
→
altopiano N
lava V
piatti N
→
lavapiatti N
sali V
scendi V
→
saliscendi N
senza P
tetto N
→
senzatetto N
capo N
stazione N
→
capostazione N
agro A
dolce A
→
agrodolce A
[Fonte: S. Scalise, Morfologia, Bologna 1994]
Dal punto di vista delle categorie lessicali (indicate in pedice alle parole: N = sostantivo, A
= aggettivo, P = preposizione, V = verbo), si vede come il composto sia in genere un
sostantivo; se però a combinarsi sono due aggettivi il composto che se ne ricava è a sua volta
un aggettivo. Generalizzando si avranno le due regole seguenti:
a.
X+Y→ N
b.
A+A→ A
Si vedano nel dettaglio le specifiche possibilità combinatorie dell’italiano, con indicazione
dell’esistenza del tipo di composto e della sua produttività.
27
TAB . 2
categorie
esiste
produttivo
esempi
1.
N+N
sì
sì
crocevia, pescecane
2.
A+A
sì
sì
dolceamaro, verdeazzurro
3.
V+V
sì
no
saliscendi, giravolta
4.
P+P
no
–
*dicon, *senzaper
5.
Avv+Avv
sì
no
malvolentieri, sottosopra
6.
V+N
sì
sì
scolapasta, cantastorie
7.
V+A
no
–
*pagacaro, *vedibello
8.
V+P
no
–
*metticon, *saltasopra
9.
V+Avv
sì
no
buttafuori, cacasotto
10.
N+A
sì
no
camposanto, cassaforte
11.
N+V
sì
no
manomettere, crocefiggere
12.
N+P
no
–
*scalasotto, *abitosenza
13.
N+Avv
no
–
*casamale, *tavolobene
14.
A+N
sì
no
biancospino, gentiluomo
15.
A+V
no
–
*gentileparla, *caropaga
16.
A+P
no
–
*bellocon, *biancosenza
17.
A+Avv
no
–
*bellobene, *biancooggi
18.
P+N
sì
no
sottopassaggio, oltretomba
19.
P+A
no
–
*congentile, *soprabello
20.
P+V
sì
no
?
contraddire, ?sottomettere
[forme dubbie: si tratta di forme composte o di forme derivate con i prefissi contro-, sotto-?]
21.
P+Avv
no
–
*conbene, *senzaieri
[Fonte: S. Scalise, Morfologia, Bologna 1994]
Non tutte le combinazioni sono dunque possibili: irreperibili le nn. 4, 7, 8, 12, 13, 15, 16,
17, 19, 21. Se ne ricava in particolare che in posizione di secondo costituente non è
ammissibile una preposizione, in accordo con le regole sintattiche dell’italiano che prevedono
l’ordine P+N e non N+P (con pazienza e non *pazienza con); per le stesse ragioni di
corrispondenza con le regole sintattiche la preposizione non crea composti con l’aggettivo
(infatti: con gentilezza ma non *con gentile) e l’avverbio solo con il verbo, ma è pur vero che
si dà un caso di composto N+Avv come centravanti, per calco dell’ingl. centre-forward.
28
La testa di un composto è quell’elemento che determina la categoria lessicale cui
appartiene il composto stesso; è utile poter determinare la testa di un composto perché è dalla
testa che derivano al composto una serie di proprietà. Ad es. in: campoN+santoA →
camposantoN, la testa del composto è campo: potremo dire che la categoria N del composto
camposanto deriva dalla testa campo.
Per individuare la testa di un composto ci si potrà dunque porre la domanda «è un…?»,
tanto sul piano della categoria lessicale quanto sul piano della semantica. Nel primo caso ci si
chiederà ad es.: cassaforte «è un» sostantivo (come cassa) o «è un» aggettivo (come forte)?
Nel secondo caso: cassaforte «è una» cassa o «è una» forte? È questo il cosiddetto test dell’«è
un», il modo più rapido di identificare la testa di un composto. Tuttavia non sempre il test
categoriale dà una risposta chiara: capostazione «è un» sostantivo come capo e come
stazione; ma i tratti semantici dei due costituenti sono differenti: capo [+maschile],
[+animato], stazione [-maschile], [-animato]; essendo capostazione [+maschile], [+animato],
se ne deduce che la testa del composto è capo, con cui concorda non solo nella categoria
lessicale ma anche nei tratti semantici. Come conferma il test semantico: capostazione «è un»
capo o «è una» stazione? È un capo.
Quali elementi del composto derivano quindi dalla testa? a) La categoria; b) i tratti
sintattico-semantici; c) il genere.
Si noti che in alcune lingue la testa di un composto può essere anche individuata in base
alla sua posizione. In inglese è comunemente a destra: blackboard ‘lavagna’, rattlesnake
‘serpente a sonagli’. Non così in italiano: pescecane, camposanto presentano testa a sinistra
ma manoscritto («è uno» scritto), gentiluomo a destra. Ma si dovrà dire che l’ordine normale
dell’italiano è generalmente rispettato, sicché nei composti la testa si trova a sinistra. I casi
discordanti, con testa a destra, possono spiegarsi: a) con la provenienza dal latino (terremoto
<
TERRAE MOTUS )
o comunque con la loro origine non recente, in fasi della lingua in cui
l’ordine di N+A in italiano era meno vincolato, a testimonianza quindi di regole compositive
oggi non più produttive (gentiluomo); b) con calchi dall’inglese (scuolabus; ingl. school bus).
Ne esce confermata l’idea che anche all’interno dei processi formativi si riflettano le regole
sintattiche dell’italiano.
Non tutti i composti presentano una testa. Ad es. nel caso di sali
V+scendiV
→ saliscendi N,
non dà esito il test categoriale di «è un» (saliscendi non è un verbo come i suoi costituenti), né
29
quello sintattico-semantico (non «è un» sali e non «è un» scendi). Si tratta dunque di un
composto esocentrico, laddove quelli provvisti di testa si diranno composti endocentrici.
Così vale per i composti V+N, molto frequenti in italiano. Ad es. portaV+lettereN →
portalettereN: la testa non può riconoscersi sulla sola base della corrispondenza categoriale
(portalettere «è un» sostantivo come lettere); è necessario che si considerino i tratti semantici
discordanti (portalettere [+animato], [+maschile] [+singolare]; lettere [-animato], [-maschile],
[-singolare]). E così in altri casi: pellerossa, purosangue, senzatetto ecc. Se ne conclude che la
corrispondenza categoriale non è condizione sufficiente a individuare la testa: occorre che
criterio categoriale e criterio semantico concordino.
Per distinguere i composti dai sintagmi possono valere per l’italiano alcuni criteri. Nei
composti si hanno:
1)
atomicità sintattica: il composto è cioè indivisibile; non è possibile: a) inserire
materiale lessicale all’interno di un composto (*portagrandiombrelli; cfr. invece il
sintagma portatore di grandi ombrelli); b) i costituenti non possono venire spostati
(Maria taglia carte → Cosa taglia Maria?; ma: Maria ha un tagliacarte
→ *Cosa ha
un taglia Maria?); c) il costituente di un composto non può fungere da antecedente in
una catena anaforica (*Gigi fa il lavapiatti. Li ha messi in credenza);
2)
possibilità di costruzioni esocentriche: ad es. il composto lavavetri ma il
sintagma lavatore di vetri;
3)
limitato grado di ricorsività: una volta che in italiano si è formato un composto,
questo non può di norma sottostare ad altre regole di composizione, come avviene
invece ad es. in inglese. Si può pensare a casi rari come porta-asciugamani
(portaV+[asciugaV+maniN]N → porta-asciugamaniN); ma in inglese, a partire proprio
dal suo corrispondente towel rack ‘porta-asciugamani’, si può ad es. procedere
addirittura nel modo seguente: bathroom towel rack → bathroom towel rack designer
→ bathroom towel rack designer training→ bathroom towel rack designer training
course → bathroom towel rack designer training course notes ‘gli appunti del corso di
formazione per designer di porta-asciugamani da bagno).
2.6. LE UNITÀ LESSICALI SUPERIORI
Sempre nell’ambito del lessico vanno considerati anche i lessemi complessi, o unità
lessicali superiori (vd. anche la nozione di sintema al § 2.3). Sono quei sintagmi che
30
presentano rapporto stabile tra forma e significato (conferenza stampa, teste di cuoio, alte
sfere) e un ordine rigido della sequenza (carta verde ma non verde carta, stato civile ma non
civile stato, cane poliziotto ma non poliziotto cane). Spesso il significato di un lessema
complesso non è deducibile da quello delle singole componenti (faccia di bronzo, cavallo di
battaglia, zoccolo duro). L’insieme di lessemi che costituisce un’unità lessicale superiore
tende, quanto più cresce l’uso, a lessicalizzarsi, cioè ad assumere un nuovo significato stabile
del tutto convenzionale.
L’unità lessicale superiore più frequente è costituita da due nomi, di cui il primo può essere
un deverbale e il secondo il suo soggetto: caduta di tensione, ritorno di fiamma; oppure da un
verbo seguito da un nome argomento (in genere diretto) spesso in funzione sostitutiva di un
unico verbo: aver bisogno (abbisognare), far finta (fingere), dare l’avvio (iniziare), fare
allusione (alludere), dar retta (credere), venire in mente (ricordarsi). Particolare coesione
hanno i cosiddetti verbi sintagmatici, formati da un nome seguito da un avverbio o da una
preposizione: mettere dentro, mettere su, buttare giù, portar via.
Non sempre il lessema complesso verbale è riducibile a un solo verbo equivalente
(prendere aria, tenere banco) ma la sostanza non cambia: sono almeno due parole che si
comportano come se fossero una sola.
Tra i tipi di sintagma N+N è molto frequente quello in cui il primo elemento è determinato
dal secondo (che è appunto il determinante), in genere un aggettivo: opinione pubblica,
zoccolo duro, ammortizzatore sociale, stato giuridico, ordine pubblico, tempo pieno, tempo
libero, carro armato, libro bianco, mercato nero, tavola calda, disco rigido, mucca pazza. Lo
stesso accade nelle unità formate da un nome seguito da un altro nome in funzione aggettivale
oppure coordinata: mobile bar, uccello mosca, effetto serra, legge quadro, stato cuscinetto,
uomo rana, donna cannone, cane poliziotto, donna vigile, zona cuscinetto, caso limite.
Sempre più frequenti però anche i lessemi complessi con determinante (aggettivo o nome
in funzione aggettivale) a sinistra, secondo il modulo anglosassone: mass media, play boy,
alta fedeltà (non a caso calco di high fidelity), pari opportunità, equo canone, pieno impiego,
baby pensioni, belle lettere (fr. belles lettres), prima donna.
Il sistema di formazione lessicale N+N è uno dei processi più nuovi dell’italiano, che si
avvicina così a procedure poco praticate dal latino e invece molto sviluppate dalle lingue
anglosassoni. Il fatto notevole è l’assunzione al ruolo di aggettivo di vari sostantivi come
succede in vari casi, alcuni già citati: fiume (romanzo, istruttoria, discorso fiume), ombra
(governo, ministro ombra), modello (carcere, detenuto, scolaro modello), lampo (matrimonio,
31
sciopero lampo), tipo (lezione, episodio, inglese tipo), killer (zanzara, batterio), bomba
(notizia), nomi di colore (cammello: un vestito cammello; fucsia: una gonna fucsia).
Caratteristica di questi aggettivi è l’indeclinabilità e un generalizzato vincolo alla posizione
postnominale. Caratteristiche che si trovano anche quando l’aggettivo è esso stesso un
composto: decreto salvaladri.
Il lessema complesso del tipo N+N può essere legato da preposizione: ferro da stiro,
macchina da scrivere, festa da ballo, alzata di spalle, carta di credito, bomba a mano, crema
da barba ecc. La preposizione può anche essere oggetto di ellissi: busta paga, banca dati,
conferenza stampa, angolo cottura, buono pasto, pausa caffè, silenzio stampa, prova finestra,
carro attrezzi, vagone merci, motore diesel, servizio ristorante, ufficio informazioni, borsa
valori, casa vacanze, servizio cassa, formato tessera.
32
3. L’ITALIANO DI OGGI . LINGUA , STILE E VARIETÀ
All’inizio di queste dispense si è sottolineato il fatto che la lingua italiana, come tutte le
lingue storico naturali, non solo cambia e si arricchisce continuamente, ma contiene in sé una
pluralità di opzioni e possibilità: con le parole di Leopardi potremmo dire che quella italiana
non è propriamente una lingua, ma una «molteplicità di lingue».
Per distinguere e descrivere le diverse varietà della lingua la sociolinguistica ricorre ad
alcuni parametri di natura extralinguistica, che tengono conto cioè del contesto in cui avviene
la comunicazione, delle motivazioni che l’hanno attivata e di chi ne è protagonista.
Tenendo presenti questi fattori si può dire che le varietà dell’italiano contemporaneo
dipendono da cinque fondamentali parametri, che danno luogo ad altrettanti tipi di variazione:
Variazione DIAMESICA
→
in base al mezzo o canale di comunicazione (scritto/parlato)
Variazione DIATOPICA
→
in base all’area geografica
Variazione DIASTRATICA
→
in base al gruppo sociale
Variazione DIAFASICA
→
in base alla ‘situazione’ e/o funzione o contesto del messaggio
Variazione DIACRONICA
→
in base al tempo (oggetto delle lezioni di storia della lingua)
Per quanto ciascuna varietà abbia caratteristiche proprie e sia passibile di una descrizione
particolareggiata, la lingua si definisce incrociando e sovrapponendo questi divesi parametri.
Ogni parametro è rappresentabile come un asse che unisce due varietà contrapposte, ossia
come un continuum fra due poli estremi. Fra le due varietà estreme possono individuarsi un
numero non prestabilito, e potenzialmente infinito, di varietà intermedie. Vediamo dunque
quali sono i poli relativi alle categorie di variazione sincronica (cfr. anche la rappresentazione
grafica seguente):
DIATOPIA
→
It. Standard normativo / it. regionale dal forte sostrato dialettale
DIASTRATIA
→
It. colto ricercato / It. popolare basso
DIAFASIA
→
It. formale aulico / it. informale trascurato
DIAMESIA
→
It. “scritto-scritto” / it. “parlato-parlato”
33
34
3.1. LA VARIAZIONE DIAMESICA
3.1.1. OSSERVAZIONI GENERALI
La varietà diamesica (dal greco diá- ‘attraverso’ + mésos ‘mezzo’) considera il mezzo
fisico con cui la lingua trova espressione; la dicotomia fondamentale dell’asse diamesico è
dunque tra scritto e parlato. Osserva opportunamente Berruto che si tratta di «un’opposizione
che percorre le altre dimensioni di variazione e allo stesso tempo ne è attraversata». Se
consideriamo lo schema a cerchi concentrici (nella pagina precedente) possiamo notare che si
tratta del cerchio più interno, quindi condizionato dagli altri parametri poiché tutti lo
contengono (nell’altro schema infatti la retta relativa alla diamesia incrocia quelle relative alle
altre variazioni).
Proprio per questo non è sempre facile individuare le peculiarità formali, specifiche, di
scritto e parlato, in quanto cioè non pertengano ad altri livelli di variazione che si servono
dell’uno o dell’altro canale comunicativo: in una produzione orale cosa dipende dal canale
orale e cosa dipende dalle varietà che si servono del canale orale?
È evidente che tra i due poli estremi di questa varietà, lo scritto e il parlato, si possano
individuare diverse varietà intermedie, che partecipano ora dell’uno e ora piuttosto dell’altro
polo.
Tra gli autori che meglio hanno saputo individuare le peculiarità del parlato va ricordato
senza dubbio Giovanni Nencioni. Lo studioso ha innanzitutto cercato di chiarire che cosa
l’italiano parlato non sia:
•
non va considerato come l’opposto diametrale dell’italiano scritto, né come l’opposto
diametrale del dialetto;
•
non si identifica con l’italiano regionale né tantomeno popolare
•
non è sovrapponibile all’italiano orale, perché anzi l’italiano orale lo comprende in
quanto è un insieme più ampio e vario. Possono infatti appartenere all’italiano orale
secondo Nencioni i testi formalizzati come lezioni accademiche, orazioni, preghiere,
formule rituali, canti e filastrocche; testi scritti, letti ad alta voce; il discorso di
comunicazione immediata e spontanea.
Sul piano descrittivo poi, accanto ai due poli relativi al parlato-parlato (quello del libero
scambio conversazionale) e allo scritto-scritto (ossia la scrittura non legata in alcun modo al
parlato), Nencioni ha proposto di distinguere anche le seguenti tipologie:
35
•
parlato-scritto: ossia il parlato relativo alle battute dentro un racconto, ma anche il
parlato dei discorsi parlamentari e dei discorsi preregistrati per la radio e la televisione
(quest’ultimo noto anche come italiano trasmesso);
•
parlato-su-scritto: rappresentato dall’intervista giornalistica e da discorsi tenuti in
occasione di comizi e congressi;
•
parlato-recitato: ossia il parlato che trova rappresentazione in teatro, e che nasce
anch’esso da un testo scritto (ma scritto per essere ‘eseguito’).
3.1.2. DIFFERENZE TRA SCRITTO E PARLATO
Per cogliere le peculiarità dell’uno e dell’altro polo (parlato-parlato e scritto-scritto) è
opportuno cercare di distinguere i fenomeni propri del parlato e assenti nello scritto. Si tratta
in particolare di:
•
mezzi prosodici, con cui si indicano gli aspetti intonativi, legati all’esecuzione del
testo da parte del parlante e relativi all’intonazione della frase, alla velocità di
espressione, alle pause ecc.
•
tratti paralinguistici, ossia la gestualità degli interlocutori, la distanza spaziale ecc.
Da notare anche che il ritmo veloce di pronuncia nel parlato conversazionale meno
sorvegliato produce dei fenomeni di fusione a livello fonologico, noti come fenomeni di
‘allegro’, che hanno ricadute nella forma di alcune parole (ad es. nell’aferesi nei dimostrativi
sto, sta ecc. non ancora registrati nella lingua scritta di media formalità).
La lingua scritta può solo faticosamente ricostruire, in modo indiretto, attraverso l’uso di
simboli grafici (detti segni soprasegmentali) i tratti prosodici del parlato, mentre per quelli
paralinguistici è costretto spesso a ricorrere a inserti descrittivi.
D’altra parte si può considerare che tutto ciò che in sostanza riguarda l’aspetto grafico di
un testo (l’interpunzione, le sottolineature, le maiuscole, e in genere la mise en page o la
presentazione d’insieme del testo), ed ha come obiettivo appunto quello di cercare di
riprodurre la modalità di esecuzione o di interpretazione del testo, può essere rubricato tra i
fenomeni propri dello scritto e assenti nel parlato.
Più importanti sono le differenze tra scritto e parlato che agiscono sul piano della testualità
e della pragmatica e che sono legate al fatto che nel parlato si riscontra:
1) un minor grado di pianificazione del discorso, ossia una maggiore difficoltà di
organizzare le informazioni in un periodo complesso. Ciò si riflette in:
36
2) una modalità di organizzazione dell’enunciato in cui le esigenze della semantica e
della informatività prevalgono su quelle della coesione sintattica.
A questi caratteri generali corrispondono, nel parlato, i seguenti tratti linguistici:
1) alla micropianificazione corrisponde il prevalere dell’ordine marcato delle parole e
quindi di costruzioni tematizzate (dislocazioni a destra e a sinistra, frasi scisse, tema
sospeso), con bassa coesione testuale, pause, esitazioni colmate con interiezioni e
altro, ripetizioni di chiarimento e ripresa, frammentarietà, segnali discorsivi o
demarcativi (allora, dunque, eh, ma, insomma…);
2) sullo stesso piano a livello sintattico si deve notare la prevalenza della paratassi
sull’ipotassi e di una ipotassi leggera su una più convoluta, con legami coesivi generici
come che (vieni, che è tardi”), perché (“te lo dico perché tu ci stia attento”; “Chi c’è in
casa? Nessuno, perché Francesca è uscita”), così (faccio un segno, così Giorgio ci
vede). Si noti ancora che nel parlato le principali abbondano sulle subordinate, e si
riscontrano spesso dei periodi monoproposizionali.
3) all’impossibilità della cancellazione corrisponde la frequenza delle autocorrezioni
(cioè, volevo dire), parafrasi, particelle e avverbi modali metadiscorsivi (praticamente,
per così dire, veramente, diciamo);
4) alla difficoltà di memorizzazione corrispondono fitte riprese e costruzioni
anaforiche;
5) al forte ruolo dei mezzi prosodici corrisponde uno stretto rapporto tra sintassi e
prosodia;
6) al ruolo della gestualità corrisponde la deissi;
7) alla compresenza di parlante e interlocutore corrisponde un incremento della
funzione fatica: forme di allocuzione, i cosiddetti fatismi (sai, sa com’è, capisce?,
capito?, no), forme di cortesia (scusi, mi segui?), pronomi di prima persona, segnali di
conferma o dubbio (scusa, mah, permetti, certo, appunto, giusto);
8) alla condivisione enciclopedica corrispondono ellissi e implicitezza.
Nel parlato risalta anche più che nello scritto il ricorso alle parole grammaticali pure (che,
se, io, tu, e, non, ma ecc.) che accresce il già alto indice di frequenza dei monosillabi nella
nostra lingua (si parla di una minore densità lessicale rispetto allo scritto).
Rilevante anche il fatto che il parlato conosca una gamma di variazione lessicale assai
minore dello scritto (un vocabolario meno vasto, come è anche intuitivamente comprensibile).
37
Inoltre nel parlato si avranno facilmente molte ripetizioni dello stesso lessema, soprattutto
quando esso riveste un’importanza tematica, magari anche a livello psicologico, massima.
Nella stessa direzione va l’uso frequente di termini generici, le cosiddette parole passepartout, ad alto tasso di iperonimia (cosa, roba, tipo, faccenda, affare, tizio, uomo, uno,
donna, fare, dire) e di intensificanti (come bello forte tutto un sacco un mucchio tanto)
superlativi: “c’è tanta di quella neve”, “c’è un sacco, un mucchio di neve”, estremamente)
oppure riduttivi (attimino, momentino, cosina, pochino), esclamazioni (cavolo, caspita) ecc.
In particolare, colpisce la frequenza, nell’attuale lingua parlata, dei dimunitivi con -ino come
momentino, attimino e pochino; si tratta di diminutivi iperbolici, tipici proprio del parlato,
così come lo sono, ma meno frequenti, gli accrescitivi tipo bacioni, salutoni. Ci sono poi i
veri e propri dimunitivi, a testimoniare il grado di espansione del baby talk e dell’eufemismo
colloquiale (paginetta, cosina, caffettino, formuletta, insalatina) e, in altra direzione,
dell’espressionismo accrescitivo e peggiorativo (fallaccio, pancione, poveraccio, cagnaccio:
questi magari più che altro di origine dialettale).
La gestione del parlato avviene per lo più nell’interscambio dialogico. Qui una ritualità
codificata e sempre eccepita regola l’avvicendarsi dei turni, il succedersi dei ruoli (parlante/
ascoltatore), la dinamica delle sovrapposizione e delle interruzioni, dei cambi di turno (con
ampio uso dei segnali discorsivi), dei processi di cessione o presa della parola.
3.2. La vARIAZIONE DIATOPICA
È la variazione determinata dalla dimensione spaziale, dal greco tópos che significa
‘luogo’. Al centro di questa varietà dunque si colloca il rapporto, articolato e complesso, tra
italiano e dialetti.
3.2.1. LINGUA E DIALETTI
La lingua nazionale, l’italiano, è nata dallo sviluppo di un volgare locale – quello
fiorentino – e si è imposta come lingua parlata dalla maggioranza della popolazione soltanto
dopo l’unificazione dello stato italiano, nel 1861. I dialetti che ancora oggi pertengono al
sistema dell’italiano sono la prosecuzione di quei volgari locali che si svilupparono a partire
dal latino nelle varie regioni del territorio italiano. Il dialetto non è qualitativamente
“inferiore” alla lingua, semplicemente se ne differenzia per:
•
l’area d’uso più ristretta, dal punto di vista sia del territorio che della popolazione: è
questa l’unica caratteristica davvero dirimente per distinguere lingua e dialetto;
38
•
l’impiego prevalentemente orale;
•
la ridotta codificazione in ambito soprattutto grammaticale (numerosi sono invece i
vocabolari dialettali).
La lingua nazionale gode inoltre, rispetto al dialetto, di un maggior prestigio sociale, e di
un più esteso impiego nel campo della cultura, anche se in realtà non mancano dialetti di forte
tradizione letteraria e di grande valore sul piano storico e culturale (ad esempio il veneto ma
anche il milanese o il romanesco).
Il termine ‘dialetto’ è in genere usato, per le varietà locali, solo a partire dal Cinquecento,
da quando cioè il volgare fiorentino (letterario trecentesco) diventa per opera di Bembo e
delle sue Prose della volgar lingua (1525) il modello per l’italiano scritto letterario. Per il
periodo precedente si parla di “volgari locali”.
È opportuno distinguere, nel rapporto tra lingua e dialetti, tra tre condizioni:
•
bilinguismo: si verifica quando due sistemi linguistici compresenti in una
determinata comunità sono equivalenti da un punto di vista socioculturale;
•
diglossia: si verifica quando i due sistemi linguistici sono differenziati in base
all’uso, ossia un codice linguistico è usato per le situazioni ufficiali e solenni,
mentre l’altro per quelle private e familiari e, in genere, la varietà riservata agli
usi pubblici e formali è possesso più pieno delle classi sociali più alte (il che
significa che può essere correlata anche al grado di studio). Si parla in questo
senso di ‘bilinguismo verticale’ di contro al bilinguismo vero e proprio,
‘orizzontale’.
•
dilalia: si tratta di una situazione di bilinguismo in cui è mantenuta una
separazione funzionale ma con ampie zone di sovrapposizione tra i due codici.
Entrambe le varietà sono inoltre impiegate o impiegabili nella conversazione
quotidiana.
Nel repertorio linguistico degli italiani è evidente che, almeno fino ad anni recenti, la
situazione è quella definita dalla diglossia, in cui l’uso del dialetto è riservato al contesto
privato e familiare, mentre l’italiano per quello formale e ufficiale (comunicazioni ad es. con
la scuola, o con l’autorità ecc.).
In realtà, il rapporto oggi è in parte cambiato a causa della progressiva sparizione del
dialetto nella comunicazione quotidiana, almeno nei grandi centri urbani. Il dialetto risulta
così disponibile anche per una scelta, più o meno consapevole, di indicazione di appartenenza
a un’identità di gruppo.
39
I dialetti dell’italiano sono divisibili in due grandi gruppi, a loro volta comprendenti
diverse varietà:
•
settentrionali: gallo-italici (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia), veneti,
istriani;
•
centro-meridionali: toscani, mediani (Nord del Lazio, dell’Umbria e delle
Marche), meridionali intermedi (resto del Lazio, dell’Umbria e delle Marche,
Abruzzo, Molise, Campania, Lucania, Nord della Calabria e della Puglia),
meridionali estremi (Sud della Calabria, Salento e Sicilia).
Hanno caratteri particolari, slegati dal toscano, e sono quindi in genere considerate lingue a
parte, pur rientrando del sistema dell’italiano:
•
il sardo, diviso nelle varietà logudorese (la più conservativa), campidanese,
sassarese e gallurese;
•
il ladino, diviso in friulano e ladino dolomitico, cui andrebbe aggiunto – fuori
dal territorio italiano – il romancio parlato nel Cantone dei Grigioni, nella
Svizzera italiana.
Le diverse zone dialettali sono divise da linee immaginarie che vengono dette isoglosse.
Un isoglossa delimita il territorio in cui è presente un certo fenomeno linguistico (ad es. la
sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione intervocalica). I grandi gruppi sono
separati tra loro da parecchie isoglosse l’una vicina all’altra, che costituiscono i fasci di
isoglosse. Il principale fascio di isoglosse è la cosiddetta linea La Spezia-Rimini, che divide il
gruppo settentrionale da quello centro-meridionale.
Un altro importante fascio di isoglosse, anche se dall’andamento meno regolare, è quello
delle linee che vanno dal territorio a sud di Roma fino alla provincia di Ancona, che separa i
dialetti mediani da quelli centro-meridionali. Da ricordare anche le due serie di isoglosse che
attraversano la Calabria e la Puglia, isolando grosso modo le province di Catanzaro e Reggio
e il Salento, in cui si parlano dialetti meridionali estremi, in genere contraddistinti dal
vocalismo di tipo siciliano (con 5 vocali toniche).
40
41
Secondo Pellegrini (1975) i rapporti tra lingua e dialetto nel caso italiano possono essere
ricondotti alle seguenti quattro situazioni-tipo: 4
1. italiano comune (o standard);
2. italiano regionale;
3. koiné dialettale (o dialetto regionale);
4. dialetto.
Ovviamente tali situazioni linguistiche vanno intese non come unità discrete, ma come
parti di un continuum in cui solo i due poli estremi – l’italiano standard da un lato e il dialetto
dall’altra – possono avere un certo grado di ‘purezza’ (mai comunque assoluta).
Per italiano regionale si intende l’italiano parlato in una certa zona, condizionato dal tipo
dialettale che in quella zona si pratica in un regime di diglossia rispetto all’italiano.
L’influenza del dialetto è avvertibile prima di tutto sul piano fonetico (ossia nei tratti relativi
alla pronuncia e all’intonazione), in secondo luogo anche sulla scelta del lessico, meno sugli
altri livelli linguistici.
Il dialetto regionale è una varietà di dialetto regionalizzata. Si pensi ad esempio alla
situazione di egemonia in cui si è trovato un centro urbano come Venezia, il cui prestigio
storico-politico ha avuto conseguenze anche sul piano linguistico, influenzando lo sviluppo
dei dialetti presenti nel territorio regionale.
Un fenomeno generale è la progressiva italianizzazione dei dialetti, ossia l’introduzione
nel patrimonio linguistico dialettale di tratti derivati dalla lingua nazionale. Il livello
linguistico più sensibile all’italianizzazione è senza dubbio quello del lessico, seguito da
quello fonetico. Meno influenzata resta la morfologia e la morfosintassi. L’italianizzazione
del lessico riguarda naturalmente soprattutto la sfera “pubblica”, dove i contatti sociali che si
istituiscono devono spesso necessariamente varcare i confini della comunità. In particolare
saranno interessati: l’ambito burocratico; l’assistenza sanitaria (parti del corpo, malattie); la
religione; i livelli della parentela; il commercio. In genere sono importati dall’italiano la
maggior parte dei termini astratti: in questo caso non sostituiscono termini dialettali, ma –
spesso – risultano da un processo di lessicalizzazione primaria di un elemento extralinguistico
prima non presente nel codice (non è nuovo solo il lessema, ma anche il concetto da esso
denotato). Rimangono invece dialettali i termini legati agli oggetti materiali della vita
quotidiana, almeno quando questi oggetti sono sopravvissuti (strumenti agricoli, ecc.)
4
Giovan Battista Pellegrini, Saggi di linguistica italiana, Torino, Boringhieri, 1975.
42
Si registra anche la presenza di dialettismi all’interno dell’italiano parlato, soprattutto con
funzione espressiva, gergale o paragergale, o ancora come segnale più o meno scherzoso di
appartenenza regionale. Tra i casi più ricorrenti e condivisi (che hanno quindi perso qualsiasi
carattere di espressività o di identificazione regionale) di dialettismi ormai comuni
nell’italiano segnaliamo: teppista e derivati, che sono di origine lombarda, come anche
panettone e pirla; il pesto dalla Liguria; la pizza da Napoli; l’amatriciana da Roma; la cassata
dalla Sicilia. Ecco comunque un elenco dei principali (e come si vede ben radicati) dialettismi
accolti nell’italiano:
piemontesismi:
ramazza, manfrina;
ligurismi:
boa, cavo, lavagna, molo, scoglio;
lombardismi:
bettola, tapparella, pirla;
venetismi:
arsenale, traghetto, zattera;
emiliani:
birichino, mezzadro;
romanismi:
i sostantivi in -aro (palazzinaro ecc.), sbronza, caciara;
napoletanismi, calabresismi: pennichella, bustarella (entrambi napoletani), pernacchia,
vongole;
3.2.2. CARATTERI DELLA VARIAZIONE DIATOPICA
La variazione regionale dell’italiano è senza dubbio la più palesemente sensibile
nell’ambito del repertorio, specie nella lingua parlata. L’eventuale tratto regionale si rivela
con diversa evidenza a seconda della variazione diastratica (cultura e posizione sociale del
parlante) e diafasica (formalità o informalità del registro); talvolta l’unico elemento di
regionalità – quindi di distinzione diatopica – è costituito da varianti fonologiche e
intonazionali.
È interessante notare che l’italiano regionale è segnato dal sostrato dialettale del parlante,
anche quando questo non è mai stato dialettofono: la dialettalità areale si manifesta infatti
nell’esecuzione dell’italiano anche nei non dialettofoni (una sorta di dialettalizzazione
secondaria).
Si è già detto che l’italiano regionale è una varietà di lingua influenzata dal dialetto parlato
in una data zona. Ribadiamo l’evidenza che il fattore regionale è più forte a livello di
intonazione (la cadenza), di fonetica (la pronuncia) e, in parte, di lessico, mentre risulta meno
vistoso a livello di morfologia e di sintassi (e sempre più anche di lessico). E tuttavia certi
costrutti morfosintattici degli italiani regionali (ad es. il tipo nordorientale: «non so quando
43
che verrà», «il paese dove che sei stato» ecc.) sono ben netti e non meno dei tratti fonologici
imputabili al retrostante dialetto.
Non è possibile occuparci qui dell’intonazione, che può essere descritta solo con strumenti
e metodi sperimentali.
Passiamo in rassegna ora, con particolare riguardo alla Toscana, i tratti più importanti e
misurabili dell’italiano regionale, con la precisazione che l’italiano regionale di Toscana è un
caso unico di dialettalizzazione forte e precoce dell’italiano, il quale in gran parte coincide col
livello diastratico popolare.
Vediamo dunque, partendo dai tratti fonetici:
. italiano settentrionale:
1. realizzazione sempre sonora di s intervocalica ([’kaza]);
2. e tonica aperta in sillaba chiusa e finale ([mo’m ɛ nto], [per’kɛ ], [’trɛ ]);
3. riduzione delle consonanti geminate in posizione intervocalica (non [’bel:o], ma
[’be:lo]);
4. realizzazione sonora della affricata alveolare sorda (z) all’inizio di parola ([’
ʣ i:o]
invece di [’ʦi:o]).
. italiano regionale toscano:
1. pertinenza dell’opposizione di apertura delle vocali e e o ([’peska] ‘attività del
pescare) vs [’pɛ ska] ‘frutto’; [’bot:e] ‘recipiente’ vs [’bɔt:e] ‘colpi’);
2. pertinenza dell’opposizione tra sibilante sorda e sonora ([’fu:so] ‘strumento per
filare’ vs [’fu:zo] ‘participio di fondere’);
3. monottongazione del dittongo uo (da [’bwɔno] a [’bɔno]);
4. gorgia, cioè spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche anche in
fonosintassi ([la ’ka:sa] > [la ’ha:sa];
5. perdita dell’elemento occlusivo nelle affricate palatali [ ʧ ] e [ʤ ]: [’ka:ʧ o] > [’ka:ʃ o];
[’a:ʤ ile] > [’aʒile];
. italiano regionale centro-meridionale:
1. rafforzamento delle consonanti [b] e ʤ
[ ] in posizione intervocalica o dopo una
pausa ([’abile] > [’ab:ile]; [’aʤ ile] > [’aʤ :ile];
2. realizzazione sempre sorda della sibilante intervocalica ([’vi:zo] > [’vi:so]);
3. sonorizzazione delle occlusive sorde dopo consonante nasale ([’kampo > [’kambo])
nell’area dei dialetti meridionali e meridionali estremi;
44
4. assimilazione regressiva di [r] e [l] seguite da consonante ([’per ’me] > [pe’m:e];
[’barba] > [’bab:a]) in Sicilia.
A livello morfologico e sintattico le variazioni regionali sono meno fitte e più
ampiamente distribuite. Inoltre non tutte sono ricevibili allo stesso livello diastratico, e
talvolta la loro accettabilità cambia anche a seconda della zona in cui il fenomeno si
manifesta. Anche qui forniamo un breve elenco dei tratti principali:
italiano settentrionale:
1. forme perifrastiche sostitutive di stare + gerundio: essere dietro a, essere dietro che,
essere qui che;
2. rafforzamento con particelle avverbiali di pronomi e aggettivi dimostrativi (questo
qui, quella là, quel ragazzo lì);
3. preferenza per suffissi di alterazione dimunitivi in -ino (macchinina) e -etto
(libretto), prevalenti rispettivamente nel Nord-Ovest e nel Nord-Est;
4. uso pressoché esclusivo del passato prossimo anche per azioni compiute e lontane
(«è arrivato a Milano cinque anni fa»); da notare che questo tratto, assolutamente privo
di connotazioni diastratiche (viene cioè indifferentemente usato nelle varietà alte e
basse) si sta diffondendo anche in zone dove fino a poco tempo fa resisteva
l’opposizione con il passato remoto: il che può essere spiegato sia con il prestigio
sociale delle varianti settentrionali, sia con un generale processo di ristandardizzazione
delle forme verbali che produce lo stesso fenomeno, per esempio, anche in francese;
5. frequente aggiunta di “integranti semantici” (particelle locative in posizione finale e
accentata rispetto alla forma verbale): ad es. star lì, prender su, ecc. Il tratto, pur tipico
della Lombardia e delle Venezie, è diffuso in tutto il Nord;
6. uso del possessivo seguito dal nome di parentela senza articolo («mio papà»);
7. nomi di persona preceduti da articolo determinativo (la Lucia, il Mario): mentre per
il femminile il tratto è diffuso in tutto il Nord e in parte del Centro (Toscana e Umbria
settentrionale), l’uso del maschile preceduto da articolo determinativo è limitato a
Lombardia, Canton Ticino e Trentino;
italiano regionale centro-meridionale:
1. uso di tenere per avere, e stare per essere («qui non ci sta nessuno»; «tengo
famiglia»), anche con valore di ausiliare;
45
2. uso dell’accusativo preposizionale, cioè il complemento diretto (oggetto) è
preceduto dalla preposizione a («ho visto a Carlo»);
3. estensione di a sulle altre preposizioni («bello a mamma tua»), anche in dipendenza
da stare («stiamo a mangiare»);
4. uso del passato remoto anche per azioni aspettualmente prossime o non finite
(«arrivò ora»);
5. uso transitivo di certi intransitivi (salire, scendere, uscire, entrare);
6. collocazione del possessivo dopo il nome («vieni da mamma tua»);
7. posposizione del verbo al predicato nominale o al soggetto nei casi in cui sarebbe
normale la sequenza inversa, specie con il vb. essere (tratto soprattutto siciliano e
sardo): «stanco è»; «Michele lo fece»:
Si può chiudere ricordando la presenza dei geosinonimi ossia la presenza di sinonimi
marcati in diatopia, di lessemi diversi, usati in regioni diverse, che tuttavia indicano lo stesso
referente. Qualche esempio: bugie / chiacchiere; cacio / formaggio; lavandino / lavello /
acquaio; idraulico / stagnino / lattoniere; avanzare / risparmiare; cencio / straccio; gruccia /
stampella; anguria / cocomero / mel(l)one: spesso uno dei geosinonimi finisce per imporsi –
in genere per ragioni di prestigio sociale di una certa variante diatopica – sugli altri e a
prevalere anche nelle zone dove si usavano lessemi differenti.
Per quanto riguarda infine la consistenza del lessico dialettale nell’ambito del patrimonio
lessicale italiano, secondo i dati forniti dal Gradit l’apporto dei dialettismi e dei regionalismi
sarebbe attestato sul 2-2,5% circa, poco meno di quello degli anglismi. Negli ultimi decenni
tuttavia è stata notata una maggiore apertura del lessico panitaliano nei confronti dei
dialettismi tendenzialmente già più diffusi, oggi non più sanzionati a livello di comunicazione
standard. Così, da una parte il prestigio sociale delle varianti settentrionali, dall’altra la
specializzazione comica e “sentimentale” di certo lessico meridionale e romanesco (e il suo
uso nei media, nonché l’indubitabile romanocentrismo televisivo) ha fatto sì che molti lessemi
entrassero nell’italiano tout court smarrendo in larga parte la loro connotazione regionale.
3.2.3. LE MINORANZE ALLOGLOTTE
Il quadro delle varietà diatopiche presenti nel territorio italiano non può considerarsi
completo se non si fa almeno un breve cenno alle minoranze linguistiche (o alloglotte).
46
Va precisato subito che bisogna tenere distinto il concetto di «minoranza linguistica» da
quello di «minoranza nazionale», di formulazione tardo-ottocentesca.
Un senso di appartenenza linguistica differenziato rispetto a quello della maggioranza non
è sufficiente a definire di per sé una diversa identità nazionale, che ha evidentemente ragioni
storiche e politiche di altra natura. Secondo Fiorenzo Toso infatti «se un gruppo minoritario
afferma collettivamente un’alterità identitaria in competizione col senso di appartenenza
nazionale, per la minoranza ne discendono, in rapporto dialettico di negoziazione con lo stato
egemone, anche dei «diritti linguistici» che nei paesi a democrazia avanzata lo stato stesso ha
il dovere di tutelare; nel caso di minoranze linguistiche che non siano al tempo stesso
minoranze nazionali, la situazione è differente, e il problema che si pone è piuttosto quello di
una tutela del patrimonio linguistico di tali comunità, poiché i “diritti linguistici” che
riguardano (individualmente e collettivamente) gli appartenenti a tali gruppi non sembrano in
ultima analisi diversi da quelli di qualsiasi altro membro della comunità statale in cui si
integrano». 5
Si tratta di considerazioni che si trovano recepite già dalla Costituzione italiana. L’art. 3
dice infatti che «Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali», mentre l’art. 6 assume in pieno la materia stabilendo che «La Repubblica
tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Tale principio è stato però recepito dal
legislatore solo in parte perché di fatto ad essere tutelate sono solo le minoranze linguistiche
storiche. Il principale provvedimento legislativo in materia di tutela delle minoranze
linguistiche è infatti la legge 482 del 15 dicembre 1999, che ha dato dignità alle parlate
alloglotte promovendo «la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente
legge». Proprio in questa affermazione si colgono gli aspetti positivi e insieme quelli negativi
della legge, che da un lato definisce una serie di situazioni chiamate a costituire una
‘categoria’ ritenuta meritevole di valorizzazione, dall’altro si produce in un elenco delle
lingue da tutelare ponendo di fatto limiti in gran parte arbitrari. Manca cioè una definizione
oggettiva e unificante del concetto di «minoranza linguistica storica», con la conseguenza che
non solo rimane escluso da tutela il romans o romaní, a cui manca il requisito della
stanzialità delle comunità parlanti, ma anche le altrettanto numerose comunità di immigrati
recenti, di provenienza sudamericana, asiatica e africana.
5
Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 7-8.
47
Le principali isole di alloglossia in Italia, tutelate dalla legge 482, sono (cfr. anche la
cartina che segue):
•
Provenzale. È attivo nelle valli del Piemonte sud-occidentale confinanti con la Francia
(val Gesso, val Chisone, valle Stura, val Pellice, alta valle di Susa e altre, nelle
province di Cuneo e Torino) per un totale di circa 50.000 persone. Oltre i confini dello
stato il provenzale è ancora vivo nella Francia meridionale;
•
Franco-provenzale. I cosiddetti dialetti franco-provenzali sono concentrati soprattutto
in Valle d’Aosta, ma sono parlati anche in alcune zone della provincia di Torino. Gli
utenti cono complessivamente circa 100.000. In Valle d’Aosta la situazione è ancor
più particolare perché accanto al patois locale (il franco-provenzale) convivono i
dialetti piemontesi e come lingue ufficiali, sia l’italiano che il francese.
•
Tedesco delle Alpi. Si tratta di colonie tedescofone relative ad alcuni comuni nelle
valli che si diramano dal Monte Rosa (Alagna, Macugnaga, Gressoney), la cui origine
va fatta risalire alle migrazioni in età medievale delle popolazioni walser (del Vallese,
nella Svizzera meridionale);
•
Tedesco dell’Alto Adige. Interessa la cospicua minoranza tedescofona concentrata
nella provincia di Bolzano. I parlanti sono circa 300.000 e sono in maggioranza
rispetto agli italofoni. Il tedesco è lingua ufficiale nella scuola e nella pubblica
amministrazione, ma non coincide con le parlate locali, le parlate bavaro tirolesi,
anche se rimane per queste la lingua culturale di riferimento.
•
Ladino dolomitico. Diffuso nelle valli attorno al gruppo dolomitico del Sella (Fassa,
Gardena, Badia, Marebbe, Livinallongo). Interessa all’incirca 30.000 utenti. Il ladino
dolomitico è legato agli altri due gruppi ladini del cantone svizzero dei Grigioni (dove
il ladino si chiama romancio) e del Friuli. Per il settore che interessa la provincia di
Bolzano il ladino è tutelato e inserito nei programmi scolastici alla pari del tedesco e
dell’italiano.
•
Friulano. La popolazione che parla dialetti di ceppo friulano (circa 430.000 persone) è
concentrata in gran parte delle province di Udine, Pordenone e Gorizia e in alcune
zone di quella di Venezia; ma va ricordato che nei principali centri urbani della
regione è parlato il dialetto veneto, ora in assenza del friulano (Trieste, dove il friulano
è scomparso nel secondo Ottocento) ora in compresenza del friulano (Udine, dove il
veneto rappresenta la varietà diastraticamente alta).
48
•
Sloveno. Interessa il settore di confine nord-orientale del Paese. Si possono
distinguere gli sloveni della provincia di Trieste e quelli dell’area udinese e goriziana.
•
Croato. In alcuni centro del Molise resiste, ma interessa un numero sempre minore di
utenti, il croato importato da emigrati provenienti dalla Dalmazia nel XV secolo.
•
Albanese. Anche le parlate albanesi che si trovano sul territorio italiano sono in gran
parte il risultato di antichi movimenti migratori (a partire dal XV secolo). La
minoranza consta di circa 100.000 persone, sparse però in tutta l’Italia meridionale,
con nuclei più consistenti in Calabria (ma con propaggini in Sicilia, a Palermo).
•
Grico. Si tratta dei dialetti di origine greca che ancora sopravvivono in alcune località
della Puglia salentina e in Calabria, alle pendici dell’Aspromonte. Sono connotati
diastraticamente e diafasicamente in quanto ormai usati solo dai ceti più bassi o nelle
situazioni meno formali. L’origine di questa minoranza è stata inizialmente attribuita
all’antica civiltà classica della Magna Grecia (dall’VIII sec. a.C., ma il nome emerge
nel III sec. a.C.), ma oggi si propende a ritenere che si tratti di un residuo della più
tarda occupazione bizantina dell’Italia meridionale (dal VI sec. d.C.).
•
Catalano. Interessa la zona di Alghero, in provincia di Sassari. Risale alla
deportazione in città di coloni provenienti dalla Catalogna e dalle Isole Baleari,
effettuata nel 1354 per volontà di Pietro IV d’Aragona.
•
Sardo. Rappresenta un insieme dialettale fortemente originale nel contesto delle
varietà neolatine (caratterizzato dall’affiorare di tipologie arcaiche), e nettamente
differenziato rispetto alla tipologia italoromanza, al punto che gli studiosi sono
sostanzialmente concordi nell’affermarne l’originalità come gruppo a sé stante. La
varietà più arcaica e prestigiosa è il logudorese, che presenta una serie di tratti
conservativi, più vicini al latino.
È opportuno precisare che nei casi di minoranze alloglotte, i parlanti hanno in genere
competenza oltre che della lingua madre, anche della lingua nazionale (o comunque
dominante). Il rapporto è di bilinguismo o di diglossia, a seconda dei casi.
Naturalmente, come per tutte le varianti diverse dalla lingua dominante, il numero dei
parlanti attivi è in calo (tranne il caso particolare del valdostano): il che però in genere
significa che la minoranza stessa, come popolazione, è in calo.
49
3.3. LA VARIAZIONE DIASTRATICA
La variazione diastratica (dia + strátos ‘strato’) riguarda la correlazione della lingua con la
stratificazione sociale dei parlanti. Le variabili sociolinguistiche (i tratti che variano in
funzione della posizione sociale del parlante) sono stati studiati soprattutto a livello
fonologico, a partire dai classici lavori di William Labov sui contrassegni sociolinguistici
nella pronuncia dell’angloamericano (per un approfondimento sul lavoro di Labov cfr. Lo
Duca, Lingua italiana ed educazione linguistica, par. 1.4.2). Naturalmente anche gli altri
livelli della lingua sono interessati dalla variazione sul piano della diastratia, per quanto la
raccolta dei dati, lo studio empirico e in particolare la creazione di corrispondenze biunivoche
fra tratti linguistici e condizioni sociali dei parlanti sia meno facile che nello specifico
fonologico.
Mentre è difficile trovare dei tratti costanti nelle varietà diastratiche alte, gli studiosi sono
da diversi decenni concordi nell’isolare una varietà bassa di italiano diastraticamente
connotata, che viene generalmente identificata con l’etichetta di italiano popolare, da
intendersi come un caso di formalità e marcatura diafasica alta dell’uso linguistico di un
soggetto diastraticamente basso: nel senso che per un parlante che si colloca ai livelli più
bassi della dinamica sociale quella varietà di italiano – l’italiano popolare appunto – sarà
comunque la più alta che egli è in grado di utilizzare, per quanto lontana dallo standard essa
sia.
Attenzione: l’italiano popolare – marcato in diastratia – non va confuso col registro
informale, substandard dell’italiano medio – marcato in diafasia.
Anche se alcuni tratti possono essere comuni, l’italiano popolare è, diversamente dall’altro,
marcato sociolinguisticamente dal contatto col dialetto e dalla scarsa cultura del parlante (o
scrivente).
In particolare, mentre il registro informale convive con altri registri, rappresenta cioè una
scelta determinata sulla base del contesto comunicativo, l’italiano popolare, per un parlante
e/o scrivente che si colloca in questa fascia diastratica, è invece l’unico codice a disposizione
nella lingua. In un certo senso esso è nato dal momento in cui si è fissata una lingua di
riferimento, configurandosi già a partire dal Seicento come una varietà propria dell’utente non
istruito nel momento in cui si propone di abbandonare il dialetto, e determinandosi poi via via
come una varietà propria del semicolto.
Gli studi sull’italiano popolare sono nati all’alba del Novecento, a cominciare dall’esame
linguistico delle lettere dei prigionieri italiani della prima guerra mondiale fatto dal grande
50
filologo romanzo Leo Spitzer. Il rilancio di questi studi è avvenuto negli anni SessantaSettanta ed ha portato all’elaborazione di due tesi diverse in merito al concetto di italiano
popolare, la prima che si può far risalire a Tullio De Mauro l’altra a Manlio Cortelazzo. Nello
specifico:
. Cortelazzo ha messo in primo piano il retroterra dialettale dell’italiano popolare, che
viene perciò definito «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madre lingua
il dialetto» (Cortelazzo 1972). 6
. De Mauro punta invece sull’autonomia della varietà detta italiano popolare, definita come
il «modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento,
maneggia […] la lingua ‘nazionale’» (De Mauro 1970 [1963]). 7
Dalla proposta di De Mauro risultano esaltati i tratti unitari e sovraregionali dell’italiano
popolare, che però – a ben vedere – sono largamente derivanti dal fatto che la
documentazione disponibile è soltanto scritta. Molti studi hanno infatti messo in rilievo la
presenza di una varietà di italiano popolare già nel passato, da quando perlomeno è chiara la
norma dell’italiano alla quale tentano di avvicinarsi i semicolti. Insomma, i fenomeni
linguistici sono generalmente di lunga durata e questa varietà non fa eccezione, in quanto i
suoi tratti peculiari provengono dalla sfera del parlato e delle soggiacenti strutture dialettali.
Da precisare però che la supposta unitarietà dell’italiano popolare, sostenuta soprattutto da
De Mauro, si dilegua quando viene considerata la varietà parlata: se alcuni tratti
morfosintattici e testuali sono infatti in linea di massima panitaliani, è però vero che il lessico
e soprattutto la pronuncia sono fortemente connotati a livello diatopico. Del resto in Italia la
variazione diatopica è di gran lunga più forte che in molti altri paesi, il che conduce a una
grande rilevanza dei fattori diatopici anche nella variazione diastratica e diafasica: in entrambi
i casi più la varietà si abbassa (sull’asse sociale e su quello dell’informalità), più emerge la
caratterizzazione diatopica.
Vediamo ora alcuni tratti riconducibili alla media dell’italiano popolare, formati – secondo
Berruto (1987, p. 16) – sulla base di tre meccanismi principali:
•
interferenza con il sostrato dialettale;
•
ipercorrettismo;
•
processi di semplificazione.
6
Manlio Cortelazzo, Lineamenti di italiano popolare, Pisa, Pacini, 1972, p. 106.
Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1963 (1° ed.); 1970 (nuova edizione
riveduta, aggiornata e ampliata), p. 47.
7
51
A livello grafico-fonetico sono state ben osservate
•
le allografie di certe consonanti e nessi consonantici (Itaglia, gnente, siagura);
•
le oscillazioni per c velare e palatale, e per la labiovelare cu/qu;
•
l’uso errato di h (anno preso la medicina; andare ha Roma);
•
l’esecuzione incerta delle consonanti geminate;
•
l’uso logicamente incoerente dei segni di interpunzione.
In fonologia si dovranno notare soprattutto fenomeni di
•
epentesi (pissicologico per psicologico);
•
aferesi (dirizzo per indirizzo);
•
assimilazioni («è un, come se dice, crettomane» [per cleptomane]).
In morfologia:
•
largo impiego di ci tuttofare («ci dico» per ‘a lui’, ‘a lei’, ‘a loro’);
•
si per ci («quest’uva, se la portavamo a casa, si facevamo il vino»);
•
li/i per gli (li italiani, i scrutini, i gnocchi, «gli italiani li manca il senso di
responsabilità»);
•
me e te in funzione soggetto;
•
lui/lo/gli come pronomi allocutivi («scusi signore gli posso chiederci un favore?»,
«Lui lo sa dov’è via Roma?»;
•
suo per loro («non ne sanno niente delle sue cose»);
•
oggetto preposizionale («a me non mi ha visto nessuno»);
•
morfologia verbale analogica (venghi, vadi, potiamo, soddisfava);
•
scambio di ausiliare («hanno cresciuto»);
•
analogia regolarizzante per i nomi irregolari («i ginocchi», «nessune parti», «molti
complicazioni»);
•
forme analogiche del comparativo sintetico: il più superiore; il più meglio; la più
male);
•
concordanza a senso, presente in modo assai più frequente rispetto all’italiano
neostandard («la gente l’applaudivano»).
Quanto alla sintassi, spiccano:
•
i temi sospesi («perché non mi va di andarci al mare io»);
52
•
il periodo ipotetico con conguaglio di protasi su apodosi («se sarebbe venuto oggi, non
sarebbe successo»; «se venisse, glielo dicessi»; «se venivi, ci vedevi»: quest’ultima
forma è, ovviamente, diastraticamente meno connotata).
•
l’uso pervasivo del che polivalente, che in questo contesto si trova spesso dopo altra
congiunzione subordinativa (mentre che, quando che, come che) e si presenta anche
con clitico di ripresa disambiguante: «vidi un armadio che c’erano dei vestiti»; «una
casa grande, che l’aveva comprata suo zio»; «un soldato vicino a me che gli dissi di
andare»;
•
i cumuli di avverbi e congiunzioni con pleonasmo: invece anche, ma però, tuttavia
comunque; avverbi e preposizioni: dentro da, sopra della casa;
•
l’aggettivo in funzione avverbiale e gli avverbi aggettivati oltre la frequenza media
(«siamo venuti diretti qui», «i nostri meglio amici»).
Quanto alla sintassi della struttura informativa, sono naturalmente frequenti i fenomeni
di tematizzazione (soprattutto le dislocazioni a destra e a sinistra già visti per la varietà
neostandard).
Nel lessico spiccano i malapropismi (cioè la ricostruzione analogica di lessemi malintesi:
bimboniera < bimbo; palché ‘parquet’ < palco; micragna < emicrania) e le ricostruzioni
paretimologiche di termini (celebre per celere, tavolato per tabulato, covalicenza per
convalescenza, febbrite per flebite, comprativa per cooperativa ecc.). Sono presenti anche i
cosiddetti popolarismi espressivi (tribolare ‘essere in pena’, macello ‘disastro’) e i
popolarismi semantici (cioè il significato del lessema cambia rispetto al suo uso standard: ho
un lavoro da fare ‘ho una faccenda da sbrigare’, non mollare ‘non cedere’ ecc.), spesso
interpretabili – come gli esempi qui prodotti – anche come colloquialismi. Questi ultimi sono
spesso connotati regionalmente. Se i malapropismi sono una marca peculiare dell’italiano
popolare, va però osservato che popolarismi espressivi e popolarismi semantici possono
entrare anche in varietà diafasiche orientate verso il basso. Il che significa che il confine tra
‘popolare’ e ‘colloquiale’ può essere labile.
Non ha infine trovato conforto di dati l’esistenza di tipi diversi di marcatura diastratica: ad
esempio, non corrispondono – a quanto pare – a una varietà socialmente connotata la lingua
degli uomini o delle donne, distinta secondo il sesso, e le varietà generazionali.
53
3.4. LA VARIAZIONE DIAFASICA
La variazione diafasica individua la varietà di lingua che dipende dalla situazione
comunicativa, ossia dal contesto generale nel quale si compie lo scambio linguistico, contesto
che determina le funzioni e le finalità del messaggio.
In questa variazione assume dunque particolare importanza l’interazione tra parlante (o
scrivente) e ascoltatore (o lettore), in base alla quale si articolano i registri di una lingua
(sull’asse formale / informale: aulico, solenne, medio, colloquiale, trasandato, volgare, ecc.);
assume altresì particolare importanza anche l’argomento del discorso e il riferimento
enciclopedico che esso presuppone, in base ai quali si organizzano i sottocodici o lingue
speciali (il cui riflesso in diastratia coincide più con i gruppi professionali che con le classi
sociali).
Facciamo un esempio. Si consideri il messaggio dei parenti che devono comunicare il
decesso del signor Mario Rossi. È chiaro che il messaggio può subire delle variazioni anche
molto significative a seconda della varietà diafasica scelta dal parlante (o scrivente).
Naturalmente l’esempio ha un valore puramente indicativo, e i singoli enunciati potrebbero
essere assegnati anche a una varietà vicina sull’asse della formalità. Inoltre, andrebbe anche
precisata la situazione contestuale e pragmatica in cui si colloca l’enunciato, che ovviamente
ne determina la specificità diafasica in modo assai rilevante.
Registro formale aulico:
«Ha lasciato la dimora terrena Mario Rossi»; «i parenti
annunciano la dipartita di Mario Rossi»;
registro sorvegliato:
«È mancato all’affetto dei suoi cari Mario Rossi»;
registro medio-alto:
«il 27 marzo 1994 Mario Rossi è mancato»;
registro medio:
«Mario Rossi è morto»;
registro informale:
«Mario Rossi, se n’è andato»;
registro trascurato:
«Mario Rossi ci è rimasto secco»;
registro basso:
«Mario Rossi è crepato»; «Rossi ci ha lasciato le penne»; «… ha
tirato le cuoia».
Si capisce che quanto più è informale il registro (marca bassa della diafasia) tanto più la
lingua è marcata in diastratia e diatopia: ospita cioè tratti socialmente bassi e regionalmente
connotati.
54
Una osservazione anche distratta della precedente sequenza di esempi potrà mostrare che il
livello linguistico più vistosamente interessato dalla variazione diafasica è, senza dubbio,
quello del lessico, con estensione alla fraseologia.
Tra le varietà diafasiche, quella che maggiormente ha sollevato l’interesse degli studiosi,
dato il suo largo uso e la parziale sovrapposizione con alcuni tratti dell’italiano popolare (ma
per le differenze cfr. il precedente paragrafo) è il cosiddetto italiano colloquiale.
Una importante precisazione: «l’italiano colloquiale è adoperato in maniera indipendente
dalla classe sociale di appartenenza, da parlanti di ogni ceto e di ogni grado di istruzione;
anzi, nella misura in cui parlanti culturalmente sfavoriti hanno a disposizione solo l’italiano
popolare, l’italiano colloquiale è varietà non degli strati bassi» (Berruto 1987, p. 139).
La definizione di registro è un po’ limitativa per l’italiano colloquiale: siccome infatti esso
può variare tra due poli di lieve diffrazione dalla formalità e di vistosa e trascurata
informalità, Berruto (ibidem) ha proposto di definirlo come «una sorta di ‘superregistro’».
Sono tipici del registro informale alcuni tratti lessicali:
•
le forme abbreviate (cine, bici, tele);
•
le forme gergali (farsi per drogarsi, ghirba, pelle);
•
i termini espressionisticamente connotati (andare in tilt, fare un macello, bestiale,
smammare, trombare, rimorchiare ecc.);
•
le forme disfemiche (avere culo, farsi il culo, prender(se)lo in culo, di merda)
Sul piano dell’espressività invece sono tipiche dell’italiano colloquiale le opzioni del tipo
schiaffo / sberla, fuggire / scappare, prendere / pigliare, entrambi / tutt’e due, automobile /
macchina; e l’uso di colloquialismi come aggiustare (‘conciare’), andare (‘passare’),
bazzicare (‘frequentare’), beccare (‘colpire’), bestiale, cagnara, dare fuori; fare benzina, –
fuori, – il biglietto, – in fretta, – una malattia, – la pace; filarino, fregare, partire
(‘rompersi’), pazzesco, pizza (in senso traslato), prendere (‘costare’), sagoma, sbolognare,
sfegatato, sfottere, sganciare, sciropparsi, spaghetto. Inoltre: i deverbali in -ata (stupidata,
carognata, pensata, imbarcata); e di genericismi: tipo, coso, arnese, elemento, roba, affare,
faccenda. Sono poi frequenti i costrutti elativi con forte («è acido forte questo vino»; «che
forte!»), bello («un caffè bello caldo») con tutto («tutto pulito», «tutto arredato»), nonché il
forte uso di demarcativi e particelle modali (allora, guarda, senti, in pratica, effettivamente,
cioè, dico, dunque, insomma, un po’).
A livello morfosintattico notiamo:
1. tendenza a evitare il passivo («l’hanno portato in ospedale»);
55
2. perifrasi aspettuali: (non sto a dirti, non stare a muoverti, essere lì per o lì che);
3. valore allusivo dei deittici quello e così: «ha preso tanti di quei colpi»; «gli ha fatto
una testa così»;
4. il solito che polivalente, anche se con alcune restrizioni rispetto agli impieghi
estremi del substandard popolare;
5. abuso di diminutivi (attimino, posticino, bellino) e forme nuove di elativi (da matti,
un sacco, un mucchio, un casino, d’accordissimo, a postissimo, assolutamente).
Scendendo nella scala dei registri si infittiscono imprecazioni, interiezioni, formule
disfemiche, gergalismi (crepare, smenare, ganzo ecc.), talvolta anche marcati localmente.
Al lato opposto, il registro formale aulico esporrà nessi e costrutti complessi, con forte
elaborazione della sintassi e preferenza per l’ipotassi, o comunque per un maggior tasso di
subordinazione; latinismi e forestierismi; allotropi e doppioni aulici (affinché invece di
perché, giacché invece di poiché, questi pronome invece di questo, rammentare invece di
ricordare, cagione per causa ecc. ); uso di forme impersonali e del passivo («si è preferito»;
«M. fu vista arrivare»); perifrasi verbali (venire a, andare + agg. come in andare deluso) ecc.
3.4.1. SOTTOCODICI E LINGUE SPECIALI
Si tratta di un settore particolarmente interessante anche per l’importanza che le lingue
speciali hanno assunto nel contesto dell’attuale società della comunicazione.
Pier Vincenzo Mengaldo ha operato un’importante distinzione tra lingue speciali, cioè
sottocodici dotati di lessico particolare e tratti caratteristici a livello morfosintattico e di
organizzazione testuale, e lingue settoriali, contaddistinte da una scelta lessicale e da formule
sintattiche e testuali, ma prive di un lessico specialistico. Sempre secondo Mengaldo, a queste
condizioni, soltanto il linguaggio della scienza e della tecnica e quello dello sport (forse)
possono dirsi lingue speciali.8
Riprendiamo ora, e facciamo reagire con la proposta di Mengaldo, l’articolata definizione
che di lingua speciale ha dato un altro studioso, Michele Cortelazzo.9 Dunque la lingua
speciale è «una varietà funzionale di una lingua naturale, dipendente da un settore di
conoscenze o da una sfera di attività specialistici, utilizzata, nella sua interezza, da un gruppo
di parlanti più ristretto della totalità dei parlanti la lingua di cui quella speciale è una varietà,
per soddisfare i bisogni comunicativi (in primo luogo quelli referenziali) di quel settore
8
9
Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994.
Michele Cortelazzo, Le lingue speciali, in Lingue speciali. La dimensione verticale, Padova, Unipress, 1990 2.
56
specialistico; la lingua speciale è costituita a livello lessicale da una serie di corrispondenze
aggiuntive rispetto a quelle generali e comuni della lingua e a quello morfosintattico da un
insieme di selezioni, ricorrenti con regolarità, all’interno di forme disponibili nella lingua»
(Cortelazzo 1990, pp. 7-8).
3.4.2. I LINGUAGGI TECNICO -SCIENTIFICI
Il linguaggio tecnico-scientifico rappresenta quindi l’esempio più tipico di lingua speciale
in senso stretto.
Il lessico dei linguaggi tecnico-scientifici si distingue da quello della lingua comune per
almeno tre caratteristiche:
1. necessità di impiegare segni aggiuntivi rispetto a quelli componenti la lingua comune,
allo scopo di ottemperare ai bisogni di denominazione del settore specifico a cui la lingua
speciale afferisce, più vasti e più sottili in confronto all’offerta lessicale della lingua
comune. Tali bisogni saranno motivati dall’esigenza di riferirsi:
-
a oggetti e nozioni non percepibili dall’esperienza del non specialista;
-
a elementi riguardanti nuovi prodotti tecnici sovente immessi nel mercato in rapida
successione (ad esempio si pensi alla pletorica invasione di cose e di parole cui ci ha
sottoposti l’industria informatica);
-
a porzioni di realtà cui la lingua comune fa fronte con termini troppo generici rispetto
a una maggiore analiticità richiesta dalla lingua speciale (ad es. cefalea, emicrania vs
mal di testa; tonsillite, faringite vs mal di gola);
2. tendenza alla monoreferenzialità; il lessico di un linguaggio scientifico si organizza nella
forma di nomenclatura, cioè di un insieme di termini definiti e tassonomicamente ordinati,
ciò che dovrebbe evitare la concomitanza di sinonimi, in quanto ogni termine può essere
sostituito solamente da una sua definizione o perifrasi. In realtà l’univocità semantica non
solo è limitata al campo disciplinare in cui il termine viene impiegato, ma anche all’interno
di un singolo settore specialistico fatica ad attuarsi in virtù della presenza di diverse
tradizioni storiche nella denominazione, ovvero di discrepanze terminologiche comportate
da diverse prospettive teoriche. In casi estremi, dunque, ma non infrequenti, la monosemia
è da intendersi come circoscritta al testo in cui il termine scientifico appare;
57
3. presenza di tecnicismi collaterali, cioè di espressioni stereotipiche che, pur non
necessitate dal bisogno di denotatività, sono preferite per la loro connotazione tecnicoscientifica: prive della precisione veicolata dalla monosemia, esse vengono usate appunto
per il loro alone settoriale (ad es. «il paziente accusa un dolore», «la parotite può esitare in
pancreatite»).
Diverse sono le tecniche di formazione o adozione di termini scientifici, che per altro non
differiscono qualitativamente da quelle peculiari alla lingua comune. Si segnalano dunque i
seguenti fenomeni notevoli:
1) rideterminazione semantica di termini già presenti nella lingua comune, che vengono
resi monoreferenziali cancellandone la storia precedente attraverso un convenzionale
“accordo di definizione” (Bloomfield). Si vedano ad es. i termini della fisica (ad es. massa,
forza, momento), che passano dal significato generico a quello definito e univoco quando
sono impiegati in ambito scientifico (di tale metodo si serviva in genere Galileo).
2) rideterminazione semantica di termini appartenenti ad altre lingue speciali, ad es. dalla
medicina all’astrofisica (collasso ‘rapida contrazione di stelle dovuta al prevalere delle forze
di gravità su quelle di pressione’);
3) neoformazioni, quasi mai assolute, in genere ottenute per derivazione o per
composizione da parole delle lingue classiche, spesso rese oggetto di un cospicuo mutamento
semantico. Il procedimento di neoformazione più frequente è l’aggiunta di affissi (prefissi,
suffissi e suffissoidi) peculiari alle lingue speciali (emi- e -oma in medicina) ovvero identici a
quelli presenti nella lingua comune, ma in ogni caso dotati all’interno del settore specialistico
di un univoco significato convenzionale (-oso e -ico in chimica, -osi e -ite in medicina). La
relativa trasparenza del significante che contraddistingue i neologismi per derivazione è alla
base della analoga fortuna dei composti nominali, in cui spesso è forte l’influsso della lingua
inglese, ciò che comporta caratteri innovativi rispetto ai composti tradizionali della lingua
italiana (ordine determinante-determinato, la possibile presenza di elementi nella
composizione in numero superiore a due, mancata grammaticalizzazione del rapporto fra gli
elementi compositivi);
La sintassi dei linguaggi tecnico-scientifici si offre ancor meno del lessico
all’individuazione di fenomeni specifici, in quanto si basa su procedimenti presenti nella
lingua comune, dei quali varia soltanto la frequenza, che diventa pervasiva. Questi i fatti
principali, largamente interdipendenti:
58
1) diffuso processo di nominalizzazione, cioè ai sintagmi verbali si preferiscono sintagmi
nominali equivalenti, caratterizzati dalla presenza di nomina actionis (es.: «dopo
l’accensione, verificare per qualche minuto il regolare funzionamento dell’apparecchio»);
2) frequenza di forme nominali del verbo, participi presenti e passati, sia con valore
verbale ancora percettibile, sia in usi cristallizzati simili all’ablativo assoluto latino (ad es.
dato + sost. nelle discipline matematiche);
3) radicale riduzione di tempi, modi e persone verbali, con prevalenza del presente
indicativo (com’è ovvio, stante la prevalente natura descrittiva degli scritti scientifici) e
continuo uso della diatesi passiva e di forme impersonali; notevole è poi la presenza di
espressioni tendenti alla cancellazione del soggetto enunciante, trasposto in tal modo alla
terza o alla quarta persona (ad es. chi scrive, l’autore, uso del plurale d’autore:
chiameremo, procederemo ecc.);
4) uso di un parco piuttosto esiguo di verbi generici (essere, consistere, rappresentare,
riferirsi, comportare, verficarsi), impiegati perlopiù in sintagmi del tipo verbo +
sostantivo, nei quali la seconda parte, sostantivale, rappresenta il nucleo semantico (es. «si
verifica una deflagrazione»);
5) impiego di un gruppo particolare di connettivi testuali tendenti all’articolazione del
discorso argomentativo, specie di causalità e di conseguenza (perciò, pertanto, cioè,
appunto, quindi, dunque) o alla enumerazione (prima-poi-infine, in primo luogo-in
secondo luogo-in terzo luogo);
6) largo uso di formule limitative come «a quanto sembra», «sembra lecito dedurre», «si
può dire plausibilmente che», «si può avanzare l’ipotesi», «risulta possibile affermare che»
ecc.
L’osservazione più immediata che deriva dall’analisi di tali fenomeni non può che vertere
sulla evidente perdita di importanza del verbo, cui corrisponde un largo aumento quantitativo
e qualitativo dei sostantivi e delle parti sostantivate: ne deriva l’alta densità semantica di
questi testi, espressione di una tendenza all’economia tipica del discorso scientifico. Un’altra
caratteristica facilmente rilevabile è la tendenza alla desoggettivizzazione, conforme al
proposito di descrivere fenomeni e processi da un punto di vista impersonale e oggettivo; non
a caso le frequenti forme passive sono in genere prive di indicazione di causa o agente.
Anche se poco studiato, il livello testuale può forse essere identificato come quello che
distingue maggiormente i linguaggi scientifici tra di loro, dalla lingua comune e anche dai
linguaggi scientifici stranieri.
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Una prima vistosa caratteristica dei testi scientifici è la frequente presenza di schemi,
tabelle, grafici e illustrazioni; notevole importanza rivestono poi gli aspetti di coerenza e
coesione testuale più comuni, che sono:
1) la referenza anaforica, che si realizza soprattutto come rinvio testuale, sia del tipo «cfr.
infra», «v. oltre», sia in forma di sintagmi anaforici e cataforici (ad es. «detta ipotesi», «come
si vedrà nel capitolo seguente»). Rispetto alle anafore pronominali nei casi di coreferenza
invece il linguaggio scientifico preferisce in genere la ripetizione lessicale, che consente una
maggiore precisione;
2) la funzione organizzatrice dei connettivi testuali di causa e conseguenza;
3) la rigidità della struttura testuale, compensata però dal largo numero di tipi testuali
disponibili per le diverse aree disciplinari, più o meno tutti basati sullo schema fondamentale
a quattro parti: 1. introduzione; 2. problema; 3. soluzione; 4. conclusione.
Qualsiasi testo scientifico dovrebbe poi soddisfare alle condizioni di (a) chiarezza, (b)
coerenza, (c) assenza di contraddizioni.
Come hanno dimostrato studi recenti, le lingue speciali conoscono una variazione sul piano
sociolinguistico. La stratificazione diafasica dei linguaggi tecnico-scientifici può essere
individuata in tre livelli:
1) lingua speciale a livello alto, tipica della comunicazione scritta ufficiale tra esperti. La
differenza dalla lingua comune è massima, soprattutto per la estrema precisione settoriale del
lessico;
2) lingua della comunicazione diretta informale tra tecnici, perlopiù orale (ma anche scritta
ad es. in appunti). Permette una forte economia verbale, dato il contesto situazionale comune
e la condivisione di ampie conoscenze enciclopediche. Si possono così registrare formulazioni
linguistiche abbreviate (ad es. bianchi per globuli bianchi), forme mistilingui con lessico
straniero e morfologia italiana (ad es. formattare, resettare);
3) lingua della divulgazione, che viene usata nel contatto fra esperto e profano, nella
divulgazione attraverso i mass media, nella didattica. La lingua scientifica a livello
divulgativo si avvicina alla lingua comune, che svolge la funzione di metalingua: parole del
lessico specialistico vengono sostituite da parole del lessico comune o da perifrasi, pur non
del tutto equivalenti, ovvero vengono accompagnate da una glossa esplicativa in lingua
comune; frequente è il tentativo di spiegare i concetti tecnici con l’aiuto di metafore o
60
analogie; le forme verbali godono di una ben maggiore libertà e si dissolve la rigidità
dell’organizzazione testuale.
Un’altra forma di stratificazione sarà da individuare anche nell’ambito della ricezione: non
tutti i destinatari associano a un termine scientifico lo stesso significato. Per molti termini
della lingua d’uso (termini di genere naturale, soprattutto), esiste una varietà nella capacità dei
parlanti di individuare il riferimento, motivata da quella che il grande filosofo analitico
americano Hilary Putnam ha chiamato «divisione del lavoro linguistico»: in una comunità
soltanto un gruppo ristretto di “esperti” conosce precisamente i criteri di riconoscibilità (e
dunque la definizione scientifica) di un termine indicante un dato oggetto (ad es. “acqua”); gli
altri parlanti associano invece a tale termine uno «stereotipo», cioè dispongono di una
competenza ristretta ad alcuni «fatti essenziali» circa l’oggetto referente della parola. Putnam
distingue tra «stereotipi forti» (il parlante conosce le condizioni sufficienti per l’appartenenza
di un oggetto a una classe, ad es. nel caso di limone o tigre) e «stereotipi deboli» (il parlante
non ha idea di tali condizioni, ad es. nel caso di molibdeno). Va da sé che i termini scientifici
detengono nella competenza media dei parlanti stereotipi deboli, anzi nella maggior parte dei
casi inesistenti, consentendo al parlante al più di orientarsi vagamente nella classificazione
(comprendendo ad es. che la osteomielite è un’infiammazione), oppure di comprendere
soltanto l’area disciplinare di provenienza del termine (ad es. catalisi enzimatica, per la
relativa familiarità con la parola enzima), ovvero impedendo qualsiasi riconoscimento, a parte
la facilmente congetturabile appartenenza del termine alla sfera della scienza (ad es.
mirmecofilia, che forse solo un discreto conoscitore del greco antico può assegnare alla
zoologia, trattandosi della ‘tendenza di piante o animali a vivere in rapporto simbiotico con
formicidi’). Si può concludere dunque che una larga quantità di termini scientifici non
comunicano altro al destinatario medio se non di essere, appunto, termini scientifici.
L’influsso esercitato dai sottocodici tecnico-scientifici sulla lingua comune è certamente
notevole. Mentre è difficile verificare, se non in tempi molto estesi, il passaggio dagli uni
all’altra di tratti sintattici, del resto quasi tutti potenzialmente presenti già nella lingua
comune, ben più visibile risulta il trasferimento di termini del lessico tecnico-scientifico nel
lessico comune, che avviene principalmente attraverso il vettore dei mass media, oltre che, in
misura minore, in virtù dell’incontro diretto del parlante non esperto con parlanti del settore
specialistico.
La tendenza all’ingresso di tecnicismi nella lingua d’uso, in parallelo con il progresso
tecnico-scientifico, non ha fatto, naturalmente, che acuirsi, in particolare dopo il boom
61
industriale degli anni ’50: il parlante, inserito nei processi di produzione, si è trovato ad
acquisire una competenza minima tecnico-scientifica (soprattutto tecnica), per nominare con
precisione gli oggetti che lo affiancano sul lavoro, nonché quelli che la produzione tecnica
dell’industria neocapitalistica gli offre come consumatore.
Questo ampliamento del lessico non rimane però senza effetti. Quando si trasferisce dal
sottosistema della lingua speciale al sistema della lingua comune il termine tecnico-scientifico
può mantenere il senso proprio, o acquistare un senso metaforico. Anche nel primo caso,
comunque, il passaggio comporta la riduzione, quando non l’annullamento, dei caratteri
propri del lessico scientifico: monoreferenzialità, precisione, collocazione in una tassonomia
gerarchica, rapporto con termini riferentisi alla stessa area settoriale, legame privilegiato con
la cosa significata. In conseguenza di ciò il termine perde parte della sua funzione denotativa
e acquisisce potere connotativo, fregiandosi di un margine evocativo, che lo differenzia dalle
parole vicine a grado zero di connotazione. Il termine tecnico-scientifico si trova così in molti
casi non a denotare con precisione, ma a evocare la precisione mediante il suo aspetto
esteriore, quasi un camice bianco. L’illusione di precisione scientifica non serve che a
certificare l’autorità dell’emittente e a conferire maggiore prestigio ai contenuti del
messaggio. Tale impiego mistificatorio del linguaggio tecnico-scientifico, con fini di
persuasione, viene sfruttato principalmente nella lingua della pubblicità (infiniti potrebbero
essere gli esempi: si va dai pretensionatori delle cinture di sicurezza di un’automobile ai
radicali liberi di una crema anti-rughe). In altri casi il lessico specialistico viene utilizzato in
accezione impropria, metaforica, allo scopo di ottenere un discorso incisivo e brillante, in
ossequio alla moda e alla contiguità con le sfere di pensiero privilegiate.
Se, insomma, può esistere un uso onestamente referenziale del linguaggio tecnicoscientifico (ad esempio nella seria divulgazione), è poi senza dubbio vero che nella
comunicazione di tutti o giorni prevale un impiego che si può anche chiamare feticistico.
Feticistico perché il valore d’uso del lessema (l’individuazione di un significato condiviso)
viene sostituito da un mero valore di feticcio, che millanta lo status up to date della cultura
scientifica del parlante, mentre non fa che dimostrarne l’alienazione, linguistica e non solo.
Proprio il mero funzionalismo referenzialista del linguaggio come pratica sociale porta a
quello che Günther Anders ha chiamato «monologo collettivo»: tutti conoscono – o credono
di conoscere – le stesse cose, pertanto le informazioni che circolano sono del tutto inutili,
configurando null’altro che uno «scambio tautologico» di parole ribattute come palle da
tennis. È evidente che proprio la veste “tecnica” del lessico usato – del tutto rescissa dal
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vincolo del significato – ha un decisivo ruolo sul piano diastratico: mostra, anzi esibisce
l’appartenenza, autentica o simulata, di un parlante a un gruppo sociale alto, quello che
appunto si identifica nella disponibilità dei mezzi tecnici più avanzati.
In conclusione è opportuno rilevare come la grande e crescente presenza dei linguaggi
speciali e settoriali anche e soprattutto all’interno della lingua d’uso sia uno dei fattori più
rilevanti della lingua di oggi, e come tale registrato a livello lessicografico nei più recenti
strumenti del settore (tantissimi i tecnicismi riportati nel GRADIT). Va però detto che molto
spesso l’uso di tecnicismi non è dettato da scopi denotativi, ma da logiche di identificazione e
(relativa) emarginazione sociale. Se dunque un miglioramento delle conoscenze scientifiche
va senz’altro incoraggiato, è altrettanto opportuno mettere in guardia dalla opacità (o
addirittura doppiezza) comunicativa che l’uso eccessivo o improprio di tecnicismi può
comportare.
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