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Giovedì 19 gennaio 2006
Sullo sciopero dei metalmeccanici
Contrattazione nazionale
Una “camicia di forza”
ALESSANDRA SERVIDORI
Ai lavoratori metalmeccanici, in tutta onestà, nulla
può essere rimproverato. Sono loro coloro che “fanno
girare le macchine”, che producono gran parte della ricchezza che viene impiegata a favore della collettività. E
che però faticano per far quadrare i loro bilanci familiari coi magri gli stipendi che essi trovano in busta paga.
Ma è veramente triste constatare che una gloriosa categoria come la loro, che è la stessa che con le sue lotte, in altri tempi, ha concorso a cambiare la storia del
Paese e che ha dato al movimento sindacale dirigenti
tra i più prestigiosi, tenti di concludere la propria vertenza per il rinnovo contrattuale sul terreno dell’ordine
pubblico, grazie al blocco di autostrade e stazioni ferroviarie (peraltro, solamente laddove vi sono le condizioni organizzativa per riuscire a farlo).
Ma quando un esercito è in difficoltà non basta prendersela con gli avversari: nel nostro caso, con la Federmeccanica (anche essa “punta di diamante” dello
schieramento confindustriale). Sono riprese le trattative, per fortuna, ma bisogna trovare però il coraggio di
riconoscere e denunciare anche gli errori di quello stato maggiore sindacale che non ha saputo formulare
adeguatamente i piani di battaglia e che sta rischiando
di mandare allo sbaraglio centinaia di migliaia di lavoratori. Le tute blu che hanno scioperato e scagliato
uova contro i vetri del “Palazzo dei padroni”, che si sono seduti sui binari alla stazione di Bologna, in mezzo
a un tripudio di bandiere, sono certamente autorizzati
a scaricare tutte le colpe della loro situazione sui datori di lavoro, sul governo di centrodestra, sulla globalizzazione e quant’altro. Ma dovranno pur porsi i una domanda: per quali motivi, in questi ultimi mesi, sono
stati rinnovati molti contratti (anche nei settori privati e dell’industria) spesso senza dover ricorrere allo sciopero o comunque con una conflittualità molto bassa?
Come mai, dal 1993 (quando fu stipulato quel Patto
che definì le regole delle relazioni industriali) ad oggi, le
vertenze contrattuali sono rimaste in un contesto di litigiosità assolutamente fisiologica, tranne che nella categoria dei metalmeccanici? Perché quei criteri che sono stati ritenuti adeguati a stabilire le dinamiche salariali di un’operaia tessile o di una commessa di un supermarket non sono accettati quando si tratta delle tute blu?
La risposta è che i gruppi dirigenti delle federazioni
di categoria (quegli stessi che, da parecchi anni, non
sono in grado di gestire unitariamente la politica contrattuale) hanno ritrovato un impegno unitario sulla
base di una piattaforma che viola l’accordo triangolare del 1993. I contenuti di quell’intesa (la quale - lo ripetiamo - ha normalizzato le relazioni industriali consentendo, nel contempo, la salvaguardia del potere
d’acquisto delle retribuzioni) prevedono due livelli di
contrattazione, uno nazionale, l’altro decentrato: il primo ha il compito di adeguare, in linea di massima, i
salari all’inflazione; il secondo deve compensare gli incrementi di produttività. L’aumento retributivo richiesto nel carnet rivendicativo non risponde a tali parametri; allo stesso modo, non trova alcun appiglio nelle
regole la pretesa di riconoscere, a livello nazionale, un
ulteriore aumento (a forfait) per le imprese in cui non
si attui la contrattazione articolata.
Il fatto è che l’attuale struttura contrattuale, vecchia
di quarant’anni, è ormai delegittimata non già dai padroni, ma dalle realtà produttive in rapida trasformazione. Non ha più senso voler conservare un’unica
contrattazione nazionale - divenuta, nei fatti, una “camicia di forza”, un modello di unità solo teorica e ideologica per una categoria tanto differenziata al proprio
interno - insieme a una prassi di iniziativa decentrata
che risulta essere, sempre più, un dato elitario, riguardante, bene che vada, un terzo dei lavoratori interessati. È necessario diversificare e decentrare la contrattazione, anche sul piano territoriale. Basta leggere quanto la Svimez (che di problemi del Sud se ne intende)
suggerisce in proposito: occorre “trovare nuove modalità - scrive - con cui rendere compatibili i meccanismi
regolativi centralizzati a tutela dei diritti generali dei lavoratori con strumenti di regolazione flessibile a livello
decentrato che sostengano le imprese nel loro sforzo di
competere sui mercati concorrenziali”.
I sindacati dei metalmeccanici, invece, pur di conquistare il massimo possibile a livello nazionale sono
disposti ad prolungare - in tempi di trasformazioni frequenti e repentine - la durata del contratto, per rinnovarlo, a questo punto, “a ogni morte di Papa”. Quanto,
poi, alle differenze che separano le richieste di Fim,
Fiom e Uilm (avanzate, per giunta, in tempi di serie difficoltà economiche) dalla controproposte della Federmeccanica (e all’atteggiamento dei media che tendono
a minimizzare queste ultime), il tavolo della trattativa
è destinato a trovare una intesa decorosa, ma è bene ricordare i meccanismi perversi che trasformano costi
pesanti per i datori in buste-paga leggere: fatta uguale
a 100 la retribuzione lorda del lavoratore, l’onere complessivo per l’impresa è pari a 145, mentre al netto, per
il dipendente, rimane un ammontare di 72. E un sindacato che non sa evolvere la sua strategia chi rappresenta e soprattutto a cosa serve?
Rutelli spacca l’Unione: “Stava per nascere un grande centro di potere”. Democratici di sinistra sul piede di guerra
“Per fortuna ci siamo salvati dalla finanza rossa”
Nella vicenda Unipol l'Italia “si è salvata da un grosso rischio, quello rappresentato dalla nascita di un grande
centro di potere che si pretendeva chiamato a rinnovare il capitalismo italiano”.
Lo ha affermato il leader della Margherita, Francesco Rutelli, intervenendo ieri a Milano a un convegno organizzato dal Centro di formazione politica. Secondo Rutelli “nella vicenda
Unipol, a parte l’illegalità e gli abusi di
cui si devono occupare magistratura e
autorità competenti, l'Italia si è salvata
da un grosso rischio: la pretesa di alcuni di dare vita a un grande centro di potere non operante di per sé come cinghia di trasmissione ma di chiaro segno politico che si pretendeva chiamato a ‘rinnovare’ il capitalismo italiano:
si vedano a questo proposito i discorsi
tenuti da Consorte nelle assemblee delle strutture cooperative chiamate ad
autorizzare l'operazione, sino al suo discorso di commiato, accolto, anzichè
dagli scroscianti applausi, da un eloquente silenzio". "La mia conclusione a
questo riguardo è semplice - ha chiosa-
to Rutelli - non esistono più le classi, i
riferimenti economico-sociali organizzati, le barriere anche ideologiche del
passato. Va superata ogni forma di preferenza, e tanto più di esclusivismo, nei
rapporti tra politica e corpi intermedi.
Va concluso ogni persistente collateralismo, ove vi siano passaggi organici di gruppi
dirigenti e condivisione
di operazioni e interessi economici e finanziari".
Le reazione dei Democratici di sinistra
non si è fatta attendere
e si può tranquillamente dire che al Botteghino non l’hanno certo
presa bene. “Le dichiarazioni dell'onorevole
Rutelli sulla volontà di
alcuni di creare un grande centro di potere e una finanza rossa, mi sembrano
inopportune e lontane dalla verità”.
Questo il commento piccato alle dichiarazioni di Rutelli del deputato diessino ed ex-ministro delle Finanze, Vin-
cenzo Visco. Ma chi ha al leader di Dl
ha risposto per le rime è stato il parlamentare della Quercia, Antonio Soda.
“A Rutelli - ha detto Soda - rispondo
che, quando parla di residui di collateralismo, dica lui che cosa intende e
quale idea di politica ha. Perché se la
politica deve rimanere
assente dall’obbligo di
regolare il mercato e di
introdurre anche meccanismi correttivi, allora siamo su un terreno completamente opposto”. “Penso e ribadisco - ha proseguito il
deputato dei Democratici di sinistra - che,
a mio avviso, non c’è
nessuna illegittimità
della politica ad affrontare anche i temi
del mercato e della finanza. Se questo
è collateralismo, ben venga. Se Rutelli,
invece, fa riferimento a rapporti di affari congiunti tra politici e operatori finanziari, tra partito politico e imprese,
rosse, bianche o verdi che siano, si trat-
ta di un collateralismo fuori dalla nostra concezione della politica. Per essere chiari - ha concluso Soda - se dietro
la scalata a Bnl da parte del sistema
cooperativo, vi è un progetto industriale, un modello di produzione che non
sia finalizzato a creare risorse per solidarietà intergenerazionale, ben fa un
partito politico non solo ad appoggiare
questa strategia, ma anche a sollecitarla”.
"Ciò che ha detto l’onorevole Rutelli è
molto contraddittorio. Per pure ragioni di schieramento ha dato la sua solidarietà ai Democratici di sinistra e a
Fassino, e contemporaneamente ha affermato che c’è stato il rischio di una
‘finanza rossa’". Così Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore di Forza Italia, ha
commentato la polemica che in queste
ore sta montando nel centrosinistra. "A
nostro avviso – ha aggiunto - più che di
un rischio, viste le forze già in campo
(cooperative rosse, Unipol, Monte dei
Paschi), si tratta di una realtà che si sarebbe molto accentuata qualora fosse riuscita la scalata dell'Unipol alla Bnl".
Siamo proprio convinti che Bancopoli abbia infranto il mito della superiorità dei compagni?
SPECIALE
I Ds e il complesso dei migliori
Craxi, un confronto infinito
PIETRO MANCINI
Nelle interviste, sui giornali e
lefonate tra Fassino e Consorte e
nei salotti televisivi, dei capi e dei
il clamoroso tonfo dei “furbetti
luogotenenti della Quercia, e nel recente documento della del quartierino”, pochi mesi fa esaltati come grandi e indodirezione, si colgono, seppur molto tardivi e imbarazzati, miti capitani d’industria e oggi brutalmente scaricati, abaccenni di autocritica, più tattici che sinceri, parziali corre- biano infranto il mito della superiorità etica degli ex comuzioni di rotta, tentativi, più o meno goffi, di sganciamento nisti? Certamente, la bufera non ha affatto cancellato l’ardai personaggi alla Consorte.
roganza, la prosopopea, la smodata autostima dei dirigenti
Ma, osservandone, nelle loro esternazioni in video, ulti- del Botteghino. Forse, dopo l’esplosione del bubbone Unima quella di Fassino da Vespa (“caro Prodi, non sei Dio in pol, Piero e Massimo non si rivolgeranno più al loro elettoterra!”), i volti, tesi e contratti, la stizza, a stento contenuta, rato, considerandolo la “parte migliore del Paese”. Ma docon la quale rispondono ai loro contraddittori, i telespetta- vrà passare ancora molto tempo prima che i capi post-cotori non possono non rendersi conto che la mentalità dei ca- munisti si decidano a spedire in archivio la pretesa di guarpi diessini, ereditata dai vecchio Pci, è tutt’altro che scom- dare dall’alto in basso alleati e avversari, in virtù di un priparsa. Insomma, non si può non rilevare che in molti post- mato, prima genetico che politico, che tuttavia ormai esiste
comunisti permangono tutti i vizi, che erano presenti nei solo nella loro mente. E in quella di attempati e sussiegosi
big del partitone rosso di Togliatti, Longo e Berlinguer.
“maitres à penser”, in primis Eugenio Scalfari, che ha squaInnanzitutto, la tendenza a scomunicare, di imperio, lificato a vita, in tv, il bossiano Castelli, definendolo come
quanti, pur se appartenenti al mondo della sinistra, osano “personaggio-limite” del teatrino politico.
dissentire, o si permettono con civiltà di avanzare qualche
E proprio l’insulto, rivolto al ministro dal fondatore de “la
critica schietta ai comportamenti e alle scelte della diarchia. Repubblica” - che Rutelli, manifestando flair-play e civiltà,
“Il segretario non sbaglia mai!”, anche quando ricorre all’a- avrebbe dovuto respingere al mittente - dimostra le correberrante equazione tra “Il Giornale” e la propaganda nazi- sponsabilità di certi santoni della stampa progressista nel
sta dello spietato Goebbels, potremmo aggiungere. Di que- “complesso dei migliori”, sviluppatosi in larghi settori della
sto dogma, in auge nel Pci, si rilevano ancora tracce, tutt’al- sinistra più politically correct. Tranne Pansa, Parlato e Matro che lievi, nelle reazioni degli ufficiali delle smarrite trup- caluso, che hanno conservato la loro autonomia e libertà di
pe diessine alla bufera Unipol.
critica, nel corso degli ultimi decenni si sono levate solo voDopo Tangentopoli, Occhetto piombò nella sezione della ci apologetiche sulla stampa vicina alla sinistra, dei VeltroBolognina e chiese scusa al “nuovo” Pds, ma la trasforma- ni e dei D’Alema, mettendo il silenziatore sui tanti errori,
zione e il rinnovamento si sono fermati in superficie e non politici e d’immagine, commessi dai due “Occhetto-boys”.
hanno interessato i quadri dirigenti e intermedi della Quer- E abbiamo dovuto sorbirci persino imbarazzanti resoconti
cia. La faziosità è quella d’antan: tuoni e fulmini, e niente sulle traversate in mare di Massimo a bordo della megacollegio, in aprile, per gli esponenti, che dissentono, seppur barca “Ikarus” e sull’amicizia di Walter con la nipote del
timidamente, dagli altezzosi Fassino e D’Alema! È, dunque, presidente Kennedy.
molto meglio e conveniente continuare a lavare in casa i
Solo oggi, a buoi scappati e a tesoroni della ex premiata
panni sporchi per i compagni e per gli alleati dell’Unione, ditta Consorte-Sacchetti scoperti, Scalfari, da impeccabile
che preferiscono, tenendo famiglia, profondersi in peana, profeta del giorno dopo, indirizza qualche frecciatina a Fasrichiesti e graditi, sulle elevate qualità morali dei capi del sino per non aver troncato, otto mesi fa, i rapporti con l’alprimo partito della galassia prodiana.
lora già chiacchierato presidente di Unipol. Troppo tardi,
Ma, poi, siamo proprio certi che la diffusione delle te- don Eugenio, non crede?
Campagna elettorale, il monito di Ciampi al presidente della Commissione Vigilanza Rai
“Sia garantita una parità effettiva”
"Avete ormai l'esperienza di passate
elezioni che vi può permettere di meglio
calibrare il vostro regolamento alle esigenze di un parità effettiva nella prossima campagna elettorale. Su questo, attraverso la Rai, la vostra sia una vigilanza attiva per far sì che la sostanza, al di
là di quelle che sono le norme scritte,
venga rispettata in tutte le trasmissioni,
al di là di quelle che sono strettamente
elettorali, ma proprio per le presenze
nella varie trasmissioni di intrattenimento o di altro genere che la Rai fa".
Il presidente della Repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi, al termine del suo incontro con il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Paolo Gentiloni,
e alcuni componenti, in un discorso ha
raccomandato inoltre che ci sia "una vigilanza attiva e per questo mi raccomando a voi per l’interesse di una regolare e libera campagna elettorale". Ciampi ha sottolineato che si tratta di "una cosa di straordinaria importanza". E ha accennato al suo messaggio al Parlamento
nel luglio del 2002. "Veramente - ha ribadito - sono convinto che la libertà di
parola, la libertà di informazione sono
l’essenza del complesso di valori che noi
comprendiamo nella parola libertà.
Questa è una convinzione profonda. Per
questo sono contento che quel mio messaggio sia di fatto rimasto l’unico messaggio specifico fatto durante il mio settennato, perché ne sottolinea il valore
che ho voluto dargli. Nella sua stesura
mi impegnai a fondo personalmente
perché sentivo che su quel punto si gioca la democrazia nel nostro Paese".
Nel suo discorso, Ciampi ha anche affrontato il tema della necessità di promuovere l’identità italiana all'estero attraverso la cultura, attraverso la lingua,
un argomento, a suo giudizio, sul quale
"c’è una miniera enorme che noi dobbiamo ancora sfruttare, che è sottoutilizzata". "La vostra iniziativa di promuovere la lingua e la cultura italiana nel
mondo è importante. Quindi, dovete impegnarvi in ciò con tutte le vostre forze -
ha esortato Ciampi -. Su questo c’è un’unità che ho sentito viva nel Paese in questo mio lungo viaggio per l’Italia ho visto, ho sentito vivamente quanto l'Italia
sia veramente unita, quanto sia viva la
forza della cultura che attraversa la gioventù, una gioventù più preparata delle
generazioni precedenti. C’è anche un
grande interesse degli altri, in particolare in Europa, per la cultura italiana. Mi
raccomando a tutti voi di promuovere al
massimo la lingua e la cultura italiana.
C’è un magazzino Rai formidabile che
può essere meglio utilizzato e meglio diffuso nel mondo".
"Giusto e sacrosanto l'appello del presidente della Repubblica - ha commentato il coordinatore di forza Italia, Sandro Bondi - affinché durante la prossima
campagna elettorale le regole che stabiliscono la parità dei partiti nell’accesso
all’informazione siano rispettate nella
sostanza oltre che nella forma".
Sono passati sei anni dalla morte di Bettino Craxi,
ma il riformismo dell’ex segretario socialista continua
ad essere presente sulla scena politica, attraverso una
serie di iniziative e prese di posizione, pro e contro.
A pagina 2 e 3 interventi di:
Carmelo Albanese, Gianni Baget Bozzo, Giampiero
Cantoni, Ugo Finetti, Raffaele Iannuzzi e Giancarlo Lehner
La sua cultura di governo
FRANCESCO COLUCCI
La data del 19 gennaio rappresenta da ormai sei anni un’opportunità per riflettere sulla personalità e sulla lezione politica di Bettino Craxi. A breve distanza
da importanti scadenze politiche nazionali, tale riflessione acquista ancor più valore per tornare a sostenere con forza i contenuti concreti della cultura
politica e di governo, tradizionalmente propria del
riformismo socialista, che Craxi seppe modernizzare
e sviluppare con l’intuito politico, il coraggio e la determinazione proprie della sua grande personalità.
Trovo che, riferita a Craxi ed alla effettiva svolta, che
egli seppe imprimere alla politica italiana agli inizi degli anni Ottanta, l’espressione “cultura di governo” acquisti molteplici significati.
La cultura di governo di Craxi è infatti anzitutto cultura della progettualità politica, cioè della capacità
della politica di elaborare un chiaro progetto di modernizzazione e di sviluppo economico-sociale per il
Paese in una prospettiva di medio e lungo periodo, aggregando su questo progetto il consenso della maggioranza degli elettori e portandolo a compimento
con l’azione di governo.
Su questo si gioca per Craxi la credibilità della politica ed il suo primato rispetto ai “poteri forti” che ci
sono sempre stati e che hanno avuto tanto più peso quanSegue a pagina 3
Coraggio e responsabilità
STEFANIA CRAXI
Aria fresca, aria nuova, aria giovane, aria pulita. È
con questa metafora che potrei illustrare il senso del
convegno che oggi riunirà al Teatro Nuovo di Milano
la Giovane Italia e Free Foundation con Forza Italia
per un’alleanza che trascende il traguardo delle prossime elezioni.
Free Foundation di Brunetta, Cicchitto e Sacconi si
è già distinta per essere l’espressione più liberale del
maggiore partito di governo. La Giovane Italia ha raccolto intorno a sé l’opinione più coerente del socialismo liberale, quella che non ha accettato le mille falsificazioni della falsa rivoluzione dl 92/93, che non accetta la legittimazione dei Ds come partito unico della sinistra italiana, che nella lezione politica di Bettino Craxi trova i motivi e le indicazioni per una nuova
stagione di buon governo.
Nel nostro convegno programmatico di Rimini avevo detto che “il nostro sarà un grido di libertà”. Oggi
non c’è economista che non leghi la ripresa dell’Italia
a una nuova fase di liberalizzazioni. Nonostante i passi avanti compiuti, le molte privatizzazioni già fatte,
l’Italia è tuttora ingessata in
una morsa che ne soffoca gli
Segue a pagina 2
SPECIALE CRAXI
L’inquietudine socialista di Bettino
Rivoluzione e gradualismo
GIAMPIERO CANTONI
delle memorie di figure vivissime nella sua memoria.
Ho in mente il modo come
parlava e scriveva di Pietro
Nenni, ma su fino a Anna
Kuliscioff, “dai capelli d’oro”. Fino alla milanesità di
Carlo Cattaneo. Per Bettino
le due cose – riforma economica e politica - vanno insieme, la sua scommessa è di
tenere insieme un liberalismo integrale e moderno
che tutela il valore assoluto
della libertà individuale con
un socialismo che vuole che
queste conquiste siano valide per tutti.
È impressionante vedere
come la traduzione programmatica di questi ideali
riformisti di Craxi trovi una
continuità quasi letterale
nelle riforme propugnate e
realizzate o in via di realizzazione da parte di Berlusconi e del suo governo. Alludo sia alla riforma dello
Stato in senso federale, sia a
quella (oggi a mio avviso ancora parziale) della giustizia,
alla necessità di realizzare
grandi opere infrastrutturali,
alla “grande riforma” delle
istituzioni dove la centralità
del Parlamento fosse sostituita da una più efficace “democrazia governante”, con
un potere maggiore e più efficace dato all’esecutivo. Fino alla lotta contro la droga
secondo un modello in netta
contrapposizione al lassismo legalizzatore dei radicali (questo viene troppo facilmente dimenticato da Boselli, ad esempio).
Vorrei marcare qui come
l’ideale garibaldino di Craxi
fosse capace di percepire la
peculiarità storica di questo
Paese in tema di cattolicesimo. Non dimentico che fu
lui a volere il Nuovo Concordato, e davvero non capisco
chi oggi consegna come
niente fosse la bandiera del
socialismo craxiano al radicalismo di Marco Pannella,
di questi tempi ahimè più
anticattolico e antipapale
che anticlericale.
Detto questo, affermo un
paradosso che sarebbe piaciuto a Bettino, credo. La necessità morale di essere
riformisti e riformatori in un
Paese irriformabile o, come
diceva Leonardo Sciascia, irredimibile. Eppure non si
può rinunciare alla verità e
alla giustizia, costi quello
che costi, e l’esempio di Bettino è qui davanti ai nostri
occhi, altrimenti che cosa
sarebbe la vita e in essa l’impegno politico?
In questo anniversario della morte di Craxi è necessario occuparsi del suo pensiero politico. Lui lo stesso lo
definì riformista.
Nulla di quietista. Proprio
nel suo gradualismo, nella
sua volontà di piccoli passi
decisi, era schiettamente rivoluzionario. Turbava cioè
l’equilibrio cinico dei poteri
slegati dal vero bene della società. Per questo io credo abbia pagato con la vita: c’è stata una congiunzione di interessi conservatori tesa ad eliminare la sua anomalia. Era
il solo, e lo aveva dimostrato
anche accettando talvolta la
solitudine nel suo stesso partito, in grado di ricollocare
questo Paese nel novero dei
grandi, non semplicemente
per il Pil (che pure è un dato
importante e che Craxi fece
balzare in alto, facendo raggiungere all’Italia il quinto
posto), ma per la dignità morale e culturale dell’essere
nazione italiana. Un’Italia
moderna e prospera, fatta di
un socialismo liberale insofferente dei privilegi di casta
di un capitalismo straccione,
legato a salotti vecchi e moralisti con gli altri. Quel capitalismo parassitario dello
Stato, alleato con le corporazioni sindacali e clericali.
Per questo finanza internazionale e consorterie politiche ed economiche italiane
lo hanno estromesso con feroce vigliaccheria dalla vita
della nostra nazione.
La mia idea è: rimettiamo
Craxi al centro, ripartiamo
dalla sua eredità intatta, dalla sua leonina e calma intelligenza, da quella sua “forza
inquieta che non perde il
senso dell’equilibrio”. Non è
mia questa definizione che
ho messo tra virgolette. La
usò Bettino a Bari nel 1991,
dove definì proprio così il
Partito socialista. Dobbiamo
tenerci cara la sua “inquietudine” riformista e riformatrice, ed insieme l’equilibrio.
Magari può venir buona per
Forza Italia.
Provo a indicarne i caratteri e ad evidenziare l’attualità di questa posizione. Il
riformismo craxiano ha per
perni due concetti decisivi:
la libertà dell’individuo e lo
sviluppo della società. I due
termini sono legati l’uno all’altro. È stato accusato di
pragmatismo, quasi che questa attitudine sia stretta parente del cinismo, una sorta
di rinuncia all’ideale. Il suo
pragmatismo è socialista.
Dove io carico questa parola
Giovedì 19 gennaio 2006
Pagina
2
La figlia del leader, presidente della Fondazione che ne porta il nome, apre oggi il convegno di Milano
La sostanza del riformismo craxiano
SEGUE DA PAGINA 1
slanci più vitali. Troppo spesso i
corporativismi e gli interessi particolari degli alleati di governo
hanno frenato gli impulsi liberali
del presidente del Consiglio. L’Italia ha bisogno di maggiore libertà
e nella politica industriale, nelle
relazioni sindacali, nella pubblica
amministrazione, nell’esercizio
delle professioni. Ha esattamente
bisogno di tutto quello che il centro-sinistra non potrà fare. È sintomatico che nessuno degli economisti di sinistra, in sede accademica d’accordo sulla necessità
di liberalizzare, abbia alzato la voce per qualche pur timida osservazione al programma di Prodi
che di liberalizzazioni parla all’incontrario, a cominciare dalla liquidazione della legge Biagi promessa a Bertinotti assieme alla
presidenza della Camera.
Il convegno – che sarà concluso
da Silvio Berlusconi – non potrà
fare a meno di portare la sua attenzione anche sullo scandalo che
ha investito i Ds. Ne parlo diffusamente nella mia relazione, né potrebbe essere altrimenti. Troppo
vivo e bruciante è il paragone con
quello che i post-comunisti hanno
fatto contro Craxi e i suoi alleati.
Agitando la questione morale, con
l’accusa di corruzione e di ricetta-
zione, hanno distrutto i cinque
partiti storici della Repubblica
italiana, mandato a casa un governo legittimo, insediatone uno
al potere forse senza DNA democratico.
Dopo gli scandali degli ultimi
mesi è nato un curioso dibattito
sul rapporto tra politica e affari,
come sempre i post-comunisti
non hanno il coraggio di affrontare la verità e si difendono con
qualche ammissione e un mucchio di menzogne. D’Alema e Fassino sono d’accordo con Prodi, occorre separare la politica dagli affari dicono. Io non intendo qui
contestare la sostanza di questa
affermazione. Perché qui non ci
troviamo di fronte al fenomeno
della politica che fa affari, ma a fenomeni diversi, sono gli affari che
fanno politica e molte volte difficile distinguere le due attività.
Il male oscuro di questa sinistra
post-comunista e i guai del Paese
stanno qui, in questo mastodontico conflitto di interessi fra chi è
impegnato da circa quindici anni
a sottomettere la politica a chiari
interessi economici e coloro che, i
Ds (che sono un misto indivisibile
di D’Alema, Consorte e Violante),
sono impegnati a sottomettere la
politica e il Paese a se stessi e con
ogni mezzo, compresi quelli giudiziari e finanziari. Ed il proble-
ma è tutto politico: chi conosce
bene i post-comunisti lo sa. Chi vive in Emilia Toscana, Umbria lo
sa. Ma davvero qualcuno può affermare che in queste regioni si
può dividere, nella sinistra, il partito dal mondo delle Cooperative?
Avete letto le interviste a Donigallia su chi prendeva le decisioni ultime sulla Coop costruttori, una
delle principali aziende di costruzioni in Italia, con libro paga molti dirigenti del partito? Sapete che
Stefanini, nuovo presidente di
Unipol, è stato segretario cittadino del Pci di Bologna? È risaputo
che molte carriere intersecano le
Coop, la Confesercenti, la Cgil, il
partito, l’amministrazione pubblica con percorsi di andata e ritorno che durano da 60 anni. Le
Coop hanno un ruolo dominante
in queste regioni, soprattutto nella distribuzione e nelle costruzioni, dov’è fondamentale il ruolo
delle istituzioni pubbliche. Ma,
qualcuno potrebbe dire, queste
cose si sapevano già. Quale è la
novità? La novità è che con D’Alema che fa fuori Prodi per andare
al governo, con la scalata dei capitani coraggiosi alla Telecom con
la scalata alla Bnl, lo Stato nello
Stato, vuole diventare Stato, vuole allargare a livello nazionale il sistema locale. È il passaggio dal
comunismo al post-comunismo.
A questo salto di livello si sono posti i loro alleati, i poteri che vogliono avere il monopolio del potere. È una guerra tutta interna al
centrosinistra e al suo sistema di
potere e di alleanze. Quando Repubblica e il Corriere attaccano il
post-comunismo attaccano l’ambizione di quel sistema di farsi
Stato. Ciò che è indecente è che i
post-comunisti in questi anni ci
hanno dato lezioni di buon costume e costruito una presunzione di
diversità morale assolutamente
immorale. Come è immorale oggi
vestire i panni delle vittime contro
quel “giustizialista di Berlusconi”,
è immorale sostenere che i Ds so-
no vittime di una aggressione pari nella storia, con Berlusconi oggetto dell’attenzione di ottocento
giudici e con Craxi seppellito ad
Hammamet.
Altro che socialdemocrazia, altro che riformismo. Bettino Craxi
ci ha insegnato che il riformismo
è coraggio responsabilità, amore
per la gente. Bettino, ed è questa
la sostanza del vero riformismo,
ha sempre combattuto tutti i monopoli, non solo quelli economici
ma anche e soprattutto quelli politici e culturali. Si è battuto per liberare il pensiero dalla sottomissione alle ideologie, al conformismo, al moralismo della sinistra
cattolica e comunista. Craxi ha
peccato di riformismo e ha pagato con la vita, come altri riformisti: Buozzi, Tobagi, Biagi. Tutti demonizzati da questa sinistra. Noi
craxiani esistiamo, nonostante
tutto, perché lui ci ha insegnato a
conoscere bene i nostri avversari
storici e a non avere paura. Nel
1994, Berlusconi è stato un sentiero in mezzo ai guai. Nel 2001
quel sentiero è diventato una strada, per diverse ragioni un po’ accidentata. Nel 2006 vogliamo andare avanti, rendere la strada meno accidentata e più dritta verso il
futuro. Noi portiamo il riformismo di Craxi, senza paura.
Stefania Craxi
Se i giganti sono ingiustamente trucidati dai nani
Bettino Craxi ha un credito con tutti noi. Con i pochi che
erano ad Hammamet accanto a lui e con i molti che lo riscoprono adesso. Dobbiamo restituirgli l’onore e le ragioni. In questi ultimi mesi è venuto fuori ciò che si sapeva da
sempre e che Bettino aveva più volte evocato nel periodo
della trista caccia agli untori. Craxi cercò di richiamare
l’attenzione dei magistrati, dei mass media e dell’opinione
pubblica sul fatto che la politica esigeva danaro e che il
partito più costoso della Penisola era stato il Pci e, dal
1991, il Pds. Le Botteghe Oscure, in proporzione, costavano quattro volte piazza del Gesù e almeno dieci volte via
del Corso. Possibile che, venuti meno i milioni di dollari
del Pcus, quel grande e strutturatissimo partito di burosauri si potesse mantenere con le salamelle dei festival dell’Unità, senza abbeverarsi al finanziamento illecito ai partiti? Craxi diceva semplicemente una verità, nota, peraltro,
a tutti e da lustri, ma fu dipinto come mentitore e calunniatore.
Oggi, in tempi di Unipol, salta agli occhi l’iniquità subita da molti, in primo luogo da Bettino, sotto forma di giustizia (e di mass media) a due pesi e due misure. L’Italia è
un Paese a maggioranza di ipocriti, il che, però, non giustifica i massacri. Mi viene alla mente la vigliaccheria o
l’impudenza dissimulatrice di tre Parlamenti, incapaci di
uno scatto d’orgoglio e di verità, per costituire l’irrinunciabile Commissione parlamentare d’inchiesta su Mani
pulite. La Commissione d’inchiesta avrebbe dovuto e potuto anche disvelare quanto la corda manipulitista usata
per giugulare la prima repubblica fosse stata, in realtà, un
grazioso regalo confezionato da un incauto legislatore, che
dagli anni Sessanta in poi non smise mai di dare alla corporazione togata, a parte i ricorrenti generosi aumenti di
stipendio e le vergognose carriere automatiche, un potere
GIANCARLO LEHNER
sempre più esorbitante e privo di contrappesi. E un paradosso storicamente rilevante fu che il Psi, proprio la futura vittima designata, all’origine ebbe un ruolo da protagonista nell’esaudire le richieste, quelle giuste e quelle assurde, dei “magistrati democratici”.
Si veda in proposito un recente sapido saggio di Lelio
Lagorio su come il Psi funse da utile idiota, in magistratura e non solo, del Pci. Craxi cercò in extremis di riparare
all’errore, peraltro idealista e generoso, dei precedenti segretari del Psi, ma rimase quasi in perfetta solitudine a difendere l’autonomia della politica.
Il circo mediatico-giudiziario, oltre che alla giustizia, attentò impudentemente anche all’intelligenza degli italiani,
e così l’operazione infingarda passò: ladri e corrotti i partiti di maggioranza, quasi casti e puri quelli d’opposizione,
in particolare quello più compromesso e consociato. Si
gridò, anzi, a Bettino di non far passare l’equazione "tutti
ladri = nessun ladro", allo scopo di salvare se stesso. In aggiunta, gli si intimò di smetterla di difendersi – vedi il “Corriere della Sera” di Paolo Mieli – e di agitarsi, essendo precluso ormai anche il diritto di far valere le proprie ragioni.
Il consiglio che i Paolo Mieli gli fecero giungere a mezzo
stampa era di arrendersi, piegarsi, prostrarsi, adattandosi,
legato mani e piedi, al nuovo piazzale Loreto che avanzava. Era un “nuovo” presentato in forma magniloquente
ben oltre la decenza e il ridicolo (vedi gli aggettivi ed i paragoni abnormi dedicati al sub-scolarizzato Di Pietro), ma
il “Corsera”, pur di appendere Craxi, predilesse il lessico
enfatico, i panegirici o, di contro, il linguaggio minaccioso e ultimativo. Di Pietro come Sterne, Marco Polo, Colombo, Ulisse, Cincinnato, Giovanni Paolo II sono simili-
tudini che andrebbero tuttora perseguite penalmente o, almeno, con l’espulsione dall’Ordine dei giornalisti. Via Solferino, Paolo M. consule, fece scuola di staracismo, a destra e a manca. Il “Messaggero” del 2 luglio 1995 si
uniformò, sguinzagliando il sinistro-verde Luigi Manconi,
il quale riferendosi al diabete ed alla cancrena di Bettino,
si iscrisse così all’albo degli aguzzini: "C’è qualcosa di cupamente grottesco nell’immagine di quell’uomo anziano e
malato... anche la malattia... non lo fa apparire più fragile, e con ciò, meno sgradevole. Al contrario. La sua sembra proprio quella che, nei racconti per adolescenti, è l’infermità dei ‘cattivi’ (nel Piccolo Lord la gotta, se ben ricordo)... la malattia completa crudelmente l’immagine di un
uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori...
quel sarcasmo così appesantito, quell’aggressività così affannosa rivelano qualcosa di intimamente “sporco”... "
Anche, a destra, non si fecero mancare teoria e prassi di
Lynch. Il fucilatore Giordano Bruno Guerri, il 5 ottobre
1995, trovò un comodo varco ne “il Giornale” diretto da
Feltri e scrisse: "L’Italia e la sua diplomazia dovrebbero agire come un ariete sulla Tunisia, minacciare di interrompere i rapporti economici, l’afflusso turistico e l’immigrazione... C’è poi un’ipotesi più cruda ma che non possiamo
non considerare: un Paese che avesse dei servizi segreti...
avrebbe già provveduto a far prelevare o a far tacere per
sempre Bettino Craxi."
Mani pulite, insomma, diseducò e medievalizzò l’Italia.
Craxi, avendo ragione, per il passato, per il presente e per
il futuro, pagò con la vita il coraggio e l’onestà intellettuale di parlare senza infingimenti del finanziamento della
politica. Già allora parlò di coop e di Unipol e fu massacrato dai Paolo Mieli. I giganti, a volte, sono trucidati dai
nani.
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Il riformismo di Craxi,
Il riformismo di Craxi una cultura di governo”
una cultura di governo
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18 gennaio 2006 - Milano
Silvio Berlusconi
SPECIALE CRAXI
Le sue idee per rinnovare il Paese
Quella svolta epocale
nella politica italiana
UGO FINETTI
Con il passare degli anni
cresce una riconsiderazione
critica della figura di Craxi e
dell’azione del Psi negli anni
della sua segreteria. Una figura ed un’esperienza che
rappresentano un ritorno alle origini del socialismo (prima dell’introduzione delle
insegne del Komintern nel
suo simbolo) e quindi una
sua attualizzazione. Oggi vi è
un’inflazione dell’uso del termine “riformista” e quindi
una confusione storica. Non
basta non sparare ed essere
contro la violenza per definirsi riformista. Questa è
una distinzione del XIX secolo. Negli anni ’70 e ’80 il
riformismo è consistito in
una scelta di rifiuto della lettura marxista della crisi economica e quindi in una nuova politica di sinistra. Berlinguer nonostante sforzi e risultati importanti fu risucchiato in una politica di opposizione e di alternativa
proprio perché le sue categorie fondamentali erano antiriformiste, erano cioè: anticapitalismo e antimperialismo secondo una politica
antiamericana e di fuoruscita dal capitalismo.
La svolta che ha rappresentato Craxi è stata quella
di respingere una lettura catastrofista della crisi economica, di vedere e sostenere
una fuoruscita da quella crisi attraverso processi di
deindustrializzazione, di terziarizzzazione e di modernizzazione che non andavano demonizzati, ma favoriti.
Il “riformismo” di Craxi consistette nel buttare alle spalle
la politica anticapitalistica
delle cosiddette “riforme di
struttura” e di inaugurare
una nuova politica di sinistra che non fosse – come lo
era stata da Lombardi a De
Martino – tutta programmazione e nazionalizzazioni.
Pose cioè all’ordine del giorno della sinistra la riforma di
ciò che fino ad allora era
considerata “sovrastruttura”.
In ciò consistette buona
parte della sua battaglia
riformista che suscitò addirittura un movimento di
odio senza precedenti contro
di lui: nessun altro leader politico è stato infatti così inviso negli ultimi 25 anni. Inizialmente c’era il fastidio per
aver rilanciato un partito che
sembrava moribondo e
quindi per non aver lasciato
semplificare il sistema politico intorno al bipolarismo
Dc-Pci. Poi è venuta l’irritazione per il suo potere d’interdizione, per la sproporzione tra peso elettorale
(nemmeno il 15 per cento
anche nel momento di massima espansione) e peso politico tanto da conquistare la
Presidenza del Consiglio, decidere formule di governo od
imporre priorità legislative.
Un partito che si era abituati a non prendere in considerazione veniva ora vissuto
come una forca caudina: tutta un’aristocrazia politica,
culturale e sociale si sentiva
oltraggiata dal dover rendere
conto al “sancoulottismo”
socialista. A ciò si doveva poi
aggiungere la rabbia di interi strati generazionali - del
’48, del ’56 e del ‘68 – di fronte al fatto che un socialismo
di destra che essi avevano
sempre considerato marginale e antistorico fosse ormai destinato a vincere il
braccio di ferro contro un’egemonia comunista fino ad
allora celebrata come migliore e/o inevitabile futuro
del Paese. Al “vulnus” che
Craxi rappresentava nel sistema delle certezze della sinistra comunista ed estremistica, le cui prospettive si
erano andate man mano
sbriciolando, si è poi aggiunto l’altro, non meno bruciante, che Craxi operava su un
altro fronte egemonico italiano: quello di una ristretta
cupola o piccola monarchia
che governava nei vertici finanziari, abituata a un vivere di rendita in situazioni di
monopolio assistito dallo
Stato e a vedere nel potere
politico solo ossequiosi servitori.
Quale che sia il giudizio
che si voglia dare di Craxi, rimane il fatto che nessuna
personalità o forza politica
può dire di averlo mai sconfitto in campo aperto. Dal
1979 al 1992 egli ha svolto
un ruolo determinante nella
vita politica italiana. È l’arco
di tempo che ha inizio con il
primo “mandato esplorativo” affidatogli dal presidente
della Repubblica, Sandro
Pertini, all’indomani delle
elezioni del giugno 1979 che
lo riconosce “ago della bilancia” dopo la fine della maggioranza di “solidarietà nazionale”. Esce di scena nel
1992 quando, nonostante
abbia il sostegno dei partiti
della maggioranza parlamentare delle elezioni di
aprile, viene convinto da
Scalfaro a rinunciare momentaneamente (così crede)
alla Presidenza del Consiglio
a causa dell’inchiesta “Mani
Pulite” - sebbene non coinvolto personalmente – e si fa
sostituire da Giuliano Amato. È quindi sul primato politico di Craxi per tre legislature della storia repubblicana, su come egli sia riuscito
ad essere il più a lungo di tutti alla guida di un partito e di
un governo, ad assumere le
vesti di protagonista nella vita nazionale pur partendo da
posizioni modestissime – il
10 per cento di un partito del
10 per cento – che occorre
dare una valutazione obiettiva.
Craxi non si muoveva secondo un intuito zigzagante
ed alla giornata, nessuno
può negargli una condotta
coerente e determinata essenzialmente dal primato
delle ragioni politiche. Quel
che sin dall’inizio lo ha caratterizzato - e su cui ha fatto leva per arrivare ad esercitare un forma di egemonia
verso interlocutori ben più
forti sulla scena politica e
nella società italiana – è appunto la sua “direzione di
marcia” e cioè la sua idea di
socialismo.
Oggi tre manifestazioni in ricordo del leader
Da Roma ad Hammamet
Tre le commemorazioni più significative che scandiranno la giornata odierna. A Roma, alle 11, presso il teatro Capranica, Gennaro Acquaviva, Gianni De Michelis e Gianfranco Rotondi si troveranno per riflettere su “L’attualità
della lezione di Bettino”, in ricordo di quando il 3 luglio del
1992 Bettino Craxi, a Montecitorio, sottolineò l’esigenza di
riforma del sistema. Proprio ad Hammamet, davanti alla
tomba del leader socialista, si troverà un gruppo rappresentativo capitanato da Pierluigi Diaco. L’iniziativa è scaturita da un appello fatto nei giorni scorsi dallo stesso Diaco, e inoltrato a tutti i ragazzi e le ragazze della sua generazione per recarsi la dove Craxi è stato esiliato. L’iniziativa è un’occasione per vedere come è morto un italiano che,
come pochi, ha anticipato i tempi, ha sempre accarezzato
il futuro, ha scelto di essere un socialista, riformista e modernizzatore quando esserlo significava soffrire la solitudine. Una fiaccolata, infine, si terrà alle 19.30 a Piazza Montecitorio. L’iniziativa è stata promossa e organizzata dal
gruppo socialista del Consiglio regionale del Lazio. Donato Robilotta, capogruppo alla Pisana, ha dichiarato: “I socialisti non dimenticano e non dimenticheranno, la fiaccolata di oggi sarà un momento per ricordare in un luogo
simbolo, Bettino Craxi”.
Poche personalità hanno dedicato così tante energie ai problemi dell’universo giovanile
Un uomo aperto alle nuove generazioni
SEGUE DA PAGINA 1
to più margine di azione gli veniva lasciato dall’indecisionismo della politica, dall’incapacità della politica di
formulare un programma condiviso di riforme, la cui attuazione non fosse condizionata da veti contrapposti e
da equilibrismi, utili solo a tenere fittiziamente unite
forze politiche eterogenee ed incompatibili sui valori e
sugli obiettivi di fondo.
E sempre su questo si fonda per Craxi - così come, vorrei dire, sul suo esempio, per tutti noi - la capacità della
politica di incidere sugli equilibri economico-sociali,
non delegando indebitamente questo compito né alla finanza, né agli apparati di partito né alla burocrazia.
La sua cultura di governo è, inoltre, una “cultura della governabilità”, della “stabilità di governo”, che costituisce la premessa essenziale per portare a compimento qualunque progetto politico di ampio respiro.
“Governare il cambiamento”: fu lo slogan che scelse
per la conferenza programmatica di Rimini nell’aprile
del 1982, che costituì l’occasione per un confronto a tutto campo sulle problematiche politiche, economiche e
sociali, nazionali ed internazionali, con cui un’azione di
governo seriamente riformatrice avrebbe dovuto misurarsi.
In antitesi alle ambiguità ed ai pregiudizi dogmatici
che avevano caratterizzato la stagnazione decisionale delle politiche
consociative dei governi degli anni
Settanta, Craxi propose un impegno
diretto su temi concreti, in linea con
gli sviluppi delle più avanzate democrazie occidentali, recuperando
da queste gli elementi propulsivi di
liberalizzazione della società e dell’iniziativa economica, senza per
questo tradire mai i valori alti e forti di giustizia sociale e democrazia
sostanziale propri della tradizione
socialista.
All’esigenza di rinnovamento della politica, la cultura di governo di
Craxi coniuga, inoltre, inscindibilmente l’impegno per il rinnovamento e la modernizzazione degli apparati amministrativi, chiamati a dare attuazione all’indirizzo politico di governo, assicurando
efficacia e trasparenza all’azione delle amministrazioni
pubbliche ed orientandone decisamente lo sviluppo verso una cultura del servizio, anziché della vessazione burocratica dei cittadini e delle imprese.
Anche in questo consistevano il “riformismo moderno” di Craxi e la sua “democrazia governante” che, agli
inizi degli anni Ottanta, consentirono di avviare il riallineamento dell’Italia agli standard di progresso e modernizzazione degli altri Paesi europei.
Nei 651 provvedimenti legislativi che caratterizzano i
circa quattro anni di durata dei due governi da lui guidati, fra il 4 agosto 1983 ed il 3 marzo 1987, si possono
rileggere le linee portanti del suo progetto complessivo
di modernizzazione del Paese e della sua volontà e capacità di attuarlo.
Quei provvedimenti delineano una manovra strategica che comprende il controllo dell’inflazione, la politica
dei redditi e la riforma tributaria; la riduzione degli squilibri regionali e la promozione del Mezzogiorno; la ridefinizione delle politiche assistenziali in termini di
compatibilità con gli equilibri di bilancio; il rilancio dell’edilizia abitativa, la lotta alla droga, la riforma dell’istruzione superiore ed universitaria, lo snellimento delle procedure giudiziarie, la delegificazione ed il rafforzamento del potere decisionale dell’Esecutivo.
Tutti aspetti inscindibili di un progetto coerente per
conseguire l’obbiettivo che aveva con ambiziosa lungi-
miranza indicato nel titolo della sua prima relazione da
segretario del Psi nel 1976: “Costruire il futuro”.
C’è, infine, un ultimo aspetto che ritengo si debba evidenziare nella cultura di governo di Craxi ed è quello
dell’apertura al ricambio generazionale.
Anche in questo ho avuto modo di ravvisare, personalmente, un segno ulteriore della sua onestà intellettuale, quando affermava che, di fronte agli sviluppi tecnologici del mondo contemporaneo, non sempre i “capelli bianchi” costituiscono un valore aggiunto e tanto
più sarà incentivato a “costruire il futuro” chi quel futuro dovrà viverlo e gestirlo in prima persona.
Nella storia dei partiti dell’Italia repubblicana poche
personalità hanno dedicato così tante energie, come fece Craxi, nel coltivare, formare, orientare e dare spazio
all’impegno delle più promettenti personalità dei movimenti giovanili.
Chiunque volesse impegnarsi seriamente in politica,
anche se giovane e dotato solo del proprio entusiasmo,
trovò sempre nella sua personalità un interlocutore sensibile ed, al tempo stesso, una guida severa e intransigente.
Sono questi, in sintesi, i contenuti ed i valori che, fra
gli altri, ho sentito di dover riportare in questa occasione all’attenzione di tutti noi.
E proprio oggi sento ancora una volta di poter affermare che sono questi i contenuti ed
i valori che noi, socialisti riformisti,
liberali e democratici, abbiamo
lealmente mantenuto vivi, contribuendo attivamente all’elaborazione ed attuazione del progetto politico di Forza Italia.
Secondo la lezione politica di
Craxi, l’attitudine interclassista e la
fiducia nel dialogo e nel confronto
fra le forze riformiste di diversa
ispirazione politica e culturale
hanno, fin dall’inizio, costituito un
elemento qualificante della proposta politica di Forza Italia.
E tutto quello che in questi anni
è stato possibile progettare e costruire, secondo una linea autenticamente riformista,
nei più diversi ambiti d’incidenza dell’azione di governo,
non va regalato a coloro che pur di appropriarsi ad ogni
costo dell’eredità culturale e della storica funzione politica del riformismo italiano - liberale, socialista e cattolico - hanno fatto di tutto per logorarne l’immagine e per
indebolirne la credibilità di fronte all’opinione democratica del Paese. Tutto il Paese ha ora più che mai modo di valutare il naufragio del moralismo di chi ha lapidato Craxi e che oggi viene a sua volta travolto dagli
scandali bancari. “La loro indignazione - ha scritto il 29
novembre scorso Sergio Romano sul Corriere della Sera - sarebbe stata più convincente se il loro partito non
avesse vissuto di finanziamenti sovietici sino alla fine
degli anni Settanta e di tangenti sul commercio Est-Ovest sino alla fine degli anni Ottanta. E sarebbe stato ancora più convincente se gli attacchi moralistici non avessero nascosto il timore di perdere la sfida per la guida
della sinistra italiana”.
Saremmo noi ora a dover gridare, con orgoglio e con
passione: “Resistere, Resistere, Resistere!”. Ma cerchiamo, per quanto possibile, di astenercene, opponendo
agli slogan un progetto politico concreto ed insistendo
costruttivamente nel riportare l’attenzione su quanto
abbiamo fatto e su quanto ancora proponiamo di fare
per il Paese. Lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra coerenza, alla nostra tradizione di pensiero e di impegno
culturale e politico. In una parola, lo dobbiamo alla memoria ed alla personalità di Bettino Craxi.
Francesco Colucci
Una irripetibile lezione di laicità
Giovedì 19 gennaio 2006
Pagina
3
Sulla sinistra il peso delle accuse al Psi
Questione ancora aperta
quattordici anni dopo
GIANNI BAGET BOZZO
Rimane, la memoria di
Bettino Craxi, in un tempo
che cancella le figure della
politica, consumate dal dilagare delle notizie e dal
cambiare degli eventi. Forse nulla del mondo e dei
problemi che segnarono la
vita del leader socialista
esiste più. Non esiste più la
guerra fredda, non esiste
più la Democrazia cristiana, il comunismo italiano
ha cambiato apparenza ma
non sostanza. Oggi altri temi gravano sul mondo, dalla globalizzazione al terrorismo islamista e, anche
quando i personaggi rimangono gli stessi, i loro
riferimenti sono interamente mutati. La continuità della classe politica
italiana rimane, pur nella
differenza del contesto in
cui si svolge la vita del Paese.
Di Bettino Craxi resta solamente il sentimento della
sua grandezza e la memoria della sua tragedia: la
sua morte in esilio, tra il
deserto africano e il mare,
colpito da una sentenza
che lo separava dall’Italia e
dal mondo e lo rinchiudeva
nella terra che gli aveva
concesso asilo politico
informale. La coscienza comune non ha ratificato la
sentenza dei giudici, non
ha fatto della storia dell’Italia democratica una storia
di tangenti. Anche coloro
che furono i più feroci accusatori di Craxi oggi comprendono quello che egli
disse e quello che egli visse.
Ma ciò che non fu riconosciuto in lui segna ancora la sinistra italiana. I comunisti vollero, nella condanna di Craxi, vedere la
certezza che essi erano la
linea principale del movimento operaio italiano, e al
tempo stesso dovettero
cambiare radicalmente registro e cercare di definirsi
socialisti. L’unico modo era
quello di eliminare Craxi e
di assumere i residuati socialisti come frammenti da
comporsi nel loro disegno.
Da allora, essi ancora vivono nel cambiamento continuo del nome il paradosso
di aver condannato il PSI
di Craxi e al tempo stesso
di aver dovuto identificarsi
con la sua politica. Non riescono a diventare socialisti
perché hanno voluto distruggere il volto decisivo
del socialismo italiano.
La questione non si è
chiusa dunque con le sentenze giudiziarie, ma rimane politicamente aperta. E
nessun erede del nome può
togliere la memoria di lui,
della sua umanità e del suo
calore, il suo impegno storico per conciliare socialismo e identità nazionale e
fare del Psi il partito dell’Italia, al di là della definizione ideologica delle due
grandi “chiese”.
Craxi contribuì a far
emergere l’Italia dalla tragedia della guerra civile e
della guerra fredda e a determinare la legittimità
della nazione per se stessa,
non redenta dalla Resistenza o dall’alleanza atlantica,
ma avente in se stessa un
significato. Craxi è riuscito
a far comprendere a chi è
venuto dopo di lui che è
una grande figura tragica
del dramma italiano nel
conflitto non risolto tra
Stato, popolo e nazione.
Con lui l’Italia è riemersa
come nazione oltre le divisioni del ‘900. Non è un caso che dopo di lui, a destra
e a sinistra, sia rinato il
senso dell’Italia come un riferimento esile ma fondante di una comunità di esistenza, di un senso del vivere comune.
Non è ancora giunto il
momento in cui si comprendano le ragioni che
Craxi difese e l’ingiustizia
della
sua
condanna,
espressione di un conflitto
tra politica e diritto, tra
moralità e legalità. Fino a
che non sarà compresa anche formalmente la grandezza della persona e il suo
valore per l’unità nazionale, il problema italiano non
verrà risolto, il Paese sarà
ancora diviso come oggi.
Nonostante le apparenze
politiche, che vedono i socialisti più noti vicino ai
post-comunisti, la divisione tra due parti politiche e
l’asprezza del contrasto dipendono ancora dal fatto
che la questione Craxi non
è risolta.
[email protected]
Pensando a Ghino di Tacco
CARMELO ALBANESE
La vita e la morte di Craxi sono oggi
un ormeggio simbolico che non cessa di
agganciare, ferreo, il presente: il presente come storia. Il presente come memoria. La politica si nutre ancora della memoria di una vita singola e singolare,
quella di Bettino, morto ad Hammamet
il 19 gennaio del 2000, al sorgere di una
nuova epoca, mentre tramontava il “secolo del male”, il Novecento. La vita di
Bettino ha raccolto un’industria di violenza dialettica, prodotta e elevata ad arma unica, devastante, dai comunisti, dagli stessi che, in questi giorni, scolpiscono sui loro volti la maschera umiliante
della polvere, invasi dalla cenere, figli
della cenere: la nèmesi colpisce con geometrica violenza. Se Bettino è ancora il
manuale sempre aperto dello scandalo
della violenza contro l’uomo, contro il
lottatore tragico che si erge sulla scena,
solitario, anche quando in concerto con
un grande partito come il Psi, è esattamente per una ragione che spiazza l’umana ragione. Egli è la “pietra d’inciampo” dell’Evangelo, la rottura dell’ordine
perbenista e accondiscente con il Tempio e le “casematte”: una lotta permanente, continua, movimentista, corsara
e sanguigna, contro gli stessi padroni
delle banche di questo tempo. I giudici
di “Mani Pulite” hanno creduto fideisticamente nella violenta efferatezza giacobina, nel “mito del mondo nuovo” costruito da mani d’uomo e riprodotto dai
nuovi “signori della guerra civile”; e proprio questo teorema si è abbattuto sulla
schiena, già dolorante, della nostra convivenza democratica, squassando la
classe dirigente non perfetta, spregiudicata, effervescente e genialmente creativa che ci aveva fatto vivere la primavera
democratica senza catastrofi pubbliche,
in-civili, senza dis-ordine. Craxi aveva il
piglio eroico di questa “vil razza dannata” e peccatrice, ma così superbamente
RAFFAELE IANNUZZI
ammirevole, che aveva fatto del peccato
originale e del realismo temperato dalla
efficace arte del rimedio, che è governo
allo stato puro, secondo il Machiavelli, la
conditio sine qua non di origine laica.
Laicità, che non era disprezzo per le ragioni della con-vivenza, come Craxi ha
ricordato in una perla di libretto, “Cristianesimo e Socialismo”, ma senso niti-
do e illuministico del limite, vicino, gemellato con la finitudine cristiana: “Parafrasando Camus si potrebbe dire: non
c’è giustizia assoluta, ma ci sono dei limiti. E coloro che pretendono che la giustizia sia sempre presente, al cento per
cento, sono fuori dei limiti; quanto coloro che pretendono che la giustizia non
sia mai presente”. È la giusta rotta del
realismo democratico, dell’illuminismo
non giacobino, dei Beccaria e dei Rosmini.
I giudici, negli anni della violenza giustizialista, hanno preteso l’Assoluto, con
le mani d’uomo e con le ideologie usate
come valvole di sfogo e repressione dell’equilibrio. Anni di inverecondo stillicidio di “larvato totalitarismo” (Giovanni
Paolo II, “Centesimus annus”): la fine del
mondo in sedicesimo che ha sradicato
memorie e volontà nuove. Finché è usci-
to un altro passaggio epocale, che anche
oggi ci desta sorpresa e rimette in discussione le antiche categorie. E tutto ciò
a cagione di un Capro espiatorio, secondo la categorizzazione di Girard, il Singolo che diventa vittima per lavare le colpe di tutti.
La politica era alla Camera, in piedi,
quel 3 luglio del 1992, aula stracolma, dicono le cronache: la memoria scatta
spontaneamente. Nessuno si alzò. E non
fu, questa, una chiamata di correità, ma
un gratuito atto politico, di dimensione
ultima, incalcolabilmente prezioso: da
Capro espiatorio che si assume la responsabilità e non si sottrae alla partita
definitiva. Abbiamo avuto come padre
politico uno statista che era un uomo colossalmente novecentesco, dunque tragicamente impegnato nella Causa. Un uomo che, intervistato dalla rivista ciellina
“Il Sabato”, il 23 agosto 1988 (“Noi, la Dc,
i cattolici”), quasi si sfoga con Banfi, il direttore dell’epoca: “I sociologi ci ricordano ogni giorno che la società moderna è
angosciata dalla mancanza di senso, di
senso della vita e di modi di viverla. Ma
questo è proprio il compito della politica.
Perché non deve essere possibile restituire alla politica tutta la sua nobiltà? Ma
per far questo bisogna rinnovare i modi
di far politica. Dimenticare affarismo,
clienti e clientele. Moltiplicare la presenza nel sociale, ridar fiato al dibattito culturale, produrre opere e fatti concreti che
riducano la crescente emarginazione di
grandi categorie di cittadini”. La “nobiltà” della politica deve ricucire lo strappo tra la desolazione del cuore dell’uomo
e la societas, la con-vivenza. La mediazione è il “senso”, non il politicismo autoreferenziale. Perché Bettino ragionava
così, all’altezza dei grandi desideri dell’io,
oltre il laicismo e anche oltre la violenza
giacobina. Una lezione per riscaldare il
cuore della stanca modernità che affolla
il destino di tutti noi.
Sono stati anni particolari
quelli che ci lasciamo alle spalle. Anni veloci, confusi. Ma la
storia a volte torna su di sé e si
fa più riflessiva. Ecco allora che
il pensiero va spontaneo a Bettino Craxi. Non a “Tangentopoli”, ma alla sua completezza di
politico e di uomo. Parlare in
un modo diverso di Craxi non è
il revisionismo di chi sostiene a
posteriori che sarebbe stato meglio processare Mussolini.
Craxi è un uomo che ha attraversato gli anni difficili del terrorismo in Italia, avendo il coraggio di prendere il timone di
una barca che dondolava sul
mare. Ripensiamo al caso Moro. Ci si è nascosti dietro la pulizia morale dell’intero ceto politico in cui egli militava da una
parte, e dietro una altrettanto
doverosa battaglia al terrorismo dall’altra. In mezzo c’era e
c’è l’irrisolta questione politica
che Aldo Moro poneva in essere
anticipando i tempi e pagando
di persona questa sua lungimiranza politica lungo la via orribile del capro espiatorio e del
“nessuno è profeta in patria”. In
quei momenti tumultuosi,
Craxi è stato l’unico che ha cercato un ponte con i terroristi
per la sua liberazione mentre
tutti da destra a sinistra sostenevano che non si poteva trattare. Vedendo in questo atto di
umanità e di straordinaria limpidezza politica un segno di cedevolezza dello Stato. Aldo Moro sembrava un predestinato.
Morì con lui, per lungo tempo,
fino forse ad oggi, la speranza
di vedere una Italia più italiana,
mi si perdoni il gioco di parole.
Forse quella stessa Italia che lo
statista cercava di realizzare. Se
ripensiamo a Cernobil vediamo
un altro aspetto del politico
Craxi. Si aprì in quegli anni in
Italia un fronte energetico e lo
statista lo risolse con il ricorso
al gas del Nord-Africa. Poi c’è
l’uomo: Ghino di Tacco. Padre
di due figli che hanno ereditato
il suo carattere. Che chiedono la
riabilitazione politica del padre.
Sarebbe ora. Nei volumi dell’enciclopedia “la storia” uscita
con Repubblica, Bettino Craxi è
riportato in una fotografia vicino a Nenni. Qualcuno capisce
l’importanza di riferirsi ad una
tradizione socialista in questo
Paese. Si rende conto che Bettino Craxi va certamente rivisto
sotto una luce diversa. Una luce
che è probabilmente simile a
quella da lui cercata ad Hammamet, ma che pure deve esserci in Italia. Una luce cercata
da chi non era il tipo da fuggire
da un processo; fosse stato un
processo a colpe reali e non a
colpe esasperate simbolicamente da un rimosso collettivo.
Solo oggi, quel rimosso viene in
superficie; dopo dieci anni di alternanza maggioritaria di quelle stesse forze che avrebbero
tanto voluto nascondersi dietro
di lui. Era davvero difficile che
Ghino di Tacco lo accettasse. È
da questo nome che è possibile
tornare a pensare a lui; a quel
suo modo di firmarsi, di scrivere e di vedere il mondo.
LIBRI
Al San Carlo “Attila”, opera giovanile di Verdi
Il lavoro “insicuro”
del cigno di Busseto
RENATO RIBAUD
Solera, essa si ispira all’ “Attila, Konig der Hunnen” di Zacharias Werner. Il dramma lirico doveva comunque preludere a ben più svettanti capolavori. Si tratta in sintesi di
un archetipo del melodramma risorgimentale, che furoreggiò nei nostri teatri, grazie
all’appello della riscossa romana contro gli unni invasori.
Provenendo però la trama
da un dramma tedesco, la
connotazione degli italiani
non ne usciva troppo bene,
così come non appariva del
tutto negativa, quella di Attila. Ciò si tradusse in un testo
alquanto sbilanciato, per
giunta, danneggiato dalla defezione di Solera, con conseguente repeschàge di Piave,
non senza l’inevitabile salto
stilistico che ne seguì. Testo e
partitura comunque non sono privi di pregi, soprattutto
per la loro continuità drammatica, con segmenti connettivi formalmente interessanti. Va aggiunto che il soggetto
di per se stesso, riscosse all’inizio particolare apprezzamento da parte di Verdi, che
era rimasto affascinato dai
personaggi di Attila, di Ezio e
naturalmente di Odabella.
Traspariva qui inoltre una
personalità volitiva come l’Abogalle di Nabucco, legata a
temi sempre cari al musicista, quali la brama di vendetta e il rapporto di un’eroina
con il padre. Per questo Verdi, all’indomani della prima
avvenuta a La Fenice di Venezia nel 1846, scrisse all’editore francese Escudier, affinché esaminasse la possibilità
di trasformare il lavoro in
una “grand’opera” per Parigi.
Poiché Solera aveva modificato a fondo la tragedia originaria e tratteggiato una sorta
di odii e di vendette dai profili drammatici sommariamente delineati, Verdi, autorizzato dal librettista che si
trovava all’estero per altri incarichi, fece apportare da
Francesco Maria Piave, le
modifiche ritenute necessarie. Modifiche che trasparirono in parte quando l’opera fu
trasferita di lì a due anni al
Teatro San Carlo, dove ebbe
ben veti repliche. Il rifacimento giunse però a stravolgere a tal punto il libretto originario (soprattutto nel terzo
atto), che Solera ebbe ad
esprimere il suo disappunto
in merito, e da allora non collaborò più con il musicista.
“Attila” di Giuseppe Verdi,
andata in scena al San Carlo,
è stata ben apprezzata nella
regia di Pier Luigi Pizzi che
ha provveduto pure alla scena che si è aperta su un disastrato percorso con sullo
sfondo il suggestivo incendio
di Aquileia e ai costumi, rigorosamente ispirati ad antichi
bozzetti. Il tutto è s’è svolto
nella ripresa firmata da Paolo Panizza. Va detto che l’opera di per se stessa, non ha
mai del tutto entusiasmato i
melomani. Qualche critico
continua a definire questo
dramma lirico un lavoro insicuro del grande compositore.
A renderlo appetibile sono
stati comunque anche l’impegno del giovane ma ben affermato Nicola Luisotti che
evocato più volte agli applausi, ha diretto l’orchestra e il
coro del Teatro San Carlo, oltre all’indiscussa bravura degli interpreti, tra i quali ci piace citare: Samuel Ramey (Attila), uno tra i cantanti più
apprezzati degli ultimi decenni, e con lui: Andrea Gruber (Odabella); Vladimir
Stoyanov (Ezio); Giuseppe
Gipali (Foresto); Deyan Vatchov (Papa Leone I); Gianluca Floris (Uldino). A margine
va aggiunto che “Attila” ha
rappresentato il primo degli
appuntamenti verdiani della
Stagione 2005/2006 (il secondo è Otello previsto nel mese
di maggio). Un appuntamento oltretutto, che si è preannunciato quale evento perché
consente di ascoltare una romanza cantata da Foresto all’inizio del terzo atto “persa”
nei secoli e ritrovata grazie
ad uno studio di Philip Gossett.
Verdi inserì l’aria, tempo
dopo il debutto dell’opera, su
richiesta di Gioachino Rossini che in questo modo volle
compiacere il tenore Nicola
Ivanoff con il quale aveva instaurato un rapporto stretto e
quasi paterno. “Ivanoff cantò
l’aria diverse volte - spiega
Gosset -. L’ultima occasione
documentata fu al Teatro Regio di Torino nel 1849 e nel libretto stampato per quell’esecuzione figura anche il testo.
Tuttavia non fu mai stampata nessuna edizione della musica e dopo il 1849 sono cessati tutti i riferimenti a questo brano”. L’opera andata in
scena al San Carlo, fu musicata dunque. in età giovanile
da Giuseppe Verdi. Facendo
leva sul libretto di Temistocle
I ghiacci di Almond
MARCO
Ai nostri occhi, il benessere risiede nel comfort di
un paesaggio addomesticato, dove gli agi sono a portata di telecomando e la
noia della sazietà è sempre
in agguato. Per Darren Almond, in mostra alla galleria Artiaco di Napoli fino al
28 gennaio, la naturale austerità della regione artica
è sinonimo di pienezza, la
desolazione dei luoghi ai
confini del mondo, dove la
tenebra dimora per sei mesi all’anno, è il suo fascino
profondo. Nelle fotografie
dell’artista britannico, che
ha mancato d’un soffio il
prestigioso Turner Prize,
non vi è traccia di vita, vi è
solo un’atmosfera rarefatta
e fuligginosa, immobile e
surreale. Nei luoghi estremi e inospitali del grande
Nord, la dimensione spazio-temporale si annulla, il
candore del ghiaccio si
confonde con l’acqua ed il
cielo. Nella sconfinata purezza di questo paesaggio,
dove la materia ha una limpidezza eterea, Darren Almond riesce ad afferrare
l’assoluto, una dimensione
in cui nulla è finito, nulla è
relativo. Possiamo cambiare lo sfondo, modificare i
lineamenti pure del pae-
DI
MAURO
saggio artico nell’intricato
viluppo di felci e mangrovie della foresta amazzonica. L’essenza non cambia.
Ci accorgiamo presto che il
ridondante paesaggio non
ci dà più di quanto offrisse
il paesaggio artico. La ricchezza, voluta e mistificatrice, confonde i sensi, nasconde l’essere sotto una
maschera variopinta.
Insieme alle fotografie,
Darren Almond presenta il
video “Artic Pull”, narrazione della propria esperienza nei ghiacci dell’artico. Le immagini, riprese
casualmente da una slitta
in corsa, scorrono veloci e
senza tregua, accompagnate da un rumore assordante. Alla dimensione poetica
e onirica che ispira le fotografie subentra un senso
tragico della vita: l’uomo
arranca nel buio e nel gelo
per sfuggire ad una morte
incalzante, in una lotta impari contro le forze della
natura. A suggello della
mostra, una scultura in alluminio dipinto evoca la figura dell’esploratore Robert Falcon Scott, che raggiunse il Polo Sud nel 1902,
avendo attraversato i
ghiacci dell’Antartide a
bordo di una slitta.
& CULTURA
Le celebrazioni per il V centenario dell’istituzione del corpo fondato nel 1506 da Giulio II
Guardie svizzere, da cinquecento
anni sono al servizio del Papa
A partire da domenica prossima prenderanno il via le celebrazioni per il Quinto centenario dell’istituzione della
Guardie svizzera pontificia. Attualmente i “soldati del Papa” in servizio sono 110. Il calendario delle iniziative prevede una lunga serie di manifestazioni ed è stato presentato nel novembre scorso dal comandante delle guardie svizzere Elmar Th.Mader, che nell’occasione presentò anche
l’emissione speciale fra la Città del Vaticano e la Svizzera
dei francobolli celebrativi dell’evento. Il corpo fu fondato
da Papa Giulio II (1503-1513) con una bolla pontificia del
21 giugno 1505, mentre il primo contingente di guardie
svizzere composto da 150 uomini completamente equipaggiati dal Papa fece il suo ingresso in Vaticano il 22 gennaio del 1506. Giulio II scelse gli svizzeri per la sua difesa
personale dopo aver studiato e analizzato tutti i possibili
elementi di unione tra lui e i confederati. Le peculiarità e
la costituzione del Paese, il suo passato, la passione per la
guerra e soprattutto il rispetto per la Chiesa, erano elementi
diffusi nei Cantoni svizzeri più che altrove. Domenica le celebrazioni inizieranno con un ricevimento di gala e con la
Santa Messa nella Cappella Sistina presieduta dal Cardinale Segretario di Stato. Un picchetto d’onore in Piazza
San Pietro in occasione della preghiera dell’Angelus e della benedizione apostolica del Santo Padre ricorderà lo storico arrivo delle prime guardie. A partire dal 29 marzo,
inoltre, nel Bracci odi Carlo Magno, sulla parte sinistra del
colonnato del Bernini, si aprirà la mostra “Guardia Svizzera Pontificia, 500 anni - storia - arte - vita” che permetterà
alle migliaia di visitatori di San Pietro, di conoscere la storia, il senso, l’essere e la funzione della Guardia. Presidente del comitato scientifico della Mostra è Giovanni Morello, a capo della Fondazione per i Beni e le Attività artistiche della Chiesa e membro della Commissione permanente per la tutela dei monumenti storici ed artistici della Santa Sede. Dal 7 aprile prenderà poi il via la marcia commemorativa della Guardia svizzera Bellinzona-Roma: si tratta di una distanza di 723 Km che verrà percorsa in 27 giornate di cammino. Partendo da Bellinzona il percorso si
snoda prevalentemente lungo la via Francigena, antica
strada di pellegrinaggi e via di commercio, verso la Città
Eterna.
I partecipanti alla marcia verranno accolti da un picchetto di guardie attive e da una banda formata da guardie
in servizio ed ex-guardie, che li accompagneranno, insieme
a formazioni militari italiane fino a Piazza San Pietro, dove riceveranno la solenne benedizione dal Papa. Una serie
di celebrazioni ricorderà poi in modo particolare il sacco
di Roma del 6 maggio del 1527 ad opera dei Lanzichenecchi di Carlo V e il sacrificio delle molte Guardie svizzere
che quel giorno persero la vita in difesa del Papa. Eventi
musicali e religiosi si intrecceranno. Si svolgeranno tre
concerti nell’Aula Paolo VI, il 3, il 4 e il 5 maggio. Poi il 6
maggio, si svolgerà una messa presieduta da Benedetto
XVI nella Basilica Vaticana. Al termine della celebrazione
religiosa è prevista la deposizione di una corona in Piazza
dei Protomartiri Romani, là dove nel Sacco di Roma del
1527 molte Guardie Svizzere furono uccise nella battaglia.
Il pomeriggio del 6 maggio sarà dedicato al solenne giuramento delle nuove reclute. La tradizionale cerimonia avverrà per la prima volta nella storia in Piazza San Pietro,
accompagnata da formazioni militari storiche e alla presenza del Pontefice. Al termine della cerimonia del giuramento avrà luogo un incontro con la Guardia a Castel
Sant’Angelo, un momento festoso, che si concluderà in serata con i fuochi d'artificio eseguiti coni colori della Guardia. Domenica 7 maggio, infine, le Guardie svizzere saranno nuovamente in Piazza San Pietro per partecipare alla
preghiera dell’Angelus Domini, ricevere la benedizione del
Santo Padre e per assistere a un concerto della Swiss Army
Concert Band.
La Guardia Svizzera pontificia è il più piccolo esercito
del mondo, ma da oltre cinquecento anni svolge un ruolo
di altissimo prestigio: la difesa del Papa e del Vaticano. Nel
maggio scorso, dopo la messa nella basilica vaticana e la
commemorazione dei caduti nel cortile d’onore del quar-
tiere svizzero, le guardie arruolate negli ultimi 12 mesi hanno prestato giuramento sulla bandiera del Corpo davanti al
rappresentante della segreteria di Stato. Istituite nel 1506
da papa Giulio II, le Guardie Svizzere hanno come unico
incarico la custodia della Sacra Persona del Papa e della
Sua residenza e costituiscono uno dei gradi ufficiali della
Curia nell'ambito della Casa pontificia. A difesa del Vaticano, oltre a questo corpo secolare, fino al 1970 ne esistevano altri due: la Guardia Nobile, sorta nel 1801, e la Guardia Palatina, nata nel 1850. Il 15 settembre 1970 Paolo VI
decise di sopprimere tutti i corpi militari, ad eccezione delle Guardie svizzere che devono svolgere il servizio militare
e di sorveglianza con la nobiltà che le ha sempre contraddistinte. Le Guardie svizzere, il più piccolo esercito del
mondo (non è mai stato però truppa da guerra), conta oggi 100 soldati effettivi - secondo quanto prevede il regolamento riformato da Giovanni Paolo II nel 1979 - con quattro ufficiali, sei alabardieri e due tamburini. Ma nonostante le dimensioni ridotte le guardie del corpo di Sua Santità
osservano una rigida disciplina militare. Quale motivo
spinse il Pontefice a scegliere gli armati dei cantoni elvetici? La fama militare della fanteria svizzera, ai primi del
Quattrocento attraversava tutta l’Europa: già nel 1478 papa Sisto IV desiderava ingaggiare soldati svizzeri per cacciare gli ultimi Sforza dal Ducato di Milano. Era convinzione anche di Niccolò Machiavelli, segretario della cancelleria della Repubblica Fiorentina, che i soldati svizzeri
avrebbero potuto conquistare l’Italia senza ostacoli. Giulio
II riprese il progetto politico di Alessandro VI Borgia di costruire un grande Stato della Chiesa. II 22 gennaio 1506 è
la data di nascita ufficiale della Guardia Svizzera Pontificia: in questo giorno, sull’imbrunire, un gruppo di centocinquanta svizzeri, al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Cantone di Uri, attraverso Porta del Popolo entrò per la prima volta in Vaticano. Lì, poi, gli elvetici furono benedetti da Papa Giulio II. Il 6 maggio 1527 segna la
data più eroica nella storia del corpo. Durante il sacco di
Roma, per difendere Clemente VII dai Lanzichenecchi, le
poche guardie svizzere si trovarono a sostenere un’impari
prova e solo il coraggio del capitano Kaspar Roist permise
il salvataggio del Papa: con 147 soldati tentò di difendere il
Vaticano, mentre i rimanenti portarono il pontefice in salvo a Castel Sant’Angelo. Fu sempre Giulio II a volere che i
suoi soldati indossassero un’uniforme color arancio e azzurro, i colori della famiglia Della Rovere. Ma i compiti
odierni delle Guardie svizzere non sono affatto militari. Lavorano otto ore al giorno, più gli straordinari; sorvegliano
gli ingressi del Vaticano. Un paio di soldati accompagna
sempre il Papa in ogni suo spostamento. Per quanto riguarda l’ordine interno alla Santa Sede, il piccolo esercito
è suddiviso in tre squadre, delle quali, a turno, due sono in
servizio ordinario e una a riposo. La squadra libera lo è per
modo di dire perché resta a disposizione per le esercitazioni di addestramento permanente e per i servizi straordinari. Gli ufficiali consigliano ai giovani di mantenere, quando escono dalle mura vaticane, un atteggiamento “discreto”, di non farsi notare troppo (in libera uscita, comunque,
non indossano l’uniforme) e tutti devono rientrare in caserma per mezzanotte.
Nel maggio scorso, Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata 30 nuove guardie pontificie svizzere che avevano prestato giuramento in Vaticano. Dopo 26 anni sotto il
pontificato di Giovanni Paolo II, i soldati elvetici hanno cominciato ad adattarsi alle esigenze del nuovo Papa. Tutte le
guardie attualmente in servizio, ad eccezione delle ultime
30, avevano infatti prestato giuramento sotto Karol Wojtyla. Le guardie svizzere hanno dovuto darsi da fare per proteggere in passato Giovanni Paolo II di fronte alle manifestazioni di affetto, talvolta eccessive, dei fedeli.. Il nuovo
Pontefice, che si trova a Roma dal 1981, è una vecchia conoscenza delle guardie svizzere. “Quando era cardinale Joseph Ratzinger aveva il suo appartamento di fronte alla nostra caserma. Passava tutti i giorni davanti a noi e ci parlava. Era il nostro vicino”, ha spiegato il comandante delle
guardia svizzere, Elmar Mader.
Venezia, 150 fotografie esposte per ripercorre la scena dell’arte internazionale
Le Biennali tra storia e costume
Un viaggio nel tempo in bianco e nero per ripercorrere la storia della scena
dell’arte internazionale grazie alla
straordinaria testimonianza delle oltre
150 fotografie esposte a Palazzo Venier
dei Leoni, a Venezia, nella mostra “La
scena dell’arte 1948-1986, fotografie
dall’ArchivioArte della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena”. L’esposizione, realizzata in collaborazione con
la Collezione Peggy Guggenheim e
aperta al pubblico dal 5 febbraio al 21
maggio, espone scatti inediti e sorprendenti che ritraggono artisti e protagonisti delle Biennali di Venezia, da Picasso
a Matisse, da Dalì a Vedova, da Fontana a Rauschenberg. Realizzate per le
copertine di “Time”, “Life” e “Epoca”,
queste fotografie sono ora le protagoniste di un percorso che è, soprattutto, la
testimonianza artistica degli eventi che
hanno segnato il mondo dell’arte del periodo postbellico. Selezionate tra gli oltre dodicimila negativi dell’agenzia fotografica Cameraphoto di Venezia, acquistati dall’ArchivioArte Fondazione
della Cassa di Risparmio di Modena, le
immagini esposte inviteranno il visitatore a intraprendere una sorta di viaggio a ritroso nella memoria tra fasi storiche e atmosfere artistiche che hanno
segnato la scena culturale internazionale a Venezia, in occasione delle Biennali. I grandi nomi dell’arte estera, come
Braque, Chagall, Lèger, Ernst, Arp,
Zadkine, Dufy, Mathieu, Oldenburg, Lichtenstein, Kusama, Beuys, LeWitt, e
quelli che hanno reso celebre l’arte italiana, tra cui De Dominicis, Kounellis,
Viani, Marini, Birolli, Guttuso, Moreni,
Tancredi, Consagra, Capogrossi, Baj,
Castellani, Scheggi, Accardi e Mari, si
affollano nei ritratti che li hanno immortalati come protagonisti della contestazione artistica di quegli anni o della semplice inaugurazione dei singoli
padiglioni.
Il clima e il fervore artistico del periodo rivive nei servizi fotografici sul
teatro di Jerzy Grotowsky, Julian Beck,
Luca Ronconi e Meredith Monk, mentre i ritratti di Picasso, Mirò o De Chirico mantengono vivo il dialogo tra le
opere oggi esposte nel museo e il loro
passato, restituendo l’intensità di un clima artistico teso tra contestazione e arte impegnata, come dimostra la documentazione fotografica relativa alla
mostra del 1964 sui pittori americani
(Robert Rauschenberg, Jim Dine, Claes
Oldenburg, Jasper Johns e John Chamberlain), allestita presso l’ex Consolato
degli Stati Uniti a Venezia. La mostra
rappresentò, allora, un’occasione unica
per osservare gli sviluppi dell’arte d’oltreoceano in Italia, che tanta importanza avrebbero poi esercitato sull’evoluzione artistica degli anni successivi, sui
cambiamenti dello stile e gli atteggiamenti della critica e del pubblico nei
confronti della Pop Art. Fotografie come un testo di storia dell’arte, quindi,
capaci di testimoniare e tramandare la
conoscenza delle opere, delle atmosfere
e delle suggestioni che l’arte produceva
in quegli anni; capaci di dare vita a un
reportage completo e unico su Georges
Mathieu mentre, alla Galleria del Ca-
vallino nell’autunno del 1959, sferrava
stoccate di colore sulle enormi tele del
ciclo della “Battaglia di Lepanto”; capaci anche di tracciare un racconto puntuale su come eravamo dagli anni dal
dopoguerra al boom economico, fino
alle provocazioni e agli eccessi degli anni Ottanta. La moda e lo stile si confrontano con l’arte diventando a volte
protagonisti, a volte semplice sfondo
delle immagini che, soprattutto negli
anni Cinquanta e Sessanta, venivano
utilizzate per diffondere il messaggio di
un mondo che stava cambiando velocemente.
Le nuove correnti artistiche influenzarono posizioni radicali, contestazioni
e lo stesso futuro del Paese: per questo,
la mostra si presenta come una testimonianza fondamentale di come eravamo e di come saremmo diventati. Secondo questa intenzione, gli scatti si
presentano nella duplice chiave di lettura artistica e sociale e lo sfondo diventa, a volte, importante quanto l’opera d’arte ritratta: ecco la modella, avvolta da un abito geometrico ed essenziale, che osserva con stupore il taglio nell’opera di Lucio Fontana “Concetto spaziale. Attesa”, nel 1966; ecco lo sguardo
intenso e indagatore di Alberto Giacometti incontrare quello della modella
distratta dalle sculture filiformi esposte
nella sala a lui dedicata nella Biennale
del 1962; ed ecco Yayoi Kusama, in uno
splendido kimono dalle lunghe maniche, far volteggiare le sfere traslucide
del suo “Giardino di Narciso” (1966) avvolto da un alone di esotismo.
Giovedì 19 gennaio 2006
Pagina
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Grande successo per l’ultimo film di Woody Allen
Un thriller psicologico
per riflettere sul destino
FEDERICA DI BARTOLO
È stato girato a Londra nel
2004 in sole sette settimane
ed è stato presentato come
film fuori concorso, al 57esimo Festival di Cannes, dove
ha riscosso un grande successo fra il pubblico. Stiamo
parlando del nuovo film di
Woody Allen: “Match Point”,
scritto e diretto da lui stesso,
un vero thriller un po’ noir
con una grande attenzione
per la psicologia dei vari personaggi. Si ispira a “Delitto e
Castigo” di Dostojevskij. Il
tema centrale della pellicola
è la “Fortuna”, a causa della
quale si sviluppano gli avvenimenti, mostrando la “casualità” che domina la nostra vita. Sono ripresi alcuni
temi di “The Woman in White” di Andrew Lloyd Webber,
arrivando alla conclusione
che l’uomo controlla la propria vita meno di quanto
possa pensare. Un tema importante che ritroviamo nella letteratura mondiale, ad
esempio nelle opere del premio Nobel del 1926 per la
letteratura, Grazia Deledda,
la seconda donna ad essere
insignita di tale onorificenza. Woody Allen introduce
quello che per le diverse culture, può essere un elemento
casuale o deterministico,
tanto che nei secoli è stato
chiamato con nomi diversi:
fato, sorte, destino, caso, fortuna, sviluppando una visione profondamente pessimistica della vita.
Il film si apre su un campo
da tennis inglese e la cinepresa segue i movimenti della pallina che tocca la rete ed
è quello il momento cruciale,
da cui dipenderà l’assegnazione del punto. Questo momento viene seguito con determinazione dal regista che
cerca, riuscendoci, di creare
tensione fra il pubblico, introducendo la sua visione:
“Colui che ha detto preferirei
essere fortunato che buono”
aveva capito tutto della vita.
“Le persone non vogliono
accettare il fatto che gran
parte della nostra vita dipende dalla fortuna. È spaventoso pensare quante siano le
cose che sfuggono al nostro
controllo. Ci sono momenti,
in una partita di tennis, in
cui la palla colpisce la parte
alta della rete e per una frazione di secondo non sappiamo se la supererà o se cadrà indietro. Con un pizzico
di fortuna, la palla supera la
rete e vinciamo la partita ma
senza fortuna ricadrà indietro e perderemo”. Il film si
sviluppa in alcuni dei luoghi
simbolo della città come la
Galleria d’Arte Tate Modern,
St. James’s Park e altre zone
dei dintorni di Londra, attraverso la vita del protagonista
Chris, interpretato da Jonathan Rhys Meyers, un giovane insegnante di tennis
professionista attratto dal
mondo dell’alta borghesia
inglese (ambiente sociale in
cui si svilupperà l’intera storia), che inizierà la scalata al
successo sposando la giovane ereditiera Chloe (Emily
Mortimer). Tutto sembra
svilupparsi senza problemi
per il giovane Chris, ma le
cose si complicano quando
si innamora della bella ragazza americana ex fidanzata del fratello di Chloe, Tom
(Matthew Goode), di nome
Nola, interpretata dalla giovanissima Scarlett Johasson.
È un thriller psicologico in
cui vengono analizzati tutti i
comportamenti delle persone dall’innamoramento della
persona sbagliata, fino alla
paura di venire smascherati
e scoperti, desiderando addirittura di essere puniti per
l’azione commessa.
Nonostante la drammaticità del quadro in cui viene
rappresentata l’ipocrisia della società, Woody Allen non
si smentisce mai, riuscendo
a rendere piacevole la visione con il suo sguardo arguto
e la solita sottile ironia. Con
grande maestria e abilità il
regista americano riesce a
portare il pubblico a non
odiare il protagonista, a non
condannarlo, ma anzi comprenderlo, perché in realtà
egli è indicato come la vittima del fato. È in questo senso che “Match Point” ricorda
moltissimo la visione dei due
grandi tragediografi greci:
Eschilo e Sofocle, la loro
concezione del destino che
gioca con gli uomini. Nella
pellicola quasi tutta la musica americana viene sostituita completamente dalle arie
d’Opera italiane come: “Una
furtiva lacrima” tratta da
“Elisir d’amore” di Gaetano
Donizzetti; “Un dì felice, eterea” da “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Il nuovo film di
Woody Allen, appena entrato in classifica è stato già il
film più visto della settimana
nelle sale italiane, e scalza la
commedia di Leonardo Pieraccioni “Ti amo in tutte le
lingue del mondo” che scivola al secondo posto.
Alla scoperta del mondo
Liu Gang, un noto avvocato e collezionista di arte cinese, ha presentato a Pechino
una mappa del mondo che
sarebbe stata disegnata nel
1418. La mappa, se autentica, dimostrerebbe che i cinesi, ed in particolare l’ammiraglio, guerriero, esploratore ed
eunuco Zheng He, avrebbero
scoperto tutto il mondo prima degli storici viaggi di Cristoforo Colombo e di Magellano. Liu ha affermato che la
mappa è stata effettivamente
disegnata nel 1763. L’avvocato ha ricordato di aver comprato la mappa nel 2001, per
500 dollari, in un piccolo negozio di Shanghai.
Se veramente risale al
1418, dovrebbe portare ad
una profonda revisione della
storia degli ultimi secoli. Liu
ha detto di aver mostrato la
mappa a cinque diversi
esperti: tutti e cinque gli hanno confermato che ha “più di
cento anni”. L’originale, ha
detto Liu, è in una cassetta di
sicurezza “in qualche posto
della Cina. Secondo gli storici, l’ammiraglio eunuco
Zheng He fu inviato nel 1404
dall’imperatore Zhu Di alla
scoperta del mondo. Quindi,
se nel 1418 già esisteva una
mappa tutte le sue esplorazioni - che secondo Liu hanno toccato Polo Nord e Polo
Sud oltre a tutta l’Africa e a
tutta l’America - sarebbe avvenuta nel giro di 13-14 anni.
Versi & commenti
“La piccola dea”, di Roberto Varese (Fazi, 214 pagine,
9,50 euro), può essere letto come un manuale di sopravvivenza. “Il primo vero inganno è l’amore. Da quella disfatta, da quella disgrazia, nasce un impeto, un bisogno
intimo e violento di salvare se stessi”, dichiara l’autore. C’è
uno strumento che salva ed è la parola. Una sopravvivenza per mezzo delle parole, dunque. Una lunga storia, pagina dopo pagina, la vita accanto e dentro, una scontentezza di fondo. Come dice Emanuele Trevi nella Prefazione, Varese ha impiegato “vent’anni per scrivere, limare,
correggere in vario modo”. Una confessione autobiografica, poesie, racconti: queste le tre parti di cui è composto il
volume. Tre libri in uno: “Ormai tutto ciò è inscindibile
poiché proviene da un solo sentimento delle cose”. Lo
sguardo di Varese è quello lieve e incantato del sognatore
(il suo maestro è Sandro Penna), “davanti al mondo meraviglioso e tremendo”.
Alberto Toni
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19/01/06, Avanti!