Kaos - Il destino di Andromaca Venerdì 27 giugno 2014 - ore 21.00 ANFITEATRO DELLE TERME DI TELESE (BN) Canalgrande Adriatic baroque ensemble Christoph Timpe violino Klodiana Babo violino Andrea Fossà violoncello Marco Mencoboni clavicembalo Giacinta Nicotra soprano Programma Antonio Vivaldi (1678 -1741) Benedetto Marcello (1686 - 1739) Sonata op. 1 nr 12, RV 63 la Follia Andromaca Cantata a soprano solo e basso continuo dal manoscritto della Biblioteca Marciana di Venezia Quanto fu lieto e fortunato il giorno Cantata a soprano solo e strumenti dal manoscritto della Biblioteca Marciana di Venezia 1 2 Sull’Andromaca e la poesia per musica di Paolo De Angelis La risalita verso la modernità delle arti, cioè il superamento dell’ultimo Barocco, risulta pienamente comprensibile attraverso gli elementi della filologia e della poesia omerica del secolo XVIII. L’Italia è il centro maggiore degli studi omerici nel Settecento. Le traduzioni, le edizioni filologiche, le opere per musica, gli studi di genere storico-politico sul mondo omerico, sono tanti e così innovativi da rappresentare da soli una imponente letteratura, un serbatoio illuminante sul rapporto della nuova poesia con le fonti dell’ arte greca. Si dedicano a Omero, Vico, Francesco Mario Pagano, Ippolito Pindemonte, Benedetto Marcello, Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Raimondo Cunich, Antonio Conti, Melchiorre Cesarotti, Antonio Maria Salvini, Gianvincenzo Gravina, Scipione Maffei. Quest’arte, arricchita dalla densità di una nuova epoca, fiorì in luminosi capolavori nei quali si unirono in unità indissolubile la ricerca linguistica e la ricerca musicale. Non è un caso che in una delle prime biografie di Benedetto Marcello (poeta, musicista, filologo, compositore sommo), pubblicata a Pisa nel 1782 da Angelo Fabronio, si sia messa in risalto l’esemplare ‘idoneità’ della poesia omerica per la trasposizione in musica: “cosa di più adatto all’armonia, si chiede Fabronio, di più adatto al canto, dei carmi di Omero?”. Siamo dinanzi ad una delle più significative rivoluzioni dell’opera teatrale che coinvolge sia la ricerca sull’espressione linguistica sia la ricerca propriamente musicale. Il rigore del metodo necessario a coltivare la poesia omerica e lo studio sulla lingua della poesia italiana per musica (come musica), creano la base sicura di evoluzione verso il classicismo, in un indirizzo guidato da Gianvincenzo Gravina per la Ragione poetica e da Pietro Metastasio - suo allievo - per la teoria generale della poesia come musica, preparando gli esiti sperimentali, essenziali, dell’arte poetica moderna. Nella letteratura italiana si compie un processo particolarissimo che sfocia nella elaborazione di una lingua poetica che sarà tenuta quale lingua universale dell’armonia musicale. La lingua italiana, poco diffusa e ancora meno usata su un territorio politicamente diviso, si formava rispetto alle altre lingue europee in un’aula della ragione (Dante) prevalentemente come lingua della conoscenza, una lingua poetica degli studi e delle corti, finalizzata ai modelli della comunicazione filosofica e letteraria. Possiamo dire in breve di 3 avere posseduto in Italia due lingue classiche, cioè il Latino e l’Italiano o, se si preferisce, abbiamo avuto il privilegio di due lingue letterarie, che potremmo definire - se il termine non apparisse troppo inusuale - due lingue morte attuali destinate necessariamente alle arti nel senso filosofico-poetico che Giovanni Pascoli ha assegnato a questo termine, dove scrisse, riferendosi direttamente ai propri esperimenti di poesia latina e in genere ai propri studi poetici: “la lingua dei poeti è sempre una lingua morta”. Giorgio Agamben ha commentato, nella prefazione al Fanciullino, il pensiero poetico di Giovanni Pascoli, relativo alla definizione della poesia come forma del pensiero che ha bisogno di parole estranee all’ “uso”, quantificabile e corrente, quanto - invece - di parole di inquietudine negativa. E ci descrive “l’uscita del linguaggio dalla sua dimensione semantica e il suo fare ritorno alla sfera originale del puro voler dire (non ancora mero suono, osserva Agamben, ma linguaggio e pensiero della voce sola). Pensiero e linguaggio, diremmo, oggi, di puri fonemi: in una forma di ‘fonosimbolismo’, cioè di assoluta simbolicità musicale della parola per musica . Ora è evidente che questo simbolismo, che precede ogni indicazione diretta di senso, esprime la sottrazione a un tessuto ripetitivo, quantificabile, a favore di un puro voler dire di decisa struttura poetico4 musicale. Ma torniamo alla storia della lingua della poesia italiana per musica. In Italia venne dunque formata una lingua che tendeva, come lingua classica, ad assottigliare la propria sostanza semantica a favore di una completa omiusia armonica. Naturalmente, proprio per svolgere la propria funzione, queste lingue sottratte alla vita erano mobilissime, mutevoli, sofferenti, in continua evoluzione. Pensiamo alla differenza del latino di Petrarca dal latino di Pontano. Una lingua morta, come lingua del poter dire, come carico di sospensioni e di dispersione, è un tessuto musicale vivo. Questo privilegio, della sedimentazione di un duplice lessico poetico, svolto su due lingue classiche, ritengo che sia stata una peculiarità della nostra poesia, un’enorme ricchezza che ha decostruito l’epica, la poetica dell’avvenimento, a favore di una lingua che è pre-disposta a esteriorizzarsi come eros. Dalla elaborazione teoretica è sorta una lingua complessa e non comunicativa, ma oggi estinta, che oltre a cimentarsi nelle grandi ricerche filosofiche si è espressa costituendosi come lingua universale di Vivaldi, di Haydn, di Mozart, di Gluck. I versi di Ottavio Rinuccini “al canto, all’ombre, al prato adorno” nel primo Choro dell’Euridice, aprono la stagione in Europa della tragedia per musica. Tutta l’Europa esprimerà, fino a Ranieri de Calzabigi, e alla sua splendida Euridice, l’armonia nel linguaggio poetico della poesia italiana e i più grandi musicisti europei composero a Vienna le loro armonie sui testi dei poeti cesarei. In alcuni centri accademici l’esperimento musicale e linguistico si trova immediatamente unito. L’area greco-adriatica, con il suo centro a Venezia, Padova e Verona, fu attiva prevalentemente come centro traduttologico e musicale, lungo l’intero corso del XVIII secolo, e ancora oltre, con una serie di esemplari traduzioni poetiche dei poemi omerici, scritte su scale metriche dissonanti e monotone, ineguagliabili, e produsse in campo musicale un corpo di opere ispirate alle vicende poetiche dell’Iliade, tra cui Andromaca e Cassandra di Benedetto Marcello, composte alla fine degli anni venti del Settecento. Un’altra celebre cantata, Il Timoteo, ovvero gli effetti della musica, composta sui versi del poeta e filosofo Antonio Conti, introdotto nelle principali accademie europee, autore tragico e traduttore di Callimaco, di Saffo, di Simonide, è costituita come una tavolozza di stati d’animo (come ricomparirà più tardi nel Saul di Alfieri) sulla quale il divino musicista, come in un grande manuale tipografico della musica, segna le coincidenze di tutti i suoni possibili con gli stati d’animo possibili della coscienza della donna e dell’uomo. Se nell’area veneto-adriatica gli studi omerici sono prevalentemente traduttologici, nell’area che fu la Magna Grecia, l’Iliade e l’Odissea sono studiate per la storia filosofica del diritto. Nella Discoverta del vero Omero, all’interno dei Princìpi di scienza nuova, Vico aveva descritto la natura e la sensibilità degli eroi omerici, come caratteri distruttivi, facili al pianto, impegnati in continui conflitti, all’interno di uno stato sociale che, secondo la filosofia della Scienza Nuova, corrispondeva ai primi, rudimentali, sanguinari, stadi di evoluzione dell’intelletto. Forse non è un caso che solo il cadavere di Ettore sia nominato nella Scienza Nuova, cioè l’umanità della ragione uccisa ai piedi delle mura. Su Ettore che deve abbandonare consapevole la nobile Andromaca si abbatte una violenza trascinante e feroce, priva di riflessi intellettuali. Non c’è , secondo Vico, alcuna sapienza filosofica riposta, che sia stata velata nelle favole omeriche, ma vi si trova invece il carattere dell’intera nazione greca, che si esprime per rappresentazioni mitologiche e che anima il cosmo e la vita di favole corrispondenti al primo, rozzo, infelice grado di evoluzione della coscienza. 5 Nell’Iliade, a questa realtà “eroica” si contrappone, nella figura di Ettore e soprattutto di Andromaca, la consapevolezza del conflitto che la società umana sostiene contro una forza distruttiva e irragionevole, animata da una feroce fantasia, che Elena sorregge alle cene distribuendo farmaci, aromi che inducono il sonno, la poesia dei tempi barbari ritornati. E’ la consapevolezza familiare, cittadina, della civiltà legale, in una parola: un altro Tempo, che si esprime in Ettore e Andromaca, che viene dipinta come la coscienza familiare e civile, la contrapposizione al fato distruttivo, interno alla coscienza umana, che assume ai piedi delle mura di Troia tratti personali furiosi e incontrollati, in una trama irragionevole di distruzione. Andromaca, nelle voci commosse e sommesse di Benedetto Marcello, rappresenta lo specchio consapevole di questa coscienza, del compianto per le sorti inappellabili delle cose umane. Immersa in un mondo popolato da forze fantastiche e omicide, come è ogni guerra, Andromaca, nella misura musicale di Benedetto Marcello, punta tutta la sua vita su questa terra, sui legami amorosi veri, terreni: lasciando il cielo al cielo (come sosterrà Vico, asserendo l’impossibilità per l’uomo di conoscere affetti oltre il cosmo) per questa fragile, caduca, molto più che poetica, realtà umana, pervasa di ragione eppure irrimediabilmente 6 sconfitta. Un velo d’ombra copre quell’ amore luttuoso e possiamo dire tutti di respirare sulle porte Scee, pronti a un distacco definitivo dall’umanità dell’amore concreto, che è consensuale. Antonio Conti, nella dedica generale delle proprie Poesie e Prose, opere stampate a Venezia nel 1739, ci fornisce elementi importanti sulla composizione delle cantate di Benedetto Marcello: “avendo io epilogate - scrisse Conti le fantasie più interessanti dell’Iliade d’Omero, ho dato occasione ad uno dei nostri Patrizj ristoratore della musica antica, di farne sentire la forza e l’armonia”. Questo Patrizio che aveva rivestito di incantevole musica i versi di Omero è Benedetto Marcello. “Il N.H. Benedetto Marcello fece quella nobile cantata in cui tanto mostrò la fecondità ed insieme la profondità dell’arte sua, e desiderò che col mezzo di qualche altra favola si riducesse in Poema a voce sola”. Tra le ‘favole’ omeriche che hanno avuta nel tempo maggiore fama sono l’Andromaca e la Cassandra. Il giudizio di Conti sulla musica composta è pieno di incredula ammirazione tanto da ritenere possibile, tra le opere marcelliane, un confronto solo con la musica dei Salmi, ossia con l’Estro poetico armonico che rappresenta il capolavoro di Marcello e una delle più importanti opere di musica sacra del Settecento, la cui risonanza in Europa fu enorme, e che era stata composta sulla traduzione poetica dei Salmi di Ascanio Giustiniani: un’opera che assicurò una gloria indiscussa agli autori. Il programma della riforma musicale è espresso nella Prefazione all’Estro poetico armonico, prefazione che almeno per la parte musicale è riferibile a Benedetto Marcello. Ebbene è fondato nella Prefazione ai Salmi il programma di una riforma totale della poesia per musica e il superamento delle scadenti rime che nell’ultimo Barocco avevano formato il tessuto poetico: “le vane poesie alle quali nei tempi nostri la musica è costretta a soggiacere”. Antonio Conti, Benedetto Marcello e Ascanio Giustiniani, citando il programma di Gravina, pensano (oltre qualsiasi didascalismo, in una visione tragica e filosofica dell’arte) che la musica possa regolare i costumi, e risvegliare il coraggio, [e che occorra] indirizzarla a quel vero scopo per il quale fu essa a noi conceduta”. Benedetto Marcello intende dunque superare una scrittura poeticomusicale studiata ed artificiosa con una “una schietta e semplice musica” non condizionata dalla ricerca continua di virtuosismi. L’Andromaca viene composta in un ambiente intellettuale di punta, di respiro cosmopolita, indicatore e artefice di nuove tendenze artistiche, in particolare musicali e poetiche, stabilite su interessi filosofici complessi, tesi alla ricerca di una base comune della civiltà europea e di un ritorno morale e utopico alla cultura greca. Se non può dirsi con certezza se l’Iliade omerica sia stata o meno l’opera di un solo poeta o di una scuola di aedi, possiamo dire oggi che le traduzioni ‘definitive’ di Omero del secolo XIX sono state il risultato della stratificazione di tentativi progressivi, un’opera (la traduzione dell’Iliade) composta da più poeti per la ricerca del suono, cioè di una debita armonia compatibile con l’austerità del modello, e inoltre da più aedi-filologi per la certezza del senso le cui soluzioni poetiche, progressivamente recepite, si conclusero nelle edizioni di Foscolo, di Monti, e di Pindemonte per l’Odissea. La traduzione di Omero è il risultato dell’opera di un intero ciclo poetico di ricerca durato più di un secolo. Intorno alla poesia di traduzione sorse una scuola neogreca della musica, di cui è un esempio l’Inno del Modo lidio di Dionisio al Sole, raro e pregevole avanzo di quella divina musica già perduta, ricomposto da Benedetto Marcello e raccolto nell’Estro poetico armonico. Giacinta trattiene nel suo respiro il nero intenso, oltremarino dell’Egeo: la sua voce cattura il sole, e si esprime in una musica estranea al senso letterale, la sua venatura incrina la rifrazione delle voci che si inseguono sulle onde, e che attestano movimenti intellettuali 7 puramente fonosimbolici. Lei è l’onda della poesia sonora, predisposta come un abito per le note finali delle nozze della coscienza con la destinazione o la tentazione occidentale della fine: il sibilo musicale degli aerei-di-morte, gli F35, che sorvolano l’Asia durante le notti, portano di nuovo, inestinte, le 8 fiamme e la morte su quelle torri. Felice è un Ettore senza pace e gli dobbiamo questo concerto. Noi che ascoltiamo in un silenzio luttuoso siamo la figura immobile di Aiace, sotto la luce gemella delle stelle, gravati da una negazione che il cuore non poteva reggere.