L’EVASIONE FISCALE ED I PATTI SULL’IMPOSTA
1. Introduzione al capitolo quarto
Il fenomeno dell’evasione fiscale si presenta per molti versi connesso con quello dei patti
sull’imposta. Una delle principali ragioni per cui questi accordi tra privati furono considerati
illegittimi e dunque nulli era data dal fatto che si riteneva che essi comportassero una deviazione
dalla corretta applicazione del principio di capacità contributiva non prevista dalla legge e che
pertanto attraverso di essi il contribuente potesse sottrarsi al proprio obbligo contributivo accollando
ad altri l’onere del pagamento di un’imposta dovuta in ragione della propria e non dell’altrui
capacità contributiva.
In altre parole si temeva che i patti di accollo d’imposta fossero un mezzo concesso
dall’ordinamento al singolo per evadere il fisco.
Nel corso della trattazione abbiamo avuto modo di vedere come tale atteggiamento sia mutato
nel corso del tempo fino a giungere ad una definitiva affermazione, con l’emanazione del c.d.
Statuto dei diritti del contribuente, della liceità dei patti sull’imposta purchè essi siano strutturati
sulla base di un accordo nel quale l’accollo del debito tributario da parte di un altro soggetto
avvenga senza liberazione del contribuente originario.
Per comprendere le ragioni di un tale mutamento di pensiero occorre preliminarmente analizzare
la questione del possesso del reddito e dei casi in cui la titolarità di esso risulti meramente
apparente, per poi passare ad esaminare brevemente la nozione di evasione e di elusione fiscale, al
fine di valutare quali possano essere i rapporti tra i patti di accollo d’imposta e le fattispecie evasive
ed elusive ovvero quando essi diano semplicemente vita a dei risparmi d’imposta legittimi, in
quanto non vietati dall’ordinamento.
1
2. Il possesso di redditi: cenni sulla nozione
L’indagine sulla conformità dei patti sull’imposta ai precetti costituzionali ed alle norme
dell’ordinamento in generale non può prescindere dall’esaminare la questione del “possesso” di
redditi. Tale argomento, infatti, rileva ai fini della nostra tesi soprattutto in relazione alla questione
se gli accordi con i quali il soggetto passivo trasferisca l’onere del tributo ad altri – i quali
volontariamente se ne accollano il peso – debbano essere realizzati esclusivamente dall’effettivo
possessore del reddito oppure si possa ammettere che anche altri soggetti, i quali ostentino nei
confronti del fisco la titolarità di un reddito ad essi non spettante, pongano in essere tali tipi di
negozi.
A tal fine occorre in primo luogo analizzare la fattispecie del possesso di redditi ed in secondo
luogo esaminare quei casi in cui un soggetto ingannevolmente ostenti, nei confronti del fisco, la
titolarità di un reddito spettante ad altri ed infine verificare se, attraverso tali fattispecie il soggetto
realizzi degli accordi tali da costituire un mezzo per evadere ovvero per eludere semplicemente
l’onere impositivo.
Nel diritto tributario il temine “possesso” ricorre per la prima volta nella definizione del
presupposto dell’imposta, contenuta nell’art. 1 del D.P.R. 617/1986 (Testo Unico delle Imposte sui
Redditi), il quale utilizza tale formula per indicare la relazione tra il reddito ed il soggetto passivo.
In realtà tale formulazione –già presente nell’art. 130 del TUID n. 645/1958, in tema di
presupposto dell’imposta complementare- non ha mancato di suscitare, fin dall’inizio, vari dubbi
interpretativi, in considerazione dell’assenza di una definizione di reddito al quale il possesso è
giuridicamente legato e, soprattutto, in considerazione dell’accostamento di due concetti tra loro
2
incompatibili dato che il termine possesso generalmente esprime un potere materiale mentre la
nozione di reddito risulta talmente astratta da tendere all’astrazione1.
Nel tentativo di giungere ad un’unitaria definizione del concetto di “possesso”, nel corso del
tempo, si sono succedute varie interpretazioni dottrinali.
Nella normativa precedente all’emanazione del TUIR si riteneva possibile, nonostante le varie
incertezze manifestate da autorevoli esponenti2, riscontrare la presenza, nel nostro ordinamento, di
una nozione unitaria di reddito, alla quale collegare il “possesso”, data l’imponibilità dei redditi
“provenienti da qualsiasi fonte”3 nonché “di ogni altro reddito diverso da quelli espressamente
considerati”4. In tale contesto la fattispecie del “possesso” –considerato come criterio unificatore
dell’elemento soggettivo o dell’elemento residuale- veniva ad assumere inevitabilmente il carattere
di un’astrazione.
L’articolazione casistica della nozione di reddito, contenuta nella disciplina del TUIR,
interagisce con quella di “possesso” e proprio in virtù di tale interazione una parte della dottrina5
rigetta la precedente valutazione in chiave generica ed astratta del “possesso” e propongono una
ricerca dei contenuti concreti di tale nozione una ricerca del “possesso effettivo” nella quale viene
ad inserirsi anche la disciplina della titolarità ingannevole, la quale sarà oggetto di una più ampia
valutazione nel prosieguo della nostra trattazione.
Vari sono gli orientamenti dottrinali che si sono succeduti nel tempo in tema di “possesso” di
redditi.
1
In proposito vedasi D’AMATI, Il “presupposto” dell’imposta complementare, in Giur.imp., 1963, 712; dello stesso
A., Definizione legislativa del reddito imponibile, in Riv.trib., 1964, 121; MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel
fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 75.
2
Vedasi TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, vol.II, 24, nota 16, il quale dubita addirittura che il d.p.r.
n.597/ 1973 contenesse una definizione generale di reddito.
3
Art.1 dd.pp.rr. nn.597 e 598 del 1973.
4
Art.80 d.p.r. n.597/1973. Varie sono le riserve che tale fattispecie “residuale” ha sollevato: vedasi GAFFURI, I redditi
diversi, in Dir.prat.trib., 1979, I, 573 ss, ma specialmente 837-838; TESAURO, La norma “residuale” dell’art.80 d.p.r.
n. 597 del 1973: norma inutile o incostituzionale?, in Corr.trib., 1981, 1872; MERLINO, L’art.80 del d.p.r.597/1973.
Un cilindro magico, in Boll. Trib .inf., 1982, 352; IDEM, Il testo unico dell’Irpef. La felice rimozione dell’art.80 del
d.p.r. 597/1973, in Boll. trib. inf., 1986, 18.
5
Così TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, Milano, 1995, 183.
3
Una prima tesi proponeva l’identificazione della nozione di possesso con gli artt. 1140 e ss. c.c6.
Alcuni ritengono che l’istituto in questione difetti del requisito dell’organicità in quanto manca
una disciplina dei modi di acquisto, modificazione e perdita nonché delle attività necessarie alla sua
conservazione. Oltre a queste difficoltà, con le quali occorre misurarsi in un’eventuale
comparazione tra il “possesso” come istituto civilistico e “possesso” nel diritto tributario, si deve
tenere presente anche che non sempre tale termine è impiegato, nel codice civile o in altre leggi non
tributarie, nell’accezione desumibile dall’art. 1140 c.c.7
In relazione all’identificabilità della nozione tributaria di possesso (di redditi), con quella
codicistica, la dottrina ha sempre manifestato scetticismo 8 perché se si ritiene che il “possesso” di
redditi corrisponda al potere di fatto su di una res ( tale è appunto l’impostazione civilistica ), allora
risulta difficile disciplinare le varie situazioni giuridiche, peraltro frequenti nel diritto tributario,
nelle quali non vi è alcun riferimento a tale potere e che non sono suscettibili di apprensione
materiale (come avviene, ad esempio, per i diritti di credito o per l’azienda). In proposito alcuni
6
Il possesso è un istituto antico, creato per una società che traeva le sue risorse principali dalla terra e tuttora legato ad
una elencazione casistica riferita prevalentemente alle realtà fondiarie: lo sciame d’api, le acque, il fondo servente, la
servitù, il sottosuolo, i frutti e così via. Così SACCO, Il possesso, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto
da CICU-MESSINEO, cont. da MENGONI, vol.VII, 140-141 e 171 ss. Nel diritto civile il possesso è definito come una
situazione giuridica soggettiva attiva, un potere su una cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio
della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso dunque non è la proprietà, ma il possessore ha un potere immediato
sulla cosa e si comporta come se di essa fosse proprietario o titolare di altro diritto reale minore. Mentre la proprietà è
una situazione di diritto, il possesso invece è una situazione di fatto al quale l’ordinamento attribuisce giuridica
rilevanza. Così GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, 211; ALPA, Istituzioni di diritto privato, Torino,
1997, 687.
7
Nell’art. 1992 c.c., ad esempio, il “possessore” è in realtà colui il quale esibisce al debitore un titolo di credito (es.un
libretto al portatore) chiedendo il pagamento della somma depositata. In questo caso il debitore, che senza dolo o colpa
grave adempie la prestazione, è liberato anche qualora il soggetto che richiede l’adempimento abbia la mera detenzione
e non l’effettivo possesso del titolo di credito. Così TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, Milano,
1995, 287.
Ancora diverso è poi il significato che si desume dagli artt. 982 e 1002 c.c., in relazione all’usufrutto: l’usufruttuario
non può conseguire il “possesso” dei beni prima di aver redatto l’inventario e di aver prestato garanzia. Durante
l’adempimento di tali oneri l’usufruttuario non ha ancora il possesso del bene, mentre il proprietario lo ha già perduto,
non potendo esercitare le normali prerogative del dominus.
Infine nell’ipotesi dell’art.485 c.c. l’onere di procedere alla stesura dell’inventario compete non soltanto al chiamato
all’eredità che sia nel “possesso” di beni, ma anche al chiamato ne abbia la detenzione Così SACCO, Il possesso, in
Trattato di diritto civile e commerciale, già dir. da CICU-MESSINEO, cont. da MENGONI, VII, 60-61.
8
Cfr. FEDELE, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. Cost., 1976,
2165, nota 10; FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 784; PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione
fittizia, Milano, 2000, 128; MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali,
Milano, 1990, 78
4
osservano che una tale relazione materiale potrebbe al massimo essere riferita al cespite/fonte di
reddito9.
Una parte della dottrina10 si è espressa a favore di tale tesi sostenendo che il dovere
dell’interprete, nel rispetto di un preteso principio di “unità” dell’ordinamento giuridico, sarebbe
quello di assegnare ad enunciati identici, pur contenuti in documenti legislativi distinti, identico
valore semantico. La norma tributaria, in tal senso, recepirebbe il possesso senza modificazioni, per
cui l’istituto richiamato sarebbe proprio quello civilistica. Una tale impostazione, tuttavia, non ha
convinto – come abbiamo già avuto modo di vedere – soprattutto in relazione al fatto che nel diritto
tributario ben possono esistere delle situazioni in cui l’elemento materiale della res sulla quale,
secondo il diritto civile, si eserciterebbe il potere di fatto, non è riscontrabile.
Pertanto tale tesi non sembra convincere neppure coloro i quali, nel tentativo di trovare una pur
minima giustificazione, in un primo momento, avevano fatto riferimento ad una generica signorìa,
tendente all’astrazione, ma subito dopo avevano osservato che una tale idea non avrebbe permesso
di risolvere i problemi di imputazione del reddito al soggetto, che la disciplina del prelievo pone11.
Maggiore consenso ha ricevuto invece la tesi che fa riferimento al concetto di “disponibilità
effettiva” e che lega la situazione giuridica del possesso, rilevante ai fini dell’individuazione del
soggetto passivo, alla “materiale”12 o “concreta”13 disponibilità.
Questa ricostruzione ha trovato conferma nella relazione ministeriale14 all’art. 1 del D.P.R. n.
597 del 1973 nella quale si chiariva che “più che alla titolarità giuridica dei redditi” la norma
dovrebbe riferirsi alla loro “materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta”. In tal modo
risultava un orientamento maggiormente coerente con le scelte del legislatore di sottolineare
9
Vedasi in tal senso FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 784
GALEOTTI FLORI, Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti. Aspetti particolari. Padova, 1983,
117 ss; PIGNATONE, Il possesso dei redditi prodotti in forma associata, in Dir. prat. trib., 1982, I, 632.
11
Così TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, cit., 293
12
Di “materiale disponibilità” parla MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1970, 371; BERLIRI, Il Testo unico
delle imposte dirette, Milano, 1960, 345; CROXATTO, Redditi delle persone giuridiche (imposta su), in Noviss.Dig.It.,
App. VI, Torino, 1986, 417.
13
Cfr. POTITO, L’ordinamento tributario italiano, cit., 181; PUOTI, Imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF,
in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 4; FERLAZZO NATOLI, Il fatto rilevante nel diritto tributario. Contributo
allo studio del “presupposto di fatto” del tributo, in Riv.dir.trib., 1994, I, 454.
14
Relazione ministeriale al decreto istitutivo dell’IRPEF, in boll.trib.inf., 1973, 2022
10
5
l’aspetto descrittivo e casistico nella disciplina dell’elemento materiale del presupposto. Il
fondamento di tale tesi risiedeva nell’idea che il criterio soggettivo di collegamento dovesse riferirsi
al soggetto che godeva del reddito imponibile piuttosto che al titolare della fonte produttiva.
Questa teoria aveva il merito di permettere il superamento della contrapposizione tra la
disponibilità del reddito e la sua titolarità ed offriva una nuova concezione del possesso fondata
sulla titolarità di situazioni giuridiche che conferiscono il potere di godere e di destinare il reddito15.
Con l’approvazione del TUIR sono venute meno le norme del D.P.R. n. 597, nelle quali
frequente era il riferimento alla definizione di “possesso” in termini di disponibilità. Ciò ha
stimolato un ampio dibattito sulla conformità di tale tesi all’ordinamento positivo,16 che ha portato
la dottrina ad elaborare un concetto di “possesso” quale relazione giuridicamente qualificata,
vantata dal soggetto passivo in relazione ad una determinata fonte di reddito, relazione desumibile
dalle norme relative alle categorie di reddito, ferma restando l’irrilevanza delle semplici situazioni
di fatto caratterizzate dal godimento del reddito altrui.
15
FEDELE, “Possesso” di redditi, cit., 128
Per la scomparsa o l’evoluzione di tali disposizioni vedasi TOSI, La nozione di reddito, cit., 45; PAPARELLA,
Possesso di redditi, cit., 128
16
6
Titolarità ingannevole di redditi
La questione del possesso di redditi rileva ai fini della nostra tesi soprattutto in relazione alla
circostanza, che ben potrebbe verificarsi nella prassi negoziale, secondo la quale un soggetto –
titolare soltanto apparente del reddito sottoposto ad imposizione- ponga in essere degli accordi con
altri privati, aventi ad oggetto il pagamento della relativa imposta.
Può accadere, infatti che non ci sia identità tra il possessore effettivo del reddito ed il soggetto
obbligato al pagamento del tributo: in altre parole può accadere che ci sia un titolare meramente
apparente del reddito, il cui effettivo possesso vada invece imputato ad un altro soggetto. Questa
circostanza ha portato una parte della dottrina ad enucleare una teoria della “titolarità ingannevole”
di redditi17, la quale non ha mancato di dare vita anche a nuovi orientamenti giurisprudenziali18. Per
cogliere gli elementi significativi di tale vicenda occorre partire dall’identità dei soggetti che
generalmente ne sono protagonisti, ricostruendola in base alla posizione che ciascuno di essi assume
davanti al fisco.
Innanzitutto può accadere che nel rapporto tra il soggetto passivo -obbligato al pagamento del
tributo per aver posto in essere un determinato presupposto espressivo di capacità contributiva- e
l’amministrazione finanziaria si inserisca un terzo soggetto che assuma la paternità di diritti
esercitati nell’esclusivo interesse del primo, ostentando titolarità non solo di diritti, ma anche di
obblighi di imposta a questi conseguenti (e che non gli competono)19. Qualunque sia la natura degli
17
In proposito vedasi TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, Milano, 1995, 359 ss.
Varie sono le pronunce reperibili in materia di “interposizione ingannevole”: Comm.trib., I grado, Napoli, n.92/1187,
20 dicembre 1993; Comm. Trib., II grado, Napoli, n.910/94, 6 settembre 1994; Comm. Trib., I grado, Ivrea, n.159/95, 3
luglio 1995.
19
Per la comprensione del fenomeno un esempio pratico potrebbe essere di maggiore ausilio. Si pensi pertanto al caso
in cui Tizio, proprietario di un immobile con numerosi inquilini, al fine di ridurre l’incidenza della progressività delle
aliquote sui propri redditi, costituisce sull’immobile in questione usufrutto a favore di Caio, che, a sua volta, possiede
solo redditi esenti o soggetti a ritenuta d’imposta. Caio, come da accordo, gestisce l’immobile riscuotendo i canoni di
locazione; denuncia la titolarità del diritto di usufrutto sull’immobile ed i redditi relativi, nella propria dichiarazione,
pagando le imposte dovute; e quindi rimetta a Tizio l’ammontare complessivo dei canoni percepiti, al netto delle spese,
delle imposte ed, eventualmente, del proprio compenso. In tal modo Caio diviene l’interlocutore del fisco al posto di
Tizio. L’esempio è offerto da TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, cit., 376.
18
7
atti compiuti dal soggetto interposto, egli diventa l’interlocutore del fisco20, in quanto acquista
l’identità del soggetto al quale il reddito deve essere attribuito in forza del criterio d’imputazione
(del “titolo”) previsto nelle varie categorie di redditi, comunicando “ingannevolmente”, attraverso
la dichiarazione dei redditi, di avere la titolarità del diritto. Per l’amministrazione finanziaria è
irrilevante ciò che succede ai due soggetti ed in tal modo la loro autonomia negoziale non viene
incisa dalla disciplina della titolarità ingannevole. Per questo motivo si ritiene che un eventuale
patto di accollo del debito d’imposta -relativo all’esercizio di un diritto la cui titolarità sia
ingannevolmente vantata da un soggetto diverso dall’effettivo titolare- possa ritenersi valido purché
produca effetti meramente interni ai due soggetti, che non coinvolgano l’amministrazione, alla
quale viene comunque assicurato il pagamento del debito d’imposta, fintantoché quest’ultima non
rilevi, attraverso l’attività di accertamento, l’ingannevolezza della titolarità del reddito sottoposto a
tassazione.
Nella formula dell’art. 37 u.c. il soggetto interponente è il “contribuente” e il soggetto interposto
è il “titolare apparente”: è persona interposta soprattutto nel senso che è la persona che si interpone
fra il “contribuente” e l’amministrazione finanziaria. Qualunque sia lo schema negoziale con cui si
realizza l’interposizione21, occorre identificare il reddito il cui possesso è occultato al fine di
rilevare un’eventuale illegittimità del patto di accollo d’imposta posto in essere da un soggetto che
non sia l’effettivo possessore. In primo luogo è necessario che si tratti di un reddito classificato
nelle categorie previste dalla legge; in secondo luogo deve trattarsi di un reddito del quale il
contribuente
“interponente”occulti
il
possesso,
ma
del
quale
altri,
“interposto”ostenti
ingannevolmente la titolarità. Infatti qualora questa forma di occultamento/ostentazione manchi, la
fattispecie dell’interposizione negoziale non può sussistere.
20
Questa posizione dell’interposto è prospettata da TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, Milano,
1995, 376; CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 207.
21
Si può infatti introdurre una variante al precedente esempio. Si pensi al caso in cui effettivo possessore del reddito
fondiario non sia Tizio, costituente il diritto di usufrutto, ma un terzo soggetto: Nevio. In questo caso il contribuente,
effettivo possessore è Nevio; mentre Caio è il soggetto che si interpone tra Nevio e l’amministrazione finanziaria. Così
TABELLINI, Libertà negoziale ed elusione d’imposta, cit., 378, il quale ritiene che in realtà l’espressione “interposta
persona” contenuta nell’art.37, 3°comma, evochi non tanto degli schemi interpositori di tipo privatistico, ma più
semplicemente la persona che, non importa a quale titolo, si interpone fra il soggetto passivo (contribuente) ed il, fisco,
assumendo la titolarità di redditi e di obblighi che invece competono al primo.
8
Per identificare l’effettivo possessore del reddito, capace di concludere accordi con altri privati
aventi ad oggetto l’accollo del debito d’imposta, occorre un ‘efficace azione accertatrice finalizzata
a ristabilire quel corretto rapporto che, mancando l’interposizione, sarebbe sussistito fra ciascuno
dei soggetti considerati, da una parte, e l’amministrazione finanziaria, dall’altra. La Corte
Costituzionale22, in proposito, sottolinea la necessità che la capacità contributiva -intesa come
idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta- sia rilevata dal presupposto al quale la sua
prestazione è collegata e pertanto il riferimento di tale presupposto alla sfera dell’obbligato deve
risultare da un collegamento effettivo,23 verificato attraverso i criteri legali d’imputazione previsti
nelle varie categorie di redditi. La corretta applicazione di tali criteri, pena l’illegittimità
costituzionale dei medesimi, deve produrre l’effetto di imputare il reddito al soggetto che ha
manifestato la relativa capacità contributiva e che ne è possessore in quanto ne ha l’effettiva
titolarità. In questo modo il “possessore” si identifica con i “titolari” dei redditi previsti nelle varie
categorie. Se dunque il fine della “titolarità ingannevole” è quello di distinguere l’identità del
“titolare” del reddito da quella del soggetto che, dello stesso reddito, si è effettivamente arricchito,
l’attività
accertatrice dell’amministrazione finanziaria è invece diretta a ricomporre tale
dissociazione. Pertanto la “titolarità” del reddito diventa solo apparente -perché preordinata ad una
fuorviante rappresentazione della realtà- e la mera “appartenenza”24 della titolarità è provata
dall’esistenza di un altro soggetto che risulta l’effettivo possessore del reddito.
22
Cost., 26 giugno 1965, n.50, in DE MITA, Fisco e costituzione, I, 207. Sul principio di capacità contributiva, in
relazione al requisito dell’effettività, cfr. anche Cost., 28 luglio 1976, n.200, DE MITA, Fisco e costituzione, I, 483490, nonché Cost., 12 luglio 1967, n.109, in Riv.dir.fin., 1967, II, 224, con nota di MAFFEZZONI, Della presunzione di
esistenza di gioielli, denaro e mobilia sull’applicazione dei tributi successori. Vedasi inoltre TOSI, Il requisito di
effettività, in La capacità contributiva, 101.
23
Vedasi par. 3.1. della presente trattazione nel quale è analizzata la fattispecie del collegamento soggettivo che deve
necessariamente sussistere tra il presupposto economico manifestativo di capacità contributiva, posto in essere dal
soggetto passivo e la corrispondente prestazione pecuniaria imposta dalla legge.
24
Cfr. FALZEA, Voci di teoria generale, Milano, 1985, 95 ss e 101 ss
9
3.
L’evasione fiscale: cenni
Nel nostro ordinamento manca una specifica nozione legale di evasione fiscale, tuttavia non si
può negare che tale fattispecie ricorre ogni qual volta si è in presenza di una violazione che
comporti sottrazione di materia imponibile al prelievo25. In primo luogo si può pertanto affermare
che l’evasione presuppone un comportamento illecito del soggetto tenuto al pagamento del tributo e
che contro di essa l’ordinamento reagisce con l’irrogazione di una sanzione e con il recupero del
tributo. In tal modo la fattispecie dell’evasione tributaria si sostanzia di “qualsiasi fatto, commissivo
od omissivo, del soggetto passivo dell’imposizione che, pur avendo posto il essere il presupposto
del tributo, si sottrae ai connessi obblighi previsti dalla legge”26. La violazione del principio di
solidarietà, che il reato di evasione comporta, è imputabile sia alla scarsa coscienza civica del
contribuente, sia all’elevatezza della pressione fiscale che può trasformare il tributo in uno
strumento economico-giuridico d’espropriazione.
Data l’assenza nel nostro ordinamento di una definizione legislativa di evasione tributaria, tale
concetto appare in stretta connessione e dipendenza con le concrete ipotesi sanzionate dal
legislatore. Infatti tale concetto assume rilievo nell’ambito tributario in dipendenza ad un
comportamento illecito del contribuente cui è ricollegata l’applicazione di una sanzione penale o
amministrativa. Al di là di singole ipotesi previste espressamente dalla legge27 è possibile tentare di
25
Cfr.ARENA, Evasione dell’imposta e perequazione tributaria, in Riv.Guardia Fin., 1954, 453; SPINELLI, Norme
generali per la repressione della violazione delle leggi finanziarie, Milano, 1957; GROSSO, L’evasione fiscale, Torino,
1980; GIULIANI, Violazione e sanzione delle norme tributarie, Milano, 1981; LOVISOLO, L’evasione e l’elusione
tributaria, in Dir.prat.trib., 1985, I, 1198 ss; SANTAMARIA, La frode fiscale, Milano, 1987; CIPOLLINA, Elusione
fiscale, in Riv.dir.fin., 1988, I, 122; ANTONINI, Evasione ed elusione d’imposta (Gli atti simulati e le imposte di
registro e delle successioni), in Giur.it., 1959, IV, il quale opera una distinzione tra il comportamento di colui che
impedisce “la nascita della fattispecie e la conoscenza della stessa agli organi dell’Amministrazione finanziaria”, da
quello di colui che sottrae all’azione di questa determinati beni su cui potrebbe essere soddisfatto, in caso d’insolvenza,
il già sorto credito d’imposta”, identificando il primo con l’elusione ed il secondo con l’evasione.
26
La definizione è di LOVISOLO, voce Evasione ed elusione tributaria, in Enc.giur.Treccani, VI, 5.
27
Ad esempio, l’art.56, 4° comma, D.P.R. n. 600 del 1973 (prima di essere abrogato dall’art. 13 L. n. 516/1982)
disciplinava l’ipotesi di “evasioni d’imposta per un ammontare complessivo eccedente i cinque milioni”, riducendosi la
sanzione penale applicabile in caso di “evasione d’imposta di speciale tenuità”. In proposito l’art. 291 del t.u. 23
gennaio 1973, n. 43 commisura l’entità della sanzione per il reato di contrabbando nell’importazione o nell’esportazione
temporanea all’ammontare dei “diritti evasi o che si tentava di evadere”. Così LOVISOLO, Evasione ed elusione
tributaria, in Enc.giur.Treccani, XIII, 6
10
ricostruire un nucleo comune alle varie ipotesi di “evasione” previste dal legislatore osservando che
tale fattispecie è in ogni caso riconnessa alla violazione della norma tributaria, anche se la reazione
dell’ordinamento al fenomeno in questione non è sempre la stessa, ma è graduata in relazione alla
gravità della violazione di legge e all’entità del mancato pagamento del tributo.
Accanto ad ipotesi in cui l’applicazione della sanzione è collegata alla violazione della norma
tributaria a prescindere dall’effettiva sottrazione di materia imponibile o comunque del mancato
pagamento del tributo, vi sono alcuni casi di evasione tributaria per i quali l’ordinamento non
prevede l’irrogazione di alcuna sanzione.28
In realtà oggi, in seguito ad alcune modifiche normative29, la non punibilità ai fini
amministrativi del fatto costituente evasione fiscale è demandata all’apprezzamento del giudice,
quando la violazione è giustificata da “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito
di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.30 Tale intervento è stato inoltre esteso e
generalizzato ad ogni tributo rientrante nella sfera di competenza delle Commissioni tributarie,
essendo in precedenza previsto per le singole imposte.31
La fattispecie dell’evasione tributaria assume una particolare rilevanza ai fini della nostra tesi in
quanto lo scetticismo con il quale furono accolti, in principio, i patti di accollo d’imposta si fondava
proprio sul timore che i privati, attraverso tali tipi di accordi, potessero sottrarsi all’obbligo
contributivo. Per questo motivo la giurisprudenza e la dottrina, in un primo momento, avevano
assunto una posizione di netta chiusura e di rigidità nei confronti di tali tipi accordi. Con il passare
del tempo (come abbiamo avuto modo di vedere nel corso della nostra trattazione) si è assistito ad
un mutamento di orientamenti e, sulla preoccupazione che tale strumento concesso all’autonomia
28
Come avviene in alcune ipotesi regolate dal t.u. 23 gennaio 1973, n. 43 sulle leggi doganali (artt. 310 e 314), in
relazione alle differenze di lieve entità fra quantità di merce esportata o importata temporaneamente
29
In particolare, l’abrogazione dell’art. 245, 2° comma, del t.u. 29 gennaio 1958, n. 645 sulle imposte dirette, che
prevedeva la non applicazione della soprattassa quando l’infedeltà della dichiarazione dipendeva dall’indetraibilità di
spese, passività ed oneri
30
Art. 39 bis D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 636, nel testo integrato dal D.P.R. 3 novembre 1981, n. 739
31
Art. 55, 1° comma, D.P.R. del 29 settembre 1973, n.600 ai fini delle imposte IRPEF e IRPEG e art. 48, u.c., D.P.R.
del 26 ottobre 1972, n. 633, ai fini IVA
11
dei privati potesse permettere la realizzazione di un illecito, è prevalsa la necessità di regolare un
fenomeno ormai ampiamente diffuso nella prassi contrattuale.
12
Rapporti tra patti traslativi di tributi e fattispecie evasive
Una delle principali ragioni che spingevano la dottrina e la giurisprudenza meno recenti a negare
legittimità ai patti di accollo d’imposta era data dal fatto che si pensava che attraverso tali accordi i
privati potessero sottrarre, in maniera più o meno esplicita, materia imponibile al fisco e dunque
realizzare un illecito tributario sanzionato dall’ordinamento.
Quest’impostazione, coma abbiamo già avuto modo di vedere, era il frutto di un’interpretazione
eccessivamente rigida dell’art. 53 Cost, che poneva il principio di capacità contributiva come
criterio di guida non solo dell’azione dell’amministrazione finanziaria nell’individuazione dei
soggetti passivi del tributo e dunque nella ripartizione dei carichi pubblici tra i consociati, ma anche
del comportamento dei privati nell’esercizio dell’autonomia privata e dunque nella prassi negoziale.
L’interpretazione in chiave meramente imperativa del principio di capacità contributiva
richiedeva che solo ed esclusivamente il soggetto, il quale avesse posto in essere il presupposto di
fatto manifestativo di capacità contributiva, potesse essere chiamato a corrispondere all’erario la
somma corrispondente dovuta a titolo d’imposta. Non vi era dunque spazio per un eventuale
accordo tra privati comportante il trasferimento dell’onere tributario da un soggetto ad un altro, in
quanto si riteneva che esso fosse nullo ex art 1418 c.c. per contrasto con l’art. 53 Cost. La causa di
una tale impostazione dottrinaria e giurisprudenziale, riguardante il principio di capacità
contributiva, risiedeva proprio nella preoccupazione che i contribuenti, attraverso una serie di
trasferimenti, peraltro sempre più frequenti nella prassi, potessero realizzare lo scopo di evadere
l’obbligo tributario.
Successivamente si è verificato un mutamento in dottrina ed in giurisprudenza, le quali hanno
sono giunte ad ammettere la legittimità di un patto di accollo d’imposta tra privati purchè si tratti di
un accollo di tipo meramente interno, nel quale l’accordo tra debitore e accollante non è manifestato
al creditore che rimane estraneo rispetto al rapporto. In tal modo al fisco viene comunque assicurato
13
il quantum d’imposta dovuto e non sarebbe configurabile un’ipotesi di evasione fiscale, data la
mancata liberazione dell’accollante che rimane obbligato nei confronti del fisco.
Non appare pertanto giustificata la tesi, peraltro superata sia in dottrina che in giurisprudenza,
che lega il divieto di patti di accollo ad esigenze di certezza nella riscossione ed al pericolo che tali
negozi possano essere un mezzo per evadere l’obbligo tributario, che rimane comunque in capo al
contribuente originario anche quando quest’ultimo si sia accordato con un altro soggetto, il quale
volontariamente accetta di accollarsi il relativo onere economico.
14
4.
La nozione di elusione fiscale
Il fenomeno dell’elusione fiscale ricorre ogniqualvolta il soggetto, pur non realizzando la
fattispecie prevista dalla legge tributaria, ottiene, in altro modo, il medesimo risultato economico
che la legge intendeva assoggettare ad imposizione o un risultato economico equivalente. Dunque
l’elusione tributaria consiste nell’evitare -in tutto o in parte- l’obbligo d’imposta senza violare la
legge tributaria e si sostanzia nello sfruttamento dei vuoti lasciati dalle norme d’imposizione32.
Attraverso di essa il contribuente si sottrae all’obbligo del pagamento del tributo senza violare la
legge e, pertanto, senza incorrere in alcuna sanzione da parte delle autorità, modificando le sue
scelte con il fine di rendere minimo l’onere dell’imposta33.
Tale fattispecie si differenzia dalle altre ipotesi definite dalla dottrina economica “reazioni
passive” al tributo34, quali il risparmio d’imposta, la rimozione negativa, l’evasione, l’erosione e
l’insolvenza d’imposta. Il comportamento elusivo e generalmente caratterizzato dall’intento unico e
dominante di risparmiare l’imposta e dal fatto di costituire un comportamento anormale rispetto a
quelli solitamente adottati nelle medesime condizioni per il perseguimento di un risparmio
d’imposta né previsto né consentito dal legislatore35. Disposizioni che consentissero di distinguere
tra elusione legittima e illegittima -in quanto contrastante con i principi generali- o che indicassero
la reazione dell’ordinamento nel caso di violazione di principi del sistema non erano presenti nel
nostro ordinamento fino a poco tempo fa36. In mancanza di validi ed espressi riferimenti normativi
si tentò di fare riferimento agli strumenti previsti dal codice civile per le ipotesi di abuso degli
strumenti negoziali e della legge. In tal modo sono stati considerati dei mezzi per il conseguimento
32
Così LOVISOLO, voce Evasione ed elusione tributaria, in Enc.giur.Treccani, VII, 2
Vedasi COSCIANI, Scienza delle finanze, Torino, 1996, 167, il quale ritiene che attraverso lo strumento dell’elusione
il contribuente persegua il fine di minimizzare il peso dell’onere impositivo “distorcendo” le sue scelte senza dar luogo
a processi di traslazione.
34
Così FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 159; STEFANI, Corso di finanza pubblica, Padova, 1972, 273 ss;
COSCIANI, Scienza delle finanze, Torino, 1977, 117 ss.
35
BLUMENSTEIN, Sistema di diritto delle imposte, trad.italiana, Milano, 1954, 25 ss; HENSEL, Diritto tributario,
trad. italiana, Milano, 1956, 112 ss; COSCIANI, Scienza delle finanze, Torino, 1977, 117 ss.
36
Così RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass.trib., 1999, 72
33
15
del risparmio d’imposta da parte del contribuente i negozi indiretti37, i negozi simulati38, i negozi in
frode alla legge39, i negozi in frode al fisco40. In realtà l’utilizzo di tali strumenti non permetteva al
fisco il raggiungimento del suo scopo: impedire la creazione di situazioni “elusive” in capo al
contribuente. Ciò avveniva, o meglio, non avveniva in primo luogo perché il comportamento del
soggetto passivo era voluto e non simulato; in secondo luogo perché dall’accertamento della
contrarietà di tale fattispecie alla legge civile non derivava una sua differente qualificazione sul
piano fiscale tale da permettere una tassazione conforme a sistema; infine perché il divieto posto
dall’art. 1344 c.c., avente ad oggetto contratti contrari a norme imperative, impedisce che i privati
realizzino per via indiretta delle pattuizioni vietate in funzione di interessi meritevoli di tutela
rispetto ai quali tuttavia è diverso l'
interesse del fisco ad una corretta attuazione del principio di
capacità contributiva.
L’impossibilità di giungere ad una legittima imposizione attraverso un’interpretazione, sia pure
analogica ed estensiva41 delle fattispecie considerate e la considerazione della natura derogatoria e
dunque strettamente interpretativa delle norme antielusive presenti nel sistema, hanno spinto il
legislatore ad introdurre una norma antielusiva di carattere generale, per la verità contrastata da una
parte della dottrina42.
37
Cfr. BIAMONTI, Negozio simulato e negozio indiretto nel diritto tributario, in Dir.prat.trib., 1970, II, 460;
DOLFIN, Negozio indiretto e imposta di registro, in Giur.it., 1978, I, 2, 99.
38
Ai fini dell’imposta di registro, in particolare, è tale la qualificazione a volte preferita dalla giurisprudenza: vedasi in
proposito Cass, 27 luglio 1982 n. 4328, in Dir. prat. trib., 1983, II, 665, con nota di VIGLIOTTI, Simulazione ed
elusione fiscale. La distinzione tra negozi simulati ed elusione è offerta in dottrina da DAL PIAZ, Aspetti del problema
della simulazione in materia tributaria, in Temi trib., 1959, 330; ANTONINI, Gli atti simulati e l’imposta di registro e
delle successioni, in Giur.it., 1959, IV, 97; BATISTONI FERRARA, Gli atti simulati ed invalidi nell’imposta di
registro, Napoli, 1969; PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 297.
39
Il tema dell’applicabilità al negozio elusivo dell’art.1344 c.c. sarà oggetto di una più ampia analisi nel prosieguo della
nostra trattazione. Per il momento appare opportuno segnalare la diversa posizione assunta dalla dottrina in merito: in
senso favorevole cfr. GALLO, Elusione risparmio d’imposta e frode alla legge, in Giur.Comm., 1989, I, 377;
40
Vedasi SANTONASTASO, I negozi in frode alla legge fiscale, in Dir. prat. trib., 1970, I, 505; VERDE, Frode alla
legge e fisco: uno spunto da una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione in tema di applicabilità
dell’art.1344 c.c., in Dir. prat. trib., 1990, II, 77.
41
Vedasi in proposito RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. Trib., 1999, I, 79 e Manuale,
parte generale, Milano, 2000, 97 ss.
42
Cfr. FANTOZZI, L’esperienza italiana, in DI PIETRO (a cura di ), L’elusione fiscale nell’esperienza europea,
Milano, 1999, 254, nel quale sono esposte le motivazioni che in passato si opponevano all’introduzione di una norma
antielusiva di portata generale ed il mutamento di tendenza dell’ultimo periodo.
16
In primo luogo è stata prevista la possibilità, nell’art. 37, 3° comma del D.P.R. n. 600/197343, per
il fisco di imputare al contribuente “i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia
dimostrato anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che egli ne è l’effettivo
possessore per interposta persona”. In realtà tale disposizione, nonostante la sua valenza generale, si
applicherebbe soltanto ai casi di interposizione fittizia e non reale44 e rimarrebbe relegata all’ambito
della simulazione45 senza apportare significative innovazioni al sistema precedente.
In un successivo momento altri interventi del legislatore hanno riguardato il fenomeno, assai
frequente nella prassi, di elusione illegittima nel reddito d’impresa ed in particolare nelle operazioni
societarie, attraverso elaborati schemi di pianificazione finanziaria internazionale46. In realtà una
vera e propria clausola antielusiva è stata introdotta solo con il D.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, anche
questo relativo alle operazioni societarie, che ha introdotto nel D.P.R. 600/1973 un nuovo art. 37 bis
intitolato “Disposizioni antielusive”.47
Questa disposizione ha il merito di porre rimedio, in termini generali al problema dell’elusione
rendendo in opponibili all’amministrazione finanziaria “gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati fra
43
L’intervento legislativo di riforma, operato su tale disposizione, è compiutamente trattato in PAPARELLA, Possesso
di redditi ed interposizione fittizia, cit., passim.
44
Per la giurisprudenza cfr. Cass., 26 gennaio 2000, 3979, in Rass.trib., 2000, 917, con commento di NUZZO, Il
dividend washing tra la cessione temporanea di titoli azionari e l’usufrutto di azioni, e di PICCONE FERRAROTTI,
Sull’applicabilità dell’art.37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 al cosiddetto dividend washing. La sentenza è stata
inoltre commentata da PAPARELLA, Finalmente la Cassazione mette la parola fine alla questione del campo di
applicazione dell’art.37, 3°comma, del D.P.R. 600/1973, nonché da DUS, Dividend washing, Corte di Cassazione e
profili di illegittimità della tesi del Secit, entrambi su Rass. Trib., 2000, 1267.
45
Per la dottrina vedasi GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. prat. trib., 1992, I,
1761; Trusts, interposizione ed elusione fiscale, in Riv. Dir.trib., 1996, 1043; MAGNANI, Commento all’art.30 del D.
L. n. 69/1989, in Le nuove leggi civili comm., 1990, 1247; LA ROSA, Prime considerazioni sul diritto di interpello, in
Il fisco., 1992, 7947; PAPARELLA, Compenso agli amministratori ed abuso della disposizione in materia di
interposizione fittizia di persona, in Riv. Dir. trib., 1995, I, 93; Trusts ed interposizione di persona nella disciplina delle
imposte dirette, in Il fisco, 1996, 4812; FIORENTINO, L’elusione tributaria, Napoli, 1996, 112. In senso contrario
LOVISOLO, Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Dir. prat. trib., 1993, I, 1665.
46
Una prima norma antielusiva è stata introdotta con l’art. 10 della L. n. 408 del 1990, poi modificata con la L. 23
dicembre 1994, n. 724. Nella redazione di tali testi legislativi il legislatore nazionale ha fatto riferimento, in tema di
elusione tributaria, all’esperienza dei paesi stranieri. Per una conferma di ciò vedasi CORASANITI, La disciplina
dell’elusione internazionale nell’ordinamento federale tedesco, in Studi in onore di Victor Uckmar, I, Padova, 1997,
269; PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995, 67.
47
In LUPI, Elusione fiscale: modifiche normative e prime sviste interpretative, in Rass. Trib., 1995, 414 è presente la
distinzione tra norme correttive con finalità antielusive e norme antielusive in senso stretto. Le prime, secondo l’A., non
potrebbero essere considerate norme “antielusione” in senso tecnico, anche se dotate di finalità antielusive, perché
inidonee ad impedire l’operazione di strumentalizzazione da parte dei contribuenti, ma semplicemente correttive delle
norme che venivano strumentalizzate. Le norme antielusione in senso stretto invece sarebbero dirette ad impedire tale
strumentalizzazione, lasciando intatta la normativa preesistente, ma impedendo che il contribuente la strumentalizzi,
cioè si approfitti delle sue imperfezioni. Ad avviso dell’A., l’unica norma antielusiva in senso tecnico sarebbe offerta
dall’art. 10 della L. n. 408/1990.
17
loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti
dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni d’imposte o rimborsi altrimenti indebiti”. In tal
modo il legislatore pone delle condizioni48 –che si ritiene debbano sussistere congiuntamenteaffinché l’amministrazione finanziaria riscontri un’ipotesi di elusione fiscale e dunque disconosca i
vantaggi tributari conseguiti applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse al
netto di quanto già pagato in base al comportamento elusivo49.
Nonostante il legislatore abbia voluto attribuire all’art. 37 bis una generale portata antielusiva,
riconosciuta anche dalla dottrina,50 alcune perplessità suscita il 3°comma, il quale subordina
l’applicabilità dei primi due commi all’effettuazione di una o più operazioni elencate nella
disposizione medesima. Ciò condurrebbe a ritenere che in realtà si dovrebbe parlare, più che di una
clausola generale, di una norma dalla portata assai ampia, tale da ricomprendere quasi interamente
le ipotesi di elusione conosciute dal nostro ordinamento51.
48
I requisiti necessari affinché si possa parlare di elusione tributaria sono: a) che il risultato complessivo sia un
vantaggio fiscale indebito in quanto previsto e voluto dal contribuente; b) che vi sia un aggiramento di obblighi e di
divieti : dunque una deviazione non necessariamente fraudolenta, cioè commessa con artifici e raggiri, rispetto al
percorso normale; c) che infine gli atti e in fatti siano privi di valide ragioni economiche, cioè siano posti in essere in
assenza di ragioni economiche apprezzabili in capo al contribuente. Cfr. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003,
163.
49
Una posizione critica sulla conformità di tale norma al principio della riserva di legge è offerta da RUSSO, Manuale
di diritto tributario, Milano, 2000, 223, il quale ritiene che il comportamento contra legem e dunque illegittimo del
contribuente debba sì essere soggetto a sanzioni, ma che queste –pur concretandosi in prestazioni coattive a carico del
soggetto passivo- non siano sufficientemente determinate dal punto di vista giuridico, come richiederebbe invece il
principio posto dall’art. 23 Cost.
50
Così PICCONE FERAROTTI, Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta all’art. 7 del D.L.vo n. 358/97, in
Rass.trib., 1997, 1151; GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. Trib., 2000, 326; NUSSI, Elusione tributaria
ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, I, 403;
GARCEA, Il legittimo risparmio d’imposta, Padova, 2000, 34.
Contra ZIZZO, Prime considerazioni sulla disciplina antielusione, in MICCINESI (a cura di), Commento agli
interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 435.
51
In particola re la dottrina sottolinea come tale norma resti pur sempre limitata entro confini ben precisi del settore
impositivo ed come essa operi sotto il profilo della “preselezione normativa”delle operazioni suscettibili di utilizzo
strumentale al fine di conseguire vantaggi fiscali. Così RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte generale. Milano,
2002, 220 ss; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 229; ZIZZO, Prime considerazioni, cit.,
437; PICCONE FERRAROTTI, Riflessioni sulla norma antielusiva, cit., 1173; FANTOZZI, Diritto tributario, Torino,
2003, 164.
18
Facoltà di scelta e risparmio d’imposta in connessione con fattispecie
di accollo d’imposta
L’onerosità e la gravosità dell’obbligazione tributaria spinge il contribuente ad assumere
comportamenti che lo espongono al minor sacrificio possibile. Tale obiettivo può essere raggiunto
astenendosi del tutto dal causare il prelievo oppure scegliendo, tra più soluzioni economicamente
compatibili con il risultato voluto, la meno onerosa.
L’inclinazione verso il minore sacrificio, cui è propenso l’uomo in quanto soggetto economico52
si risolve in un maggiore risparmio d’imposta. In caso contrario il contribuente non potrebbe essere
considerato un “amministratore prudente delle proprie e delle altrui sostanze”53
Una manifestazione evidente di questo fenomeno si può avere osservando la posizione
dell’amministratore di una società in relazione al ventaglio di scelte che gli offrono le norme sulla
determinazione del reddito d’impresa. Infatti una volta rispettate alcune condizioni fondamentali quali il divieto di sottrarre materia imponibile al prelievo, procrastinarne gli effetti od abusarne dei
favori- il sistema offre una serie di opzioni ciascuna delle quali può comportare dei risparmi
d’imposta rilevanti sotto il profilo finanziario54.
52
SMITH, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, trad. Campolongo, intr. Graziani, Rist.,
Torino, 1965, 754.
53
Cfr. TABELLINI, “L’elusione fiscale”, Milano, 1988, 15; GOTHOT, Conference pronouncé a l’Ecole Supèrieure
Fiscales, le 3 mars 1962, in The Business Pur pose Test and Abuse of Rights, in Dir.prat.trib., I, 1985, 1224, il quale
afferma che la scelta fatta dal contribuente altro non sarebbe che l’uso della libertà data ai cittadini dal diritto civile e
dalla costituzione di fare tutto ciò che non è vietato. Pertanto non sarebbe vietato di evitare una situazione in cui
l’imposta è dovuta. Secondo l’A. il desiderio di evitare l’imposizione è normale e sarebbe persino inconcepibile che il
contribuente possa avere un atteggiamento diverso, che non lo configurerebbe come un “uomo prudente”
nell’amministrazione del proprio patrimonio.
54
In particolare, mentre al soggetto passivo di norma è vietato neutralizzare o ridurre l’incidenza della maggior parte
degli elementi positivi o viceversa aumentare quella dei componenti negativi, gli è espressamente consentito anticipare
o differire l’incidenza di alcuni componenti positivi e non gli è vietato di ridurre o annullare una parte dei componenti
negativi. Inoltre tale facoltà di scelta non può ritenersi limitata dalla “indeducibilità” negli esercizi successivi del costo,
dell’onere o della spesa non dedotti in quello di competenza o dedotti in misura inferiore a quella consentita. Esistono
infatti altre soluzioni che permettono un ampio spazio di manovra senza implicare alcuna “indeducibilità” successiva: si
pensi a plusvalenze diluibili nel decennio ed a sopravvenienze accantonabili o ad ammortamenti di beni materiali e
immateriali, di spese per studi e ricerche, di spese di pubblicità, nonché di altri costi ad utilizzazione pluriennale. Così
TABELLINI, L’elusione fiscale, Milano, 1988.
19
Varie sono anche le soluzioni offerte al risparmiatore od al consumatore per conseguire un
(lecito) risparmio d’imposta. Rientra innanzitutto nel campo della liceità la facoltà di scegliere
forme d’investimento più vantaggiose di altre in funzione del relativo prelievo fiscale. Sembra
infatti che sia proprio l’ordinamento ad orientare i comportamenti del soggetto passivo verso
determinate forme di risparmio d’imposta, in funzione di programmi di politica fiscale o di politica
economica55.
D’altra parte le forme più diffuse di elusione sembrano derivare proprio dall’attività negoziale
dei privati. La nuova norma antielusiva56conferma che il fenomeno elusivo non deriva di solito da
un atto puntuale bensì da una concatenazione di atti tra loro collegati.
Alcuni osservano che la normativa previdente poteva dare l’erronea impressione che l’elusione
fosse il risultato di singole operazioni, come trasformazioni, fusioni, conferimenti, e che non si
dovesse guardare il disegno complessivo realizzato dal contribuente.57 In realtà occorre avere ben
presenti gli avvenimenti anteriori e successivi all’operazione accusata di elusività, altrimenti
risulterebbe alquanto difficile verificare se ci sono stati eventuali salti d’imposta o doppie
imposizioni e se l’obiettivo era quello di cogliere un legittimo beneficio o evitare il pagamento di
un’imposta considerata troppo gravosa.
Il comma 1 dell’art. 37 bis fa riferimento a vantaggi fiscali ottenuti tramite atti, fatti e
procedimenti anche tra loro collegati.
Il risparmio, perseguito legittimamente dal privato, può avere ad oggetto anche l’imposta
relativa ad un patto di accollo.
55
In tal senso vedasi COSCIANI, Principi di scienza delle finanze, Torino, 1953, 105 e 567; GRIZIOTTI, Saggi sul
rinnovamento dello studio della scienza delle finanze e del diritto finanziario, Milano, 1953, 371 ss; STEVE, Lezioni di
scienza delle finanze, Padova, 1972 , VI, 257; PARRAVICINI, Scienza delle finanze, Milano, 1975, 224.
56
Art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, inserito dal decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358, che ha modificato
profondamente la norma antielusiva in precedenza contenuta nell’art. 10 della L. 408/1990
57
Questo è l’errore in cui cadde il SECIT, aspramente criticato da LUPI, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella
nuova normativa, in Rass. Trib., 1999, 1105 il quale ritiene difficile, se si considera isolatamente una fusione, una
trasformazione, una cessione di crediti, una valutazione di partecipazioni o un’altra delle operazioni indicate dall’art. 10
della L. n. 408/1990, stabilire se si è verificato un vantaggio fiscale, se il contribuente abbia fatto ricorso ad una
costruzione giuridica artificiosa rispetto a quella “normale”, se il comportamento tenuto fosse o meno giustificato da
ragioni imprenditoriali.
20
A questo punto risulta interessante chiedersi se nell’ambito dell’attività consensuale dei privati
sia possibile conseguire un risparmio d’imposta attraverso dei patti di accollo. Data la definitiva
legittimazione di tali tipi di accordi, avvenuta dapprima ad opera della dottrina e della
giurisprudenza e successivamente a livello normativo con l’emanazione dello Statuto dei diritti del
contribuente, la questione da risolvere appare essere piuttosto se attraverso queste fattispecie
contrattuali il contribuente possa conseguire un risparmio d’imposta “patologico” e quindi elusivo
ovvero un risparmio d’imposta fisiologico il quale può essere effettuato in piena liceità, senza
doversi giustificare con vere o presunte “valide ragioni economiche”. In quest’ultimo caso il
contribuente si limita ad “usare” la legislazione vigente, mentre nel caso del risparmio patologico vi
è un abuso da parte del contribuente, che trasforma delle incompletezze o dei difetti del sistema in
vantaggi personali che, pur formalmente legittimi, risultano tuttavia inopportuni.
La dottrina58 propone dei criteri per distinguere un lecito risparmio d’imposta dall’elusione.
Innanzitutto occorre chiedersi se la normativa applicata dal contribuente si colloca nel sistema su un
piano di parità rispetto ad altre normative che portano a risultati equivalenti. In secondo luogo
occorre chiedersi se i vantaggi fiscali perseguiti, benché non illegittimi, non incontrino tuttavia
l’approvazione del sistema fiscale nel suo complesso, cioè siano valutati negativamente. Con
riguardo al primo criterio assume rilevanza la collocazione nell’ordinamento della normativa
utilizzata in quanto normalmente il fisiologico risparmio d’imposta si collega all’utilizzazione di
una normativa posta sullo stesso piano di altri strumenti giuridici utilizzabili, tra i quali il
contribuente può scegliere anche in base al minor costo fiscale. Si pensi ad esempio
all’effettuazione di una cessione di azienda piuttosto che una cessione di quote oppure al
finanziamento dell’impresa con capitale proprio piuttosto che con capitale di prestito. I regimi
giuridici su cui si fondano tali comportamenti sono pienamente legittimi all’interno del nostro
ordinamento. Alcuni sono certamente più onerosi rispetto ad altri, ma d’altra parte nel sistema
fiscale non è prescritto l’obbligo di seguire sempre la strada fiscalmente più onerosa.
58
Così LUPI, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa, in Rass. Trib., 1999, 1100
21
Sono pertanto fisiologici i risparmi dovuti a regimi posti dall’ordinamento su un piano di pari
dignità rispetto ad altri regimi più onerosi. L’elusione, che costituisce un risparmio “patologico”,
deriva invece da disposizioni, spesso lacunose, riguardanti casi particolari.
Ferma restando la validità di tale principio, esistono tuttavia delle eccezioni perché qualche
volta l’elusione può verificarsi anche quando il contribuente adotta regole tributarie istituzionali e
fisiologiche al sistema. Ciò può accadere quando il contribuente combini due o più regimi fiscali
istituzionali in modo da ottenere un risultato distorsivo. Si ritiene che sia questo il motivo per cui
nella nuova normativa ci sia il riferimento ad atti “collegati tra loro”, dovendo in tal caso rilevare
non tanto la singola operazione elusiva quanto il “disegno elusivo” nella sua interezza.
In questo caso l’indizio rivelatore dell’elusione è il conseguimento di un risultato
sostanzialmente disapprovato dal sistema fiscale. Questa disapprovazione può essere espressa
indirettamente attraverso divieti dettati per fattispecie contigue a quelle poste in essere dal
contribuente.
Nell’analizzare i rapporti tra patti di accollo e risparmi d’imposta occorre dunque verificare
quali siano i casi in cui si possa parlare di un legittimo e fisiologico risparmio, in questo caso
l’ordinamento non impedisce che l’autonomia privata si spinga al punto di consentire al
contribuente (accollante) un vantaggio fiscale non vietato dall’ordinamento.
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5. Conclusioni
Da quanto appena detto ci pare di poter escludere, in ultima analisi che dagli accordi tra privati
aventi ad oggetto l’accollo dell’onere tributario da parte di un soggetto diverso dal titolare della
capacità contributiva possa derivare un comportamento evasivo del contribuente, il quale, come
abbiamo avuto modo di vedere rimane comunque assoggettato ad imposizione per le somme
ulteriori percepite a titolo di rimborso per il pagamento dell’imposta ed incluse nel corrispettivo
contrattuale.
Non sembra pertanto che si possa accogliere la tesi che individua nell’evasione fiscale la ragione
per la quale i patti sull’imposta furono inizialmente considerati nulli. In realtà appare opportuno,
come abbiamo avuto modo di osservare, non commettere l’errore di confondere la questione della
liceità dei patti di accollo d’imposta con la questione della liceità della condotta del soggetto. Se
infatti il contribuente, attraverso l’utilizzo di uno strumento consentito dall’ordinamento, quale
appunto i patti sull’imposta, si sottrae all’obbligo del pagamento del tributo, l’illiceità deve essere
attribuita alla condotta del soggetto e non all’accordo dei privati, di per sé lecito.
Con riferimento al fenomeno dell’elusione la conclusione alla quale sembra di poter giungere è
quella secondo la quale che ciò che rileva al fine di scorgere un’eventuale illegittimità dei patti
sull’imposta è piuttosto il fine che il contribuente vuole, attraverso di essi, perseguire. Ciò
permetterà di distinguere l’ipotesi in cui i privati si accordino per realizzare un risparmio d’imposta
“patologico” nel quale vi è un abuso da parte del contribuente, che trasforma delle incompletezze o
dei difetti del sistema in vantaggi personali che, pur formalmente legittimi, risultano tuttavia
inopportuni oppure un risparmio d’imposta effettuato in piena liceità, senza doversi giustificare con
vere o presunte “valide ragioni economiche” nel quale il contribuente si limita ad “usare” la
legislazione vigente.
Barbara Gilardi
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Articolo di Gilardi - della Scuola superiore dell`economia e delle