Anno XXXI n. 6, giugno 2000 Ordine Direzione e redazione Via Appiani, 2-20121 Milano Telefono: 02 63 61 171 Telefax: 02 65 54 307 dei Giornalisti della Lombardia http://www.odg.mi.it e-mail:[email protected] Spedizione in a.p. (45%) Comma 20 (lettera b) dell’art. 2 della legge n. 662/96 Filiale di Milano Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo INFORMAZIONE ISTITUZIONALE - La legge appena approvata prevede che vengano incaricati iscritti all’Albo Uffici stampa del settore pubblico: i giornalisti entrano a pieno titolo dice l’articolo 9 (comma 2), è costituita anche “da personale estraneo alla pubblica amministrazione utilizzato con le modalità di cui all’articolo 7, comma 6, del Dlgs n. I giornalisti, dopo il varo della laurea speciali29/1993 nei limiti delle risorse disponibili nei stica ad hoc, guadagnano altri punti e consebilanci di ciascuna amministrazione per le guono il diritto di cittadinanza, in maniera uffi- medesime finalità”. Dalla lettura incrociata ciale, negli uffici stampa della pubblica dei commi 2 e 5 si ricavano questi principi: amministrazione. Si avanzano ipotesi di 1. “gli uffici stampa sono costituiti da perso2.500-3.000 nuovi posti di lavoro (200 solo in nale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti”; Sicilia). Si presenta, però, problematica l’ap- 2. il reclutamento dei giornalisti (“personale plicazione dell’articolo 9 della legge (sulla estraneo alla pubblica amministrazione”) comunicazione nelle pubbliche amministra- avverrà secondo l’articolo 7 (comma 6) del zioni) approvata il 9 maggio dalla Commis- Dlgs n. 29/1993: sione affari costituzionale del Senato in sede 3. le pubbliche amministrazioni daranno la deliberante. La nuova legge non parla di priorità ai propri dipendenti in servizio e in concorsi - via costituzionalmente obbligato- possesso dei titoli (cioè l’iscrizione all’Albo ria per l’accesso nell’apdei giornalisti). parato statale - per l’asSecondo l’articolo 7 (comma Nella assunzioni segnazione dei posti 6) del Dlgs n. 29/1963, “le le pubbliche eventualmente disponibiamministrazioni pubbliche, amministrazioni li, ma specifica che “negli per esigenze cui non possouffici stampa l’individua- dovranno dare la priorità no far fronte con personale in zione e la regolamentaservizio, possono conferire ai propri dipendenti zione dei profili professioincarichi individuali ad espergià in servizio nali sono affidate alla ti di provata competenza, e in possesso dei titoli contrattazione collettiva determinando preventivanell’ambito di una speciamente durata, luogo, oggetto le area di contrattazione, con l’intervento e compenso della collaborazione”. Tradotto delle organizzazioni rappresentative della in parole povere, il comma 6 dell’articolo 7 categoria dei giornalisti”. Il comma 5, infine, significa che le pubbliche amministrazioni aggiunge: “Dall’attuazione del presente faranno ricorso a giornalisti “esperti di provacomma non devono derivare nuovi o ta competenza” soltanto quando “non sia maggiori oneri a carico della finanza pubbli- possibile reperire idonee professionalità ca”. all’interno dell’amministrazione” (Corte dei L’articolo 9 (comma 1) ammette da una parte Conti, Sez. Contr., det. n. 78 del 09-06-1995). che “le amministrazioni pubbliche possono Un regolamento, previsto dall’articolo 5 del dotarsi, anche in forma associata, di un uffi- Ddl e che sarà emanato entro 60 giorni cio stampa, la cui attività è in via prioritaria dall’approvazione della legge, individuerà i indirizzata ai mezzi di informazione di titoli del “personale estraneo alla pubblica massa” per poi, dall’altra parte, affermare amministrazione” ossia dei giornalisti. Dal (comma 5) che i mezzi di finanziamento punto di vista formale l’articolo 1 della legge sono sostanzialmente inesistenti. L’istituzioprofessionale (n. 69/1963) individua “i giorne degli uffici stampa diventa così una scelta nalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei discrezionale della Pa. rispettivi elenchi dell’Albo”. Il regolamento La chiave di lettura del provvedimento legi- dovrà chiarire: slativo e in particolare dell’articolo 9 è il 1. se degli uffici stampa potranno far parte i decreto legislativo. 3 febbraio 1993 n. 29 giornalisti professionisti e i pubblicisti in via (Razionalizzazione dell’organizzazione delle alternativa o soltanto i giornalisti professioamministrazioni pubbliche e revisione della nisti; disciplina in materia di pubblico impiego). La 2. il titolo di studio dei giornalisti professionisti e dei pubblicisti. Appare scontato il dotazione di personale degli uffici stampa, di Franco Abruzzo Alle pagine 2 e 3 Alle pagine 6, 7 e 8 Walter Tobagi continua a parlare alle nuove generazioni di giornalisti Cassazione: l’Ordine può certificare il periodo di pratica Alle pagine 9, 10 e 11 Privacy: le telecamere ci spiano A pagina 12 Esposto alla Covip sul Fondo previdenza Risposta di Serventi Longhi Adempimenti Inps e Inail per i collaboratori ORDINE 6 2000 Direttiva comunitaria rende giustizia anche ai free lance: articoli pagati dopo 30 giorni È finita la pacchia per gli editori. Anche gli editori dovranno rispettare la direttiva comunitaria varata il 18 maggio e pagare le collaborazioni entro trenta giorni. Un tempo incredibilmente corto rispetto ai 4-8 mesi di oggi. Giustizia per i giornalisti liberi professionisti o free lance!!! Era ora. Dal tavolo delle trattative così è stato tolto un macigno enorme, che aveva contribuito a determinare un clima pesante di scontro tra Fnsi e Fieg. (Servizio a pagina 13) possesso di un diploma di laurea se è vero che l’articolo 7 (comma 6) del Dlgs n. 29/1993 prevede incarichi individuali ad “esperti di provata competenza” (evidentemente con contratto coordinato e continuativo di cui agli articoli 2222 e seguenti del Cc). Sulle mansioni che negli uffici stampa saranno assegnate al “personale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti” si svolgerà la contrattazione con la presenza della Fnsi (e, si prevede, in sede Aran). La contrattazione collettiva punta alla “individuazione e alla regolamentazione dei profili professionali”. Assisteremo, però, a una strana contrattazione sul ruolo di “non dipendenti”, ma di collaboratori collocati in strutture (gli uffici stampa) della pubblica amministrazione. Il corrispettivo e il compenso - che dovranno essere adeguati all’”importanza dell’opera e al decoro professionale” (articolo 2233 Cc) nonché alla “provata competenza” - sono per ora un capitolo aperto, che sarà riempito con il ricorso alle tariffe stabilite dall’Ordine dei Giornalisti (articoli 2225 e 2233 Cc). Sono ipotizzabili almeno due ipotesi di lavoro alternative al percorso della collaborazione coordinata e continuativa: 1. enti assimilati alla pubblica amministrazione dal comma 2 dell’articolo 1 del Dlgs n. 29/1993 (gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltu- ra e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale) potrebbero prevedere nelle piante organiche gli uffici stampa e bandire di conseguenza concorsi per assumere (a tempo indeterminato e con il contratto Fnsi-Fieg) “personale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti”; 2. la stessa pubblica amministrazione e gli enti assimilati alla Pa potrebbero stipulare contratti a tempo determinato (e per una durata di 4 anni nei Comuni e nelle Province) con giornalisti, applicando il contratto Fnsi-Fieg. Questa soluzione è facilitata, per i Comuni e le Province, dall’articolo 51 (5° comma) della legge n. 142/1990 sugli enti locali recentemente aggiornata dal Parlamento. Le amministrazioni pubbliche potrebbero peraltro assumere a tempo determinato (dai 2 ai 7 anni e con facoltà di rinnovo) il portavoce e i coordinatori degli uffici stampa, avvalendosi dell’articolo 19 del Dlgs n. 29/1993 il quale (al comma 2) dice: “Tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a tempo determinato. Gli incarichi hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo. Sono definiti contrattualmente, per ciascun incarico, l’oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata dell’incarico, salvi i casi di revoca, nonché il corrispondente trattamento economico. Quest’ultimo ha carattere onnicomprensivo”. (Il testo della legge alle pagine 4 e 5) Per la diffamazione via Internet valgono le regole della stampa VICENZA. La diffusione su larga scala di Internet comincia ad avere ripercussioni sempre più frequenti anche sul pianeta giustizia. Si moltiplicano così le pronunce dell’autorità giudiziaria in materia di utilizzo della rete. Ieri la macchina dell’amministrazione giudiziaria si è trovata ad affrontare a Vicenza un classico reato sul crinale della new economy, la diffamazione a mezzo Internet, e il giudice ha trattato il caso come se si trattasse di un reato a mezzo stampa trasmettendo gli atti a Bologna, città dove opera il server che ha diffuso la notizia incriminata e che nel ‘98 era stato anche sequestrato dalla procura vicentina. Imputato nel procedimento un attivista, residente a Vicenza, di Spartakus, movimento di estrema sinistra che tramite Internet aveva invitato a boicottare il turismo in Turchia per protestare contro la persecuzione dell’opposizione curda e turca. In particolare, il messaggio di posta elettronica, inviato dal personal computer di Carta e pubblicato dal server bolognese, attaccava un tour operator turco, Turban, collegandolo al nome dell’ex premier Tansu Ciller, ricordata come “ispiratrice degli squadroni della morte che hanno provocato la morte di centinaia di oppositori, curdi e turchi”. Ma l’autore del messaggio invitava anche a boicottare le agenzie di viaggi che offrono i tours della TurbanItalia, società giuridicamente distinta dalla Turban e costituitasi in giudizio per tutelare la propria immagine. Ieri il giudice Giovanni Biondo, accogliendo l’istanza del difensore di Carta, ha trasmesso gli atti alla magistratura bolognese. Ed è subito partita la protesta dei militanti di Spartakus che hanno invece organizzato un sit-in davanti al tribunale per sostenere la causa del popolo turco e attestare la legittimità del comportamento del proprio compagno. (da Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2000) 1 Circolo della Stampa MEMORIA Walter Tobagi continua a parlare di Cristina Palazzesi e Stefano Salis Una mostra fatta di parole, di tavole, fotografie, titoli, sulla vita e la morte di un uomo che nella professione aveva fatto della parola e della ragione, la sua acuta, lucida, arma di verità e discernimento in un tempo aspro e cattivo di pallottole, odio e deliri, si è aperta mercoledì 24 maggio, al Circolo della Stampa alla presenza del presidente dell’Ordine lombardo dei giornalisti, Franco Abruzzo e del presidente dell’Associazione Walter Tobagi, Bruno Ambrosi. Una mostra per la memoria, più che in memoria. Per ricordare cioè - anche con una stretta al cuore - che Walter Tobagi, questo giovane ma già solido giornalista che fu anche presidente della Lombarda, il 28 maggio 1980 cadeva falciato dalle pallottole vigliacche di un commando di terroristi denominato Brigata 28 Marzo. Alla cerimonia di apertura dell’esposizione voluta anche dal Sindacato lombardo, erano presenti numerosi giornalisti alcuni dei quali colleghi che conobbero e lavorarono gomito a gomito con Tobagi, la vedova Stella, i figli Luca e Benedetta. La Sala Lanfranchi, zeppa di pannelli sulla vita, professionale e sindacale di Walter, si è trasformata in un gigantesco libro appeso sul quale gli occhi degli ospiti hanno indugiato a lungo tra fotografie e parole incastonate tra il seppia e il panna dei riquadri, fitti come fu a dispetto della brevità, la vita di Tobagi, di eventi, realizzazioni, successi. Giustamente sui muri corrono appese le parole che raccontano una vita stretta ad una professione, che di parole è fatta. E con verbi e nomi, il presidente dell’Ordine lombardo, Franco Abruzzo, ha ricostruito il senso di un ricordo e di un esempio. “Abbiamo voluto ricordare in modo aperto, chiaro e solenne un fatto di 20 anni fa: l’assassinio di Walter Tobagi - ha detto - perché bisogna avere memoria di quanto è successo”. Tobagi era un modello, di uomo e di giornalista che ha contribuito a fare chiarezza in quel difficile periodo degli anni ‘70 e ‘80. “Vi ricordo – ha proseguito Abruzzo che allora si parlava dei terroristi nei termini di fascisti rossi, prima, e di compagni che sbagliano, dopo. Walter però ricostruì con le sue lucide anali- La sala Lanfranchi che ospita la mostra. Sotto, la vedova di Walter, Stella con i figli e la nuora si la vera provenienza di quel movimento, che stava crescendo invece a quello di Franco Abruzzo, ha puntato a “La mostra su Tobagi è neutrale, cronachistiproprio nelle fabbriche”. mettere in rilievo le motivazioni profonde e la ca, storica. L’esigenza della storicizzazione Il presidente dell’Ordine ha quindi rievocato metodologia seguita per organizzare la ha detto in conclusione del suo intervento l’esempio e la prospettiva nella quale questo mostra commemorativa di Palazzo SerbelloBruno Ambrosi - viene anche da una necesgiovane giornalista esercitava una professioni. “Avremmo potuto imboccare la facile strasità dettata dalla coscienza. Nell’affannarsi e ne complessa e delicata. Vale a dire quella da dell’agiografismo”, ha spiegato. “Abbiamo nel ribollire di quegli anni difficili e nella loro di un lavoro accurato, forte di inchieste, invece inteso ricostruire il clima irripetibile di problematica ricostruzione, si rischia che costruito sui fatti, mirato alla contro-informaquegli anni, che ci sembrano già lontani accada ciò che già asserivano gli antichi latizione, anche. “Ma che mai si prestò alla anche se in realtà non ne sono passati poi ni: che, nelle troppe dispute, la verità si perda. super-informazione, quella per capirsi - ha così tanti”. Un aspetto, quello della corretta Eppure una verità c’è: è quella della coscienchiarito - che può guidare un giornalista storicizzazione, molto sentito ed evidente nel za e quella pur limitata della giustizia”. verso la pubblicazione di notizie guidate percorso dell’allestimento. Un valore aggiunAnche perché nei pannelli che addobbano la finendo per correre il rischio, in sostanza, di to in tutti i sensi, sia per i più giovani che per Sala Lanfranchi c’è il Tobagi giornalista, il “lavorare per il re di Prussia”. Questo è stato coloro i quali quegli anni hanno vissuto ma sindacalista, ma soprattutto l’uomo. il messaggio che Tobagi ha voluto trasmettetendono a rimuovere. “In un’epoca come la I ringraziamenti sono andati a Luciano re ai giornalisti lombardi e italiani quando era nostra - ha ammonito Ambrosi - che tende a Micconi, ex segretario di redazione del in vita: non schierarsi, restare autonomi”. far diventare portante la filosofia consumistiCorriere della Sera, che aveva da tempo E anche da uno dei numerosi libri che scrisca dell’usa e getta ed è così dissipatrice dei ideato la mostra, al responsabile dell’allestise, nella sua breve ma intensa carriera, quelvalori più significativi, il richiamo all’attualità mento grafico, Franco Malaguti, e alle tre lo cioè dedicato alla figura del direttore del di Walter Tobagi è, insieme, un atto di rispetcuratrici: Fiorenza Bariatti, Cinzia Brofferio e Corriere della Sera, Mario Borsa, traspare la to, di ricordo e di memoria”. Elisabetta Grandi. sua visione di un buon professionista Secondo gli intendimenti degli organizzatori, Hanno visitato l’esposizione della Sala dell’informazione. “Il documentarsi in maniedalla mostra deve emergere anche la visioLanfranchi anche Paolo Mieli e Eugenio ra puntuale, essere cronista attento, agire da ne del giornalismo che era propria di Tobagi. Scalfari, presenti al Circolo della Stampa per storico dell’istante. Qualità - ha concluso Un giornalismo basato sull’importanza attriuna concomitante conferenza. “L’ho vista con Abruzzo - che restano restano indispensabibuita alla storia e alla lettura che ne deve piacere - ha dichiarato il fondatore di Republi, oggi come allora”. saper dare il buon giornalista. E Tobagi fu blica - anche se con il dolore che ci trasmet“Per questo, per l’eredità, il modello che ci ha insieme storico (la mostra esibisce la sua tono eventi di questo tipo e le mostre che ce lasciato, noi diciamo, come gli antichi Greci, tesi di laurea e un verbale delle sedute li ricordano”. Scalfari e Mieli hanno plaudito ‘egli vive’”. d’esame alla Statale con lui assistente di l’iniziativa, riconoscendone il valore e l’imporL’intervento di Bruno Ambrosi, che è seguito storia contemporanea) e giornalista. tanza. Il ricordo di amici e colleghi “Denunciò il pericolo di essere usati” di Massimo Sideri In occasione dell’inaugurazione della mostra su Walter Tobagi, al Circolo della Stampa, abbiamo intervistato il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, Luciano Micconi, segretario di redazione del Corriere della Sera negli anni della scomparsa del giornalista e Bruno Ambrosi, presidente dell’Associazione per la formazione al giornalismo, intitolata allo stesso Tobagi. Presidente Abruzzo, quali sono le ragioni di questa mostra sulla figura di Walter Tobagi? Innanzitutto c’è una data: il 28 maggio del 2000 segnerà i vent’anni dalla sua scomparsa. Personalmente ero molto legato a Walter: con lui e con Massimo Fini ho condiviso tutte le battaglie per la libertà e per l’indipendenza della nostra professione. Oggi più che mai, la sua scomparsa è una ferita viva, 2 incancellabile, perché abbiamo conosciuto anni terribili, gli anni delle minacce terroristiche. Quando fu ucciso il pubblico ministero Alessandrini (Emilio Alessandrini, assassinato da Prima Linea il 29 gennaio 1979 a Milano, ndr), la procura ci chiamò e ci disse che eravamo in pericolo di vita e il grande rimpianto di tutti noi, amici di Walter, rimane quello di non averlo convinto ad allontanarsi da Milano, a diventare corrispondente da Pechino del Corriere della Sera. Purtroppo, non abbiamo capito subito che c’era gente che sparava, che voleva uccidere i migliori tra noi, quelli che davano prestigio alla professione e alle istituzioni dello Stato. Quindi la memoria da una parte, ma, dall’altra, cosa può dirci oggi il carattere di un uomo come Tobagi? Rimane un modello di giornalismo indipendente ancorato, a sua volta, a Mario Borsa, antifascista, direttore del Corriere nel 1945, un uomo lontano dai potentati: il giornalista visto come lo storico dell’istante prima di tutto. Walter era un esempio allora come lo è oggi e del suo pensiero rimane testimonianza in quel discorso del 27 maggio del 1980 dove ricordava a tutti noi di fare attenzione alla superinformazione: il pericolo era - ed è quello di essere usati. maggio alle 11, una delegazione del nostro giornale porta il saluto alla tomba di Tobagi, per ricordare quella grave perdita. Una figura attualissima quindi... Sì, e infatti ricordo le telefonate dei colleghi, dei politici che volevano avere notizie, l’arrivo dei fotografi, insomma tutto quello che può succedere in seguito a un avvenimento di quella importanza. Poi, non posso dimenticare la grande partecipazione del pubblico che venne in via Solferino, come testimoniato anche nelle foto di questa mostra. Attualissima, senza dubbio: questo vogliamo dire con la mostra. Dottor Micconi, Walter Tobagi era giornalista, scrittore, sindacalista. Qual è il ricordo che le rimane di Tobagi al Corriere della Sera? Ricordo quando Walter venne da me, prima di recarsi al Circolo della Stampa, la sera del 27 maggio. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Venezia e allora io, come segretario di redazione, avevo il compito di organizzare tutto il necessario per il viaggio. Ci siamo salutati. Poi, la mattina di quel 28 maggio, alla consueta riunione delle 11 tra i capiservizio e il direttore, Passanesi, il capo della cronaca, disse che c’era un morto in via Salaino, ma solo dopo arrivò la notizia che si trattava di Walter Tobagi. In quel momento ci fu come un terremoto e il giornale si svuotò completamente perché tutti corsero nella via dell’omicidio: solo io rimasi, come un nocchiere, al Corriere della Sera. Ancora oggi, ogni 28 Ha vissuto in prima persona quindi quel tragico evento. Presidente Ambrosi, lei nel suo intervento all’inaugurazione della mostra ha parlato di “culto della memoria”: è questo il valore che si vuole trasferire? La sensazione è quella di essere stati educati, dai nostri tempi, dalle storie che abbiamo vissuto, a ricordare, ad avere la pazienza di trarre degli insegnamenti da tutto ciò che è avvenuto. Questa diventa più che mai una priorità oggi, nel momento in cui la cultura del consumismo sembra avere invaso anche i luoghi della memoria. Ma se il criterio “dell’usa e getta” si può applicare alle cose, è indecente applicarlo alle nostre memorie. La mostra, quindi, vuole rappresentare la testimonianza della categoria affinché Tobagi e le sue opere continuino a vivere. ORDINE 6 2000 alle nuove generazioni di giornalisti Gli interventi dell’ex direttore del Giornale, del prof. Rumi, del direttore del Corriere della Sera e di Giuseppe Baiocchi Montanelli: “Fu un modello di civiltà” di Laura Bosisio Se un profeta, una mattina, se ne andasse, lascerebbe dietro di sé l’eredità del profeta. E così è stato per Walter Tobagi uomo, sindacalista, credente e “profeta” del giornalismo moderno. L’ultima apparizione in pubblico Tobagi la fece al Circolo della Stampa, il 27 maggio di vent’anni fa, in occasione di un dibattito sulla libertà dell’informazione, il rapporto tra stampa e magistratura, l’etica professionale e la necessità, per il giornalista, di una ricerca incessante della verità. E forse non avrebbe potuto ricevere commemorazione più adeguata, Walter Tobagi, di quella di lunedì 29 maggio, al Circolo della Stampa, durante una tavola rotonda organizzata dall’Alg, l’Associazione Lombarda dei giornalisti, di cui Tobagi era stato presidente. Perché la tavola rotonda è stata occasione per tornare a parlare proprio di temi come etica, trasparenza e libertà, tanto cari e “urgenti” per Tobagi, da non fargli lesinare tempo ed energie, nell’impegno sindacale e nel lavoro di cronista e inviato. A ricordarlo sono intervenuti Indro Montanelli, decano del giornalismo italiano, Giorgio Rumi, docente di Storia contemporanea alla Statale e già professore di Tobagi, Giuseppe Baiocchi, amico e collega di Walter e oggi direttore della Padania, insieme a Maria Grazia Molinari, Presidente dell’Alg, e al direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli. Presente anche una classe del liceo Parini (il liceo di Tobagi) accompagnata dal preside. Assenti fisicamente, ma partecipi al ricordo del giornalista, anche i presidenti della Camera e del Senato, Nicola Mancino e Luciano Violante, il cardinale Carlo Maria Martini e il Il dibattito al Circolo della Stampa. Da sinistra: Maria Grazia Molinari presidente Alg, Indro Montanelli, il prof. Giorgio Rumi e Giuseppe Baiocchi. In alto a destra, Montanelli arriva al Circolo della Stampa. presidente della Regione, Roberto Formigoni, che hanno inviato telegrammi per esprimere la loro partecipazione nel ricordo del giornalista assassinato dalle Br: “Voce che invitava a riflettere, professionista libero e coerente” (Cardinal Martini), “una delle figure più lucide del giornalismo italiano, che le Br decisero di eliminare perché più di altri aveva saputo mettere il dito nella piaga” (Mancino). Tobagi, inviato del Corriere, che “fu ucciso perché combatteva contro la violenza: credeva fortemente nello Stato democratico e ancora oggi rappresenta un esempio della cultura della legalità” (Violante). Infine Formigoni, nel telegramma: “Molte cose sono cambiate: ma non è mutata l’esigenza di avere tra noi uomini come lui, capaci di un impegno civile e appassionato, ma non di parte”. Presente, invece, in veste ufficiale, il giudice costituzionale prof. Valerio Onida. Pur ammettendo di non aver avuto molte occasioni per approfondire la sua amicizia con Tobagi (“ho avuto con lui rapporti che rimpiango, perché troppo brevi e sporadici”), Montanelli lo ricorda senza esitazione come un giornalista irreprensibile: “Walter Tobagi era l’incarnazione, il campione, l’esempio di un carattere agli antipodi del terrorismo”. Antiterrorista per eccellenza, era modello di una civiltà, anche giornalistica. “Sebbene io non sia cattolico nel senso in cui lo fu Tobagi, né socialista”, ha detto Montanelli, “non ebbi mai dissensi con lui. Appartenevamo a due sponde diverse: diverse ma non avverse. Era molto bello discutere con Tobagi: ed io questo, soprattutto, rimpiango di lui”. Per Giorgio Rumi, Walter non era esattamente uno studente: in quanto studente-lavoratore, aveva già “un piede nella vita”. “Era mite, di una spiritualità quasi francescana” ha aggiunto Rumi, “ma capace di portare questo suo equilibrio nella comprensione dell’altro: una cosa per noi oggi forse ovvia, ma non ovvia nella Milano degli anni ’70. Walter insomma era il tipo umano completamente diverso dalla moneta corrente che girava allora a Milano”. Il direttore della Padania, Baiocchi, ricorda che per Walter, l’unica cosa che contava era “farsi testimoni del proprio tempo, senza essere propagandisti o apologeti”. Cosa rimane oggi del monito e dell’esempio di giornalisti come Tobagi, per una nuova etica della professione? Per Montanelli, semplicemente, “il problema etico sarà sempre presente nel nostro mestiere. Naturalmente questo vale per il giornalista che ha una coscienza. Che è tranquilla solo per chi non ce l’ha: perché la coscienza di chi ce l’ha, non è mai veramente tranquilla”. Un esempio molto pratico del come svolgere coscienziosamente il mestiere di giornalista, Tobagi lo ha offerto, tra le altre qualità umane e professionali, nel suo essere un instancabile ricercatore e studioso, come ricorda Rumi: “Proprio perché buon cronista, cercava di capire le dinamiche profonde della realtà, servendosi della storia e approfondendola per capire il presente. Dunque, fu storico per necessità”. In conclusione, parlare di Tobagi porta inevitabilmente a una riflessione sul ruolo e sull’etica del giornalista, come ha sottolineato Ferruccio de Bortoli al termine dell’incontro: “Studiando Tobagi possiamo imparare alcune pecche della stampa moderna: ad esempio l’eccessiva autoreferenzialità, o talvolta la scarsa umiltà. In vista del Giubileo dell’informazione, il Papa ci richiama all’onestà, a non omettere nulla della verità. Un insegnamento che fu di Tobagi, il quale a ragione potrebbe esser ricordato nel Giubileo dedicato agli operatori dell’informazione”. La parola a chi ha preparato e allestito la mostra “Non è un racconto ma un sentimento” di Francesca Basso “Questo non è un racconto, dovrebbe essere l’esaltazione di un sentimento”: sono le parole scelte da Franco Malaguti per spiegare lo spirito della mostra Tobagi, un giornalista negli anni di piombo, da lui allestita nella sala Lanfranchi del Circolo della Stampa di Milano. “Il cerchio della memoria si chiude, e insieme si riapre, proprio da queste stanze – continua Malaguti – da dove Tobagi, la sera prima di morire, fece davanti ai colleghi giornalisti la relazione conclusiva del dibattito sui rapporti tra magistratura e informazione”. Le tre foto sulle pareti del corridoio che conduce alla sala Lanfranchi, raffiguranti Tobagi al tavolo dei relatori, assumono questo significato e introducono il visitatore, assieme alla cronologia degli eventi, nel cuore dell’esposizione. La gigantografia del corpo di Tobagi, riverso sul marciapiede di via Salaino, dove il 28 maggio 1980 due giovani terroristi della Brigata 28 marzo l’hanno ucciso, è posata a terra, ad accentuare il senso di realtà che l’intero allestimento vuole trasmettere attraverso l’impieORDINE 6 2000 go insistito di fotografie – preponderanti tra i pannelli espositivi – tanto da trasformare la storia e la cronaca di quegli anni in emozioni ancora vive. Accanto, un’altra gigantografia, che riproduce la manifestazione, successiva alla morte, davanti al Corriere della Sera. Al centro, su un tavolo, sono raccolti i documenti di Tobagi studente universitario: la copertina della tesi di laurea, le pagine del libretto con i voti, ma anche la testimonianza della sua attività di saggista impegnato, di studioso dei movimenti sociali e dei sindacati. Sulle pareti più lunghe, la vita del giornalista e del sindacalista si fronteggiano: gli esordi a La Zanzara, il giornale del liceo Parini che fece tanto scalpore, l’esperienza al mensile Sciare e poi l’attività all’Avanti!, al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera come cronista politico e sindacale. Il suo ruolo nell’Associazione lombarda dei giornalisti, la sua lotta per il rinnovamento e la trasformazione interna del sindacato, la fondazione di Stampa democratica e la sua nomina a presidente dell’Associazione completano i contorni della figura di Tobagi, sono la spiegazione Franco Malaguti, allestitore della mostra; Bruno Ambrosi e Franco Abruzzo (foto di Stefano Tomé). del suo essere giornalista “scomodo” e da eliminare. La vita nei quotidiani e nel sindacato sembrano essere i fili conduttori verso le pareti più corte della sala, sulle quali da un lato si elencano gli attentati subiti da alcuni giornalisti per mano delle Brigate rosse, e dall’altro le prime pagine di una quarantina di quotidiani all’indomani dell’uccisione di Tobagi. “In quegli anni tutta la stampa è sotto tiro – ricorda Malaguti. Vengono feriti Emilio Rossi, Carlo Casalegno, (che morirà due settimane dopo l’agguato, ndr), Franco Piccinelli, Antonio Gazzotto, Guido Passalacqua, Indro Montanelli. Ma è Walter a essere stato ammazzato, e questo fa la differenza”. Franco Malaguti è stato affiancato nella preparazione della mostra da tre giornaliste: Fiorenza Baratti, Cinzia Bofferio ed Elisabetta Grandi, che si sono occupate dell’elaborazione dei testi e della ricerca della documenta- zione. “Non è stato semplice decidere come strutturare la mostra – spiega Cinzia Brofferio. C’era il rischio di mistificare la vicenda. Alcune delle persone che abbiamo intervistato per ricostruire i fatti avevano ricordi edulcorati, altri non ne volevano parlare. Il nostro obiettivo era quello di raggiungere le nuove generazioni di giornalisti. L’Associazione lombarda, così come l’Ordine che ci hanno commissionato l’incarico, erano stati chiari in tal senso”. “La soluzione migliore – aggiunge Fiorenza Baratti – è sembrata quella di lavorare sui materiali d’archivio, metodo che ci ha permesso di acquisire una distanza storica dagli eventi”. Gli eventi ci sono tutti, i ferimenti, i morti, le lotte, le polemiche. “Non devono passare inosservati due pannelli – conclude Malaguti – sono quasi isolati: quelli con ‘L’ipotesi dei mandanti’ e ‘Tobagi perché?’”. 3 INFORMAZIONE ISTITUZIONALE Approvata la legge che regolamenta le strategie degli apparati statali, delle Regioni e degli enti locali - Gli uffici stampa La pubblica amministrazione Questo il testo del Ddl 4217, recante “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, CAPO I - Principi Generali ARTICOLO 1 - Finalità ed ambito di applicazione 1. Le disposizioni della presente legge, in attuazione dei principi che regolano la trasparenza e l’efficacia dell’azione amministrativa, disciplinano le attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni. 2. Ai fini della presente legge sono pubbliche amministrazioni quelle indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29. 3. È fatta salva la disciplina vigente relativa alla pubblicità legale od obbligatoria degli atti pubblici. 4. Nel rispetto delle norme vigenti in tema di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di tutela della riservatezza dei dati personali e in conformità ai comportamenti richiesti dalle carte deontologiche, sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle poste in essere in Italia o all’estero dai soggetti di cui al comma 2 e volte a conseguire: a) l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici; b) la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alle collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa; c) la comunicazione interna realizzata nell’ambito di ciascun ente. 5. Le attività di informazione e di comunicazione sono, in particolare, finalizzate a: a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l’applicazione; b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici, promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale; e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi; f) promuovere l’immagine delle amministrazioni, nonché quella dell’Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d’importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale. 6. Le attività di informazione e di comunicazione istituzionale di cui alla presente legge non sono soggette ai limiti imposti in materia di pubblicità, sponsorizzazioni e offerte al pubblico. ARTICOLO 2 - Forme, strumenti e prodotti 1. Le attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni si esplicano, oltre che per mezzo di programmi previsti per la comunicazione istituzionale non pubblicitaria, anche attraverso la pubblicità, le distribuzioni o vendite promozionali, le affissioni, l’organizzazione di manifestazioni e la partecipazione a rassegne specialistiche, fiere e congressi. 2. Le attività di informazione e di comunicazione sono attuate con ogni mezzo di trasmissione idoneo ad assicurare la necessaria diffusione di messaggi, anche attraverso la strumentazione grafico-editoriale, le strutture informatiche, le funzioni di sportello, le reti civiche, le iniziative di comunicazione integrata e i sistemi telematici multimediali. 3. Con uno o più regolamenti, da comunicare alla Presidenza del Consiglio dei ministri e alla Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, le pubbliche amministrazioni provvedono alla diffusione delle modalità e delle forme di comunicazione a carattere pubblicitario, in attuazione delle norme vigenti in materia. ARTICOLO 3 - Messaggi di utilità sociale e di pubblico interesse 1. La Presidenza del Consiglio dei ministri determina i messaggi di utilità sociale ovvero di pubblico interesse, che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo può trasmettere a titolo gratuito. Alla trasmissione di messaggi di pubblico interesse previsti dal presente comma sono riservati tempi non eccedenti il due per cento di ogni ora di programmazione e l’uno per cento dell’orario settimanale di programmazione di ciascuna rete. Le emittenti private, radiofoniche e televisive, hanno facoltà, ove autorizzate, di utilizzare tali messaggi per passaggi gratuiti. 2. Nelle concessioni per la radiodiffusione sonora e televisiva è prevista la riserva di tempi non eccedenti l’uno per cento dell’orario settimanale di programmazione per le stesse finalità e con le modalità di cui al comma 1. 3. Fatto salvo quanto stabilito dalla presente legge e dalle disposizioni relative alla comunicazione istituzionale non pubblicitaria, le concessionarie radiotelevisive e le società autorizzate possono, per finalità di esclusivo interesse sociale, trasmettere messaggi di utilità sociale. 4. I messaggi di cui al comma 3 non rientrano nel computo degli indici di affollamento giornaliero né nel computo degli indici di affollamento orario stabiliti dal presente articolo. Il tempo di trasmissione dei messaggi non può, comunque, occupare più di quattro minuti per ogni giorno di trasmissione per singola concessionaria. Tali messaggi possono essere trasmessi gratuitamente; qualora non lo fossero, il prezzo degli spazi di comunicazione contenenti messaggi di utilità sociale non può essere superiore al cinquanta per cento del prezzo di listino ufficiale indicato dalla concessionaria. ARTICOLO 4 - Formazione professionale 1. Le amministrazioni pubbliche individuano, nell’ambito delle proprie dotazioni organiche, il personale da adibire alle attività di informazione e di comunicazione e programmano la formazione, secondo modelli formativi individuati dal regolamento di cui all’articolo 5. 2. Le attività di formazione sono svolte dalla Scuola superio- re della pubblica amministrazione, secondo le disposizioni del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287, dalle scuole specializzate di altre amministrazioni centrali, dalle università, con particolare riferimento ai corsi di laurea in scienze della comunicazione e materie assimilate, dal Centro di formazione e studi (Formez), nonché da strutture pubbliche e private con finalità formative che adottano i modelli di cui al comma 1. ARTICOLO 5 - Regolamento 1. Con regolamento da emanare, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, si provvede alla individuazione dei titoli per l’accesso del personale da utilizzare presso le pubbliche amministrazioni per le attività di informazione e di comunicazione. Il medesimo regolamento prevede e disciplina altresì gli interventi formativi e di aggiornamento per il personale che già svolge attività di informazione e di comunicazione. ARTICOLO 6 - Strutture 1. In conformità alla disciplina dettata dal presente Capo e, ove compatibili, in conformità alle norme degli articoli 11 e 12 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e relative disposizioni attuative, le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’ufficio stampa e quelle di comunicazione attraverso l’ufficio per le relazioni con il pubblico, nonché attraverso analoghe strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della pubblica amministrazione, gli sportelli polifunzianali e gli sportelli per le imprese. 2. Ciascuna amministrazione definisce, nell’ambito del proprio ordinamento degli uffici e del personale e nei limiti delle risorse disponibili, le strutture e i servizi finalizzati alle attività di informazione e comunicazione e al loro coordinamento, confermando, in sede di prima applicazione della presente legge, le funzioni di comunicazione e di informazione al personale che già le svolge. ARTICOLO 7 - Portavoce 1. L’organo di vertice dell’amministrazione pubblica può essere coadiuvato da un portavoce, anche all’esterno all’amministrazione, con compiti di diretta collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzizonale con gli organi di informazione. Il portavoce, incaricato dal medesimo organo, non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. 2. Al portavoce è attribuita una indennità determinata dall’organo di vertice nei limiti delle risorse disponibili appositamente iscritte in bilancio da ciascuna amministrazione per le medesime finalità. ARTICOLO 8 - Ufficio per le relazioni con il pubblico 1. L’attività dell’ufficio per le relazioni con il pubblico è indirizzata ai cittadini singoli e associati. 2. Le pubbliche amministrazioni, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvedono, nell’e- Colpo di spugna sulla “quota fissa” di Marco Mele ROMA. Gli uffici stampa della Pubblica amministrazione e degli Enti locali saranno composti da giornalisti iscritti all’Albo. A stabilirlo è la legge sulla Comunicazione istituzionale approvata dalla commissione Affari Costituzionali del Senato in sede deliberante. Il testo è quello approvato il 22 settembre 99 dall’analoga commissione della Camera, anch’essa in sede deliberante: “finalmente”, come hanno commentato politici e addetti ai lavori, la normativa diventa legge dello Stato. Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’Ufficio stampa. Quelle di comunicazione attraverso l’Ufficio di comunicazione con il pubblico (Urp) e strut- 4 ture analoghe quali gli sportelli del cittadino, quelli polifunzionali o per le imprese. La normativa definisce gli obiettivi delle due attività: la conoscenza delle disposizioni normative; l’illustrazione delle attività delle istituzioni; l’accesso ai servizi pubblici; la promozione di conoscenze sui temi di rilevante interesse pubblico; la semplificazione delle procedure; la promozione dell’immagine delle amministrazioni e del Paese. Tali attività non sono soggette ai limiti imposti alla pubblicità e alle sponsorizzazioni: i messaggi di utilità sociale, ad esempio, non rientrano nel computo degli indici di affollamento pubblicitario. Quelli della Presidenza del Consiglio, però, non potranno andare oltre il 2% di ogni ora e l’1% dell’orario settimanale. Le attività di formazione del personale adibito all’informazione e alla comunicazio- ne spetteranno alla Scuola superiore della Pubblica amministrazione, alle Università, con particolare riferimento ai corsi di laurea in Scienze della comunicazione, al Formez e a strutture pubbliche e private specializzate. Un regolamento individuerà i titoli per l’accesso del personale da utilizzare. Ogni amministrazione, comunque, in sede di prima applicazione, confermerà le funzioni al personale che già le svolge (la legge arriva con molto ritardo sull’evoluzione dell’organizzazione della comunicazione in Stato e Regioni). “Con la nuove legge — sottolinea Alessandro Rovinetti, segretario generale dell’Associazione italiana della comunicazione pubblica, che si batte dal ‘93 per ottenere tale normativa — i comunicatori pubblici e gli altri professionisti della comunicazione otten- ORDINE 6 2000 dovranno essere composti da giornalisti - I messaggi di utilità sociale fuori dai limiti previsti per la pubblicità scommette sulla comunicazione approvato definitivamente il 9 maggio 2000 dalla commissione Affari costituzionali del Senato in sede deliberante sercizio della propria potestà regolamentare, alla ridefinizione dei compiti e alla riorganizzazione degli uffici per le relazioni con il pubblico secondo i seguenti criteri: a) garantire l’esercizio dei diritti di informazione, di accesso e di partecipazione di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni; b) agevolare l’utilizzazione dei servizi offerti ai cittadini, anche attraverso l’illustrazione delle disposizioni normative e amministrative, e l’informazione sulle strutture e sui compiti delle amministrazioni medesime; c) promuovere l’adozione di sistemi di interconnessione telematica e coordinare le reti civiche; d) attuare, mediante l’ascolto dei cittadini e la comunicazione interna, i processi di verifica della qualità dei servizi e di gradimento degli stessi da parte degli utenti; e) garantire la reciproca informazione fra l’ufficio per le relazioni con il pubblico e le altre strutture operanti nell’amministrazione, nonché fra gli uffici per le relazioni con il pubblico delle varie amministrazioni. 3. Negli uffici per le relazioni con il pubblico l’individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono affidate alla contrattazione collettiva. ARTICOLO 9 - Uffici stampa 1. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, possono dotarsi, anche in forma associata, di un ufficio stampa, la cui attività è in via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa. 2. Gli uffici stampa sono costituiti da personale iscritto all’albo nazionale dei giornalisti. Tale dotazione di personale è costituita da dipendenti delle amministrazioni pubbliche, anche in posizione di comando o di fuori ruolo, o da personale estraneo alla pubblica amministrazione in possesso dei titoli individuati dal regolamento di cui all’articolo 5, utilizzato con le modalità di cui all’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, nei limiti delle risorse disponibili nei bilanci di ciascuna amministrazione per le medesime finalità. 3. L’ufficio stampa è diretto da un coordinatore, che assume la qualifica di capo ufficio stampa, il quale, sulla base delle direttive impartite dall’organo di vertice dell’amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell’amministrazione. 4. I coordinatori e i componenti dell’ufficio stampa non possono esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Eventuali deroghe possono essere previste dalla contrattazione collettiva di cui al comma 5. 5. Negli uffici stampa l’individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono affidate alla contrattazione collettiva nell’ambito di una speciale area di contrattazio- ne, con l’intervento delle organizzazioni rappresentative della categoria dei giornalisti. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. toria. Entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento, i ministri trasmettono al Presidente del Consiglio dei ministri una relazione su quanto previsto dal presente comma. ARTICOLO 10 - Disposizione finale 1. Le disposizioni del presente Capo costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e si applicano, altresì, alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano nei limiti e nel rispetto degli statuti e delle relative norme di attuazione. ARTICOLO 13 - Progetti di comunicazione a carattere pubblicitario 1. Le amministrazioni dello Stato sono tenute a inviare al Dipartimento per l’informazione e l’editoria, ai fini della formulazione di un preventivo parere, i progetti di comunicazione a carattere pubblicitario che prevedono la diffusione dei messaggi sui mezzi di comunicazione di massa. CAPO II - Disposizioni particolari per le amministrazioni dello Stato ARTICOLO 11 - Programmi di comunicazione 1. In conformità a quanto previsto dal Capo I della presente legge e dall’articolo 12 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, nonché dalle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri, le amministrazioni statali elaborano annualmente il programma delle iniziative di comunicazione che intendono realizzare nell’anno successivo, comprensivo dei progetti di cui all’articolo 13, sulla base delle indicazioni metodologiche del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il programma è trasmesso entro il mese di novembre di ogni anno allo stesso Dipartimento. Iniziative di comunicazione non previste dal programma possono essere promosse e realizzate soltanto per particolari e contingenti esigenze sopravvenute nel corso dell’anno e sono tempestivamente comunicate al Dipartimento per l’informazione e l’editoria. 2. Per l’attuazione dei programmi di comunicazione il Dipartimento per l’informazione e l’editoria provvede in particolare a: a) svolgere funzioni di centro di orientamento e consulenze per le amministrazioni statali ai fini della messa a punto dei programmi e delle procedure. Il Dipartimento può anche fornire i supporti organizzativi alle amministrazioni che ne facciano richiesta; b) sviluppare adeguate attività di conoscenza dei problemi della comunicazione pubblica presso le amministrazioni; c) stipulare, con i concessionari di spazi pubblicitari, accordi quadro nei quali sono definiti i criteri di massima delle inserzioni radiofoniche, televisive o sulla stampa, nonché le relative tariffe. ARTICOLO 12 - Piano di comunicazione 1. Sulla base dei programmi presentati dalle amministrazioni statali, il Dipartimento per l’informazione e l’editoria predispone annualmente il piano di comunicazione, integrativo del piano di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, che è approvato dal Presidente del Consiglio dei ministri. 2. Una copia del piano approvato è trasmessa alle amministrazioni. Ciascuna amministrazione realizza il piano per le parti di specifica competenza anche avvalendosi della collaborazione del Dipartimento per l’informazione e l’edi- 2. I progetti di cui al comma 1 devono, in particolare, contenere indicazioni circa l’obiettivo della comunicazione, la copertura finanziaria, il contenuto dei messaggi, i destinatari e i soggetti coinvolti nella realizzazione. Deve, inoltre, essere specificata la strategia di diffusione con previsione delle modalità e dei mezzi ritenuti più idonei al raggiungimento della massima efficacia della comunicazione. 3. Per le campagne di comunicazione a carattere pubblicitario, le amministrazioni dello Stato tengono conto, ove possibile, in relazione al tipo di messaggio e ai destinatari, anche delle testate italiane all’estero. ARTICOLO 14 - Finanziamento dei progetti 1. La realizzazione dei progetti di comunicazione a carattere pubblicitario delle amministrazioni dello Stato, integrativi del piano di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, ritenuti di particolare utilità sociale o di interesse pubblico, è finanziata nei limiti delle risorse disponibili in bilancio per il centro di responsabilità n. 17 “Informazione ed editoria” dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri, intendendosi ridotta in misura corrispondente l’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 5 della legge 25 febbraio 1987, n. 67. ARTICOLO 15 - Procedure di gara 1. Per la realizzazione delle iniziative di comunicazione istituzionale a carattere pubblicitario la scelta dei soggetti professionali esterni è effettuata, anche in deroga ai limiti previsti dall’articolo 6 del Regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157. A tali fini, con regolamento da emanare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti i criteri per la individuazione dei soggetti professionali da inviare alle procedure di selezione, nonché per la determinazione delle remunerazioni per i servizi prestati. A tali fini si tiene conto anche dei criteri stabiliti in materia dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. ARTICOLO 16 - Abrogazioni 1. Sono abrogati l’articolo 5, commi 6, 7 e 8, della legge 25 febbraio 1987, n. 67, e l’articolo 9 della legge 6 agosto 1990, n. 223, e successive modificazioni. (da “Il Sole 24 Ore”, 12 e 14 maggio 2000) riservata a radio e televisioni locali gono un definitivo riconoscimento del loro ruolo professionale”. Al rapporto tra amministrazione e organi di informazione sarà incaricato, oltre all’ufficio stampa, anche il portavoce che, per la durata del suo incarico, non potrà esercitare attività professionale nei media. Stessa incompatibilità varrà per il personale degli uffici stampa, che dovrà essere iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti (la legge non precisa se professionisti o pubblicisti), il cui profilo professionale sarà definito attraverso una “speciale area di contrattazione”, con l’intervento della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. “C’è la possibilità – precisa Paolo Serventi Longhi, segretario della Fnsi – di definire una volta per tutte la professionalità e il contratto di categoria dei colleghi degli uffici stampa”. ORDINE 6 2000 I compiti degli Urp, a loro volta, dovranno essere definiti con regolamenti delle amministrazioni interessate. Un’altra parte della normativa è dedicata ai Piani di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni, da trasmettere, entro il novembre dell’anno precedente, al Dipartimento per l’informazione e l’editoria presso la Presidenza del Consiglio, che predispone un Piano annuale di comunicazione, approvato dal Consiglio dei ministri. Al Dipartimento è richiesto un parere preventivo sulla comunicazione pubblicitaria delle Amministrazioni statali. Un articolo prevede l’abrogazione delle disposizioni che riservano alle emittenti televisive locali e alle radio una quota fissa nelle spese pubblicitarie delle pubbliche amministrazioni. Le associazioni del settore, come la Frt e Aer-Anti-Corallo, chiedono l’immedia- ta reintroduzione di tale “riserva”. Vannino Chiti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, assicura che “con i regolamenti di attuazione, che saranno due, uno per l’Amministrazione centrale e l’altro per gli Enti locali da concordare con la conferenza Stato-Regioni, si reintrodurrà, come ha chiesto il Senato, quanto spetta a radio ed emittenti televisive. I regolamenti dovranno dare regole certe alla pubblicità istituzionale e di pubblica utilità. Si è fatto un passo avanti per mettere le strutture dello Stato e degli Enti territoriali al passo con i tempi della rivoluzione informatica e tecnologica. Prima della fine della legislatura si possono approvare due provvedimenti utili al Paese: le norme sul diritto d’autore e la riforma della legge sull’editoria”. (da “Il Sole 24 Ore”, 12 maggio 2000) 5 La linea trentennale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia confermata solennemente dai giudici CASSAZIONE l’Ordine ha il potere di certificare il periodo di pratica giornalistica D’Amati: “È un rilevante riconoscimento” ROMA, 10 maggio. Per la prima volta la Cassazione ha stabilito che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, e i suoi Consigli regionali, possono sostituirsi ai direttori delle testate per quanto riguarda le attestazioni di compiuta pratica giornalistica in favore dei praticanti giornalisti e per quanto riguarda l’iscrizione di questi ultimi nel Registro dei praticanti, condizioni senza le quali non è possibile adire all’esame di Stato per diventare professionisti. In particolare con la pronuncia massimata 5936 la Suprema Corte ha accolto il ricorso - avanzato da Daniela Z., archivista del quotidiano veneto Il Gazzettino, e dal Consiglio nazionale del- l’Ordine dei giornalisti - contro il Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto e contro la sentenza con la quale il procuratore generale della Corte di Appello di Venezia avevano negato che il Consiglio nazionale o quelli regionali potessero sostituirsi ai direttori inadempienti all’obbligo di rilasciare l’attestazione della compiuta pratica. Secondo il Consiglio del Veneto e per il Procuratore generale i poteri sostitutivi dell’Ordine non potevano essere aditi per ottenere direttamente il riconoscimento della compiuta pratica. Ma su questo punto la Cassazione ha sposato in pieno la difesa avanzata dagli avvocati Domenico D’Amati, Enrico Romanelli e Gianfranco Garancini. Ed è stata affermata la totale legittimità della deliberazione del Consiglio nazionale che aveva dato mandato al Consiglio del Veneto di “iscrivere Daniela Z. nel registro dei praticanti e di rilasciare la dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica per l’attività svolta presso Il Gazzettino. Adesso la Corte di Appello di Venezia dovrà valutare gli altri aspetti della controversia - primo fra tutti se l’attività svolta dall’aspirante giornalista avesse i requisiti prescritti - ma non potrà disconoscere il diritto dell’Ordine a sostituirsi a quei direttori che rifiutano di rilasciare le dichiarazioni di compiuto praticantato. Per la Cassazione infatti tali poteri sostitutivi hanno la loro ragion d’essere per tutelare le situazioni nelle quali la pratica giornalistica è svolta “abusivamente” - senza i previsti contratti - e poi perché è conforme alla Costituzione interpretare le norme che regolamen- tano questa attività nel senso di rimuovere “gli ostacoli o discriminazioni all’accesso alla professione giornalistica” che altrimenti porterebbero “un grave e pericoloso attentato all’articolo 21 della Costituzione” (tutela alla libertà di pensiero e della stampa). “È un rilevante riconoscimento dei poteri sostitutivi dell’Ordine, quello che è venuto dalla Cassazione”. Così l’avvocato D’Amati ai cui motivi di ricorso si sono associati gli avvocati dell’Ordine nazionale dei giornalisti ha commentato la pronuncia della Suprema Corte rilevando che “la Corte di legittimità ha applicato un criterio di diritto sostanziale tenendo conto delle reali condizioni in cui si svolge l’attività degli aspiranti Giornalisti, e riconoscendo che il legislatore li ha voluti tutelare affidando all’Ordine il compito di sostituirsi ai direttori inadempienti. O meglio agli editori inadempienti”. (ANSA) La sentenza riconosce l’effetto retroat LA SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE CON LA QUALE È STATO RICONOSCIUTO AL CONSIGLIO DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI IL POTERE DI DISPORRE D’UFFICIO L’ISCRIZIONE CON EFFETTO RETROATTIVO DEI GIORNALISTI “DI FATTO” NEL REGISTRO DEI PRATICANTI - Ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 5936 del 10 maggio 2000, Pres. Senofonte, Rel. Di Palma). Pubblichiamo il testo integrale della motivazione della sentenza della Suprema Corte, Sezione I Civile con la quale è stato riconosciuto al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti il potere di disporre d’ufficio l’iscrizione con effetto retroattivo dei “giornalisti di fatto” nel Registro dei praticanti e quindi di ammetterli all’esame di idoneità per l’iscrizione all’Albo, nell’elenco dei professionisti. (omissis) Motivi della decisione 2.1 I ricorsi nn. 15614 (principale) e 18269 (incidentale) del 1998, in quanto proposti contro la stessa sentenza, devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. 2.2 Con l’unico motivo (con cui deduce: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto: artt. 29, 31, 33, 34 L. 3.2.63 n. 69; d.P.R. 4.2.1965 n. 115; d.P.R. 3.5.1972 n. 212; d.P.R. 21. 9.1993 n. 384; art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale; art. 112 c.p.c. – art. 360 n. 3 c.p.c.”), la ricorrente critica la ratio decidendi della sentenza oggetto del presente ricorso, individuata in ciò, che la Corte veneziana, “rigettando il primo motivo dell’impugnazione, ha ritenuto fondata la tesi del Procuratore Generale, secondo cui la vigente normativa non consente al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di sostituirsi al direttore della pubblicazione nel rilascio del certificato di compiuta pratica, nel caso in cui il medesimo abbia omesso altresì di certificare tempestivamente l’inizio della pratica e quindi non abbia consentito la coeva iscrizione dell’aspirante giornalista nel registro dei praticanti”; che “secondo la Corte, il Consiglio può esercitare detto potere sostitutivo solo per l’aspirante giornalista che, all’atto della richiesta del certificato di compiuta pratica, risulti iscritto nel registro dei praticanti da almeno 18 mesi”; e che “in tale statuizione la Corte ha dichiarato assorbita ogni altra questione ed in specie quella, oggetto del secondo motivo dell’appello, della qualificabilità come giornalistica dell’attività svolta dalla ricorrente presso il giornale Il Gazzettino” (cfr. Ricorso, pag. 3). La ricorrente, quindi – dopo aver illustrato 6 l’evoluzione legislativa in materia di attestazione dell’inizio e del compimento della pratica giornalistica – sostiene che la Corte di Venezia avrebbe erroneamente interpretato tale disciplina, sottolineando, in particolare, che: a) – “dal testo delle modifiche introdotte con il d.P.R. 30.5.72 n. 212 e con il d.P.R. 21.9.93 n. 384 emerge con ogni evidenza che la ratio di tali norme è costituita dall’intento di impedire l’indebito sfruttamento degli aspiranti giornalisti nelle imprese editrici ovvero il loro impiego di fatto senza le garanzie previste dalla legge professionale e dal contratto nazionale di lavoro giornalistico e senza alcuna tutela contro il licenziamento, non essendo possibile al giudice di disporre la reintegrazione nel posto di lavoro di chi non sia iscritto nell’albo o nel registro” (cfr. Ricorso, pag. 8); b)- “il legislatore ha evidentemente tenuto presente la situazione, nota per comune esperienza, degli aspiranti giornalisti che non ricevono la dichiarazione di inizio pratica ai fini dell’iscrizione nel registro né l’applicazione del trattamento previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico, e nondimeno, per evitare ritorsioni e non pregiudicare le loro possibilità di occupazione, sopportino per lunghi periodi l’impiego in condizioni irregolari e si risolvano a chiedere la loro regolarizzazione soltanto quando abbiano acquisito la certezza di non poter contare su uno spontaneo riconoscimento dei loro diritti da parte dell’editore, di cui il direttore è normalmente uno strumento”, sicché “la necessità di regolarizzazione si pone… normalmente al termine di un prolungato periodo di pratica giornalistica esercitata di fatto” (cfr. Ricorso, pag. 9); c) – “per questo il d.P.R. 3.5.1972 n. 212 ha previsto la possibilità per il Consiglio dell’Ordine di sostituirsi al direttore nel rilascio della dichiarazione di compiuta pratica, modificando in tal senso l’art. 43 del d.P.R. 4.2.65 n. 115”; possibilità che “deve ritenersi sussisten- te sia nell’ipotesi, del tutto marginale, che vi sia stata una precedente dichiarazione di inizio pratica sia nell’ipotesi, molto più frequente, che tale dichiarazione non vi sia stata e il praticante sia stato impiegato in condizioni di ‘lavoro nero’” (cfr. Ricorso, pagg. 9-10): d) – “la finalità perseguita dal legislatore è stata resa ancor più evidente dal d.P.R. 21.9.93 n. 384 che, per eliminare ogni incertezza interpretativa, ha sostituito i primi tre commi dell’art. 46 d.P.R. 4.2.1965 n. 115, introducendo una normativa palesemente diretta a consentire ai Consigli dell’Ordine di accertare l’inizio della pratica con effetto retroattivo e di emettere, ove tale pratica sia durata almeno 18 mesi, l’attestazione del suo compimento, consentendo l’ammissione all’esame di idoneità professionale”; infatti, “il nuovo testo dell’art. 46, a differenza del precedente, fa espresso riferimento all’effettivo inizio della pratica e prevede che esso possa risultare sia dalla dichiarazione del direttore che dall’accertamento compiuto dal Consiglio dell’Ordine”; sicché, “tale dizione elimina ogni possibile dubbio in ordine alla volontà del legislatore di consentire al Consiglio dell’Ordine di accertare con effetto retroattivo l’inizio del praticantato e di rilasciare conseguentemente, ove da tale inizio siano trascorsi 18 mesi, il certificato di compiuta pratica” (cfr. Ricorso, pagg. 10-11); e) – “nessuna norma di legge esclude la possibilità di un accertamento con effetto retroattivo dell’inizio del praticantato ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale”, in quanto “la ratio legis è quella di assicurare un’adeguata preparazione dell’aspirante giornalista all’esercizio autonomo della professione, mediante un periodo di attività pratica nelle redazioni e di addestramento da parte di giornalisti professionisti”; sicché, “il fatto che l’iter previsto dal legislatore in via preferenziale sia quello della iscrizione nel registro al momento dell’inizio della pratica non comporta necessariamente che debba ritenersi precluso un accertamento ex post della validità della pratica svolta senza previa iscrizione nel registro” (cfr. Ricorso, pag. 11). D.Z. conclude nel senso dell’annullamento (con rinvio) della sentenza impugnata, dal momento che la Corte veneziana dovrebbe, comunque, pronunciarsi sul secondo motivo di gravame, relativo al “diniego, da parte del Tribunale, della natura di pratica giornalistica dell’attività svolta dalla ricorrente presso la redazione del quotidiano Il Gazzettino” (cfr. Ricorso, pag. 12). 2.3 Con il ricorso incidentale, sostanzialmente adesivo, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ripropone ed arricchisce le argomentazioni svolte dalla ricorrente principale, sottolineando, in particolare – per quanto attiene all’individuazione della ratio decidendi della sentenza impugnata – che “la Corte d’Appello, rigettando il primo motivo della impugnazione della signora D.Z., afferma… che il complesso normativo relativo alla fattispecie de qua non consente al C.N.O.G. di sostituirsi al direttore della pubblicazione nel rilasciare la dichiarazione sostitutiva, appunto, di compiuta pratica... nel senso in cui lo stesso direttore abbia precedentemente omesso di tempestivamente rilasciare la dichiarazione di inizio della pratica..., negando così all’aspirante giornalista - anche nel caso in cui... abbia poi effettivamente svolto abusivamente attività giornalistica – l’iscrizione nel Registro dei praticanti...”, e che “secondo la Corte d’Appello di Venezia il C.N.O.G. può esercitare tale potere sostitutivo soltanto nel caso in cui l’aspirante giornalista (rectius, nell’ipotesi formulata dalla Corte, il praticante) fosse già iscritto nel Registro dei praticanti, naturalmente sulla base di inizio pratica rilasciata dallo stesso direttore” (cfr. Ricorso incidentale, pagg. 5-6). 2.4 Entrambi i ricorsi meritano accoglimento sulla base delle seguenti considerazioni: A) – Devono ritenersi circostanze incontestate tra le parti – quali emergono dalla motivazione della sentenza impugnata – quelle secondo cui: 1) – la ricorrente principale, alla data dell’11 ottobre 1994 (presentazione della domanda di dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica al Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto per l’ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione), non risultava iscritta nel Registro dei praticanti giornalisti; 2) – il direttore del quotidiano Il Gazzettino di Venezia, presso il quale D.Z. prestava la propria attività lavorativa, aveva omesso di rilasciare a quest’ultima, benché richiesto, sia la dichiarazione comprovante l’effettivo inizio della pratica (c.d. dichiarazione di “inizio pratica”), sia – e conseguentemente – quella sull’attività giornalistica svolta (c.d. dichiarazione di “compiuta pratica”), sicché, alla data predetta, era inibita, di fatto, alla ricorrente medesima la partecipazione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione; ORDINE 6 2000 supremi: vincono i diritti costituzionali all’uguaglianza di trattamento, all’imparzialità e alla Giustizia Le aspettative legittime del giornalista “di fatto” LA RICOSTRUZIONE DELLA VICENDA da www.giustizia-e-legge.it: IL GIORNALISTA DI FATTO PUÒ ESSERE VALIDAMENTE ISCRITTO D’UFFICIO DAL CONSIGLIO DELL’ORDINE, CON EFFETTO RETROATTIVO, NEL REGISTRO DEI PRATICANTI – Ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 5936 del 10 maggio 2000, Pres. Senofonte, Rel. Di Palma). Nell’ottobre del 1994 D. Z., dipendente della società editrice del quotidiano Il Gazzettino, con qualifica impiegatizia, ha chiesto al Consiglio Regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto il riconoscimento d’ufficio del praticantato giornalistico e l’ammissione alla prova di idoneità professionale per l’iscrizione nell’Albo dei giornalisti, elenco professionisti, con riferimento all’attività svolta nel periodo 1978-1992 come addetta all’archivio di redazione, con l’incarico, tra l’altro, di preparare dossier informativi per inchieste giornalistiche e biografie di personaggi celebri, nonché come cronista, articolista e curatrice di varie rubriche periodiche. Il Consiglio Regionale, con deliberazione del 17 aprile 1991, ha rigettato la domanda. Il ricorso proposto da D. Z. avverso tale decisione è stato accolto dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti che, con delibera del 26 marzo 1996, ha disposto l’iscrizione della ricorrente nel registro dei praticanti nonché il rilascio alla medesima della dichiarazione di compiuta pratica per l’attività svolta presso Il Gazzettino ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. 4 febbraio 1962 n. 115 e successive modificazioni. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia, con atto in data 6 giugno 1996, ha chiesto al Tribunale di Venezia l’annullamento della decisione del Consiglio Nazionale, sostenendo la non riconducibilità dell’attività svolta dalla ricorrente al praticantato giornalistico e l’inammissibilità della retrodatazione dell’iscrizione al registro dei praticanti giornalisti. Costituitasi in giudizio, D. Z. ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Tribunale di Venezia, in composizione integrata ex art. 63 L. 3/2/63 n. 69, con sentenza in data 7 novembre-10 dicembre 1996 n. 341 ha accolto il ricorso. Questa pronuncia è stata impugnata da D. Z. innanzi alla Corte di Appello di Venezia. Il Procuratore Generale ha resistito al gravame. Altrettanto ha fatto il Consiglio Regionale dell’Ordine dei giornalisti. La Corte di Appello di Venezia, Sez. I Civile, con sentenza depositata il 26 maggio 1998 n. 10/98, ha rigettato l’impugnazione. Essa ha ritenuto fondata la tesi del Procuratore Generale secondo cui la vigente normativa non consentirebbe al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di sostituirsi al direttore della pubblicazione nel rilascio del certificato di compiuta pratica nel caso in cui il medesimo abbia omesso altresì di certificare tempestivamente l’inizio della pratica e quindi non abbia consentito la coeva iscrizione dell’aspirante giornalista nel registro dei praticanti. Secondo la Corte, il Consiglio può esercitare detto potere sostitutivo solo per l’aspirante giornalista che, all’atto della richiesta del certificato di compiuta pratica, risulti iscritto nel registro dei praticanti da almeno 18 mesi. D.Z., difesa dall’avv. Domenico d’Amati, ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo, tra l’altro, che le modifiche normative introdotte nella disciplina dell’albo dei giornalisti con il D.P.R. 30.5.72 n. 212 e con il D.P.R. 21.9.93 n. 384 hanno lo scopo di impedire l’indebito sfruttamento degli aspiranti giornalisti nelle imprese editrici ovvero il loro impiego di fatto senza le garanzie previ- ste dalla legge professionale e dal contratto nazionale di lavoro giornalistico e senza alcuna tutela contro il licenziamento, non essendo possibile al giudice disporre la reintegrazione nel posto di lavoro di chi non sia iscritto nell’albo o nel registro. Il legislatore – ha rilevato la ricorrente – ha evidentemente tenuto presente la situazione, nota per comune esperienza, degli aspiranti giornalisti che non ricevano la dichiarazione di inizio pratica ai fini dell’iscrizione nel registro né l’applicazione del trattamento previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico, e nondimeno, per evitare ritorsioni e non pregiudicare le loro possibilità di occupazione, sopportino per lunghi periodi l’impiego in condizioni irregolari e si risolvano a chiedere la loro regolarizzazione soltanto quando abbiano acquisito la certezza di non poter contare su uno spontaneo riconoscimento dei loro diritti da parte dell’editore, di cui il direttore è normalmente uno strumento. La necessità di regolarizzazione si pone pertanto normalmente al termine di un prolungato periodo di pratica giornalistica esercitata di fatto. Del tutto marginale e teorica è la possibilità che, una volta rilasciata dal direttore la dichiarazione di inizio della pratica e trascorsi i 18 mesi del praticantato dopo la regolare iscrizione nel registro, al praticante giornalista venga negata la dichiarazione di compiuta pratica. Tale diniego infatti sarebbe vanificato in tale ipotesi dall’esistenza di un documentato periodo di lavoro come praticante giornalista con inquadramento a termini del CNLG. Per questo il D.P.R. 3.5.1972 n. 212 ha previsto la possibilità per il Consiglio dell’Ordine di sostituirsi al direttore nel rilascio della dichiarazione di compiuta pratica, modificando in tal senso l’art. 43 del D.P.R. 4.2.65 n. 115. Tale possibilità – ha sostenuto la ricorrente – deve ritenersi sussistente sia nell’ipotesi, del tutto marginale, che vi sia stata una precedente dichiarazione di inizio pratica sia nell’ipotesi, molto più frequente, che tale dichiarazione non vi sia stata e il praticante sia stato impiegato in condizioni di “lavoro nero”. La finalità perseguita dal legislatore è stata resa ancor più evidente dal D.P.R. 21.9.93 n. 384 che, per eliminare ogni incertezza interpretativa ha sostituito i primi tre commi dell’art. 46 D.P.R. 4.2.1965 n. 115 introducendo una normativa palesemente diretta a consentire ai Consigli dell’Ordine di accertare l’inizio della pratica con effetto retroattivo e di emettere, ove tale pratica sia durata almeno 18 mesi, l’attestazione del suo compimento, consentendo l’ammissione all’esame di idoneità professionale. Nel giudizio è intervenuto il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, difeso dall’Avv. Enrico Romanelli, che ha aderito alla tesi della ricorrente. Il Procuratore Generale e il Consiglio Regionale dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto hanno chiesto il rigetto del ricorso. La Suprema Corte (Sezione Prima, Pres. Senofonte, Rel. Di Palma) ha accolto il ricorso affermando che nelle situazioni di svolgimento “di fatto” del tirocinio giornalistico – senza cioè che il direttore abbia comunicato all’Ordine l’inizio della pratica – il praticantato può ritenersi utilmente e validamente svolto ai fini previsti dalla legge (e, segnatamente, ai fini dell’ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione) anche in assenza della previa iscrizione formale del praticante nel relativo Registro, ove l’avvenuto svolgimento della pratica sia stato accertato a posteriori da parte degli organi dell’Ordine in sede di esercizio dei suoi poteri sostitutivi. tivo dell’iscrizione d’ufficio al Registro 3) – la deliberazione del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti – adottata il 26 marzo 1996, su ricorso di D.Z. avverso la precedente decisione sfavorevole, ai sensi dell’art. 43 del d.P.R. n. 115 del 1965, poi annullata in sede giurisdizionale – aveva dato “mandato al Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto di iscrivere la stessa nel registro dei praticanti e di rilasciare la dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica per l’attività svolta presso Il Gazzettino (cfr., supra, nn. 1.1 e 1.3). B) – Dinanzi a tale pacifica fattispecie, appare indispensabile analizzare compiutamente la disciplina normativa rilevante in tema di pratica giornalistica, di requisiti per l’ammissione degli aspiranti giornalisti alla prova di idoneità professionale e di dichiarazione di inizio e compiuta pratica. B1) – Per quanto attiene alla pratica, occorre premettere che l’art. 34 della legge 3 febbraio 1963 n. 69 (Ordinamento della professione di giornalista) – dopo aver disciplinato forme, modalità e contenuti della pratica giornalistica (comma 1, su cui cfr. Cass. n. 10673 del 1996, confermata da successive decisioni) – prescrive che “dopo 18 mesi, a richiesta del praticante, il direttore responsabile della pubblicazione gli rilascia una dichiarazione motivata sull’attività giornalistica svolta” (ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale: art. 29 comma 1; e dell’eventuale, successiva iscrizione nell’elenco dei professionisti: art. 31 comma 1 n. 3; comma 2); e che “il praticante non può rimanere iscritto per più di tre anni nel Registro” (comma 3). A sua volta, l’art. 41 comma 1 del d.P.R. 4 febbraio 1965 n. 115 (Regolamento per l’esecuzione della legge n. 69 del 1963 – rimasto sempre in vigore, nonostante le modifiche apportate dal d.P.R. 3 maggio 1972 n. 212 (Modifiche al regolamento di esecuzione n. 115 del 1965), che si sono limitate ad aggiungere alcuni commi ai due originari – prevede che “la pratica, nell’ambito dei tre anni di iscrizione nel Registro, deve essere continuativa ed effettiva: del periodo di interruzione dipendente da causa di forza maggiore non si tiene conto agli effetti della decorrenza del termine di cui all’art. 34, ultimo comma, della legge”. B2) – Per quanto riguarda l’ammissione alla prova di idoneità professionale, l’art. 29 comma 1 della legge n. 69 del 1963 dispone che, per l’iscrizione nell’Elenco dei professionisti, sono richiesti, fra l’altro, l’iscrizione nel Registro dei praticanti; l’esercizio continuativo ORDINE 6 2000 della pratica giornalistica per almeno 18 mesi; il possesso della dichiarazione di compiuta pratica (v. artt. citt. 31 comma 1 n. 3 e 34 comma 2) e l’esito favorevole dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione. L’originario testo dell’art. 46 commi 1 e 3 del d.P.R. n. 115 del 1965 stabiliva, tra l’altro, che erano ammessi a sostenere l’esame di Stato i candidati che avessero compiuto il periodo di pratica giornalistica, comprovato dal certificato di iscrizione nel Registro dei praticanti e dalla dichiarazione di compiuta pratica. Tale testo è stato, poi, sostituito dall’art. 3 del d.P.R. 21 settembre 1993 n. 384 (Modifiche al regolamento di esecuzione della legge n. 69 del 1963), pacificamente applicabile alla fattispecie ratione temporis: esso prescrive che sono ammessi a sostenere la prova di idoneità professionale i candidati che documentino di essere iscritti nel Registro dei praticanti da almeno diciotto mesi e di aver compiuto presso una o più testate la pratica giornalistica prevista dall’art. 29 comma 1 della legge (comma 1); e che “l’iscrizione nel Registro dei praticanti decorre dalla data di effettivo inizio del tirocinio dichiarata dal direttore o accertata dal competente consiglio regionale o in seconda istanza dal Consiglio nazionale” (comma 2). B3) – Per quanto attiene alla dichiarazione di inizio della pratica giornalistica, l’art. 33 comma 2 della legge n. 69 del 1963 (che disciplina l’iscrizione nel Registro dei praticanti) prevede, tra l’altro, che la domanda per l’iscrizione “deve essere... corredata dalla dichiarazione del direttore comprovante l’effettivo inizio della pratica di cui all’art. 34” (cfr., supra, lett. B1). L’art. 36 commi 1 e 3 del d.P.R. n. 115 del 1965 (mai modificato dalla successiva disciplina) dispone, tra l’altro, che, per l’iscrizione nel Registro dei praticanti, alla relativa domanda deve essere allegata “la dichiarazione del direttore dell’organo di stampa comprovante l’effettivo inizio della pratica”(comma 1); e che “il direttore della pubblicazione o del servizio giornalistico è tenuto, a richiesta dell’interessato, al tempestivo rilascio della dichiarazione...”. Deve, tuttavia, sottolinearsi che, nell’ipotesi (quale quella di specie) in cui il direttore ingiustificatamente rifiuti o ritardi, o, comunque, ometta di rilasciare all’interessato la dichiarazione di inizio della pratica giornalistica, l’art. 46 comma 2 del d.P.R. n. 115 del 1965 (comma sostituito dall’art. 3 del d.P.R. n. 384 del 1993), dianzi citato (cfr. supra, lett. B2), ha introdotto – ovviamente, dall’entrata in vigore del decreto presidenziale del 1993 – il rimedio dell’“accertamento sostitutivo” (rispetto all’inerzia del direttore) della data di effettivo inizio della pratica giornalistica da parte del consiglio regionale dell’Ordine o, in seconda istanza, del Consiglio Nazionale; data, dalla quale decorre l’iscrizione nel Registro dei praticanti ai fini del rispetto del termine minimo di durata del tirocinio. B4) – Per quanto riguarda, infine, la dichiarazione di compiuta pratica, alla disciplina legislativa, dettata dall’art. 34 comma 2, dianzi citato (cfr., supra, lett. B1) deve aggiungersi quella regolamentare, contenuta nell’art. 43 comma 3 del d.P.R. n. 115 del 1965, il quale, al comma 3 (nel testo modificato dall’art. 10 del d.P.R. n. 212 del 1972 cit.), ribadisce, innanzitutto, come già per la dichiarazione di inizio della pratica (cfr., supra, lett. B3), che “il direttore della pubblicazione o del servizio giornalistico è tenuto, a richiesta dell’interessato, all’immediato rilascio della dichiarazione”; e prevede, poi, tra l’altro, che, “ove il direttore, senza giustificato motivo, ometta o ritardi l’adempimento di tale obbligo, il Consiglio regionale o interregionale competente, informato tempestivamente dall’interessato, adotta le iniziative del caso per il rilascio della dichiarazione, ricorrendone le condizioni” (primo e secondo periodo del comma 3). C) – A fronte della pacifica fattispecie, dianzi riassunta (cfr., supra, lett. A), e della ricognizione della disciplina normativa rilevante, la ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr., supra, nn. 2.2 e 2.3) – quale emerge dalle considerazioni della Corte veneziana, dianzi testualmente riprodotte (cfr., supra, n. 1.3) – a ben vedere, si risolve in ciò, che il praticante giornalista (il quale si ritenga tale in ragione della natura e delle caratteristiche dell’attività svolta) – cui il direttore dell’organo di stampa o del servizio giornalistico abbia, comunque, omesso di rilasciare la dichiarazione comprovante l’effettivo inizio della pratica (cfr., supra, lett. B3) – è soggetto all’onere di ricorrere, in tempo utile per il rispetto dei termini di cui all’art. 34 commi 2 e 3 della legge n. 69 del 1963 (cfr., supra, lett. B1: diciotto mesi di tirocinio nell’arco di tre anni, decorrenti dalla data di iscrizione nel Registro dei praticanti), al consiglio regionale od interregionale dell’Ordine, ovvero, in seconda istanza, al Consiglio Nazionale, al fine di far accertare, in via “sostitutiva” rispetto all’omissione del direttore, l’effettivo inizio della pratica giornalistica, e, quindi, di ottenere l’iscrizione “formale” nel predet- to Registro, necessaria per il valido svolgimento del tirocinio; che, conseguentemente, entro il richiamato spazio temporale triennale dalla data della iscrizione formale (termine massimo di iscrizione nel Registro), il praticante deve, altresì, ottenere dal direttore – ovvero “sostitutivamente” dai menzionati organi rappresentativi della categoria – la dichiarazione di compiuta pratica, al fine della legittimazione a partecipare all’esame di abilitazione all’esercizio della professione (e, quindi, del diritto all’iscrizione nell’elenco dei professionisti); e che, conseguentemente, nell’ipotesi (quale quella di specie) in cui il praticante non abbia chiesto ed ottenuto – direttamente dal direttore, o “sostitutivamente” – la dichiarazione o l’accertamento di inizio pratica (e, quindi, l’iscrizione “formale” nell’apposito Registro), il consiglio regionale od interregionale dell’Ordine o, in seconda istanza, il Consiglio Nazionale non possono accertare e riconoscere, in via sostitutiva, la compiuta pratica, in quanto il legittimo esercizio del relativo potere sostitutivo presuppone la preesistenza di un’effettiva (“formale”) iscrizione nel Registro dei praticanti per un periodo non superiore ai tre anni; condizione, questa, pacificamente insussistente nel caso di specie. D) – Il vizio di fondo, che inficia la sentenza impugnata, consiste in ciò, che la Corte veneziana ha deciso la fattispecie sottoposta al suo esame in termini “astratti”: “come se”, cioè, essa non fosse “patologicamente” caratterizzata dal fatto, pacifico, dello svolgimento di un’attività di pratica giornalistica (tale ritenuta dal Consiglio nazionale dell’Ordine con la deliberazione impugnata; e salvo, ovviamente, il controllo giurisdizionale sul punto) in carenza delle dichiarazioni di inizio e compiuta pratica. In altri termini – in presenza di un’attività, pur sostanzialmente qualificabile siccome “pratica giornalistica” (il che, nel caso di specie, si ribadisce, risulta, allo stato, meramente ipotetico, tenuto conto che, sul punto se quella svolta da D.Z. presso il predetto quotidiano fosse qualificabile come tale, i Giudici d’appello hanno esplicitamente omesso di pronunciare, ritenendolo assorbito dalla decisione adottata: cfr., supra, n. 1.3, in fine) – fattispecie, quali quella de qua, sono necessariamente caratterizzate dalla mancanza di qualsiasi atto “formale” del “procedimento legale tipico” prefigurato per il tirocinio giornalistico: inizio della pratica, attestata dalla relativa dichiarazione del direttore dell’organo di informazione, iscrizione nel Registro dei praticanti, svol- 7 La sentenza riconosce l’effetto retroattivo dell’iscrizione d’ufficio al Registro gimento del praticantato per almeno 18 mesi dalla data dell’iscrizione, parimenti attestato dalla dichiarazione di compiuta pratica, costituiscono, infatti, in presenza delle condizioni previste dalla legge, oggetto di diritti del praticante in un “normale” rapporto di tirocinio, cominciato e proseguito come tale (assunzione al lavoro dell’aspirante giornalista con la qualifica di praticante e svolgimento della pratica). Ma può accadere, appunto, che un’attività di pratica giornalistica sia esplicata “di fatto”, al di fuori delle “forme” del contratto di lavoro che le compete; e può anche accadere che lo svolgimento di fatto di tale attività sia qualificabile come tale, non già dall’inizio, ma soltanto nel corso del rapporto. Ebbene, l’art. 46 comma 2 del d.P.R. n. 115 del 1965, introdotto nel 1993 (cfr., supra, lett. B2), ha proprio inteso attribuire agli organi elettivi dell’Ordine il potere di ricondurre nell’alveo del diritto situazioni siffatte, sia, a tutela dei diritti degli aspiranti alla professione giornalistica, allo scopo di rimuovere un vero e proprio ostacolo di fatto alla possibilità di accedervi, sia per dotare gli organi stessi di uno strumento normativo idoneo. In questa prospettiva, tale disposizione – secondo l’insegnamento del Giudice delle leggi (cfr. sent. n. 11 del 1968, n. 4 del Considerato in diritto: “Una legge la quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all’accesso alla professione giornalistica … porterebbe un grave e pericoloso attentato all’art. 21 Cost.”) – deve essere interpretata, tra più significati possibili, in senso conforme a Costituzione (cfr., e pluribus e da ultima, Corte costituzionale, sent. n. 1 del 2000), come vera e propria “norma di chiusura”, la quale, proprio in sede di ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione, attribuisce ai predetti consigli dell’Ordine, secondo le rispettive competenze, il potere di intervenire, in “sostituzione” del direttore dell’organo di informazione, per accertare e dichiarare, innanzitutto nei confronti dell’interessato, la sussistenza di un caso di svolgimento di pratica giornalistica svoltasi abusivamente al di fuori degli schemi del surrichiamato procedimento legale tipico, nonché la data di effettivo inizio del tirocinio; e per provvedere, conseguentemente, con effetto da tale data, all’iscrizione del “praticante di fatto” nel relativo Registro, al fine di consentirgli la partecipazione all’esame di idoneità professionale e garantirgli, quindi, la concreta possibilità di accedere alla professione. Del resto, l’espressa attribuzione di siffatti poteri sostitutivi non fa altro che dotare di strumenti di effettività i più generali poteri – conferiti, in prima istanza, ai consigli regionali od interregionali (cfr. art. 11 lett. b della legge n. 69 del 1963), e, in seconda istanza, al Consiglio nazionale dell’Ordine (art. 60 comma 1 della legge stessa) – di vigilanza “per la tutela del titolo di giornalista in qualunque sede” e di repressione “dell’esercizio abusivo della professione”. E) – L’affermazione, fatta della sentenza impugnata (cfr., supra, n. 1.3, lett. E), secondo cui l’intervento sostitutivo degli organi dell’Ordine ex art. 46 comma 2 del d.P.R. n. 115 del 1963 (come sostituito nel 1993) è necessariamente limitato al provvedimento di iscrizione nel Registro dei praticanti – I NOSTRI LUTTI di Donato Mutarelli Armando Boscolo ci ha lasciato il 21 febbario scorso. Devo subito dire che, per me, Armando Boscolo non è stato soltanto uno di quegli amici che quando s’incontrano non si possono non abbracciare. Armando è stato per me, molto di più: è stato un maestro di giornalismo, un esempio di moralità e di patriottismo e dico - e ripeto - patriottismo anche se questa parola sembra essere, al giorno d’oggi, una parola obsoleta. Poiché fra tutte le sensazioni, le opinioni, le scoperte che venivano fuori parlando con Armando, tra tutte queste dimensioni umane, quello che emergeva come un inoppugnabile aspetto di etica e di estetica, era il suo patriottismo. Nel lontano 1940, come tutti i giovani della sua generazione, era partito per la guerra e tre anni dopo il ventottenne tenente di fanteria Armando Boscolo, nell’ultima battaglia in terra africana, in Tunisia, s’era trovato accerchiato, assieme al suo reparto dalle truppe anglo-americane. L’ordine, arrivatogli dallo Stato Maggiore, vista la soverchiante forza del nemico, era stato quello di arrendersi e lui, come tutti quelli del suo reggimento, 8 previo accertamento della data di effettivo inizio del tirocinio e, conseguentemente, che la durata della pratica non abbia superato il termine di tre anni dalla data stessa – e non può, quindi, estendersi al riconoscimento della compiuta pratica, conduce ad esiti illegittimi. Innanzitutto, l’affermazione medesima implica l’errore, dianzi ampiamente motivato, di negare sostanzialmente la realtà sottostante al prefigurato intervento e, pertanto, la stessa ratio legis. In secondo luogo, ed in stretta connessione con quanto ora rilevato, essa comporta l’assoggettamento del “praticante di fatto” all’onere di richiedere immediatamente agli organi dell’Ordine l’esercizio dei poteri sostitutivi relativamente all’inizio della pratica giornalistica, dimenticando, però, che, in situazioni siffatte, sussistono gravi ostacoli materiali alla libera iniziativa dell’interessato, il quale può essere indotto a non esercitare il proprio diritto (a chiedere ed ottenere dal direttore la dichiarazione di inizio della pratica) per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, e cioè per il timore del licenziamento: infatti, se, a seguito della sua richiesta di intervento sostitutivo, egli potesse ottenere dall’Ordine soltanto il provvedimento di iscrizione nel Registro, e non anche l’accertamento della compiuta pratica, la sua partecipazione all’esame di abilitazione potrebbe risultare compromessa sine die, tenuto conto proprio dell’anomalia che caratterizza il suo rapporto di lavoro giornalistico. In terzo luogo, e conseguentemente, l’interpretazione seguita dai Giudici a quibus, o svuota di contenuto i poteri sostitutivi attribuiti dalla legge agli organi dell’Ordine – i quali, pur in presenza di situazioni di svolgimento di tirocinio giornalistico, praticato per un tempo sufficiente od anche superiore a quello legislativamente stabilito (18 mesi), dovrebbero limitarsi a provvedere all’iscrizione del praticante nel Registro, precludendogli sine die la possibilità di accesso alla professione – ovvero si risolve nella formalistica necessità della contestuale adozione, da parte degli stessi, di due distinte deliberazioni, aventi ad oggetto, prima, l’iscrizione nel Registro dei praticanti, e, poi, l’accertamento della compiuta pratica. Del resto, la riprova che un utile e valido svolgimento della pratica giornalistica possa essere effettuato anche senza previa iscrizione nel relativo Registro – e che, dunque, l’effettivo svolgimento del tirocinio, segnatamente nelle situazioni di “praticantato di fatto”, costituisca l’elemento sostanziale prevalente rispetto al dato formale dell’iscrizione nel Registro, che manca per definizione – si trae dalla disciplina dettata dall’art. 41 comma 6 del d.P.R. n. 115 del 1965 (aggiunto dall’art. 9 del d.P.R. n. 212 del 1972), secondo cui può essere ammesso a sostenere l’esame di idoneità professionale anche il cittadino italiano che abbia svolto la pratica giornalistica presso pubblicazioni italiane edite all’estero o pubblicazioni estere con determinate caratteristiche, ed anche se il praticantato sia stato svolto prima dell’acquisto della cittadinanza italiana, e, quindi, prima della possibilità di iscrizione nel Registro dei praticanti (cfr. combinato disposto degli artt. 33 comma 3 e 31 comma 2 della legge n. 69 del 1963). F) – Infine, l’orientamento interpretativo qui affermato – e cioè, che, nelle situazioni di svolgimento “di fatto” del tirocinio giornalistico, questo può ritenersi utilmente e validamente praticato, ai fini previsti dalla legge (e, segnatamente, ai fini dell’ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione), anche in assenza della previa iscrizione formale del praticante nel relativo Registro, ove esso sia stato accertato a posteriori da parte degli organi dell’Ordine, in sede di esercizio dei poteri sostitutivi – non determina, come invece ritenuto dalla Corte veneziana, alcuna disparità di trattamento giuridico fra “praticanti iscritti” e “praticanti non iscritti” nel Registro, relativamente al “tetto” di iscrizione triennale stabilito dall’art. 34 comma 3 della legge n. 69 del 1963, che, mentre sarebbe invalicabile dai primi, potrebbe essere superato dai secondi (cfr., supra, n.1.3 lett. D). La denunziata disparità non sussiste, perché, in realtà, le situazioni messe a raffronto sono incomparabili e richiedono, perciò, una disciplina normativa differenziata. Deve premettersi che la disposizione ora richiamata – secondo cui il praticante non può rimanere iscritto per più di tre anni nel Registro – ammette un’eccezione, corrispondente al periodo di interruzione del tirocinio (che dev’essere continuativo ed effettivo) per “cause di forza maggiore”, del quale non si tiene conto ai fini della decorrenza del predetto termine triennale (cfr. art. 41 comma 1 d.P.R. n. 115 del 1965); ed altresì, che il decorso di tale termine non comporta, ipso jure, la cancellazione dal Registro del praticante, che, invece, deve essere deliberata caso per caso dal consiglio regionale od interregionale dell’Ordine, previa audizione dell’interessato (e fatti salvi, ovviamente, i rimedi amministrativi e giurisdizionali avverso la deliberazione di cancellazione; cfr. art. 41 comma 2 primo periodo). Tanto premesso, va sottolineato che il caso del praticante, iscritto nel Registro fin dall’effettivo inizio del tirocinio, rientra nello schema normale del procedimento legale tipico prefigurato dalla legge (cfr., supra, lett. D): e così, lo stesso, trascorsi diciotto mesi, dalla data di iscrizione, di pratica giornalistica effettiva e continuativa, può essere ammesso a sostenere la prova di idoneità professionale, anche per più di una volta (cfr. art. 45 comma 1 d.P.R. n. 115 del 1965, come sost. dall’art. 2 del d.P.R. n. 384 del 1993), con l’unico limite costituito dalla scadenza del triennio di iscrizione nel Registro (cfr. art. 53 comma 3 del d.P.R. n. 115 del 1965). Ben diverso, invece, il caso del praticante non iscritto. Infatti, dinanzi a situazioni di “praticantato di fatto”, si rende necessaria, per definizione (come già rilevato: cfr. supra, lett. D), la loro riconduzione nell’alveo del diritto; sicché, prima dell’esercizio dei poteri sostitutivi da parte degli organi dell’Ordine, non ha senso richiamare i parametri legali relativi alla disciplina della pratica giornalistica, come, ad es., la regola posta dall’art. 34 comma 3 della legge professionale. Se si ritenesse che, in queste ipotesi, i consigli dell’Ordine possono provvedere sostitutivamente soltanto alla dichiarazione di inizio della pratica ed all’iscrizione del praticante nel Registro – al fine di consentire il valido, successivo svolgimento della pratica per il prescritto periodo di diciotto mesi – l’apparente parificazione giuridica della situazione dei “praticanti Armando Boscolo patriota e giornalista s’era arreso. Ma quel gesto gli era costato amarissime lacrime se è vero che ogni volta che me lo raccontava, gli scendevano le lacrime. Assieme agli altri era stato preso prigioniero e condotto - dopo un terribile viaggio per nave - negli Stati Uniti, nel Texas, dove nella località di Breford gli americani avevano allestito un autentico lager. Qui era rimasto per quasi quattro anni in prigionia, ma non dimenticando di manifestare la sua sdegnosa fierezza e la sua dignità di uomo. Quando, dopo le tristi vicende di quella guerra, l’Italia di re Vittorio Emanuele III con il tragico armistizio dell’8 settembre si era accostata agli Stati Uniti ed all’Inghilterra, inventando, grazie a Badoglio, la strana formula della “cobelligeranza”, gli americani chiesero ai prigionieri italiani se volevano collaborare, Armando Boscolo, assieme a mille altri, si rifiutò. No, non si poteva cambiar bandiera, non si poteva improvvisamente riconoscere come alleato quello stesso avversario che ieri ti aveva vinto. Prigionieri si era e prigionieri si restava. L’onore non è un oggetto di compravendita. E quando alla fine del conflitto, ritornò in Italia dopo un altro terribile viaggio per nave, girando smarrito per le vie di Napoli, nella vetrina d’una qualsiasi cartoleria, vide esposto un libro; era edito dalla Sperling & Kupfer e s’intitolava Il rugby. L’autore era proprio lui, Armando Boscolo. Dall’emozione di quell’incontro silenzioso con un libro che lui stesso aveva consegnato ancora in bozze al suo editore, prima di partire per la guerra, da quell’incontro Armando capì che la vita, dopo tutti gli orrori della guerra, riprendeva il suo corso. Personalmente ricordo che nel lontano 1956 io - che ero allora soltanto un qualsiasi ragazzo che voleva fare il giornalista - andai a trovarlo nella redazione dei suoi periodici che si chiamavano allora Motociclismo e La Rivista Motonautica. Volevo iniziare a lavorare e mi affascinava quel mondo sportivo che allora era sicuramente meno ricco di oggi ma certamente più autentico e vero. Armando Boscolo mi accolse con una cortesia nella quale però non era estranea una certa diffidenza: come tutti i veneti, Boscolo non concedeva la sua cordialità e la sua non iscritti” a quella dei “praticanti iscritti”, si risolverebbe, in realtà, nel disconoscimento della pratica già sostanzialmente svolta dai primi e già sostanzialmente riconosciuta come tale nella dichiarazione sostitutiva di inizio della pratica, e finirebbe con il determinare un deteriore trattamento giuridico degli stessi. E, d’altro canto – dinanzi a casi, quale quello di specie, di “praticantato di fatto” protrattosi lungamente nel tempo – potrebbe addirittura determinarsi la paradossale situazione, per cui una sua protrazione nel tempo superiore ai tre anni, legalmente stabiliti, renderebbe impossibile o, comunque, inutile e priva di effetti un’iscrizione dell’interessato nel Registro dei praticanti, decorrente dalla data di effettivo inizio del tirocinio. Tali rilievi, oltre a confermare l’incomparabilità delle due situazioni messe illegittimamente a confronto dalla Corte veneziana, inducono a ritenere che, nelle fattispecie di “praticantato di fatto”, l’esercizio dei poteri sostitutivi – attribuiti dal combinato disposto degli artt. 46 comma 2 e 43 comma 3 del d.P.R. n. 115 del 1965 (cfr., supra, lett. B3 e B4) agli organi elettivi dell’Ordine, e che si risolvono nei provvedimenti dichiarativi di inizio e compiuta pratica ed in quello costitutivo di iscrizione nel Registro dei praticanti – comprende necessariamente una dimensione “discrezionale”, volta ad adeguare la situazione di fatto alla disciplina giuridica del praticantato giornalistico ed a parificare, nei limiti del possibile, la condizione giuridica del “praticante di fatto” a quella del “normale” praticante. G) – La sentenza impugnata, che si fonda su principi opposti a quelli ora affermati, deve essere, pertanto annullata. Peraltro, nel caso di specie, sulla base delle considerazioni dianzi svolte, e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto sul punto (cfr., supra, n. 1.1), deve essere riconosciuta, ai sensi dell’art. 384 comma 1 secondo periodo cod. proc. civ., la validità della deliberazione del Consiglio nazionale dell’Ordine impugnata, che ha, legittimamente, dato “mandato al Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto di iscrivere D.Z. nel registro dei praticanti e di rilasciare la dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica per l’attività svolta presso Il Gazzettino, ai sensi dell’art. 43 del d.P.R. 4.2.1965 n. 115 e successive modificazioni”. 3. Tuttavia, la presente causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, la quale dovrà pronunciarsi su tutte le altre questioni ritenute assorbite dalla decisione ora annullata (cfr., supra, n. 1.3, in fine) e provvederà anche a regolare le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Riunisce i ricorsi e li accoglie. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, l’11 ottobre 1999. (Sentenza pubblicata il 10 maggio 2000) (da www.giustizia-e-legge.it) attenzione tanto facilmente al primo venuto. Voleva per prima cosa accertarsi del valore del suo interlocutore. Ad un certo punto ascoltando le mie parole che erano traboccanti d’entusiasmo e d’ammirazione, m’interruppe dicendomi con calma “Guardi che le cose nello sport vanno diversamente da come le s’immagina. A queste sue pennellate di colore io potrei aggiungere, mi creda, molte pennellate di grigio”. Restai stupito. Solo qualche anno dopo mi resi conto che quella era stata la prima importante lezione di giornalismo che Armando Boscolo m’aveva dato. Di lezioni, di suggerimenti, di autentici insegnamenti Armando Boscolo sarebbe stato molto prodigo con quel ragazzo-allievo di quarant’anni fa. Da lui, non ho solo imparato cosa si deve scrivere ma anche come si deve scrivere. Penso che lo ricorderò sempre per quella sua pacata severità, con quel suo sorriso buono e quel suo ciuffo di capelli sulla fronte che era un po’ il suo distintivo e che gli ha sempre permesso di nascondere i suoi anni. L’ultima lezione, me la diede l’anno scorso quando, quasi sgridandomi, mi disse “Vorrei che tu la smettessi di chiamarmi tuo maestro: così facendo mi fai un torto”. “Io ti faccio un torto Armando?” “Sì un torto, perché si ripaga male un maestro se si rimane sempre suoi scolari”. È stata questa l’ultima lezione di giornalismo del mio amico Armando Boscolo. La lezione d’un uomo che non dimenticherò mai. ORDINE 6 2000 ■ La carta europea ■ La telesorveglianza in Italia ■ La fine della privacy ■ La conoscenza della legge ■ Coupons ■ Le 27.000 richieste del 1999 ■ Controlli a distanza ■ La gift economy ■ Il Genetic Privacy Act di Clinton ■ Una Maastricht per la privacy ■ Le persone a rischio ■ Le paure americane Nella relazione per l’anno 1999 del presidente dell’Ufficio del Garante una realtà sconosciuta e inquietante Privacy, le telecamere ci spiano In gioco la dignità dei cittadini Pubblichiamo la relazione integrale (per l’anno 1999) del presidente dell’Ufficio del Garante della privacy Stefano Rodotà letta il 3 maggio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. Signor Presidente della Repubblica, stiamo vivendo una fase storica dominata dai ritmi di un cambiamento continuo e diffuso, da un dilatarsi della dimensione tecnica alla quale nessun traguardo e nessun ambito di vita sembra ormai precluso. In questo clima cambia la percezione del nuovo, mutano i comportamenti individuali e collettivi, si modifica la funzione della tutela dei dati personali, si trasforma la nozione stessa di sfera privata. Se pure intelligenza e prudenza vogliono che non ci si abbandoni alla tirannia d’una attualità che ogni giorno propone una nuova scoperta ed una nuova frontiera, è tale la portata dell’insieme delle innovazioni che sarebbe grave cadere nell’opposto peccato della sottovalutazione. Nella primavera dell’anno scorso, con una sintonia rivelatrice, due grandi settimanali come The Economist e Der Spiegel parlarono sulle loro copertine di “fine dalla privacy”, indagando minuziosamente le infinite tecniche di raccolta delle informazioni personali messe a punto dal sistema mondiale delle imprese, spesso all’insaputa degli interessati. Intanto, però, una ricerca condotta dall’Ibm, nel 1999, ha messo in evidenza come la preoccupazione maggiore del 94% degli americani, per quanto riguarda il commercio elettronico, sia rappresentata proprio dalla tutela della privacy. E un lavoro pubblicato all’inizio di quest’anno dalla Wharton School of Business permette di stabilire una correlazione tra la protezione ancora insufficiente della privacy on line e le tendenze del commercio elettronico negli Stati Uniti, dove nel 1999 è diminuita la spesa pro capite in rete. Il tema della privacy diventa così un elemento che non caratterizza soltanto la dimensione individuale e sociale, ma incide profondamente sulla sfera economica. Lo sviluppo del commercio elettronico è ormai strettamente legato anche ad una tutela efficace dei dati personali. Al tempo stesso, solo un riconoscimento effettivo di questo nuovo, fondamentale diritto può evitare che Internet perda le sue caratteristiche di spazio di libertà, e si trasformi in un unico, immenso spazio commerciale. Il paesaggio economico, sociale, personale è profondamente mutato. Formule come commercio elettronico, che ancora ieri sembravano capaci di descrivere interamente una nuova realtà, sono state rapidamente affiancate da altre ben più impegnative: si è parlato di e-busi- ness, per approdare poi ad una espressione massimamente comprensiva come “nuova economia”, caratterizzata appunto dalla presenza determinante delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si diffondono poi, su larghissima scala, i controlli a distanza di attività e comportamenti, dal discusso sistema planetario Echelon fino alle telecamere che, con riprese a distanza, tendono sempre più ad accompagnare ogni momento della nostra vita negli spazi pubblici: si calcola che, nelle grandi città, il cittadino venga ripreso almeno 300 volte al giorno, sì che le metropoli non sono più il luogo dove si scompare e si diviene parte della folla anonima e solitaria di cui ci ha parlato David Riesman. Intanto, i destini dell’uomo, la sua intimità più profonda, vengono scandagliati da una ricerca genetica che porta alla luce gli elementi costitutivi dell’individualità di ciascuno. Roma, 3 maggio. Stefano Rodotà mentre legge la relazione. Roma, 3 maggio. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha assistito alla cerimonia nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. ORDINE 6 2000 9 Questo mondo nuovo si nutre di informazioni e, tra queste, i dati personali diventano una materia prima essenziale per il suo funzionamento. E qui si colloca, con intensità e responsabilità prima impensabili, il ruolo del Garante per la protezione dei dati personali, che non ha più soltanto il compito di assicurare il rispetto di procedure di difesa della vita privata contro invasioni indebite, ma si trova a dover effettuare un continuo e difficile bilanciamento tra valori fondamentali: tra dignità e controlli, tra intimità e trasparenza, tra diritti dell’individuo e interessi della collettività. Fin dalla nostra prima relazione abbiamo detto che si scorgevano i tratti d’una nuova cittadinanza, via via costruita proprio nella nuova dimensione definita dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Oggi questo appare ancor più evidente: l’insieme dei diritti dei cittadini è sempre più condizionato dalla loro possibilità d’essere attori nei processi di comunicazione, e non soltanto passivi e disarmati fornitori di dati. l’interessato perde ogni diritto. Anche quando costituiscono oggetto di transazioni, essi non smarriscono il loro significato costitutivo dell’identità personale. Un carattere, questo, che si manifesta in maniera netta in relazione ai dati sensibili, sottratti all’esclusiva disponibilità degli stessi interessati, poiché il loro legittimo trattamento esige, oltre al consenso scritto, una specifica autorizzazione del Garante. Fenomeni di queste dimensioni non possono essere affidati soltanto alla cura intensa e volenterosa di autorità indipendenti. Se a tal punto muta l’organizzazione sociale, non può mancare una attenzione adeguata da parte del Parlamento. Diciamo questo perché siamo ben consapevoli dell’avvio di dinamiche che stanno modificando notevolmente pure il funzionamento delle istituzioni. E lo diciamo senza alcuno spirito di rinuncia, senza tirarci indietro di fronte ad una impresa difficile. Proprio sui grandi temi appena ricordati, anzi, il Garante è intervenuto con provvedimenti significativi, che in molti casi rappresentano oggi l’unica disciplina della materia. Si ampliano così, e si modificano qualitativamente, le possibilità di classificazione adottando concetti come “predizione”, “predisposizione”, “persona a rischio”. Ma queste categorie interpretative, di cui si raccomanda un uso prudente già nell’ambito della medicina predittiva, possono produrre equivoci pericolosi quando vengono trasportate dal campo della genetica clinica a quello delle valutazioni sociali. Si rischia, infatti, di trasformare una condizione ipotetica o potenziale, spesso determinata con metodi statistici, in condizione attuale, con effetti sul trattamento giuridico e sulla considerazione sociale della persona. Ci siamo misurati con le tecniche di una nuova economia che, bisognosa com’è di dettagliatissime informazioni sulle persone e sui loro comportamenti, ne sollecita la cessione agli stessi interessati quasi in ogni momento della giornata, ora facendone la necessaria contropartita d’un servizio, ora stimolandola con la promessa di benefici. Non è un fuor d’opera, o un eccesso di zelo, occuparsi ad esempio dei coupons che, in cambio di qualche vantaggio, richiedono a chi li riempie dati su acquisti, proprietà, gusti, abitudini, comportamenti. Qui si colgono alla radice gli elementi costitutivi della “società della classificazione”, dove si disegnano in maniera sempre più massiccia profili individuali, familiari, di gruppo. Questi divengono poi non solo gli strumenti che orientano l’attività delle imprese, ma pure l’oggetto di un fiorente commercio. E chi li adopera non solo può interferire nella vita privata degli interessati, ma tenere anche comportamenti potenzialmente discriminatori. Per queste ragioni abbiamo ritenuto necessario indicare le condizioni che rendono legittima la raccolta di informazioni attraverso i coupons, con un provvedimento che assume una portata generale e definisce i diritti dei consumatori. Altrettanto significativa è la decisione riguardante il servizio GratisTel, con la quale si è toccato il tema della cosiddetta “gift economy”, della economia del dono che starebbe nascendo nel cuore della nuova economia. Non era soltanto necessario ribadire analiticamente gli obblighi d’informazione nei confronti degli utenti del servizio, e sottolineare i diritti di questi ultimi nel selezionare le informazioni da cedere e di controllare quelle cedute. Era opportuno chiarire, nelle forme proprie, che i servizi definiti “gratuiti” nel concreto non lo sono, perché vengono forniti in cambio di quella merce preziosa che sono ormai le informazioni personali. Il Garante, in questo modo, ha contribuito a mettere in evidenza uno dei caratteri reali della nuova economia e, insieme, ha rafforzato il diritto all’autodeterminazione informativa da parte dei cittadini, nei cui confronti non può essere effettuata nessuna attività di raccolta di dati che non sia preceduta da informazioni adeguate, accompagnata da una effettiva possibilità di selezione tra le informazioni richieste e legittimata da consensi analitici. I trattamenti invisibili Si ribadisce così l’illegittimità di ogni trattamento “invisibile” in rete e di ogni pretesa di sottrarre al controllo degli interessati il complesso dei trattamenti che riguardano i loro dati personali. Si individua così anche un limite invalicabile, che preclude la possibilità di procedere ad una piena assimilazione dei dati personali ad un qualsiasi bene economico, ceduto il quale 10 Nel mercato delle informazioni personali viene così ridotta, e assistita da maggiori garanzie, la possibilità di utilizzare dati sensibili, tra i quali assumono una rilevanza particolare quelli riguardanti la salute, sempre più al centro di una preoccupata attenzione da parte dei cittadini. Questa attenzione sociale è destinata a crescere di pari passo con la disponibilità di dati e di tests genetici, che accompagnano ad una penetrante capacità diagnostica una attitudine “predittiva” del futuro dell’individuo. Il Garante ha fin dall’inizio della sua attività percepito nitidamente questo pericolo, tanto che proprio nei suoi provvedimenti la categoria dei dati genetici si presenta, per la prima volta in Italia, con una sua specifica autonomia. Il Garante, dunque, è attrezzato per affrontare alcuni tra i maggiori problemi che la genetica porta con sé, come dimostra la decisione che ha autorizzato l’acquisizione dei dati genetici di un genitore che li aveva rifiutati alla figlia, pur sapendo che erano necessari per una scelta procreativa che potesse tener conto del rischio di trasmissione di una malattia genetica. Questa decisione, prima al mondo in una materia così delicata e che per ciò ha destato ovunque un grande interesse, propone un inedito bilanciamento tra riservatezza e salute, fondato sulla considerazione che i dati genetici, unici tra tutti i dati personali, non possono essere considerati “patrimonio” esclusivo d’una sola persona. Essi legano tutti gli appartenenti allo stesso gruppo biologico, e quindi il potere di disporne, in situazioni particolari, non può essere riservato ad uno soltanto tra essi. Proiettando la rilevanza dei dati genetici nell’organizzazione sociale, diventa subito evidente la necessità assoluta di una disciplina che impedisca la loro utilizzazione a fini discriminatori. Proprio per sottolineare la rilevanza di questo tema, l’8 febbraio di quest’anno il Presidente Clinton ha emanato un “executive order” con il quale vieta l’utilizzazione dei dati genetici nell’ambito del rapporto d’impiego dei dipendenti federali, ed ha chiesto al Congresso l’approvazione di un Genetic Privacy Act. In Italia, grazie ai provvedimenti del Garante, sono oggi illegittimi i trattamenti di dati che possano provocare discriminazioni, ad esempio nell’ambito dei rapporti di lavoro o in contratti come quello di assicurazione. Gli stessi scienziati impegnati nella ricerca genetica paventano i rischi di una società castale ed invocano una tutela forte per i dati genetici, proprio per impedire che questi divengano la base per forme di classificazione delle persone. Dignità e uguaglianza La protezione dei dati personali diventa così uno strumento essenziale per il rispetto dei principi di dignità e eguaglianza. Una dimensione, questa, che evoca immediatamente la necessità di un quadro normativo d’insieme, esige un’attenzione parlamentare e può trovare rapida realizzazione anche attraverso i decreti legislativi ai quali è affidato il completamento del disegno avviato dalla legge n. 675 del 1996. Allo stesso modo, e con altrettanta intensità, è indispensabile intervenire per disciplinare il settore della telesorveglianza, in tumultuosa espansione, regolato finora soltanto da una serie di provvedimenti del Garante. Ragioni diverse, dalla sicurezza alla registrazione dei comportamenti di acquisto, favoriscono l’installazione di telecamere, presenti ormai in banche, stazioni, aeroporti, supermercati e parcheggi, fermate di mezzi pubblici e interi tratti autostradali. Non abbiamo ancora raggiunto le dimensioni quantitative di un paese come la Gran Bretagna, coperta ormai da una rete fittissima di quasi un milione di telecamere. Ma i casi già affrontati dal Garante mostrano come la telesorveglianza si vada diffondendo in comuni grandi, medi e piccoli (da Torino a Mantova, a Portici), copra l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, faccia parte della progettazione dei nuovi spazi pubblici (la Stazione Termini a Roma). Una ricerca in corso - promossa dal Garante stesso e che si sta svolgendo a Roma, Milano, Napoli e Verona - conferma la rapida espansione di queste tecniche di controllo, alle quali ricorrono soprattutto le banche (26% dei casi a Roma, 39% a Milano), ma che cominciano a diventare così diffuse che non v’è settore merceologico che non le conosca. L’indagine ha finora contato 315 telecamere nelle zone centrali e semicentrali di Roma e 213 in quelle di Milano, in maggioranza assai visibili e di tipo fisso. Ma un confronto con le tendenze già in atto in altri paesi mostra una evoluzione verso strumenti ben mascherati, in grado di seguire gli spostamenti delle persone e, grazie a telecamere “pensanti”, in condizione di segnalare immediatamente comportamenti ritenuti pericolosi. La questione non può essere elusa, né banalizzata, né risolta con un atto di fede in una tecnologia che farebbe scomparire ogni forma di criminalità. Dobbiamo interrogarci intorno al senso che la libertà individuale assumerebbe in un ambiente implacabilmente scrutato dall’occhio elettronico. Dobbiamo valutare le conseguenze di un intreccio tra l’ormai dilagante società della classificazione, che accumula informazioni sulle persone e ne traccia profili, e la società della sorveglianza, dove ogni azione in spazi aperti al pubblico viene seguita, controllata, registrata. Attraverso la lente della protezione dei dati personali giungiamo così a mettere a fuoco uno dei problemi più delicati delle nostre società. Le tecniche di controllo a distanza incidono sul diritto di circolare liberamente, privatizzano spazi pubblici, e stanno così ridefinendo il modo e il significato dei comportamenti individuali e delle relazioni sociali. Un uomo di vetro in una società trasparente Un uomo di vetro in una società trasparente: è questo il nostro futuro? Torna l’antico interrogativo: qual’è il prezzo della libertà? E di quale misura di libertà godremo in un ambiente tecnologicamente ridisegnato in forme tali da ridurre diritti fondamentali delle persone? Noi, e usando il plurale parlo di tutti noi cittadini, siamo chiamati a sciogliere una contraddizione tra una trasparenza crescente e l’inconoscibilità o l’incontrollabilità di chi ci rende visibili, rimanendo egli stesso lontano o oscuro. Ma può la democrazia lasciar crescere al suo interno quello che, per dirla con Conrad, può divenire il “cuore di un’immensa tenebra”? Da Conrad a Echelon Vorrei ricordare che, di fronte al diffondersi delle tecniche di controllo delle comunicazioni, il Gruppo dei Garanti europei ha adottato, il 3 maggio 1999, una raccomandazione che comprende “il divieto di qualsiasi sorveglianza su vasta scala delle telecomunicazioni, sia per campione sia in via generale”. Il Garante italiano misura gli effetti su dignità e diritti delle persone dell’innovazione scientifica e tecnologica, appresta rimedi e regole dove le sue forze e le sue competenze lo consentono e, grazie a questo lavoro, contribuisce quotidianamente ad individuare aree critiche dove la protezione di dati personali assume anche un valore d’indizio di questioni più generali, dove la tutela della sfera privata s’incontra con i temi della libertà e della cittadinanza del nuovo millennio. Ma la Relazione, che oggi presentiamo, documenta soprattutto la prosecuzione di una intensa attività in materie già coperte nei due anni precedenti dalla nostra iniziativa. Testimonia pure, e conferma, l’impossibilità di chiudere questa attività in aree definitivamente fissate una volta per tutte. Non vi è una sorta di vocazione onnivora del Garante, che vuole occuparsi d’ogni cosa. Al contrario: in più di una occasione, ancora in tempi recentissimi, abbiamo rifiutato ampliamenti di competenze che riteniamo improprie. Ma è l’ampiezza del ricorso ai dati personali nelle nostre organizzazioni sociali a spingerci in territori sempre nuovi. Proprio perché così ampia è la dimensione in cui necessariamente ci muoviamo, ogni giorno misuriamo pure le difficoltà e i limiti della nostra azione. Le difficoltà nascono anche dal complesso arbitrato tra interessi contrapposti che la nostra attività implica: e, come ricordavo prima, quasi sempre si tratta di operare un bilanciamento tra interessi di particolare rilevanza, spesso di rango costituzionale. I limiti sono stati determinati soprattutto da condizionamenti istituzionali e materiali, che stiamo superando. È prossima la pubblicazione dei regolamenti relativi all’organizzazione dell’ufficio, al personale ed alla contabilità, che daranno definitiva stabilità e certezza al nostro lavoro. È imminente il trasferimento in una nuova sede, che consentirà di riunificare le sparse membra di un ufficio che è stato costretto ad operare in una precarietà di strutture fisiche che ha finora impedito ampliamenti dell’organico. Sarà così possibile non solo rafforzare i settori già consolidati della nostra attività, ma acquisire le competenze necessarie per affrontare tutte le nuove questioni via via emergenti. E una struttura così consolidata permetterà di aprire al massimo la nostra istituzione verso l’esterno, offrendo formazione ai giovani, documentazione a studiosi e operatori, occasioni di discussione a tutti gli interessati. L’avvio del nostro sito web è un passo concreto in questa direzione. Una attesa esigente dell’opinione pubblica, infatti, continua ad accompagnare l’attività del Garante. Per valutare meglio gli atteggiamenti dei cittadini, adempiendo così all’obbligo imposto dalla legge di “curare la conoscenza tra il pubblico delle norme che regolano la materia e delle relative finalità”, abbiamo promosso una indagine di opinione, che presenteremo presto e di cui anticipo qui alcuni risultati significativi. In generale, può dirsi che la legge è conosciuta (67,1% degli intervistati) e utilizzata (da 2/3 degli intervistati). Infatti, il 55,8% dichiara di esercitare sempre, e il 10,6% di esercitare talvolta, il potere di non dare ad aziende o enti il consenso al trattamento dei dati personali per scopi diversi da quelli per i quali esiste o si instaura il rapporto: dato tanto più significativo se confrontato con quello relativo alla conoscenza. Ma la conoscenza decresce con l’età (dal 74,7% dei giovani al 49,6% di chi ha più di 65 anni) e cresce con il livello di istruzione (dal 40,5% di chi è in possesso di istruzione elementare al 78% dei diplomati, al 93,6% dei laureati). Più analiticamente: sanno della sua esistenza l’85% di laureati e diplomati residenti al nord, mentre questa percentuale scende al 41% per chi sia in possesso di istruzione elementare e risieda nel sud e nelle isole. L’attenzione posta al tema della privacy vede prevalere le persone di mezza età (55-64 anni) tra chi la considera “eccessiva”, mentre prevalgono i più giovani (18-34 anni) tra chi la considera invece “ragionevole”. Il timore di un uso improprio dei dati è maggiore nei confronti delle aziende che della pubblica amministrazione; è più accentuato negli uomini (49,1% contro il 45,9% delle donne) e nelle persone meno istruite, mentre lo è meno tra i giovani della prima fascia di età (57,9% contro il 40% delle altre fasce). Famiglia, minori, fisco e sanità sono indicati come i temi meritevoli di maggiore attenzione. Anche se molti tra i dati raccolti richiedono ulteriori riflessioni, complessivamente l’indagine ci parla della legge n. 675 del 1996 come di uno strumento socialmente significativo, ben saldo nelle mani dei più giovani e dei più istruiti, del quale i cittadini si servono o in cui hanno fiducia, e che contribuisce a costruire nuove forme di riequilibrio di poteri, ad esempio tra cittadini e amministrazione, tra consumatori e imprese. Ma, al tempo stesso, mette in evidenza squilibri gravi, legati soprattutto all’istruzione ed alla collocazione territoriale, che determinano spesso una riduzione dei diritti dei cittadini che più potrebbero avvantaggiarsi dall’esercizio dei molteplici poteri attribuiti dalla legge. Si pensi soltanto all’importanza attribuita alla sanità, prevalente tra le persone più anziane, che sono però quelle tra le quali minore è la conoscenza della legge. La questione ben nota del nuovo abisso scavato tra information haves e have nots nel mondo costruito dalle tecnologie trova qui una significativa conferma. Diventa così essenziale e urgente promuovere una più analitica conoscenza delle norme nella loro concretezza. Poiché l’indagine ricordata prima ha messo in evidenza come la fonte della conoscenza sia nel 36,7% dei casi la televisione, e il 57% degli intervistati (che salgono al 64% nel sud e nelle isole) ha indicato sempre nella televisione la più appropriata fonte di informazione, il Garante ha avuto conferma della necessità di svolgere una delle speciali campagne informative televisive previste per ORDINE 6 2000 La riproduzione di originali fotografici può violare la legge sulla privacy Anche il fotografo che realizza riproduzioni e ingrandimenti da originali fotografici viola la legge sulla privacy se al momento di effettuare gli scatti non dichiara la propria identità e l’effettivo utilizzo delle immagini. Il principio si applica anche nel caso in cui le foto siano conservate presso una persona diversa dall’interessato: per esempio i suoi familiari. Lo ha stabilito il Garante in relazione al ricorso presentato da un noto personaggio dello spettacolo che si era rivolto all’Autorità per lamentare la violazione del diritto alla riservatezza da parte di un fotografo che aveva ripreso alcune immagini dall’album di famiglia conservato presso l’abitazione dei suoi genitori per poi pubblicarle su un settimanale. Secondo l’attrice il reporter aveva, infatti, omesso di dichiarare la propria qualifica professionale e, soprattutto, l’intenzione di realizzare un servizio di tipo giornalistico violando, così, il principio in base al quale la raccolta e il trattamento dei dati personali (tra cui rientrano anche le immagini) deve avvenire in modo lecito e secondo correttezza. Da parte sua il reporter, free lance di un’agenzia fotografica, sosteneva, invece, di aver operato con trasparenza e di aver dichiarato l’intenzione di realizzare un servizio fotografico sul personaggio. Considerate le versioni opposte, l’accertamento dei fatti non poteva essere completato nel breve procedimento instaurato dal ricorso dell’interessata, e potrà essere quindi completato in sede giudiziaria. L’Autorità ha però colto l’occasione per ribadire alcuni principi che disciplinano l’esercizio del diritto di cronaca e il diritto alla riservatezza. Il Garante ha, innanzitutto, rilevato che il caso in questione rientra nell’ambito dell’esercizio della professione giornalistica e in particolare dei trattamenti temporanei di dati finalizzati esclusivamente alla pubblicazione di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero, pur essendo stato effettuato da un reporter free lance privo di un rapporto professionale stabile con gli operatori del mondo dell’informazione. A tale riguardo il Garante ha ricordato che in base alla legge sulla privacy e alle norme del codice deontologico dei giornalisti anche il fotografo non professionista è tenuto a dichiarare la propria identità e ad informare l’interessato sull’utilizzo che intende fare dei suoi dati personali o delle immagini che lo riguardano. L’informativa può essere data in modo agevole: oltre a rendere palese la propria attività il giornalista non deve, infatti, fornire necessariamente tutte le altre informazioni che devono essere altrimenti rilasciate quando il trattamento viene effettuato per scopi diversi e può assolvere a tale obbligo anche attraverso i genitori o i familiari dell’interessato quando i suoi dati personali vengono raccolti presso terzi. Il fotografo, sottolinea l’Autorità, non può, quindi, ricorrere, ad artifici o pressioni indebite per esercitare il diritto di cronaca che è comunque svincolato dal consenso dell’interessato. Solo se i dati e le immagini fotografiche sono stati raccolti in modo corretto e osservando l’obbligo di fornire la prevista informativa la loro successiva divulgazione e pubblicazione può avvenire nel rispetto delle norme sulla privacy. (newslettere Garante Privacy n. 40/2000) i soggetti pubblici, per la quale era già stata rivolta una richiesta al Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio. Ma il problema della conoscenza della legge richiede ulteriori riflessioni, che partano dalla constatazione della notevole complessità della disciplina, già evidente nella legge n. 675 e che è stata accresciuta dai nove decreti legislativi che si sono succeduti in questi anni per integrare la normativa di base. Altri decreti sono attesi, e indispensabili, visto che ad essi, per tacer d’altro, è affidata proprio la disciplina delle reti. Poiché questo completamento non può attendere, auspichiamo che possa essere accelerato l’iter parlamentare del rinnovo della delega, già approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, e dove compare la provvida previsione di un testo unico che consentirà a tutti una conoscenza più agevole e sicura. Ma una parte della complessità è ineliminabile. Questa disciplina riguarda la vita privata nel suo insieme: e la vita - ce lo ricorda Montaigne - “est un mouvement inegal, irregulier et multiforme” (Essais, Livre troisième et dernier, chap. III, De trois commerces). Si farebbe dunque violenza ad una realtà oggi più che ieri ricca e mutevole, se si pensasse di rinchiuderla entro schemi ingannevolmente uniformi. Si tratta, quindi, di avere una normativa che, sviluppando i chiari principi che la fondano e che fanno riferimento ai diritti fondamentali ed alla dignità della persona, contenga poi una articolazione capace di consentirne un adattamento a situazioni tra loro profondamente diverse, come peraltro finora è avvenuto, sia pure tra difficoltà non trascurabili. Il completamento della disciplina deve sviluppare nel modo migliore questo carattere originario della legge, in un sistema che sta già realizzando un concorso di fonti, tra le quali spiccano per la loro novità quei codici deontologici che definirei “di seconda generazione”, perché non si risolvono in una tradizionale autodisciplina di settore, ma fissano regole valide per tutti i soggetti che svolgono una determinata attività. I codici Nel corso dell’anno verrà concluso il procedimento per l’adozione e la pubblicazione di ORDINE 6 2000 codici nei settori della statistica, della ricerca scientifica e storica, della sanità, delle attività bancarie e finanziarie, dell’investigazione privata. Con un evidente vantaggio, viste le particolari procedure per la loro adozione: si tratta di fonti che integrano la disciplina di base, conferendo ad essa una elevata flessibilità, sia per quanto riguarda la modificabilità di fronte a situazioni in rapido mutamento, sia per quanto riguarda l’adattabilità a materie e settori diversi. Mentre perseguiamo il completamento e il chiarimento del sistema di tutela dei dati personali, dobbiamo però essere consapevoli di un rischio: si cerca sempre di sfruttare le occasioni di rinnovato intervento legislativo per erodere la disciplina vigente, riducendo le garanzie dei cittadini. Fin dall’inizio il Garante ha preso iniziative per eliminare ogni ingiustificato appesantimento burocratico. Ma continua a ritenere, e continuerà a far valere questo suo punto di vista, che il quadro dei diritti non possa in alcun modo essere alterato, ed anzi debba essere ulteriormente affinato, costituendo esso l’indispensabile contrappeso al massiccio diffondersi dell’utilizzazione di dati personali da parte dei soggetti più diversi. Nell’ultimo periodo, infatti, l’evoluzione tecnologica ha stimolato la creazione di banche dati di dimensioni sempre maggiori, che certamente costituiscono un’opportunità per i cittadini, la pubblica amministrazione e le imprese, a condizione però che ad esse non si accompagnino condizionamenti o restringimenti delle libertà individuali e collettive. Al crescere delle banche dati della pubblica amministrazione, ed alle loro interconnessioni, il Garante ha dedicato attenzione particolare per evitare che la facilità dei collegamenti faccia dimenticare la regola secondo la quale i dati possono essere utilizzati solo per le finalità per le quali sono stati raccolti: sarebbe vanificata, altrimenti, un’essenziale garanzia del cittadino. Per questa superiore ragione, e non per un piccolo prestigio di bottega, insistiamo sempre perché vengano seguite le nostre indicazioni a tutela della dignità e dei diritti delle persone. È su questo terreno che la nostra funzione di garanzia, che integra i forti poteri di controllo diretto da parte dei cittadini, ha continuato a svilupparsi, e la Relazione lo documenta analiticamente. Ci sono state rivolte oltre 27.000 richieste: una cifra che ci riporta al livello del primo anno di attività - 27.000 richieste appunto, scese a 20.000 l’anno scorso. Questo dato dimostra come la fortissima attenzione per la legge e l’intervento del Garante non rappresentasse una fiammata iniziale, ma sia divenuta ormai un elemento stabile nel nostro panorama istituzionale. Al tempo stesso, però, scomponendo il dato globale si è indotti a ritenere che un flusso così massiccio di richieste dipenda pure da difficoltà di conoscenza e di interpretazione delle norme, come sembrerebbero indicare le 12.000 richieste di chiarimento relative alle notificazioni. Le dimensioni ancora ridotte dell’organico e la persistente precarietà organizzativa hanno lasciato permanere ritardi soprattutto per quanto riguarda le risposte a segnalazioni e quesiti. Queste difficoltà sono in via di superamento. Diventa, quindi, un impegno particolare del Garante quello di eliminare questo arretrato, che tuttavia non tocca l’aspetto più impegnativo dell’attività di decisione, quello dei ricorsi. I ricorsi pervenuti (150 nel 1999, 199 al 13 aprile di quest’anno) sono stati tutti decisi nei termini brevissimi previsti dalla legge (venti giorni, portati poi a trenta dall’art. 13.1 a) del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 281). Far fronte a scadenze così impegnative ed a carichi di lavoro così gravosi è stato possibile, come in passato, grazie all’impegno di un personale motivato e giovane (l’età media è di 40 anni, un quarto del personale non supera i 35 anni). Al di là del dato quantitativo, le richieste dei cittadini e i provvedimenti del Garante mettono in evidenza notevoli problemi di conoscenza e di applicazione della legge. Con i primi atti di ispezione e attraverso diversi canali di documentazione abbiamo potuto accertare l’esistenza di significative sacche di disapplicazione della legge. Stiamo favorendo una sua migliore conoscenza, proseguendo nel tradizionale metodo della collaborazione con gli interessati, ma anche avviando procedure sanzionatorie. Invitiamo tutti ad una doverosa maggiore attenzione. Obbedendo ad un preciso obbligo istituzionale, ci rivolgiamo in particolare al Governo perché continui a stimolare le molte amministrazioni centrali e locali inadempienti, in particolare per quanto riguarda gli atti da compiere per continuare legittimamente il trattamento dei dati sensibili, essendo già scaduto il termine del 31 dicembre 1999, fissato dal decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 135, per avviare l’adeguamento dei propri ordinamenti alle nuove norme. In realtà, mentre è sicuramente cresciuta la consapevolezza culturale dell’importanza della tutela dei dati personali, non tutte le amministrazioni dimostrano nei loro comportamenti concreti la necessaria sensibilità. La fatica con cui si diffonde una conoscenza precisa della legge pure negli ambienti professionali è testimoniata da alcuni dati ricavabili dalla materia dei ricorsi. Più di un terzo, il 34% per la precisione, sono stati dichiarati inammissibili, in buona parte per il mancato rispetto delle condizioni procedurali indicate dalla legge. E due provvedimenti giudiziari, che hanno accolto le impugnative proposte contro decisioni del Garante, hanno palesato fraintendimenti interpretativi che, talora neppure necessari per la decisione del caso concreto, mostrano una incomprensione degli elementi costitutivi del quadro all’interno del quale opera la disciplina dei dati personali. Queste circoscritte vicende, tuttavia, non incidono sul rapporto di fiducia tra cittadini e Garante. Lo dimostra il fatto che sono state impugnate davanti al giudice ordinario solo tre nostre decisioni: che è percentuale irrilevante rispetto alle centinaia di provvedimenti che, anche per la loro forte incidenza economica e sociale, avrebbero potuto giustificare reazioni da parte degli interessati. L’attività del Garante, infatti, si fa sempre più incisiva. Come annunciato lo scorso anno, sono state avviate le ispezioni, in un clima di piena collaborazione con l’autorità giudiziaria, offrendo così ai cittadini quel rafforzamento delle garanzie che deriva da un controllo diretto dei soggetti che trattano dati personali. Al tempo stesso, i cittadini hanno visto concretamente rafforzati anche i loro diritti e i poteri autonomi di controllo, grazie ad una serie di decisioni che, tra l’altro, hanno reso particolarmente penetrante l’essenziale diritto di accesso, in casi significativi come quelli riguardanti le valutazioni dei lavoratori. Si può dunque ritenere che si consolidino il quadro istituzionale e l’accettazione sociale della disciplina dei dati personali. In questa direzione bisogna proseguire, perché le vicende del periodo più recente dimostrano con chiarezza come la nuova organizzazione dei poteri politici, economici e sociali, fortemente condizionata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, esiga contrappesi e garanzie che trovano il loro punto d’avvio proprio in una forte tutela della dignità e dei diritti delle persone. È assai significativo che, nel corso dell’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ci auguriamo possa essere integrata entro l’anno nei trattati europei, una delle novità più importanti sia costituita proprio da un articolo dedicato al diritto all’autodeterminazione informativa, che assume così un particolare valore “costituzionale”, qualifica e rafforza il quadro tradizionale dei diritti civili e politici, espande i poteri dei cittadini nei confronti dei grandi detentori di basi di dati. Questo orientamento europeo è pure la conferma dell’impossibilità di trattare le questioni della tutela dei dati personali, e dunque della nuova cittadinanza che essa contribuisce a qualificare, solo all’interno degli Stati nazionali, i cui confini sono stati cancellati proprio dalla dimensione totale imposta dalle tecnologie della comunicazione. In questo senso il progetto della Carta dei diritti fondamentali costituisce lo sviluppo di una linea istituzionale che, grazie a diverse direttive (in particolare a quella 95/46), ha costituito l’Unione europea come la regione del mondo dove è più elevata la tutela dei diritti dei cittadini per quanto riguarda il trattamento dei loro dati personali. Qui davvero siamo di fronte ad una significativa anticipazione di quella “integrazione attraverso i diritti” che può contribuire a rimuovere molte delle difficoltà che ancora si oppongono alla pienezza della costruzione europea. Ma oggi ci rendiamo conto che questa logica espansiva dei diritti soltanto in un’area regionale, pur significativa come l’Europa, non è sufficiente e, al tempo stesso, può far nascere nuovi conflitti. Non è sufficiente perché il prorompente espandersi della società della comunicazione non può essere chiuso neppure nei più vasti confini di singole regioni del mondo. Per questo, a conclusione della Conferenza mondiale sulla protezione dei dati personali, che si terrà a fine settembre a Venezia, proporremo l’avvio di un negoziato che possa concludersi con una convenzione internazionale sulla privacy. I conflitti sono evidenti nel difficile negoziato che da due anni oppone Unione europea e Stati Uniti proprio sul punto delle garanzie da offrire ai cittadini europei quando i loro dati varcano l’oceano. Il modello europeo dev’essere difeso, non per una pretesa provinciale, ma perché esso rappresenta la più alta acquisizione in tema di nuovi diritti, che non può essere sminuita in nome di miopi logiche di mercato. Il Garante italiano, su questo tema, ha assunto una posizione nettissima, con un ruolo di punta che in Europa gli ha fatto ottenere significativi riconoscimenti, e lo ha posto come primo interlocutore dell’amministrazione americana. Terremo ferma la nostra posizione nell’imminente fase finale del negoziato, confortati in ciò anche dall’atteggiamento del Governo italiano. Non stiamo parlando di vicende marginali. Il valore economico dei trasferimenti di dati personali dall’Europa agli Stati Uniti è grandissimo, e la loro importanza è strategica in una fase in cui cresce il commercio elettronico, ogni giorno si muovono enormi quantità di dati legati all’uso delle carte di credito, sono nove milioni i dipendenti europei di società multinazionali americane. Nessuno vuole deprimere gli scambi, ed i garanti europei lo hanno dimostrato non interrompendo i flussi dei dati. Ma, al tempo stesso, nessuno può pretendere la cancellazione di diritti che, come ricordavo all’inizio, sono ormai necessari per lo stesso funzionamento del mercato. Sarebbe improprio, peraltro, proiettare nel futuro questo conflitto, enfatizzando una sorta di assoluta incompatibilità tra modello americano ed europeo. Molti segnali ci dicono che la via imboccata dall’Europa è quella alla quale appartiene il futuro, tanto che le grandi organizzazioni americane dei consumatori chiedono agli europei fermezza sui principi fissati dalle direttive, e la campagna elettorale americana ha nella privacy uno dei suoi temi caratterizzanti, sì che si prevede addirittura a roar of legislation. Le informazioni personali non sono merce, né le derive tecnologiche possono indurre ad una resa che ci farebbe vivere in un mondo segnato da un perverso congiungersi della società della sorveglianza con la società della classificazione. La libertà e l’autonomia delle scelte individuali e collettive si fondano oggi anche sul rifiuto dell’espropriazione dei dati che ci riguardano. Proprio perché il nostro lavoro ci proietta in ogni momento verso il futuro, dobbiamo tenere ben fermo quel che storia e civiltà esigono, ed operare perché le nostre rimangano e si consolidino come società dei diritti. 11 Milano, 30 marzo. Un gruppo di giornalisti di economia e finanza di numerose testate nazionali - specializzati fra l’altro in previdenza complementare - ha deciso di richiamare l’attenzione sulle vicende del proprio fondo pensione con una “lettera aperta” e un esposto alla Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione). Lettera aperta ed esposto alla Covip sul Fondo di previdenza complementare dei giornalisti italiani Esposto Lettera aperta Abbiamo appreso dal bollettino FNSI Informazioni che il Consiglio di amministrazione del fondo ha scelto i gestori finanziari (Fideuram e Ing). Anche visitando il sito www.fnsi.it, alla voce “previdenza complementare”, non si apprende nulla sui criteri della scelta, né si capisce in base a quali princìpi sarà definita l’asset allocation del fondo, cioè la politica di investimento. Siamo una categoria che fa della trasparenza la propria bandiera e poi, su un tema così delicato come la previdenza integrativa, navighiamo nel buio. Chiediamo chiarezza su questi punti: 1) come sono stati selezionati i gestori? Che cosa è stato valutato come più importante: le performance dei fondi gestiti; i costi di gestione; la solidità della struttura societaria o che cosa? 2) Quali sono le condizioni della delega di gestione del patrimonio del fondo? 3) Come si intendono coinvolgere gli iscritti nella scelta della politica d’investimento? Perché non ipotizzare la possibilità di scegliere individualmente fra una rosa di fondi con diversi gradi di rischio (percentuale del patrimonio investita in azioni)? Gli iscritti sono pochi e facilmente raggiungibili (per e-mail, per esempio), quindi potrebbero essere consultati per sapere direttamente da loro che cosa preferiscono. 4) È comunque legittimato l’attuale consiglio di amministrazione del fondo a compiere scelte così delicate? Secondo la legge, entro due anni (entro il 1999) anche i “vecchi” fondi come il nostro avrebbero dovuto adeguarsi alle nuove norme e quindi eleggere - con il voto di tutti gli iscritti - nuovi organi di gestione. 5) Ogni iscritto dovrebbe avere un conto individuale su cui si sono accumulati i contributi finora versati (ancorché minimi). Perché finora non ci è stato comunicato alcunché? Proprio per sollecitare un chiarimento, inviamo inoltre un esposto alla Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione. (Seguono 22 firme) I sottoscritti, iscritti al Fondo di previdenza complementare dei giornalisti italiani premesso che 1) Il Fondo rientra nella fattispecie di cui all’articolo 18 (comma 1) del Dlgs 124/93 (c.d. vecchio fondo). 2) Pur in presenza di contributi versati dagli iscritti, dai datori di lavoro e dal Tfr, il Consiglio di amministrazione del Fondo non ha fino ad oggi inviato alcuna rendicontazione sulle posizioni individuali. 3) Il Consiglio di amministrazione del Fondo non è stato nominato ai sensi dell’articolo 5 (comma 1) del Dlgs 124/93 (metodo elettivo). 4) Detto Consiglio ha proceduto alla nomina dei gestori finanziari, senza per altro fornire agli iscritti alcun tipo di informativa sui criteri di selezione seguiti, anche su specifica richiesta. 5) Detto Consiglio non ha fornito fino a oggi alcun tipo di informativa sulle modalità di investimento delle risorse già raccolte dal Fondo. chiedono a codesta Commissione 1) Di verificare la legittimità del Consiglio d’amministrazione del Fondo ai sensi dell’articolo 18 (comma 4) del Dlgs 124/93, che impone ai fondi pensione di cui al comma 1 del medesimo articolo di provvedere entro due anni all’adeguamento alle disposizioni dell’articolo 5 dello stesso decreto. 2) Di verificare la legittimità dell’operato del Consiglio d’amministrazione del Fondo relativamente alle procedure seguite nella selezione del gestore amministrativo, della banca depositaria e dei gestori finanziari, tenuto conto in particolare di quanto previsto dall’articolo 6 (comma 4-bis) del Dlgs 124/93 e della circolare emanata da codesta Commissione il 21 dicembre 1999. 3) Di verificare la legittimità dell’operato del Consiglio d’amministrazione del Fondo relativamente alla rendicontazione e all’informativa dovuta agli iscritti, in forza di quanto previsto all’articolo 17 (comma 2, lett. h) del Dlgs 124/93. Serventi Longhi risponde punto per punto di Paolo Serventi Longhi segretario Fnsi Ventidue colleghi di Milano hanno inviato un esposto alla Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi di previdenza completare) e a noi per conoscenza, avanzando dubbi sulla corretta gestione del nostro Fondo. A tutti questi colleghi ho già personalmente risposto, tentando di spiegare le scelte operative che sono state realizzate in questi mesi. Ciò nonostante, vedo ora che gli stessi colleghi, non convinti delle nostre spiegazioni, hanno ritenuto opportuno diffondere una “lettera aperta” nella quale ripropongono, sostanzialmente, i loro interrogativi. Mi corre, pertanto, l’obbligo di ripetere le mie risposte con le stesse modalità della “lettera aperta”. 1) Come sono stati selezionati i gestori? Premesso che il Fondo di previdenza complementare dei giornalisti Italiani, in quanto vecchio fondo, non aveva l’obbligo di individuare soggetti esterni né per la gestione amministrativa, né per la gestione finanziaria né tantomeno per la banca depositaria, il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di assumere come propria scelta le indicazioni previste dalla legge per i nuovi fondi, al fine di garantire il massimo di economicità e di trasparenza. Per questo è stata compiuta una selezione rigorosa chiamando 11 istituti finanziari italiani e 6 stranieri. Dopo un attento esame, che è durato inevitabilmente alcuni mesi, abbiamo affidato alla Banca Commerciale il compito di banca depositaria, alla Previnet la funzione di gestore amministrativo, alla Banca Fideuram e al Gruppo olandese Ing la gestione finanziaria. Il criterio principale che ci ha ispirato nella scelta è stato quello dell’affidabilità e solidità degli istituti. A parità di affidabilità è stato scelto il gestore che offriva costi più bassi. Un ulteriore criterio di valutazione ha riguardato le funzioni affidate ai singoli gestori. Si è ritenuto di non dover affidare allo stesso soggetto il compito di banca depositaria e di gestore finanziario, proprio perché il compito della banca depositaria è quello di controllare la correttezza operativa del gestore finanziario. Si è ritenuto opportuno, inoltre, individuare un gestore amministrativo che avesse già maturato una consolidata esperienza nella gestione di fondi complementari e che fosse collegato operativamente e societariamente con la banca depositaria al fine di garantire il massimo di funzionalità. Si sono, poi, individuati 2 gestori finanziari, e non uno solo, in modo da assicurare “concorrenzialità” tra investitori e garantire agli iscritti il massimo di redditività. Nella scelta dei gestori finanziati ci siamo orientati verso un gestore nazionale e un gestore internazionale individuandoli, a parità di costi e di solidità aziendale, tra coloro che avessero maturato esperienza nella gestione di fondi pensione complementari. 2) Quali sono le condizioni della delega ai gestori nel patrimonio dei fondi? Il patrimo- nio del fondo sarà diviso in parti uguali tra i due gestori che definiranno ciascuno i tre comparti di investimento. La gestione viene parametrata su bench-marks che diventeranno metro di valutazione dell’efficacia della gestione stessa. I gestori acquisteranno direttamente i titoli sui mercati. I costi di gestione, comprensivi tra lo 0,1 e lo 0,3% a seconda della scelta dell’investimento (obbligazionario Euro, obbligazionario extra Euro, azionario Euro, azionario extra Euro). 3) Come si intendono coinvolgere gli iscritti nella scelta della politica di investimento? Lo Statuto del fondo (art. 29) prevede la facoltà di istituire (anche in ragione delle dimensioni patrimoniali) sino a tre comparti di investimento. Sino ad oggi il fondo ha operato con un solo comparto ispirato al massimo di garanzia e quindi con investimenti in titoli di stato o garantiti dallo stato. Con l’affidamento a terzi della gestione finanziaria il Consiglio di Amministrazione ha deliberato di procedere entro l’anno alla definizione di tre comparti: il primo di assoluta garanzia e, quindi, di redditività contenuta, formato al 100% di obbligazioni; il secondo, più bilanciato, formato da un 80% di investimenti obbligazionari e un 20% di investimenti azionari; un terzo comparto formato da un 60% di obbligazionario e un 40% di azionario. I tre comparti entreranno in funzione con il primo gennaio 2001 ed entro quella data tutti gli iscritti saranno messi in grado di poter scegliere il comparto preferito. La possibilità di scegliere tra una rosa più ampia di fondi con diversi gradi di rischio (peraltro non è adottata da nessun fondo di previdenza complementare), è da escludersi sia perché non prevista dallo statuto, sia perché comporterebbe costi di gestione non sopportabili. 4) È legittimato l’attuale Consiglio di Amministrazione a compiere scelte così delicate? La risposta non può essere che affermativa. Lo Statuto del fondo, approvato dalla Covip, prevede (art. 42) che in fase transitoria i rappresentanti degli iscritti in seno al Consiglio di Amministrazione e al Collegio dei Sindaci siano designati dalla Fnsi “sino all’approvazione del bilancio relativo all’esercizio dell’anno 1999”. Questa disposizione, che legittima le scelte del CdA, è stata dettata dalla necessità di rendere immediatamente operativo il fondo. 5) Perché finora non è stato comunicato alcunché sui conti individuali? Per il semplice fatto che il gestore amministrativo, al quale è affidato questo compito sta ricostruendo le posizioni individuali sulla base della documentazione e dei dati forniti dalla Casagit, che sino a marzo di quest’anno è stato l’Ente esattore dei contributi. Si tratta di un lavoro impegnativo e delicato che sarà compiuto rapidamente. Entro l’anno saranno fornite a tutti gli iscritti le singole posizioni individuali con l’indicazione dei contributi versati e dei relativi interessi maturati. Mi auguro che queste ulteriori informazioni siano sufficienti a fugare i dubbi di tutti i colleghi. Adempimenti Inps e Inail per i collaboratori coordinati e continuativi Gli aspiranti pubblicisti devono essere iscritti alla gestione separata dell’Inps (e anche all’Inail, qualora siano titolari di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa). 1. In attuazione della delega di cui all’articolo 55 della legge n. 144/1999, si è prevista l’estensione dell’assicurazione Inail ai lavoratori parasubordinati, purché svolgono le attività previste dall’articolo 1 del Testo Unico del 1965. Sono soggetti all’obbligo assicurativo i lavoratori parasubordinati indicati all’articolo 49 (comma 2, lettera a) del Dpr 917/1986 e successive modificazioni e integrazioni. Ai fini dell’assicurazione Inail il committente è tenuto a tutti gli adempimenti del datore di lavoro previsti dal Testo Unico. Il premio assicurativo è ripartito nella misura di un terzo a carico del lavoratore e due terzi a carico del committente, inoltre, ai fini del calcolo del premio la base imponibile è costituita dai compensi effettivamente percepiti dal collaboratore. 12 L’azienda che instaura un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa deve assolvere l’onere di presentazione della denuncia di iscrizione entro trenta giorni dall’inizio del rapporto. Tra i soggetti destinatari della normativa in esame, vi sono i percettori di reddito derivante dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, restano comunque esclusi quelli che percepiscono tali redditi in via occasionale. Questa norma riguarda anche gli aspiranti pubblicisti, che abbiano un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Al fine di individuare i requisiti per la ricorrenza dei rapporti in esame si evidenziano gli elementi caratteristici del rapporto di parasubordinazione: ■ La collaborazione ■ Il coordinamento ■ La continuità ■ La natura prevalentemente personale della prestazione Al fine di fornire ulteriori chiarimenti in ordine alle problematiche connesse ai collaboratori di giornali, riviste, enciclopedie e simili, si deve distinguere l’ipotesi in cui viene ceduta un’opera dell’ingegno (articolo, servizio, progetto grafico, servizio fotografico), di cui all’art. 2575 del Codice Civile, dai casi in cui si instaura un rapporto di collaborazione a giornali e riviste in relazione al quale l’oggetto della prestazione esula dalla disciplina relativa alla tutela del diritto d’autore. Pertanto questi ultimi rientrano senz’altro nella fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa che interessa ai fini assicurativi (Inail), mentre chi cede il diritto d’autore non va assicurato con l’Inail. 2. Invece dal punto di vista previdenziale, si ricorda che i collaboratori (non iscritti all’Albo, come gli aspiranti pubblicisti) debbano essere iscritti presso la gestione separata INPS, la quale è finalizzata all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, come previsto dall’art. 2 comma 26, della legge n. 335/1995, inoltre, si precisa che non sono tenuti al pagamento del contributo i collaboratori occasionali e i liberi professionisti in quanto già assicurati presso le rispettive casse professionali, relativamente ai redditi assoggettati a contribuzione presso le stesse casse. In riferimento agli adempimenti relativi all’iscrizione, si ricorda che i collaboratori coordinati e continuativi debbono comunicare all’Istituto di previdenza sociale i seguenti dati: l’attività svolta, i propri dati anagrafici, il numero di codice fiscale e il proprio domicilio. Per quanto riguarda il pagamento del contributo, la norma stabilisce che il relativo obbligo grava sul committente, il cui ammontare è pari al 10% per i soggetti che già dispongono di una copertura previdenziale (es. lavoratori dipendenti), mentre per quelli privi della copertura l’aliquota è pari al 13% (aliquota aggiornata dal 1° gennaio 2000). In entrambe le fattispecie, le percentuali sono ripartite nel seguente modo: 2/3 a carico del committente; 1/3 a carico del collaboratore. Il versamento dei contributi deve essere eseguito entro il giorno 16 del mese successivo a quello della corresponsione dei compensi. Dott. Salvatore GENTILE Studio Marcianesi ORDINE 6 2000 Riguarda anche le professioni liberali (compresa quella di giornalista) Il provvedimento dovrà ricevere il via libera dell’Europarlamento entro giugno di Enrico Brivio Dopo anni di tormentati dibattiti, taglia il traguardo la direttiva europea contro i ritardi nei pagamenti commerciali. La normativa, approvata ieri dal Consiglio dei ministri Ue dell’Industria, stabilisce un termine massimo di 30 giorni per il saldo della fattura (qualora una scadenza non sia concordata tra le parti), fissa interessi di mora automatici e impone ai Governi di fornire al creditore un titolo esecutivo “di norma entro 90 giorni” se la liquidazione non avviene a termine”. Obiettivo della direttiva è limitare il vizio diffuso di Pubbliche amministrazioni e aziende di ritardare il saldo delle fatture. Una cattiva abitudine particolarmente diffusa in Italia (nella Ue solo Grecia e Portogallo registrano tempi medi di insolvenza peggiori). Ma la direttiva fissa anche un traguardo ambizioso per il Governo italiano, imponendo meccanismi efficienti e poco costosi per il recupero credito, in grado di arrivare a un provvedimento esecutivo entro tre mesi. “Questa direttiva è un altro vincolo esterno che aiuterà l’Italia ad essere più virtuosa — ha commentato il ministro dell’Industria, Enrico Letta —. La sua approvazione è un fatto positivo che aiuterà ad eliminare la consuetudine un po’ levantina di pagare in ritardo e imporrà di essere più competitivi in Europa”. Anche il commissario europeo all’Impresa, Erkki Liikanen, ha salutato con favore il via libera del Consiglio, sottolineando i “danni arrecati dai ritardi nei pagamenti soprattutto alle picccole e medie imprese”. Secondo le Direttiva Ue alle imprese: pagamenti entro 30 giorni per transazioni e collaborazioni stime della Commissione Ue, il 25% dei fallimenti delle aziende comunitarie, con la perdita di circa 450mila posti di lavoro, sono causati da ritardi nei saldi delle fatture. Oltre il 20% delle imprese europee potrebbe esportare di più, con scadenze di pagamento più brevi. La direttiva prevede che, dal giorno successivo alla scadenza concordata dalle parti o — se questa non c’è — 30 giorni dopo il ricevimento della fattura, scattino interessi di mora a favore del creditore pari al tasso di riferimento della Banca centrale europea, aumentato di sette punti percentuali (salvo diverse disposizione del contratto). A meno che il debitore non sia responsabile del ritardo, “il creditore ha il diritto di esigere un risarcimento ragionevole per tutti i costi di recupero sostenuti a causa del ritardo”. Per alcune categorie di contratti, i Governi potranno elevare fino a 60 giorni il periodo che fa scattare gli interessi, a patto che si tratti di un termine inderogabile con un tasso d’interesse sensibilmente superiore a quello legale di mora sopra stabilito. Gli Stati vengono poi chiamati a fornire un titolo esecutivo “di norma entro 90 giorni di calendario dalla data in cui il creditore ha presentato un ricorso o ha proposto una domanda dinanzi al giudice o altra autorità competente, ove non siano contestati il debito o gli aspetti procedurali”. Anche le professioni liberali (compresa quella di giornalista, ndr) vengono assoggettate alla direttiva, senza tuttavia obbligare gli Stati ad equipararli alle imprese. La direttiva dovrà essere recepita entro due anni, a Lasciano posizioni di rilievo nella carta stampata per dirigere i portali. Spirito d’avventura e stipendi più alti partire dalla formale adozione dell’Europarlamento, prevista per giugno. Secondo il presidente di Confartigianato, Ivano Spalanzani, la direttiva rappresenta “una svolta storica per il sistema delle piccole imprese italiane”, mentre per il direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, è significativo il fatto che la normativa Ue, a differenza di quella nazionale, contempli anche la Pubblica amministrazione. “Mi auguro — dice — che nel recepire questa direttiva l’Italia imponga alla pubblica amministrazione tempi brevi e soprattutto da rispettare”. (Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2000) Sacerdote (e giornalista) condannato per calunnia Milano, 16 maggio. I giudici della quarta sezione del tribunale penale di Milano hanno condannato a un anno e 4 mesi di reclusione un sacerdote, don Tommaso Mastrandrea, ritenuto colpevole di calunnia nei confronti del giornalista Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine giornalisti della Lombardia. Commentando la vicenda relativa a una scuola di giornalismo avviata a Bergamo, e che aveva determinato una condanna del garante per pubblicità ingannevole, Abruzzo aveva fatto dichiarazioni ritenute diffamatorie dal sacerdote al vertice della scuola in questione. Ne era nata una causa conclusasi con l’assoluzione di Abruzzo e con la controdenuncia per calunnia nei confronti di don Mastrandrea, per il quale il pubblico ministero in aula ha chiesto un anno e sei mesi. Il tribunale, oltre alla pena detentiva, ha condannato il sacerdote a risarcire i danni ad Abruzzo, costituitosi parte civile con l’assistenza legale di Raffaele Di Palma. (ANSA) Ricerca dell’università di Stanford sui giornali on line I lettori virtuali “monitorati” con telecamere e sensori Sempre più giornalisti Le notizie su Internet: presi nella rete vince la parola scritta di Anna Masera Nini Briglia, direttore di Panorama, è stato appena nominato direttore editoriale di Mondadori.com, il portale Internet della casa editrice di Segrate. Pietro Calabrese, ex direttore del Messaggero, sarà il capo dei contenuti del futuro portale della Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera). Massimo Donelli, ex condirettore di Panorama, è da qualche mese “chief content officer” del portale Ciaoweb del gruppo Fiat-Ifil. Sergio Luciano, ex giornalista economico de La Repubblica, ha lasciato il quotidiano per dirigere i contenuti del portale E.Biscom, che vuole sviluppare in Italia attività Internet nell’area delle comunicazioni multimediali a larga banda. E anche Alan Friedman è impegnato nell’allestimento di un grande sito Internet italiano dedicato alla finanza personale. Sta diventando una tendenza: i giornalisti lasciano la carta stampata per buttarsi su Internet. È l’indice di una crisi o di un’opportunità? “È una naturale evoluzione. Questo universo internettiano è stato costruito, gestito e governato per un tempo lunghissimo da informatici, uomini e donne esperti di tecnologie, ma non di come si fa informazione. Oggi si è capito che il valore aggiunto lo dà la capacità di creare contenuti: questo è un mestiere che si fa nelle case editrici e che sanno fare meglio di tutti i giornalisti, soprattutto quelli che hanno esperienza di management, cioè i direttori dei giornali” sostiene Massimo Donelli, 46 anni, di cui 32 vissuti nelle redazioni. Donelli, che ha cominciato a fare il giornalista nel 1967 alla redazione genovese della Gazzetta dello Sport, è passato per il Secolo XIX, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Sole 24 Ore, e poi ha lavorato dieci anni in Mondadori, dove ha diretto Epoca e ORDINE 6 2000 alla fine è stato condirettore di Panorama assieme a Briglia. Lavora in Internet da meno di cento giorni: “Sono passato da pane e giornali a pane e bit, catturato dai cacciatori di teste della Egon Zender, ed è stata la cosa più bella che mi potesse capitare” racconta Donelli. “Non butto via nulla di tutto quello che ho imparato nel sistema editoriale italiano, anzi, mi è prezioso, soprattutto per il sistema di relazioni e conoscenze. Internet richiede flessibilità, rapidità di pensiero e velocità di esecuzione. Nei giornali, su tutti questi fronti ho avuto dei bravi maestri”. A Ciaoweb, per sviluppare i contenuti Donelli dirige una squadra di 40 persone. Di cui ancora sei da assumere (gli eventuali interessati possono mettersi in contatto collegandosi al sito www.ciaoweb.it). “Per lasciare i giornali e dirigere un portale bisogna avere la forza e la sventatezza di rimettersi in gioco” avverte Donelli. “Questo di Internet è un mondo pieno di incognite. Di certo non c’è nulla. Si lavora tantissimo. E senza rete di salvataggio. Mi sento in una fase di mutazione genetica, mezzo uomo e mezzo cavallo. Fra due anni, sarò diverso da quello che ero. Nel frattempo, mi aspetto che altri colleghi vengano a bordo”. È proprio di questi giorni un articolo della rivista americana Red Herring (www.redherring.com) dal titolo: “Saranno i giornalisti i nuovi milionari dei media?”, in cui si analizza la trasformazione della professione giornalistica ai tempi della “new economy”. Se non altro, dal punto di vista economico: perché passando dalla carta ai bit, i tanto richiesti giornalisti si vedono offrire cifre da capogiro. Sostiene l’amministratore delegato di Line56.com, un sito informativo citato da Red Herring: “Per portare via un giornalista dalla redazione di un giornale, l’unica è pagare. E pagare bene”. (La Stampa, 9 maggio 2000) di Liliana Di Donato Occhio al testo, trascurando spettacolari foto e grafici variopinti: in Rete le notizie si leggono così. Con sommo disappunto dei profeti della multimedialità e dei fautori dell’informazione fatta di lettere, suoni e immagini. Poco importa che Internet sia allo stesso tempo giornale, radio e televisione: a “tirare” è la parola scritta. Il sorprendente identikit del lettore di news online è stato tracciato in una ricerca della Stanford University realizzata in collaborazione con il Poynter Institute: il 92 per cento di chi legge abitualmente giornali elettronici si sofferma per prima cosa su titoli e articoli, mentre poco più della metà (64 per cento) si lascia attrarre dalle fotografie e appena due su dieci guardano il corredo di schede e grafici. “Può essere un retaggio del passato, di un Web lento e primitivo”, cerca di spiegare Chris Charron, analista della Forrester Research, autorevole centro studi statunitense. “Su Internet le immagini hanno una qualità minore e vengono visualizzate più lentamente”, aggiunge Steve Outing, commentatore della rivista di comunicazione Editor&Publisher. “È il contenuto quello che interessa”, precisa, invece, Andrew DeVigal, uno degli autori della ricerca. Navigare a caccia di notizie, dalla cronaca del giorno alla quotazione delle azioni appena comprate, è cosa ben diversa dall’aprire pigramente il giornale a colazione, comodamente seduti in poltrona. Allora sì - e lo stesso Poynter Institute lo ha dimostrato in un analogo studio sulle abitudini dei lettori di quotidiani - che lo sguardo scivola sulla foto a colori o sull’illustrazione accattivante, per concentrarsi solo in un secondo momento sul contenuto dell’articolo. Su Internet è tutta un’altra cosa: una veloce occhiata allo schermo e un’impercettibile pressione sul mouse. Il che non significa che on line ci siano solo lettori distratti: anzi, arrivano almeno a tre quarti dell’articolo scelto, a differenza di quelli che, giornale alla mano, si fermano ben prima della metà. Ma come è possibile monitorare la lettura virtuale? Una telecamera a raggi infrarossi, montata sulla testa dei 67 partecipanti allo studio e collegata a un computer, ha registrato il movimento delle pupille (da un sito all’altro e all’interno della stessa pagina), le pause per la lettura e i clic sul mouse. Il tutto è stato poi elaborato in modo da determinare il punto preciso dove si appunta il primo sguardo, quanto tempo ci rimane e in quale direzione si sposta. Alla fine di 40 ore di navigazione collettiva, i “cacciatori di notizie” (reclutati tramite inserzioni sui quotidiani elettronici di Chicago e St. Petersburg tra i lettori abituali di news on line) avevano visitato quasi 6.000 pagine, cliccato più di 24.000 volte fermato gli occhi addirittura 608.000. Crimini e disastri si sono rivelati, senza dubbio, l’argomento di maggiore interesse (80 per cento). Gli uomini si sono soffermati di più sulla politica e sulla cronaca nazionale, ma sono stati eguagliati dalle donne sullo sport (70 per cento). Le notizie di carattere locale attirano soprattutto i trentenni, mentre scienza e sport la fanno da padroni fra i giovani. Tutti, infine, preferiscono le testate vere e proprie (dal New York Times a Usa Today) al servizio di news personalizzate fornito dai portali come Yahoo ed Excite. Un buon segno per i giornali on line, i cui bilanci negli ultimi tre mesi del 1999 erano ancora in rosso, nonostante un continuo aumento dei lettori. Lettori, quelli elettronici, che, comunque, non abbandonano la tradizione della carta stampata. Il giornale resta, come diceva Hegel, “la preghiera mattutina dell’uomo moderno”: solo che il rito laico di sfogliare pagine grigie di inchiostro davanti a caffè e brioche si rinnova nell’abitudine telematica di cliccare sullo schermo scintillanti pagine virtuali. (da Repubblica-on line, 6 maggio 2000) 13 (21) Convegno il 16-17 marzo 2000 Università degli Studi di Firenze “Donne e giornalismo” Politica e cultura di genere nella stampa femminile a cura di Paola Pastacaldi Si è svolto a Firenze all’auditorium dell’archivio di Stato, il 16 e il 17 marzo, un nutrito incontro sul tema “Donne e giornalismo”, con un’attenzione alla “Politica e alla cultura di genere nella stampa femminile”, organizzato dall’Università degli Studi, presidenza della facoltà di Lettere e Filosofia, dipartimento di Studi storici e geografici e di Filologia moderna e dall’Archivio della scrittura delle donne in Toscana. Dal primissimo Giornale della dame con i suoi accenni non solo alle mode ma anche ad un minimo di emancipazione, sino all’analisi del linguaggio e alla scrittura di tipo letterario giornalistico, come è stato il caso di Anna Banti, ricercatrici e cattedratiche più o meno istituzionali, hanno vagliato i giornali femminili, dalla catalogazione come è accaduto in Lombardia e Toscana alla critica sui contenuti. Ne è emerso un quadro che parte dal ’700 e che arriva a metà ’900, quanto mai interessante per come ha rilevato gli spunti di una certa cultura che preludeva al femminismo e di come questa ha condizionato lo sviluppo della stampa per le donne e delle donne. La Bibliografia dei periodici lombardi 1786-1945 In Lombardia 500 femminili Sfogliando la Bibliografia dei periodici milanesi lombardi 1786-1945, un volume di quattrocentocinquanta pagine, (Editrice Bibliografica, lire 45.000), scopriamo che il panorama femminile dei giornali non è esclusivamente dedicato ai valori tradizionali delle quattro mura domestiche come si potrebbe supporre. Certo tra i temi predominano l’eleganza, la moda come obbligo per signore e signorine, che vogliano dimostrare di essere degne di tale nome, i figurini francesi, le gioie dell’essere mamma e puericultrice perfetta, nonché l’ideale della mogliettina, custode del focolare, mentre all’uomo spetta la lotta col mondo. Ma spulciando nella ricca bibliografia e avendo la pazienza di farne una lettura in chiave antologica, come si trattasse di un racconto storico, nelle sue dettagliate e preziose schede spuntano le prime idee di rivendicazioni, di ricerca di un ruolo autonomo, di 14 (22) un bisogno di essere se stesse, che oggi sembra avere raggiunto il suo massimo livello, almeno stando alle ricerche dell’Eurisko sull’immagine della “donna nuova”. Gli editori dell’Ottocento sentirono il bisogno di allargarsi a nuovi mercati alla ricerca di un successo economico che nel secolo successivo sarà dominante, grazie all’aiuto del marketing. Dunque, nella Milano dei giornali che hanno avuto grande influenza sulla cultura, come Il Caffè dei Verri e dei Beccaria o de Il Politecnico di Cattaneo, quando gli stampatori decisero di allargare il pubblico dei lettori ebbero l’intuizione, squisitamente economica, di rivolgersi proprio al pubblico femminile, come ha sottolineato Ada Gigli Marchetti, professore di Storia del giornalismo della facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano, nella sua presentazione del volume a Firenze. “Il capoluogo lombardo non fu solo centro di produzione culturale ma anche patria di editori imprenditori che seppero coniugare con le motivazioni le ragioni del profitto”. L’arco cronologico di indagine parte dal 1786 con la prima rivista femminile Il giornale delle dame e delle mode di Francia e si conclude con il 1945, anno della liberazione. “L’indagine si è fermata al periodo del secondo dopoguerra, ovvero al momento in cui la stampa diventa specchio di una realtà femminile che ha rotto col passato. I pezzi sono cambiati nei toni e nei contenuti, sono cambiati i temi delle indagini e delle discussioni. È cambiata la donna, perché è cambiato il ruolo che essa ha conquistato nella società”. Le consumatrici della stampa sono diventate un pubblico emancipato e consapevole di sé e dei propri bisogni. Ben lo sanno oggi i direttori delle testate e del marketing e i pubblicitari: sulla nuova donna e i suoi molteplici ideali di autorealizzazione grava oggi un impero di consumi. La nascita del rotocalco femminile Con l’arrivo di segretarie, dattilografe, cameriere, commesse e telegrafiste, tanto celebrate dai romanzetti rosa e dal cinema, nasce in Italia il nutrito mondo delle fedeli lettrici dei rotocalchi. Siamo negli anni Trenta e i primi rotocalchi ad apparire nelle edicole si chiamano Eva (Milano, Casa editrice Gloriosa) e Lei (Milano, Rizzoli, che dal 1938 diventerà Annabella). La nuova veste editoriale prevede stampa su carta leggera e soprattutto le immagini, che tanta forza avranno poi negli anni a venire. Primo effetto economico dovuto alle rotative, il costo si abbassa: Lei ed Eva costano appena 50 centesimi, mentre Rakam settimanale una lira e mezza, Cordelia 4 lire, e Sovrana addirittura 8 lire. Con il nuovo mercato si avvia una mini rivoluzione dei prezzi e anche Sovrana abbassa da 8 lire a 5. Quello che conta però è che le nuove testate sono l’espressione di una strategia editoriale rivolta ai nuovi soggetti sociali del mondo femminile. Ma cambieranno anche i contenuti? Lo spiega con vivacità Silvia Salvatici, autrice tra l’altro di un libro sul lavoro femminile nelle campagne italiane tra gli anni Venti e Trenta (Contadine dell’Italia fascista, Torino, Rosenberg e Sellier, 1999) che a Firenze ha parlato sul tema “La nascita del rotocalco femminile nell’Italia fra le due guerre”. La letteratura rimane un punto di forza e continuità rispetto alle riviste femminili. Nei rotocalchi si pubblicano racconti e romanzi a puntate firmati da scrittrici italiane anche di successo e autori stranieri, soprattutto anglosassoni. Racconti e romanzi a puntate hanno come protagonisti le attrici che debuttano a Hollywood, le centraliniste implicate in storie con gangster, gli amori sbocciati fra i clienti in un grande magazzino. Molti dei temi spesso sono già familiari attraverso il cinematografo. Arriva così la descrizione del bel mondo con i suoi splendori e le bizzarrie, scandali e pettegolezzi fanno la loro prepotente comparsa. Di Greta Garbo, Jean Harlow, Joan Crawford, ma anche Elsa Merlini e Assia Noris e Isa Miranda si celebra la bellezza e si esalta la fama con dettagli su matrimoni e divorzi e abitazioni da favola. Iniziava dunque allora quel mondo giornalistico del gossip che tanto spazio avrebbe avuto in futuro sino ai giorni nostri. Le nuove lettrici vivono anche una vita diversa ed eccole all’attacco del sociale con nuove regole di comportamento. Eva pubblica il Piccolo galateo moderno su come comportarsi nelle buie sale del cinematografo; le buone creanze sono per le donne più libere un problema. Con i nuovi spazi nascono i nuovi codici. E arriva lo sport, l’equitazione, il tennis, il nuoto e lo sci. Nascono le prime rubriche fitte di esercizi da fare da sole per acquistare consapevolezza del proprio corpo. Quanta strada ha fatto la bellezza dagli anni Trenta a oggi, quando ormai la rivendicazione della cura del corpo non ha più il sapore della libertà ma piuttosto del consumismo più schiavizzante. Nasceva dunque con i rotocalchi la figura della donna sportiva, che esibiva un lieve piglio emancipazionista. Tanto che il regime fascista fu costretto ad elaborare una propria politica del corpo femminile. Eva era troppo spregiudicato anche nel linguaggio, usava neologismi e lasciava passare anche parole straniere. Ma sono soprattutto le foto a caratterizzare i nuovi giornali. Grandi immagini ad effetto su moda, cinema esercizi ginnici. Esaltare la fisicità in ogni pagina, dove campeggia per la prima volta la figura della donna. Troppo per il regime fascista che già nel ’36, quando con la sua politica autarchica interviene non solo nella sfera economica ma anche in quella culturale. Le pagine di Eva e Lei si fanno più scialbe riducono le immagini e lasciano più spazio alla narrativa e alle informazioni di regime. Nascono nel frattempo anche Gioia (1937) e Grazia (1938), come prosecuzione di Sovrana. La donna ritorna in cucina, tra i fornelli e i bambini, temi cari alla propaganda fascista. Rimane comunque fondamentale l’arrivo dei rotocalchi: prima stampa a larga diffusione capace di catturare i nuovi soggetti del lavoro, stimolare i loro consumi. Il Corriere delle Dame non solo moda Il Corriere delle Dame percorre quasi tutto l’arco dell’Ottocento; è dunque uno dei periodici femminili che meglio consente di ricostruire opinioni e ideologie delle donne”, così si legge nella Bibliografia dei femminili lombardi alla voce Il Corriere delle Dame, a pagina 67. E in effetti leggendo le nove pagine di storia si scopre come questo giornale, nato a Milano nel giugno del 1804 e vissuto sino al luglio del 1875, nella sua lunga vita abbia avuto anche interessanti momenti di aspirazione ad un modello nuovo di libertà e ORDINE 6 2000 Dal libro Dalla crinolina alla minigonna, di Ada Gigli Marchetti, su La donna, l’abito e la società dal XVIII al XX secolo Clueb, Bologna, 95, si sono ricavate queste tavole. Il Corriere delle Dame (dal 1804 al 1875), Milano non sia stato, dunque, solo il giornale delle mode e dei figurini. Nel 1848 la direzione aveva da poco deciso di allargare il Corriere, dedicando alle signore crestaje e sartore l’album La ricamatrice ricco di ben quattro pagine, quando il 18 marzo del ‘48 Milano si ribellò agli austriaci e il Corriere fu preso da un entusiasmo incontenibile che si allargò anche alla moda (proponendo coccarde e sciarpe tricolori, simbolo di italianità). Alla prima guerra d’indipendenza il Corriere proseguì nei suoi toni entusiastici in rubriche fisse come Cose della guerra. Ma nel ’50 già ripiegava sul modello della donna dolce e tenera tutta, dedita ai doveri della famiglia. E nel 1851 giudicava persino inopportuna la presenza femminile nel mondo del lavoro. Le donne dovevano essere solo madri mogli e spose, e il Corriere non approvava certo giornali come Eva redenta di Torino o L’Ape di Napoli, scritti solo da donne per le donne. Dieci anni dopo la moda ebbe di nuovo il sopravvento sulla politica e i temi preferiti tornarono ad essere le cronache teatrali, i viaggi e le scene di vita. Il mondo femminile si rifece stucchevole tutto incentrato su moda, figurini e amore coniugale. Solo a guerra d’indipendenza conclusa, si ritornò a a parlare della questione delle donne, ed fu in particolare il libro di Anna Maria Mozzoni sui diritti delle donne a scuotere le acque: il Corriere però in un articolo sull’emancipazione delle donne stigmatizzò bollando la questione come una insubordinazione. Nella rubrica Economia domestica dominano sempre più grandi tavole di ricamo. Poco favorevole a discutere la questione dei diritti delle donne e della parità, nel ’72 il giornale si fonde con La Moda e nel ’74 con Il giornale delle famiglie. La ricamatrice, entrando nella casa editrice Sonzogno. E la donna torna buona solo per le calze. Nel giro di un secolo, dopo varie battaglie di liberazione e conquiste di posizioni sociali e lavorative da parte delle donne, sarà di nuovo la moda a dominare gli spazi nei giornali femminili e non solo. E a fare delle donne emancipate e liberate delle eterne mannequin. La Novità giornale di moda della Sonzogno, ottobre 1867 Scrittrici e giornali Dal ’30 al ’50 Le ore casalinghe (dal gennaio 1851 al dicembre 1863), Milano Dal Bello al Bene ottobre, 1897 ORDINE 6 2000 Sul tema della relazione tra scrittrici e giornali nel periodo che va dagi anni Trenta ai Cinquanta ha elaborato un delizioso intervento, ricco di spunti di costume e di moda, Margherita Ghilardi, ricercatrice dell’archivio contemporaneo del gabinetto Viessiuex di Firenze, uno dei più antichi istituti culturali italiani (che fu diretto anche da Eugenio Montale). Negli anni Trenta la voga dei capelli alla garconne provocò molti interventi nei giornali, alcuni firmati da scrittrici di fama, che considerarono il taglio dei capelli come uno atto di ribellione ad una certa cultura del femminile. Veniamo così a sapere che si chiamava Attilio il principe dei parucchieri romani che recise la chioma “lunga e gloriosa” della scrittrice Sibilla Aleramo (autrice di molti romanzi al femminile), quasi un omaggio all’impertinente Colette. Sibilla dedicherà al tema capelli corti anche una prosa su Novelle Novecentesche. Era lo stesso anno in cui Critica fascista proponeva un modello di mogli e fidanzate che sapessero diventare “tre, cinque e dieci volte mamma e in più poco eleganti, non troppo belle, di corporatura normale e poco accurata”. Iniziava, secondo la scrittrice, non tanto una civettuola ribellione, ma una consapevole forma di emancipazione. Scriveva Sibilla Aleramo che col taglio dei capelli la donna avrebbe acquistato “una coscienza il più possibile chiara della diversità tra la sua compagine intellettuale e quella virile e, in luogo di averne onta, saprà metterla in valore e farla accettare all’uomo, quale elemento non già inimico ma integratore”. La nuova pettinatura fu definita da Il Giornale d’Italia “una risorsa della fantasia, dello svolazzo, del gorgheggio e talvolta puro capriccio”. I capelli saranno un argomento privilegiato delle rubriche come lo saranno i cappelli. Tanto che Paola Masino, la scrittrice vicina alla rivista 900 e a Bontempelli (autrice tra gli altri di libretti d’opera) nella rubrica della Piccola posta su Vie Nuove ne farà oggetto di una satira. “Vi sono stati insegnati soltanto dei vieti luoghi comuni: primo tra tutti quello che il mestiere della donna è un matrimonio e che importante è nella vita accalappiare un gonzo qualsiasi che ci porti in città. La cosa migliore sarebbe quella di leggere buoni libri”. Dai capelli all’educazione, abilità delle scrittrici di passare da una tema all’altro: è una Maria Bellonci (l’organizzatrice dello Strega) non ancora trentenne nè autrice così celebrata, che nella terza pagina del Popolo di Roma, intitolata L’altra metà, scrive tra il profetico e il polemico contro la rapida diffusione sul mercato degli “infidi romanzi matrimoniali che scivolano con disinvoltura su questioni vitali dell’esistenza femminile”. Su Oggi, con lo pseudonimo di Antonio Carrera, la ventinovenne Margherita (dal 1878 al 1921), fratelli Treves Fantasie d’Italia nato nel 1925 15 (23) “Donne e giornalismo” Politica e cultura di genere nella stampa femminile Elsa Morante (l’autrice de La Storia e de L’isola di Arturo) scriverà con ironia in un articolo quasi a colpi di fioretto dal titolo Facce False di come sarebbe bene “lavorare al viso dal di dentro, dedicando l’ora della maschera ad ascoltare la Serenata di Mozart o a leggere i sonetti del Petrarca”. Anna Banti non sarà da meno della Morante nella sua Artemisia pubblicata sulle pagine di Oggi, che con sarcasmo e biasimo descriverà il mortificante pomeriggio trascorso da un gruppo di signore impellicciate e dipinte di lacca ad una sfilata di mode. Un esercizio stilistico, questo delle scrittrici sui giornali, che le porterà a sperimentare sulla pagina come prendere le distanze dalla letteratura e accostarsi al giornalismo. Scrive Margherita Ghilardi nel suo intervento: “Le signore del romanzo varcano la soglia della camera da letto, si sottraggono allo spazio limitato e imparano a guardare altrove. Disertato il pezzo di costume si cimentano senza bisogno di pseudonimi con il commento alla cronaca, l’inchiesta e il reportage”. Così la scrittrice Maria Ortese (di lei ricordiamo Il mare non bagna Napoli del ’53), il 23 marzo del 1952, scriverà un polemico intervento sul chiacchieratissimo processo a Maria Pia Bellentani paragonandola ad una piccola Bovary del dopoguerra. “Il manicomio come il penitenziario si mostrano squallidamente inadatti a riceverla. Nè pazza nè criminale, semplicemente perduta in un mondo privo di ragione e di amore in una società profondamente indifferente e corrotta”. Nel ’57 la ventinovenne scrittrice Francesca Sanvitale iniziava sulla terza pagina del Giornale del Mattino una inchiesta a dodici puntate intitolata La donna oggi in Italia. L’autrice affrontava in chiave giornalistica i temi dell’istruzione, del lavoro, della maternità, del matrimonio, della partecipazione politica, della bellezza e della moda. Confronta articoli della Costituzione con quelli del codice riporta statistiche, tabelle, pareri di industriali e psicologi. E l’inchiesta sarà, come scrive Margherita Ghilardi, “uno stupefacente mosaico in cui la narratrice non perde mai d’occhio la consapevolezza della responsabilità di ogni donna nella più o meno riuscita affermazione di sé. Non tutte le difficoltà si possono ascrivere al cattivo ordinamento sociale”. Nove anni prima Natalia Ginzburg nel suo Discorso sulle donne scriveva: “Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare in un pozzo e di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro”. È proprio in quel pozzo che le scrittrici non hanno mai in realtà dimenticato di guardare. La Massaia, numero 3, 15 luglio ’31, Il giornalismo letterario di Anna Banti Dea, numero 1, novembre ’33 Vita Intima: (1891) un temerario progetto culturale femminile “Gli uomini hanno i loro giornali che leggono per le vie, nei caffè, nei club, nei teatri, un po’ dappertutto e in ogni tempo; giornali gravi, fitti di politica noiosa, alla quale tu volgi l’occhio e il viso con un’amabile smorfietta ...Oh perché non potrai avere anche tu il tuo giornale, il giornale che viva la tua vita intima e con una visita settimanale ti porti l’eco del mormorio confuso della grande onda femminile; riveli a te stessa l’anima tua, s’occupi della tua persona, della tua casa, di ciò che più ami del piccolo mondo dove incontrastata regni e imperi?”. Con questo articolo, firmato Neera, fondatrice e direttrice del giornale, iniziava il 3 giugno del 1890 le sue pubblicazioni Vita Intima, settimanale voluto da un gruppo di intellettuali, scrittrici e giornaliste, attive a Milano. Antonia Arslan, docente di Letteratura italiana a Padova, dipartimento di italianistica, autrice tra gli altri di libro sulla scrittura femminile Dame, galline e regine (Guerini e Associati, Milano, ‘98), ha studiato il caso di Vita Intima e descritto come un progetto culturale temerario. Vita Intima fu una testata dichiaratamente 16 (24) “femminile”, nel periodo di massima fioritura del giornalismo italiano, e a Milano, capitale culturale e imprenditoriale dove era tutto un nascere e fiorire di pubblicazioni, molte destinate alle donne, fra cui anche quelle emancipazioniste, che ahimè non avevano certo il successo e l’autorità di cui godevano le riviste più moderate come Margherita, pubblicata dai fratelli Treves o Cordelia, diretta dalla scrittrice Maria Majocchi Plattis. “Nel 1880, secondo una statistica riportata dall’Associazione della Stampa si pubblicavano a Milano 216 giornali, a Torino 155, a Roma 147, a Firenze 101. L’Italia di quegli anni sembrava effettivamente essere entrata nel mondo della comunicazione e lettura di massa. Molti articoli e rubriche, oltre che giornali, erano espressamente preparati per le donne. Si cercava di individuare una specificità femminile, dei bisogni femminili, un dialogo femminile, un mondo a parte che il giornale avrebbe aiutato a far riflettere, in vista di una pari dignità rispetto al maschile. Vita intima fu salutato come un fondamentale contibuto all’evoluzione della moderna coscienza femminile”. Un giornale che mirava utopisticamente ad aiutare le donne a ritrovare la strada e imparare ad opporsi a paternalismi repressivi e zitellaggi senza speranza. In Vita intima già si preannunciava la categoria delle lettere, tipica dei femminili e certo una delle pagine più lette, con il nome ironico di “posta al confessore mondano”. Tra i collaboratori ricercati molti nomi di prestigio della letteratura, come Verga, Capuana, De Roberto e Matilde Serao. Tra le rubriche del giornale, Il Colore del tempo della marchesa Antonietta Torriani TorelliViollier, sempre ironica e informata su recensioni tetrali e moda. Dal diario di una brontolona sulla nostalgia del buon tempo andato poi divenuta Ciarle, il Confessionale modano tenuto da Padre Indulto, poi divenuto Dietro le grate di Fra’ Brunone, L’arte di scrivere insegnata da Consuelo. Il giornale purtroppo vivrà un anno solo e probabilmente per mancanza di fondi dovrà chiudere. Lei, numero 1, 15 luglio ’33, “Sarebbe un vero peccato che le donne scrivessero come gli uomini o assumessero l’aspetto degli uomini: perché se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come potremmo arrangiarci con uno solo?”. Così scriveva Anna Banti (il suo vero nome era Lucia Lopresti, era nata nel 1902 a Firenze) in uno dei suoi numerossimi interventi sull’argomento che più le stava a cuore, l’esistenza al femminile e/o la riflessione sul disagio di essere donna. Anna Banti raccolse una immensa collezione di articoli pubblicati su riviste e settimanali i più svariati Oggi, Il Mondo di Pannunzio, La Patria, l’Illustrazione Italiana, Il Nuovo Corriere, La Fiera Letteraria diretta da Cardarelli, La Nazione, Il Corriere della Sera e tanti altri. Il suo romanzo di successo fu invece Artemisia (1947). Sul timbro stilistico di Anna Banti scrittricegiornalista ha lavorato Enza Biagini, dell’Università di Firenze, producendo con una nota di estremo interesse sulla qualità della scrittura giornalistica e ricchissima di citazioni estratte dalle pubblicazioni di oltre cinquant’anni di lavoro della Banti su riviste e giornali. Gli articoli della Banti furono sempre più dei racconti di costume che delle prose, fu capace di creare in ogni articolo fatti di stile. I modi della terza pagina furono da lei trasferiti a quelli della rivista femminile, come scrive Enza Biagini conservando “caratteristiche quasi intemporali non solo per la scrittura ma per un tono da tempo sospeso” persino negli argomenti più drammatici. Lo stile letterario della Banti era evidente non solo nei commenti come quello su Gli inglesi a tavola, Oggi nel ’39, o sulla Ginnastica per signora, su Il segreto del fascino slavo o sugli articoli sull’arte poi pubblicati in Quando anche le donne si misero a dipingere (La Tartaruga, Milano ’82) o su Dedicato alle ragazze, apparso su Il Mondo nel ’45, o su La mamma lavora apparso su Rinascita nel ’63. Per la Banti l’unica verità che riguardava il tema della donna era questa: “Io credo nella parità dei cervelli e mi pare che mi basti. Ieri, come oggi, ciò che indago è la parità intellettuale fra uomo e donna”. A chi le chiedeva cos’è il coraggio lei replicava: “Le dico subito che diffido delle eroine storiche. Credo invece nel coraggio silenzioso della donna di casa anche se non lo considero producente ai fini di uno schietto progresso”. E ancora: “Nessuna plebe è più anonima della massa delle donne (siamo nel ’65, n.d.r.), il secondo sesso riunisce le funeste prerogative di una razza segregata e di una classe sottosviluppata... Non c’è da star allegri ma neppure da disperare. Tutto dipende dalle donne della nuova generazione... Niente sarà loro regalato. Ma poiché il mondo cammina, c’è da credere che l’appaORDINE 6 2000 renza di oggi a lungo andare sarà la sostanza di domani”. L’ultima parola, trentacinque anni dopo, sembrerebbe essere la marea montante di articoli, le migliaia di copertine (quasi tutte) dedicati alle donne e alla moda, alle donne e il fitness, alle donne e la casa. Le donne sono diventate strumenti di marketing con la scusa dell’indipendenza e della libertà. Ma, ricordando il credo di Anna Banti, la parità intellettuale fra uomo e donna a che punto è? Due riviste per le massaie rurali Eva, numero 1, 15 aprile ’33 Tra il ’32 e il ’33, mentre si diffondevano i rotocalchi al femminile, con spinte emancipazioniste, alle massaie si indirizzava il regime con la rivista La massaia rurale, giornale di propaganda per lettrici contadine, della sezione Massaie rurali dei Fasci femminili, diffuso gratuitamente in duemila e cinquecento copie, diretta dalla nobile Anita Cernezzi Moretti, prima donna laureata in matematica a Pavia. Perry Wilson, ricercatrice dell’Università di Manchester, è intervenuta con una gustosa ricerca, ricca di annotazioni ironiche sul paternalismo delle stesse donne che redigevano la rivista. “L’obiettivo de La Massaia rurale era quello di raggiungere le contadine più robuste e lavoratrici. Molte delle lettrici erano analfabete e certamente guardavano solo le immagini, ritagliavano le ricette. O magari usavano le pagine per accendere meglio il fuoco”, ha commentato la Wilson. L’intera rivista era una somma del sapere rurale. “I numeri erano interamente dedicati alle virtù della vita rurale. Le massaie dovevano aiutare la causa nazionale”. La direttrice, nobile sposa di un medico con villa a Como, tutta convinta della sua missione, rispondeva alle lettere con lo pseudonimo di “mamma Reggiora”, dilungandosi sulle tecniche agricole per allevare polli o conigli e bachi da seta. Anita Cernezzi Moretti diresse anche un altro mensile Domus rustica, fino al ’43. La rivista era l’organo dell’Unione massaie della campagna, della Società agraria della Lombardia, la presidente era la Principessa di Piemonte. Domus rustica, nata nel ’32, era uno strumento pieno di buone intenzioni per l’istruzione professionale e agraria delle donne e per l’elevazione sociale, morale ed economica delle contadine; puntava molto sull’economia domestica e un corso di pratica agraria per corrispondenza. La Cernezzi Moretti, tutta presa dalla missione di migliorare la vita alle contadine, pubblicò persino testi scritti da loro. E nella posta intitolata L’alveare dispensava moltissime informazioni tecniche rurali. E nel ‘33, in un articolo firmato l’Ape Regina, arrivò a consigliare alle contadine di non usare più il grembiule nero, perché troppo sporco, e di passare a quello bianco. Annabella, 1938 Conclusione all’inchiesta “Donne e giornalismo” Gioia, numero 1, 7 marzo ’37 Grazia del ’38 ORDINE 6 2000 Della stampa femminile di oggi possiamo solo dire che inesorabilmente perde lustro, spesso anche copie e si diletta sempre più di regalini, gadget e tanta, troppa pubblicità. Dall’emancipazionismo al femminismo, la donna ne ha fatta di strada e ormai può svolgere qualunque mestiere. La stampa di un tempo fatta da donne per le donne ha avuto la sua funzione di stimolo. Ma oggi sembra che una stampa solo dedicata alla donna stia diventando quasi anacronistica. Le donne leggono al maschile, così come gli uomini leggono al femminile. La distinzione tra i sessi si è sfumata nei contenuti e anche nell’apparenza, nel senso che anche gli uomini sono molto interessati alla bellezza e alla moda, talvolta anche più delle donne. I romanzi d’amore hanno lasciato il posto ad una serie di rubriche, oroscopi e inchiestone di costume che indagano con scaltrezza le difficoltà sentimentali che si sono fatte intricatissime, tra singles e divorzi plurimi. Ma poi a leggere le indagini come quella fatta da Eurisko, società specializzata in consumi, comunicazione e mutamento sociale, nel giugno del 1999, sul tema “La Donna Nuova”, leggiamo che le donne tra i 25 e i 44 anni sono diventate gli individui più forti, con la passione del neofita per il mondo esterno, senza però più essere femministe, familiste o in carriera. Le donne non sono più catalogabili, qui nasce il dramma dei giornali. Balza dunque agli occhi la ricercatezza delle pagine pubblicitarie dedicate a moda e alla bellezza e la sempre maggiore debolezza dei contenuti diretti a target che vengono continuamente modificati, nella speranza di essere raggiunti con successo. Così il mercato editoriale cerca di “inventare” nuovi giornali di massa per le donne-consumatrici, anche attraverso la distribuzione nei supermercati. Insomma il giornalismo per le donne è soprattutto di servizio. E la stampa sembra non riuscire a tenere il passo con la “Donna Nuova”, descritta da Eurisko. Paola Pastacaldi Bella del ’46 Arianna, numero 1, aprile ’57 17 (25) Informazione e Giustizia - I giudici di legittimità, Sezione Penale, mutano linea e distinguono le responsabilità L’intervistato diffama, il cronista no Roma. Il giornalista che intervista un personaggio pubblico va trattato, in sede penale, diversamente rispetto al personaggio pubblico se questo, offendendo l’altrui reputazione, è chiamato a risponderne davanti a un tribunale. La Cassazione (V sezione penale) ha cambiato linea rispetto a un’altra sua sentenza del 25 gennaio 1999. Questa volta ha assolto il direttore e una redattrice di Repubblica, Eugenio Scalfari e Alessandra Longo, mentre 15 mesi prima aveva condannato Giuliano Ferrara, intervistato da Antonio Padellaro per il settimanale L’Espresso, sul procuratore capo di Napoli, Agostino Cordova, al quale aveva attribuito “eccessi deliranti”. Nella sentenza “Ferrara”, la Cassazione ha affermato il principio che in sede di intervista giornalistica è punibile il giornalista che “riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione”. La stessa sezione penale della Cassazione ha fatto oggi un ragionamento diverso. In sostanza non è poi così vero che la colpa sia sempre dei giornalisti: non si può accusare di diffamazione il cronista che, di fronte a un personaggio pubblico, riferisce fedelmente le parole, anche critiche, rivolte a una persona nota. La Cassazione riconosce ai cronisti “l’esimente da intervista” e aumenta in questo caso il limite della verità cui bisogna attenersi. Certo, purché nel titolo, nell’introduzione e nelle domande si sia rimasti fedeli al ragionamento dell’intervistato, che magari ha parlato di “scimmiette funzionali alla cultura maschile”. Come ha fatto Lidia Ravera, intervistata da Alessandra Longo, a proposito dell’allora neo presidente della Camera Irene Pivetti, che ha querelato il quotidiano. Non si tratta di diffamazione a mezzo stampa, ha sentenziato la Corte, né il reato può essere provato adducendo il “contributo causale alla diffusione” offerto dal cronista alle espressioni sotto accusa. Il principio “della continenza”, se si tratta di una intervista, va inteso, insomma, in modo lato. Spiegano, infatti, gli alti magistrati, che hanno definitivamente annullato la condanna per diffamazione: è vero che i limiti del diritto di cronaca sono la verità del fatto narrato, la rilevanza pubblica della notizia, la correttezza del modo in cui il fatto è riferito. Ma è anche vero che nel caso di pubblicazione di un’intervista, queste indicazioni devono essere rapportate a ciò che dice l’intervistato. E qui il “limite della verità si atteggia in maniera del tutto peculiare”. Conta che l’intervista sia stata realmente rilasciata e che i concetti e le parole riportate siano esattamente rispondenti a quanto è stato riferito al cronista. Che i giudizi pronunciati siano poi veri, non riguarda la posizione del giornalista. Affermano ancora i supremi giudici: quando l’intervista pubblicata consista in valutazioni o giudizi esternati da personaggi noti, su atteggiamenti di altri soggetti pubblici nel corso di un dibattito, che per il suo stesso contenuto e per chi lo ha animato, interessa la gente, si profilano ulteriori prospettive sul limite di verità. In questo caso il cronista deve rigoroso rispetto alle opinioni manifestate criticamente, per fare emergere l’obiettività del dibattito e fornire al pubblico un quadro il più genuino possibile, in grado di orientare il giudizio della gente anche sull’intervistato. Il cronista è tenuto a riportare il testo dell’intervista “nella sua integralità”, e deve rimanere neutrale di fronte alla libertà di chi parla. Se l’intervistato dicesse poi cose che ledono la reputazione del personaggio interessato, è lui che se ne deve assumere la responsabilità. (da “Il Sole 24 Ore” del 26 aprile 2000) Il “cuore” della sentenza: i personaggi pubblici LA MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE CON LA QUALE È STATA AFFERMATA LA NON PUNIBILITÀ DEL GIORNALISTA CHE RIPORTI FEDELMENTE DICHIARAZIONI DI NATURA DIFFAMATORIA RESE DA UN ESPONENTE POLITICO SU ALTRO PERSONAGGIO DI RILIEVO PUBBLICO – Deve applicarsi l’esimente del diritto di cronaca (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 2144 del 25 febbraio 2000, Pres. Ietti, Rel. Cicchetti). Pubblichiamo il testo integrale della motivazione della sentenza della Suprema Corte, Sezione Quinta Penale, con la quale è stata riconosciuta l’esimente del diritto di cronaca al ricorrente che riporti, nel testo dell’intervista, dichiarazioni di natura diffamatoria rilasciate da un personaggio pubblico. (omissis) MOTIVI DELLA DECISIONE L’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca deve essere riconosciuta in presenza di tre requisiti: 1) la verità del fatto narrato; 2) la pertinenza all’interesse che esso assume per l’opinione pubblica; 3) la correttezza delle modalità con cui il fatto viene riferito. Nel caso di pubblicazione di un’intervista i criteri stabiliti dalla giurisprudenza ai fini del riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca, vanno rapportati alle espressioni verbali provenienti dalla persona intervistata, costituenti il “fatto” in sé. Il limite della “verità” si atteggia, pertanto, in maniera del tutto peculiare, siccome riferito non al contenuto dell’intervista, cioè alla rispondenza del fatto riferito dall’intervistato alla realtà fenomenica, ma al fatto che l’intervista sia stata realmente operata e concetti o parole riportati dal giornalista siano perfettamente rispondenti al profferito dalla persona intervistata. Quando, poi il “fatto-intervista” pubblicato consista in valutazioni o giudizi esternati da personaggi ben noti, su atteggiamenti di altri personaggi “pubblici” nell’ambito di un dibattito che – proprio per l’intrinseco contenuto e per la notorietà dei protagonisti – interessa l’opinione pubblica, si profilano ulteriori prospettive sul limite di “verità” in stretta connessione con gli altri due (interesse alla conoscenza da parte della pubblica opinione e continenza). Il giornalista è tenuto, in tal caso, al rigoroso rispetto delle opinioni, manifestate dall’intervistato anche in termini critici, al fine di far emergere l’obiettività del dibattito e fornire al pubblico un quadro più genuino possibile, atto ad orientare il giudizio anche sul personaggio intervistato. Pertanto, non solo è tenuto a riportare il testo dell’intervista nella sua integralità quanto deve rimanere per così dire “neutrale” dinanzi alla pur libera esternazione dell’intervento del soggetto interrogato. Quest’ultimo, qualora le sue parole integrino una lesione alla reputazione del “personaggio” interessato, non può non assumerne la responsabilità, anche se poi intenda far valere la scriminante del diritto di critica (ove ne sussistano i presupposti) ben distinto – ovviamente – da quello di cronaca invocato dal giornalista. Nel caso in cui il giudice di merito ravvisi la non punibilità dell’intervistato per esercizio del diritto di critica, rimane consequenziale l’estensione di tale esimente al giornalista ed al direttore responsabile. Qualora, viceversa, venga esclusa la scriminante per l’intervistato, nulla toglie che l’articolista possa invocare il diritto di cronaca, certamente non comunicabile alla persona intervistata. Passando all’interesse che la pubblicazione dell’intervista deve assumere per l’opinione pubblica, occorre ancora sottolineare come il fatto, per racchiudere in sé tale interesse, deve coinvolgere “personaggi pubblici” (in veste di intervistato non meno che in quella di soggetto attinto dai giudizi ritenuti diffamatori), nell’ambito di un dibattito provocato dalle esternazioni di uno di essi. La diffusione dell’intervista risponde perfettamente, in tal caso, alla funzione informativa della stampa e soddisfa correttamente l’esigenza, sentita dal grande pubblico, di approfondire la conoscenza dei soggetti (si ripete, intervista- to non meno che persona interessata nel giudizio critico) agli apici della vita politica, culturale e economica del paese anche attraverso le modalità delle loro espressioni verbali. Il principio di continenza, che in realtà assume rilevanza soprattutto nell’accertamento dell’esercizio del diritto di critica, può – tuttavia – riguardare quello di cronaca sotto una diversa prospettiva che finisce per involgere la stessa configurazione della partecipazione (ex art. 110 cod. pen.) al reato di diffamazione. Si intende fare riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato, in relazione alle parti diverse dalla rigorosa riproduzione delle estrinsecazioni dell’intervistato, quali titolo, introduzione all’intervista e domande. Il mantenimento della posizione di “testimone” obiettivo, che si limita a sintetizzare nel titolo il contenuto critico dell’intervista, a spendere semplici espressioni volte a presentare l’intervistato ed apporre quesiti strettamente funzionali alla manifestazione della sua opinione, si risolve nella realizzazione di quegli elementi che, seppure rapportabili ad un principio di continenza in senso lato, valgono a riassumere l’atteggiamento di distacco dall’intrinseco contenuto – anche diffamatorio – delle risposte. Nella concreta fattispecie, la giornalista Longo – come risulta dalle pronunce di merito – ha raccolto e pubblicato fedelmente l’intervista alla ben nota scrittrice-giornalista-femminista Livia Ravera (contenente anche le espressioni diffamatorie, che l’impugnata sentenza ritiene “non argomentate”) chiedendole commenti sulle precedenti estrinsecazioni di Irene Pivetti, neo presidente della Camera. Nessuna parte dell’articolo che non riguardi le risposte della Ravera, è stata ritenuta di per sé diffamatoria dai giudici di merito, i quali hanno finito per fondare il concorso personale sulla semplice diffusione dell’intervista, cioè su una condotta coperta dall’esercizio del diritto di cronaca. Per quanto sopra detto si configura pienamente l’esimente, sicché i ricorrenti vanno ritenuti non punibili ed entrambe le sentenze di merito devono essere annullate senza rinvio. (www.giustizia-e-legge.it) Ma con Ferrara la stessa Corte decise diversamente LIMITI DEL DIRITTO DI CRONACA NELLE INTERVISTE - Il giornalista risponde del reato di diffamazione quando riferisce valutazioni gratuitamente offensive (Cassazione Sezione V Penale n. 2283 del 25 gennaio 1999, Pres. Marvulli, Est. Nappi). In un’intervista pubblicata dal periodico L’Espresso nel giugno 1995 Giuliano Ferrara, criticando “l’avvitamento antigarantista della magistratura italiana” ha fatto riferimento agli “eccessi deliranti di Cordova”. In seguito a querela proposta dal magistrato Agostino Cordova, Procuratore della Repubblica di Napoli, Ferrara è stato processato per diffamazione insieme all’autore dell’intervista Antonio Padellaro e al direttore responsabile del settimanale Claudio Rinaldi. Il Tribunale di Roma ha condannato tutti e tre gli imputati. La Corte d’Appello ha confermato la condanna di Ferrara, mentre ha assolto Padellaro e Rinaldi in quanto ha ritenuto che, pubblicando l’intervista, essi abbiano esercitato il diritto di cronaca. Questa decisione è stata impugnata davanti alla Suprema Corte sia da Ferrara, che ha sostenuto di avere correttamente esercitato il diritto di critica, sia dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma e da 18 (26) Cordova, i quali hanno sostenuto che Padellaro e Rinaldi, pubblicando le dichiarazioni di Ferrara si sono resi responsabili di concorso nel reato di diffamazione. La Cassazione (Sezione V Penale n. 2283 del 25 gennaio 1999, Pres. Marvulli, Est. Nappi) ha rigettato il ricorso di Ferrara, in quanto ha ritenuto che egli abbia varcato il limite posto dalla legge all’esercizio del diritto di critica. La critica negativa dell’operato altrui - ha affermato la Corte - non è di per sè offensiva, quando sia socialmente rilevante, perchè non può considerarsi lesiva della reputazione altrui l’argomentata espressione di un dissenso rispetto a comportamenti di interesse pubblico. L’esigenza di ricorrere al diritto di critica come scriminante, anziché come criterio per l’accertamento della stessa esistenza di un’offesa, si pone nei casi in cui l’espressione della critica comporti necessariamente anche valutazioni negative circa le qualità morali o intellettuali o psichiche del destinatario; in questi casi - ha osservato la Corte - l’inevitabilità del collegamento alla critica scrimina l’offesa (che sarebbe illecita), ma solo nei limiti in cui essa è indispensabile per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito. Sicché rimangono egualmente punibili quelle espressioni che la giurisprudenza definisce “gratuite”, nel senso di non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti. Nel caso in esame - ha affermato la Corte l’inequivoco riferimento negativo alle capacità psichiche del dr. Cordova non era affatto necessario per esprimere una critica alla magistratura italiana, che, secondo il ricorrente, adotta prassi antigarantiste emblematicamente rappresentate nei loro limiti estremi dall’opera del Procuratore della Repubblica di Napoli; pertanto non può ritenersi che l’offesa recata alla reputazione del querelante sia scriminata dall’esercizio del diritto di critica. La Corte ha invece accolto il ricorso del Procuratore Generale e di Agostino Cordova, affermando che la pubblicazione di dichiarazioni rese da persone interessate su fatti di pubblico interesse, pur se lesive della reputazione di altri soggetti, può essere lecita se risponde all’esigenza di ricostruire gli avvenimenti in base a fonti che appaiono attendibili. Quando l’esistenza di un fatto è controversa - ha affermato la Corte - non è censurabile il giornalista che riporti le contraddittorie dichiarazioni dei protagonisti e dei testimoni, neppure se le utilizzi per proporre una propria ricostruzione della vicenda; in questi casi, invero, il giornalista non è in grado di verificare ulteriormente l’attendibilità delle dichiarazioni riportate e l’esistenza stessa di quelle dichiarazioni assume rilevanza ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca. Ma la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca - ha precisato la Corte - non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia in alcun modo controllate; nè a maggior ragione la scriminante è univocabile quando l’intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perchè in questo caso l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l’esigenza di indagini intese a verificarne la corrispondenza ai fatti; in altri termini, se è discutibile la punibilità del giornalista che riporti asserzioni dell’intervistato risultate poi non vere, non è certamente discutibile la punibilità del giornalista che riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione. (www.giustizia-e-legge.it) ORDINE 6 2000 CRONISTI NELLA GIURISPRUDENZA Gli adeguati controlli salvano il giornalista La pubblicazione della notizia di un esposto all’autorità giudiziaria può costituire diffamazione se il giornalista non dimostra di aver eseguito adeguati controlli sulla verità dei fatti denunciati (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2367 del 3 marzo 2000, Pres. Duva, Rel. Sabatini). Nell’aprile del 1990 il quotidiano Alto Adige ha pubblicato, con il titolo “L’ospedale a rischio senza filo per sutura” un articolo nel quale si dava notizia di un esposto presentato alla Procura della Repubblica di Trento da C.D. infermiere dell’Ospedale in merito a presunte scorrettezze nelle forniture di materiale sanitario. La società Bieffe Medital, fornitrice dell’ospedale, ha promosso davanti al Tribunale Civile di Trento un’azione giudiziaria nei confronti di C.D., nonché del direttore e dell’editore del quotidiano Alto Adige, sostenendo che le informazioni contenute nell’articolo erano infondate e lesive della sua reputazione e chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni. Il Tribunale ha respinto la domanda, affermando che il quotidiano si era limitato a riportare la notizia dell’esposto presentato da C.D., che doveva pertanto tenersi conto della verità di questa notizia piuttosto che della fondatezza o meno del contenuto dell’esposto e che il giornale aveva esercitato il diritto di cronaca riportando una notizia acquisita in buona fede da una fonte attendibile quale l’infermiere C.D. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Trento che ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno in misura di 80 milioni di lire. La Corte di Trento ha ritenuto che “con il narrare fatti non veri, vengono lesi non solo diritti fondamentali della persona, ma lo stesso diritto della collettività ad un’informazione rispondente al vero; ed il giornalista è tenuto, quale suo obbligo inderogabile (art. 2 legge 3.2.1963 n. 69) a rispettare la verità dei fatti data dalla corrispondenza tra l’oggettivamente narrato e lo storicamente accaduto”. La Corte ha osservato che in questo caso nessun accertamento risultava essere stato eseguito dal giornale in merito ai fatti oggetto dell’esposto di C.D., esposto che poteva essere stato dettato da motivi non necessariamente ispirati dalla verità dei fatti e, pertanto, di non sicura affidabilità. Il giudice di appello ha anche rilevato che l’esposto indicava fatti sicuramente lesivi della credibilità del prodotto della Bieffe, che nulla era stato acquisito in causa in ordine alla verità di tali fatti – smentiti, al contrario, da un primario ospedaliero – e che del resto non era risultato che in sede penale fosse stato dato alcun seguito all’esposto. Contro questa decisione hanno proposto ricorso il direttore e l’editore del quotidiano, non l’autore dell’esposto. La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 2367 del 3 marzo 2000, Pres. Duva, Rel. Sabatini), ha rigettato il ricorso affermando che il giornalista ha l’obbligo non solo di controllare l’attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate) ma anche di accertare e rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, potrà essere utilmente invocata l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca. La Corte ha osservato che la decisione dei giudici di merito è stata correttamente motivata sul rilievo che l’articolista si era limitato a riportare l’esposto di C.D. senza effettuare un minimo accertamento per lo meno sulle eventuali voci che circolavano nell’ambiente ospedaliero; l’affidamento, sostenuto dal direttore del giornale, sulla qualifica professionale di C.D. è irrilevante – ha affermato la Corte – stante l’obbligo, da parte del giornalista, di controllare l’attendibilità della fonte, obbligo che attiene al necessario contemperamento tra l’interesse pubblico all’informazione ed il dovuto rispetto del diritto alla reputazione e all’onore della persona. (www.legge-e-giustizia.it) L’informativa non è “fonte qualificata” Un’informativa della Guardia di Finanza all’autorità giudiziaria non costituisce fonte qualificata, tale da esimere il giornalista dal controllo sulla veridicità dei fatti riferiti, mentre un comunicato stampa costituisce fonte attendibile (Tribunale Civile di Roma Sezione Prima Civile n. 501 del 13 gennaio 2000). Non integra legittimo esercizio del diritto di cronaca la diffusione, come notizie vere, delle ipotesi indagatorie formulate dalla polizia giudiziaria. Un’informativa della Guardia di Finanza diretta all’autorità giudiziaria non costituisce una fonte qualificata, tale da esimere il giornale dalla verifica della veridicità del fatto, esonerandolo dal necessario vaglio serio e rigoroso delle notizie da pubblicare, di cui è comunque onerato il giornalista. Ai fini dell’accertamento della sussistenza della verità putativa della notizia, ovvero ORDINE 6 2000 della scusabilità dell’errore relativo alla notizia non vera, ma diffusa come tale, non basta la considerazione della provenienza della notizia stessa (per esempio, autorità giudiziaria o, come nel caso in esame, autorità di polizia), dovendo valutarsi anche la finalità del mezzo con cui essa viene trasmessa. Così se il comunicato diffuso dalle forze di polizia per dare atto alla stampa degli esiti di una certa operazione costituisce una fonte degna di affidabilità per il giornalista, non altrettanto può dirsi per il rapporto destinato all’autorità giudiziaria, nel quale necessariamente devono farsi congetture o ipotesi di indagine, sulla cui veridicità il giornale non può fare affidamento per esercitare legittimamente il diritto di cronaca. (www.legge-e-giustizia.it) Cassa integrazione non significa prepensionamento Nel settore giornalistico il collocamento in cassa integrazione non comporta necessariamente la possibilità di prepensionamento - La legge 5 agosto 1981, n. 416 (recante la disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria) prevede – con specifiche e distinte disposizioni – due diversi benefici: il trattamento straordinario di integrazione salariale e il prepensionamento. Quanto al primo l’art. 35 stabilisce che il trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all’art. 2, quinto comma, della legge 12 agosto 1977, n. 675, e successive modificazioni, è esteso, con le modalità previste per gli impiegati, ai giornalisti professionisti dipendenti da imprese editrici di giornali quotidiani e dalle agenzie di stampa a diffusione nazionale sospesi dal lavoro per le cause indicate nelle norme citate. Quanto al prepensionamento e all’esodo anticipato, il successivo art. 37 stabilisce che ai giornalisti professionisti è data facoltà di optare, entro sessanta giorni dall’ammissione al trattamento di cui all’articolo 35, ovvero, nel periodo di godimento del trattamento medesimo, entro sessanta giorni dal maturare delle condizioni di anzianità contributiva richiesta, per il beneficio consistente nell’anticipata liquidazione della pensione di vecchiaia al cinquantottesimo anno di età, nei casi in cui siano stati maturati almeno 18 anni di anzianità contributiva; beneficio questo peraltro limitato al numero di unità ammesso dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale e per i soli casi di ristrutturazione o riorganizzazione in presenza di crisi aziendale. Successivamente il decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (recante interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), conv. in L. 19 luglio 1993, n. 236, all’art. 7 ha dettato norme in materia di cassa integrazione guadagni prevedendo in particolare al comma 4 che sino al 31 dicembre 1995 le disposizioni di cui all’articolo 35 della legge 5 agosto 1981, n. 416, e successive modificazioni, si applicano anche al settore dei giornali periodici e al settore delle imprese radiotelevisive private, estendendosi a tutti i dipendenti delle aziende interessate, quale che sia il loro inquadramento professionale, nonché ai dipendenti delle aziende funzionalmente collegate. Quindi – come ha esattamente rilevato il Tribunale – l’art. 7 del decreto legge richiama solo l’art. 35 della legge n. 416/81, ossia solo il trattamento straordinario di integrazione salariale e non anche l’art. 37, ossia l’istituto del prepensionamento. Né c’è alcuna esigenza logica o sistematica per cui i due istituti debbano necessariamente concorrere, essendo anzi gli stessi fondati su presupposti diversi ed incompatibili, quali nel primo caso la prosecuzione del rapporto (seppur in una temporanea situazione di quiescenza in ragione del collocamento in c.i.g.) e nell’altra ipotesi l’anticipata risoluzione del rapporto medesimo. A ciò si aggiunga che, trattandosi di disposizione temporanea (perché applicabile fino al 31 dicembre 1995) e speciale, essa è di stretta interpretazione. Soccorre quindi il principio ermeneutico secondo cui ubi lex voluit dixit, principio di cui la Suprema Corte ha fatto applicazione anche nella materia della previdenza sociale (Cassazione Sezione Lavoro n. 2117 del 24 febbraio 2000, Pres. D’Angelo, Rel. Amoroso). (www.legge-e-giustizia.it) “Chi fa giudiziaria non è un free lance” GIORNALISTA ADDETTO ALLA CRONACA GIUDIZIARIA CON CONTRATTO PER COLLABORAZIONI SALTUARIE – Può essere ritenuto lavoratore subordinato in caso di inserimento nell’organizzazione aziendale come responsabile del servizio per una provincia (Cassazione Sezione Lavoro n. 4533 del 10 aprile 2000, Pres. Trezza, Rel. Roselli). Nel periodo dal giugno 1978 all’ottobre 1991 F.N. ha lavorato per il quotidiano Il Messaggero come giornalista, provvedendo all’informazione in materia di cronaca giudiziaria per la provincia di Latina, senza essere inquadrata come dipendente. Nell’ottobre 1991 l’incarico le è stato revocato. Ella ha promosso davanti al Pretore di Latina un giudizio diretto ad ottenere l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro giornalistico subordinato nel periodo dal giugno 1978 all’ottobre 1991, nonché la condanna della società editrice del quotidiano al pagamento di differenze di retribuzione e alla sua reintegrazione nelle mansioni in precedenza svolte. Il Pretore ha accertato l’esistenza della subordinazione nella forma prevista dall’art. 2 del contratto nazionale di lavoro giornalistico (“collaborazione fissa” caratterizzata dalla prestazione non quotidiana, ma continuativa, con responsabilità di un servizio) e ha condannato la società editrice a reintegrare la cronista nel suo posto di lavoro. Questa decisione è stata confermata in grado di appello. Il Tribunale di Latina ha rilevato tra l’altro che C.M. non si era limitata a cedere articoli giornalistici di propria iniziativa, ma che era solita scrivere dopo aver proposto gli argomenti ed avere ottenuto l’approvazione della redazione, la quale poi sottoponeva gli scritti a revisione; ciò era sufficiente a ravvisare il lavoro subordinato, considerata la natura intellettuale delle prestazioni. La società editrice ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo, tra l’altro, che il Tribunale avrebbe dovuto attribuire una portata decisiva al contratto sottoscritto tra le parti, nel quale si faceva riferimento ad una collaborazione saltuaria ed esterna. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4533 del 10 aprile 2000, Pres. Trezza, Rel. Roselli), ha rigettato il ricorso, affermando che il rapporto di lavoro deve essere qualificato in base al contenuto effettivo delle prestazioni rese e al concreto atteggiamento delle parti. Per quanto attiene più particolarmente all’attività del giornalista, la Corte, richiamando la sua costante giurisprudenza, ha affermato che il vincolo della subordinazione va ravvisato soprattutto nella permanente disponibilità del lavoratore ad eseguire le istruzioni della direzione, ben potendo avvenire che la disponibilità permanga negli intervalli non lavorativi, stante la discontinuità delle richieste aziendali; sussiste, per contro, il lavoro autonomo quando venga prestabilita nel contratto un’unica fornitura, anche se scaglionata nel tempo, con unica retribuzione, non potendo neppure escludersi una successione di simili contratti (Cass. 28 luglio 1995 n. 8260; 12 agosto 1997 n. 7494). La peculiarità delle prestazioni intellettuali del giornalista – ha affermato la Corte – esclude comunque che la subordinazione possa essere intesa, quanto alla soggezione alle direttive del datore di lavoro, nel senso in cui viene richiesta quando si tratti di mansioni manuali o comunque esecutive (Cass. 18 febbraio 1993 n.1989). A questi principi – ha osservato la Corte – si sono esattamente attenuti i giudici d’appello, i quali nel caso di specie e sulla base delle risultanze istruttorie, hanno rilevato che la prestatrice di lavoro aveva, per quasi tredici anni, curato la cronaca giudiziaria della provincia, da sola ed attenendosi al potere direttivo del caporedattore. Né ella, hanno osservato ancora i giudici di merito, si era limitata alla cessione di articoli già confezionati, ma aveva, prima di scrivere, concordato l’argomento con lo stesso caporedattore, il quale poi rivedeva il testo. Ciò dimostra un inserimento della lavoratrice nell’organizzazione d’impresa, e non una semplice collaborazione esterna. Non può parlarsi – ha concluso la Corte - di iniziative spontanee ed unilaterali della collaboratrice e quindi di assenza di un vincolo contrattuale quando, come nel caso di specie, la prestazione lavorativa sia stata per più anni e con continuità utilizzata dal datore di lavoro, il quale abbia così manifestato la volontà di accettazione, ancorché non nella forma espressa della dichiarazione, non potendosi dubitare della idoneità del mero comportamento, pur non accompagnato da una forma espressiva, a manifestare una volontà negoziale. (www.legge-e-giustizia.it) 19 (27) SENTENZA Commistione pubblicità-informazione: anche il Tribunale ha sanzionato Paolo Occhipinti e Caterina Vezzani “Il direttore del settimanale correttamente non si è dissociato dalla giornalista difendendosi sul punto della omissione di controllo: la assoluta evidenza della violazione contestata non consente in ogni modo alcuna difesa sui limiti di tale controllo” Pubblichiamo integralmente la sentenza con la quale il Tribunale Civile (Sezione V) di Milano ha confermato la decisione del Consiglio nazionale e quella del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia su un caso ormai famoso di commistione pubblicità-informazione. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MILANO SEZIONE QUINTA CIVILE Il Tribunale - composto da Dott. SERGIO VAGLIO (presidente relatore); Dott. FRANCESCO MALASPINA (giudice): Dott. GIUSEPPE VALENTI (giudice) con l’intervento di MARIA GRAZIA MARZATICO (pubblicista); RENZO MAGOSSO (giornalista professionista); P.M. DOTT. ADA RIZZI - ha pronunciato la seguente SENTENZA nei procedimenti civili riuniti iscritti il 29/1/00 ed il 7/2/00 ai numeri di ruolo generale sopra indicati, promossi con ricorsi ex art. 63 della legge 3/2/63, n. 69, da CATERINA VEZZANI, elettivamente domiciliato in Milano presso lo studio dell’Avv. CORSO BOVIO, dal quale è rappresentata e difesa per delega (RICORRENTE) e da PAOLO OCCHIPINTI, elettivamente domiciliato in Milano presso lo studio dell’Avv. MAURIZIO FUSI, dal quale è rappresentata e difesa per delega (RICORRENTE) per l’annullamento della decisione resa in data 3/11/99 con la quale il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha respinto il ricorso interposto dagli stessi Vezzani e Occhipinti avverso la decisione in data 9/9/96 con la quale il Consiglio regionale SENTENZA dell’Ordine dei giornalisti per la Lombardia aveva inflitto ai ricorrenti la sanzione disciplinare dell’avvertimento scritto; premesso che nessuna norma prevede la partecipazione al presente giudizio dei Consigli regionale e nazionale dei giornalisti; che per ciò solo la loro partecipazione renderebbe nullo il procedimento; che ogni dubbio su tale soluzione risulta fugato dalla presenza del P.M. e dei due rappresentanti del giornalismo chiamati a far parte del Collegio; Letti gli atti e sentite le parti come da verbale in pari data 23/3/2000, su conforme parere del P.M., sciogliendo la riserva, GIUDICA I RICORSI NON MERITEVOLI DI ACCOGLIMENTO. Osserva, infatti, che il rispetto del principio della necessaria separazione tra informazione e pubblicità è stato più volte sollecitato dal Consiglio regionale della Lombardia, sia per evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale, sia per tutelare il cittadino che ha diritto ad una corretta informazione che gli consenta di riconoscere quali notizie, servizi ed altre attività redazionali appartengono alla responsabilità della redazione o del singolo giornalista e quali, invece, siano diretta espressione di altri enti o aziende: la pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile, soprattutto la c.d. pubblicità redazionale: la lealtà verso il lettore impone che il lavoro giornalistico e quello pubblicitario rimangano separati ed inconfondibili: qualsiasi forma di pubblicità occulta diventa un inganno per il lettore ed una forma degenerativa della qualità dell’informazione (delibera di indirizzo del Consiglio Lombardo): la comunicazione pubblicitaria persuasiva o suggestiva è caratterizzata dall’assenza di quella neutralità che rappresenta invece il primo requisito richiesto all’informazione obbiettiva: il messaggio pubblicitario sviluppa una sorta di difesa naturale da parte del lettore che invece non è preparato a contrapporre la propria capacità critica ai segnali ricevuti da una fonte riconosciuta come neutrale quale deve essere l’articolo giornalistico. Un primo riconoscimento testuale ed esplicito in sede legislativa del divieto di pubblicità occulta si trova nell’art. 8, comma secondo della Legge 6/8/90, n. 223, dove si legge che la pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione; il D.LGS. 25/1192, n. 74, con le sue definizioni alle quali qui si fa rinvio per brevità, ha lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari; l’art. 7 del Codice di autodisciplina pubblicitaria prevede la necessaria identificazione della pubblicità. Di fronte ad un testo apparentemente informativo ed in assenza di un dimostrato rapporto di committenza tra autore dei testi ed impresa, occorre accertare, in via presuntiva, la presenza di elementi gravi precisi e concordanti che concorrano a stabilirne il contenuto promozionale; in caso positivo occorre verificare la sussistenza dei requisiti di evidente percezione idonei a rivelare immediatamente la natura promozionale del testo medesimo; la mancanza di detti requisiti consente di qualificare il messaggio come ingannevole. L’indagine relativa ad un articolo collocato in una rubrica dedicata alla salute ed alla bellezza contenente specifici riferimenti, anche fotografici, a determinati prodotti, nonché ad un inserto recante consigli sull’igiene orale accompagnati dall’indicazione dei prodotti da prediligere con relativa documentazione fotografica, è già stata conclusa con la qualifica di messaggio ingannevole nel Provv. N. 3618 dei 15/2/96. Nel caso in esame la rubrica destinata alla bellezza ed alla igiene orale contiene un riquadro che non è destinato con evidenza al messaggio pubblicitario in quanto porta il titolo “E LAVARSI I DENTI DIVENTA UN GIOCO” ed espone i “piccoli segreti per iniziare i più piccini all’igiene orale, con il suggerimento di regalare il SUO (maiuscolo) spazzolino ed il SUO (maiuscolo) dentifricio, “per esempio della linea Mentadent denti in Crescita, studiata per i più piccoli”: sopra la scritta “Linea orale per bambini” risulta apposta una immagine fotografica che rappresenta tre spazzolini a forma di pupazzetti in piedi insieme ad un tubetto di dentifricio parimenti in piedi, recanti la scritta “mentadent” da leggere in linea verticale; disteso in primo piano figura altro tubetto di dentifricio recante la scritta bene evidente, e leggibile regolarmente in linea orizzontale: “mentadent”. La difesa esclude trattarsi di messaggio pubblicitario; la delibera impugnata parla di evidente messaggio pubblicitario; la difesa parla di buona fede e deduce che se si tratta di messaggio evidentemente pubblicitario non si tratta di pubblicità ingannevole: in realtà la responsabilità emerge in ogni caso dalla commistione tra l’informazione giornalistica contenente l’iniziazione dei più piccoli all’igiene orale facendo in modo che lavarsi i denti diventi un gioco come dal titolo e dal testo, ed il messaggio pubblicitario derivante dalla esposizione consigliata dei prodotti Mentadent come linea orale per bambini. Il direttore del settimanale correttamente non si è dissociato dalla giornalista difendendosi sul punto della omissione di controllo: la assoluta evidenza della violazione contestata non consente in ogni modo alcuna difesa sui limiti di tale controllo. P.T. M. IL TRIBUNALE, SU CONFORME PARERE DEL P.M.. RESPINGE ENTRAMBI I RICORSI RIUNITI. COSÌ DECISO IN MILANO IL 23/3/2000 IL PRESIDENTE “La Procura di Como fuori dalla Costituzione” per l’atteggiamento verso i cronisti giudiziari della città Intervento del presidente dell’Ordine della Lombardia a tutela dei cronisti giudiziari di Como e del diritto dei cittadini all’informazione. Un cronista ha opposto il segreto professionale sulle fonti alla richiesta del Pm di consegnare l’elenco delle sue “utenze telefoniche” Milano, 13 maggio. Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ha indirizzato oggi questa lettera al Procuratore generale della Repubblica, Francesco Saverio Borrelli, denunciando un conflitto tra Procura della Repubblica di Como e cronisti giudiziari di Como in tema di diritto di cronaca: “Signor Procuratore generale, Le trasmetto copia di due messaggi a me pervenuti il 14 aprile e il 12 maggio dai cronisti giudiziari di Como circa i rapporti estremamente tesi tra questi ultimi e la Procura della Repubblica di quella città. Sono in gioco i diritti costituzionali di cronaca e di critica nonché il diritto dei cittadini a una informazione completa e corretta. L’atteggiamento della Procura di Como sorprende perché indubbiamente si colloca fuori dal quadro costituzionale. Ieri agenti di polizia giudiziaria si sono presentati nella redazione del Corriere di Como con un decreto di sequestro per acquisire le utenze telefoniche di tutti i cellulari in dotazione al giornale. Il sostituto procuratore Silvia Perrucci ha indiziato di reato (reticenza) il giornalista Paolo Moretti, reo di aver “pescato” una notizia rilevante riguardante l’abbandono di una minore. Paolo Moretti ha opposto il segreto professionale alla richiesta del Pm di fornire le utenze 20 (28) telefoniche da lui utilizzate il giorno prima della pubblicazione della notizia “incriminata” sul Corriere di Como. Il segreto professionale sulle fonti delle notizie è riconosciuto ai giornalisti dall’articolo 2 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica e dall’articolo 13 della legge n. 675/1996 sulla tutela dei dati personali (meglio nota come “legge sulla privacy”). Questo principio è tutelato anche da numerose risoluzioni e decisioni delle Corti europee di Giustizia. La tutela più forte e incisiva dell’attività giornalistica viene dalla Corte costituzionale, che ha stabilito via via principi, che il legislatore avrebbe dovuto tradurre in leggi: ● “I giornalisti preposti ai servizi di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e (devono essere) posti in grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale” (sentenza 10 luglio 1974 n. 225). ● “Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall’articolo 21 della Costituzione - e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee” (sentenza 15 giugno 1972 n. 105). L’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (legge dello Stato italiano 4 agosto 1955 n. 848) afferma: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione e questo diritto comprenda la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità” L’articolo 10 della Convenzione, mutuato dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è stato ampliato successivamente dall’articolo 19 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici (legge dello Stato italiano 25 ottobre 1977 n. 881) il quale stabilisce: “...Ogni individuo ha il diritto della libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta”. Si tratta di un crescendo di affermazioni e riconoscimenti. Non sfugga la rilevanza dell’inserimento, attraverso leggi ordinarie, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del Patto di New York relativo ai diritti civili e politici nell’ordinamento giuridico dello Stato: il diritto di “cercare, ricevere e diffondere informa- zioni attraverso la stampa” figura esplicitamente nel nostro ordinamento e amplia la sfera del “diritto di manifestare il pensiero” tutelata dall’articolo 21 della Costituzione. La Corte Costituzionale con una serie di decisioni ha, infatti, riconosciuto e affermato non soltanto il principio che i cittadini hanno diritto di ricevere informazioni, ma che essi hanno diritto a ricevere un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata. Le linee-cardine fissate dalle decisioni emesse dal 1960 in poi hanno trovato un’ampia conferma nella fondamentale sentenza 24 marzo 1993 n. 112. Queste citazioni servono solo a dimostrare l’assunto secondo il quale “la Procura di Como, con le sue iniziative, si è collocata fuori dal quadro costituzionale”. Sono sicuro, Signor Procuratore generale, che Lei interverrà a tutela del diritto dei cittadini all’informazione e contro ogni iniziativa che è oggettivamente una limitazione della “libertà di informazione e di critica”, principio cardine della legge professionale dei giornalisti e che mette i giornalisti, mediatori intellettuali, al servizio della comunità nazionale. Con alta stima, Il presidente dell’OgL dott. Franco Abruzzo ORDINE 6 2000 Dal n. 73/2000 di “aprile” (mensile del Movimento dei comunisti unitari) Editoria, finalmente la riforma Appunti per migliorarla Autorità di garanzia, pubblicità, credito, tariffe postali, nuovo contratto dei giornalisti. Proposte di Asie (Associazione per lo sviluppo delle imprese editoriali) per editori “piccoli” e “grandi” di Roberto Di Matteo Dopo anni di attesa, sembra ormai giunto finalmente il momento di una seria riforma della legge 416 sull’editoria (il governo D’Alema ha approvato un disegno di legge il cui iter è ora incerto per tutto ciò che è seguito al voto del 16 aprile). Si tratta non di effettuare alcuni aggiustamenti normativi, né di operare tagli al bilancio dello Stato, bensì di compiere un’opera riformatrice attraverso un vera e propria legge di sistema in grado di rafforzare e sviluppare il pluralismo informativo del nostro paese. La possibilità di poter lavorare ad un miglioramento del testo è confortata dalle affermazioni di autorevoli esponenti dei Democratici di sinistra, fatte nel recente convegno dedicato alla riforma convocato proprio dalla Quercia. In quella occasione si è avviato un confronto serio tra le parti interessate. È stata confermata la volontà di apertura ad un lavoro emendativo teso a varare una legge figlia non di una parte politica o di un pezzo del mondo editoriale, bensì una riforma che raccolga le esigenze di tutto il panorama editoriale. Non c’è dubbio, ma questo come Asie (Associazione per lo sviluppo delle imprese editoriali), lo avevamo sottolineato in altre occasioni, che l’editoria nel suo complesso non può continuare a vivere regolata da leggi che, pur svolgendo nel passato un ruolo fondamentale per la salvaguardia del pluralismo politico e culturale, si fondano su meccanismi di contribuzione diretta agli editori senza distinzione tra grandi e piccoli. Con l’ingresso in Europa, tale anomalia (come altre del sistema produttivo italiano) è destinata a scomparire. Questo è quello che la legge ci propone, affermando la necessità che l’impresa editoriale si confronti con il mercato, abbandonando la linea dei contributi a pioggia, a partire da quelli devoluti dalla legge 250. Questa impostazione di fondo ci trova concordi. Asie non è intenzionata a mettersi di traverso, poiché ritiene inevitabile accogliere la sfida del mercato. La nostra, però, non è una accettazione acritica del testo di legge. Anzi, vogliamo entrare nel merito, perché pensiamo che molto può e deve essere rivisto. 1 Nel disegno di legge si dice basta al “finanziamento pubblico” per dare spazio alle logiche di mercato. Si vuole riconvertire l’intervento pubblico diretto teso a sanare a valle i disavanzi di bilancio delle testate, a favore di un sostegno ad un’editoria che fa dell’innovazione tecnologica e della qualità del prodotto i suoi punti di riferimento. Gli strumenti proposti sono: una politica del credito agevolato e delle agevolazioni fiscali, nonché la potatura del ginepraio burocratico a cui è sottoposta l’attività dell’azienda editoriale. Tutto questo è sufficiente perché l’attuale panorama dell’editoria italiana si sviluppi e prosperi, o quanto meno rimanga inalterato? La differenza tra piccoli e grandi è presa in considerazione? Un serio dibattito non può non partire dal tema delle risorse. Insomma, se giudichiamo inevitabile l’abolizione del “sostegno diretto”, in modo altrettanto netto ci preme sottolineare che probabilmente non è attraverso il credito “più” agevolato e gli sconti fiscali che una larghissima parte dell’editoria italiana riuscirà non solo a rafforzarsi ma anche a rimanere in vita. È da rilevare, peraltro, che queste modalità di credito agevolato, così come sono configurate nel testo di legge, se da un lato possono essere proficuamente adottate da imprese editoriali almeno minimamente consolidate, sono difficilmente fruibili per chi vuole intraprendere un’attività ex-novo, sia editoriale tradizionale, che on-line. Difatti difficilmente una banca concede un credito a chi non può avanzare da subito importanti garanzie. Se lo spirito della legge è premiare qualità e innovazione, va studiato un meccanismo che possa consentire, non solo un tasso di sconto straordinario, ma la possibilità che la richiesta di credito venga accolta dalle banche anche in assenza di beni alienabili da parte dell’impresa. Dunque, per tentare di spiegare chiaramente questa parte che riguarda il tema delle risorse, simuliamo che tutte le testate siano beneficiate dalla legge 250 (quella che finanzia i giornali di partito) e che di colpo questa risorsa venga abolita. Non occorre fare un grande sforzo di immaginazione per renderci conto che potrebbero continuare le pubblicazioni solo coloro che hanno una fonte alternativa di redditività. E, ancora senza 2 ORDINE 6 2000 sforzo, non è difficile individuare nella risorsa pubblicità questa fonte alternativa. Diciamolo chiaramente: senza la risorsa della pubblicità, credito agevolato e sconti fiscali sarebbero sufficienti, a malapena, per avviare un’impresa editoriale non certo per farla vivere nel tempo. Ecco, dunque, una prima e fondamentale differenza tra grandi e piccoli: la risorsa pubblicità. Si può obiettare che una testata che si affermi sul mercato per qualità del prodotto e capacità innovativa non avrebbe difficoltà ad essere un vettore appetibile per i grandi inserzionisti pubblicitari. Ma questa risposta risulterebbe fin troppo semplicistica. Difatti, come sappiamo, la struttura del mercato pubblicitario per quanto riguarda tutti i mezzi di comunicazione è attualmente imperniata sulla certificazione del “punto contatto”. Ora la domanda, su cui varrebbe la pena soffermarsi, è la seguente: può avere un valore commerciale, riferito all’investimento pubblicitario, l’arcipelago dell’editoria minore? Noi dell’Asie crediamo di sì. Crediamo che occorra chiedere con forza che le oltre diecimila testate, tante sono quelle riferibili alla cosiddetta editoria minore, distribuite in edicola o recapitate a domicilio, divengano oggetto, quanto meno, di riflessione da parte degli operatori del settore pubblicitario. Tutto ciò è possibile ad una condizione: che si possa avere quanto meno un censimento vero e non approssimativo di tutto ciò che si stampa e di ciò che è realmente letto. Noi abbiamo la presunzione di scommettere, che se questa indagine venisse svolta scopriremmo che la testata dell’editoria minore non è semplicemente sfogliata, come accade spesso con la grande testata nazionale, bensì letta e diffusa capillarmente “casa per casa”. Questi due elementi sono o non sono valori aggiunti per il sistema pubblicità? Dunque se - schematicamente - per avere risorse pubblicitarie occorre la certificazione del punto contatto, il primo problema è capire come tutti quelli che oggi non usufruiscono di tale servizio possano accedervi. Ma questo ci porta ad un problema ancora precedente, a cui accennavamo prima: quante sono e cosa scrivono la miriadi di testate che si definiscono come “editoria minore”? Chi dovrebbe occuparsi di un censimento non puramente statistico se non “l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni?” La legge 249 del 31/7/1977 all’articolo 1 nota 12 recita testualmente: “Entro il 30 giugno di ogni anno presenta al presidente del consiglio dei ministri per la trasmissione al parlamento una relazione sull’attività svolta dall’Autorità e sui programmi di lavoro; la relazione contiene, fra l’altro, dati e rendiconti relativi ai settori di competenza, in particolare per quanto attiene allo sviluppo tecnologico, alle risorse, ai redditi e ai capitali, alla diffusione potenziale ed effettiva, agli ascolti e alle letture rilevate, alle pluralità delle opinioni presenti nel sistema informativo, alle partecipazioni incrociate tra radio, televisione, stampa quotidiana e stampa periodica e altri mezzi di comunicazione a livello nazionale e comunitario”. A leggere la relazione che l’Autorità ha trasmesso al presidente del consiglio in data 9/7/’99 questa parte di obblighi che la legge impone alla stessa Autorità risultano, per l’articolo citato, del tutto inevasi. Non troviamo una riga per quanto attiene le risorse, i redditi e i capitali, nulla sulla diffusione potenziale ed effettiva, sulla rilevazione delle letture, eccetera. Insomma chi, come noi, credeva che la creazione di uno strumento fondamentale come l’Autorità riuscisse a rendere non più magmatica la galassia dell’editoria minore è rimasto profondamente deluso. Ecco allora un primo punto: come si può condurre in porto la riforma della 416 se mancano pezzi fondamentali di conoscenza (non solo statistici) relativi all’assetto dell’universo editoriale? E come è pensabile che la rilevazione della diffusione e della lettura sia effettuata da una società privata (la Ads) e non da un organo pubblico che ha tra i suoi compiti proprio quello di fornire quei dati? Da qui, una prima rivendicazione: il governo imponga all’Autorità di fornire tutte le analisi senza le quali un lavoro emendativo della legge di riforma risulterebbe senza bussola e occorre sottolineare che quel tipo di rilevazioni effettuate potrebbero rappresentare lo strumento per una trattativa non episodica nei confronti degli inserzionisti pubblicitari. Sia chiaro che non pensiamo di imporre per legge l’affidamento di uno quota delle risorse pubblicitarie all’editoria minore, bensì vogliamo che il nostro mondo venga riconosciuto per quello che vale, per la sua qualità, per la sua rete capillare di distribuzione, l’affezione dei propri lettori. È evidente che senza le risorse della pubblicità o c’è il denaro pubblico o si può fare poca strada. La riforma della 416 prevede un adeguamento della disciplina previdenziale e sociale per giornalisti e poligrafici: è un tema che andrà sicuramente approfondito. Certo è, che non si affronta una questione che a noi sta molto a cuore. Mi riferisco al contratto dei giornalisti. Come è pensabile che una piccola testata possa affrontare i costi del contratto dei giornalisti come fosse la Repubblica o il Corriere della Sera? E quanti giovani rischiano di rimanere giornalisti in “nero”, perché, come per altre categorie, non si possono stipulare diversi gradi di contratto con relativi oneri per l’editoria? Anche questo è un punto da sottoporre alla discussione, affinché una diversa articolazione del contratto dei giornalisti possa divenire non una rivendicazione degli editori contro la categoria, ma un tema vero da integrare nella discussione sulla legge di riforma. 3 Con la riforma della 416 si prevede che la nuova articolazione degli strumenti indiretti d’intervento pubblico (credito agevolato, agevolazioni fiscali) vada in parallelo alla riforma delle agevolazioni tariffarie in particolare di quelle postali, la cui normativa è già stata definita dalla legge finanziaria del ’99. Non a torto, nel nostro mondo, su questo tema si è discusso molto: perché è del tutto evidente che l’eliminazione della tariffa agevolata rischia di mettere in grave crisi gran parte dell’editoria minore. Certo, si tratterebbe di una partita di giro, quello che prima veniva scontato direttamente allo sportello postale ora verrebbe rimborsato direttamente dallo Stato. Ma ciò non è sufficiente a renderci tranquilli. Anche qui, credo, occorre ragionare freddamente evitando di barricarci, se ci sarà concesso a difesa di uno “status quo ante”. Esistono, a nostro giudizio, quattro condizioni che potrebbero rendere effettiva la nuova regolamentazione tariffaria: a) codificare con le Poste S.p.A. un nuovo tipo di rapporto con gli editori che preveda, così come per gli appalti pubblici o privati, la possibilità di stipulare dei veri e propri contratti che esaltino il rispetto di standard d’efficienza, preventivamente stabiliti, che l’Ente poste deve rispettare per non incorrere nel pagamento di penali previste contrattualmente; b) in alternativa, ipotizzare che le Poste S.p.A. rinuncino alla loro posizione di monopolio in questo settore, rendendo libero l’editore di contrattare sul mercato costi e condizioni del servizio; c) ci sono testate che fino ad oggi hanno risparmiato fino a 30 miliardi grazie alle tariffe agevolate. Per questi, e per noi, come abbiamo visto, non cambierebbe nulla. Ma è sostenibile un profilo tariffario omogeneo per tutti, senza tenere presente bilanci e assetti societari? Una S.p.A. è uguale ad una cooperativa di giornalisti? Pensiamo, ovviamente, di no. Anzi, crediamo che il fondo di 450 miliardi destinato al rimborso degli oneri postali debba essere riclassificato diversamente tra grandi e piccoli; d) la partita di giro, cui accennavamo, se da un lato formalmente lascia invariati i costi, dall’altra - in mancanza di meccanismi fissati per legge, che garantiscano tempi certi per il rimborso previsto - possono crearsi gravi problemi di bilancio. Per una testata piccola e media spendere oggi e avere il rimborso magari dopo due anni è rischiare di vedersi riconosciuto un diritto post-mortem. 4 Un’ultima questione riguarda le testate di partito. E’ questo un tema delicato, tale che da più parti è stata avanzata la proposta di stralcio dalla riforma complessiva. A me preme innanzitutto fare una sorta di appello: sarebbe sbagliato che questa parte del mondo editoriale si chiamasse fuori dalla discussione generale per aprire, con il governo, un tavolo di trattativa separato. Siamo convinti che la salvaguardia dei giornali di partito sia un punto irrinunciabile, la loro sopravvivenza rappresenta, senza dubbio, la cartina tornasole della tenuta della democrazia. Occorre sconfiggere quella corrente di pensiero, purtroppo non minoritaria nella società, che vuole cancellare qualsiasi forma di sostegno pubblico alla politica e con esso cancellare una parte del pluralismo informativo. Da subito, però, può e deve essere fatta chiarezza in questo settore, distinguendo tra testate autenticamente di partito, che rappresentano cioè partiti e movimenti politici, e testate che approfittando dei varchi concessi dalla precedente normativa, prendono i soldi come un giornale di partito spacciandosi ai lettori come testate d’opinione (testo ripreso da www.aprile.org). 5 LIBRERIA DI TABLOID Chiara Forti Redazioni pericolose di Letizia Gonzales “Un microcosmo di tensioni, frustrazioni, conflitti. Descritti con ironia crudele. Un racconto di redazione dove la protagonista, che impiega il suo tempo a passare pezzi altrui, soffre per essere un lavoratore mentale che non partecipa creativamente all’ideazione del giornale dove lavora, ma subisce scelte e decisioni prese da altri. Dalla direttora, dai suoi collaboratori, dalla gerarchia che domina la redazione.” È la prefazione di un saggio pamphlet Redazioni pericolose di Chiara Forti, in libreria da pochi mesi. Il libro che ben descrive il ruolo difficile e frustrante del giornalista addetto al desk, cioè alla fattura del giornale, vuole essere una denuncia del malessere che colpisce molti giovani e non solo loro, che non si sentono coinvolti nel giornale che producono e si interrogano sul senso del loro mestiere. Esemplare di questo disagio un’inchiesta svolta recentemente in un grande gruppo editoriale milanese dove più del 67% dei giornalisti non si riconosce nel “prodotto” finale, il 46% ritiene poco interessante il proprio lavoro e il 38% ripetitivo, stressante, dequalificato. Il libro suddiviso in brevi capitoli (la cultura del ritaglio, propaggini del computer, riunioni di redazione... partecipate numerosi, e così via) è uno specchio fedele e paradossale del ruolo del lavoratore mentale, come lo definisce l’autrice, dominato dal computer. Non più giornalisti a caccia di notizie, presenti là dove accadono gli eventi, ma ritagli e telefono come surrogati dell’informazione vissuta da altri. Bandita l’intervista in prima persona, l’esperienza dal vivo da raccontare con le proprie emozioni, perché non c’è tempo e costa troppo. Si va in archivio al centro documentazioni. Non si esce più, si resta al desk. Esemplare il capitolo dedicato al ritaglio, dove l’autrice racconta come “ l’amore per il ritaglio è un sentimento generale e profondo e non un tic passeggero e isolato. Senza i ritagli le redazioni non avrebbero la capacità di reggersi in piedi”. L’orgoglio professionale non esiste più e l’unico modo di sopravvivere a questo disagio è un urlo collettivo, disumano, liberatorio come rivolta contro l’opprimente potere della gerarchia. Tutto esagerato? Forse. Partendo però dalla descrizione di situazioni e personaggi in un settimanale femminile, come quelli raccontati in questo libroinchiesta, ci si può interrogare sul futuro del mestiere del giornalista, insidiato dalle nuove tecnologie e dal mercato. Dai collaboratori “disperati” disposti a qualsiasi sacrificio,anche economico, pur di ritagliarsi uno spazio nel giornale e forse guadagnarsi un futuro da R.O. E ancora, sulla qualità del prodotto giornale e sull’autonomia di chi fa informazione. Chiara Forti, “Redazioni pericolose”, Edizioni Deriva Approdi, pagine 91, lire 12.000 21 (29) LIBRERIA DI TABLOID Sigfrido Bartolini Testimone del suo tempo di Mario Pancera Questo volume nasce insieme con una mostra che il pittore, incisore, scrittore e fervido polemista Sigfrido Bartolini, pistoiese, 68 anni, ha tenuto negli spaziosi ambienti della Triennale di Milano, tra il marzo e l’aprile scorsi. Anche chi non ha visto l’ampia antologica, ricca di spunti e di richiami culturali (non c’erano soltanto quadri, acquerelli, acqueforti e disegni, ma anche fotografie, libri, lettere sulla sua attività e sui suoi incontri con gli intellettuali italiani ed europei di mezzo secolo), può tuttavia seguirne da queste pagine l’itinerario umano, artistico e ideale. Numerosi sono i testi introduttivi e - va detto - quasi tutti tendono a collocare il pittore in un’area ideologica ben precisa, mentre a me sembra che Bartolini vada considerato come uomo che ha dedicato la sua vita all’arte. È valida la sua opera oppure no? L’opera è valida se ha valore l’uomo. Manzù si recava in Vaticano con un fiore rosso l’occhiello: che cosa cambia dei suoi ritratti di Giovanni XXIII o della sua Porta della Morte? Così vorrei che si parlasse di Bartolini, uomo che tra i suoi sogni ricorrenti ha quello di una farfalla variopinta che s’ingigantisce nella luce, che per il suo coloratissimo mondo adopera soltanto due gialli, due rossi, un verde e un azzurro, che lavora quando ne ha voglia, che nasconde la sua severa malinconia (talmente dura da risultare pessimismo) in un tripudio di immagini e paesaggi metafisicamente immobili, come non toccati dalla violenza e dalle tragedie della vita. Non ne ho visto uno in cui appaia una presenza umana. Bartolini non è etichettabile tanto facilmente. L’ho incontrato una sola volta. “Sono l’ultimo desaparecidos”, mi ha detto, a indicare che si sentiva parte della quale ha successo ripudiando il figurativo. Lui è figurativo, nella grande tradizione toscana che va - per indicare rudimentalmente, due limiti temporali e culturlai - da Masaccio a Soffici, entrambi amati. E, anzi, a Soffici, spiega, “devo soprattutto la mia formazione come uomo”. Ma la poesia dei quadri di Soffici e quella dei quadri di Bartolini sono del tutto diverse: là trovi, nel silenzio della Natura, un afflato romantico, qui senti il dolore della solitudine. Di più, a ben vedere, trovi la denuncia dell’impotenza dell’uomo di fronte a se stesso. “Non so se sono testimone del mio tempo”, dice affrontando direttamente il problema, “perché il mondo che mi sta intorno di per sé mi porterebbe a non far niente, cioè mi fa schifo”. E tuttavia, in questa civiltà in declino, pensa di avere un “dovere di testimonianza”, ritiene necessario fondare dei caposaldi (ed evidentemente lui si sforza di essere tra questi), dei riferimenti, considera doveroso essere testimoni per “aiutare gli altri a continuare o a riprendere o a ritrovare o a ricominciare”, insomma per dare sempre più dignità non solo al mondo dell’arte, ma all’intelligenza dell’uomo tout court. Per una crudele coincidenza del destino il libro-documento che è una sorta di rapporto sui cinque anni di novità in Lombardia, a cura della Direzione Generale Cultura, progettato come soddisfatto resoconto agli elettori del 16 aprile scorso ed anche come legittimo manifesto elettorale della giunta alla conclusione del primo quinquennio di mandato, si è subito trasformato in un omaggio alla memoria di Marzio Tremaglia, assessore alla cultura, prematuramente scomparso proprio in quei giorni. Il libro si apre con una ben orientata prefazione di Tremaglia ed è stato poi curato da Romano F. Cattaneo, che ha provveduto a dotarlo anche di un CDROM utile per contenere tutte le iniziative, i nomi, gli indirizzi, che altrimenti avrebbero occupato trenta pagina a stampa. Un segno di adesione al nuovo che avanza, quanto mai giustificato da un programma portato a compimento, tra il 1995 e il 2000, all’insegna della novità. Novità di impostazione, 22 (30) novità di metodi, novità di contenuti. Sono diversi gli elementi che hanno caratterizzato la purtroppo interrotta stagione di Tremaglia, che sarà probabilmente continuata dalla squadra che ha collaborato con lui: occorre ricordare la concezione della cultura non come racconto della storia, ma storia essa stessa; la difesa del patrimonio culturale e del paesaggio secondo quanto prescrive l’articolo 9 della Costituzione, l’attenzione al sistema delle biblioteche, in procinto di diventare anche mediateche, la realizzazione della Rete culturale on-line, la conservazione dei beni architettonici e storici, la creazione di sistemi culturali integrati, la programmazione concordata con lo Stato. Sullo sfondo di questi criteri e obiettivi generali il libro sviluppa poi il resoconto dell’attività svolta nei vari campi. Pietro Petraroia chiarisce in un saggio i modelli innovativi di gestione e in un altro descrive un panorama artistico quanto mai ricco e articolato, documentato poi analiticamente da dieci schede di Brunella Reverberi su altrettante memorabili mostre, da Iside a Klimt, da Kandiski a Lotto, da L’anima Bartolini è anche un eccellente xilografo (ha illustrato un famoso Pinocchio con tavole intorno alle quali ha lavorato una dozzina d’anni), è un maestro dell’incisione, ma ha pure curato monografie, scritto poesie, illustrato libri di vario genere, scritto centinaia di articoli. Noto per la sua polemica e scettico sul presente (“Viviamo in un momento di poca o punta creatività”), afferma di essere molto severo con se stesso. Fa la sua rivoluzione con la reazione: continuare infatti a essere figurativo, dice, “in un mondo così, è fare opera di rottura”. Sigfrido Bartolini “Testimone del suo tempo”, a cura di Carlo Fabrizio Carli, Ed. Mazzotta, pag. 246, s.i.p. (omaggio alla memoria di Marzio Tremaglia) Romano F. Cattaneo Ripensare la cultura in Lombardia di Vincenzo Ceppellini Camilla Cederna Il lato debole e il volto a Hokusai, che hanno offerto ai cittadini lombardi ore di autentico piacere intellettuale. Altre sezioni del libro rendono conto dell’attività svolta nel campo del cinema e della multimedialità (ne parla Alex Voglino) e in quello più specifico della cultura popolare, alla quale sono stati dedicati convegni e manifestazioni di indubbio coinvolgimento. Ma forse è nel saggio Cultura a 360 gradi di Gianfranco de Turris che si coglie il nucleo più profondo del nuovo portato al successo dall’assessorato Tremaglia. È finita la liturgia della vulgata, la tutela dei tabù ideologici, il condizionamento di conventicole che rappresentavano solo se stesse. Cultura a 360 gradi ha voluto dire apertura a intellettuali di qualsiasi matrice ideale, di ogni percorso storico, di ogni livello, alto o basso che fosse perché in un modo massmediale è giusto avvicinare la gente sia alla cultura alta che a quella definita bassa. Tra gli eventi significativi del quinquennio si citano, a questo proposito, le mostre sul Futurismo, il recupero di figure come Ezra Pound e Julius Evola, la visita del Dalai Lama. Per concludere il suo discorso Tremaglia aveva scelto una citazione da Simone Weil . “Dobbiamo conservare gelosamente le gocce del passato vivente... la distruzione del passato è forse il destino supremo”. In questo orizzonte aperto, autentico segno di cultura, è così potuto accadere che in mezzo al tafferuglio parlamentare per il dibattito sulla fiducia al nuovo governo, un avversario di Tremaglia, il segretario ds Veltroni, abbia interrotto il clima di rissa e chiamato i colleghi, tutti i colleghi, a rivolgere un applauso di congedo e di premio al giovane assessore della Regione Lombardia. Non è stato solo un episodio di lutto, è stato anche un episodio di cultura. “Ripensare la culturaCinque anni di novità in Lombardia (1995-2000)” a cura di Romano F. Cattaneo Regione Lombardia, Assessorato alla Cultura Edizioni Gabriele Mazzotta, pag. 160 più CD-ROM di Luigi Bolognini Secondo Giulio De Benedetti, il peggior rischio per il giornalista è di voler fare lo scrittore. Il che ha senza dubbio un notevole fondo di verità (guai a chi si crede sommo letterato e trasforma un articolo in incomprensibile pastrocchio poetico), ma non è vero del tutto. Perché il giornalismo (certo giornalismo, ovvio: mica tutto) può usare stilemi letterari fino a trasformarsi esso stesso in letteratura. Il sistema migliore per capirlo è leggere un articolo a distanza di decine d’anni. Se, persa l’attualità, scomparsi i riferimenti, rimane perfettamente leggibile, facilmente siamo di fronte a una sorta di opera letteraria. In questa categoria rientra certamente la rubrica Il lato debole, che dal 1956 al 1976 fu un punto di forza dell’Espresso. Quei quattro articolini ordinati in due colonne nella pagina centrale, erano un’oasi di serenità, un momento di sorriso in un giornale che, allora molto più di ora (ma erano altri tempi), faceva dell’impegno e della denuncia politica i suoi tratti distintivi. Loro autrice e gran maestra, Camilla Cederna a personalissimo avviso di chi scrive la più grande giornalista italiana. Anche se ora sono in pochi a ricordarsela. Ottima, dunque, l’idea di Feltrinelli di affidare a due parenti, la nipote Giulia Borgese (giornalista al Corriere), e la cugina Anna Cederna il compito di scegliere un centinaio di pezzi (su circa quattromila) e di ripubblicarli. Il nome della rubrica ne spiega già il senso. Per Camilla, normalmente dedita a reportage e inchieste serissimi, dall’Italia e dal mondo, dall’Algeria alla Cina, era proprio il lato debole: un divertissement, un momento di disimpegno, nel senso migliore del termine. La Cederna col suo tipico stile leggero ma mai fatuo schizzava una magistrale serie di bozzetti di dame e signori della media e grande borghesia illuminata milanese, quella dei salotti: la solissima, l’intellettuale, la pedante e così via. Ora che il tempo ha reso praticamente irriconoscibili i riferimenti, questi ritratti si trasformano in esercizio di stile di puro divertimento, da giornalismo insomma si sono trasformati (appunto) in letteratura, in tipi umani non più legati alla realtà contingente, in maschere assolute, eterne, e quindi in qualche modo ancor più attuali. Prendiamo Discorsi in U, elenco di comportamenti e luoghi comuni degli e sugli uomini: “Gli uomini son tutti dei bambinoni. Agli uomini piace comandare. Agli uomini piace essere protetti. Con gli uomini non si può mai dire. È un uomo molto a posto. L’uomo è cacciatore. Da uomo a uomo. Sai, tra uomini... Cosa vuoi, gli uomini. Gli uomini, mia cara. È un uomo come tutti gli altri. Gli uomini, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Cosa siete, voi uomini! Con gli uomini non si ragiona. Gli uomini? Non me ne parlare. Son tutti uguali. Tante belle parole, e poi... Son tutti imbroglioni. Son dei materiali. Sono una razza a parte, e che piaghe! Se gli uomini non brontolano, non son più loro. Un uomo vale un altro. Gli uomini hanno il complesso materno. È un uomo di pezza”. In questo blob (ma scritto quando Blob era solo il titolo di un misconosciuto filmetto americano, non dimentichiamolo) c’è tutto lo stile di Camilla: quasi parlato, informale ma al contempo rigoroso, semplice ma impossibile da ricreare. Ed è una fortuna che la Cederna, come Brera, non abbia creato una scuola. Certe cose sono inimitabili. A un certo punto della storia della rubrica (e quindi del libro), in coincidenza con piazza Fontana, c’è una cesura piuttosto netta, di stile e argomenti. L’innocenza, la gaiezza originarie sono perdute irrimediabilmente: i toni si fanno più cupi, le argomentazioni più serie. Si apre la strategia della tensione, la lotta politica si fa armata, i misteri si susseguono ai misteri, le trame si intrecciano. E Camilla perde la voglia di scherzare e si trasforma in giornalista investigativa. Ma in effetti non cambia molto: lei, infatti, continua a raccontare Milano esattamente come prima. È Milano ad essere cambiata, dalla metropoli del boom che “scopriva il brivido del consumismo, si concedeva le prime vacanze in Kenya” (definizione di Maria Latella) e dei fermenti intellettuali (Fo, Jannacci, Simonetta), diventa una città divisa, impaurita. E Camilla semplicemente si adegua. Tutto è così cambiato che non si riesce più a ridere. Ma si continua a pensare. Camilla Cederna (a cura di Giulia Borgese e Anna Cederna), “Il lato debole”, Feltrinelli, Milano, 2000, pagine 160, lire 15000 ORDINE 6 2000 I NOSTRI ERRORI La recensione del libro di Alfio Caruso (Da cosa nasce cosa), apparsa sul n. 5 di Tabloid, risulta firmata da Mattero Collura. Non c’è dubbio che si tratti, invece, di Matteo Collura, collega noto. Qualche volta, purtroppo, capita di sonnecchiare. Chiediamo scusa a Matteo Collura e ai nostri lettori. (Fr. Ab.) Settimio Paolo Cavalli Il marketing librario di Gigi Speroni Settimio Paolo Cavalli gioca in casa nel parlar de I mestieri del libro, titolo di una collana della Editrice Bibliografica dedicata a quei pacchetti di carta stampata che racchiudono e tramandono tutte le nostre conoscenze, i nostri sogni, oggi aggrediti dalla volatile concorrenza on line... Di quello che l’autore definisce il “prodotto libro di carta, come lo conosciamo e amiamo da tempo, come continuerà ad essere conosciuto e amato almeno da tutti i feticisti che nel libro o del libro vogliono godere non solo il contenuto, ma l’odore, la consistenza, il tatto, il vederlo sullo scaffale o sul tavolo o sul comodino, macchia di colore o memento mori che sia”. Parole che testimoniano la passione e l’affetto di chi i libri li conosce da sempre, è impegnato da quarant’anni nel mondo editoriale e sa coniugare la laurea in organizzazione aziendale con una scioltezza di scrittura collaudata da numerose collaborazioni in testate specialistiche. Di un innamorato che, comunque, definisce il suo feticcio un “prodotto”, perché anche per il libro “i conti devono tornare: non può (non deve) esistere un’azienda in perdita, anche quelle no-profit, anche quelle di servizio, anche le Fondazioni culturali devono far quadrare i conti. Un’azienda in perdita è un danno per se stessa, per chi ci lavora e per la società tutta. È la contraddizione lampante di qualsiasi principio di marketing, oltre che di buon senso”. Pianta i piedi per terra, amico scrittore: se non vendi non esisti. Le cifre che Cavalli ci offre fanno riflettere: 3.688 case editrici con 339.00 titoli in commercio per un fatturato di soli 4.392 miliardi, “meno della Barilla Italia che non è certo la maggiore azienda italiana, per cui se facessimo una media il fatturato/azienda sarebbe poco più di un miliardo lordo annuo per una produzione media di 12-13 titoli. Nella realtà esiste un vero oligopolio in cui i primi cinque gruppi editoriali coprono circa il 55 % del fatturato totale, e la tendenza alla concentrazione delle sigle editoriali è fortissima”. (E in crescendo: la Rusconi Libri è stata recentemente assorbita dalla Rcs) , “È questo, della concentrazione, uno dei pochi segni, per ora, di una tendenza alla ‘industrializzazione’ del settore che sicuramente incide sulla sua struttura.” Ma qual è la filosofia di conduzione delle aziende? “Difficile a dirsi, guardandosi attorno sembrerebbe quella di un mercato maturo, anzi saturo, senza essere passata dalla prima e dalla seconda fase, senza servizi e senza assistenza, ma con tante promozioni banali, con una ancora forte pressione sulla spinta di vendita. In concreto l’editoria vive una fase marchet oriented senza disporre, o senza servirsi dello strumento principale, il marketing appunto”. Da qui il saggio di Cavalli Marketing librario: 225 pagine utili anche a chi ha un manoscritto nel cassetto e può imparare a costruire un “prodotto” per l’editore che deve pensare al mercato. Remo Danovi Il pendolo della professione legale e Codici deontologici di Gian Luigi Falabrino Avvocato celebre e studioso del diritto, Remo Danovi ha particolarmente approfondito, a partire dal 1984, i problemi della professione forense e, prima fra tutti, la deontologia professionale. Ora torna su questi temi con due libri necessari, a mio parere, sia agli avvocati già esperti sia ai giovani che si accingono ad entrare nell’avvocatura. E anche ai magistrati che con gli avvocati hanno a che fare tutti i giorni. Il primo di questi libri è Il pendolo della professione. È una raccolta di saggi che approfondiscono molti temi di diritto forense, a cominciare dal codice deontologico degli avvocati, per il quale – nel 1997 – è stato redatto un progetto per la codificazione delle regole. Particolarmente interessante è l’analisi delle ragioni pro e contro la codificazione, anche grazie alla comparazione con alcune soluzioni straniere. Altrettanto approfondita è la questione della pubblicità individuale dell’avvocato, esaminata anche in relazione ai principi europei. Così costituisce un utile memento ORDINE 6 2000 il capitolo dedicato all’uso dilatorio che sia i magistrati sia gli avvocati fanno degli strumenti processuali. Il libro prende il titolo da un saggio su tre anni di legislazione forense (1997-99). Tutto era cominciato nel 1994 con l’indagine dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per la quale “tutte le libere professioni devono essere assoggettabili alle regole della concorrenza in dipendenza delle nozioni d’impresa adottata dagli organi comunicatori”. Su questa base, il Ministro di giustizia ha elaborato il disegno di legge del luglio 1998 per il riordino delle professioni, dopo che, con la legge del 24 febbraio 1997, era stato abolito l’albo dei procuratori. Queste e altre leggi sulle professioni (part time, inserimento degli avvocati nel ruolo dei magistrati, società professionali, formazione e accesso, scuole di specializzazione ecc.) sono esaminate con dovizia di particolari. Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati, fra l’altro, alla riforma dell’ordinamento forense nelle prospettive dell’avvocatura, agli ultimi congressi nazionali forensi e ai loro orientamenti, agli onorari dell’avvocato, ai rapporti fra stampa e cultura forense. Interamente dedicato ai Codici deontologici è l’altro recente libro di Remo Danovi, utilissimo per la possibilità di comparazione fra i criteri adottati nelle varie professioni, soprattutto quando fra esse vi sono punti di contatto. Il volume è diviso in due parti: le professioni riconosciute, quali gli architetti, gli avvocati, i biologi, i commercialisti, i giornalisti, i medici, i notai ecc.; e le altre attività professionali (arbitri, avvocatura dello Stato, giudici di pace, insegnanti, magistrati, pubblicitari ecc.). Esauriente è il capitolo dedicato alla deontologia del giornalista, alla cui base sta la legge istitutiva dell’Ordine 3 febbraio 1963, n. 69): “Senza quella legge – ricorda Franco Abruzzo nel commento al capitolo – i giornalisti si ridurrebbero ad essere impiegati senza deontologia”. Ma la genericità dei principi enunciati negli artt. 2 e 48 di quella legge ha spinto la Federazione nazionale della stampa a l’Ordine nazionale ad elaborare alcune “carte” interpretative dei principi, “che si pongono come casistica rispetto agli artt. 2 e 48 della legge professionale” (Abruz- Perché se un cronista scrivendo un articolo deve rispettare le cinque famose W (Who, Where, What, When, Why) anche lo stratega di un’azienda editoriale è tenuto a seguire la stessa regola nel collocare un libro, rispondendo alle stesse domande: Chi? Dove? Quando? Che cosa? Perché? Settimio Paolo Cavalli nell’illustrare quelli che definisce “strumenti di un’utopia possibile”, atti a fornire nuova linfa al prodotto-libro, offre spunti di riflessione e dati sconsolanti. Spulcio: “Oggi il ciclo di vita media di un libro da libreria è inferiore ai novanta giorni entro i quali gioca tutta la sua esistenza. Questo drammatico accorciamento della vita media di un libro è una delle cause – non la sola – del proliferare di nuovi prodotti che scalzano via via sempre più velocemente quelli presenti sul bancone del libraio. Non a caso in Italia escono mediamente oltre 50.000 titoli all’anno”. Fatti più in là, collega. Dei libri, oltre al best seller, all’instant book c’è anche il coffee table book, “letteralmente libro da tavolino, lo si usa per far bella figura con gli ospiti lasciandolo in bella vista, di piatto naturalmente, sul tavolino del salotto buono”. “Nella mente del possibile acquirente l’arte è un argomento ‘alto’ che regge un prezzo alto, mentre la cucina è un argomento ‘basso’ che richiede un prezzo basso. A parità di ogni altra caratteristica (formato, numero di parole, confezione, numero e superficie delle illustrazioni, ecc.) un libro di cucina non può avere lo stesso prezzo di un libro d’arte: il possibile acquirente lo giudicherebbe aprioristicamente caro, e non lo comprerebbe”. “Non chiedetemi perché”, sostiene Cavalli. E se lo dice lui… Gli è ben chiaro, invece, perché una certa politica editoriale diventa suicida: quando spaccia come novità lavori già editi, sceneggiature come opere di narrativa; ripubblica vecchie edizioni con titoli diversi… “Specchietti per le allodole” che non ingannano il 7% di “lettori forti” ma demotivano quel “40 per cento di lettori occasionali”, i quali, delusi, finiscono per non comperare più libri. “Un po’ come gli elettori che, a forza di sentirsi presi in giro dalle forze politiche, non vanno più a votare; con la differenza che le forze politiche continuano a governarci anche se sono state elette da quattro gatti, i libri non è possibile venderli obbligatoriamente per legge”… “È curioso notare come, in generale, i mezzi su cui si fa pubblicità ai libri siano completamente sbagliati: pagine letterarie dei quotidiani, riviste letterarie, strumenti per addetti ai lavori. Tutti canali diretti sempre a quel 7% che non ha certo bisogno di essere invogliato ad avvicinarsi al prodotto libro e che si avvale per decidere le proprie scelte della critica (propaganda e non pubblicità), del ‘passa parola’, del consiglio del libraio e di se stesso. È l’altro 40 %, che sicuramente non legge le pagine letterarie, che va sollecitato dalla pubblicità”. Cavalli ne ha anche per noi o, meglio, su di noi. “Attenzione, non c’è idea più stupida che pensare che ‘fare regali’ ai giornalisti sia un’attività utile o pagante a fini promozionali. Se siete coloro che pensano che, fatte le debite eccezioni, i giornalisti siano dei corrotti comprabilissimi, è dannoso oltre inutile inimicarseli con un regalo che, rispetto a quello che possono offrire i produttori di automobili – vestiti, profumi, viaggi, ecc. – non può essere che ‘peanust’, noccioline, come dicono gli americani”. Fatte le debite eccezioni… zo). Sono la Carta di Treviso per una cultura dell’infanzia, (5 ottobre 1990), il Vademecum per la Carta di Treviso (25 novembre 1995), la Carta dei doveri del giornalista (8 luglio 1993); e infine il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (in riferimento all’art. 25 della famosa legge 675 del 31 dicembre 1996); quest’ultimo codice è stato approvato il 15 luglio 1998 dal Consiglio dell’Ordine nazionale dei giornalisti e fatto proprio dal Garante per la protezione dei dati personali (29 luglio 1998). Abruzzo ricorda anche che le Carte di Treviso sono state ispirate alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, firmata a New York il 20 novembre 1989 e tradotta nella legge italiana il 27 maggio 1991, n. 176. Può essere utile ricordare che, nel decimo anniversario della Convenzione di New York (novembre 1999novembre 2000), si svolgerà al Palazzo Reale di Milano il 27 settembre prossimo un convegno internazionale sul tema “I diritti dell’infanzia”. Il convegno inaugurerà la Mostra omonima all’Arengario, a prolusione del 2° Festival Internazionale della Comunicazione Sociale (2830 settembre 2000 – Università Bocconi di Milano). È una curiosità, ma straordinariamente interessante, la pubblicazione del Codice barbaricino, tratto da un libro di Antonio Pigliaru (La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, 1959), che offre molti spunti di riflessione sul permanere fino al Novecento di ordinamenti tribali pre-statali, soprattutto in questi giorni nei quali molti si scandalizzano per la vendetta contenuta nel Kanun albanese e invocata dai parenti e amici del bambino ucciso a Mariano Comense. In realtà, le due tradizioni tribali hanno leggi molto simili, a cominciare dall’art. I del Codice barbaricino: “L’offesa dev’essere vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità, vi rinunci per un superiore motivo morale”. Ma, a parte le curiosità storico-sociologiche, altri sono i codici contenuti nella seconda parte del libro che hanno molta importanza nella società contemporanea. E fra questi il Codice di autodisciplina pubblicitaria, istituito nel 1966 e successivamente modificato più volte. Come dice l’avv. Giorgio Ferrari nel commento al capitolo, “L’Autodisciplina pubblicitaria in Italia rappresenta oggi una realtà ormai definitamene affermata... ed ha sicuramente creato nel nostro Paese un costume pubblicitario ben preciso ed insieme un convincimento generalizzato della sua corrispondenza ai criteri di una vera correttezza professionale”. Ferrari ricorda anche che, “con una decisione recentissima e senza precedenti, la Cassazione (sentenza n. 1259/99) ha dettato il principio di diritto” secondo il quale le regole contenute nel Codice di autodisciplina pubblicitaria “costituiscono parametri di valutazione della correttezza professionale”. È anche da ricordare l’art. 7 di questo codice, che impone la distinzione della pubblicità dall’informazione, in perfetta analogia con le norme della Carta dei doveri. Settimio Paolo Cavalli, “Il marketing librario”, Editrice Bibliografica, Milano, pagine 225, lire 40.000 Remo Danovi, “Il pendolo della professione”, Giuffrè Editore, 1999 lire 48.000 Remo Danovi, “Codici deontologici”, Egea (Bocconi-Giuffrè), 2000, lire 80.000 L’ECO DELLA STAMPA ECO STAMPA MEDIA MONITOR S.R.L. Via Compagnoni 28, 20129 Milano Tel. 02 74 81 131 Fax. 02 76 11 03 46 23 (31) Riforma universitaria In arrivo 104 lauree specialistiche: c’è anche giornalismo Roma, 14 aprile - Il turismo, lo sport, ma anche il giornalismo, i servizi sociali e la cooperazione allo sviluppo. Le nuove classi delle lauree specialistiche biennali toccano indirizzi e ambiti che stanno acquistando un peso nuovo nella società. Con lo schema di decreto sulla Determinazione delle classi di lauree specialistiche universitarie - che il ministro Ortensio Zecchino ha consegnato al Consiglio universitario nazionale (Cun) si aggiunge dunque un altro tassello al nuovo volto dell’università italiana. Il nuovo sistema è quello del “3+2”: la laurea avrà infatti durata triennale e ad essa seguiranno - per i laureati che sceglieranno di proseguire gli studi - lauree specialistiche biennali. Due gli obiettivi principali: garantire al titolo di studio una immediata spendibilità sul mercato del lavoro e curare l’attuale “patologia” dell’università italiana, vale a dire la mortalità studentesca ed i tempi lunghi per il termine degli studi. Le classi, cioè le aree scientifico-disciplinari, sono 41 per le lauree triennali (però mancano quelle per le aree sanitarie e scientifico-strategiche) e ben 104 per le lauree specialistiche biennali. Lo schema di decreto, la cui pubblicazione è prevista entro giugno, introduce in 7 articoli molteplici novità. Ad esempio, gli studenti potranno specializzarsi in ben quattro classi di biotecnologie (agrarie, industriali e farmaceutiche, mediche, veterinarie), 15 indirizzi di ingegneria, ma anche in settori emergenti: dalla programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali a quella dei sistemi turistici e degli eventi culturali, all’organizzazione e gestione dei servizi per lo sport e le attività motorie. È prevista anche una laurea biennale in discipline per la cooperazione allo sviluppo e una in scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua. In vari casi, poi, sarà anche possibile redigere e discutere la tesi in lingua straniera. Gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea specialistica nell’ambito dell’autonomia universitaria, si sottolinea nel decreto, “sono definiti dagli Atenei entro 18 mesi dalla data di pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale”. Gli studenti saranno valutati con il sistema dei crediti (a ciascun credito corrispondono 25 ore di lavoro per studente). Per conseguire la laurea di primo livello (triennale), lo studente deve aver acquisito 180 crediti. In base al decreto, “per ogni corso di laurea specialistica i regolamenti didattici di ateneo determinano i crediti assegnati a ciascuna attività formativa”. Per quanto riguarda la laurea specialistica in giornalismo, va ricordato che nel periodo 1930-1934 l’Università di Perugia avviò il corso di laurea in scienze politiche “con indirizzo giornalistico”. Gli studenti dovevano frequentare per due anni (nei mesi di marzo, aprile e maggio) le esercitazioni pratiche della Scuola di giornalismo di Roma, ottenendone un certificato di compiuto tirocinio. Con questo certificato potevano conseguire la laurea che li abilitava all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti e quindi all’esercizio della professione. Abolita nel 1934, dopo quattro anni di funzionamento, la scuola di giornalismo di Roma, fu cancellato anche il corso di laurea “con indirizzo giornalistico” dell’Università di Perugia. Queste le 104 classi delle lauree specialistiche biennali previste dallo schema di decreto: ■ antropologia culturale e etnologia ■ progettazione e sperimentazione nei settori delle telecomunicazioni visive e dello spettacolo ■ archeologia ■ programmazione e gestione dei servizi formativi e psico-pedagogici ■ architettura del paesaggio ■ programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali ■ architettura e ingegneria edile ■ pubblicità e comunicazione d’impresa ■ archivistica e biblioteconomia ■ scienza e ingegneria dei materiali ■ biotecnologie agrarie ■ scienze biologiche e biologiche applicate ■ biotecnologie ■ scienze chimiche ■ industriali e farmaceutiche ■ scienze cognitive ■ biotecnologie mediche ■ scienze della natura ■ biotecnologie veterinarie ■ scienze della politica ■ culture e metodologie per la società dell’informazione ■ scienze della programmazione e gestione dei sistemi sanitari ■ discipline della comunicazione sociale e istituzionale ■ scienze delle attività motorie preventive e adattive ■ discipline dello spettacolo teatrale, cinematografico e televisivo ■ scienze delle pubbliche amministrazioni ■ discipline per la cooperazione allo sviluppo ■ scienze delle relazioni internazionali ■ disegno industriale ■ scienze delle religioni ■ editoria, comunicazione multimediale e giornalismo ■ scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua ■ farmacia e farmacia industriale ■ scienze e tecnica dello sport ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ filologia e letterature dell’antichità scienze e tecnologie agrarie filologia moderna scienze e tecnologie agroalimentari filosofia e storia della scienza scienze e tecnologie chimiche industriali filosofia teoretica, morale, politica ed estetica scienze e tecnologie dei sistemi di navigazione giurisprudenza scienze e tecnologie fisiche informatica per le discipline umanistiche scienze e tecnologie informatiche ingegneria aerospaziale e astronautica scienze e tecnologie per l’ambiente e territorio ingegneria biomedica scienze economiche ingegneria chimica scienze economiche per l’ambiente e la cultura ingegneria civile scienze economiche-aziendali per il management ingegneria dell’automazione scienze geofisiche ingegneria delle telecomunicazioni scienze geografiche ingegneria e modellistica matematico-fisica per le scienze applicate scienze geologiche ingegneria elettrica scienze infermieristiche ingegneria elettronica scienze matematiche ingegneria energetica scienze pedagogiche ingegneria gestionale scienze psicologiche ingegneria informatica scienze sociologiche e sociologiche applicate ingegneria meccanica scienze statistiche demografiche e sociali ingegneria navale ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Mensile / Spedizione in a. p. (45%) Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXI - Numero 6, giugno 2000 Direttore responsabile FRANCO ABRUZZO Condirettore BRUNO AMBROSI Direzione, redazione, amministrazione Via Appiani, 2 - 20121 Milano Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307 24 (32) ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ scienze statistiche economiche, finanziarie e attuariali ingegneria per l’ambiente e per il territorio scienze statistiche per la ricerca sperimentale interpretariato di conferenza scienze, tecnologie e gestione dei sistemi agro-zootecnici lingua e cultura italiana scienze, tecnologie e gestione delle risorse del territorio rurale, forestali e agroambientali lingue e letterature afro-asiatiche storia antica lingue e letterature moderne euro-americane storia contemporanea lingue straniere applicate storia della filosofia linguistica storia e conservazione dei beni architettonici e ambientali medicina e chirurgia storia e conservazione dei beni scientifici della civiltà industriale medicina veterinaria storia e conservazione del patrimonio artistico metodologie per la ricerca empirica nelle scienze sociali storia medievale metodologie per l’analisi valutativa dei sistemi complessi storia moderna musicologia e beni musicali studi europeistici e delle politiche e istituzioni dell’Unione europea odontoiatria e protesi dentaria teoria della comunicazione organizzazione e gestione dei servizi per lo sport e le attività motorie teoria e tecniche della normazione e dell’informazione giuridica pianificazione territoriale urbanistica e ambientale traduzione letteraria e traduzione tecnico-scientifica progettazione e gestione dei sistemi turistici e degli eventi culturali Ordine/Tabloid Segretaria di redazione Teresa Risé Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, presidente; Brunello Tanzi, vicepresidente; Gabriele Moroni, consigliere segretario, Sergio D’Asnasch, consigliere tesoriere. Consiglieri: Bruno Ambrosi, Annibale Carenzo, Letizia Gonzales, Cosma Damiano Nigro, Domenico Tedeschi. Collegio dei revisori dei conti Aldo Borta Schiannini, Davide Colombo, Rino Felappi (presidente); Coordinamento grafico di Ordine - Tabloid Franco Malaguti Stampa Stem Editoriale S.p.A. Via Brescia, 22 20063 Cernusco sul Naviglio (Mi) Iscritto al n. 983/ 1983 del Registro nazionale della Stampa Comunicazione e Pubblicità Comunicazioni giornalistiche Advercoop Via G.C.Venini, 46 - 20127 Milano Tel. 02/ 261.49.005 - Fax 02/ 289.34.08 La tiratura di questo numero è stata di 20.100 copie Chiuso in redazione il 29 maggio 2000 ORDINE 6 2000