60 11 9 Consulenza direzionale e strategica Controllo di gestione e sistemi qualità 9 7 71 59 0 9 94 0 00 Consulenze e progettazioni pluridisciplinari applicate, nel campo dell’ingegneria, delle nuove tecnologie e dell’informatica, del marketing e della comunicazione, dell’economia e della finanza, nonché nel campo delle istituzioni, nella gestione delle risorse, del territorio, del project financing, facility management e project management Anno XI n° 15 - € 1.00 Archiviazione ottica dei dati quotidiano liberalsocialista Sicurezza dei dati Software gestionali: Sanità Alberghi e ristoranti Sistemi di facility management www.buccioli.com Giovedì 19 gennaio 2006 Sullo sciopero dei metalmeccanici Contrattazione nazionale Una “camicia di forza” ALESSANDRA SERVIDORI Ai lavoratori metalmeccanici, in tutta onestà, nulla può essere rimproverato. Sono loro coloro che “fanno girare le macchine”, che producono gran parte della ricchezza che viene impiegata a favore della collettività. E che però faticano per far quadrare i loro bilanci familiari coi magri gli stipendi che essi trovano in busta paga. Ma è veramente triste constatare che una gloriosa categoria come la loro, che è la stessa che con le sue lotte, in altri tempi, ha concorso a cambiare la storia del Paese e che ha dato al movimento sindacale dirigenti tra i più prestigiosi, tenti di concludere la propria vertenza per il rinnovo contrattuale sul terreno dell’ordine pubblico, grazie al blocco di autostrade e stazioni ferroviarie (peraltro, solamente laddove vi sono le condizioni organizzativa per riuscire a farlo). Ma quando un esercito è in difficoltà non basta prendersela con gli avversari: nel nostro caso, con la Federmeccanica (anche essa “punta di diamante” dello schieramento confindustriale). Sono riprese le trattative, per fortuna, ma bisogna trovare però il coraggio di riconoscere e denunciare anche gli errori di quello stato maggiore sindacale che non ha saputo formulare adeguatamente i piani di battaglia e che sta rischiando di mandare allo sbaraglio centinaia di migliaia di lavoratori. Le tute blu che hanno scioperato e scagliato uova contro i vetri del “Palazzo dei padroni”, che si sono seduti sui binari alla stazione di Bologna, in mezzo a un tripudio di bandiere, sono certamente autorizzati a scaricare tutte le colpe della loro situazione sui datori di lavoro, sul governo di centrodestra, sulla globalizzazione e quant’altro. Ma dovranno pur porsi i una domanda: per quali motivi, in questi ultimi mesi, sono stati rinnovati molti contratti (anche nei settori privati e dell’industria) spesso senza dover ricorrere allo sciopero o comunque con una conflittualità molto bassa? Come mai, dal 1993 (quando fu stipulato quel Patto che definì le regole delle relazioni industriali) ad oggi, le vertenze contrattuali sono rimaste in un contesto di litigiosità assolutamente fisiologica, tranne che nella categoria dei metalmeccanici? Perché quei criteri che sono stati ritenuti adeguati a stabilire le dinamiche salariali di un’operaia tessile o di una commessa di un supermarket non sono accettati quando si tratta delle tute blu? La risposta è che i gruppi dirigenti delle federazioni di categoria (quegli stessi che, da parecchi anni, non sono in grado di gestire unitariamente la politica contrattuale) hanno ritrovato un impegno unitario sulla base di una piattaforma che viola l’accordo triangolare del 1993. I contenuti di quell’intesa (la quale - lo ripetiamo - ha normalizzato le relazioni industriali consentendo, nel contempo, la salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni) prevedono due livelli di contrattazione, uno nazionale, l’altro decentrato: il primo ha il compito di adeguare, in linea di massima, i salari all’inflazione; il secondo deve compensare gli incrementi di produttività. L’aumento retributivo richiesto nel carnet rivendicativo non risponde a tali parametri; allo stesso modo, non trova alcun appiglio nelle regole la pretesa di riconoscere, a livello nazionale, un ulteriore aumento (a forfait) per le imprese in cui non si attui la contrattazione articolata. Il fatto è che l’attuale struttura contrattuale, vecchia di quarant’anni, è ormai delegittimata non già dai padroni, ma dalle realtà produttive in rapida trasformazione. Non ha più senso voler conservare un’unica contrattazione nazionale - divenuta, nei fatti, una “camicia di forza”, un modello di unità solo teorica e ideologica per una categoria tanto differenziata al proprio interno - insieme a una prassi di iniziativa decentrata che risulta essere, sempre più, un dato elitario, riguardante, bene che vada, un terzo dei lavoratori interessati. È necessario diversificare e decentrare la contrattazione, anche sul piano territoriale. Basta leggere quanto la Svimez (che di problemi del Sud se ne intende) suggerisce in proposito: occorre “trovare nuove modalità - scrive - con cui rendere compatibili i meccanismi regolativi centralizzati a tutela dei diritti generali dei lavoratori con strumenti di regolazione flessibile a livello decentrato che sostengano le imprese nel loro sforzo di competere sui mercati concorrenziali”. I sindacati dei metalmeccanici, invece, pur di conquistare il massimo possibile a livello nazionale sono disposti ad prolungare - in tempi di trasformazioni frequenti e repentine - la durata del contratto, per rinnovarlo, a questo punto, “a ogni morte di Papa”. Quanto, poi, alle differenze che separano le richieste di Fim, Fiom e Uilm (avanzate, per giunta, in tempi di serie difficoltà economiche) dalla controproposte della Federmeccanica (e all’atteggiamento dei media che tendono a minimizzare queste ultime), il tavolo della trattativa è destinato a trovare una intesa decorosa, ma è bene ricordare i meccanismi perversi che trasformano costi pesanti per i datori in buste-paga leggere: fatta uguale a 100 la retribuzione lorda del lavoratore, l’onere complessivo per l’impresa è pari a 145, mentre al netto, per il dipendente, rimane un ammontare di 72. E un sindacato che non sa evolvere la sua strategia chi rappresenta e soprattutto a cosa serve? Rutelli spacca l’Unione: “Stava per nascere un grande centro di potere”. Democratici di sinistra sul piede di guerra “Per fortuna ci siamo salvati dalla finanza rossa” Nella vicenda Unipol l'Italia “si è salvata da un grosso rischio, quello rappresentato dalla nascita di un grande centro di potere che si pretendeva chiamato a rinnovare il capitalismo italiano”. Lo ha affermato il leader della Margherita, Francesco Rutelli, intervenendo ieri a Milano a un convegno organizzato dal Centro di formazione politica. Secondo Rutelli “nella vicenda Unipol, a parte l’illegalità e gli abusi di cui si devono occupare magistratura e autorità competenti, l'Italia si è salvata da un grosso rischio: la pretesa di alcuni di dare vita a un grande centro di potere non operante di per sé come cinghia di trasmissione ma di chiaro segno politico che si pretendeva chiamato a ‘rinnovare’ il capitalismo italiano: si vedano a questo proposito i discorsi tenuti da Consorte nelle assemblee delle strutture cooperative chiamate ad autorizzare l'operazione, sino al suo discorso di commiato, accolto, anzichè dagli scroscianti applausi, da un eloquente silenzio". "La mia conclusione a questo riguardo è semplice - ha chiosa- to Rutelli - non esistono più le classi, i riferimenti economico-sociali organizzati, le barriere anche ideologiche del passato. Va superata ogni forma di preferenza, e tanto più di esclusivismo, nei rapporti tra politica e corpi intermedi. Va concluso ogni persistente collateralismo, ove vi siano passaggi organici di gruppi dirigenti e condivisione di operazioni e interessi economici e finanziari". Le reazione dei Democratici di sinistra non si è fatta attendere e si può tranquillamente dire che al Botteghino non l’hanno certo presa bene. “Le dichiarazioni dell'onorevole Rutelli sulla volontà di alcuni di creare un grande centro di potere e una finanza rossa, mi sembrano inopportune e lontane dalla verità”. Questo il commento piccato alle dichiarazioni di Rutelli del deputato diessino ed ex-ministro delle Finanze, Vin- cenzo Visco. Ma chi ha al leader di Dl ha risposto per le rime è stato il parlamentare della Quercia, Antonio Soda. “A Rutelli - ha detto Soda - rispondo che, quando parla di residui di collateralismo, dica lui che cosa intende e quale idea di politica ha. Perché se la politica deve rimanere assente dall’obbligo di regolare il mercato e di introdurre anche meccanismi correttivi, allora siamo su un terreno completamente opposto”. “Penso e ribadisco - ha proseguito il deputato dei Democratici di sinistra - che, a mio avviso, non c’è nessuna illegittimità della politica ad affrontare anche i temi del mercato e della finanza. Se questo è collateralismo, ben venga. Se Rutelli, invece, fa riferimento a rapporti di affari congiunti tra politici e operatori finanziari, tra partito politico e imprese, rosse, bianche o verdi che siano, si trat- ta di un collateralismo fuori dalla nostra concezione della politica. Per essere chiari - ha concluso Soda - se dietro la scalata a Bnl da parte del sistema cooperativo, vi è un progetto industriale, un modello di produzione che non sia finalizzato a creare risorse per solidarietà intergenerazionale, ben fa un partito politico non solo ad appoggiare questa strategia, ma anche a sollecitarla”. "Ciò che ha detto l’onorevole Rutelli è molto contraddittorio. Per pure ragioni di schieramento ha dato la sua solidarietà ai Democratici di sinistra e a Fassino, e contemporaneamente ha affermato che c’è stato il rischio di una ‘finanza rossa’". Così Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore di Forza Italia, ha commentato la polemica che in queste ore sta montando nel centrosinistra. "A nostro avviso – ha aggiunto - più che di un rischio, viste le forze già in campo (cooperative rosse, Unipol, Monte dei Paschi), si tratta di una realtà che si sarebbe molto accentuata qualora fosse riuscita la scalata dell'Unipol alla Bnl". Siamo proprio convinti che Bancopoli abbia infranto il mito della superiorità dei compagni? SPECIALE I Ds e il complesso dei migliori Craxi, un confronto infinito PIETRO MANCINI Nelle interviste, sui giornali e lefonate tra Fassino e Consorte e nei salotti televisivi, dei capi e dei il clamoroso tonfo dei “furbetti luogotenenti della Quercia, e nel recente documento della del quartierino”, pochi mesi fa esaltati come grandi e indodirezione, si colgono, seppur molto tardivi e imbarazzati, miti capitani d’industria e oggi brutalmente scaricati, abaccenni di autocritica, più tattici che sinceri, parziali corre- biano infranto il mito della superiorità etica degli ex comuzioni di rotta, tentativi, più o meno goffi, di sganciamento nisti? Certamente, la bufera non ha affatto cancellato l’ardai personaggi alla Consorte. roganza, la prosopopea, la smodata autostima dei dirigenti Ma, osservandone, nelle loro esternazioni in video, ulti- del Botteghino. Forse, dopo l’esplosione del bubbone Unima quella di Fassino da Vespa (“caro Prodi, non sei Dio in pol, Piero e Massimo non si rivolgeranno più al loro elettoterra!”), i volti, tesi e contratti, la stizza, a stento contenuta, rato, considerandolo la “parte migliore del Paese”. Ma docon la quale rispondono ai loro contraddittori, i telespetta- vrà passare ancora molto tempo prima che i capi post-cotori non possono non rendersi conto che la mentalità dei ca- munisti si decidano a spedire in archivio la pretesa di guarpi diessini, ereditata dai vecchio Pci, è tutt’altro che scom- dare dall’alto in basso alleati e avversari, in virtù di un priparsa. Insomma, non si può non rilevare che in molti post- mato, prima genetico che politico, che tuttavia ormai esiste comunisti permangono tutti i vizi, che erano presenti nei solo nella loro mente. E in quella di attempati e sussiegosi big del partitone rosso di Togliatti, Longo e Berlinguer. “maitres à penser”, in primis Eugenio Scalfari, che ha squaInnanzitutto, la tendenza a scomunicare, di imperio, lificato a vita, in tv, il bossiano Castelli, definendolo come quanti, pur se appartenenti al mondo della sinistra, osano “personaggio-limite” del teatrino politico. dissentire, o si permettono con civiltà di avanzare qualche E proprio l’insulto, rivolto al ministro dal fondatore de “la critica schietta ai comportamenti e alle scelte della diarchia. Repubblica” - che Rutelli, manifestando flair-play e civiltà, “Il segretario non sbaglia mai!”, anche quando ricorre all’a- avrebbe dovuto respingere al mittente - dimostra le correberrante equazione tra “Il Giornale” e la propaganda nazi- sponsabilità di certi santoni della stampa progressista nel sta dello spietato Goebbels, potremmo aggiungere. Di que- “complesso dei migliori”, sviluppatosi in larghi settori della sto dogma, in auge nel Pci, si rilevano ancora tracce, tutt’al- sinistra più politically correct. Tranne Pansa, Parlato e Matro che lievi, nelle reazioni degli ufficiali delle smarrite trup- caluso, che hanno conservato la loro autonomia e libertà di pe diessine alla bufera Unipol. critica, nel corso degli ultimi decenni si sono levate solo voDopo Tangentopoli, Occhetto piombò nella sezione della ci apologetiche sulla stampa vicina alla sinistra, dei VeltroBolognina e chiese scusa al “nuovo” Pds, ma la trasforma- ni e dei D’Alema, mettendo il silenziatore sui tanti errori, zione e il rinnovamento si sono fermati in superficie e non politici e d’immagine, commessi dai due “Occhetto-boys”. hanno interessato i quadri dirigenti e intermedi della Quer- E abbiamo dovuto sorbirci persino imbarazzanti resoconti cia. La faziosità è quella d’antan: tuoni e fulmini, e niente sulle traversate in mare di Massimo a bordo della megacollegio, in aprile, per gli esponenti, che dissentono, seppur barca “Ikarus” e sull’amicizia di Walter con la nipote del timidamente, dagli altezzosi Fassino e D’Alema! È, dunque, presidente Kennedy. molto meglio e conveniente continuare a lavare in casa i Solo oggi, a buoi scappati e a tesoroni della ex premiata panni sporchi per i compagni e per gli alleati dell’Unione, ditta Consorte-Sacchetti scoperti, Scalfari, da impeccabile che preferiscono, tenendo famiglia, profondersi in peana, profeta del giorno dopo, indirizza qualche frecciatina a Fasrichiesti e graditi, sulle elevate qualità morali dei capi del sino per non aver troncato, otto mesi fa, i rapporti con l’alprimo partito della galassia prodiana. lora già chiacchierato presidente di Unipol. Troppo tardi, Ma, poi, siamo proprio certi che la diffusione delle te- don Eugenio, non crede? Campagna elettorale, il monito di Ciampi al presidente della Commissione Vigilanza Rai “Sia garantita una parità effettiva” "Avete ormai l'esperienza di passate elezioni che vi può permettere di meglio calibrare il vostro regolamento alle esigenze di un parità effettiva nella prossima campagna elettorale. Su questo, attraverso la Rai, la vostra sia una vigilanza attiva per far sì che la sostanza, al di là di quelle che sono le norme scritte, venga rispettata in tutte le trasmissioni, al di là di quelle che sono strettamente elettorali, ma proprio per le presenze nella varie trasmissioni di intrattenimento o di altro genere che la Rai fa". Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, al termine del suo incontro con il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Paolo Gentiloni, e alcuni componenti, in un discorso ha raccomandato inoltre che ci sia "una vigilanza attiva e per questo mi raccomando a voi per l’interesse di una regolare e libera campagna elettorale". Ciampi ha sottolineato che si tratta di "una cosa di straordinaria importanza". E ha accennato al suo messaggio al Parlamento nel luglio del 2002. "Veramente - ha ribadito - sono convinto che la libertà di parola, la libertà di informazione sono l’essenza del complesso di valori che noi comprendiamo nella parola libertà. Questa è una convinzione profonda. Per questo sono contento che quel mio messaggio sia di fatto rimasto l’unico messaggio specifico fatto durante il mio settennato, perché ne sottolinea il valore che ho voluto dargli. Nella sua stesura mi impegnai a fondo personalmente perché sentivo che su quel punto si gioca la democrazia nel nostro Paese". Nel suo discorso, Ciampi ha anche affrontato il tema della necessità di promuovere l’identità italiana all'estero attraverso la cultura, attraverso la lingua, un argomento, a suo giudizio, sul quale "c’è una miniera enorme che noi dobbiamo ancora sfruttare, che è sottoutilizzata". "La vostra iniziativa di promuovere la lingua e la cultura italiana nel mondo è importante. Quindi, dovete impegnarvi in ciò con tutte le vostre forze - ha esortato Ciampi -. Su questo c’è un’unità che ho sentito viva nel Paese in questo mio lungo viaggio per l’Italia ho visto, ho sentito vivamente quanto l'Italia sia veramente unita, quanto sia viva la forza della cultura che attraversa la gioventù, una gioventù più preparata delle generazioni precedenti. C’è anche un grande interesse degli altri, in particolare in Europa, per la cultura italiana. Mi raccomando a tutti voi di promuovere al massimo la lingua e la cultura italiana. C’è un magazzino Rai formidabile che può essere meglio utilizzato e meglio diffuso nel mondo". "Giusto e sacrosanto l'appello del presidente della Repubblica - ha commentato il coordinatore di forza Italia, Sandro Bondi - affinché durante la prossima campagna elettorale le regole che stabiliscono la parità dei partiti nell’accesso all’informazione siano rispettate nella sostanza oltre che nella forma". Sono passati sei anni dalla morte di Bettino Craxi, ma il riformismo dell’ex segretario socialista continua ad essere presente sulla scena politica, attraverso una serie di iniziative e prese di posizione, pro e contro. A pagina 2 e 3 interventi di: Carmelo Albanese, Gianni Baget Bozzo, Giampiero Cantoni, Ugo Finetti, Raffaele Iannuzzi e Giancarlo Lehner La sua cultura di governo FRANCESCO COLUCCI La data del 19 gennaio rappresenta da ormai sei anni un’opportunità per riflettere sulla personalità e sulla lezione politica di Bettino Craxi. A breve distanza da importanti scadenze politiche nazionali, tale riflessione acquista ancor più valore per tornare a sostenere con forza i contenuti concreti della cultura politica e di governo, tradizionalmente propria del riformismo socialista, che Craxi seppe modernizzare e sviluppare con l’intuito politico, il coraggio e la determinazione proprie della sua grande personalità. Trovo che, riferita a Craxi ed alla effettiva svolta, che egli seppe imprimere alla politica italiana agli inizi degli anni Ottanta, l’espressione “cultura di governo” acquisti molteplici significati. La cultura di governo di Craxi è infatti anzitutto cultura della progettualità politica, cioè della capacità della politica di elaborare un chiaro progetto di modernizzazione e di sviluppo economico-sociale per il Paese in una prospettiva di medio e lungo periodo, aggregando su questo progetto il consenso della maggioranza degli elettori e portandolo a compimento con l’azione di governo. Su questo si gioca per Craxi la credibilità della politica ed il suo primato rispetto ai “poteri forti” che ci sono sempre stati e che hanno avuto tanto più peso quanSegue a pagina 3 Coraggio e responsabilità STEFANIA CRAXI Aria fresca, aria nuova, aria giovane, aria pulita. È con questa metafora che potrei illustrare il senso del convegno che oggi riunirà al Teatro Nuovo di Milano la Giovane Italia e Free Foundation con Forza Italia per un’alleanza che trascende il traguardo delle prossime elezioni. Free Foundation di Brunetta, Cicchitto e Sacconi si è già distinta per essere l’espressione più liberale del maggiore partito di governo. La Giovane Italia ha raccolto intorno a sé l’opinione più coerente del socialismo liberale, quella che non ha accettato le mille falsificazioni della falsa rivoluzione dl 92/93, che non accetta la legittimazione dei Ds come partito unico della sinistra italiana, che nella lezione politica di Bettino Craxi trova i motivi e le indicazioni per una nuova stagione di buon governo. Nel nostro convegno programmatico di Rimini avevo detto che “il nostro sarà un grido di libertà”. Oggi non c’è economista che non leghi la ripresa dell’Italia a una nuova fase di liberalizzazioni. Nonostante i passi avanti compiuti, le molte privatizzazioni già fatte, l’Italia è tuttora ingessata in una morsa che ne soffoca gli Segue a pagina 2 SPECIALE CRAXI L’inquietudine socialista di Bettino Rivoluzione e gradualismo GIAMPIERO CANTONI delle memorie di figure vivissime nella sua memoria. Ho in mente il modo come parlava e scriveva di Pietro Nenni, ma su fino a Anna Kuliscioff, “dai capelli d’oro”. Fino alla milanesità di Carlo Cattaneo. Per Bettino le due cose – riforma economica e politica - vanno insieme, la sua scommessa è di tenere insieme un liberalismo integrale e moderno che tutela il valore assoluto della libertà individuale con un socialismo che vuole che queste conquiste siano valide per tutti. È impressionante vedere come la traduzione programmatica di questi ideali riformisti di Craxi trovi una continuità quasi letterale nelle riforme propugnate e realizzate o in via di realizzazione da parte di Berlusconi e del suo governo. Alludo sia alla riforma dello Stato in senso federale, sia a quella (oggi a mio avviso ancora parziale) della giustizia, alla necessità di realizzare grandi opere infrastrutturali, alla “grande riforma” delle istituzioni dove la centralità del Parlamento fosse sostituita da una più efficace “democrazia governante”, con un potere maggiore e più efficace dato all’esecutivo. Fino alla lotta contro la droga secondo un modello in netta contrapposizione al lassismo legalizzatore dei radicali (questo viene troppo facilmente dimenticato da Boselli, ad esempio). Vorrei marcare qui come l’ideale garibaldino di Craxi fosse capace di percepire la peculiarità storica di questo Paese in tema di cattolicesimo. Non dimentico che fu lui a volere il Nuovo Concordato, e davvero non capisco chi oggi consegna come niente fosse la bandiera del socialismo craxiano al radicalismo di Marco Pannella, di questi tempi ahimè più anticattolico e antipapale che anticlericale. Detto questo, affermo un paradosso che sarebbe piaciuto a Bettino, credo. La necessità morale di essere riformisti e riformatori in un Paese irriformabile o, come diceva Leonardo Sciascia, irredimibile. Eppure non si può rinunciare alla verità e alla giustizia, costi quello che costi, e l’esempio di Bettino è qui davanti ai nostri occhi, altrimenti che cosa sarebbe la vita e in essa l’impegno politico? In questo anniversario della morte di Craxi è necessario occuparsi del suo pensiero politico. Lui lo stesso lo definì riformista. Nulla di quietista. Proprio nel suo gradualismo, nella sua volontà di piccoli passi decisi, era schiettamente rivoluzionario. Turbava cioè l’equilibrio cinico dei poteri slegati dal vero bene della società. Per questo io credo abbia pagato con la vita: c’è stata una congiunzione di interessi conservatori tesa ad eliminare la sua anomalia. Era il solo, e lo aveva dimostrato anche accettando talvolta la solitudine nel suo stesso partito, in grado di ricollocare questo Paese nel novero dei grandi, non semplicemente per il Pil (che pure è un dato importante e che Craxi fece balzare in alto, facendo raggiungere all’Italia il quinto posto), ma per la dignità morale e culturale dell’essere nazione italiana. Un’Italia moderna e prospera, fatta di un socialismo liberale insofferente dei privilegi di casta di un capitalismo straccione, legato a salotti vecchi e moralisti con gli altri. Quel capitalismo parassitario dello Stato, alleato con le corporazioni sindacali e clericali. Per questo finanza internazionale e consorterie politiche ed economiche italiane lo hanno estromesso con feroce vigliaccheria dalla vita della nostra nazione. La mia idea è: rimettiamo Craxi al centro, ripartiamo dalla sua eredità intatta, dalla sua leonina e calma intelligenza, da quella sua “forza inquieta che non perde il senso dell’equilibrio”. Non è mia questa definizione che ho messo tra virgolette. La usò Bettino a Bari nel 1991, dove definì proprio così il Partito socialista. Dobbiamo tenerci cara la sua “inquietudine” riformista e riformatrice, ed insieme l’equilibrio. Magari può venir buona per Forza Italia. Provo a indicarne i caratteri e ad evidenziare l’attualità di questa posizione. Il riformismo craxiano ha per perni due concetti decisivi: la libertà dell’individuo e lo sviluppo della società. I due termini sono legati l’uno all’altro. È stato accusato di pragmatismo, quasi che questa attitudine sia stretta parente del cinismo, una sorta di rinuncia all’ideale. Il suo pragmatismo è socialista. Dove io carico questa parola Giovedì 19 gennaio 2006 Pagina 2 La figlia del leader, presidente della Fondazione che ne porta il nome, apre oggi il convegno di Milano La sostanza del riformismo craxiano SEGUE DA PAGINA 1 slanci più vitali. Troppo spesso i corporativismi e gli interessi particolari degli alleati di governo hanno frenato gli impulsi liberali del presidente del Consiglio. L’Italia ha bisogno di maggiore libertà e nella politica industriale, nelle relazioni sindacali, nella pubblica amministrazione, nell’esercizio delle professioni. Ha esattamente bisogno di tutto quello che il centro-sinistra non potrà fare. È sintomatico che nessuno degli economisti di sinistra, in sede accademica d’accordo sulla necessità di liberalizzare, abbia alzato la voce per qualche pur timida osservazione al programma di Prodi che di liberalizzazioni parla all’incontrario, a cominciare dalla liquidazione della legge Biagi promessa a Bertinotti assieme alla presidenza della Camera. Il convegno – che sarà concluso da Silvio Berlusconi – non potrà fare a meno di portare la sua attenzione anche sullo scandalo che ha investito i Ds. Ne parlo diffusamente nella mia relazione, né potrebbe essere altrimenti. Troppo vivo e bruciante è il paragone con quello che i post-comunisti hanno fatto contro Craxi e i suoi alleati. Agitando la questione morale, con l’accusa di corruzione e di ricetta- zione, hanno distrutto i cinque partiti storici della Repubblica italiana, mandato a casa un governo legittimo, insediatone uno al potere forse senza DNA democratico. Dopo gli scandali degli ultimi mesi è nato un curioso dibattito sul rapporto tra politica e affari, come sempre i post-comunisti non hanno il coraggio di affrontare la verità e si difendono con qualche ammissione e un mucchio di menzogne. D’Alema e Fassino sono d’accordo con Prodi, occorre separare la politica dagli affari dicono. Io non intendo qui contestare la sostanza di questa affermazione. Perché qui non ci troviamo di fronte al fenomeno della politica che fa affari, ma a fenomeni diversi, sono gli affari che fanno politica e molte volte difficile distinguere le due attività. Il male oscuro di questa sinistra post-comunista e i guai del Paese stanno qui, in questo mastodontico conflitto di interessi fra chi è impegnato da circa quindici anni a sottomettere la politica a chiari interessi economici e coloro che, i Ds (che sono un misto indivisibile di D’Alema, Consorte e Violante), sono impegnati a sottomettere la politica e il Paese a se stessi e con ogni mezzo, compresi quelli giudiziari e finanziari. Ed il proble- ma è tutto politico: chi conosce bene i post-comunisti lo sa. Chi vive in Emilia Toscana, Umbria lo sa. Ma davvero qualcuno può affermare che in queste regioni si può dividere, nella sinistra, il partito dal mondo delle Cooperative? Avete letto le interviste a Donigallia su chi prendeva le decisioni ultime sulla Coop costruttori, una delle principali aziende di costruzioni in Italia, con libro paga molti dirigenti del partito? Sapete che Stefanini, nuovo presidente di Unipol, è stato segretario cittadino del Pci di Bologna? È risaputo che molte carriere intersecano le Coop, la Confesercenti, la Cgil, il partito, l’amministrazione pubblica con percorsi di andata e ritorno che durano da 60 anni. Le Coop hanno un ruolo dominante in queste regioni, soprattutto nella distribuzione e nelle costruzioni, dov’è fondamentale il ruolo delle istituzioni pubbliche. Ma, qualcuno potrebbe dire, queste cose si sapevano già. Quale è la novità? La novità è che con D’Alema che fa fuori Prodi per andare al governo, con la scalata dei capitani coraggiosi alla Telecom con la scalata alla Bnl, lo Stato nello Stato, vuole diventare Stato, vuole allargare a livello nazionale il sistema locale. È il passaggio dal comunismo al post-comunismo. A questo salto di livello si sono posti i loro alleati, i poteri che vogliono avere il monopolio del potere. È una guerra tutta interna al centrosinistra e al suo sistema di potere e di alleanze. Quando Repubblica e il Corriere attaccano il post-comunismo attaccano l’ambizione di quel sistema di farsi Stato. Ciò che è indecente è che i post-comunisti in questi anni ci hanno dato lezioni di buon costume e costruito una presunzione di diversità morale assolutamente immorale. Come è immorale oggi vestire i panni delle vittime contro quel “giustizialista di Berlusconi”, è immorale sostenere che i Ds so- no vittime di una aggressione pari nella storia, con Berlusconi oggetto dell’attenzione di ottocento giudici e con Craxi seppellito ad Hammamet. Altro che socialdemocrazia, altro che riformismo. Bettino Craxi ci ha insegnato che il riformismo è coraggio responsabilità, amore per la gente. Bettino, ed è questa la sostanza del vero riformismo, ha sempre combattuto tutti i monopoli, non solo quelli economici ma anche e soprattutto quelli politici e culturali. Si è battuto per liberare il pensiero dalla sottomissione alle ideologie, al conformismo, al moralismo della sinistra cattolica e comunista. Craxi ha peccato di riformismo e ha pagato con la vita, come altri riformisti: Buozzi, Tobagi, Biagi. Tutti demonizzati da questa sinistra. Noi craxiani esistiamo, nonostante tutto, perché lui ci ha insegnato a conoscere bene i nostri avversari storici e a non avere paura. Nel 1994, Berlusconi è stato un sentiero in mezzo ai guai. Nel 2001 quel sentiero è diventato una strada, per diverse ragioni un po’ accidentata. Nel 2006 vogliamo andare avanti, rendere la strada meno accidentata e più dritta verso il futuro. Noi portiamo il riformismo di Craxi, senza paura. Stefania Craxi Se i giganti sono ingiustamente trucidati dai nani Bettino Craxi ha un credito con tutti noi. Con i pochi che erano ad Hammamet accanto a lui e con i molti che lo riscoprono adesso. Dobbiamo restituirgli l’onore e le ragioni. In questi ultimi mesi è venuto fuori ciò che si sapeva da sempre e che Bettino aveva più volte evocato nel periodo della trista caccia agli untori. Craxi cercò di richiamare l’attenzione dei magistrati, dei mass media e dell’opinione pubblica sul fatto che la politica esigeva danaro e che il partito più costoso della Penisola era stato il Pci e, dal 1991, il Pds. Le Botteghe Oscure, in proporzione, costavano quattro volte piazza del Gesù e almeno dieci volte via del Corso. Possibile che, venuti meno i milioni di dollari del Pcus, quel grande e strutturatissimo partito di burosauri si potesse mantenere con le salamelle dei festival dell’Unità, senza abbeverarsi al finanziamento illecito ai partiti? Craxi diceva semplicemente una verità, nota, peraltro, a tutti e da lustri, ma fu dipinto come mentitore e calunniatore. Oggi, in tempi di Unipol, salta agli occhi l’iniquità subita da molti, in primo luogo da Bettino, sotto forma di giustizia (e di mass media) a due pesi e due misure. L’Italia è un Paese a maggioranza di ipocriti, il che, però, non giustifica i massacri. Mi viene alla mente la vigliaccheria o l’impudenza dissimulatrice di tre Parlamenti, incapaci di uno scatto d’orgoglio e di verità, per costituire l’irrinunciabile Commissione parlamentare d’inchiesta su Mani pulite. La Commissione d’inchiesta avrebbe dovuto e potuto anche disvelare quanto la corda manipulitista usata per giugulare la prima repubblica fosse stata, in realtà, un grazioso regalo confezionato da un incauto legislatore, che dagli anni Sessanta in poi non smise mai di dare alla corporazione togata, a parte i ricorrenti generosi aumenti di stipendio e le vergognose carriere automatiche, un potere GIANCARLO LEHNER sempre più esorbitante e privo di contrappesi. E un paradosso storicamente rilevante fu che il Psi, proprio la futura vittima designata, all’origine ebbe un ruolo da protagonista nell’esaudire le richieste, quelle giuste e quelle assurde, dei “magistrati democratici”. Si veda in proposito un recente sapido saggio di Lelio Lagorio su come il Psi funse da utile idiota, in magistratura e non solo, del Pci. Craxi cercò in extremis di riparare all’errore, peraltro idealista e generoso, dei precedenti segretari del Psi, ma rimase quasi in perfetta solitudine a difendere l’autonomia della politica. Il circo mediatico-giudiziario, oltre che alla giustizia, attentò impudentemente anche all’intelligenza degli italiani, e così l’operazione infingarda passò: ladri e corrotti i partiti di maggioranza, quasi casti e puri quelli d’opposizione, in particolare quello più compromesso e consociato. Si gridò, anzi, a Bettino di non far passare l’equazione "tutti ladri = nessun ladro", allo scopo di salvare se stesso. In aggiunta, gli si intimò di smetterla di difendersi – vedi il “Corriere della Sera” di Paolo Mieli – e di agitarsi, essendo precluso ormai anche il diritto di far valere le proprie ragioni. Il consiglio che i Paolo Mieli gli fecero giungere a mezzo stampa era di arrendersi, piegarsi, prostrarsi, adattandosi, legato mani e piedi, al nuovo piazzale Loreto che avanzava. Era un “nuovo” presentato in forma magniloquente ben oltre la decenza e il ridicolo (vedi gli aggettivi ed i paragoni abnormi dedicati al sub-scolarizzato Di Pietro), ma il “Corsera”, pur di appendere Craxi, predilesse il lessico enfatico, i panegirici o, di contro, il linguaggio minaccioso e ultimativo. Di Pietro come Sterne, Marco Polo, Colombo, Ulisse, Cincinnato, Giovanni Paolo II sono simili- tudini che andrebbero tuttora perseguite penalmente o, almeno, con l’espulsione dall’Ordine dei giornalisti. Via Solferino, Paolo M. consule, fece scuola di staracismo, a destra e a manca. Il “Messaggero” del 2 luglio 1995 si uniformò, sguinzagliando il sinistro-verde Luigi Manconi, il quale riferendosi al diabete ed alla cancrena di Bettino, si iscrisse così all’albo degli aguzzini: "C’è qualcosa di cupamente grottesco nell’immagine di quell’uomo anziano e malato... anche la malattia... non lo fa apparire più fragile, e con ciò, meno sgradevole. Al contrario. La sua sembra proprio quella che, nei racconti per adolescenti, è l’infermità dei ‘cattivi’ (nel Piccolo Lord la gotta, se ben ricordo)... la malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori... quel sarcasmo così appesantito, quell’aggressività così affannosa rivelano qualcosa di intimamente “sporco”... " Anche, a destra, non si fecero mancare teoria e prassi di Lynch. Il fucilatore Giordano Bruno Guerri, il 5 ottobre 1995, trovò un comodo varco ne “il Giornale” diretto da Feltri e scrisse: "L’Italia e la sua diplomazia dovrebbero agire come un ariete sulla Tunisia, minacciare di interrompere i rapporti economici, l’afflusso turistico e l’immigrazione... C’è poi un’ipotesi più cruda ma che non possiamo non considerare: un Paese che avesse dei servizi segreti... avrebbe già provveduto a far prelevare o a far tacere per sempre Bettino Craxi." Mani pulite, insomma, diseducò e medievalizzò l’Italia. Craxi, avendo ragione, per il passato, per il presente e per il futuro, pagò con la vita il coraggio e l’onestà intellettuale di parlare senza infingimenti del finanziamento della politica. Già allora parlò di coop e di Unipol e fu massacrato dai Paolo Mieli. I giganti, a volte, sono trucidati dai nani. Milano Oggi - Ore 15.30 Teatro Nuovo - Piazza S. Babila Registrazione Tribunale di Roma n. 599 del 29/11/1996 DIRETTORE VALTER LAVITOLA Responsabile FABIO RANUCCI COMITATO DI DIREZIONE Renato Brunetta, Fabrizio Cicchitto Margherita Boniver, Gianni Baget Bozzo Venerio Cattani, Giuliano Cazzola Luigi Compagna, Francesco Forte Francesco Gironda, Arturo Gismondi Paolo Guzzanti, Lino Jannuzzi Andrea Pamparana, Francesco Perfetti Aldo G. Ricci, Alessandra Servidori Antonio Spinosa REDAZIONE DI Il riformismo di Craxi, Il riformismo di Craxi una cultura di governo” una cultura di governo introduce Stefania Craxi ROMA Via del Corso, 117 - 00186 Roma Telefono: 06/6790038 - Fax 06/69782296 modera Indirizzo Internet: http://www.avanti.it e-mail: [email protected] SERVICE DI Maria Stella Gelmini NAPOLI Via Terracina, 421 - 80129 Napoli EDITRICE International Press p.s.c.ar.l. 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Roma - Tel. 06/68896911 Edizione chiusa alle ore 19.00 18 gennaio 2006 - Milano Silvio Berlusconi SPECIALE CRAXI Le sue idee per rinnovare il Paese Quella svolta epocale nella politica italiana UGO FINETTI Con il passare degli anni cresce una riconsiderazione critica della figura di Craxi e dell’azione del Psi negli anni della sua segreteria. Una figura ed un’esperienza che rappresentano un ritorno alle origini del socialismo (prima dell’introduzione delle insegne del Komintern nel suo simbolo) e quindi una sua attualizzazione. Oggi vi è un’inflazione dell’uso del termine “riformista” e quindi una confusione storica. Non basta non sparare ed essere contro la violenza per definirsi riformista. Questa è una distinzione del XIX secolo. Negli anni ’70 e ’80 il riformismo è consistito in una scelta di rifiuto della lettura marxista della crisi economica e quindi in una nuova politica di sinistra. Berlinguer nonostante sforzi e risultati importanti fu risucchiato in una politica di opposizione e di alternativa proprio perché le sue categorie fondamentali erano antiriformiste, erano cioè: anticapitalismo e antimperialismo secondo una politica antiamericana e di fuoruscita dal capitalismo. La svolta che ha rappresentato Craxi è stata quella di respingere una lettura catastrofista della crisi economica, di vedere e sostenere una fuoruscita da quella crisi attraverso processi di deindustrializzazione, di terziarizzzazione e di modernizzazione che non andavano demonizzati, ma favoriti. Il “riformismo” di Craxi consistette nel buttare alle spalle la politica anticapitalistica delle cosiddette “riforme di struttura” e di inaugurare una nuova politica di sinistra che non fosse – come lo era stata da Lombardi a De Martino – tutta programmazione e nazionalizzazioni. Pose cioè all’ordine del giorno della sinistra la riforma di ciò che fino ad allora era considerata “sovrastruttura”. In ciò consistette buona parte della sua battaglia riformista che suscitò addirittura un movimento di odio senza precedenti contro di lui: nessun altro leader politico è stato infatti così inviso negli ultimi 25 anni. Inizialmente c’era il fastidio per aver rilanciato un partito che sembrava moribondo e quindi per non aver lasciato semplificare il sistema politico intorno al bipolarismo Dc-Pci. Poi è venuta l’irritazione per il suo potere d’interdizione, per la sproporzione tra peso elettorale (nemmeno il 15 per cento anche nel momento di massima espansione) e peso politico tanto da conquistare la Presidenza del Consiglio, decidere formule di governo od imporre priorità legislative. Un partito che si era abituati a non prendere in considerazione veniva ora vissuto come una forca caudina: tutta un’aristocrazia politica, culturale e sociale si sentiva oltraggiata dal dover rendere conto al “sancoulottismo” socialista. A ciò si doveva poi aggiungere la rabbia di interi strati generazionali - del ’48, del ’56 e del ‘68 – di fronte al fatto che un socialismo di destra che essi avevano sempre considerato marginale e antistorico fosse ormai destinato a vincere il braccio di ferro contro un’egemonia comunista fino ad allora celebrata come migliore e/o inevitabile futuro del Paese. Al “vulnus” che Craxi rappresentava nel sistema delle certezze della sinistra comunista ed estremistica, le cui prospettive si erano andate man mano sbriciolando, si è poi aggiunto l’altro, non meno bruciante, che Craxi operava su un altro fronte egemonico italiano: quello di una ristretta cupola o piccola monarchia che governava nei vertici finanziari, abituata a un vivere di rendita in situazioni di monopolio assistito dallo Stato e a vedere nel potere politico solo ossequiosi servitori. Quale che sia il giudizio che si voglia dare di Craxi, rimane il fatto che nessuna personalità o forza politica può dire di averlo mai sconfitto in campo aperto. Dal 1979 al 1992 egli ha svolto un ruolo determinante nella vita politica italiana. È l’arco di tempo che ha inizio con il primo “mandato esplorativo” affidatogli dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini, all’indomani delle elezioni del giugno 1979 che lo riconosce “ago della bilancia” dopo la fine della maggioranza di “solidarietà nazionale”. Esce di scena nel 1992 quando, nonostante abbia il sostegno dei partiti della maggioranza parlamentare delle elezioni di aprile, viene convinto da Scalfaro a rinunciare momentaneamente (così crede) alla Presidenza del Consiglio a causa dell’inchiesta “Mani Pulite” - sebbene non coinvolto personalmente – e si fa sostituire da Giuliano Amato. È quindi sul primato politico di Craxi per tre legislature della storia repubblicana, su come egli sia riuscito ad essere il più a lungo di tutti alla guida di un partito e di un governo, ad assumere le vesti di protagonista nella vita nazionale pur partendo da posizioni modestissime – il 10 per cento di un partito del 10 per cento – che occorre dare una valutazione obiettiva. Craxi non si muoveva secondo un intuito zigzagante ed alla giornata, nessuno può negargli una condotta coerente e determinata essenzialmente dal primato delle ragioni politiche. Quel che sin dall’inizio lo ha caratterizzato - e su cui ha fatto leva per arrivare ad esercitare un forma di egemonia verso interlocutori ben più forti sulla scena politica e nella società italiana – è appunto la sua “direzione di marcia” e cioè la sua idea di socialismo. Oggi tre manifestazioni in ricordo del leader Da Roma ad Hammamet Tre le commemorazioni più significative che scandiranno la giornata odierna. A Roma, alle 11, presso il teatro Capranica, Gennaro Acquaviva, Gianni De Michelis e Gianfranco Rotondi si troveranno per riflettere su “L’attualità della lezione di Bettino”, in ricordo di quando il 3 luglio del 1992 Bettino Craxi, a Montecitorio, sottolineò l’esigenza di riforma del sistema. Proprio ad Hammamet, davanti alla tomba del leader socialista, si troverà un gruppo rappresentativo capitanato da Pierluigi Diaco. L’iniziativa è scaturita da un appello fatto nei giorni scorsi dallo stesso Diaco, e inoltrato a tutti i ragazzi e le ragazze della sua generazione per recarsi la dove Craxi è stato esiliato. L’iniziativa è un’occasione per vedere come è morto un italiano che, come pochi, ha anticipato i tempi, ha sempre accarezzato il futuro, ha scelto di essere un socialista, riformista e modernizzatore quando esserlo significava soffrire la solitudine. Una fiaccolata, infine, si terrà alle 19.30 a Piazza Montecitorio. L’iniziativa è stata promossa e organizzata dal gruppo socialista del Consiglio regionale del Lazio. Donato Robilotta, capogruppo alla Pisana, ha dichiarato: “I socialisti non dimenticano e non dimenticheranno, la fiaccolata di oggi sarà un momento per ricordare in un luogo simbolo, Bettino Craxi”. Poche personalità hanno dedicato così tante energie ai problemi dell’universo giovanile Un uomo aperto alle nuove generazioni SEGUE DA PAGINA 1 to più margine di azione gli veniva lasciato dall’indecisionismo della politica, dall’incapacità della politica di formulare un programma condiviso di riforme, la cui attuazione non fosse condizionata da veti contrapposti e da equilibrismi, utili solo a tenere fittiziamente unite forze politiche eterogenee ed incompatibili sui valori e sugli obiettivi di fondo. E sempre su questo si fonda per Craxi - così come, vorrei dire, sul suo esempio, per tutti noi - la capacità della politica di incidere sugli equilibri economico-sociali, non delegando indebitamente questo compito né alla finanza, né agli apparati di partito né alla burocrazia. La sua cultura di governo è, inoltre, una “cultura della governabilità”, della “stabilità di governo”, che costituisce la premessa essenziale per portare a compimento qualunque progetto politico di ampio respiro. “Governare il cambiamento”: fu lo slogan che scelse per la conferenza programmatica di Rimini nell’aprile del 1982, che costituì l’occasione per un confronto a tutto campo sulle problematiche politiche, economiche e sociali, nazionali ed internazionali, con cui un’azione di governo seriamente riformatrice avrebbe dovuto misurarsi. In antitesi alle ambiguità ed ai pregiudizi dogmatici che avevano caratterizzato la stagnazione decisionale delle politiche consociative dei governi degli anni Settanta, Craxi propose un impegno diretto su temi concreti, in linea con gli sviluppi delle più avanzate democrazie occidentali, recuperando da queste gli elementi propulsivi di liberalizzazione della società e dell’iniziativa economica, senza per questo tradire mai i valori alti e forti di giustizia sociale e democrazia sostanziale propri della tradizione socialista. All’esigenza di rinnovamento della politica, la cultura di governo di Craxi coniuga, inoltre, inscindibilmente l’impegno per il rinnovamento e la modernizzazione degli apparati amministrativi, chiamati a dare attuazione all’indirizzo politico di governo, assicurando efficacia e trasparenza all’azione delle amministrazioni pubbliche ed orientandone decisamente lo sviluppo verso una cultura del servizio, anziché della vessazione burocratica dei cittadini e delle imprese. Anche in questo consistevano il “riformismo moderno” di Craxi e la sua “democrazia governante” che, agli inizi degli anni Ottanta, consentirono di avviare il riallineamento dell’Italia agli standard di progresso e modernizzazione degli altri Paesi europei. Nei 651 provvedimenti legislativi che caratterizzano i circa quattro anni di durata dei due governi da lui guidati, fra il 4 agosto 1983 ed il 3 marzo 1987, si possono rileggere le linee portanti del suo progetto complessivo di modernizzazione del Paese e della sua volontà e capacità di attuarlo. Quei provvedimenti delineano una manovra strategica che comprende il controllo dell’inflazione, la politica dei redditi e la riforma tributaria; la riduzione degli squilibri regionali e la promozione del Mezzogiorno; la ridefinizione delle politiche assistenziali in termini di compatibilità con gli equilibri di bilancio; il rilancio dell’edilizia abitativa, la lotta alla droga, la riforma dell’istruzione superiore ed universitaria, lo snellimento delle procedure giudiziarie, la delegificazione ed il rafforzamento del potere decisionale dell’Esecutivo. Tutti aspetti inscindibili di un progetto coerente per conseguire l’obbiettivo che aveva con ambiziosa lungi- miranza indicato nel titolo della sua prima relazione da segretario del Psi nel 1976: “Costruire il futuro”. C’è, infine, un ultimo aspetto che ritengo si debba evidenziare nella cultura di governo di Craxi ed è quello dell’apertura al ricambio generazionale. Anche in questo ho avuto modo di ravvisare, personalmente, un segno ulteriore della sua onestà intellettuale, quando affermava che, di fronte agli sviluppi tecnologici del mondo contemporaneo, non sempre i “capelli bianchi” costituiscono un valore aggiunto e tanto più sarà incentivato a “costruire il futuro” chi quel futuro dovrà viverlo e gestirlo in prima persona. Nella storia dei partiti dell’Italia repubblicana poche personalità hanno dedicato così tante energie, come fece Craxi, nel coltivare, formare, orientare e dare spazio all’impegno delle più promettenti personalità dei movimenti giovanili. Chiunque volesse impegnarsi seriamente in politica, anche se giovane e dotato solo del proprio entusiasmo, trovò sempre nella sua personalità un interlocutore sensibile ed, al tempo stesso, una guida severa e intransigente. Sono questi, in sintesi, i contenuti ed i valori che, fra gli altri, ho sentito di dover riportare in questa occasione all’attenzione di tutti noi. E proprio oggi sento ancora una volta di poter affermare che sono questi i contenuti ed i valori che noi, socialisti riformisti, liberali e democratici, abbiamo lealmente mantenuto vivi, contribuendo attivamente all’elaborazione ed attuazione del progetto politico di Forza Italia. Secondo la lezione politica di Craxi, l’attitudine interclassista e la fiducia nel dialogo e nel confronto fra le forze riformiste di diversa ispirazione politica e culturale hanno, fin dall’inizio, costituito un elemento qualificante della proposta politica di Forza Italia. E tutto quello che in questi anni è stato possibile progettare e costruire, secondo una linea autenticamente riformista, nei più diversi ambiti d’incidenza dell’azione di governo, non va regalato a coloro che pur di appropriarsi ad ogni costo dell’eredità culturale e della storica funzione politica del riformismo italiano - liberale, socialista e cattolico - hanno fatto di tutto per logorarne l’immagine e per indebolirne la credibilità di fronte all’opinione democratica del Paese. Tutto il Paese ha ora più che mai modo di valutare il naufragio del moralismo di chi ha lapidato Craxi e che oggi viene a sua volta travolto dagli scandali bancari. “La loro indignazione - ha scritto il 29 novembre scorso Sergio Romano sul Corriere della Sera - sarebbe stata più convincente se il loro partito non avesse vissuto di finanziamenti sovietici sino alla fine degli anni Settanta e di tangenti sul commercio Est-Ovest sino alla fine degli anni Ottanta. E sarebbe stato ancora più convincente se gli attacchi moralistici non avessero nascosto il timore di perdere la sfida per la guida della sinistra italiana”. Saremmo noi ora a dover gridare, con orgoglio e con passione: “Resistere, Resistere, Resistere!”. Ma cerchiamo, per quanto possibile, di astenercene, opponendo agli slogan un progetto politico concreto ed insistendo costruttivamente nel riportare l’attenzione su quanto abbiamo fatto e su quanto ancora proponiamo di fare per il Paese. Lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra coerenza, alla nostra tradizione di pensiero e di impegno culturale e politico. In una parola, lo dobbiamo alla memoria ed alla personalità di Bettino Craxi. Francesco Colucci Una irripetibile lezione di laicità Giovedì 19 gennaio 2006 Pagina 3 Sulla sinistra il peso delle accuse al Psi Questione ancora aperta quattordici anni dopo GIANNI BAGET BOZZO Rimane, la memoria di Bettino Craxi, in un tempo che cancella le figure della politica, consumate dal dilagare delle notizie e dal cambiare degli eventi. Forse nulla del mondo e dei problemi che segnarono la vita del leader socialista esiste più. Non esiste più la guerra fredda, non esiste più la Democrazia cristiana, il comunismo italiano ha cambiato apparenza ma non sostanza. Oggi altri temi gravano sul mondo, dalla globalizzazione al terrorismo islamista e, anche quando i personaggi rimangono gli stessi, i loro riferimenti sono interamente mutati. La continuità della classe politica italiana rimane, pur nella differenza del contesto in cui si svolge la vita del Paese. Di Bettino Craxi resta solamente il sentimento della sua grandezza e la memoria della sua tragedia: la sua morte in esilio, tra il deserto africano e il mare, colpito da una sentenza che lo separava dall’Italia e dal mondo e lo rinchiudeva nella terra che gli aveva concesso asilo politico informale. La coscienza comune non ha ratificato la sentenza dei giudici, non ha fatto della storia dell’Italia democratica una storia di tangenti. Anche coloro che furono i più feroci accusatori di Craxi oggi comprendono quello che egli disse e quello che egli visse. Ma ciò che non fu riconosciuto in lui segna ancora la sinistra italiana. I comunisti vollero, nella condanna di Craxi, vedere la certezza che essi erano la linea principale del movimento operaio italiano, e al tempo stesso dovettero cambiare radicalmente registro e cercare di definirsi socialisti. L’unico modo era quello di eliminare Craxi e di assumere i residuati socialisti come frammenti da comporsi nel loro disegno. Da allora, essi ancora vivono nel cambiamento continuo del nome il paradosso di aver condannato il PSI di Craxi e al tempo stesso di aver dovuto identificarsi con la sua politica. Non riescono a diventare socialisti perché hanno voluto distruggere il volto decisivo del socialismo italiano. La questione non si è chiusa dunque con le sentenze giudiziarie, ma rimane politicamente aperta. E nessun erede del nome può togliere la memoria di lui, della sua umanità e del suo calore, il suo impegno storico per conciliare socialismo e identità nazionale e fare del Psi il partito dell’Italia, al di là della definizione ideologica delle due grandi “chiese”. Craxi contribuì a far emergere l’Italia dalla tragedia della guerra civile e della guerra fredda e a determinare la legittimità della nazione per se stessa, non redenta dalla Resistenza o dall’alleanza atlantica, ma avente in se stessa un significato. Craxi è riuscito a far comprendere a chi è venuto dopo di lui che è una grande figura tragica del dramma italiano nel conflitto non risolto tra Stato, popolo e nazione. Con lui l’Italia è riemersa come nazione oltre le divisioni del ‘900. Non è un caso che dopo di lui, a destra e a sinistra, sia rinato il senso dell’Italia come un riferimento esile ma fondante di una comunità di esistenza, di un senso del vivere comune. Non è ancora giunto il momento in cui si comprendano le ragioni che Craxi difese e l’ingiustizia della sua condanna, espressione di un conflitto tra politica e diritto, tra moralità e legalità. Fino a che non sarà compresa anche formalmente la grandezza della persona e il suo valore per l’unità nazionale, il problema italiano non verrà risolto, il Paese sarà ancora diviso come oggi. Nonostante le apparenze politiche, che vedono i socialisti più noti vicino ai post-comunisti, la divisione tra due parti politiche e l’asprezza del contrasto dipendono ancora dal fatto che la questione Craxi non è risolta. [email protected] Pensando a Ghino di Tacco CARMELO ALBANESE La vita e la morte di Craxi sono oggi un ormeggio simbolico che non cessa di agganciare, ferreo, il presente: il presente come storia. Il presente come memoria. La politica si nutre ancora della memoria di una vita singola e singolare, quella di Bettino, morto ad Hammamet il 19 gennaio del 2000, al sorgere di una nuova epoca, mentre tramontava il “secolo del male”, il Novecento. La vita di Bettino ha raccolto un’industria di violenza dialettica, prodotta e elevata ad arma unica, devastante, dai comunisti, dagli stessi che, in questi giorni, scolpiscono sui loro volti la maschera umiliante della polvere, invasi dalla cenere, figli della cenere: la nèmesi colpisce con geometrica violenza. Se Bettino è ancora il manuale sempre aperto dello scandalo della violenza contro l’uomo, contro il lottatore tragico che si erge sulla scena, solitario, anche quando in concerto con un grande partito come il Psi, è esattamente per una ragione che spiazza l’umana ragione. Egli è la “pietra d’inciampo” dell’Evangelo, la rottura dell’ordine perbenista e accondiscente con il Tempio e le “casematte”: una lotta permanente, continua, movimentista, corsara e sanguigna, contro gli stessi padroni delle banche di questo tempo. I giudici di “Mani Pulite” hanno creduto fideisticamente nella violenta efferatezza giacobina, nel “mito del mondo nuovo” costruito da mani d’uomo e riprodotto dai nuovi “signori della guerra civile”; e proprio questo teorema si è abbattuto sulla schiena, già dolorante, della nostra convivenza democratica, squassando la classe dirigente non perfetta, spregiudicata, effervescente e genialmente creativa che ci aveva fatto vivere la primavera democratica senza catastrofi pubbliche, in-civili, senza dis-ordine. Craxi aveva il piglio eroico di questa “vil razza dannata” e peccatrice, ma così superbamente RAFFAELE IANNUZZI ammirevole, che aveva fatto del peccato originale e del realismo temperato dalla efficace arte del rimedio, che è governo allo stato puro, secondo il Machiavelli, la conditio sine qua non di origine laica. Laicità, che non era disprezzo per le ragioni della con-vivenza, come Craxi ha ricordato in una perla di libretto, “Cristianesimo e Socialismo”, ma senso niti- do e illuministico del limite, vicino, gemellato con la finitudine cristiana: “Parafrasando Camus si potrebbe dire: non c’è giustizia assoluta, ma ci sono dei limiti. E coloro che pretendono che la giustizia sia sempre presente, al cento per cento, sono fuori dei limiti; quanto coloro che pretendono che la giustizia non sia mai presente”. È la giusta rotta del realismo democratico, dell’illuminismo non giacobino, dei Beccaria e dei Rosmini. I giudici, negli anni della violenza giustizialista, hanno preteso l’Assoluto, con le mani d’uomo e con le ideologie usate come valvole di sfogo e repressione dell’equilibrio. Anni di inverecondo stillicidio di “larvato totalitarismo” (Giovanni Paolo II, “Centesimus annus”): la fine del mondo in sedicesimo che ha sradicato memorie e volontà nuove. Finché è usci- to un altro passaggio epocale, che anche oggi ci desta sorpresa e rimette in discussione le antiche categorie. E tutto ciò a cagione di un Capro espiatorio, secondo la categorizzazione di Girard, il Singolo che diventa vittima per lavare le colpe di tutti. La politica era alla Camera, in piedi, quel 3 luglio del 1992, aula stracolma, dicono le cronache: la memoria scatta spontaneamente. Nessuno si alzò. E non fu, questa, una chiamata di correità, ma un gratuito atto politico, di dimensione ultima, incalcolabilmente prezioso: da Capro espiatorio che si assume la responsabilità e non si sottrae alla partita definitiva. Abbiamo avuto come padre politico uno statista che era un uomo colossalmente novecentesco, dunque tragicamente impegnato nella Causa. Un uomo che, intervistato dalla rivista ciellina “Il Sabato”, il 23 agosto 1988 (“Noi, la Dc, i cattolici”), quasi si sfoga con Banfi, il direttore dell’epoca: “I sociologi ci ricordano ogni giorno che la società moderna è angosciata dalla mancanza di senso, di senso della vita e di modi di viverla. Ma questo è proprio il compito della politica. Perché non deve essere possibile restituire alla politica tutta la sua nobiltà? Ma per far questo bisogna rinnovare i modi di far politica. Dimenticare affarismo, clienti e clientele. Moltiplicare la presenza nel sociale, ridar fiato al dibattito culturale, produrre opere e fatti concreti che riducano la crescente emarginazione di grandi categorie di cittadini”. La “nobiltà” della politica deve ricucire lo strappo tra la desolazione del cuore dell’uomo e la societas, la con-vivenza. La mediazione è il “senso”, non il politicismo autoreferenziale. Perché Bettino ragionava così, all’altezza dei grandi desideri dell’io, oltre il laicismo e anche oltre la violenza giacobina. Una lezione per riscaldare il cuore della stanca modernità che affolla il destino di tutti noi. Sono stati anni particolari quelli che ci lasciamo alle spalle. Anni veloci, confusi. Ma la storia a volte torna su di sé e si fa più riflessiva. Ecco allora che il pensiero va spontaneo a Bettino Craxi. Non a “Tangentopoli”, ma alla sua completezza di politico e di uomo. Parlare in un modo diverso di Craxi non è il revisionismo di chi sostiene a posteriori che sarebbe stato meglio processare Mussolini. Craxi è un uomo che ha attraversato gli anni difficili del terrorismo in Italia, avendo il coraggio di prendere il timone di una barca che dondolava sul mare. Ripensiamo al caso Moro. Ci si è nascosti dietro la pulizia morale dell’intero ceto politico in cui egli militava da una parte, e dietro una altrettanto doverosa battaglia al terrorismo dall’altra. In mezzo c’era e c’è l’irrisolta questione politica che Aldo Moro poneva in essere anticipando i tempi e pagando di persona questa sua lungimiranza politica lungo la via orribile del capro espiatorio e del “nessuno è profeta in patria”. In quei momenti tumultuosi, Craxi è stato l’unico che ha cercato un ponte con i terroristi per la sua liberazione mentre tutti da destra a sinistra sostenevano che non si poteva trattare. Vedendo in questo atto di umanità e di straordinaria limpidezza politica un segno di cedevolezza dello Stato. Aldo Moro sembrava un predestinato. Morì con lui, per lungo tempo, fino forse ad oggi, la speranza di vedere una Italia più italiana, mi si perdoni il gioco di parole. Forse quella stessa Italia che lo statista cercava di realizzare. Se ripensiamo a Cernobil vediamo un altro aspetto del politico Craxi. Si aprì in quegli anni in Italia un fronte energetico e lo statista lo risolse con il ricorso al gas del Nord-Africa. Poi c’è l’uomo: Ghino di Tacco. Padre di due figli che hanno ereditato il suo carattere. Che chiedono la riabilitazione politica del padre. Sarebbe ora. Nei volumi dell’enciclopedia “la storia” uscita con Repubblica, Bettino Craxi è riportato in una fotografia vicino a Nenni. Qualcuno capisce l’importanza di riferirsi ad una tradizione socialista in questo Paese. Si rende conto che Bettino Craxi va certamente rivisto sotto una luce diversa. Una luce che è probabilmente simile a quella da lui cercata ad Hammamet, ma che pure deve esserci in Italia. Una luce cercata da chi non era il tipo da fuggire da un processo; fosse stato un processo a colpe reali e non a colpe esasperate simbolicamente da un rimosso collettivo. Solo oggi, quel rimosso viene in superficie; dopo dieci anni di alternanza maggioritaria di quelle stesse forze che avrebbero tanto voluto nascondersi dietro di lui. Era davvero difficile che Ghino di Tacco lo accettasse. È da questo nome che è possibile tornare a pensare a lui; a quel suo modo di firmarsi, di scrivere e di vedere il mondo. LIBRI Al San Carlo “Attila”, opera giovanile di Verdi Il lavoro “insicuro” del cigno di Busseto RENATO RIBAUD Solera, essa si ispira all’ “Attila, Konig der Hunnen” di Zacharias Werner. Il dramma lirico doveva comunque preludere a ben più svettanti capolavori. Si tratta in sintesi di un archetipo del melodramma risorgimentale, che furoreggiò nei nostri teatri, grazie all’appello della riscossa romana contro gli unni invasori. Provenendo però la trama da un dramma tedesco, la connotazione degli italiani non ne usciva troppo bene, così come non appariva del tutto negativa, quella di Attila. Ciò si tradusse in un testo alquanto sbilanciato, per giunta, danneggiato dalla defezione di Solera, con conseguente repeschàge di Piave, non senza l’inevitabile salto stilistico che ne seguì. Testo e partitura comunque non sono privi di pregi, soprattutto per la loro continuità drammatica, con segmenti connettivi formalmente interessanti. Va aggiunto che il soggetto di per se stesso, riscosse all’inizio particolare apprezzamento da parte di Verdi, che era rimasto affascinato dai personaggi di Attila, di Ezio e naturalmente di Odabella. Traspariva qui inoltre una personalità volitiva come l’Abogalle di Nabucco, legata a temi sempre cari al musicista, quali la brama di vendetta e il rapporto di un’eroina con il padre. Per questo Verdi, all’indomani della prima avvenuta a La Fenice di Venezia nel 1846, scrisse all’editore francese Escudier, affinché esaminasse la possibilità di trasformare il lavoro in una “grand’opera” per Parigi. Poiché Solera aveva modificato a fondo la tragedia originaria e tratteggiato una sorta di odii e di vendette dai profili drammatici sommariamente delineati, Verdi, autorizzato dal librettista che si trovava all’estero per altri incarichi, fece apportare da Francesco Maria Piave, le modifiche ritenute necessarie. Modifiche che trasparirono in parte quando l’opera fu trasferita di lì a due anni al Teatro San Carlo, dove ebbe ben veti repliche. Il rifacimento giunse però a stravolgere a tal punto il libretto originario (soprattutto nel terzo atto), che Solera ebbe ad esprimere il suo disappunto in merito, e da allora non collaborò più con il musicista. “Attila” di Giuseppe Verdi, andata in scena al San Carlo, è stata ben apprezzata nella regia di Pier Luigi Pizzi che ha provveduto pure alla scena che si è aperta su un disastrato percorso con sullo sfondo il suggestivo incendio di Aquileia e ai costumi, rigorosamente ispirati ad antichi bozzetti. Il tutto è s’è svolto nella ripresa firmata da Paolo Panizza. Va detto che l’opera di per se stessa, non ha mai del tutto entusiasmato i melomani. Qualche critico continua a definire questo dramma lirico un lavoro insicuro del grande compositore. A renderlo appetibile sono stati comunque anche l’impegno del giovane ma ben affermato Nicola Luisotti che evocato più volte agli applausi, ha diretto l’orchestra e il coro del Teatro San Carlo, oltre all’indiscussa bravura degli interpreti, tra i quali ci piace citare: Samuel Ramey (Attila), uno tra i cantanti più apprezzati degli ultimi decenni, e con lui: Andrea Gruber (Odabella); Vladimir Stoyanov (Ezio); Giuseppe Gipali (Foresto); Deyan Vatchov (Papa Leone I); Gianluca Floris (Uldino). A margine va aggiunto che “Attila” ha rappresentato il primo degli appuntamenti verdiani della Stagione 2005/2006 (il secondo è Otello previsto nel mese di maggio). Un appuntamento oltretutto, che si è preannunciato quale evento perché consente di ascoltare una romanza cantata da Foresto all’inizio del terzo atto “persa” nei secoli e ritrovata grazie ad uno studio di Philip Gossett. Verdi inserì l’aria, tempo dopo il debutto dell’opera, su richiesta di Gioachino Rossini che in questo modo volle compiacere il tenore Nicola Ivanoff con il quale aveva instaurato un rapporto stretto e quasi paterno. “Ivanoff cantò l’aria diverse volte - spiega Gosset -. L’ultima occasione documentata fu al Teatro Regio di Torino nel 1849 e nel libretto stampato per quell’esecuzione figura anche il testo. Tuttavia non fu mai stampata nessuna edizione della musica e dopo il 1849 sono cessati tutti i riferimenti a questo brano”. L’opera andata in scena al San Carlo, fu musicata dunque. in età giovanile da Giuseppe Verdi. Facendo leva sul libretto di Temistocle I ghiacci di Almond MARCO Ai nostri occhi, il benessere risiede nel comfort di un paesaggio addomesticato, dove gli agi sono a portata di telecomando e la noia della sazietà è sempre in agguato. Per Darren Almond, in mostra alla galleria Artiaco di Napoli fino al 28 gennaio, la naturale austerità della regione artica è sinonimo di pienezza, la desolazione dei luoghi ai confini del mondo, dove la tenebra dimora per sei mesi all’anno, è il suo fascino profondo. Nelle fotografie dell’artista britannico, che ha mancato d’un soffio il prestigioso Turner Prize, non vi è traccia di vita, vi è solo un’atmosfera rarefatta e fuligginosa, immobile e surreale. Nei luoghi estremi e inospitali del grande Nord, la dimensione spazio-temporale si annulla, il candore del ghiaccio si confonde con l’acqua ed il cielo. Nella sconfinata purezza di questo paesaggio, dove la materia ha una limpidezza eterea, Darren Almond riesce ad afferrare l’assoluto, una dimensione in cui nulla è finito, nulla è relativo. Possiamo cambiare lo sfondo, modificare i lineamenti pure del pae- DI MAURO saggio artico nell’intricato viluppo di felci e mangrovie della foresta amazzonica. L’essenza non cambia. Ci accorgiamo presto che il ridondante paesaggio non ci dà più di quanto offrisse il paesaggio artico. La ricchezza, voluta e mistificatrice, confonde i sensi, nasconde l’essere sotto una maschera variopinta. Insieme alle fotografie, Darren Almond presenta il video “Artic Pull”, narrazione della propria esperienza nei ghiacci dell’artico. Le immagini, riprese casualmente da una slitta in corsa, scorrono veloci e senza tregua, accompagnate da un rumore assordante. Alla dimensione poetica e onirica che ispira le fotografie subentra un senso tragico della vita: l’uomo arranca nel buio e nel gelo per sfuggire ad una morte incalzante, in una lotta impari contro le forze della natura. A suggello della mostra, una scultura in alluminio dipinto evoca la figura dell’esploratore Robert Falcon Scott, che raggiunse il Polo Sud nel 1902, avendo attraversato i ghiacci dell’Antartide a bordo di una slitta. & CULTURA Le celebrazioni per il V centenario dell’istituzione del corpo fondato nel 1506 da Giulio II Guardie svizzere, da cinquecento anni sono al servizio del Papa A partire da domenica prossima prenderanno il via le celebrazioni per il Quinto centenario dell’istituzione della Guardie svizzera pontificia. Attualmente i “soldati del Papa” in servizio sono 110. Il calendario delle iniziative prevede una lunga serie di manifestazioni ed è stato presentato nel novembre scorso dal comandante delle guardie svizzere Elmar Th.Mader, che nell’occasione presentò anche l’emissione speciale fra la Città del Vaticano e la Svizzera dei francobolli celebrativi dell’evento. Il corpo fu fondato da Papa Giulio II (1503-1513) con una bolla pontificia del 21 giugno 1505, mentre il primo contingente di guardie svizzere composto da 150 uomini completamente equipaggiati dal Papa fece il suo ingresso in Vaticano il 22 gennaio del 1506. Giulio II scelse gli svizzeri per la sua difesa personale dopo aver studiato e analizzato tutti i possibili elementi di unione tra lui e i confederati. Le peculiarità e la costituzione del Paese, il suo passato, la passione per la guerra e soprattutto il rispetto per la Chiesa, erano elementi diffusi nei Cantoni svizzeri più che altrove. Domenica le celebrazioni inizieranno con un ricevimento di gala e con la Santa Messa nella Cappella Sistina presieduta dal Cardinale Segretario di Stato. Un picchetto d’onore in Piazza San Pietro in occasione della preghiera dell’Angelus e della benedizione apostolica del Santo Padre ricorderà lo storico arrivo delle prime guardie. A partire dal 29 marzo, inoltre, nel Bracci odi Carlo Magno, sulla parte sinistra del colonnato del Bernini, si aprirà la mostra “Guardia Svizzera Pontificia, 500 anni - storia - arte - vita” che permetterà alle migliaia di visitatori di San Pietro, di conoscere la storia, il senso, l’essere e la funzione della Guardia. Presidente del comitato scientifico della Mostra è Giovanni Morello, a capo della Fondazione per i Beni e le Attività artistiche della Chiesa e membro della Commissione permanente per la tutela dei monumenti storici ed artistici della Santa Sede. Dal 7 aprile prenderà poi il via la marcia commemorativa della Guardia svizzera Bellinzona-Roma: si tratta di una distanza di 723 Km che verrà percorsa in 27 giornate di cammino. Partendo da Bellinzona il percorso si snoda prevalentemente lungo la via Francigena, antica strada di pellegrinaggi e via di commercio, verso la Città Eterna. I partecipanti alla marcia verranno accolti da un picchetto di guardie attive e da una banda formata da guardie in servizio ed ex-guardie, che li accompagneranno, insieme a formazioni militari italiane fino a Piazza San Pietro, dove riceveranno la solenne benedizione dal Papa. Una serie di celebrazioni ricorderà poi in modo particolare il sacco di Roma del 6 maggio del 1527 ad opera dei Lanzichenecchi di Carlo V e il sacrificio delle molte Guardie svizzere che quel giorno persero la vita in difesa del Papa. Eventi musicali e religiosi si intrecceranno. Si svolgeranno tre concerti nell’Aula Paolo VI, il 3, il 4 e il 5 maggio. Poi il 6 maggio, si svolgerà una messa presieduta da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana. Al termine della celebrazione religiosa è prevista la deposizione di una corona in Piazza dei Protomartiri Romani, là dove nel Sacco di Roma del 1527 molte Guardie Svizzere furono uccise nella battaglia. Il pomeriggio del 6 maggio sarà dedicato al solenne giuramento delle nuove reclute. La tradizionale cerimonia avverrà per la prima volta nella storia in Piazza San Pietro, accompagnata da formazioni militari storiche e alla presenza del Pontefice. Al termine della cerimonia del giuramento avrà luogo un incontro con la Guardia a Castel Sant’Angelo, un momento festoso, che si concluderà in serata con i fuochi d'artificio eseguiti coni colori della Guardia. Domenica 7 maggio, infine, le Guardie svizzere saranno nuovamente in Piazza San Pietro per partecipare alla preghiera dell’Angelus Domini, ricevere la benedizione del Santo Padre e per assistere a un concerto della Swiss Army Concert Band. La Guardia Svizzera pontificia è il più piccolo esercito del mondo, ma da oltre cinquecento anni svolge un ruolo di altissimo prestigio: la difesa del Papa e del Vaticano. Nel maggio scorso, dopo la messa nella basilica vaticana e la commemorazione dei caduti nel cortile d’onore del quar- tiere svizzero, le guardie arruolate negli ultimi 12 mesi hanno prestato giuramento sulla bandiera del Corpo davanti al rappresentante della segreteria di Stato. Istituite nel 1506 da papa Giulio II, le Guardie Svizzere hanno come unico incarico la custodia della Sacra Persona del Papa e della Sua residenza e costituiscono uno dei gradi ufficiali della Curia nell'ambito della Casa pontificia. A difesa del Vaticano, oltre a questo corpo secolare, fino al 1970 ne esistevano altri due: la Guardia Nobile, sorta nel 1801, e la Guardia Palatina, nata nel 1850. Il 15 settembre 1970 Paolo VI decise di sopprimere tutti i corpi militari, ad eccezione delle Guardie svizzere che devono svolgere il servizio militare e di sorveglianza con la nobiltà che le ha sempre contraddistinte. Le Guardie svizzere, il più piccolo esercito del mondo (non è mai stato però truppa da guerra), conta oggi 100 soldati effettivi - secondo quanto prevede il regolamento riformato da Giovanni Paolo II nel 1979 - con quattro ufficiali, sei alabardieri e due tamburini. Ma nonostante le dimensioni ridotte le guardie del corpo di Sua Santità osservano una rigida disciplina militare. Quale motivo spinse il Pontefice a scegliere gli armati dei cantoni elvetici? La fama militare della fanteria svizzera, ai primi del Quattrocento attraversava tutta l’Europa: già nel 1478 papa Sisto IV desiderava ingaggiare soldati svizzeri per cacciare gli ultimi Sforza dal Ducato di Milano. Era convinzione anche di Niccolò Machiavelli, segretario della cancelleria della Repubblica Fiorentina, che i soldati svizzeri avrebbero potuto conquistare l’Italia senza ostacoli. Giulio II riprese il progetto politico di Alessandro VI Borgia di costruire un grande Stato della Chiesa. II 22 gennaio 1506 è la data di nascita ufficiale della Guardia Svizzera Pontificia: in questo giorno, sull’imbrunire, un gruppo di centocinquanta svizzeri, al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Cantone di Uri, attraverso Porta del Popolo entrò per la prima volta in Vaticano. Lì, poi, gli elvetici furono benedetti da Papa Giulio II. Il 6 maggio 1527 segna la data più eroica nella storia del corpo. Durante il sacco di Roma, per difendere Clemente VII dai Lanzichenecchi, le poche guardie svizzere si trovarono a sostenere un’impari prova e solo il coraggio del capitano Kaspar Roist permise il salvataggio del Papa: con 147 soldati tentò di difendere il Vaticano, mentre i rimanenti portarono il pontefice in salvo a Castel Sant’Angelo. Fu sempre Giulio II a volere che i suoi soldati indossassero un’uniforme color arancio e azzurro, i colori della famiglia Della Rovere. Ma i compiti odierni delle Guardie svizzere non sono affatto militari. Lavorano otto ore al giorno, più gli straordinari; sorvegliano gli ingressi del Vaticano. Un paio di soldati accompagna sempre il Papa in ogni suo spostamento. Per quanto riguarda l’ordine interno alla Santa Sede, il piccolo esercito è suddiviso in tre squadre, delle quali, a turno, due sono in servizio ordinario e una a riposo. La squadra libera lo è per modo di dire perché resta a disposizione per le esercitazioni di addestramento permanente e per i servizi straordinari. Gli ufficiali consigliano ai giovani di mantenere, quando escono dalle mura vaticane, un atteggiamento “discreto”, di non farsi notare troppo (in libera uscita, comunque, non indossano l’uniforme) e tutti devono rientrare in caserma per mezzanotte. Nel maggio scorso, Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata 30 nuove guardie pontificie svizzere che avevano prestato giuramento in Vaticano. Dopo 26 anni sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, i soldati elvetici hanno cominciato ad adattarsi alle esigenze del nuovo Papa. Tutte le guardie attualmente in servizio, ad eccezione delle ultime 30, avevano infatti prestato giuramento sotto Karol Wojtyla. Le guardie svizzere hanno dovuto darsi da fare per proteggere in passato Giovanni Paolo II di fronte alle manifestazioni di affetto, talvolta eccessive, dei fedeli.. Il nuovo Pontefice, che si trova a Roma dal 1981, è una vecchia conoscenza delle guardie svizzere. “Quando era cardinale Joseph Ratzinger aveva il suo appartamento di fronte alla nostra caserma. Passava tutti i giorni davanti a noi e ci parlava. Era il nostro vicino”, ha spiegato il comandante delle guardia svizzere, Elmar Mader. Venezia, 150 fotografie esposte per ripercorre la scena dell’arte internazionale Le Biennali tra storia e costume Un viaggio nel tempo in bianco e nero per ripercorrere la storia della scena dell’arte internazionale grazie alla straordinaria testimonianza delle oltre 150 fotografie esposte a Palazzo Venier dei Leoni, a Venezia, nella mostra “La scena dell’arte 1948-1986, fotografie dall’ArchivioArte della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena”. L’esposizione, realizzata in collaborazione con la Collezione Peggy Guggenheim e aperta al pubblico dal 5 febbraio al 21 maggio, espone scatti inediti e sorprendenti che ritraggono artisti e protagonisti delle Biennali di Venezia, da Picasso a Matisse, da Dalì a Vedova, da Fontana a Rauschenberg. Realizzate per le copertine di “Time”, “Life” e “Epoca”, queste fotografie sono ora le protagoniste di un percorso che è, soprattutto, la testimonianza artistica degli eventi che hanno segnato il mondo dell’arte del periodo postbellico. Selezionate tra gli oltre dodicimila negativi dell’agenzia fotografica Cameraphoto di Venezia, acquistati dall’ArchivioArte Fondazione della Cassa di Risparmio di Modena, le immagini esposte inviteranno il visitatore a intraprendere una sorta di viaggio a ritroso nella memoria tra fasi storiche e atmosfere artistiche che hanno segnato la scena culturale internazionale a Venezia, in occasione delle Biennali. I grandi nomi dell’arte estera, come Braque, Chagall, Lèger, Ernst, Arp, Zadkine, Dufy, Mathieu, Oldenburg, Lichtenstein, Kusama, Beuys, LeWitt, e quelli che hanno reso celebre l’arte italiana, tra cui De Dominicis, Kounellis, Viani, Marini, Birolli, Guttuso, Moreni, Tancredi, Consagra, Capogrossi, Baj, Castellani, Scheggi, Accardi e Mari, si affollano nei ritratti che li hanno immortalati come protagonisti della contestazione artistica di quegli anni o della semplice inaugurazione dei singoli padiglioni. Il clima e il fervore artistico del periodo rivive nei servizi fotografici sul teatro di Jerzy Grotowsky, Julian Beck, Luca Ronconi e Meredith Monk, mentre i ritratti di Picasso, Mirò o De Chirico mantengono vivo il dialogo tra le opere oggi esposte nel museo e il loro passato, restituendo l’intensità di un clima artistico teso tra contestazione e arte impegnata, come dimostra la documentazione fotografica relativa alla mostra del 1964 sui pittori americani (Robert Rauschenberg, Jim Dine, Claes Oldenburg, Jasper Johns e John Chamberlain), allestita presso l’ex Consolato degli Stati Uniti a Venezia. La mostra rappresentò, allora, un’occasione unica per osservare gli sviluppi dell’arte d’oltreoceano in Italia, che tanta importanza avrebbero poi esercitato sull’evoluzione artistica degli anni successivi, sui cambiamenti dello stile e gli atteggiamenti della critica e del pubblico nei confronti della Pop Art. Fotografie come un testo di storia dell’arte, quindi, capaci di testimoniare e tramandare la conoscenza delle opere, delle atmosfere e delle suggestioni che l’arte produceva in quegli anni; capaci di dare vita a un reportage completo e unico su Georges Mathieu mentre, alla Galleria del Ca- vallino nell’autunno del 1959, sferrava stoccate di colore sulle enormi tele del ciclo della “Battaglia di Lepanto”; capaci anche di tracciare un racconto puntuale su come eravamo dagli anni dal dopoguerra al boom economico, fino alle provocazioni e agli eccessi degli anni Ottanta. La moda e lo stile si confrontano con l’arte diventando a volte protagonisti, a volte semplice sfondo delle immagini che, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, venivano utilizzate per diffondere il messaggio di un mondo che stava cambiando velocemente. Le nuove correnti artistiche influenzarono posizioni radicali, contestazioni e lo stesso futuro del Paese: per questo, la mostra si presenta come una testimonianza fondamentale di come eravamo e di come saremmo diventati. Secondo questa intenzione, gli scatti si presentano nella duplice chiave di lettura artistica e sociale e lo sfondo diventa, a volte, importante quanto l’opera d’arte ritratta: ecco la modella, avvolta da un abito geometrico ed essenziale, che osserva con stupore il taglio nell’opera di Lucio Fontana “Concetto spaziale. Attesa”, nel 1966; ecco lo sguardo intenso e indagatore di Alberto Giacometti incontrare quello della modella distratta dalle sculture filiformi esposte nella sala a lui dedicata nella Biennale del 1962; ed ecco Yayoi Kusama, in uno splendido kimono dalle lunghe maniche, far volteggiare le sfere traslucide del suo “Giardino di Narciso” (1966) avvolto da un alone di esotismo. Giovedì 19 gennaio 2006 Pagina 4 Grande successo per l’ultimo film di Woody Allen Un thriller psicologico per riflettere sul destino FEDERICA DI BARTOLO È stato girato a Londra nel 2004 in sole sette settimane ed è stato presentato come film fuori concorso, al 57esimo Festival di Cannes, dove ha riscosso un grande successo fra il pubblico. Stiamo parlando del nuovo film di Woody Allen: “Match Point”, scritto e diretto da lui stesso, un vero thriller un po’ noir con una grande attenzione per la psicologia dei vari personaggi. Si ispira a “Delitto e Castigo” di Dostojevskij. Il tema centrale della pellicola è la “Fortuna”, a causa della quale si sviluppano gli avvenimenti, mostrando la “casualità” che domina la nostra vita. Sono ripresi alcuni temi di “The Woman in White” di Andrew Lloyd Webber, arrivando alla conclusione che l’uomo controlla la propria vita meno di quanto possa pensare. Un tema importante che ritroviamo nella letteratura mondiale, ad esempio nelle opere del premio Nobel del 1926 per la letteratura, Grazia Deledda, la seconda donna ad essere insignita di tale onorificenza. Woody Allen introduce quello che per le diverse culture, può essere un elemento casuale o deterministico, tanto che nei secoli è stato chiamato con nomi diversi: fato, sorte, destino, caso, fortuna, sviluppando una visione profondamente pessimistica della vita. Il film si apre su un campo da tennis inglese e la cinepresa segue i movimenti della pallina che tocca la rete ed è quello il momento cruciale, da cui dipenderà l’assegnazione del punto. Questo momento viene seguito con determinazione dal regista che cerca, riuscendoci, di creare tensione fra il pubblico, introducendo la sua visione: “Colui che ha detto preferirei essere fortunato che buono” aveva capito tutto della vita. “Le persone non vogliono accettare il fatto che gran parte della nostra vita dipende dalla fortuna. È spaventoso pensare quante siano le cose che sfuggono al nostro controllo. Ci sono momenti, in una partita di tennis, in cui la palla colpisce la parte alta della rete e per una frazione di secondo non sappiamo se la supererà o se cadrà indietro. Con un pizzico di fortuna, la palla supera la rete e vinciamo la partita ma senza fortuna ricadrà indietro e perderemo”. Il film si sviluppa in alcuni dei luoghi simbolo della città come la Galleria d’Arte Tate Modern, St. James’s Park e altre zone dei dintorni di Londra, attraverso la vita del protagonista Chris, interpretato da Jonathan Rhys Meyers, un giovane insegnante di tennis professionista attratto dal mondo dell’alta borghesia inglese (ambiente sociale in cui si svilupperà l’intera storia), che inizierà la scalata al successo sposando la giovane ereditiera Chloe (Emily Mortimer). Tutto sembra svilupparsi senza problemi per il giovane Chris, ma le cose si complicano quando si innamora della bella ragazza americana ex fidanzata del fratello di Chloe, Tom (Matthew Goode), di nome Nola, interpretata dalla giovanissima Scarlett Johasson. È un thriller psicologico in cui vengono analizzati tutti i comportamenti delle persone dall’innamoramento della persona sbagliata, fino alla paura di venire smascherati e scoperti, desiderando addirittura di essere puniti per l’azione commessa. Nonostante la drammaticità del quadro in cui viene rappresentata l’ipocrisia della società, Woody Allen non si smentisce mai, riuscendo a rendere piacevole la visione con il suo sguardo arguto e la solita sottile ironia. Con grande maestria e abilità il regista americano riesce a portare il pubblico a non odiare il protagonista, a non condannarlo, ma anzi comprenderlo, perché in realtà egli è indicato come la vittima del fato. È in questo senso che “Match Point” ricorda moltissimo la visione dei due grandi tragediografi greci: Eschilo e Sofocle, la loro concezione del destino che gioca con gli uomini. Nella pellicola quasi tutta la musica americana viene sostituita completamente dalle arie d’Opera italiane come: “Una furtiva lacrima” tratta da “Elisir d’amore” di Gaetano Donizzetti; “Un dì felice, eterea” da “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Il nuovo film di Woody Allen, appena entrato in classifica è stato già il film più visto della settimana nelle sale italiane, e scalza la commedia di Leonardo Pieraccioni “Ti amo in tutte le lingue del mondo” che scivola al secondo posto. Alla scoperta del mondo Liu Gang, un noto avvocato e collezionista di arte cinese, ha presentato a Pechino una mappa del mondo che sarebbe stata disegnata nel 1418. La mappa, se autentica, dimostrerebbe che i cinesi, ed in particolare l’ammiraglio, guerriero, esploratore ed eunuco Zheng He, avrebbero scoperto tutto il mondo prima degli storici viaggi di Cristoforo Colombo e di Magellano. Liu ha affermato che la mappa è stata effettivamente disegnata nel 1763. L’avvocato ha ricordato di aver comprato la mappa nel 2001, per 500 dollari, in un piccolo negozio di Shanghai. Se veramente risale al 1418, dovrebbe portare ad una profonda revisione della storia degli ultimi secoli. Liu ha detto di aver mostrato la mappa a cinque diversi esperti: tutti e cinque gli hanno confermato che ha “più di cento anni”. L’originale, ha detto Liu, è in una cassetta di sicurezza “in qualche posto della Cina. Secondo gli storici, l’ammiraglio eunuco Zheng He fu inviato nel 1404 dall’imperatore Zhu Di alla scoperta del mondo. Quindi, se nel 1418 già esisteva una mappa tutte le sue esplorazioni - che secondo Liu hanno toccato Polo Nord e Polo Sud oltre a tutta l’Africa e a tutta l’America - sarebbe avvenuta nel giro di 13-14 anni. Versi & commenti “La piccola dea”, di Roberto Varese (Fazi, 214 pagine, 9,50 euro), può essere letto come un manuale di sopravvivenza. “Il primo vero inganno è l’amore. Da quella disfatta, da quella disgrazia, nasce un impeto, un bisogno intimo e violento di salvare se stessi”, dichiara l’autore. C’è uno strumento che salva ed è la parola. Una sopravvivenza per mezzo delle parole, dunque. Una lunga storia, pagina dopo pagina, la vita accanto e dentro, una scontentezza di fondo. Come dice Emanuele Trevi nella Prefazione, Varese ha impiegato “vent’anni per scrivere, limare, correggere in vario modo”. Una confessione autobiografica, poesie, racconti: queste le tre parti di cui è composto il volume. Tre libri in uno: “Ormai tutto ciò è inscindibile poiché proviene da un solo sentimento delle cose”. Lo sguardo di Varese è quello lieve e incantato del sognatore (il suo maestro è Sandro Penna), “davanti al mondo meraviglioso e tremendo”. Alberto Toni