Anno XXXI
n. 6, giugno 2000
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2-20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
Giornalisti
della
Lombardia
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e-mail:[email protected]
Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
INFORMAZIONE ISTITUZIONALE - La legge appena approvata prevede che vengano incaricati iscritti all’Albo
Uffici stampa del settore pubblico:
i giornalisti entrano a pieno titolo
dice l’articolo 9 (comma 2), è costituita
anche “da personale estraneo alla pubblica
amministrazione utilizzato con le modalità di
cui all’articolo 7, comma 6, del Dlgs n.
I giornalisti, dopo il varo della laurea speciali29/1993 nei limiti delle risorse disponibili nei
stica ad hoc, guadagnano altri punti e consebilanci di ciascuna amministrazione per le
guono il diritto di cittadinanza, in maniera uffi- medesime finalità”. Dalla lettura incrociata
ciale, negli uffici stampa della pubblica dei commi 2 e 5 si ricavano questi principi:
amministrazione. Si avanzano ipotesi di 1. “gli uffici stampa sono costituiti da perso2.500-3.000 nuovi posti di lavoro (200 solo in nale iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti”;
Sicilia). Si presenta, però, problematica l’ap- 2. il reclutamento dei giornalisti (“personale
plicazione dell’articolo 9 della legge (sulla estraneo alla pubblica amministrazione”)
comunicazione nelle pubbliche amministra- avverrà secondo l’articolo 7 (comma 6) del
zioni) approvata il 9 maggio dalla Commis- Dlgs n. 29/1993:
sione affari costituzionale del Senato in sede
3. le pubbliche amministrazioni daranno la
deliberante. La nuova legge non parla di
priorità ai propri dipendenti in servizio e in
concorsi - via costituzionalmente obbligato- possesso dei titoli (cioè l’iscrizione all’Albo
ria per l’accesso nell’apdei giornalisti).
parato statale - per l’asSecondo l’articolo 7 (comma
Nella assunzioni
segnazione dei posti
6) del Dlgs n. 29/1963, “le
le
pubbliche
eventualmente disponibiamministrazioni pubbliche,
amministrazioni
li, ma specifica che “negli
per esigenze cui non possouffici stampa l’individua- dovranno dare la priorità no far fronte con personale in
zione e la regolamentaservizio, possono conferire
ai propri dipendenti
zione dei profili professioincarichi individuali ad espergià in servizio
nali sono affidate alla
ti di provata competenza,
e in possesso dei titoli
contrattazione collettiva
determinando preventivanell’ambito di una speciamente durata, luogo, oggetto
le area di contrattazione, con l’intervento
e compenso della collaborazione”. Tradotto
delle organizzazioni rappresentative della
in parole povere, il comma 6 dell’articolo 7
categoria dei giornalisti”. Il comma 5, infine,
significa che le pubbliche amministrazioni
aggiunge: “Dall’attuazione del presente
faranno ricorso a giornalisti “esperti di provacomma non devono derivare nuovi o
ta competenza” soltanto quando “non sia
maggiori oneri a carico della finanza pubbli- possibile reperire idonee professionalità
ca”.
all’interno dell’amministrazione” (Corte dei
L’articolo 9 (comma 1) ammette da una parte Conti, Sez. Contr., det. n. 78 del 09-06-1995).
che “le amministrazioni pubbliche possono Un regolamento, previsto dall’articolo 5 del
dotarsi, anche in forma associata, di un uffi- Ddl e che sarà emanato entro 60 giorni
cio stampa, la cui attività è in via prioritaria dall’approvazione della legge, individuerà i
indirizzata ai mezzi di informazione di
titoli del “personale estraneo alla pubblica
massa” per poi, dall’altra parte, affermare
amministrazione” ossia dei giornalisti. Dal
(comma 5) che i mezzi di finanziamento
punto di vista formale l’articolo 1 della legge
sono sostanzialmente inesistenti. L’istituzioprofessionale (n. 69/1963) individua “i giorne degli uffici stampa diventa così una scelta
nalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei
discrezionale della Pa.
rispettivi elenchi dell’Albo”. Il regolamento
La chiave di lettura del provvedimento legi- dovrà chiarire:
slativo e in particolare dell’articolo 9 è il
1. se degli uffici stampa potranno far parte i
decreto legislativo. 3 febbraio 1993 n. 29
giornalisti professionisti e i pubblicisti in via
(Razionalizzazione dell’organizzazione delle
alternativa o soltanto i giornalisti professioamministrazioni pubbliche e revisione della nisti;
disciplina in materia di pubblico impiego). La
2. il titolo di studio dei giornalisti professionisti e dei pubblicisti. Appare scontato il
dotazione di personale degli uffici stampa,
di Franco Abruzzo
Alle pagine 2 e 3
Alle pagine 6, 7 e 8
Walter Tobagi continua
a parlare alle nuove
generazioni di giornalisti
Cassazione: l’Ordine
può certificare
il periodo di pratica
Alle pagine 9, 10 e 11
Privacy:
le telecamere ci spiano
A pagina 12
Esposto alla Covip
sul Fondo previdenza
Risposta di Serventi Longhi
Adempimenti Inps e Inail
per i collaboratori
ORDINE
6
2000
Direttiva comunitaria rende
giustizia anche ai free lance:
articoli pagati dopo 30 giorni
È finita la pacchia per gli editori. Anche gli editori dovranno rispettare la direttiva comunitaria
varata il 18 maggio e pagare le collaborazioni entro trenta giorni. Un tempo incredibilmente
corto rispetto ai 4-8 mesi di oggi. Giustizia per i giornalisti liberi professionisti o free lance!!!
Era ora. Dal tavolo delle trattative così è stato tolto un macigno enorme, che aveva contribuito a determinare un clima pesante di scontro tra Fnsi e Fieg. (Servizio a pagina 13)
possesso di un diploma di laurea se è vero
che l’articolo 7 (comma 6) del Dlgs n.
29/1993 prevede incarichi individuali ad
“esperti di provata competenza” (evidentemente con contratto coordinato e continuativo di cui agli articoli 2222 e seguenti del Cc).
Sulle mansioni che negli uffici stampa saranno assegnate al “personale iscritto all’Albo
nazionale dei giornalisti” si svolgerà la
contrattazione con la presenza della Fnsi (e,
si prevede, in sede Aran). La contrattazione
collettiva punta alla “individuazione e alla
regolamentazione dei profili professionali”.
Assisteremo, però, a una strana contrattazione sul ruolo di “non dipendenti”, ma di collaboratori collocati in strutture (gli uffici stampa) della pubblica amministrazione. Il corrispettivo e il compenso - che dovranno essere adeguati all’”importanza dell’opera e al
decoro professionale” (articolo 2233 Cc)
nonché alla “provata competenza” - sono per
ora un capitolo aperto, che sarà riempito con
il ricorso alle tariffe stabilite dall’Ordine dei
Giornalisti (articoli 2225 e 2233 Cc).
Sono ipotizzabili almeno due ipotesi di lavoro alternative al percorso della collaborazione coordinata e continuativa:
1. enti assimilati alla pubblica amministrazione dal comma 2 dell’articolo 1 del Dlgs n.
29/1993 (gli istituti e scuole di ogni ordine e
grado e le istituzioni educative, le aziende ed
amministrazioni dello Stato ad ordinamento
autonomo, le regioni, le province, i comuni,
le comunità montane e loro consorzi ed
associazioni, le istituzioni universitarie, gli
istituti autonomi case popolari, le camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltu-
ra e loro associazioni, tutti gli enti pubblici
non economici nazionali, regionali e locali, le
amministrazioni, le aziende e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) potrebbero
prevedere nelle piante organiche gli uffici
stampa e bandire di conseguenza concorsi
per assumere (a tempo indeterminato e con
il contratto Fnsi-Fieg) “personale iscritto
all’Albo nazionale dei giornalisti”;
2. la stessa pubblica amministrazione e gli
enti assimilati alla Pa potrebbero stipulare
contratti a tempo determinato (e per una
durata di 4 anni nei Comuni e nelle Province) con giornalisti, applicando il contratto
Fnsi-Fieg.
Questa soluzione è facilitata, per i Comuni e
le Province, dall’articolo 51 (5° comma) della
legge n. 142/1990 sugli enti locali recentemente aggiornata dal Parlamento. Le amministrazioni pubbliche potrebbero peraltro
assumere a tempo determinato (dai 2 ai 7
anni e con facoltà di rinnovo) il portavoce e i
coordinatori degli uffici stampa, avvalendosi
dell’articolo 19 del Dlgs n. 29/1993 il quale
(al comma 2) dice: “Tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle amministrazioni dello
Stato, anche ad ordinamento autonomo,
sono conferiti a tempo determinato. Gli incarichi hanno durata non inferiore a due anni e
non superiore a sette anni, con facoltà di
rinnovo. Sono definiti contrattualmente, per
ciascun incarico, l’oggetto, gli obiettivi da
conseguire, la durata dell’incarico, salvi i casi
di revoca, nonché il corrispondente trattamento economico. Quest’ultimo ha carattere
onnicomprensivo”.
(Il testo della legge alle pagine 4 e 5)
Per la diffamazione via Internet
valgono le regole della stampa
VICENZA. La diffusione su larga scala di Internet comincia ad avere ripercussioni sempre
più frequenti anche sul pianeta giustizia. Si moltiplicano così le pronunce dell’autorità giudiziaria in materia di utilizzo della rete. Ieri la macchina dell’amministrazione giudiziaria si è
trovata ad affrontare a Vicenza un classico reato sul crinale della new economy, la diffamazione a mezzo Internet, e il giudice ha trattato il caso come se si trattasse di un reato a
mezzo stampa trasmettendo gli atti a Bologna, città dove opera il server che ha diffuso la
notizia incriminata e che nel ‘98 era stato anche sequestrato dalla procura vicentina.
Imputato nel procedimento un attivista, residente a Vicenza, di Spartakus, movimento di
estrema sinistra che tramite Internet aveva invitato a boicottare il turismo in Turchia per
protestare contro la persecuzione dell’opposizione curda e turca. In particolare, il messaggio
di posta elettronica, inviato dal personal computer di Carta e pubblicato dal server bolognese, attaccava un tour operator turco, Turban, collegandolo al nome dell’ex premier Tansu
Ciller, ricordata come “ispiratrice degli squadroni della morte che hanno provocato la morte
di centinaia di oppositori, curdi e turchi”.
Ma l’autore del messaggio invitava anche a boicottare le agenzie di viaggi che offrono i tours
della TurbanItalia, società giuridicamente distinta dalla Turban e costituitasi in giudizio per tutelare la propria immagine. Ieri il giudice Giovanni Biondo, accogliendo l’istanza del difensore di
Carta, ha trasmesso gli atti alla magistratura bolognese. Ed è subito partita la protesta dei militanti di Spartakus che hanno invece organizzato un sit-in davanti al tribunale per sostenere la
causa del popolo turco e attestare la legittimità del comportamento del proprio compagno.
(da Il Sole 24 Ore, 3 maggio 2000)
1
Circolo della Stampa
MEMORIA
Walter Tobagi continua a parlare
di Cristina Palazzesi e Stefano Salis
Una mostra fatta di parole, di tavole, fotografie, titoli, sulla vita e la morte di un uomo che
nella professione aveva fatto della parola e
della ragione, la sua acuta, lucida, arma di
verità e discernimento in un tempo aspro e
cattivo di pallottole, odio e deliri, si è aperta
mercoledì 24 maggio, al Circolo della Stampa alla presenza del presidente dell’Ordine
lombardo dei giornalisti, Franco Abruzzo e
del presidente dell’Associazione Walter
Tobagi, Bruno Ambrosi.
Una mostra per la memoria, più che in
memoria. Per ricordare cioè - anche con una
stretta al cuore - che Walter Tobagi, questo
giovane ma già solido giornalista che fu
anche presidente della Lombarda, il 28
maggio 1980 cadeva falciato dalle pallottole
vigliacche di un commando di terroristi denominato Brigata 28 Marzo.
Alla cerimonia di apertura dell’esposizione
voluta anche dal Sindacato lombardo, erano
presenti numerosi giornalisti alcuni dei quali
colleghi che conobbero e lavorarono gomito
a gomito con Tobagi, la vedova Stella, i figli
Luca e Benedetta.
La Sala Lanfranchi, zeppa di pannelli sulla
vita, professionale e sindacale di Walter, si è
trasformata in un gigantesco libro appeso sul
quale gli occhi degli ospiti hanno indugiato a
lungo tra fotografie e parole incastonate tra il
seppia e il panna dei riquadri,
fitti come fu a dispetto della
brevità, la vita di Tobagi, di
eventi, realizzazioni, successi.
Giustamente sui muri corrono
appese le parole che raccontano una vita stretta ad una
professione, che di parole è
fatta. E con verbi e nomi, il
presidente dell’Ordine lombardo, Franco Abruzzo, ha ricostruito il senso di un ricordo e di
un esempio. “Abbiamo voluto
ricordare in modo aperto, chiaro e solenne un fatto di 20 anni
fa: l’assassinio di Walter Tobagi
- ha detto - perché bisogna
avere memoria di quanto è
successo”. Tobagi era un
modello, di uomo e di giornalista che ha contribuito a fare
chiarezza in quel difficile periodo degli anni ‘70 e ‘80. “Vi ricordo – ha proseguito Abruzzo che allora si parlava dei terroristi nei termini di fascisti rossi,
prima, e di compagni che
sbagliano, dopo. Walter però
ricostruì con le sue lucide anali- La sala Lanfranchi che ospita la mostra. Sotto, la vedova di Walter, Stella con i figli e la nuora
si la vera provenienza di quel
movimento, che stava crescendo invece
a quello di Franco Abruzzo, ha puntato a
“La mostra su Tobagi è neutrale, cronachistiproprio nelle fabbriche”.
mettere in rilievo le motivazioni profonde e la
ca, storica. L’esigenza della storicizzazione Il presidente dell’Ordine ha quindi rievocato
metodologia seguita per organizzare la
ha detto in conclusione del suo intervento
l’esempio e la prospettiva nella quale questo
mostra commemorativa di Palazzo SerbelloBruno Ambrosi - viene anche da una necesgiovane giornalista esercitava una professioni. “Avremmo potuto imboccare la facile strasità dettata dalla coscienza. Nell’affannarsi e
ne complessa e delicata. Vale a dire quella
da dell’agiografismo”, ha spiegato. “Abbiamo
nel ribollire di quegli anni difficili e nella loro
di un lavoro accurato, forte di inchieste,
invece inteso ricostruire il clima irripetibile di
problematica ricostruzione, si rischia che
costruito sui fatti, mirato alla contro-informaquegli anni, che ci sembrano già lontani
accada ciò che già asserivano gli antichi latizione, anche. “Ma che mai si prestò alla
anche se in realtà non ne sono passati poi
ni: che, nelle troppe dispute, la verità si perda.
super-informazione, quella per capirsi - ha
così tanti”. Un aspetto, quello della corretta
Eppure una verità c’è: è quella della coscienchiarito - che può guidare un giornalista
storicizzazione, molto sentito ed evidente nel
za e quella pur limitata della giustizia”.
verso la pubblicazione di notizie guidate
percorso dell’allestimento. Un valore aggiunAnche perché nei pannelli che addobbano la
finendo per correre il rischio, in sostanza, di
to in tutti i sensi, sia per i più giovani che per
Sala Lanfranchi c’è il Tobagi giornalista, il
“lavorare per il re di Prussia”. Questo è stato
coloro i quali quegli anni hanno vissuto ma
sindacalista, ma soprattutto l’uomo.
il messaggio che Tobagi ha voluto trasmettetendono a rimuovere. “In un’epoca come la
I ringraziamenti sono andati a Luciano
re ai giornalisti lombardi e italiani quando era
nostra - ha ammonito Ambrosi - che tende a
Micconi, ex segretario di redazione del
in vita: non schierarsi, restare autonomi”.
far diventare portante la filosofia consumistiCorriere della Sera, che aveva da tempo
E anche da uno dei numerosi libri che scrisca dell’usa e getta ed è così dissipatrice dei
ideato la mostra, al responsabile dell’allestise, nella sua breve ma intensa carriera, quelvalori più significativi, il richiamo all’attualità
mento grafico, Franco Malaguti, e alle tre
lo cioè dedicato alla figura del direttore del
di Walter Tobagi è, insieme, un atto di rispetcuratrici: Fiorenza Bariatti, Cinzia Brofferio e
Corriere della Sera, Mario Borsa, traspare la
to, di ricordo e di memoria”.
Elisabetta Grandi.
sua visione di un buon professionista
Secondo gli intendimenti degli organizzatori,
Hanno visitato l’esposizione della Sala
dell’informazione. “Il documentarsi in maniedalla mostra deve emergere anche la visioLanfranchi anche Paolo Mieli e Eugenio
ra puntuale, essere cronista attento, agire da
ne del giornalismo che era propria di Tobagi.
Scalfari, presenti al Circolo della Stampa per
storico dell’istante. Qualità - ha concluso
Un giornalismo basato sull’importanza attriuna concomitante conferenza. “L’ho vista con
Abruzzo - che restano restano indispensabibuita alla storia e alla lettura che ne deve
piacere - ha dichiarato il fondatore di Republi, oggi come allora”.
saper dare il buon giornalista. E Tobagi fu
blica - anche se con il dolore che ci trasmet“Per questo, per l’eredità, il modello che ci ha
insieme storico (la mostra esibisce la sua
tono eventi di questo tipo e le mostre che ce
lasciato, noi diciamo, come gli antichi Greci,
tesi di laurea e un verbale delle sedute
li ricordano”. Scalfari e Mieli hanno plaudito
‘egli vive’”.
d’esame alla Statale con lui assistente di
l’iniziativa, riconoscendone il valore e l’imporL’intervento di Bruno Ambrosi, che è seguito
storia contemporanea) e giornalista.
tanza.
Il ricordo di amici e colleghi
“Denunciò il pericolo
di essere usati”
di Massimo Sideri
In occasione dell’inaugurazione della mostra
su Walter Tobagi, al Circolo della Stampa,
abbiamo intervistato il presidente dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, Luciano Micconi, segretario di redazione
del Corriere della Sera negli anni della scomparsa del giornalista e Bruno Ambrosi, presidente dell’Associazione per la formazione al
giornalismo, intitolata allo stesso Tobagi.
Presidente Abruzzo, quali sono le ragioni
di questa mostra sulla figura di Walter
Tobagi?
Innanzitutto c’è una data: il 28 maggio del
2000 segnerà i vent’anni dalla sua scomparsa. Personalmente ero molto legato a Walter:
con lui e con Massimo Fini ho condiviso tutte
le battaglie per la libertà e per l’indipendenza della nostra professione. Oggi più che
mai, la sua scomparsa è una ferita viva,
2
incancellabile, perché abbiamo conosciuto
anni terribili, gli anni delle minacce terroristiche. Quando fu ucciso il pubblico ministero
Alessandrini (Emilio Alessandrini, assassinato da Prima Linea il 29 gennaio 1979 a
Milano, ndr), la procura ci chiamò e ci disse
che eravamo in pericolo di vita e il grande
rimpianto di tutti noi, amici di Walter, rimane
quello di non averlo convinto ad allontanarsi
da Milano, a diventare corrispondente da
Pechino del Corriere della Sera. Purtroppo,
non abbiamo capito subito che c’era gente
che sparava, che voleva uccidere i migliori
tra noi, quelli che davano prestigio alla
professione e alle istituzioni dello Stato.
Quindi la memoria da una parte, ma,
dall’altra, cosa può dirci oggi il carattere
di un uomo come Tobagi?
Rimane un modello di giornalismo indipendente ancorato, a sua volta, a Mario Borsa,
antifascista, direttore del Corriere nel 1945,
un uomo lontano dai potentati: il giornalista
visto come lo storico dell’istante prima di tutto.
Walter era un esempio allora come lo è oggi
e del suo pensiero rimane testimonianza in
quel discorso del 27 maggio del 1980 dove
ricordava a tutti noi di fare attenzione alla
superinformazione: il pericolo era - ed è quello di essere usati.
maggio alle 11, una delegazione del nostro
giornale porta il saluto alla tomba di Tobagi,
per ricordare quella grave perdita.
Una figura attualissima quindi...
Sì, e infatti ricordo le telefonate dei colleghi,
dei politici che volevano avere notizie, l’arrivo
dei fotografi, insomma tutto quello che può
succedere in seguito a un avvenimento di
quella importanza. Poi, non posso dimenticare la grande partecipazione del pubblico
che venne in via Solferino, come testimoniato anche nelle foto di questa mostra.
Attualissima, senza dubbio: questo vogliamo
dire con la mostra.
Dottor Micconi, Walter Tobagi era giornalista, scrittore, sindacalista. Qual è il ricordo che le rimane di Tobagi al Corriere
della Sera?
Ricordo quando Walter venne da me, prima
di recarsi al Circolo della Stampa, la sera del
27 maggio. Il giorno dopo sarebbe dovuto
partire per Venezia e allora io, come segretario di redazione, avevo il compito di organizzare tutto il necessario per il viaggio. Ci
siamo salutati.
Poi, la mattina di quel 28 maggio, alla
consueta riunione delle 11 tra i capiservizio
e il direttore, Passanesi, il capo della cronaca, disse che c’era un morto in via Salaino,
ma solo dopo arrivò la notizia che si trattava
di Walter Tobagi. In quel momento ci fu come
un terremoto e il giornale si svuotò completamente perché tutti corsero nella via dell’omicidio: solo io rimasi, come un nocchiere, al
Corriere della Sera. Ancora oggi, ogni 28
Ha vissuto in prima persona quindi quel
tragico evento.
Presidente Ambrosi, lei nel suo intervento all’inaugurazione della mostra ha
parlato di “culto della memoria”: è questo
il valore che si vuole trasferire?
La sensazione è quella di essere stati educati, dai nostri tempi, dalle storie che abbiamo
vissuto, a ricordare, ad avere la pazienza di
trarre degli insegnamenti da tutto ciò che è
avvenuto. Questa diventa più che mai una
priorità oggi, nel momento in cui la cultura
del consumismo sembra avere invaso anche
i luoghi della memoria. Ma se il criterio
“dell’usa e getta” si può applicare alle cose,
è indecente applicarlo alle nostre memorie.
La mostra, quindi, vuole rappresentare la
testimonianza della categoria affinché Tobagi e le sue opere continuino a vivere.
ORDINE
6
2000
alle nuove generazioni di giornalisti
Gli interventi dell’ex direttore del Giornale, del prof. Rumi, del direttore del Corriere della Sera e di Giuseppe Baiocchi
Montanelli: “Fu un
modello di civiltà”
di Laura Bosisio
Se un profeta, una mattina, se ne andasse,
lascerebbe dietro di sé l’eredità del profeta.
E così è stato per Walter Tobagi uomo,
sindacalista, credente e “profeta” del giornalismo moderno.
L’ultima apparizione in pubblico Tobagi la
fece al Circolo della Stampa, il 27 maggio di
vent’anni fa, in occasione di un dibattito sulla
libertà dell’informazione, il rapporto tra stampa e magistratura, l’etica professionale e la
necessità, per il giornalista, di una ricerca
incessante della verità. E forse non avrebbe
potuto ricevere commemorazione più
adeguata, Walter Tobagi, di quella di lunedì
29 maggio, al Circolo della Stampa, durante
una tavola rotonda organizzata dall’Alg, l’Associazione Lombarda dei giornalisti, di cui
Tobagi era stato presidente. Perché la tavola
rotonda è stata occasione per tornare a
parlare proprio di temi come etica, trasparenza e libertà, tanto cari e “urgenti” per
Tobagi, da non fargli lesinare tempo ed energie, nell’impegno sindacale e nel lavoro di
cronista e inviato.
A ricordarlo sono intervenuti Indro Montanelli, decano del giornalismo italiano, Giorgio
Rumi, docente di Storia contemporanea alla
Statale e già professore di Tobagi, Giuseppe
Baiocchi, amico e collega di Walter e oggi
direttore della Padania, insieme a Maria
Grazia Molinari, Presidente dell’Alg, e al direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli.
Presente anche una classe del liceo Parini (il
liceo di Tobagi) accompagnata dal preside.
Assenti fisicamente, ma partecipi al ricordo
del giornalista, anche i presidenti della Camera e del Senato, Nicola Mancino e Luciano
Violante, il cardinale Carlo Maria Martini e il
Il dibattito al Circolo della Stampa. Da sinistra: Maria Grazia Molinari presidente Alg,
Indro Montanelli, il prof. Giorgio Rumi e Giuseppe Baiocchi. In alto a destra, Montanelli
arriva al Circolo della Stampa.
presidente della Regione, Roberto Formigoni, che hanno inviato telegrammi per esprimere la loro partecipazione nel ricordo del
giornalista assassinato dalle Br: “Voce che
invitava a riflettere, professionista libero e
coerente” (Cardinal Martini), “una delle figure
più lucide del giornalismo italiano, che le Br
decisero di eliminare perché più di altri aveva
saputo mettere il dito nella piaga” (Mancino).
Tobagi, inviato del Corriere, che “fu ucciso
perché combatteva contro la violenza: credeva fortemente nello Stato democratico e
ancora oggi rappresenta un esempio della
cultura della legalità” (Violante). Infine Formigoni, nel telegramma: “Molte cose sono
cambiate: ma non è mutata l’esigenza di
avere tra noi uomini come lui, capaci di un
impegno civile e appassionato, ma non di
parte”. Presente, invece, in veste ufficiale, il
giudice costituzionale prof. Valerio Onida.
Pur ammettendo di non aver avuto molte
occasioni per approfondire la sua amicizia
con Tobagi (“ho avuto con lui rapporti che
rimpiango, perché troppo brevi e sporadici”),
Montanelli lo ricorda senza esitazione come
un giornalista irreprensibile: “Walter Tobagi
era l’incarnazione, il campione, l’esempio di
un carattere agli antipodi del terrorismo”.
Antiterrorista per eccellenza, era modello di
una civiltà, anche giornalistica. “Sebbene io
non sia cattolico nel senso in cui lo fu Tobagi, né socialista”, ha detto Montanelli, “non
ebbi mai dissensi con lui. Appartenevamo a
due sponde diverse: diverse ma non avverse. Era molto bello discutere con Tobagi: ed
io questo, soprattutto, rimpiango di lui”.
Per Giorgio Rumi, Walter non era esattamente uno studente: in quanto studente-lavoratore, aveva già “un piede nella vita”. “Era mite,
di una spiritualità quasi francescana” ha
aggiunto Rumi, “ma capace di portare
questo suo equilibrio nella comprensione
dell’altro: una cosa per noi oggi forse ovvia,
ma non ovvia nella Milano degli anni ’70.
Walter insomma era il tipo umano completamente diverso dalla moneta corrente che
girava allora a Milano”. Il direttore della
Padania, Baiocchi, ricorda che per Walter,
l’unica cosa che contava era “farsi testimoni
del proprio tempo, senza essere propagandisti o apologeti”. Cosa rimane oggi del monito e dell’esempio di giornalisti come Tobagi,
per una nuova etica della professione? Per
Montanelli, semplicemente, “il problema
etico sarà sempre presente nel nostro
mestiere. Naturalmente questo vale per il
giornalista che ha una coscienza. Che è
tranquilla solo per chi non ce l’ha: perché la
coscienza di chi ce l’ha, non è mai veramente tranquilla”. Un esempio molto pratico del
come svolgere coscienziosamente il mestiere di giornalista, Tobagi lo ha offerto, tra le
altre qualità umane e professionali, nel suo
essere un instancabile ricercatore e studioso, come ricorda Rumi: “Proprio perché buon
cronista, cercava di capire le dinamiche
profonde della realtà, servendosi della storia
e approfondendola per capire il presente.
Dunque, fu storico per necessità”.
In conclusione, parlare di Tobagi porta inevitabilmente a una riflessione sul ruolo e sull’etica del giornalista, come ha sottolineato
Ferruccio de Bortoli al termine dell’incontro:
“Studiando Tobagi possiamo imparare alcune pecche della stampa moderna: ad esempio l’eccessiva autoreferenzialità, o talvolta la
scarsa umiltà. In vista del Giubileo dell’informazione, il Papa ci richiama all’onestà, a non
omettere nulla della verità. Un insegnamento
che fu di Tobagi, il quale a ragione potrebbe
esser ricordato nel Giubileo dedicato agli
operatori dell’informazione”.
La parola a chi ha preparato e allestito la mostra
“Non è un racconto
ma un sentimento”
di Francesca Basso
“Questo non è un racconto, dovrebbe essere
l’esaltazione di un sentimento”: sono le parole
scelte da Franco Malaguti per spiegare lo
spirito della mostra Tobagi, un giornalista
negli anni di piombo, da lui allestita nella sala
Lanfranchi del Circolo della Stampa di Milano.
“Il cerchio della memoria si chiude, e insieme
si riapre, proprio da queste stanze – continua
Malaguti – da dove Tobagi, la sera prima di
morire, fece davanti ai colleghi giornalisti la
relazione conclusiva del dibattito sui rapporti
tra magistratura e informazione”. Le tre foto
sulle pareti del corridoio che conduce alla sala
Lanfranchi, raffiguranti Tobagi al tavolo dei
relatori, assumono questo significato e introducono il visitatore, assieme alla cronologia
degli eventi, nel cuore dell’esposizione. La
gigantografia del corpo di Tobagi, riverso sul
marciapiede di via Salaino, dove il 28 maggio
1980 due giovani terroristi della Brigata 28
marzo l’hanno ucciso, è posata a terra, ad
accentuare il senso di realtà che l’intero allestimento vuole trasmettere attraverso l’impieORDINE
6
2000
go insistito di fotografie – preponderanti tra i
pannelli espositivi – tanto da trasformare la
storia e la cronaca di quegli anni in emozioni
ancora vive. Accanto, un’altra gigantografia,
che riproduce la manifestazione, successiva
alla morte, davanti al Corriere della Sera. Al
centro, su un tavolo, sono raccolti i documenti
di Tobagi studente universitario: la copertina
della tesi di laurea, le pagine del libretto con i
voti, ma anche la testimonianza della sua attività di saggista impegnato, di studioso dei
movimenti sociali e dei sindacati.
Sulle pareti più lunghe, la vita del giornalista e del sindacalista si fronteggiano: gli
esordi a La Zanzara, il giornale del liceo
Parini che fece tanto scalpore, l’esperienza
al mensile Sciare e poi l’attività all’Avanti!,
al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera come cronista politico e sindacale. Il suo ruolo nell’Associazione lombarda dei giornalisti, la sua lotta per il rinnovamento e la trasformazione interna del
sindacato, la fondazione di Stampa democratica e la sua nomina a presidente
dell’Associazione completano i contorni
della figura di Tobagi, sono la spiegazione
Franco Malaguti, allestitore della mostra; Bruno Ambrosi e Franco Abruzzo
(foto di Stefano Tomé).
del suo essere giornalista “scomodo” e da
eliminare. La vita nei quotidiani e nel sindacato sembrano essere i fili conduttori verso le
pareti più corte della sala, sulle quali da un
lato si elencano gli attentati subiti da alcuni
giornalisti per mano delle Brigate rosse, e
dall’altro le prime pagine di una quarantina di
quotidiani all’indomani dell’uccisione di Tobagi. “In quegli anni tutta la stampa è sotto tiro –
ricorda Malaguti. Vengono feriti Emilio Rossi,
Carlo Casalegno, (che morirà due settimane
dopo l’agguato, ndr), Franco Piccinelli, Antonio Gazzotto, Guido Passalacqua, Indro
Montanelli. Ma è Walter a essere stato
ammazzato, e questo fa la differenza”.
Franco Malaguti è stato affiancato nella
preparazione della mostra da tre giornaliste:
Fiorenza Baratti, Cinzia Bofferio ed Elisabetta
Grandi, che si sono occupate dell’elaborazione dei testi e della ricerca della documenta-
zione. “Non è stato semplice decidere come
strutturare la mostra – spiega Cinzia Brofferio.
C’era il rischio di mistificare la vicenda. Alcune delle persone che abbiamo intervistato per
ricostruire i fatti avevano ricordi edulcorati, altri
non ne volevano parlare. Il nostro obiettivo era
quello di raggiungere le nuove generazioni di
giornalisti.
L’Associazione lombarda, così come l’Ordine
che ci hanno commissionato l’incarico, erano
stati chiari in tal senso”. “La soluzione migliore
– aggiunge Fiorenza Baratti – è sembrata
quella di lavorare sui materiali d’archivio,
metodo che ci ha permesso di acquisire una
distanza storica dagli eventi”.
Gli eventi ci sono tutti, i ferimenti, i morti, le
lotte, le polemiche. “Non devono passare inosservati due pannelli – conclude Malaguti –
sono quasi isolati: quelli con ‘L’ipotesi dei
mandanti’ e ‘Tobagi perché?’”.
3
INFORMAZIONE ISTITUZIONALE
Approvata la legge che regolamenta le strategie degli apparati statali, delle Regioni e degli enti locali - Gli uffici stampa
La pubblica amministrazione
Questo il testo del Ddl 4217, recante “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”,
CAPO I - Principi Generali
ARTICOLO 1 - Finalità ed ambito di applicazione
1. Le disposizioni della presente legge, in attuazione dei principi che regolano la trasparenza e l’efficacia dell’azione
amministrativa, disciplinano le attività di informazione e di
comunicazione delle pubbliche amministrazioni.
2. Ai fini della presente legge sono pubbliche amministrazioni quelle indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.
3. È fatta salva la disciplina vigente relativa alla pubblicità
legale od obbligatoria degli atti pubblici.
4. Nel rispetto delle norme vigenti in tema di segreto di Stato,
di segreto d’ufficio, di tutela della riservatezza dei dati
personali e in conformità ai comportamenti richiesti dalle
carte deontologiche, sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle poste in
essere in Italia o all’estero dai soggetti di cui al comma 2 e
volte a conseguire:
a) l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici;
b) la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alle collettività e
ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa;
c) la comunicazione interna realizzata nell’ambito di ciascun
ente.
5. Le attività di informazione e di comunicazione sono, in
particolare, finalizzate a:
a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni
normative, al fine di facilitarne l’applicazione;
b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento;
c) favorire l’accesso ai servizi pubblici, promuovendone la
conoscenza;
d) promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi
di rilevante interesse pubblico e sociale;
e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure
e di modernizzazione degli apparati nonché la conoscenza
dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi;
f) promuovere l’immagine delle amministrazioni, nonché
quella dell’Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d’importanza locale, regionale,
nazionale ed internazionale.
6. Le attività di informazione e di comunicazione istituzionale
di cui alla presente legge non sono soggette ai limiti imposti in materia di pubblicità, sponsorizzazioni e offerte al
pubblico.
ARTICOLO 2 - Forme, strumenti e prodotti
1. Le attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni si esplicano, oltre che per mezzo di
programmi previsti per la comunicazione istituzionale non
pubblicitaria, anche attraverso la pubblicità, le distribuzioni
o vendite promozionali, le affissioni, l’organizzazione di
manifestazioni e la partecipazione a rassegne specialistiche, fiere e congressi.
2. Le attività di informazione e di comunicazione sono attuate con ogni mezzo di trasmissione idoneo ad assicurare la
necessaria diffusione di messaggi, anche attraverso la
strumentazione grafico-editoriale, le strutture informatiche,
le funzioni di sportello, le reti civiche, le iniziative di comunicazione integrata e i sistemi telematici multimediali.
3. Con uno o più regolamenti, da comunicare alla Presidenza del Consiglio dei ministri e alla Conferenza unificata di
cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n.
281, le pubbliche amministrazioni provvedono alla diffusione delle modalità e delle forme di comunicazione a carattere pubblicitario, in attuazione delle norme vigenti in materia.
ARTICOLO 3 - Messaggi di utilità sociale e di pubblico
interesse
1. La Presidenza del Consiglio dei ministri determina i
messaggi di utilità sociale ovvero di pubblico interesse, che
la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo può
trasmettere a titolo gratuito. Alla trasmissione di messaggi
di pubblico interesse previsti dal presente comma sono
riservati tempi non eccedenti il due per cento di ogni ora di
programmazione e l’uno per cento dell’orario settimanale
di programmazione di ciascuna rete. Le emittenti private,
radiofoniche e televisive, hanno facoltà, ove autorizzate, di
utilizzare tali messaggi per passaggi gratuiti.
2. Nelle concessioni per la radiodiffusione sonora e televisiva
è prevista la riserva di tempi non eccedenti l’uno per cento
dell’orario settimanale di programmazione per le stesse
finalità e con le modalità di cui al comma 1.
3. Fatto salvo quanto stabilito dalla presente legge e dalle
disposizioni relative alla comunicazione istituzionale non
pubblicitaria, le concessionarie radiotelevisive e le società
autorizzate possono, per finalità di esclusivo interesse
sociale, trasmettere messaggi di utilità sociale.
4. I messaggi di cui al comma 3 non rientrano nel computo
degli indici di affollamento giornaliero né nel computo degli
indici di affollamento orario stabiliti dal presente articolo. Il
tempo di trasmissione dei messaggi non può, comunque,
occupare più di quattro minuti per ogni giorno di trasmissione per singola concessionaria. Tali messaggi possono
essere trasmessi gratuitamente; qualora non lo fossero, il
prezzo degli spazi di comunicazione contenenti messaggi
di utilità sociale non può essere superiore al cinquanta per
cento del prezzo di listino ufficiale indicato dalla concessionaria.
ARTICOLO 4 - Formazione professionale
1. Le amministrazioni pubbliche individuano, nell’ambito delle
proprie dotazioni organiche, il personale da adibire alle
attività di informazione e di comunicazione e programmano la formazione, secondo modelli formativi individuati dal
regolamento di cui all’articolo 5.
2. Le attività di formazione sono svolte dalla Scuola superio-
re della pubblica amministrazione, secondo le disposizioni
del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287, dalle scuole
specializzate di altre amministrazioni centrali, dalle università, con particolare riferimento ai corsi di laurea in scienze della comunicazione e materie assimilate, dal Centro di
formazione e studi (Formez), nonché da strutture pubbliche e private con finalità formative che adottano i modelli
di cui al comma 1.
ARTICOLO 5 - Regolamento
1. Con regolamento da emanare, ai sensi dell’articolo 17,
comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, previa intesa con la Conferenza unificata
di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della
presente legge, si provvede alla individuazione dei titoli
per l’accesso del personale da utilizzare presso le pubbliche amministrazioni per le attività di informazione e di
comunicazione. Il medesimo regolamento prevede e disciplina altresì gli interventi formativi e di aggiornamento per
il personale che già svolge attività di informazione e di
comunicazione.
ARTICOLO 6 - Strutture
1. In conformità alla disciplina dettata dal presente Capo e,
ove compatibili, in conformità alle norme degli articoli 11 e
12 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e relative disposizioni attuative, le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e
l’ufficio stampa e quelle di comunicazione attraverso l’ufficio per le relazioni con il pubblico, nonché attraverso analoghe strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli
unici della pubblica amministrazione, gli sportelli polifunzianali e gli sportelli per le imprese.
2. Ciascuna amministrazione definisce, nell’ambito del
proprio ordinamento degli uffici e del personale e nei limiti
delle risorse disponibili, le strutture e i servizi finalizzati alle
attività di informazione e comunicazione e al loro coordinamento, confermando, in sede di prima applicazione
della presente legge, le funzioni di comunicazione e di
informazione al personale che già le svolge.
ARTICOLO 7 - Portavoce
1. L’organo di vertice dell’amministrazione pubblica può essere coadiuvato da un portavoce, anche all’esterno all’amministrazione, con compiti di diretta collaborazione ai fini dei
rapporti di carattere politico-istituzizonale con gli organi di
informazione. Il portavoce, incaricato dal medesimo organo, non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo,
della stampa e delle relazioni pubbliche.
2. Al portavoce è attribuita una indennità determinata dall’organo di vertice nei limiti delle risorse disponibili appositamente iscritte in bilancio da ciascuna amministrazione per
le medesime finalità.
ARTICOLO 8 - Ufficio per le relazioni con il pubblico
1. L’attività dell’ufficio per le relazioni con il pubblico è indirizzata ai cittadini singoli e associati.
2. Le pubbliche amministrazioni, entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, provvedono, nell’e-
Colpo di spugna sulla “quota fissa”
di Marco Mele
ROMA. Gli uffici stampa della Pubblica
amministrazione e degli Enti locali saranno
composti da giornalisti iscritti all’Albo. A
stabilirlo è la legge sulla Comunicazione istituzionale approvata dalla commissione Affari
Costituzionali del Senato in sede deliberante. Il testo è quello approvato il 22 settembre
99 dall’analoga commissione della Camera,
anch’essa in sede deliberante: “finalmente”,
come hanno commentato politici e addetti ai
lavori, la normativa diventa legge dello Stato.
Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’Ufficio stampa. Quelle
di comunicazione attraverso l’Ufficio di
comunicazione con il pubblico (Urp) e strut-
4
ture analoghe quali gli sportelli del cittadino,
quelli polifunzionali o per le imprese. La
normativa definisce gli obiettivi delle due attività: la conoscenza delle disposizioni normative; l’illustrazione delle attività delle istituzioni; l’accesso ai servizi pubblici; la promozione di conoscenze sui temi di rilevante interesse pubblico; la semplificazione delle
procedure; la promozione dell’immagine
delle amministrazioni e del Paese. Tali attività non sono soggette ai limiti imposti alla
pubblicità e alle sponsorizzazioni: i messaggi
di utilità sociale, ad esempio, non rientrano
nel computo degli indici di affollamento
pubblicitario. Quelli della Presidenza del
Consiglio, però, non potranno andare oltre il
2% di ogni ora e l’1% dell’orario settimanale.
Le attività di formazione del personale
adibito all’informazione e alla comunicazio-
ne spetteranno alla Scuola superiore della
Pubblica amministrazione, alle Università,
con particolare riferimento ai corsi di laurea
in Scienze della comunicazione, al Formez
e a strutture pubbliche e private specializzate.
Un regolamento individuerà i titoli per l’accesso del personale da utilizzare. Ogni
amministrazione, comunque, in sede di
prima applicazione, confermerà le funzioni al
personale che già le svolge (la legge arriva
con molto ritardo sull’evoluzione dell’organizzazione della comunicazione in Stato e
Regioni). “Con la nuove legge — sottolinea
Alessandro Rovinetti, segretario generale
dell’Associazione italiana della comunicazione pubblica, che si batte dal ‘93 per ottenere
tale normativa — i comunicatori pubblici e gli
altri professionisti della comunicazione otten-
ORDINE
6
2000
dovranno essere composti da giornalisti - I messaggi di utilità sociale fuori dai limiti previsti per la pubblicità
scommette sulla comunicazione
approvato definitivamente il 9 maggio 2000 dalla commissione Affari costituzionali del Senato in sede deliberante
sercizio della propria potestà regolamentare, alla ridefinizione dei compiti e alla riorganizzazione degli uffici per le
relazioni con il pubblico secondo i seguenti criteri:
a) garantire l’esercizio dei diritti di informazione, di accesso e
di partecipazione di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e
successive modificazioni;
b) agevolare l’utilizzazione dei servizi offerti ai cittadini, anche
attraverso l’illustrazione delle disposizioni normative e
amministrative, e l’informazione sulle strutture e sui compiti delle amministrazioni medesime;
c) promuovere l’adozione di sistemi di interconnessione telematica e coordinare le reti civiche;
d) attuare, mediante l’ascolto dei cittadini e la comunicazione
interna, i processi di verifica della qualità dei servizi e di
gradimento degli stessi da parte degli utenti;
e) garantire la reciproca informazione fra l’ufficio per le relazioni con il pubblico e le altre strutture operanti nell’amministrazione, nonché fra gli uffici per le relazioni con il pubblico delle varie amministrazioni.
3. Negli uffici per le relazioni con il pubblico l’individuazione e
la regolamentazione dei profili professionali sono affidate
alla contrattazione collettiva.
ARTICOLO 9 - Uffici stampa
1. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, possono
dotarsi, anche in forma associata, di un ufficio stampa, la
cui attività è in via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa.
2. Gli uffici stampa sono costituiti da personale iscritto all’albo nazionale dei giornalisti. Tale dotazione di personale è
costituita da dipendenti delle amministrazioni pubbliche,
anche in posizione di comando o di fuori ruolo, o da personale estraneo alla pubblica amministrazione in possesso
dei titoli individuati dal regolamento di cui all’articolo 5,
utilizzato con le modalità di cui all’articolo 7, comma 6, del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive
modificazioni, nei limiti delle risorse disponibili nei bilanci
di ciascuna amministrazione per le medesime finalità.
3. L’ufficio stampa è diretto da un coordinatore, che assume
la qualifica di capo ufficio stampa, il quale, sulla base delle
direttive impartite dall’organo di vertice dell’amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e
tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie
di interesse dell’amministrazione.
4. I coordinatori e i componenti dell’ufficio stampa non possono esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Eventuali
deroghe possono essere previste dalla contrattazione
collettiva di cui al comma 5.
5. Negli uffici stampa l’individuazione e la regolamentazione
dei profili professionali sono affidate alla contrattazione
collettiva nell’ambito di una speciale area di contrattazio-
ne, con l’intervento delle organizzazioni rappresentative
della categoria dei giornalisti. Dall’attuazione del presente
comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
toria. Entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello di
riferimento, i ministri trasmettono al Presidente del Consiglio dei ministri una relazione su quanto previsto dal
presente comma.
ARTICOLO 10 - Disposizione finale
1. Le disposizioni del presente Capo costituiscono principi
fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e
si applicano, altresì, alle Regioni a statuto speciale e alle
Province autonome di Trento e di Bolzano nei limiti e nel
rispetto degli statuti e delle relative norme di attuazione.
ARTICOLO 13 - Progetti di comunicazione a carattere
pubblicitario
1. Le amministrazioni dello Stato sono tenute a inviare al
Dipartimento per l’informazione e l’editoria, ai fini della
formulazione di un preventivo parere, i progetti di comunicazione a carattere pubblicitario che prevedono la diffusione dei messaggi sui mezzi di comunicazione di massa.
CAPO II - Disposizioni particolari
per le amministrazioni dello Stato
ARTICOLO 11 - Programmi di comunicazione
1. In conformità a quanto previsto dal Capo I della presente
legge e dall’articolo 12 del decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29, e successive modificazioni, nonché dalle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri, le
amministrazioni statali elaborano annualmente il programma delle iniziative di comunicazione che intendono realizzare nell’anno successivo, comprensivo dei progetti di cui
all’articolo 13, sulla base delle indicazioni metodologiche
del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il programma è trasmesso entro il mese di novembre di ogni anno allo stesso
Dipartimento. Iniziative di comunicazione non previste dal
programma possono essere promosse e realizzate soltanto per particolari e contingenti esigenze sopravvenute nel
corso dell’anno e sono tempestivamente comunicate al
Dipartimento per l’informazione e l’editoria.
2. Per l’attuazione dei programmi di comunicazione il Dipartimento per l’informazione e l’editoria provvede in particolare a:
a) svolgere funzioni di centro di orientamento e consulenze
per le amministrazioni statali ai fini della messa a punto
dei programmi e delle procedure. Il Dipartimento può
anche fornire i supporti organizzativi alle amministrazioni
che ne facciano richiesta;
b) sviluppare adeguate attività di conoscenza dei problemi
della comunicazione pubblica presso le amministrazioni;
c) stipulare, con i concessionari di spazi pubblicitari, accordi
quadro nei quali sono definiti i criteri di massima delle
inserzioni radiofoniche, televisive o sulla stampa, nonché
le relative tariffe.
ARTICOLO 12 - Piano di comunicazione
1. Sulla base dei programmi presentati dalle amministrazioni
statali, il Dipartimento per l’informazione e l’editoria predispone annualmente il piano di comunicazione, integrativo
del piano di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, che è
approvato dal Presidente del Consiglio dei ministri.
2. Una copia del piano approvato è trasmessa alle amministrazioni. Ciascuna amministrazione realizza il piano per le
parti di specifica competenza anche avvalendosi della
collaborazione del Dipartimento per l’informazione e l’edi-
2. I progetti di cui al comma 1 devono, in particolare, contenere indicazioni circa l’obiettivo della comunicazione, la
copertura finanziaria, il contenuto dei messaggi, i destinatari e i soggetti coinvolti nella realizzazione. Deve, inoltre,
essere specificata la strategia di diffusione con previsione
delle modalità e dei mezzi ritenuti più idonei al raggiungimento della massima efficacia della comunicazione.
3. Per le campagne di comunicazione a carattere pubblicitario, le amministrazioni dello Stato tengono conto, ove
possibile, in relazione al tipo di messaggio e ai destinatari,
anche delle testate italiane all’estero.
ARTICOLO 14 - Finanziamento dei progetti
1. La realizzazione dei progetti di comunicazione a carattere
pubblicitario delle amministrazioni dello Stato, integrativi
del piano di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, ritenuti di
particolare utilità sociale o di interesse pubblico, è finanziata nei limiti delle risorse disponibili in bilancio per il
centro di responsabilità n. 17 “Informazione ed editoria”
dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei
ministri, intendendosi ridotta in misura corrispondente l’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 5 della legge 25
febbraio 1987, n. 67.
ARTICOLO 15 - Procedure di gara
1. Per la realizzazione delle iniziative di comunicazione istituzionale a carattere pubblicitario la scelta dei soggetti
professionali esterni è effettuata, anche in deroga ai limiti
previsti dall’articolo 6 del Regio decreto 18 novembre
1923, n. 2440, nel rispetto delle disposizioni del decreto
legislativo 17 marzo 1995, n. 157. A tali fini, con regolamento da emanare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della
legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni,
entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge, sono stabiliti i criteri per la individuazione dei soggetti professionali da inviare alle procedure di
selezione, nonché per la determinazione delle remunerazioni per i servizi prestati. A tali fini si tiene conto anche
dei criteri stabiliti in materia dall’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni.
ARTICOLO 16 - Abrogazioni
1. Sono abrogati l’articolo 5, commi 6, 7 e 8, della legge 25
febbraio 1987, n. 67, e l’articolo 9 della legge 6 agosto
1990, n. 223, e successive modificazioni.
(da “Il Sole 24 Ore”, 12 e 14 maggio 2000)
riservata a radio e televisioni locali
gono un definitivo riconoscimento del loro
ruolo professionale”.
Al rapporto tra amministrazione e organi di
informazione sarà incaricato, oltre all’ufficio
stampa, anche il portavoce che, per la durata del suo incarico, non potrà esercitare attività professionale nei media. Stessa incompatibilità varrà per il personale degli uffici
stampa, che dovrà essere iscritto all’Albo
nazionale dei giornalisti (la legge non precisa se professionisti o pubblicisti), il cui profilo professionale sarà definito attraverso una
“speciale area di contrattazione”, con l’intervento della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. “C’è la possibilità – precisa Paolo
Serventi Longhi, segretario della Fnsi – di
definire una volta per tutte la professionalità
e il contratto di categoria dei colleghi degli
uffici stampa”.
ORDINE
6
2000
I compiti degli Urp, a loro volta, dovranno
essere definiti con regolamenti delle amministrazioni interessate. Un’altra parte della
normativa è dedicata ai Piani di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni, da
trasmettere, entro il novembre dell’anno
precedente, al Dipartimento per l’informazione e l’editoria presso la Presidenza del
Consiglio, che predispone un Piano annuale
di comunicazione, approvato dal Consiglio
dei ministri. Al Dipartimento è richiesto un
parere preventivo sulla comunicazione
pubblicitaria delle Amministrazioni statali.
Un articolo prevede l’abrogazione delle
disposizioni che riservano alle emittenti televisive locali e alle radio una quota fissa nelle
spese pubblicitarie delle pubbliche amministrazioni. Le associazioni del settore, come
la Frt e Aer-Anti-Corallo, chiedono l’immedia-
ta reintroduzione di tale “riserva”. Vannino
Chiti, sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio con delega all’Editoria, assicura
che “con i regolamenti di attuazione, che
saranno due, uno per l’Amministrazione
centrale e l’altro per gli Enti locali da concordare con la conferenza Stato-Regioni, si
reintrodurrà, come ha chiesto il Senato,
quanto spetta a radio ed emittenti televisive.
I regolamenti dovranno dare regole certe alla
pubblicità istituzionale e di pubblica utilità. Si
è fatto un passo avanti per mettere le strutture dello Stato e degli Enti territoriali al passo
con i tempi della rivoluzione informatica e
tecnologica. Prima della fine della legislatura
si possono approvare due provvedimenti utili
al Paese: le norme sul diritto d’autore e la
riforma della legge sull’editoria”.
(da “Il Sole 24 Ore”, 12 maggio 2000)
5
La linea trentennale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia confermata solennemente dai giudici
CASSAZIONE
l’Ordine ha il potere di certificare
il periodo di pratica giornalistica
D’Amati: “È un rilevante
riconoscimento”
ROMA, 10 maggio. Per la prima volta la
Cassazione ha stabilito che il Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti, e i suoi
Consigli regionali, possono sostituirsi ai direttori delle testate per quanto riguarda le attestazioni di compiuta pratica giornalistica in
favore dei praticanti giornalisti e per quanto
riguarda l’iscrizione di questi ultimi nel Registro dei praticanti, condizioni senza le quali
non è possibile adire all’esame di Stato per
diventare professionisti. In particolare con la
pronuncia massimata 5936 la Suprema
Corte ha accolto il ricorso - avanzato da
Daniela Z., archivista del quotidiano veneto
Il Gazzettino, e dal Consiglio nazionale del-
l’Ordine dei giornalisti - contro il Consiglio
regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto e contro la sentenza con la quale il procuratore generale della Corte di Appello di
Venezia avevano negato che il Consiglio
nazionale o quelli regionali potessero sostituirsi ai direttori inadempienti all’obbligo di
rilasciare l’attestazione della compiuta pratica. Secondo il Consiglio del Veneto e per il
Procuratore generale i poteri sostitutivi
dell’Ordine non potevano essere aditi per
ottenere direttamente il riconoscimento della
compiuta pratica. Ma su questo punto la
Cassazione ha sposato in pieno la difesa
avanzata dagli avvocati Domenico D’Amati,
Enrico Romanelli e Gianfranco Garancini. Ed
è stata affermata la totale legittimità della
deliberazione del Consiglio nazionale che
aveva dato mandato al Consiglio del Veneto
di “iscrivere Daniela Z. nel registro dei praticanti e di rilasciare la dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica per l’attività svolta
presso Il Gazzettino. Adesso la Corte di Appello di Venezia dovrà valutare gli altri aspetti
della controversia - primo fra tutti se l’attività
svolta dall’aspirante giornalista avesse i
requisiti prescritti - ma non potrà disconoscere il diritto dell’Ordine a sostituirsi a quei direttori che rifiutano di rilasciare le dichiarazioni
di compiuto praticantato.
Per la Cassazione infatti tali poteri sostitutivi
hanno la loro ragion d’essere per tutelare le
situazioni nelle quali la pratica giornalistica è
svolta “abusivamente” - senza i previsti
contratti - e poi perché è conforme alla Costituzione interpretare le norme che regolamen-
tano questa attività nel senso di rimuovere
“gli ostacoli o discriminazioni all’accesso alla
professione giornalistica” che altrimenti
porterebbero “un grave e pericoloso attentato all’articolo 21 della Costituzione” (tutela
alla libertà di pensiero e della stampa).
“È un rilevante riconoscimento dei poteri
sostitutivi dell’Ordine, quello che è venuto
dalla Cassazione”. Così l’avvocato D’Amati ai cui motivi di ricorso si sono associati gli
avvocati dell’Ordine nazionale dei giornalisti ha commentato la pronuncia della Suprema
Corte rilevando che “la Corte di legittimità ha
applicato un criterio di diritto sostanziale
tenendo conto delle reali condizioni in cui si
svolge l’attività degli aspiranti Giornalisti, e
riconoscendo che il legislatore li ha voluti
tutelare affidando all’Ordine il compito di
sostituirsi ai direttori inadempienti. O meglio
agli editori inadempienti”.
(ANSA)
La sentenza riconosce l’effetto retroat
LA SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE CON LA QUALE È STATO RICONOSCIUTO AL
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI IL POTERE DI DISPORRE D’UFFICIO
L’ISCRIZIONE CON EFFETTO RETROATTIVO DEI GIORNALISTI “DI FATTO” NEL REGISTRO DEI PRATICANTI - Ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 5936 del 10 maggio 2000, Pres. Senofonte, Rel. Di Palma).
Pubblichiamo il testo integrale della motivazione della sentenza della Suprema Corte, Sezione I Civile con la quale è stato riconosciuto al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti il potere di
disporre d’ufficio l’iscrizione con effetto retroattivo dei “giornalisti di fatto” nel Registro dei
praticanti e quindi di ammetterli all’esame di idoneità per l’iscrizione all’Albo, nell’elenco dei
professionisti.
(omissis)
Motivi
della decisione
2.1 I ricorsi nn. 15614 (principale) e 18269
(incidentale) del 1998, in quanto proposti
contro la stessa sentenza, devono essere
riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ.
2.2 Con l’unico motivo (con cui deduce: “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto: artt. 29, 31, 33, 34 L. 3.2.63 n. 69; d.P.R.
4.2.1965 n. 115; d.P.R. 3.5.1972 n. 212; d.P.R.
21. 9.1993 n. 384; art. 12 delle disposizioni
sulla legge in generale; art. 112 c.p.c. – art.
360 n. 3 c.p.c.”), la ricorrente critica la ratio
decidendi della sentenza oggetto del presente ricorso, individuata in ciò, che la Corte
veneziana, “rigettando il primo motivo dell’impugnazione, ha ritenuto fondata la tesi del
Procuratore Generale, secondo cui la vigente
normativa non consente al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di sostituirsi al direttore
della pubblicazione nel rilascio del certificato
di compiuta pratica, nel caso in cui il medesimo abbia omesso altresì di certificare tempestivamente l’inizio della pratica e quindi non
abbia consentito la coeva iscrizione dell’aspirante giornalista nel registro dei praticanti”;
che “secondo la Corte, il Consiglio può esercitare detto potere sostitutivo solo per l’aspirante giornalista che, all’atto della richiesta del
certificato di compiuta pratica, risulti iscritto
nel registro dei praticanti da almeno 18 mesi”;
e che “in tale statuizione la Corte ha dichiarato assorbita ogni altra questione ed in specie
quella, oggetto del secondo motivo dell’appello, della qualificabilità come giornalistica
dell’attività svolta dalla ricorrente presso il
giornale Il Gazzettino” (cfr. Ricorso, pag. 3).
La ricorrente, quindi – dopo aver illustrato
6
l’evoluzione legislativa in materia di attestazione dell’inizio e del compimento della pratica
giornalistica – sostiene che la Corte di Venezia avrebbe erroneamente interpretato tale
disciplina, sottolineando, in particolare, che:
a) – “dal testo delle modifiche introdotte con il
d.P.R. 30.5.72 n. 212 e con il d.P.R. 21.9.93 n.
384 emerge con ogni evidenza che la ratio di
tali norme è costituita dall’intento di impedire
l’indebito sfruttamento degli aspiranti giornalisti nelle imprese editrici ovvero il loro impiego
di fatto senza le garanzie previste dalla legge
professionale e dal contratto nazionale di lavoro giornalistico e senza alcuna tutela contro il
licenziamento, non essendo possibile al giudice di disporre la reintegrazione nel posto di
lavoro di chi non sia iscritto nell’albo o nel registro” (cfr. Ricorso, pag. 8);
b)- “il legislatore ha evidentemente tenuto
presente la situazione, nota per comune
esperienza, degli aspiranti giornalisti che non
ricevono la dichiarazione di inizio pratica ai fini
dell’iscrizione nel registro né l’applicazione del
trattamento previsto dal contratto nazionale di
lavoro giornalistico, e nondimeno, per evitare
ritorsioni e non pregiudicare le loro possibilità
di occupazione, sopportino per lunghi periodi
l’impiego in condizioni irregolari e si risolvano
a chiedere la loro regolarizzazione soltanto
quando abbiano acquisito la certezza di non
poter contare su uno spontaneo riconoscimento dei loro diritti da parte dell’editore, di
cui il direttore è normalmente uno strumento”,
sicché “la necessità di regolarizzazione si
pone… normalmente al termine di un prolungato periodo di pratica giornalistica esercitata
di fatto” (cfr. Ricorso, pag. 9);
c) – “per questo il d.P.R. 3.5.1972 n. 212 ha
previsto la possibilità per il Consiglio dell’Ordine di sostituirsi al direttore nel rilascio della
dichiarazione di compiuta pratica, modificando in tal senso l’art. 43 del d.P.R. 4.2.65 n.
115”; possibilità che “deve ritenersi sussisten-
te sia nell’ipotesi, del tutto marginale, che vi
sia stata una precedente dichiarazione di
inizio pratica sia nell’ipotesi, molto più frequente, che tale dichiarazione non vi sia stata e il
praticante sia stato impiegato in condizioni di
‘lavoro nero’” (cfr. Ricorso, pagg. 9-10):
d) – “la finalità perseguita dal legislatore è stata
resa ancor più evidente dal d.P.R. 21.9.93 n.
384 che, per eliminare ogni incertezza interpretativa, ha sostituito i primi tre commi dell’art.
46 d.P.R. 4.2.1965 n. 115, introducendo una
normativa palesemente diretta a consentire ai
Consigli dell’Ordine di accertare l’inizio della
pratica con effetto retroattivo e di emettere, ove
tale pratica sia durata almeno 18 mesi, l’attestazione del suo compimento, consentendo
l’ammissione all’esame di idoneità professionale”; infatti, “il nuovo testo dell’art. 46, a differenza del precedente, fa espresso riferimento
all’effettivo inizio della pratica e prevede che
esso possa risultare sia dalla dichiarazione del
direttore che dall’accertamento compiuto dal
Consiglio dell’Ordine”; sicché, “tale dizione
elimina ogni possibile dubbio in ordine alla
volontà del legislatore di consentire al Consiglio dell’Ordine di accertare con effetto retroattivo l’inizio del praticantato e di rilasciare
conseguentemente, ove da tale inizio siano
trascorsi 18 mesi, il certificato di compiuta
pratica” (cfr. Ricorso, pagg. 10-11);
e) – “nessuna norma di legge esclude la
possibilità di un accertamento con effetto
retroattivo dell’inizio del praticantato ai fini
dell’ammissione all’esame di idoneità professionale”, in quanto “la ratio legis è quella di
assicurare un’adeguata preparazione dell’aspirante giornalista all’esercizio autonomo
della professione, mediante un periodo di attività pratica nelle redazioni e di addestramento
da parte di giornalisti professionisti”; sicché, “il
fatto che l’iter previsto dal legislatore in via
preferenziale sia quello della iscrizione nel
registro al momento dell’inizio della pratica
non comporta necessariamente che debba
ritenersi precluso un accertamento ex post
della validità della pratica svolta senza previa
iscrizione nel registro” (cfr. Ricorso, pag. 11).
D.Z. conclude nel senso dell’annullamento
(con rinvio) della sentenza impugnata, dal
momento che la Corte veneziana dovrebbe,
comunque, pronunciarsi sul secondo motivo
di gravame, relativo al “diniego, da parte del
Tribunale, della natura di pratica giornalistica
dell’attività svolta dalla ricorrente presso la
redazione del quotidiano Il Gazzettino” (cfr.
Ricorso, pag. 12).
2.3 Con il ricorso incidentale, sostanzialmente
adesivo, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei
giornalisti ripropone ed arricchisce le argomentazioni svolte dalla ricorrente principale,
sottolineando, in particolare – per quanto
attiene all’individuazione della ratio decidendi
della sentenza impugnata – che “la Corte
d’Appello, rigettando il primo motivo della
impugnazione della signora D.Z., afferma…
che il complesso normativo relativo alla fattispecie de qua non consente al C.N.O.G. di
sostituirsi al direttore della pubblicazione nel
rilasciare la dichiarazione sostitutiva, appunto,
di compiuta pratica... nel senso in cui lo stesso direttore abbia precedentemente omesso
di tempestivamente rilasciare la dichiarazione
di inizio della pratica..., negando così all’aspirante giornalista - anche nel caso in cui...
abbia poi effettivamente svolto abusivamente
attività giornalistica – l’iscrizione nel Registro
dei praticanti...”, e che “secondo la Corte d’Appello di Venezia il C.N.O.G. può esercitare tale
potere sostitutivo soltanto nel caso in cui
l’aspirante giornalista (rectius, nell’ipotesi
formulata dalla Corte, il praticante) fosse già
iscritto nel Registro dei praticanti, naturalmente sulla base di inizio pratica rilasciata dallo
stesso direttore” (cfr. Ricorso incidentale,
pagg. 5-6).
2.4 Entrambi i ricorsi meritano accoglimento
sulla base delle seguenti considerazioni:
A) – Devono ritenersi circostanze incontestate tra le parti – quali emergono dalla motivazione della sentenza impugnata – quelle
secondo cui:
1) – la ricorrente principale, alla data dell’11
ottobre 1994 (presentazione della domanda
di dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica
al Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto per l’ammissione all’esame di
abilitazione all’esercizio della professione),
non risultava iscritta nel Registro dei praticanti
giornalisti;
2) – il direttore del quotidiano Il Gazzettino di
Venezia, presso il quale D.Z. prestava la
propria attività lavorativa, aveva omesso di
rilasciare a quest’ultima, benché richiesto, sia
la dichiarazione comprovante l’effettivo inizio
della pratica (c.d. dichiarazione di “inizio pratica”), sia – e conseguentemente – quella
sull’attività giornalistica svolta (c.d. dichiarazione di “compiuta pratica”), sicché, alla data
predetta, era inibita, di fatto, alla ricorrente
medesima la partecipazione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione;
ORDINE
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2000
supremi: vincono i diritti costituzionali all’uguaglianza di trattamento, all’imparzialità e alla Giustizia
Le aspettative legittime del giornalista “di fatto”
LA RICOSTRUZIONE DELLA VICENDA da
www.giustizia-e-legge.it: IL GIORNALISTA DI FATTO PUÒ ESSERE VALIDAMENTE ISCRITTO D’UFFICIO DAL CONSIGLIO
DELL’ORDINE, CON EFFETTO RETROATTIVO, NEL REGISTRO DEI PRATICANTI –
Ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità
professionale (Cassazione Sezione Prima
Civile n. 5936 del 10 maggio 2000, Pres.
Senofonte, Rel. Di Palma).
Nell’ottobre del 1994 D. Z., dipendente della
società editrice del quotidiano Il Gazzettino,
con qualifica impiegatizia, ha chiesto al
Consiglio Regionale dell’Ordine dei giornalisti del Veneto il riconoscimento d’ufficio del
praticantato giornalistico e l’ammissione alla
prova di idoneità professionale per l’iscrizione nell’Albo dei giornalisti, elenco professionisti, con riferimento all’attività svolta nel
periodo 1978-1992 come addetta all’archivio di redazione, con l’incarico, tra l’altro, di
preparare dossier informativi per inchieste
giornalistiche e biografie di personaggi celebri, nonché come cronista, articolista e curatrice di varie rubriche periodiche. Il Consiglio
Regionale, con deliberazione del 17 aprile
1991, ha rigettato la domanda. Il ricorso
proposto da D. Z. avverso tale decisione è
stato accolto dal Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei giornalisti che, con delibera
del 26 marzo 1996, ha disposto l’iscrizione
della ricorrente nel registro dei praticanti
nonché il rilascio alla medesima della dichiarazione di compiuta pratica per l’attività svolta presso Il Gazzettino ai sensi dell’art. 43
del D.P.R. 4 febbraio 1962 n. 115 e successive modificazioni. Il Procuratore Generale
della Repubblica presso la Corte d’Appello
di Venezia, con atto in data 6 giugno 1996,
ha chiesto al Tribunale di Venezia l’annullamento della decisione del Consiglio Nazionale, sostenendo la non riconducibilità
dell’attività svolta dalla ricorrente al praticantato giornalistico e l’inammissibilità della
retrodatazione dell’iscrizione al registro dei
praticanti giornalisti. Costituitasi in giudizio,
D. Z. ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Tribunale di Venezia, in composizione integrata
ex art. 63 L. 3/2/63 n. 69, con sentenza in
data 7 novembre-10 dicembre 1996 n. 341
ha accolto il ricorso. Questa pronuncia è
stata impugnata da D. Z. innanzi alla Corte
di Appello di Venezia. Il Procuratore Generale ha resistito al gravame. Altrettanto ha
fatto il Consiglio Regionale dell’Ordine dei
giornalisti. La Corte di Appello di Venezia,
Sez. I Civile, con sentenza depositata il 26
maggio 1998 n. 10/98, ha rigettato l’impugnazione.
Essa ha ritenuto fondata la tesi del Procuratore Generale secondo cui la vigente normativa non consentirebbe al Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di sostituirsi al direttore della pubblicazione nel rilascio del certificato di compiuta pratica nel caso in cui il
medesimo abbia omesso altresì di certificare tempestivamente l’inizio della pratica e
quindi non abbia consentito la coeva iscrizione dell’aspirante giornalista nel registro
dei praticanti. Secondo la Corte, il Consiglio
può esercitare detto potere sostitutivo solo
per l’aspirante giornalista che, all’atto della
richiesta del certificato di compiuta pratica,
risulti iscritto nel registro dei praticanti da
almeno 18 mesi.
D.Z., difesa dall’avv. Domenico d’Amati, ha
proposto ricorso per Cassazione sostenendo, tra l’altro, che le modifiche normative
introdotte nella disciplina dell’albo dei giornalisti con il D.P.R. 30.5.72 n. 212 e con il
D.P.R. 21.9.93 n. 384 hanno lo scopo di
impedire l’indebito sfruttamento degli aspiranti giornalisti nelle imprese editrici ovvero il
loro impiego di fatto senza le garanzie previ-
ste dalla legge professionale e dal contratto
nazionale di lavoro giornalistico e senza
alcuna tutela contro il licenziamento, non
essendo possibile al giudice disporre la reintegrazione nel posto di lavoro di chi non sia
iscritto nell’albo o nel registro.
Il legislatore – ha rilevato la ricorrente – ha
evidentemente tenuto presente la situazione, nota per comune esperienza, degli aspiranti giornalisti che non ricevano la dichiarazione di inizio pratica ai fini dell’iscrizione nel
registro né l’applicazione del trattamento
previsto dal contratto nazionale di lavoro
giornalistico, e nondimeno, per evitare ritorsioni e non pregiudicare le loro possibilità di
occupazione, sopportino per lunghi periodi
l’impiego in condizioni irregolari e si risolvano a chiedere la loro regolarizzazione soltanto quando abbiano acquisito la certezza di
non poter contare su uno spontaneo riconoscimento dei loro diritti da parte dell’editore,
di cui il direttore è normalmente uno strumento.
La necessità di regolarizzazione si pone
pertanto normalmente al termine di un
prolungato periodo di pratica giornalistica
esercitata di fatto. Del tutto marginale e teorica è la possibilità che, una volta rilasciata dal
direttore la dichiarazione di inizio della pratica e trascorsi i 18 mesi del praticantato dopo
la regolare iscrizione nel registro, al praticante giornalista venga negata la dichiarazione
di compiuta pratica. Tale diniego infatti sarebbe vanificato in tale ipotesi dall’esistenza di
un documentato periodo di lavoro come
praticante giornalista con inquadramento a
termini del CNLG. Per questo il D.P.R.
3.5.1972 n. 212 ha previsto la possibilità per
il Consiglio dell’Ordine di sostituirsi al direttore nel rilascio della dichiarazione di compiuta
pratica, modificando in tal senso l’art. 43 del
D.P.R. 4.2.65 n. 115.
Tale possibilità – ha sostenuto la ricorrente –
deve ritenersi sussistente sia nell’ipotesi, del
tutto marginale, che vi sia stata una precedente dichiarazione di inizio pratica sia nell’ipotesi, molto più frequente, che tale dichiarazione non vi sia stata e il praticante sia
stato impiegato in condizioni di “lavoro nero”.
La finalità perseguita dal legislatore è stata
resa ancor più evidente dal D.P.R. 21.9.93 n.
384 che, per eliminare ogni incertezza interpretativa ha sostituito i primi tre commi
dell’art. 46 D.P.R. 4.2.1965 n. 115 introducendo una normativa palesemente diretta a
consentire ai Consigli dell’Ordine di accertare l’inizio della pratica con effetto retroattivo
e di emettere, ove tale pratica sia durata
almeno 18 mesi, l’attestazione del suo
compimento, consentendo l’ammissione
all’esame di idoneità professionale.
Nel giudizio è intervenuto il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, difeso
dall’Avv. Enrico Romanelli, che ha aderito
alla tesi della ricorrente. Il Procuratore Generale e il Consiglio Regionale dell’Ordine dei
Giornalisti del Veneto hanno chiesto il rigetto
del ricorso.
La Suprema Corte (Sezione Prima, Pres.
Senofonte, Rel. Di Palma) ha accolto il ricorso affermando che nelle situazioni di svolgimento “di fatto” del tirocinio giornalistico –
senza cioè che il direttore abbia comunicato
all’Ordine l’inizio della pratica – il praticantato
può ritenersi utilmente e validamente svolto
ai fini previsti dalla legge (e, segnatamente,
ai fini dell’ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione) anche in
assenza della previa iscrizione formale del
praticante nel relativo Registro, ove l’avvenuto svolgimento della pratica sia stato accertato a posteriori da parte degli organi dell’Ordine in sede di esercizio dei suoi poteri sostitutivi.
tivo dell’iscrizione d’ufficio al Registro
3) – la deliberazione del Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei giornalisti – adottata il 26
marzo 1996, su ricorso di D.Z. avverso la
precedente decisione sfavorevole, ai sensi
dell’art. 43 del d.P.R. n. 115 del 1965, poi
annullata in sede giurisdizionale – aveva dato
“mandato al Consiglio regionale dell’Ordine
dei giornalisti del Veneto di iscrivere la stessa
nel registro dei praticanti e di rilasciare la
dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica
per l’attività svolta presso Il Gazzettino (cfr.,
supra, nn. 1.1 e 1.3).
B) – Dinanzi a tale pacifica fattispecie, appare
indispensabile analizzare compiutamente la
disciplina normativa rilevante in tema di pratica giornalistica, di requisiti per l’ammissione
degli aspiranti giornalisti alla prova di idoneità
professionale e di dichiarazione di inizio e
compiuta pratica.
B1) – Per quanto attiene alla pratica, occorre
premettere che l’art. 34 della legge 3 febbraio
1963 n. 69 (Ordinamento della professione di
giornalista) – dopo aver disciplinato forme,
modalità e contenuti della pratica giornalistica
(comma 1, su cui cfr. Cass. n. 10673 del 1996,
confermata da successive decisioni) – prescrive che “dopo 18 mesi, a richiesta del praticante, il direttore responsabile della pubblicazione gli rilascia una dichiarazione motivata
sull’attività giornalistica svolta” (ai fini dell’ammissione all’esame di idoneità professionale:
art. 29 comma 1; e dell’eventuale, successiva
iscrizione nell’elenco dei professionisti: art. 31
comma 1 n. 3; comma 2); e che “il praticante
non può rimanere iscritto per più di tre anni
nel Registro” (comma 3). A sua volta, l’art. 41
comma 1 del d.P.R. 4 febbraio 1965 n. 115
(Regolamento per l’esecuzione della legge n.
69 del 1963 – rimasto sempre in vigore, nonostante le modifiche apportate dal d.P.R. 3
maggio 1972 n. 212 (Modifiche al regolamento di esecuzione n. 115 del 1965), che si sono
limitate ad aggiungere alcuni commi ai due
originari – prevede che “la pratica, nell’ambito
dei tre anni di iscrizione nel Registro, deve
essere continuativa ed effettiva: del periodo di
interruzione dipendente da causa di forza
maggiore non si tiene conto agli effetti della
decorrenza del termine di cui all’art. 34, ultimo
comma, della legge”.
B2) – Per quanto riguarda l’ammissione alla
prova di idoneità professionale, l’art. 29
comma 1 della legge n. 69 del 1963 dispone
che, per l’iscrizione nell’Elenco dei professionisti, sono richiesti, fra l’altro, l’iscrizione nel
Registro dei praticanti; l’esercizio continuativo
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della pratica giornalistica per almeno 18 mesi;
il possesso della dichiarazione di compiuta
pratica (v. artt. citt. 31 comma 1 n. 3 e 34
comma 2) e l’esito favorevole dell’esame di
Stato per l’abilitazione all’esercizio della
professione. L’originario testo dell’art. 46
commi 1 e 3 del d.P.R. n. 115 del 1965 stabiliva, tra l’altro, che erano ammessi a sostenere
l’esame di Stato i candidati che avessero
compiuto il periodo di pratica giornalistica,
comprovato dal certificato di iscrizione nel
Registro dei praticanti e dalla dichiarazione di
compiuta pratica. Tale testo è stato, poi, sostituito dall’art. 3 del d.P.R. 21 settembre 1993 n.
384 (Modifiche al regolamento di esecuzione
della legge n. 69 del 1963), pacificamente
applicabile alla fattispecie ratione temporis:
esso prescrive che sono ammessi a sostenere la prova di idoneità professionale i candidati che documentino di essere iscritti nel Registro dei praticanti da almeno diciotto mesi e di
aver compiuto presso una o più testate la
pratica giornalistica prevista dall’art. 29
comma 1 della legge (comma 1); e che “l’iscrizione nel Registro dei praticanti decorre dalla
data di effettivo inizio del tirocinio dichiarata
dal direttore o accertata dal competente
consiglio regionale o in seconda istanza dal
Consiglio nazionale” (comma 2).
B3) – Per quanto attiene alla dichiarazione di
inizio della pratica giornalistica, l’art. 33
comma 2 della legge n. 69 del 1963 (che
disciplina l’iscrizione nel Registro dei praticanti) prevede, tra l’altro, che la domanda per
l’iscrizione “deve essere... corredata dalla
dichiarazione del direttore comprovante l’effettivo inizio della pratica di cui all’art. 34” (cfr.,
supra, lett. B1). L’art. 36 commi 1 e 3 del d.P.R.
n. 115 del 1965 (mai modificato dalla successiva disciplina) dispone, tra l’altro, che, per
l’iscrizione nel Registro dei praticanti, alla relativa domanda deve essere allegata “la dichiarazione del direttore dell’organo di stampa
comprovante
l’effettivo
inizio
della
pratica”(comma 1); e che “il direttore della
pubblicazione o del servizio giornalistico è
tenuto, a richiesta dell’interessato, al tempestivo rilascio della dichiarazione...”. Deve, tuttavia, sottolinearsi che, nell’ipotesi (quale quella
di specie) in cui il direttore ingiustificatamente
rifiuti o ritardi, o, comunque, ometta di rilasciare all’interessato la dichiarazione di inizio della
pratica giornalistica, l’art. 46 comma 2 del
d.P.R. n. 115 del 1965 (comma sostituito
dall’art. 3 del d.P.R. n. 384 del 1993), dianzi
citato (cfr. supra, lett. B2), ha introdotto –
ovviamente, dall’entrata in vigore del decreto
presidenziale del 1993 – il rimedio dell’“accertamento sostitutivo” (rispetto all’inerzia del
direttore) della data di effettivo inizio della
pratica giornalistica da parte del consiglio
regionale dell’Ordine o, in seconda istanza,
del Consiglio Nazionale; data, dalla quale
decorre l’iscrizione nel Registro dei praticanti
ai fini del rispetto del termine minimo di durata
del tirocinio.
B4) – Per quanto riguarda, infine, la dichiarazione di compiuta pratica, alla disciplina legislativa, dettata dall’art. 34 comma 2, dianzi
citato (cfr., supra, lett. B1) deve aggiungersi
quella regolamentare, contenuta nell’art. 43
comma 3 del d.P.R. n. 115 del 1965, il quale,
al comma 3 (nel testo modificato dall’art. 10
del d.P.R. n. 212 del 1972 cit.), ribadisce,
innanzitutto, come già per la dichiarazione di
inizio della pratica (cfr., supra, lett. B3), che “il
direttore della pubblicazione o del servizio
giornalistico è tenuto, a richiesta dell’interessato, all’immediato rilascio della dichiarazione”; e prevede, poi, tra l’altro, che, “ove il direttore, senza giustificato motivo, ometta o ritardi
l’adempimento di tale obbligo, il Consiglio
regionale o interregionale competente, informato tempestivamente dall’interessato, adotta
le iniziative del caso per il rilascio della dichiarazione, ricorrendone le condizioni” (primo e
secondo periodo del comma 3).
C) – A fronte della pacifica fattispecie, dianzi
riassunta (cfr., supra, lett. A), e della ricognizione della disciplina normativa rilevante, la
ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr.,
supra, nn. 2.2 e 2.3) – quale emerge dalle
considerazioni della Corte veneziana, dianzi
testualmente riprodotte (cfr., supra, n. 1.3) – a
ben vedere, si risolve in ciò, che il praticante
giornalista (il quale si ritenga tale in ragione
della natura e delle caratteristiche dell’attività
svolta) – cui il direttore dell’organo di stampa
o del servizio giornalistico abbia, comunque,
omesso di rilasciare la dichiarazione comprovante l’effettivo inizio della pratica (cfr., supra,
lett. B3) – è soggetto all’onere di ricorrere, in
tempo utile per il rispetto dei termini di cui
all’art. 34 commi 2 e 3 della legge n. 69 del
1963 (cfr., supra, lett. B1: diciotto mesi di tirocinio nell’arco di tre anni, decorrenti dalla data
di iscrizione nel Registro dei praticanti), al
consiglio regionale od interregionale dell’Ordine, ovvero, in seconda istanza, al Consiglio
Nazionale, al fine di far accertare, in via “sostitutiva” rispetto all’omissione del direttore, l’effettivo inizio della pratica giornalistica, e, quindi, di ottenere l’iscrizione “formale” nel predet-
to Registro, necessaria per il valido svolgimento del tirocinio; che, conseguentemente,
entro il richiamato spazio temporale triennale
dalla data della iscrizione formale (termine
massimo di iscrizione nel Registro), il praticante deve, altresì, ottenere dal direttore –
ovvero “sostitutivamente” dai menzionati organi rappresentativi della categoria – la dichiarazione di compiuta pratica, al fine della legittimazione a partecipare all’esame di abilitazione all’esercizio della professione (e, quindi, del
diritto all’iscrizione nell’elenco dei professionisti); e che, conseguentemente, nell’ipotesi
(quale quella di specie) in cui il praticante non
abbia chiesto ed ottenuto – direttamente dal
direttore, o “sostitutivamente” – la dichiarazione o l’accertamento di inizio pratica (e, quindi,
l’iscrizione “formale” nell’apposito Registro), il
consiglio regionale od interregionale dell’Ordine o, in seconda istanza, il Consiglio Nazionale non possono accertare e riconoscere, in
via sostitutiva, la compiuta pratica, in quanto il
legittimo esercizio del relativo potere sostitutivo presuppone la preesistenza di un’effettiva
(“formale”) iscrizione nel Registro dei praticanti per un periodo non superiore ai tre anni;
condizione, questa, pacificamente insussistente nel caso di specie.
D) – Il vizio di fondo, che inficia la sentenza
impugnata, consiste in ciò, che la Corte veneziana ha deciso la fattispecie sottoposta al suo
esame in termini “astratti”: “come se”, cioè,
essa non fosse “patologicamente” caratterizzata dal fatto, pacifico, dello svolgimento di
un’attività di pratica giornalistica (tale ritenuta
dal Consiglio nazionale dell’Ordine con la deliberazione impugnata; e salvo, ovviamente, il
controllo giurisdizionale sul punto) in carenza
delle dichiarazioni di inizio e compiuta pratica.
In altri termini – in presenza di un’attività, pur
sostanzialmente qualificabile siccome “pratica
giornalistica” (il che, nel caso di specie, si ribadisce, risulta, allo stato, meramente ipotetico,
tenuto conto che, sul punto se quella svolta
da D.Z. presso il predetto quotidiano fosse
qualificabile come tale, i Giudici d’appello
hanno esplicitamente omesso di pronunciare,
ritenendolo assorbito dalla decisione adottata:
cfr., supra, n. 1.3, in fine) – fattispecie, quali
quella de qua, sono necessariamente caratterizzate dalla mancanza di qualsiasi atto
“formale” del “procedimento legale tipico”
prefigurato per il tirocinio giornalistico: inizio
della pratica, attestata dalla relativa dichiarazione del direttore dell’organo di informazione, iscrizione nel Registro dei praticanti, svol-
7
La sentenza riconosce l’effetto retroattivo dell’iscrizione d’ufficio al Registro
gimento del praticantato per almeno 18 mesi
dalla data dell’iscrizione, parimenti attestato
dalla dichiarazione di compiuta pratica, costituiscono, infatti, in presenza delle condizioni
previste dalla legge, oggetto di diritti del praticante in un “normale” rapporto di tirocinio,
cominciato e proseguito come tale (assunzione al lavoro dell’aspirante giornalista con la
qualifica di praticante e svolgimento della
pratica). Ma può accadere, appunto, che
un’attività di pratica giornalistica sia esplicata
“di fatto”, al di fuori delle “forme” del contratto
di lavoro che le compete; e può anche accadere che lo svolgimento di fatto di tale attività
sia qualificabile come tale, non già dall’inizio,
ma soltanto nel corso del rapporto. Ebbene,
l’art. 46 comma 2 del d.P.R. n. 115 del 1965,
introdotto nel 1993 (cfr., supra, lett. B2), ha
proprio inteso attribuire agli organi elettivi
dell’Ordine il potere di ricondurre nell’alveo del
diritto situazioni siffatte, sia, a tutela dei diritti
degli aspiranti alla professione giornalistica,
allo scopo di rimuovere un vero e proprio ostacolo di fatto alla possibilità di accedervi, sia
per dotare gli organi stessi di uno strumento
normativo idoneo. In questa prospettiva, tale
disposizione – secondo l’insegnamento del
Giudice delle leggi (cfr. sent. n. 11 del 1968, n.
4 del Considerato in diritto: “Una legge la
quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di
esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all’accesso alla professione giornalistica … porterebbe un grave e pericoloso attentato all’art.
21 Cost.”) – deve essere interpretata, tra più
significati possibili, in senso conforme a Costituzione (cfr., e pluribus e da ultima, Corte
costituzionale, sent. n. 1 del 2000), come vera
e propria “norma di chiusura”, la quale, proprio
in sede di ammissione all’esame di abilitazione all’esercizio della professione, attribuisce
ai predetti consigli dell’Ordine, secondo le
rispettive competenze, il potere di intervenire,
in “sostituzione” del direttore dell’organo di
informazione, per accertare e dichiarare,
innanzitutto nei confronti dell’interessato, la
sussistenza di un caso di svolgimento di pratica giornalistica svoltasi abusivamente al di
fuori degli schemi del surrichiamato procedimento legale tipico, nonché la data di effettivo
inizio del tirocinio; e per provvedere, conseguentemente, con effetto da tale data, all’iscrizione del “praticante di fatto” nel relativo Registro, al fine di consentirgli la partecipazione
all’esame di idoneità professionale e garantirgli, quindi, la concreta possibilità di accedere
alla professione. Del resto, l’espressa attribuzione di siffatti poteri sostitutivi non fa altro che
dotare di strumenti di effettività i più generali
poteri – conferiti, in prima istanza, ai consigli
regionali od interregionali (cfr. art. 11 lett. b
della legge n. 69 del 1963), e, in seconda
istanza, al Consiglio nazionale dell’Ordine
(art. 60 comma 1 della legge stessa) – di vigilanza “per la tutela del titolo di giornalista in
qualunque sede” e di repressione “dell’esercizio abusivo della professione”.
E) – L’affermazione, fatta della sentenza
impugnata (cfr., supra, n. 1.3, lett. E), secondo cui l’intervento sostitutivo degli organi
dell’Ordine ex art. 46 comma 2 del d.P.R. n.
115 del 1963 (come sostituito nel 1993) è
necessariamente limitato al provvedimento
di iscrizione nel Registro dei praticanti –
I NOSTRI LUTTI
di Donato Mutarelli
Armando Boscolo ci ha lasciato il 21 febbario scorso. Devo subito dire che, per me,
Armando Boscolo non è stato soltanto uno
di quegli amici che quando s’incontrano non
si possono non abbracciare.
Armando è stato per me, molto di più: è
stato un maestro di giornalismo, un esempio di moralità e di patriottismo e dico - e
ripeto - patriottismo anche se questa parola
sembra essere, al giorno d’oggi, una parola
obsoleta. Poiché fra tutte le sensazioni, le
opinioni, le scoperte che venivano fuori
parlando con Armando, tra tutte queste
dimensioni umane, quello che emergeva
come un inoppugnabile aspetto di etica e di
estetica, era il suo patriottismo. Nel lontano
1940, come tutti i giovani della sua generazione, era partito per la guerra e tre anni
dopo il ventottenne tenente di fanteria
Armando Boscolo, nell’ultima battaglia in
terra africana, in Tunisia, s’era trovato accerchiato, assieme al suo reparto dalle truppe
anglo-americane. L’ordine, arrivatogli dallo
Stato Maggiore, vista la soverchiante forza
del nemico, era stato quello di arrendersi e
lui, come tutti quelli del suo reggimento,
8
previo accertamento della data di effettivo
inizio del tirocinio e, conseguentemente, che
la durata della pratica non abbia superato il
termine di tre anni dalla data stessa – e non
può, quindi, estendersi al riconoscimento
della compiuta pratica, conduce ad esiti illegittimi. Innanzitutto, l’affermazione medesima implica l’errore, dianzi ampiamente motivato, di negare sostanzialmente la realtà
sottostante al prefigurato intervento e,
pertanto, la stessa ratio legis. In secondo
luogo, ed in stretta connessione con quanto
ora rilevato, essa comporta l’assoggettamento del “praticante di fatto” all’onere di
richiedere immediatamente agli organi
dell’Ordine l’esercizio dei poteri sostitutivi
relativamente all’inizio della pratica giornalistica, dimenticando, però, che, in situazioni
siffatte, sussistono gravi ostacoli materiali
alla libera iniziativa dell’interessato, il quale
può essere indotto a non esercitare il
proprio diritto (a chiedere ed ottenere dal
direttore la dichiarazione di inizio della pratica) per lo stesso motivo per cui molte volte
è portato a rinunciarvi, e cioè per il timore
del licenziamento: infatti, se, a seguito della
sua richiesta di intervento sostitutivo, egli
potesse ottenere dall’Ordine soltanto il provvedimento di iscrizione nel Registro, e non
anche l’accertamento della compiuta pratica, la sua partecipazione all’esame di abilitazione potrebbe risultare compromessa
sine die, tenuto conto proprio dell’anomalia
che caratterizza il suo rapporto di lavoro
giornalistico. In terzo luogo, e conseguentemente, l’interpretazione seguita dai Giudici
a quibus, o svuota di contenuto i poteri sostitutivi attribuiti dalla legge agli organi dell’Ordine – i quali, pur in presenza di situazioni
di svolgimento di tirocinio giornalistico, praticato per un tempo sufficiente od anche
superiore a quello legislativamente stabilito
(18 mesi), dovrebbero limitarsi a provvedere
all’iscrizione del praticante nel Registro,
precludendogli sine die la possibilità di
accesso alla professione – ovvero si risolve
nella formalistica necessità della contestuale adozione, da parte degli stessi, di due
distinte deliberazioni, aventi ad oggetto,
prima, l’iscrizione nel Registro dei praticanti,
e, poi, l’accertamento della compiuta pratica. Del resto, la riprova che un utile e valido
svolgimento della pratica giornalistica possa
essere effettuato anche senza previa iscrizione nel relativo Registro – e che, dunque,
l’effettivo svolgimento del tirocinio, segnatamente nelle situazioni di “praticantato di
fatto”, costituisca l’elemento sostanziale
prevalente rispetto al dato formale dell’iscrizione nel Registro, che manca per definizione – si trae dalla disciplina dettata dall’art.
41 comma 6 del d.P.R. n. 115 del 1965
(aggiunto dall’art. 9 del d.P.R. n. 212 del
1972), secondo cui può essere ammesso a
sostenere l’esame di idoneità professionale
anche il cittadino italiano che abbia svolto la
pratica giornalistica presso pubblicazioni
italiane edite all’estero o pubblicazioni estere con determinate caratteristiche, ed anche
se il praticantato sia stato svolto prima
dell’acquisto della cittadinanza italiana, e,
quindi, prima della possibilità di iscrizione
nel Registro dei praticanti (cfr. combinato
disposto degli artt. 33 comma 3 e 31 comma
2 della legge n. 69 del 1963).
F) – Infine, l’orientamento interpretativo qui
affermato – e cioè, che, nelle situazioni di
svolgimento “di fatto” del tirocinio giornalistico,
questo può ritenersi utilmente e validamente
praticato, ai fini previsti dalla legge (e, segnatamente, ai fini dell’ammissione all’esame di
abilitazione all’esercizio della professione),
anche in assenza della previa iscrizione
formale del praticante nel relativo Registro,
ove esso sia stato accertato a posteriori da
parte degli organi dell’Ordine, in sede di esercizio dei poteri sostitutivi – non determina,
come invece ritenuto dalla Corte veneziana,
alcuna disparità di trattamento giuridico fra
“praticanti iscritti” e “praticanti non iscritti” nel
Registro, relativamente al “tetto” di iscrizione
triennale stabilito dall’art. 34 comma 3 della
legge n. 69 del 1963, che, mentre sarebbe
invalicabile dai primi, potrebbe essere superato dai secondi (cfr., supra, n.1.3 lett. D). La
denunziata disparità non sussiste, perché, in
realtà, le situazioni messe a raffronto sono
incomparabili e richiedono, perciò, una disciplina normativa differenziata. Deve premettersi che la disposizione ora richiamata – secondo cui il praticante non può rimanere iscritto
per più di tre anni nel Registro – ammette
un’eccezione, corrispondente al periodo di
interruzione del tirocinio (che dev’essere
continuativo ed effettivo) per “cause di forza
maggiore”, del quale non si tiene conto ai fini
della decorrenza del predetto termine triennale (cfr. art. 41 comma 1 d.P.R. n. 115 del 1965);
ed altresì, che il decorso di tale termine non
comporta, ipso jure, la cancellazione dal Registro del praticante, che, invece, deve essere
deliberata caso per caso dal consiglio regionale od interregionale dell’Ordine, previa audizione dell’interessato (e fatti salvi, ovviamente, i rimedi amministrativi e giurisdizionali
avverso la deliberazione di cancellazione; cfr.
art. 41 comma 2 primo periodo). Tanto
premesso, va sottolineato che il caso del praticante, iscritto nel Registro fin dall’effettivo
inizio del tirocinio, rientra nello schema
normale del procedimento legale tipico prefigurato dalla legge (cfr., supra, lett. D): e così,
lo stesso, trascorsi diciotto mesi, dalla data di
iscrizione, di pratica giornalistica effettiva e
continuativa, può essere ammesso a sostenere la prova di idoneità professionale, anche
per più di una volta (cfr. art. 45 comma 1 d.P.R.
n. 115 del 1965, come sost. dall’art. 2 del
d.P.R. n. 384 del 1993), con l’unico limite costituito dalla scadenza del triennio di iscrizione
nel Registro (cfr. art. 53 comma 3 del d.P.R. n.
115 del 1965). Ben diverso, invece, il caso del
praticante non iscritto. Infatti, dinanzi a situazioni di “praticantato di fatto”, si rende necessaria, per definizione (come già rilevato: cfr.
supra, lett. D), la loro riconduzione nell’alveo
del diritto; sicché, prima dell’esercizio dei
poteri sostitutivi da parte degli organi dell’Ordine, non ha senso richiamare i parametri
legali relativi alla disciplina della pratica giornalistica, come, ad es., la regola posta dall’art.
34 comma 3 della legge professionale. Se si
ritenesse che, in queste ipotesi, i consigli
dell’Ordine possono provvedere sostitutivamente soltanto alla dichiarazione di inizio della
pratica ed all’iscrizione del praticante nel Registro – al fine di consentire il valido, successivo
svolgimento della pratica per il prescritto
periodo di diciotto mesi – l’apparente parificazione giuridica della situazione dei “praticanti
Armando Boscolo
patriota e giornalista
s’era arreso. Ma quel gesto gli era costato
amarissime lacrime se è vero che ogni volta
che me lo raccontava, gli scendevano le
lacrime. Assieme agli altri era stato preso
prigioniero e condotto - dopo un terribile
viaggio per nave - negli Stati Uniti, nel Texas,
dove nella località di Breford gli americani
avevano allestito un autentico lager.
Qui era rimasto per quasi quattro anni in
prigionia, ma non dimenticando di manifestare la sua sdegnosa fierezza e la sua
dignità di uomo. Quando, dopo le tristi vicende di quella guerra, l’Italia di re Vittorio
Emanuele III con il tragico armistizio dell’8
settembre si era accostata agli Stati Uniti ed
all’Inghilterra, inventando, grazie a Badoglio,
la strana formula della “cobelligeranza”, gli
americani chiesero ai prigionieri italiani se
volevano collaborare, Armando Boscolo,
assieme a mille altri, si rifiutò.
No, non si poteva cambiar bandiera, non si
poteva improvvisamente riconoscere come
alleato quello stesso avversario che ieri ti
aveva vinto. Prigionieri si era e prigionieri si
restava. L’onore non è un oggetto di compravendita.
E quando alla fine del conflitto, ritornò in
Italia dopo un altro terribile viaggio per nave,
girando smarrito per le vie di Napoli, nella
vetrina d’una qualsiasi cartoleria, vide esposto un libro; era edito dalla Sperling & Kupfer
e s’intitolava Il rugby. L’autore era proprio lui,
Armando Boscolo. Dall’emozione di quell’incontro silenzioso con un libro che lui stesso
aveva consegnato ancora in bozze al suo
editore, prima di partire per la guerra, da
quell’incontro Armando capì che la vita,
dopo tutti gli orrori della guerra, riprendeva il
suo corso.
Personalmente ricordo che nel lontano 1956
io - che ero allora soltanto un qualsiasi
ragazzo che voleva fare il giornalista - andai
a trovarlo nella redazione dei suoi periodici
che si chiamavano allora Motociclismo e La
Rivista Motonautica. Volevo iniziare a lavorare e mi affascinava quel mondo sportivo
che allora era sicuramente meno ricco di
oggi ma certamente più autentico e vero.
Armando Boscolo mi accolse con una cortesia nella quale però non era estranea una
certa diffidenza: come tutti i veneti, Boscolo
non concedeva la sua cordialità e la sua
non iscritti” a quella dei “praticanti iscritti”, si
risolverebbe, in realtà, nel disconoscimento
della pratica già sostanzialmente svolta dai
primi e già sostanzialmente riconosciuta
come tale nella dichiarazione sostitutiva di
inizio della pratica, e finirebbe con il determinare un deteriore trattamento giuridico degli
stessi. E, d’altro canto – dinanzi a casi, quale
quello di specie, di “praticantato di fatto”
protrattosi lungamente nel tempo – potrebbe
addirittura determinarsi la paradossale situazione, per cui una sua protrazione nel tempo
superiore ai tre anni, legalmente stabiliti,
renderebbe impossibile o, comunque, inutile e
priva di effetti un’iscrizione dell’interessato nel
Registro dei praticanti, decorrente dalla data
di effettivo inizio del tirocinio. Tali rilievi, oltre a
confermare l’incomparabilità delle due situazioni messe illegittimamente a confronto dalla
Corte veneziana, inducono a ritenere che,
nelle fattispecie di “praticantato di fatto”, l’esercizio dei poteri sostitutivi – attribuiti dal combinato disposto degli artt. 46 comma 2 e 43
comma 3 del d.P.R. n. 115 del 1965 (cfr.,
supra, lett. B3 e B4) agli organi elettivi dell’Ordine, e che si risolvono nei provvedimenti
dichiarativi di inizio e compiuta pratica ed in
quello costitutivo di iscrizione nel Registro dei
praticanti – comprende necessariamente una
dimensione “discrezionale”, volta ad adeguare la situazione di fatto alla disciplina giuridica
del praticantato giornalistico ed a parificare,
nei limiti del possibile, la condizione giuridica
del “praticante di fatto” a quella del “normale”
praticante.
G) – La sentenza impugnata, che si fonda su
principi opposti a quelli ora affermati, deve
essere, pertanto annullata. Peraltro, nel caso
di specie, sulla base delle considerazioni dianzi svolte, e non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto sul punto (cfr., supra, n.
1.1), deve essere riconosciuta, ai sensi
dell’art. 384 comma 1 secondo periodo cod.
proc. civ., la validità della deliberazione del
Consiglio nazionale dell’Ordine impugnata,
che ha, legittimamente, dato “mandato al
Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti
del Veneto di iscrivere D.Z. nel registro dei
praticanti e di rilasciare la dichiarazione sostitutiva di compiuta pratica per l’attività svolta
presso Il Gazzettino, ai sensi dell’art. 43 del
d.P.R. 4.2.1965 n. 115 e successive modificazioni”.
3. Tuttavia, la presente causa deve essere
rinviata ad altra sezione della Corte d’appello
di Venezia, la quale dovrà pronunciarsi su
tutte le altre questioni ritenute assorbite dalla
decisione ora annullata (cfr., supra, n. 1.3, in
fine) e provvederà anche a regolare le spese
del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li accoglie. Cassa la
sentenza impugnata e rinvia, anche per le
spese, ad altra sezione della Corte d’Appello
di Venezia.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, l’11 ottobre
1999.
(Sentenza pubblicata il 10 maggio 2000)
(da www.giustizia-e-legge.it)
attenzione tanto facilmente al primo venuto.
Voleva per prima cosa accertarsi del valore
del suo interlocutore. Ad un certo punto
ascoltando le mie parole che erano traboccanti d’entusiasmo e d’ammirazione, m’interruppe dicendomi con calma “Guardi che
le cose nello sport vanno diversamente da
come le s’immagina. A queste sue pennellate di colore io potrei aggiungere, mi creda,
molte pennellate di grigio”. Restai stupito.
Solo qualche anno dopo mi resi conto che
quella era stata la prima importante lezione
di giornalismo che Armando Boscolo m’aveva dato.
Di lezioni, di suggerimenti, di autentici insegnamenti Armando Boscolo sarebbe stato
molto prodigo con quel ragazzo-allievo di
quarant’anni fa. Da lui, non ho solo imparato
cosa si deve scrivere ma anche come si
deve scrivere. Penso che lo ricorderò
sempre per quella sua pacata severità, con
quel suo sorriso buono e quel suo ciuffo di
capelli sulla fronte che era un po’ il suo
distintivo e che gli ha sempre permesso di
nascondere i suoi anni.
L’ultima lezione, me la diede l’anno scorso
quando, quasi sgridandomi, mi disse “Vorrei
che tu la smettessi di chiamarmi tuo
maestro: così facendo mi fai un torto”. “Io ti
faccio un torto Armando?” “Sì un torto,
perché si ripaga male un maestro se si rimane sempre suoi scolari”.
È stata questa l’ultima lezione di giornalismo
del mio amico Armando Boscolo. La lezione
d’un uomo che non dimenticherò mai.
ORDINE
6
2000
■ La carta europea
■ La telesorveglianza in Italia
■ La fine della privacy
■ La conoscenza della legge
■ Coupons
■ Le 27.000 richieste del 1999
■ Controlli a distanza
■ La gift economy
■ Il Genetic Privacy Act di Clinton
■ Una Maastricht per la privacy
■ Le persone a rischio
■ Le paure americane
Nella relazione per l’anno 1999 del presidente dell’Ufficio del Garante una realtà sconosciuta e inquietante
Privacy, le telecamere ci spiano
In gioco la dignità dei cittadini
Pubblichiamo la relazione integrale (per
l’anno 1999) del presidente dell’Ufficio
del Garante della privacy Stefano Rodotà
letta il 3 maggio nella Sala Zuccari di
Palazzo Giustiniani.
Signor Presidente della Repubblica, stiamo
vivendo una fase storica dominata dai ritmi
di un cambiamento continuo e diffuso, da un
dilatarsi della dimensione tecnica alla quale
nessun traguardo e nessun ambito di vita
sembra ormai precluso. In questo clima
cambia la percezione del nuovo, mutano i
comportamenti individuali e collettivi, si
modifica la funzione della tutela dei dati
personali, si trasforma la nozione stessa di
sfera privata. Se pure intelligenza e prudenza vogliono che non ci si abbandoni alla
tirannia d’una attualità che ogni giorno
propone una nuova scoperta ed una nuova
frontiera, è tale la portata dell’insieme delle
innovazioni che sarebbe grave cadere
nell’opposto peccato della sottovalutazione.
Nella primavera dell’anno scorso, con una
sintonia rivelatrice, due grandi settimanali
come The Economist e Der Spiegel parlarono sulle loro copertine di “fine dalla privacy”,
indagando minuziosamente le infinite tecniche di raccolta delle informazioni personali
messe a punto dal sistema mondiale delle
imprese, spesso all’insaputa degli interessati.
Intanto, però, una ricerca condotta dall’Ibm,
nel 1999, ha messo in evidenza come la
preoccupazione maggiore del 94% degli
americani, per quanto riguarda il commercio
elettronico, sia rappresentata proprio dalla
tutela della privacy. E un lavoro pubblicato
all’inizio di quest’anno dalla Wharton School
of Business permette di stabilire una correlazione tra la protezione ancora insufficiente
della privacy on line e le tendenze del
commercio elettronico negli Stati Uniti, dove
nel 1999 è diminuita la spesa pro capite in
rete. Il tema della privacy diventa così un
elemento che non caratterizza soltanto la
dimensione individuale e sociale, ma incide
profondamente sulla sfera economica. Lo
sviluppo del commercio elettronico è ormai
strettamente legato anche ad una tutela efficace dei dati personali. Al tempo stesso, solo
un riconoscimento effettivo di questo nuovo,
fondamentale diritto può evitare che Internet
perda le sue caratteristiche di spazio di
libertà, e si trasformi in un unico, immenso
spazio commerciale.
Il paesaggio economico, sociale, personale è
profondamente mutato. Formule come commercio elettronico, che ancora ieri sembravano
capaci di descrivere interamente una nuova
realtà, sono state rapidamente affiancate da
altre ben più impegnative: si è parlato di e-busi-
ness, per approdare poi ad una espressione
massimamente comprensiva come “nuova
economia”, caratterizzata appunto dalla presenza determinante delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Si diffondono poi, su larghissima scala, i
controlli a distanza di attività e comportamenti, dal discusso sistema planetario Echelon fino alle telecamere che, con riprese a
distanza, tendono sempre più ad accompagnare ogni momento della nostra vita negli
spazi pubblici: si calcola che, nelle grandi
città, il cittadino venga ripreso almeno 300
volte al giorno, sì che le metropoli non sono
più il luogo dove si scompare e si diviene
parte della folla anonima e solitaria di cui ci
ha parlato David Riesman. Intanto, i destini
dell’uomo, la sua intimità più profonda,
vengono scandagliati da una ricerca genetica che porta alla luce gli elementi costitutivi
dell’individualità di ciascuno.
Roma, 3 maggio. Stefano Rodotà mentre
legge la relazione.
Roma, 3 maggio. Il presidente della
Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha
assistito alla cerimonia nella Sala Zuccari
di Palazzo Giustiniani.
ORDINE
6
2000
9
Questo mondo nuovo si nutre di informazioni
e, tra queste, i dati personali diventano una
materia prima essenziale per il suo funzionamento. E qui si colloca, con intensità e
responsabilità prima impensabili, il ruolo del
Garante per la protezione dei dati personali,
che non ha più soltanto il compito di assicurare il rispetto di procedure di difesa della vita
privata contro invasioni indebite, ma si trova
a dover effettuare un continuo e difficile bilanciamento tra valori fondamentali: tra dignità e
controlli, tra intimità e trasparenza, tra diritti
dell’individuo e interessi della collettività. Fin
dalla nostra prima relazione abbiamo detto
che si scorgevano i tratti d’una nuova cittadinanza, via via costruita proprio nella nuova
dimensione definita dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Oggi
questo appare ancor più evidente: l’insieme
dei diritti dei cittadini è sempre più condizionato dalla loro possibilità d’essere attori nei
processi di comunicazione, e non soltanto
passivi e disarmati fornitori di dati.
l’interessato perde ogni diritto. Anche quando costituiscono oggetto di transazioni, essi
non smarriscono il loro significato costitutivo
dell’identità personale. Un carattere, questo,
che si manifesta in maniera netta in relazione ai dati sensibili, sottratti all’esclusiva
disponibilità degli stessi interessati, poiché il
loro legittimo trattamento esige, oltre al
consenso scritto, una specifica autorizzazione del Garante.
Fenomeni di queste dimensioni non possono essere affidati soltanto alla cura intensa e
volenterosa di autorità indipendenti. Se a tal
punto muta l’organizzazione sociale, non
può mancare una attenzione adeguata da
parte del Parlamento. Diciamo questo
perché siamo ben consapevoli dell’avvio di
dinamiche che stanno modificando notevolmente pure il funzionamento delle istituzioni.
E lo diciamo senza alcuno spirito di rinuncia,
senza tirarci indietro di fronte ad una impresa difficile. Proprio sui grandi temi appena
ricordati, anzi, il Garante è intervenuto con
provvedimenti significativi, che in molti casi
rappresentano oggi l’unica disciplina della
materia.
Si ampliano così, e si modificano qualitativamente, le possibilità di classificazione adottando concetti come “predizione”, “predisposizione”, “persona a rischio”. Ma queste categorie interpretative, di cui si raccomanda un
uso prudente già nell’ambito della medicina
predittiva, possono produrre equivoci pericolosi quando vengono trasportate dal campo
della genetica clinica a quello delle valutazioni sociali. Si rischia, infatti, di trasformare
una condizione ipotetica o potenziale, spesso determinata con metodi statistici, in condizione attuale, con effetti sul trattamento giuridico e sulla considerazione sociale della
persona.
Ci siamo misurati con le tecniche di una
nuova economia che, bisognosa com’è di
dettagliatissime informazioni sulle persone e
sui loro comportamenti, ne sollecita la
cessione agli stessi interessati quasi in ogni
momento della giornata, ora facendone la
necessaria contropartita d’un servizio, ora
stimolandola con la promessa di benefici.
Non è un fuor d’opera, o un eccesso di zelo,
occuparsi ad esempio dei coupons che, in
cambio di qualche vantaggio, richiedono a
chi li riempie dati su acquisti, proprietà, gusti,
abitudini, comportamenti. Qui si colgono alla
radice gli elementi costitutivi della “società
della classificazione”, dove si disegnano in
maniera sempre più massiccia profili individuali, familiari, di gruppo.
Questi divengono poi non solo gli strumenti
che orientano l’attività delle imprese, ma
pure l’oggetto di un fiorente commercio. E
chi li adopera non solo può interferire nella
vita privata degli interessati, ma tenere
anche comportamenti potenzialmente discriminatori.
Per queste ragioni abbiamo ritenuto necessario indicare le condizioni che rendono legittima la raccolta di informazioni attraverso i
coupons, con un provvedimento che assume una portata generale e definisce i diritti
dei consumatori.
Altrettanto significativa è la decisione riguardante il servizio GratisTel, con la quale si è
toccato il tema della cosiddetta “gift
economy”, della economia del dono che
starebbe nascendo nel cuore della nuova
economia. Non era soltanto necessario ribadire analiticamente gli obblighi d’informazione nei confronti degli utenti del servizio, e
sottolineare i diritti di questi ultimi nel selezionare le informazioni da cedere e di
controllare quelle cedute. Era opportuno
chiarire, nelle forme proprie, che i servizi
definiti “gratuiti” nel concreto non lo sono,
perché vengono forniti in cambio di quella
merce preziosa che sono ormai le informazioni personali.
Il Garante, in questo modo, ha contribuito a
mettere in evidenza uno dei caratteri reali
della nuova economia e, insieme, ha rafforzato il diritto all’autodeterminazione informativa da parte dei cittadini, nei cui confronti
non può essere effettuata nessuna attività di
raccolta di dati che non sia preceduta da
informazioni adeguate, accompagnata da
una effettiva possibilità di selezione tra le
informazioni richieste e legittimata da
consensi analitici.
I trattamenti
invisibili
Si ribadisce così l’illegittimità di ogni trattamento “invisibile” in rete e di ogni pretesa di
sottrarre al controllo degli interessati il
complesso dei trattamenti che riguardano i
loro dati personali.
Si individua così anche un limite invalicabile,
che preclude la possibilità di procedere ad
una piena assimilazione dei dati personali ad
un qualsiasi bene economico, ceduto il quale
10
Nel mercato delle informazioni personali
viene così ridotta, e assistita da maggiori
garanzie, la possibilità di utilizzare dati sensibili, tra i quali assumono una rilevanza particolare quelli riguardanti la salute, sempre più
al centro di una preoccupata attenzione da
parte dei cittadini. Questa attenzione sociale
è destinata a crescere di pari passo con la
disponibilità di dati e di tests genetici, che
accompagnano ad una penetrante capacità
diagnostica una attitudine “predittiva” del
futuro dell’individuo.
Il Garante ha fin dall’inizio della sua attività
percepito nitidamente questo pericolo, tanto
che proprio nei suoi provvedimenti la categoria dei dati genetici si presenta, per la
prima volta in Italia, con una sua specifica
autonomia. Il Garante, dunque, è attrezzato
per affrontare alcuni tra i maggiori problemi
che la genetica porta con sé, come dimostra
la decisione che ha autorizzato l’acquisizione dei dati genetici di un genitore che li aveva
rifiutati alla figlia, pur sapendo che erano
necessari per una scelta procreativa che
potesse tener conto del rischio di trasmissione di una malattia genetica. Questa decisione, prima al mondo in una materia così delicata e che per ciò ha destato ovunque un
grande interesse, propone un inedito bilanciamento tra riservatezza e salute, fondato
sulla considerazione che i dati genetici, unici
tra tutti i dati personali, non possono essere
considerati “patrimonio” esclusivo d’una sola
persona. Essi legano tutti gli appartenenti
allo stesso gruppo biologico, e quindi il potere di disporne, in situazioni particolari, non
può essere riservato ad uno soltanto tra essi.
Proiettando la rilevanza dei dati genetici
nell’organizzazione sociale, diventa subito
evidente la necessità assoluta di una disciplina che impedisca la loro utilizzazione a fini
discriminatori. Proprio per sottolineare la rilevanza di questo tema, l’8 febbraio di
quest’anno il Presidente Clinton ha emanato
un “executive order” con il quale vieta l’utilizzazione dei dati genetici nell’ambito del
rapporto d’impiego dei dipendenti federali, ed
ha chiesto al Congresso l’approvazione di un
Genetic Privacy Act. In Italia, grazie ai provvedimenti del Garante, sono oggi illegittimi i
trattamenti di dati che possano provocare
discriminazioni, ad esempio nell’ambito dei
rapporti di lavoro o in contratti come quello di
assicurazione. Gli stessi scienziati impegnati
nella ricerca genetica paventano i rischi di
una società castale ed invocano una tutela
forte per i dati genetici, proprio per impedire
che questi divengano la base per forme di
classificazione delle persone.
Dignità
e uguaglianza
La protezione dei dati personali diventa così
uno strumento essenziale per il rispetto dei
principi di dignità e eguaglianza. Una dimensione, questa, che evoca immediatamente la
necessità di un quadro normativo d’insieme,
esige un’attenzione parlamentare e può
trovare rapida realizzazione anche attraverso i decreti legislativi ai quali è affidato il
completamento del disegno avviato dalla
legge n. 675 del 1996.
Allo stesso modo, e con altrettanta intensità,
è indispensabile intervenire per disciplinare il
settore della telesorveglianza, in tumultuosa
espansione, regolato finora soltanto da una
serie di provvedimenti del Garante. Ragioni
diverse, dalla sicurezza alla registrazione dei
comportamenti di acquisto, favoriscono l’installazione di telecamere, presenti ormai in
banche, stazioni, aeroporti, supermercati e
parcheggi, fermate di mezzi pubblici e interi
tratti autostradali. Non abbiamo ancora
raggiunto le dimensioni quantitative di un
paese come la Gran Bretagna, coperta
ormai da una rete fittissima di quasi un milione di telecamere. Ma i casi già affrontati dal
Garante mostrano come la telesorveglianza
si vada diffondendo in comuni grandi, medi e
piccoli (da Torino a Mantova, a Portici), copra
l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, faccia
parte della progettazione dei nuovi spazi
pubblici (la Stazione Termini a Roma). Una
ricerca in corso - promossa dal Garante stesso e che si sta svolgendo a Roma, Milano,
Napoli e Verona - conferma la rapida espansione di queste tecniche di controllo, alle
quali ricorrono soprattutto le banche (26%
dei casi a Roma, 39% a Milano), ma che
cominciano a diventare così diffuse che non
v’è settore merceologico che non le conosca. L’indagine ha finora contato 315 telecamere nelle zone centrali e semicentrali di
Roma e 213 in quelle di Milano, in maggioranza assai visibili e di tipo fisso. Ma un
confronto con le tendenze già in atto in altri
paesi mostra una evoluzione verso strumenti ben mascherati, in grado di seguire gli
spostamenti delle persone e, grazie a telecamere “pensanti”, in condizione di segnalare immediatamente comportamenti ritenuti
pericolosi.
La questione non può essere elusa, né
banalizzata, né risolta con un atto di fede in
una tecnologia che farebbe scomparire ogni
forma di criminalità. Dobbiamo interrogarci
intorno al senso che la libertà individuale
assumerebbe in un ambiente implacabilmente scrutato dall’occhio elettronico.
Dobbiamo valutare le conseguenze di un
intreccio tra l’ormai dilagante società della
classificazione, che accumula informazioni
sulle persone e ne traccia profili, e la società
della sorveglianza, dove ogni azione in spazi
aperti al pubblico viene seguita, controllata,
registrata. Attraverso la lente della protezione dei dati personali giungiamo così a mettere a fuoco uno dei problemi più delicati delle
nostre società. Le tecniche di controllo a
distanza incidono sul diritto di circolare liberamente, privatizzano spazi pubblici, e stanno così ridefinendo il modo e il significato dei
comportamenti individuali e delle relazioni
sociali.
Un uomo di vetro
in una società
trasparente
Un uomo di vetro in una società trasparente:
è questo il nostro futuro? Torna l’antico interrogativo: qual’è il prezzo della libertà? E di
quale misura di libertà godremo in un
ambiente tecnologicamente ridisegnato in
forme tali da ridurre diritti fondamentali delle
persone? Noi, e usando il plurale parlo di tutti
noi cittadini, siamo chiamati a sciogliere una
contraddizione tra una trasparenza crescente e l’inconoscibilità o l’incontrollabilità di chi
ci rende visibili, rimanendo egli stesso lontano o oscuro. Ma può la democrazia lasciar
crescere al suo interno quello che, per dirla
con Conrad, può divenire il “cuore di un’immensa tenebra”?
Da Conrad
a Echelon
Vorrei ricordare che, di fronte al diffondersi
delle tecniche di controllo delle comunicazioni, il Gruppo dei Garanti europei ha adottato,
il 3 maggio 1999, una raccomandazione che
comprende “il divieto di qualsiasi sorveglianza su vasta scala delle telecomunicazioni,
sia per campione sia in via generale”.
Il Garante italiano misura gli effetti su dignità e
diritti delle persone dell’innovazione scientifica
e tecnologica, appresta rimedi e regole dove
le sue forze e le sue competenze lo consentono e, grazie a questo lavoro, contribuisce
quotidianamente ad individuare aree critiche
dove la protezione di dati personali assume
anche un valore d’indizio di questioni più
generali, dove la tutela della sfera privata s’incontra con i temi della libertà e della cittadinanza del nuovo millennio. Ma la Relazione,
che oggi presentiamo, documenta soprattutto
la prosecuzione di una intensa attività in materie già coperte nei due anni precedenti dalla
nostra iniziativa. Testimonia pure, e conferma,
l’impossibilità di chiudere questa attività in
aree definitivamente fissate una volta per
tutte. Non vi è una sorta di vocazione onnivora del Garante, che vuole occuparsi d’ogni
cosa. Al contrario: in più di una occasione,
ancora in tempi recentissimi, abbiamo rifiutato
ampliamenti di competenze che riteniamo
improprie. Ma è l’ampiezza del ricorso ai dati
personali nelle nostre organizzazioni sociali a
spingerci in territori sempre nuovi.
Proprio perché così ampia è la dimensione
in cui necessariamente ci muoviamo, ogni
giorno misuriamo pure le difficoltà e i limiti
della nostra azione. Le difficoltà nascono
anche dal complesso arbitrato tra interessi
contrapposti che la nostra attività implica: e,
come ricordavo prima, quasi sempre si tratta
di operare un bilanciamento tra interessi di
particolare rilevanza, spesso di rango costituzionale. I limiti sono stati determinati
soprattutto da condizionamenti istituzionali e
materiali, che stiamo superando.
È prossima la pubblicazione dei regolamenti
relativi all’organizzazione dell’ufficio, al
personale ed alla contabilità, che daranno
definitiva stabilità e certezza al nostro lavoro.
È imminente il trasferimento in una nuova
sede, che consentirà di riunificare le sparse
membra di un ufficio che è stato costretto ad
operare in una precarietà di strutture fisiche
che ha finora impedito ampliamenti dell’organico. Sarà così possibile non solo rafforzare i settori già consolidati della nostra attività,
ma acquisire le competenze necessarie per
affrontare tutte le nuove questioni via via
emergenti. E una struttura così consolidata
permetterà di aprire al massimo la nostra istituzione verso l’esterno, offrendo formazione
ai giovani, documentazione a studiosi e
operatori, occasioni di discussione a tutti gli
interessati. L’avvio del nostro sito web è un
passo concreto in questa direzione.
Una attesa esigente dell’opinione pubblica,
infatti, continua ad accompagnare l’attività
del Garante. Per valutare meglio gli atteggiamenti dei cittadini, adempiendo così all’obbligo imposto dalla legge di “curare la conoscenza tra il pubblico delle norme che regolano la materia e delle relative finalità”,
abbiamo promosso una indagine di opinione, che presenteremo presto e di cui anticipo qui alcuni risultati significativi.
In generale, può dirsi che la legge è conosciuta (67,1% degli intervistati) e utilizzata
(da 2/3 degli intervistati). Infatti, il 55,8%
dichiara di esercitare sempre, e il 10,6% di
esercitare talvolta, il potere di non dare ad
aziende o enti il consenso al trattamento dei
dati personali per scopi diversi da quelli per i
quali esiste o si instaura il rapporto: dato
tanto più significativo se confrontato con
quello relativo alla conoscenza. Ma la conoscenza decresce con l’età (dal 74,7% dei
giovani al 49,6% di chi ha più di 65 anni) e
cresce con il livello di istruzione (dal 40,5%
di chi è in possesso di istruzione elementare
al 78% dei diplomati, al 93,6% dei laureati).
Più analiticamente: sanno della sua esistenza l’85% di laureati e diplomati residenti al
nord, mentre questa percentuale scende al
41% per chi sia in possesso di istruzione
elementare e risieda nel sud e nelle isole.
L’attenzione posta al tema della privacy vede
prevalere le persone di mezza età (55-64
anni) tra chi la considera “eccessiva”, mentre
prevalgono i più giovani (18-34 anni) tra chi
la considera invece “ragionevole”. Il timore di
un uso improprio dei dati è maggiore nei
confronti delle aziende che della pubblica
amministrazione; è più accentuato negli
uomini (49,1% contro il 45,9% delle donne)
e nelle persone meno istruite, mentre lo è
meno tra i giovani della prima fascia di età
(57,9% contro il 40% delle altre fasce). Famiglia, minori, fisco e sanità sono indicati come
i temi meritevoli di maggiore attenzione.
Anche se molti tra i dati raccolti richiedono
ulteriori riflessioni, complessivamente l’indagine ci parla della legge n. 675 del 1996
come di uno strumento socialmente significativo, ben saldo nelle mani dei più giovani e
dei più istruiti, del quale i cittadini si servono
o in cui hanno fiducia, e che contribuisce a
costruire nuove forme di riequilibrio di poteri,
ad esempio tra cittadini e amministrazione,
tra consumatori e imprese. Ma, al tempo
stesso, mette in evidenza squilibri gravi,
legati soprattutto all’istruzione ed alla collocazione territoriale, che determinano spesso
una riduzione dei diritti dei cittadini che più
potrebbero avvantaggiarsi dall’esercizio dei
molteplici poteri attribuiti dalla legge. Si pensi
soltanto all’importanza attribuita alla sanità,
prevalente tra le persone più anziane, che
sono però quelle tra le quali minore è la
conoscenza della legge. La questione ben
nota del nuovo abisso scavato tra information haves e have nots nel mondo costruito
dalle tecnologie trova qui una significativa
conferma.
Diventa così essenziale e urgente promuovere una più analitica conoscenza delle
norme nella loro concretezza. Poiché l’indagine ricordata prima ha messo in evidenza
come la fonte della conoscenza sia nel
36,7% dei casi la televisione, e il 57% degli
intervistati (che salgono al 64% nel sud e
nelle isole) ha indicato sempre nella televisione la più appropriata fonte di informazione, il Garante ha avuto conferma della
necessità di svolgere una delle speciali
campagne informative televisive previste per
ORDINE
6
2000
La riproduzione
di originali fotografici
può violare
la legge sulla privacy
Anche il fotografo che realizza riproduzioni e ingrandimenti da originali fotografici viola la
legge sulla privacy se al momento di effettuare gli scatti non dichiara la propria identità e
l’effettivo utilizzo delle immagini. Il principio si applica anche nel caso in cui le foto siano
conservate presso una persona diversa dall’interessato: per esempio i suoi familiari. Lo ha
stabilito il Garante in relazione al ricorso presentato da un noto personaggio dello spettacolo che si era rivolto all’Autorità per lamentare la violazione del diritto alla riservatezza da
parte di un fotografo che aveva ripreso alcune immagini dall’album di famiglia conservato
presso l’abitazione dei suoi genitori per poi pubblicarle su un settimanale. Secondo l’attrice il reporter aveva, infatti, omesso di dichiarare la propria qualifica professionale e, soprattutto, l’intenzione di realizzare un servizio di tipo giornalistico violando, così, il principio in
base al quale la raccolta e il trattamento dei dati personali (tra cui rientrano anche le immagini) deve avvenire in modo lecito e secondo correttezza.
Da parte sua il reporter, free lance di un’agenzia fotografica, sosteneva, invece, di aver
operato con trasparenza e di aver dichiarato l’intenzione di realizzare un servizio fotografico sul personaggio. Considerate le versioni opposte, l’accertamento dei fatti non poteva
essere completato nel breve procedimento instaurato dal ricorso dell’interessata, e potrà
essere quindi completato in sede giudiziaria.
L’Autorità ha però colto l’occasione per ribadire alcuni principi che disciplinano l’esercizio
del diritto di cronaca e il diritto alla riservatezza. Il Garante ha, innanzitutto, rilevato che il
caso in questione rientra nell’ambito dell’esercizio della professione giornalistica e in particolare dei trattamenti temporanei di dati finalizzati esclusivamente alla pubblicazione di
articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero, pur essendo stato effettuato da un reporter free lance privo di un rapporto professionale stabile con gli operatori del mondo
dell’informazione.
A tale riguardo il Garante ha ricordato che in base alla legge sulla privacy e alle norme del
codice deontologico dei giornalisti anche il fotografo non professionista è tenuto a dichiarare la propria identità e ad informare l’interessato sull’utilizzo che intende fare dei suoi
dati personali o delle immagini che lo riguardano. L’informativa può essere data in modo
agevole: oltre a rendere palese la propria attività il giornalista non deve, infatti, fornire
necessariamente tutte le altre informazioni che devono essere altrimenti rilasciate quando
il trattamento viene effettuato per scopi diversi e può assolvere a tale obbligo anche attraverso i genitori o i familiari dell’interessato quando i suoi dati personali vengono raccolti
presso terzi.
Il fotografo, sottolinea l’Autorità, non può, quindi, ricorrere, ad artifici o pressioni indebite
per esercitare il diritto di cronaca che è comunque svincolato dal consenso dell’interessato. Solo se i dati e le immagini fotografiche sono stati raccolti in modo corretto e osservando l’obbligo di fornire la prevista informativa la loro successiva divulgazione e pubblicazione può avvenire nel rispetto delle norme sulla privacy.
(newslettere Garante Privacy n. 40/2000)
i soggetti pubblici, per la quale era già stata
rivolta una richiesta al Dipartimento per
l’informazione e l’editoria della Presidenza
del Consiglio.
Ma il problema della conoscenza della
legge richiede ulteriori riflessioni, che partano dalla constatazione della notevole
complessità della disciplina, già evidente
nella legge n. 675 e che è stata accresciuta
dai nove decreti legislativi che si sono
succeduti in questi anni per integrare la
normativa di base. Altri decreti sono attesi,
e indispensabili, visto che ad essi, per tacer
d’altro, è affidata proprio la disciplina delle
reti. Poiché questo completamento non può
attendere, auspichiamo che possa essere
accelerato l’iter parlamentare del rinnovo
della delega, già approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, e dove compare
la provvida previsione di un testo unico che
consentirà a tutti una conoscenza più
agevole e sicura.
Ma una parte della complessità è ineliminabile. Questa disciplina riguarda la vita privata
nel suo insieme: e la vita - ce lo ricorda
Montaigne - “est un mouvement inegal, irregulier et multiforme” (Essais, Livre troisième
et dernier, chap. III, De trois commerces). Si
farebbe dunque violenza ad una realtà oggi
più che ieri ricca e mutevole, se si pensasse
di rinchiuderla entro schemi ingannevolmente uniformi.
Si tratta, quindi, di avere una normativa che,
sviluppando i chiari principi che la fondano e
che fanno riferimento ai diritti fondamentali
ed alla dignità della persona, contenga poi
una articolazione capace di consentirne un
adattamento a situazioni tra loro profondamente diverse, come peraltro finora è avvenuto, sia pure tra difficoltà non trascurabili. Il
completamento della disciplina deve sviluppare nel modo migliore questo carattere
originario della legge, in un sistema che sta
già realizzando un concorso di fonti, tra le
quali spiccano per la loro novità quei codici
deontologici che definirei “di seconda generazione”, perché non si risolvono in una tradizionale autodisciplina di settore, ma fissano
regole valide per tutti i soggetti che svolgono
una determinata attività.
I codici
Nel corso dell’anno verrà concluso il procedimento per l’adozione e la pubblicazione di
ORDINE
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2000
codici nei settori della statistica, della ricerca
scientifica e storica, della sanità, delle attività
bancarie e finanziarie, dell’investigazione
privata. Con un evidente vantaggio, viste le
particolari procedure per la loro adozione: si
tratta di fonti che integrano la disciplina di
base, conferendo ad essa una elevata flessibilità, sia per quanto riguarda la modificabilità di fronte a situazioni in rapido mutamento, sia per quanto riguarda l’adattabilità a
materie e settori diversi.
Mentre perseguiamo il completamento e il
chiarimento del sistema di tutela dei dati
personali, dobbiamo però essere consapevoli di un rischio: si cerca sempre di sfruttare
le occasioni di rinnovato intervento legislativo per erodere la disciplina vigente, riducendo le garanzie dei cittadini. Fin dall’inizio il
Garante ha preso iniziative per eliminare
ogni ingiustificato appesantimento burocratico. Ma continua a ritenere, e continuerà a far
valere questo suo punto di vista, che il
quadro dei diritti non possa in alcun modo
essere alterato, ed anzi debba essere ulteriormente affinato, costituendo esso l’indispensabile contrappeso al massiccio diffondersi dell’utilizzazione di dati personali da
parte dei soggetti più diversi. Nell’ultimo
periodo, infatti, l’evoluzione tecnologica ha
stimolato la creazione di banche dati di
dimensioni sempre maggiori, che certamente costituiscono un’opportunità per i cittadini,
la pubblica amministrazione e le imprese, a
condizione però che ad esse non si accompagnino condizionamenti o restringimenti
delle libertà individuali e collettive. Al crescere delle banche dati della pubblica amministrazione, ed alle loro interconnessioni, il
Garante ha dedicato attenzione particolare
per evitare che la facilità dei collegamenti
faccia dimenticare la regola secondo la quale
i dati possono essere utilizzati solo per le
finalità per le quali sono stati raccolti: sarebbe vanificata, altrimenti, un’essenziale garanzia del cittadino. Per questa superiore ragione, e non per un piccolo prestigio di bottega,
insistiamo sempre perché vengano seguite
le nostre indicazioni a tutela della dignità e
dei diritti delle persone.
È su questo terreno che la nostra funzione di
garanzia, che integra i forti poteri di controllo
diretto da parte dei cittadini, ha continuato a
svilupparsi, e la Relazione lo documenta
analiticamente.
Ci sono state rivolte oltre 27.000 richieste:
una cifra che ci riporta al livello del primo
anno di attività - 27.000 richieste appunto,
scese a 20.000 l’anno scorso. Questo dato
dimostra come la fortissima attenzione per la
legge e l’intervento del Garante non rappresentasse una fiammata iniziale, ma sia divenuta ormai un elemento stabile nel nostro
panorama istituzionale. Al tempo stesso,
però, scomponendo il dato globale si è indotti a ritenere che un flusso così massiccio di
richieste dipenda pure da difficoltà di conoscenza e di interpretazione delle norme,
come sembrerebbero indicare le 12.000
richieste di chiarimento relative alle notificazioni.
Le dimensioni ancora ridotte dell’organico e
la persistente precarietà organizzativa hanno
lasciato permanere ritardi soprattutto per
quanto riguarda le risposte a segnalazioni e
quesiti. Queste difficoltà sono in via di superamento. Diventa, quindi, un impegno particolare del Garante quello di eliminare questo
arretrato, che tuttavia non tocca l’aspetto più
impegnativo dell’attività di decisione, quello
dei ricorsi. I ricorsi pervenuti (150 nel 1999,
199 al 13 aprile di quest’anno) sono stati tutti
decisi nei termini brevissimi previsti dalla
legge (venti giorni, portati poi a trenta dall’art.
13.1 a) del decreto legislativo 30 luglio 1999,
n. 281). Far fronte a scadenze così impegnative ed a carichi di lavoro così gravosi è stato
possibile, come in passato, grazie all’impegno di un personale motivato e giovane (l’età
media è di 40 anni, un quarto del personale
non supera i 35 anni).
Al di là del dato quantitativo, le richieste dei
cittadini e i provvedimenti del Garante mettono in evidenza notevoli problemi di conoscenza e di applicazione della legge. Con i
primi atti di ispezione e attraverso diversi
canali di documentazione abbiamo potuto
accertare l’esistenza di significative sacche
di disapplicazione della legge. Stiamo favorendo una sua migliore conoscenza, proseguendo nel tradizionale metodo della collaborazione con gli interessati, ma anche
avviando procedure sanzionatorie. Invitiamo
tutti ad una doverosa maggiore attenzione.
Obbedendo ad un preciso obbligo istituzionale, ci rivolgiamo in particolare al Governo
perché continui a stimolare le molte amministrazioni centrali e locali inadempienti, in
particolare per quanto riguarda gli atti da
compiere per continuare legittimamente il
trattamento dei dati sensibili, essendo già
scaduto il termine del 31 dicembre 1999,
fissato dal decreto legislativo 11 maggio
1999, n. 135, per avviare l’adeguamento dei
propri ordinamenti alle nuove norme. In
realtà, mentre è sicuramente cresciuta la
consapevolezza culturale dell’importanza
della tutela dei dati personali, non tutte le
amministrazioni dimostrano nei loro comportamenti concreti la necessaria sensibilità. La
fatica con cui si diffonde una conoscenza
precisa della legge pure negli ambienti
professionali è testimoniata da alcuni dati
ricavabili dalla materia dei ricorsi. Più di un
terzo, il 34% per la precisione, sono stati
dichiarati inammissibili, in buona parte per il
mancato rispetto delle condizioni procedurali
indicate dalla legge. E due provvedimenti
giudiziari, che hanno accolto le impugnative
proposte contro decisioni del Garante, hanno
palesato fraintendimenti interpretativi che,
talora neppure necessari per la decisione del
caso concreto, mostrano una incomprensione degli elementi costitutivi del quadro all’interno del quale opera la disciplina dei dati
personali.
Queste circoscritte vicende, tuttavia, non
incidono sul rapporto di fiducia tra cittadini e
Garante. Lo dimostra il fatto che sono state
impugnate davanti al giudice ordinario solo
tre nostre decisioni: che è percentuale irrilevante rispetto alle centinaia di provvedimenti
che, anche per la loro forte incidenza economica e sociale, avrebbero potuto giustificare
reazioni da parte degli interessati.
L’attività del Garante, infatti, si fa sempre più
incisiva. Come annunciato lo scorso anno,
sono state avviate le ispezioni, in un clima di
piena collaborazione con l’autorità giudiziaria, offrendo così ai cittadini quel rafforzamento delle garanzie che deriva da un
controllo diretto dei soggetti che trattano dati
personali. Al tempo stesso, i cittadini hanno
visto concretamente rafforzati anche i loro
diritti e i poteri autonomi di controllo, grazie
ad una serie di decisioni che, tra l’altro,
hanno reso particolarmente penetrante l’essenziale diritto di accesso, in casi significativi
come quelli riguardanti le valutazioni dei
lavoratori.
Si può dunque ritenere che si consolidino il
quadro istituzionale e l’accettazione sociale
della disciplina dei dati personali. In questa
direzione bisogna proseguire, perché le
vicende del periodo più recente dimostrano
con chiarezza come la nuova organizzazione dei poteri politici, economici e sociali,
fortemente condizionata dalle tecnologie
dell’informazione e della comunicazione,
esiga contrappesi e garanzie che trovano il
loro punto d’avvio proprio in una forte tutela
della dignità e dei diritti delle persone.
È assai significativo che, nel corso dell’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, che ci auguriamo
possa essere integrata entro l’anno nei trattati europei, una delle novità più importanti
sia costituita proprio da un articolo dedicato
al diritto all’autodeterminazione informativa,
che assume così un particolare valore “costituzionale”, qualifica e rafforza il quadro tradizionale dei diritti civili e politici, espande i
poteri dei cittadini nei confronti dei grandi
detentori di basi di dati.
Questo orientamento europeo è pure la
conferma dell’impossibilità di trattare le
questioni della tutela dei dati personali, e
dunque della nuova cittadinanza che essa
contribuisce a qualificare, solo all’interno
degli Stati nazionali, i cui confini sono stati
cancellati proprio dalla dimensione totale
imposta dalle tecnologie della comunicazione. In questo senso il progetto della Carta dei
diritti fondamentali costituisce lo sviluppo di
una linea istituzionale che, grazie a diverse
direttive (in particolare a quella 95/46), ha
costituito l’Unione europea come la regione
del mondo dove è più elevata la tutela dei
diritti dei cittadini per quanto riguarda il trattamento dei loro dati personali. Qui davvero
siamo di fronte ad una significativa anticipazione di quella “integrazione attraverso i diritti” che può contribuire a rimuovere molte
delle difficoltà che ancora si oppongono alla
pienezza della costruzione europea.
Ma oggi ci rendiamo conto che questa logica
espansiva dei diritti soltanto in un’area regionale, pur significativa come l’Europa, non è
sufficiente e, al tempo stesso, può far nascere nuovi conflitti. Non è sufficiente perché il
prorompente espandersi della società della
comunicazione non può essere chiuso
neppure nei più vasti confini di singole regioni del mondo.
Per questo, a conclusione della Conferenza
mondiale sulla protezione dei dati personali,
che si terrà a fine settembre a Venezia,
proporremo l’avvio di un negoziato che
possa concludersi con una convenzione
internazionale sulla privacy.
I conflitti sono evidenti nel difficile negoziato
che da due anni oppone Unione europea e
Stati Uniti proprio sul punto delle garanzie
da offrire ai cittadini europei quando i loro
dati varcano l’oceano. Il modello europeo
dev’essere difeso, non per una pretesa
provinciale, ma perché esso rappresenta la
più alta acquisizione in tema di nuovi diritti,
che non può essere sminuita in nome di
miopi logiche di mercato. Il Garante italiano,
su questo tema, ha assunto una posizione
nettissima, con un ruolo di punta che in
Europa gli ha fatto ottenere significativi riconoscimenti, e lo ha posto come primo interlocutore dell’amministrazione americana.
Terremo ferma la nostra posizione nell’imminente fase finale del negoziato, confortati
in ciò anche dall’atteggiamento del Governo italiano. Non stiamo parlando di vicende
marginali. Il valore economico dei trasferimenti di dati personali dall’Europa agli Stati
Uniti è grandissimo, e la loro importanza è
strategica in una fase in cui cresce il
commercio elettronico, ogni giorno si
muovono enormi quantità di dati legati all’uso delle carte di credito, sono nove milioni i
dipendenti europei di società multinazionali
americane. Nessuno vuole deprimere gli
scambi, ed i garanti europei lo hanno dimostrato non interrompendo i flussi dei dati.
Ma, al tempo stesso, nessuno può pretendere la cancellazione di diritti che, come
ricordavo all’inizio, sono ormai necessari
per lo stesso funzionamento del mercato.
Sarebbe improprio, peraltro, proiettare nel
futuro questo conflitto, enfatizzando una
sorta di assoluta incompatibilità tra modello
americano ed europeo. Molti segnali ci dicono che la via imboccata dall’Europa è quella alla quale appartiene il futuro, tanto che
le grandi organizzazioni americane dei
consumatori chiedono agli europei fermezza sui principi fissati dalle direttive, e la
campagna elettorale americana ha nella
privacy uno dei suoi temi caratterizzanti, sì
che si prevede addirittura a roar of legislation. Le informazioni personali non sono
merce, né le derive tecnologiche possono
indurre ad una resa che ci farebbe vivere in
un mondo segnato da un perverso congiungersi della società della sorveglianza con la
società della classificazione.
La libertà e l’autonomia delle scelte individuali e collettive si fondano oggi anche sul
rifiuto dell’espropriazione dei dati che ci
riguardano. Proprio perché il nostro lavoro
ci proietta in ogni momento verso il futuro,
dobbiamo tenere ben fermo quel che storia
e civiltà esigono, ed operare perché le
nostre rimangano e si consolidino come
società dei diritti.
11
Milano, 30 marzo. Un gruppo di giornalisti di economia
e finanza di numerose testate nazionali - specializzati fra
l’altro in previdenza complementare - ha deciso di
richiamare l’attenzione sulle
vicende del proprio fondo
pensione con una “lettera
aperta” e un esposto alla
Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione).
Lettera aperta ed esposto alla Covip
sul Fondo di previdenza
complementare dei giornalisti italiani
Esposto
Lettera aperta
Abbiamo appreso dal bollettino FNSI Informazioni che il Consiglio di amministrazione
del fondo ha scelto i gestori finanziari (Fideuram e Ing). Anche visitando il sito
www.fnsi.it, alla voce “previdenza complementare”, non si apprende nulla sui criteri
della scelta, né si capisce in base a quali
princìpi sarà definita l’asset allocation del
fondo, cioè la politica di investimento.
Siamo una categoria che fa della trasparenza la propria bandiera e poi, su un tema così
delicato come la previdenza integrativa, navighiamo nel buio.
Chiediamo chiarezza su questi punti:
1) come sono stati selezionati i gestori? Che
cosa è stato valutato come più importante: le performance dei fondi gestiti; i costi
di gestione; la solidità della struttura societaria o che cosa?
2) Quali sono le condizioni della delega di
gestione del patrimonio del fondo?
3) Come si intendono coinvolgere gli iscritti
nella scelta della politica d’investimento?
Perché non ipotizzare la possibilità di
scegliere individualmente fra una rosa di
fondi con diversi gradi di rischio (percentuale del patrimonio investita in azioni)? Gli
iscritti sono pochi e facilmente raggiungibili (per e-mail, per esempio), quindi potrebbero essere consultati per sapere direttamente da loro che cosa preferiscono.
4) È comunque legittimato l’attuale consiglio
di amministrazione del fondo a compiere
scelte così delicate? Secondo la legge,
entro due anni (entro il 1999) anche i
“vecchi” fondi come il nostro avrebbero
dovuto adeguarsi alle nuove norme e
quindi eleggere - con il voto di tutti gli
iscritti - nuovi organi di gestione.
5) Ogni iscritto dovrebbe avere un conto individuale su cui si sono accumulati i contributi finora versati (ancorché minimi).
Perché finora non ci è stato comunicato
alcunché?
Proprio per sollecitare un chiarimento, inviamo inoltre un esposto alla Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione.
(Seguono 22 firme)
I sottoscritti, iscritti al Fondo di previdenza
complementare dei giornalisti italiani
premesso che
1) Il Fondo rientra nella fattispecie di cui
all’articolo 18 (comma 1) del Dlgs 124/93
(c.d. vecchio fondo).
2) Pur in presenza di contributi versati dagli
iscritti, dai datori di lavoro e dal Tfr, il
Consiglio di amministrazione del Fondo
non ha fino ad oggi inviato alcuna rendicontazione sulle posizioni individuali.
3) Il Consiglio di amministrazione del Fondo
non è stato nominato ai sensi dell’articolo
5 (comma 1) del Dlgs 124/93 (metodo
elettivo).
4) Detto Consiglio ha proceduto alla nomina
dei gestori finanziari, senza per altro fornire agli iscritti alcun tipo di informativa sui
criteri di selezione seguiti, anche su specifica richiesta.
5) Detto Consiglio non ha fornito fino a oggi
alcun tipo di informativa sulle modalità di investimento delle risorse già raccolte dal Fondo.
chiedono a codesta Commissione
1) Di verificare la legittimità del Consiglio
d’amministrazione del Fondo ai sensi
dell’articolo 18 (comma 4) del Dlgs
124/93, che impone ai fondi pensione di
cui al comma 1 del medesimo articolo di
provvedere entro due anni all’adeguamento alle disposizioni dell’articolo 5 dello
stesso decreto.
2) Di verificare la legittimità dell’operato del
Consiglio d’amministrazione del Fondo
relativamente alle procedure seguite nella
selezione del gestore amministrativo, della
banca depositaria e dei gestori finanziari,
tenuto conto in particolare di quanto previsto dall’articolo 6 (comma 4-bis) del Dlgs
124/93 e della circolare emanata da codesta Commissione il 21 dicembre 1999.
3) Di verificare la legittimità dell’operato del
Consiglio d’amministrazione del Fondo
relativamente alla rendicontazione e
all’informativa dovuta agli iscritti, in forza
di quanto previsto all’articolo 17 (comma
2, lett. h) del Dlgs 124/93.
Serventi Longhi risponde punto per punto
di Paolo Serventi Longhi
segretario Fnsi
Ventidue colleghi di Milano hanno inviato un
esposto alla Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi di previdenza completare) e a noi
per conoscenza, avanzando dubbi sulla
corretta gestione del nostro Fondo. A tutti
questi colleghi ho già personalmente risposto,
tentando di spiegare le scelte operative che
sono state realizzate in questi mesi. Ciò nonostante, vedo ora che gli stessi colleghi, non
convinti delle nostre spiegazioni, hanno ritenuto opportuno diffondere una “lettera aperta”
nella quale ripropongono, sostanzialmente, i
loro interrogativi. Mi corre, pertanto, l’obbligo
di ripetere le mie risposte con le stesse modalità della “lettera aperta”.
1) Come sono stati selezionati i gestori?
Premesso che il Fondo di previdenza complementare dei giornalisti Italiani, in quanto
vecchio fondo, non aveva l’obbligo di individuare soggetti esterni né per la gestione
amministrativa, né per la gestione finanziaria
né tantomeno per la banca depositaria, il
Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di
assumere come propria scelta le indicazioni
previste dalla legge per i nuovi fondi, al fine di
garantire il massimo di economicità e di
trasparenza. Per questo è stata compiuta una
selezione rigorosa chiamando 11 istituti finanziari italiani e 6 stranieri. Dopo un attento
esame, che è durato inevitabilmente alcuni
mesi, abbiamo affidato alla Banca Commerciale il compito di banca depositaria, alla
Previnet la funzione di gestore amministrativo,
alla Banca Fideuram e al Gruppo olandese
Ing la gestione finanziaria.
Il criterio principale che ci ha ispirato nella
scelta è stato quello dell’affidabilità e solidità
degli istituti. A parità di affidabilità è stato scelto il gestore che offriva costi più bassi.
Un ulteriore criterio di valutazione ha riguardato le funzioni affidate ai singoli gestori. Si è
ritenuto di non dover affidare allo stesso
soggetto il compito di banca depositaria e di
gestore finanziario, proprio perché il compito
della banca depositaria è quello di controllare
la correttezza operativa del gestore finanziario. Si è ritenuto opportuno, inoltre, individuare
un gestore amministrativo che avesse già
maturato una consolidata esperienza nella
gestione di fondi complementari e che fosse
collegato operativamente e societariamente
con la banca depositaria al fine di garantire il
massimo di funzionalità. Si sono, poi, individuati 2 gestori finanziari, e non uno solo, in
modo da assicurare “concorrenzialità” tra investitori e garantire agli iscritti il massimo di
redditività. Nella scelta dei gestori finanziati ci
siamo orientati verso un gestore nazionale e
un gestore internazionale individuandoli, a
parità di costi e di solidità aziendale, tra coloro
che avessero maturato esperienza nella
gestione di fondi pensione complementari.
2) Quali sono le condizioni della delega ai
gestori nel patrimonio dei fondi? Il patrimo-
nio del fondo sarà diviso in parti uguali tra i
due gestori che definiranno ciascuno i tre
comparti di investimento. La gestione viene
parametrata su bench-marks che diventeranno metro di valutazione dell’efficacia della
gestione stessa. I gestori acquisteranno direttamente i titoli sui mercati. I costi di gestione,
comprensivi tra lo 0,1 e lo 0,3% a seconda
della scelta dell’investimento (obbligazionario
Euro, obbligazionario extra Euro, azionario
Euro, azionario extra Euro).
3) Come si intendono coinvolgere gli iscritti nella scelta della politica di investimento? Lo Statuto del fondo (art. 29) prevede la
facoltà di istituire (anche in ragione delle
dimensioni patrimoniali) sino a tre comparti di
investimento. Sino ad oggi il fondo ha operato
con un solo comparto ispirato al massimo di
garanzia e quindi con investimenti in titoli di
stato o garantiti dallo stato. Con l’affidamento
a terzi della gestione finanziaria il Consiglio di
Amministrazione ha deliberato di procedere
entro l’anno alla definizione di tre comparti: il
primo di assoluta garanzia e, quindi, di redditività contenuta, formato al 100% di obbligazioni; il secondo, più bilanciato, formato da un
80% di investimenti obbligazionari e un 20%
di investimenti azionari; un terzo comparto
formato da un 60% di obbligazionario e un
40% di azionario. I tre comparti entreranno in
funzione con il primo gennaio 2001 ed entro
quella data tutti gli iscritti saranno messi in
grado di poter scegliere il comparto preferito.
La possibilità di scegliere tra una rosa più
ampia di fondi con diversi gradi di rischio
(peraltro non è adottata da nessun fondo di
previdenza complementare), è da escludersi
sia perché non prevista dallo statuto, sia
perché comporterebbe costi di gestione non
sopportabili.
4) È legittimato l’attuale Consiglio di Amministrazione a compiere scelte così delicate? La risposta non può essere che affermativa. Lo Statuto del fondo, approvato dalla
Covip, prevede (art. 42) che in fase transitoria
i rappresentanti degli iscritti in seno al Consiglio di Amministrazione e al Collegio dei
Sindaci siano designati dalla Fnsi “sino all’approvazione del bilancio relativo all’esercizio
dell’anno 1999”. Questa disposizione, che
legittima le scelte del CdA, è stata dettata
dalla necessità di rendere immediatamente
operativo il fondo.
5) Perché finora non è stato comunicato
alcunché sui conti individuali? Per il
semplice fatto che il gestore amministrativo, al
quale è affidato questo compito sta ricostruendo le posizioni individuali sulla base
della documentazione e dei dati forniti dalla
Casagit, che sino a marzo di quest’anno è
stato l’Ente esattore dei contributi. Si tratta di
un lavoro impegnativo e delicato che sarà
compiuto rapidamente. Entro l’anno saranno
fornite a tutti gli iscritti le singole posizioni individuali con l’indicazione dei contributi versati e
dei relativi interessi maturati. Mi auguro che
queste ulteriori informazioni siano sufficienti a
fugare i dubbi di tutti i colleghi.
Adempimenti Inps e Inail per i collaboratori coordinati e continuativi
Gli aspiranti pubblicisti devono essere
iscritti alla gestione separata dell’Inps (e
anche all’Inail, qualora siano titolari di un
contratto di collaborazione coordinata e
continuativa).
1. In attuazione della delega di cui all’articolo
55 della legge n. 144/1999, si è prevista
l’estensione dell’assicurazione Inail ai lavoratori parasubordinati, purché svolgono le attività previste dall’articolo 1 del Testo Unico del
1965.
Sono soggetti all’obbligo assicurativo i lavoratori parasubordinati indicati all’articolo 49
(comma 2, lettera a) del Dpr 917/1986 e
successive modificazioni e integrazioni. Ai fini
dell’assicurazione Inail il committente è tenuto
a tutti gli adempimenti del datore di lavoro
previsti dal Testo Unico.
Il premio assicurativo è ripartito nella misura
di un terzo a carico del lavoratore e due terzi
a carico del committente, inoltre, ai fini del
calcolo del premio la base imponibile è costituita dai compensi effettivamente percepiti dal
collaboratore.
12
L’azienda che instaura un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa deve assolvere l’onere di presentazione della denuncia
di iscrizione entro trenta giorni dall’inizio del
rapporto.
Tra i soggetti destinatari della normativa in
esame, vi sono i percettori di reddito derivante dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, restano comunque esclusi
quelli che percepiscono tali redditi in via occasionale. Questa norma riguarda anche gli
aspiranti pubblicisti, che abbiano un
rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa.
Al fine di individuare i requisiti per la ricorrenza dei rapporti in esame si evidenziano gli
elementi caratteristici del rapporto di parasubordinazione:
■ La collaborazione
■ Il coordinamento
■ La continuità
■ La natura prevalentemente personale
della prestazione
Al fine di fornire ulteriori chiarimenti in ordine
alle problematiche connesse ai collaboratori
di giornali, riviste, enciclopedie e simili, si deve
distinguere l’ipotesi in cui viene ceduta un’opera dell’ingegno (articolo, servizio, progetto
grafico, servizio fotografico), di cui all’art. 2575
del Codice Civile, dai casi in cui si instaura un
rapporto di collaborazione a giornali e riviste
in relazione al quale l’oggetto della prestazione esula dalla disciplina relativa alla tutela del
diritto d’autore. Pertanto questi ultimi rientrano
senz’altro nella fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa che interessa ai
fini assicurativi (Inail), mentre chi cede il diritto
d’autore non va assicurato con l’Inail.
2. Invece dal punto di vista previdenziale, si
ricorda che i collaboratori (non iscritti all’Albo, come gli aspiranti pubblicisti) debbano
essere iscritti presso la gestione separata
INPS, la quale è finalizzata all’assicurazione
generale obbligatoria per l’invalidità, la
vecchiaia e i superstiti, come previsto dall’art.
2 comma 26, della legge n. 335/1995, inoltre,
si precisa che non sono tenuti al pagamento
del contributo i collaboratori occasionali e i
liberi professionisti in quanto già assicurati
presso le rispettive casse professionali, relativamente ai redditi assoggettati a contribuzione presso le stesse casse.
In riferimento agli adempimenti relativi all’iscrizione, si ricorda che i collaboratori coordinati
e continuativi debbono comunicare all’Istituto
di previdenza sociale i seguenti dati: l’attività
svolta, i propri dati anagrafici, il numero di
codice fiscale e il proprio domicilio.
Per quanto riguarda il pagamento del contributo, la norma stabilisce che il relativo obbligo
grava sul committente, il cui ammontare è pari
al 10% per i soggetti che già dispongono di
una copertura previdenziale (es. lavoratori
dipendenti), mentre per quelli privi della copertura l’aliquota è pari al 13% (aliquota aggiornata dal 1° gennaio 2000). In entrambe le fattispecie, le percentuali sono ripartite nel
seguente modo: 2/3 a carico del committente;
1/3 a carico del collaboratore. Il versamento
dei contributi deve essere eseguito entro il
giorno 16 del mese successivo a quello della
corresponsione dei compensi.
Dott. Salvatore GENTILE
Studio Marcianesi
ORDINE
6
2000
Riguarda anche
le professioni liberali
(compresa quella
di giornalista)
Il provvedimento dovrà
ricevere il via libera
dell’Europarlamento
entro giugno
di Enrico Brivio
Dopo anni di tormentati dibattiti, taglia il
traguardo la direttiva europea contro i ritardi
nei pagamenti commerciali. La normativa,
approvata ieri dal Consiglio dei ministri Ue
dell’Industria, stabilisce un termine massimo
di 30 giorni per il saldo della fattura (qualora
una scadenza non sia concordata tra le
parti), fissa interessi di mora automatici e
impone ai Governi di fornire al creditore un
titolo esecutivo “di norma entro 90 giorni” se
la liquidazione non avviene a termine”.
Obiettivo della direttiva è limitare il vizio diffuso di Pubbliche amministrazioni e aziende di
ritardare il saldo delle fatture. Una cattiva
abitudine particolarmente diffusa in Italia
(nella Ue solo Grecia e Portogallo registrano
tempi medi di insolvenza peggiori). Ma la
direttiva fissa anche un traguardo ambizioso
per il Governo italiano, imponendo meccanismi efficienti e poco costosi per il recupero
credito, in grado di arrivare a un provvedimento esecutivo entro tre mesi. “Questa
direttiva è un altro vincolo esterno che
aiuterà l’Italia ad essere più virtuosa — ha
commentato il ministro dell’Industria, Enrico
Letta —. La sua approvazione è un fatto
positivo che aiuterà ad eliminare la consuetudine un po’ levantina di pagare in ritardo e
imporrà di essere più competitivi in Europa”.
Anche il commissario europeo all’Impresa,
Erkki Liikanen, ha salutato con favore il via
libera del Consiglio, sottolineando i “danni
arrecati dai ritardi nei pagamenti soprattutto
alle picccole e medie imprese”. Secondo le
Direttiva Ue alle imprese:
pagamenti entro 30 giorni
per transazioni e collaborazioni
stime della Commissione Ue, il 25% dei fallimenti delle aziende comunitarie, con la
perdita di circa 450mila posti di lavoro, sono
causati da ritardi nei saldi delle fatture. Oltre
il 20% delle imprese europee potrebbe
esportare di più, con scadenze di pagamento più brevi.
La direttiva prevede che, dal giorno successivo alla scadenza concordata dalle parti o
— se questa non c’è — 30 giorni dopo il ricevimento della fattura, scattino interessi di
mora a favore del creditore pari al tasso di
riferimento della Banca centrale europea,
aumentato di sette punti percentuali (salvo
diverse disposizione del contratto). A meno
che il debitore non sia responsabile del ritardo, “il creditore ha il diritto di esigere un risarcimento ragionevole per tutti i costi di recupero sostenuti a causa del ritardo”. Per alcune categorie di contratti, i Governi potranno
elevare fino a 60 giorni il periodo che fa scattare gli interessi, a patto che si tratti di un
termine inderogabile con un tasso d’interesse sensibilmente superiore a quello legale di
mora sopra stabilito.
Gli Stati vengono poi chiamati a fornire un
titolo esecutivo “di norma entro 90 giorni di
calendario dalla data in cui il creditore ha
presentato un ricorso o ha proposto una
domanda dinanzi al giudice o altra autorità
competente, ove non siano contestati il debito o gli aspetti procedurali”. Anche le
professioni liberali (compresa quella di
giornalista, ndr) vengono assoggettate
alla direttiva, senza tuttavia obbligare gli
Stati ad equipararli alle imprese. La direttiva dovrà essere recepita entro due anni, a
Lasciano posizioni di rilievo nella carta stampata per
dirigere i portali. Spirito d’avventura e stipendi più alti
partire dalla formale adozione dell’Europarlamento, prevista per giugno.
Secondo il presidente di Confartigianato,
Ivano Spalanzani, la direttiva rappresenta
“una svolta storica per il sistema delle piccole imprese italiane”, mentre per il direttore
generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, è significativo il fatto che la normativa
Ue, a differenza di quella nazionale, contempli anche la Pubblica amministrazione. “Mi
auguro — dice — che nel recepire questa
direttiva l’Italia imponga alla pubblica amministrazione tempi brevi e soprattutto da
rispettare”.
(Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2000)
Sacerdote (e giornalista)
condannato per calunnia
Milano, 16 maggio. I giudici della quarta sezione del tribunale penale di Milano hanno condannato a un anno e 4
mesi di reclusione un sacerdote, don Tommaso
Mastrandrea, ritenuto colpevole di calunnia nei confronti del giornalista Franco Abruzzo, presidente
dell’Ordine giornalisti della Lombardia.
Commentando la vicenda relativa a una scuola di
giornalismo avviata a Bergamo, e che aveva determinato una condanna del garante per pubblicità ingannevole, Abruzzo aveva fatto dichiarazioni ritenute diffamatorie dal sacerdote al vertice della scuola in
questione. Ne era nata una causa conclusasi con
l’assoluzione di Abruzzo e con la controdenuncia
per calunnia nei confronti di don Mastrandrea, per
il quale il pubblico ministero in aula ha chiesto un
anno e sei mesi. Il tribunale, oltre alla pena detentiva, ha condannato il sacerdote a risarcire i danni
ad Abruzzo, costituitosi parte civile con l’assistenza legale di Raffaele Di Palma.
(ANSA)
Ricerca dell’università di Stanford sui giornali on line I lettori virtuali “monitorati” con telecamere e sensori
Sempre più giornalisti Le notizie su Internet:
presi nella rete
vince la parola scritta
di Anna Masera
Nini Briglia, direttore di Panorama, è stato
appena nominato direttore editoriale di
Mondadori.com, il portale Internet della
casa editrice di Segrate. Pietro Calabrese,
ex direttore del Messaggero, sarà il capo
dei contenuti del futuro portale della Rcs
(Rizzoli-Corriere della Sera). Massimo
Donelli, ex condirettore di Panorama, è da
qualche mese “chief content officer” del
portale Ciaoweb del gruppo Fiat-Ifil. Sergio
Luciano, ex giornalista economico de La
Repubblica, ha lasciato il quotidiano per
dirigere i contenuti del portale E.Biscom,
che vuole sviluppare in Italia attività Internet nell’area delle comunicazioni multimediali a larga banda.
E anche Alan Friedman è impegnato
nell’allestimento di un grande sito Internet
italiano dedicato alla finanza personale. Sta
diventando una tendenza: i giornalisti
lasciano la carta stampata per buttarsi su
Internet. È l’indice di una crisi o di un’opportunità?
“È una naturale evoluzione. Questo universo internettiano è stato costruito, gestito e
governato per un tempo lunghissimo da
informatici, uomini e donne esperti di
tecnologie, ma non di come si fa informazione.
Oggi si è capito che il valore aggiunto lo dà
la capacità di creare contenuti: questo è un
mestiere che si fa nelle case editrici e che
sanno fare meglio di tutti i giornalisti,
soprattutto quelli che hanno esperienza di
management, cioè i direttori dei giornali”
sostiene Massimo Donelli, 46 anni, di cui
32 vissuti nelle redazioni.
Donelli, che ha cominciato a fare il giornalista nel 1967 alla redazione genovese della
Gazzetta dello Sport, è passato per il
Secolo XIX, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Sole 24 Ore, e poi ha lavorato dieci
anni in Mondadori, dove ha diretto Epoca e
ORDINE
6
2000
alla fine è stato condirettore di Panorama
assieme a Briglia. Lavora in Internet da
meno di cento giorni: “Sono passato da
pane e giornali a pane e bit, catturato dai
cacciatori di teste della Egon Zender, ed è
stata la cosa più bella che mi potesse capitare” racconta Donelli. “Non butto via nulla
di tutto quello che ho imparato nel sistema
editoriale italiano, anzi, mi è prezioso,
soprattutto per il sistema di relazioni e
conoscenze.
Internet richiede flessibilità, rapidità di
pensiero e velocità di esecuzione. Nei giornali, su tutti questi fronti ho avuto dei bravi
maestri”. A Ciaoweb, per sviluppare i contenuti Donelli dirige una squadra di 40 persone. Di cui ancora sei da assumere (gli eventuali interessati possono mettersi in contatto
collegandosi al sito www.ciaoweb.it).
“Per lasciare i giornali e dirigere un portale
bisogna avere la forza e la sventatezza di
rimettersi in gioco” avverte Donelli. “Questo
di Internet è un mondo pieno di incognite.
Di certo non c’è nulla. Si lavora tantissimo.
E senza rete di salvataggio. Mi sento in una
fase di mutazione genetica, mezzo uomo e
mezzo cavallo.
Fra due anni, sarò diverso da quello che
ero. Nel frattempo, mi aspetto che altri
colleghi vengano a bordo”. È proprio di
questi giorni un articolo della rivista americana Red Herring (www.redherring.com)
dal titolo: “Saranno i giornalisti i nuovi milionari dei media?”, in cui si analizza la
trasformazione della professione giornalistica ai tempi della “new economy”. Se non
altro, dal punto di vista economico: perché
passando dalla carta ai bit, i tanto richiesti
giornalisti si vedono offrire cifre da capogiro. Sostiene l’amministratore delegato di
Line56.com, un sito informativo citato da
Red Herring: “Per portare via un giornalista
dalla redazione di un giornale, l’unica è
pagare. E pagare bene”.
(La Stampa, 9 maggio 2000)
di Liliana Di Donato
Occhio al testo, trascurando spettacolari foto
e grafici variopinti: in Rete le notizie si leggono così. Con sommo disappunto dei profeti
della multimedialità e dei fautori dell’informazione fatta di lettere, suoni e immagini. Poco
importa che Internet sia allo stesso tempo
giornale, radio e televisione: a “tirare” è la
parola scritta.
Il sorprendente identikit del lettore di news
online è stato tracciato in una ricerca della
Stanford University realizzata in collaborazione con il Poynter Institute: il 92 per cento
di chi legge abitualmente giornali elettronici
si sofferma per prima cosa su titoli e articoli,
mentre poco più della metà (64 per cento) si
lascia attrarre dalle fotografie e appena due
su dieci guardano il corredo di schede e
grafici. “Può essere un retaggio del passato,
di un Web lento e primitivo”, cerca di spiegare Chris Charron, analista della Forrester
Research, autorevole centro studi statunitense. “Su Internet le immagini hanno una
qualità minore e vengono visualizzate più
lentamente”, aggiunge Steve Outing, commentatore della rivista di comunicazione
Editor&Publisher. “È il contenuto quello che
interessa”, precisa, invece, Andrew DeVigal,
uno degli autori della ricerca.
Navigare a caccia di notizie, dalla cronaca
del giorno alla quotazione delle azioni appena comprate, è cosa ben diversa dall’aprire
pigramente il giornale a colazione, comodamente seduti in poltrona. Allora sì - e lo stesso Poynter Institute lo ha dimostrato in un
analogo studio sulle abitudini dei lettori di
quotidiani - che lo sguardo scivola sulla foto
a colori o sull’illustrazione accattivante, per
concentrarsi solo in un secondo momento
sul contenuto dell’articolo. Su Internet è tutta
un’altra cosa: una veloce occhiata allo schermo e un’impercettibile pressione sul mouse.
Il che non significa che on line ci siano solo
lettori distratti: anzi, arrivano almeno a tre
quarti dell’articolo scelto, a differenza di quelli che, giornale alla mano, si fermano ben
prima della metà.
Ma come è possibile monitorare la lettura
virtuale? Una telecamera a raggi infrarossi,
montata sulla testa dei 67 partecipanti allo
studio e collegata a un computer, ha registrato il movimento delle pupille (da un sito
all’altro e all’interno della stessa pagina), le
pause per la lettura e i clic sul mouse. Il tutto
è stato poi elaborato in modo da determinare il punto preciso dove si appunta il primo
sguardo, quanto tempo ci rimane e in quale
direzione si sposta.
Alla fine di 40 ore di navigazione collettiva, i
“cacciatori di notizie” (reclutati tramite inserzioni sui quotidiani elettronici di Chicago e
St. Petersburg tra i lettori abituali di news on
line) avevano visitato quasi 6.000 pagine,
cliccato più di 24.000 volte fermato gli occhi
addirittura 608.000. Crimini e disastri si sono
rivelati, senza dubbio, l’argomento di
maggiore interesse (80 per cento). Gli uomini si sono soffermati di più sulla politica e
sulla cronaca nazionale, ma sono stati eguagliati dalle donne sullo sport (70 per cento).
Le notizie di carattere locale attirano soprattutto i trentenni, mentre scienza e sport la
fanno da padroni fra i giovani. Tutti, infine,
preferiscono le testate vere e proprie (dal
New York Times a Usa Today) al servizio di
news personalizzate fornito dai portali come
Yahoo ed Excite. Un buon segno per i giornali on line, i cui bilanci negli ultimi tre mesi
del 1999 erano ancora in rosso, nonostante
un continuo aumento dei lettori.
Lettori, quelli elettronici, che, comunque, non
abbandonano la tradizione della carta stampata. Il giornale resta, come diceva Hegel,
“la preghiera mattutina dell’uomo moderno”:
solo che il rito laico di sfogliare pagine grigie
di inchiostro davanti a caffè e brioche si
rinnova nell’abitudine telematica di cliccare
sullo schermo scintillanti pagine virtuali.
(da Repubblica-on line, 6 maggio 2000)
13 (21)
Convegno il 16-17 marzo 2000 Università degli Studi di Firenze
“Donne e giornalismo”
Politica e cultura
di genere nella stampa
femminile
a cura di Paola Pastacaldi
Si è svolto a Firenze all’auditorium
dell’archivio di Stato, il 16 e il 17
marzo, un nutrito incontro sul tema
“Donne e giornalismo”, con un’attenzione alla “Politica e alla cultura di
genere nella stampa femminile”, organizzato dall’Università degli Studi,
presidenza della facoltà di Lettere e
Filosofia, dipartimento di Studi storici
e geografici e di Filologia moderna e
dall’Archivio della scrittura delle donne in Toscana.
Dal primissimo Giornale della dame
con i suoi accenni non solo alle mode
ma anche ad un minimo di emancipazione, sino all’analisi del linguaggio e alla
scrittura di tipo letterario giornalistico, come è stato il caso di Anna Banti, ricercatrici e cattedratiche più o meno istituzionali, hanno vagliato i giornali femminili,
dalla catalogazione come è accaduto in Lombardia e Toscana alla critica sui
contenuti. Ne è emerso un quadro che parte dal ’700 e che arriva a metà ’900,
quanto mai interessante per come ha rilevato gli spunti di una certa cultura che
preludeva al femminismo e di come questa ha condizionato lo sviluppo della
stampa per le donne e delle donne.
La Bibliografia dei periodici lombardi 1786-1945
In Lombardia 500 femminili
Sfogliando la Bibliografia dei periodici
milanesi lombardi 1786-1945, un volume di quattrocentocinquanta pagine,
(Editrice Bibliografica, lire 45.000),
scopriamo che il panorama femminile
dei giornali non è esclusivamente
dedicato ai valori tradizionali delle
quattro mura domestiche come si
potrebbe supporre.
Certo tra i temi predominano l’eleganza, la moda come obbligo per signore
e signorine, che vogliano dimostrare
di essere degne di tale nome, i figurini
francesi, le gioie dell’essere mamma
e puericultrice perfetta, nonché l’ideale della mogliettina, custode del focolare, mentre all’uomo spetta la lotta col
mondo.
Ma spulciando nella ricca bibliografia
e avendo la pazienza di farne una
lettura in chiave antologica, come si
trattasse di un racconto storico, nelle
sue dettagliate e preziose schede
spuntano le prime idee di rivendicazioni, di ricerca di un ruolo autonomo, di
14 (22)
un bisogno di essere se stesse, che
oggi sembra avere raggiunto il suo
massimo livello, almeno stando alle
ricerche dell’Eurisko sull’immagine
della “donna nuova”.
Gli editori dell’Ottocento sentirono il
bisogno di allargarsi a nuovi mercati
alla ricerca di un successo economico
che nel secolo successivo sarà dominante, grazie all’aiuto del marketing.
Dunque, nella Milano dei giornali che
hanno avuto grande influenza sulla
cultura, come Il Caffè dei Verri e dei
Beccaria o de Il Politecnico di Cattaneo, quando gli stampatori decisero di
allargare il pubblico dei lettori ebbero
l’intuizione, squisitamente economica,
di rivolgersi proprio al pubblico femminile, come ha sottolineato Ada Gigli
Marchetti, professore di Storia del giornalismo della facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano, nella sua
presentazione del volume a Firenze.
“Il capoluogo lombardo non fu solo
centro di produzione culturale ma
anche patria di editori imprenditori che
seppero coniugare con le motivazioni
le ragioni del profitto”. L’arco cronologico di indagine parte dal 1786 con la
prima rivista femminile Il giornale delle
dame e delle mode di Francia e si
conclude con il 1945, anno della liberazione. “L’indagine si è fermata al
periodo del secondo dopoguerra,
ovvero al momento in cui la stampa
diventa specchio di una realtà femminile che ha rotto col passato. I pezzi
sono cambiati nei toni e nei contenuti,
sono cambiati i temi delle indagini e
delle discussioni. È cambiata la donna, perché è cambiato il ruolo che
essa ha conquistato nella società”.
Le consumatrici della stampa sono
diventate un pubblico emancipato e
consapevole di sé e dei propri bisogni.
Ben lo sanno oggi i direttori delle
testate e del marketing e i pubblicitari:
sulla nuova donna e i suoi molteplici
ideali di autorealizzazione grava oggi
un impero di consumi.
La nascita del rotocalco
femminile
Con l’arrivo di segretarie, dattilografe, cameriere, commesse e telegrafiste, tanto celebrate dai romanzetti rosa e dal cinema,
nasce in Italia il nutrito mondo delle fedeli
lettrici dei rotocalchi. Siamo negli anni Trenta
e i primi rotocalchi ad apparire nelle edicole
si chiamano Eva (Milano, Casa editrice
Gloriosa) e Lei (Milano, Rizzoli, che dal 1938
diventerà Annabella). La nuova veste editoriale prevede stampa su carta leggera e
soprattutto le immagini, che tanta forza
avranno poi negli anni a venire. Primo effetto
economico dovuto alle rotative, il costo si
abbassa: Lei ed Eva costano appena 50
centesimi, mentre Rakam settimanale una
lira e mezza, Cordelia 4 lire, e Sovrana addirittura 8 lire. Con il nuovo mercato si avvia
una mini rivoluzione dei prezzi e anche
Sovrana abbassa da 8 lire a 5. Quello che
conta però è che le nuove testate sono
l’espressione di una strategia editoriale rivolta ai nuovi soggetti sociali del mondo femminile. Ma cambieranno anche i contenuti? Lo
spiega con vivacità Silvia Salvatici, autrice
tra l’altro di un libro sul lavoro femminile nelle
campagne italiane tra gli anni Venti e Trenta
(Contadine dell’Italia fascista, Torino, Rosenberg e Sellier, 1999) che a Firenze ha parlato sul tema “La nascita del rotocalco femminile nell’Italia fra le due guerre”. La letteratura rimane un punto di forza e continuità
rispetto alle riviste femminili. Nei rotocalchi si
pubblicano racconti e romanzi a puntate
firmati da scrittrici italiane anche di successo
e autori stranieri, soprattutto anglosassoni.
Racconti e romanzi a puntate hanno come
protagonisti le attrici che debuttano a
Hollywood, le centraliniste implicate in storie
con gangster, gli amori sbocciati fra i clienti
in un grande magazzino. Molti dei temi spesso sono già familiari attraverso il cinematografo. Arriva così la descrizione del bel
mondo con i suoi splendori e le bizzarrie,
scandali e pettegolezzi fanno la loro prepotente comparsa. Di Greta Garbo, Jean
Harlow, Joan Crawford, ma anche Elsa
Merlini e Assia Noris e Isa Miranda si celebra la bellezza e si esalta la fama con dettagli su matrimoni e divorzi e abitazioni da
favola. Iniziava dunque allora quel mondo
giornalistico del gossip che tanto spazio
avrebbe avuto in futuro sino ai giorni nostri.
Le nuove lettrici vivono anche una vita diversa ed eccole all’attacco del sociale con
nuove regole di comportamento. Eva pubblica il Piccolo galateo moderno su come
comportarsi nelle buie sale del cinematografo; le buone creanze sono per le donne
più libere un problema. Con i nuovi spazi
nascono i nuovi codici. E arriva lo sport,
l’equitazione, il tennis, il nuoto e lo sci.
Nascono le prime rubriche fitte di esercizi da
fare da sole per acquistare consapevolezza
del proprio corpo. Quanta strada ha fatto la
bellezza dagli anni Trenta a oggi, quando
ormai la rivendicazione della cura del corpo
non ha più il sapore della libertà ma piuttosto del consumismo più schiavizzante.
Nasceva dunque con i rotocalchi la figura
della donna sportiva, che esibiva un lieve
piglio emancipazionista. Tanto che il regime
fascista fu costretto ad elaborare una propria
politica del corpo femminile. Eva era troppo
spregiudicato anche nel linguaggio, usava
neologismi e lasciava passare anche parole
straniere. Ma sono soprattutto le foto a caratterizzare i nuovi giornali. Grandi immagini ad
effetto su moda, cinema esercizi ginnici.
Esaltare la fisicità in ogni pagina, dove
campeggia per la prima volta la figura della
donna. Troppo per il regime fascista che già
nel ’36, quando con la sua politica autarchica interviene non solo nella sfera economica
ma anche in quella culturale. Le pagine di
Eva e Lei si fanno più scialbe riducono le
immagini e lasciano più spazio alla narrativa
e alle informazioni di regime. Nascono nel
frattempo anche Gioia (1937) e Grazia
(1938), come prosecuzione di Sovrana. La
donna ritorna in cucina, tra i fornelli e i
bambini, temi cari alla propaganda fascista.
Rimane comunque fondamentale l’arrivo dei
rotocalchi: prima stampa a larga diffusione
capace di catturare i nuovi soggetti del lavoro, stimolare i loro consumi.
Il Corriere delle Dame
non solo moda
Il Corriere delle Dame percorre quasi tutto
l’arco dell’Ottocento; è dunque uno dei periodici femminili che meglio consente di ricostruire opinioni e ideologie delle donne”, così
si legge nella Bibliografia dei femminili
lombardi alla voce Il Corriere delle Dame, a
pagina 67. E in effetti leggendo le nove pagine di storia si scopre come questo giornale,
nato a Milano nel giugno del 1804 e vissuto
sino al luglio del 1875, nella sua lunga vita
abbia avuto anche interessanti momenti di
aspirazione ad un modello nuovo di libertà e
ORDINE
6
2000
Dal libro Dalla crinolina alla minigonna, di Ada Gigli Marchetti,
su La donna, l’abito e la società dal XVIII al XX secolo Clueb,
Bologna, 95, si sono ricavate queste tavole.
Il Corriere delle Dame (dal 1804 al 1875), Milano
non sia stato, dunque, solo il giornale delle
mode e dei figurini. Nel 1848 la direzione
aveva da poco deciso di allargare il Corriere,
dedicando alle signore crestaje e sartore l’album La ricamatrice ricco di ben quattro pagine, quando il 18 marzo del ‘48 Milano si ribellò agli austriaci e il Corriere fu preso da un
entusiasmo incontenibile che si allargò
anche alla moda (proponendo coccarde e
sciarpe tricolori, simbolo di italianità). Alla
prima guerra d’indipendenza il Corriere
proseguì nei suoi toni entusiastici in rubriche
fisse come Cose della guerra. Ma nel ’50 già
ripiegava sul modello della donna dolce e
tenera tutta, dedita ai doveri della famiglia. E
nel 1851 giudicava persino inopportuna la
presenza femminile nel mondo del lavoro. Le
donne dovevano essere solo madri mogli e
spose, e il Corriere non approvava certo giornali come Eva redenta di Torino o L’Ape di
Napoli, scritti solo da donne per le donne.
Dieci anni dopo la moda ebbe di nuovo il
sopravvento sulla politica e i temi preferiti
tornarono ad essere le cronache teatrali, i
viaggi e le scene di vita. Il mondo femminile
si rifece stucchevole tutto incentrato su
moda, figurini e amore coniugale. Solo a
guerra d’indipendenza conclusa, si ritornò a
a parlare della questione delle donne, ed fu
in particolare il libro di Anna Maria Mozzoni
sui diritti delle donne a scuotere le acque: il
Corriere però in un articolo sull’emancipazione delle donne stigmatizzò bollando la
questione come una insubordinazione. Nella
rubrica Economia domestica dominano sempre più grandi tavole di ricamo. Poco favorevole a discutere la questione dei diritti delle
donne e della parità, nel ’72 il giornale si
fonde con La Moda e nel ’74 con Il giornale
delle famiglie. La ricamatrice, entrando nella
casa editrice Sonzogno. E la donna torna
buona solo per le calze. Nel giro di un secolo, dopo varie battaglie di liberazione e
conquiste di posizioni sociali e lavorative da
parte delle donne, sarà di nuovo la moda a
dominare gli spazi nei giornali femminili e
non solo. E a fare delle donne emancipate e
liberate delle eterne mannequin.
La Novità giornale di moda della Sonzogno, ottobre 1867
Scrittrici e giornali
Dal ’30 al ’50
Le ore casalinghe (dal gennaio 1851 al
dicembre 1863), Milano
Dal Bello al Bene ottobre, 1897
ORDINE
6
2000
Sul tema della relazione tra scrittrici e giornali nel periodo che va dagi anni Trenta ai
Cinquanta ha elaborato un delizioso intervento, ricco di spunti di costume e di moda,
Margherita Ghilardi, ricercatrice dell’archivio
contemporaneo del gabinetto Viessiuex di
Firenze, uno dei più antichi istituti culturali
italiani (che fu diretto anche da Eugenio
Montale).
Negli anni Trenta la voga dei capelli alla
garconne provocò molti interventi nei giornali, alcuni firmati da scrittrici di fama, che
considerarono il taglio dei capelli come uno
atto di ribellione ad una certa cultura del
femminile. Veniamo così a sapere che si
chiamava Attilio il principe dei parucchieri
romani che recise la chioma “lunga e gloriosa” della scrittrice Sibilla Aleramo (autrice di
molti romanzi al femminile), quasi un omaggio all’impertinente Colette. Sibilla dedicherà
al tema capelli corti anche una prosa su
Novelle Novecentesche. Era lo stesso anno
in cui Critica fascista proponeva un modello
di mogli e fidanzate che sapessero diventare
“tre, cinque e dieci volte mamma e in più
poco eleganti, non troppo belle, di corporatura normale e poco accurata”. Iniziava,
secondo la scrittrice, non tanto una civettuola ribellione, ma una consapevole forma di
emancipazione. Scriveva Sibilla Aleramo che
col taglio dei capelli la donna avrebbe acquistato “una coscienza il più possibile chiara
della diversità tra la sua compagine intellettuale e quella virile e, in luogo di averne onta,
saprà metterla in valore e farla accettare
all’uomo, quale elemento non già inimico ma
integratore”. La nuova pettinatura fu definita
da Il Giornale d’Italia “una risorsa della fantasia, dello svolazzo, del gorgheggio e talvolta
puro capriccio”. I capelli saranno un argomento privilegiato delle rubriche come lo
saranno i cappelli. Tanto che Paola Masino,
la scrittrice vicina alla rivista 900 e a Bontempelli (autrice tra gli altri di libretti d’opera)
nella rubrica della Piccola posta su Vie
Nuove ne farà oggetto di una satira. “Vi sono
stati insegnati soltanto dei vieti luoghi comuni: primo tra tutti quello che il mestiere della
donna è un matrimonio e che importante è
nella vita accalappiare un gonzo qualsiasi
che ci porti in città. La cosa migliore sarebbe
quella di leggere buoni libri”. Dai capelli all’educazione, abilità delle scrittrici di passare
da una tema all’altro: è una Maria Bellonci
(l’organizzatrice dello Strega) non ancora
trentenne nè autrice così celebrata, che nella
terza pagina del Popolo di Roma, intitolata
L’altra metà, scrive tra il profetico e il polemico contro la rapida diffusione sul mercato
degli “infidi romanzi matrimoniali che scivolano con disinvoltura su questioni vitali dell’esistenza femminile”. Su Oggi, con lo pseudonimo di Antonio Carrera, la ventinovenne
Margherita (dal 1878 al 1921), fratelli Treves
Fantasie d’Italia nato nel 1925
15 (23)
“Donne e giornalismo”
Politica e cultura
di genere nella stampa
femminile
Elsa Morante (l’autrice de La Storia e de
L’isola di Arturo) scriverà con ironia in un articolo quasi a colpi di fioretto dal titolo Facce
False di come sarebbe bene “lavorare al viso
dal di dentro, dedicando l’ora della maschera
ad ascoltare la Serenata di Mozart o a leggere i sonetti del Petrarca”.
Anna Banti non sarà da meno della Morante
nella sua Artemisia pubblicata sulle pagine
di Oggi, che con sarcasmo e biasimo descriverà il mortificante pomeriggio trascorso da
un gruppo di signore impellicciate e dipinte
di lacca ad una sfilata di mode. Un esercizio
stilistico, questo delle scrittrici sui giornali,
che le porterà a sperimentare sulla pagina
come prendere le distanze dalla letteratura e
accostarsi al giornalismo.
Scrive Margherita Ghilardi nel suo intervento: “Le signore del romanzo varcano la soglia
della camera da letto, si sottraggono allo
spazio limitato e imparano a guardare altrove. Disertato il pezzo di costume si cimentano senza bisogno di pseudonimi con il
commento alla cronaca, l’inchiesta e il reportage”.
Così la scrittrice Maria Ortese (di lei ricordiamo Il mare non bagna Napoli del ’53), il 23
marzo del 1952, scriverà un polemico intervento sul chiacchieratissimo processo a
Maria Pia Bellentani paragonandola ad una
piccola Bovary del dopoguerra. “Il manicomio
come il penitenziario si mostrano squallidamente inadatti a riceverla. Nè pazza nè criminale, semplicemente perduta in un mondo
privo di ragione e di amore in una società
profondamente indifferente e corrotta”.
Nel ’57 la ventinovenne scrittrice Francesca
Sanvitale iniziava sulla terza pagina del Giornale del Mattino una inchiesta a dodici puntate intitolata La donna oggi in Italia. L’autrice
affrontava in chiave giornalistica i temi dell’istruzione, del lavoro, della maternità, del
matrimonio, della partecipazione politica,
della bellezza e della moda. Confronta articoli della Costituzione con quelli del codice
riporta statistiche, tabelle, pareri di industriali
e psicologi. E l’inchiesta sarà, come scrive
Margherita Ghilardi, “uno stupefacente mosaico in cui la narratrice non perde mai d’occhio la consapevolezza della responsabilità
di ogni donna nella più o meno riuscita affermazione di sé. Non tutte le difficoltà si possono ascrivere al cattivo ordinamento sociale”.
Nove anni prima Natalia Ginzburg nel suo
Discorso sulle donne scriveva: “Le donne
hanno la cattiva abitudine di cascare in un
pozzo e di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro”.
È proprio in quel pozzo che le scrittrici non
hanno mai in realtà dimenticato di guardare.
La Massaia, numero 3, 15 luglio ’31,
Il giornalismo letterario
di Anna Banti
Dea, numero 1, novembre ’33
Vita Intima: (1891) un temerario
progetto culturale femminile
“Gli uomini hanno i loro giornali che leggono
per le vie, nei caffè, nei club, nei teatri, un po’
dappertutto e in ogni tempo; giornali gravi,
fitti di politica noiosa, alla quale tu volgi l’occhio e il viso con un’amabile smorfietta ...Oh
perché non potrai avere anche tu il tuo giornale, il giornale che viva la tua vita intima e
con una visita settimanale ti porti l’eco del
mormorio confuso della grande onda femminile; riveli a te stessa l’anima tua, s’occupi
della tua persona, della tua casa, di ciò che
più ami del piccolo mondo dove incontrastata regni e imperi?”. Con questo articolo,
firmato Neera, fondatrice e direttrice del giornale, iniziava il 3 giugno del 1890 le sue
pubblicazioni Vita Intima, settimanale voluto
da un gruppo di intellettuali, scrittrici e giornaliste, attive a Milano. Antonia Arslan,
docente di Letteratura italiana a Padova,
dipartimento di italianistica, autrice tra gli altri
di libro sulla scrittura femminile Dame, galline e regine (Guerini e Associati, Milano, ‘98),
ha studiato il caso di Vita Intima e descritto
come un progetto culturale temerario. Vita
Intima fu una testata dichiaratamente
16 (24)
“femminile”, nel periodo di massima fioritura
del giornalismo italiano, e a Milano, capitale
culturale e imprenditoriale dove era tutto un
nascere e fiorire di pubblicazioni, molte destinate alle donne, fra cui anche quelle emancipazioniste, che ahimè non avevano certo il
successo e l’autorità di cui godevano le riviste più moderate come Margherita, pubblicata dai fratelli Treves o Cordelia, diretta dalla
scrittrice Maria Majocchi Plattis.
“Nel 1880, secondo una statistica riportata
dall’Associazione della Stampa si pubblicavano a Milano 216 giornali, a Torino 155, a
Roma 147, a Firenze 101. L’Italia di quegli
anni sembrava effettivamente essere entrata
nel mondo della comunicazione e lettura di
massa. Molti articoli e rubriche, oltre che
giornali, erano espressamente preparati per
le donne. Si cercava di individuare una specificità femminile, dei bisogni femminili, un
dialogo femminile, un mondo a parte che il
giornale avrebbe aiutato a far riflettere, in
vista di una pari dignità rispetto al maschile.
Vita intima fu salutato come un fondamentale contibuto all’evoluzione della moderna
coscienza femminile”. Un giornale che mirava utopisticamente ad aiutare le donne a
ritrovare la strada e imparare ad opporsi a
paternalismi repressivi e zitellaggi senza
speranza. In Vita intima già si preannunciava
la categoria delle lettere, tipica dei femminili
e certo una delle pagine più lette, con il
nome ironico di “posta al confessore mondano”. Tra i collaboratori ricercati molti nomi di
prestigio della letteratura, come Verga,
Capuana, De Roberto e Matilde Serao. Tra
le rubriche del giornale, Il Colore del tempo
della marchesa Antonietta Torriani TorelliViollier, sempre ironica e informata su recensioni tetrali e moda. Dal diario di una brontolona sulla nostalgia del buon tempo andato
poi divenuta Ciarle, il Confessionale modano
tenuto da Padre Indulto, poi divenuto Dietro
le grate di Fra’ Brunone, L’arte di scrivere
insegnata da Consuelo. Il giornale purtroppo
vivrà un anno solo e probabilmente per
mancanza di fondi dovrà chiudere.
Lei, numero 1, 15 luglio ’33,
“Sarebbe un vero peccato che le donne scrivessero come gli uomini o assumessero
l’aspetto degli uomini: perché se due sessi
non bastano, considerando la vastità e la
varietà del mondo, come potremmo arrangiarci con uno solo?”. Così scriveva Anna
Banti (il suo vero nome era Lucia Lopresti,
era nata nel 1902 a Firenze) in uno dei suoi
numerossimi interventi sull’argomento che
più le stava a cuore, l’esistenza al femminile
e/o la riflessione sul disagio di essere donna.
Anna Banti raccolse una immensa collezione di articoli pubblicati su riviste e settimanali i più svariati Oggi, Il Mondo di Pannunzio,
La Patria, l’Illustrazione Italiana, Il Nuovo
Corriere, La Fiera Letteraria diretta da
Cardarelli, La Nazione, Il Corriere della Sera
e tanti altri. Il suo romanzo di successo fu
invece Artemisia (1947).
Sul timbro stilistico di Anna Banti scrittricegiornalista ha lavorato Enza Biagini, dell’Università di Firenze, producendo con una nota
di estremo interesse sulla qualità della scrittura giornalistica e ricchissima di citazioni
estratte dalle pubblicazioni di oltre
cinquant’anni di lavoro della Banti su riviste
e giornali. Gli articoli della Banti furono
sempre più dei racconti di costume che delle
prose, fu capace di creare in ogni articolo
fatti di stile. I modi della terza pagina furono
da lei trasferiti a quelli della rivista femminile,
come scrive Enza Biagini conservando
“caratteristiche quasi intemporali non solo
per la scrittura ma per un tono da tempo
sospeso” persino negli argomenti più drammatici. Lo stile letterario della Banti era
evidente non solo nei commenti come quello
su Gli inglesi a tavola, Oggi nel ’39, o sulla
Ginnastica per signora, su Il segreto del
fascino slavo o sugli articoli sull’arte poi
pubblicati in Quando anche le donne si misero a dipingere (La Tartaruga, Milano ’82) o
su Dedicato alle ragazze, apparso su Il
Mondo nel ’45, o su La mamma lavora
apparso su Rinascita nel ’63. Per la Banti
l’unica verità che riguardava il tema della
donna era questa: “Io credo nella parità dei
cervelli e mi pare che mi basti. Ieri, come
oggi, ciò che indago è la parità intellettuale
fra uomo e donna”.
A chi le chiedeva cos’è il coraggio lei replicava: “Le dico subito che diffido delle eroine
storiche. Credo invece nel coraggio silenzioso della donna di casa anche se non lo
considero producente ai fini di uno schietto
progresso”. E ancora: “Nessuna plebe è più
anonima della massa delle donne (siamo nel
’65, n.d.r.), il secondo sesso riunisce le funeste prerogative di una razza segregata e di
una classe sottosviluppata... Non c’è da star
allegri ma neppure da disperare. Tutto dipende dalle donne della nuova generazione...
Niente sarà loro regalato. Ma poiché il
mondo cammina, c’è da credere che l’appaORDINE
6
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renza di oggi a lungo andare sarà la sostanza di domani”. L’ultima parola, trentacinque
anni dopo, sembrerebbe essere la marea
montante di articoli, le migliaia di copertine
(quasi tutte) dedicati alle donne e alla moda,
alle donne e il fitness, alle donne e la casa.
Le donne sono diventate strumenti di marketing con la scusa dell’indipendenza e della
libertà. Ma, ricordando il credo di Anna Banti,
la parità intellettuale fra uomo e donna a che
punto è?
Due riviste
per le massaie rurali
Eva, numero 1, 15 aprile ’33
Tra il ’32 e il ’33, mentre si diffondevano i
rotocalchi al femminile, con spinte emancipazioniste, alle massaie si indirizzava il regime con la rivista La massaia rurale, giornale
di propaganda per lettrici contadine, della
sezione Massaie rurali dei Fasci femminili,
diffuso gratuitamente in duemila e cinquecento copie, diretta dalla nobile Anita
Cernezzi Moretti, prima donna laureata in
matematica a Pavia. Perry Wilson, ricercatrice dell’Università di Manchester, è intervenuta con una gustosa ricerca, ricca di annotazioni ironiche sul paternalismo delle stesse
donne che redigevano la rivista. “L’obiettivo
de La Massaia rurale era quello di raggiungere le contadine più robuste e lavoratrici.
Molte delle lettrici erano analfabete e certamente guardavano solo le immagini, ritagliavano le ricette. O magari usavano le pagine
per accendere meglio il fuoco”, ha commentato la Wilson. L’intera rivista era una somma
del sapere rurale. “I numeri erano interamente dedicati alle virtù della vita rurale. Le
massaie dovevano aiutare la causa nazionale”. La direttrice, nobile sposa di un medico
con villa a Como, tutta convinta della sua
missione, rispondeva alle lettere con lo pseudonimo di “mamma Reggiora”, dilungandosi
sulle tecniche agricole per allevare polli o
conigli e bachi da seta. Anita Cernezzi
Moretti diresse anche un altro mensile
Domus rustica, fino al ’43. La rivista era l’organo dell’Unione massaie della campagna,
della Società agraria della Lombardia, la
presidente era la Principessa di Piemonte.
Domus rustica, nata nel ’32, era uno strumento pieno di buone intenzioni per l’istruzione professionale e agraria delle donne e
per l’elevazione sociale, morale ed economica delle contadine; puntava molto sull’economia domestica e un corso di pratica agraria per corrispondenza. La Cernezzi Moretti,
tutta presa dalla missione di migliorare la vita
alle contadine, pubblicò persino testi scritti
da loro. E nella posta intitolata L’alveare
dispensava moltissime informazioni tecniche
rurali. E nel ‘33, in un articolo firmato l’Ape
Regina, arrivò a consigliare alle contadine di
non usare più il grembiule nero, perché troppo sporco, e di passare a quello bianco.
Annabella, 1938
Conclusione all’inchiesta
“Donne e giornalismo”
Gioia, numero 1, 7 marzo ’37
Grazia del ’38
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Della stampa femminile di oggi possiamo solo
dire che inesorabilmente perde lustro, spesso
anche copie e si diletta sempre più di regalini,
gadget e tanta, troppa pubblicità. Dall’emancipazionismo al femminismo, la donna ne ha
fatta di strada e ormai può svolgere qualunque mestiere. La stampa di un tempo fatta da
donne per le donne ha avuto la sua funzione
di stimolo. Ma oggi sembra che una stampa
solo dedicata alla donna stia diventando quasi
anacronistica. Le donne leggono al maschile,
così come gli uomini leggono al femminile. La
distinzione tra i sessi si è sfumata nei contenuti e anche nell’apparenza, nel senso che
anche gli uomini sono molto interessati alla
bellezza e alla moda, talvolta anche più delle
donne. I romanzi d’amore hanno lasciato il
posto ad una serie di rubriche, oroscopi e
inchiestone di costume che indagano con
scaltrezza le difficoltà sentimentali che si sono
fatte intricatissime, tra singles e divorzi plurimi. Ma poi a leggere le indagini come quella
fatta da Eurisko, società specializzata in
consumi, comunicazione e mutamento sociale, nel giugno del 1999, sul tema “La Donna
Nuova”, leggiamo che le donne tra i 25 e i 44
anni sono diventate gli individui più forti, con
la passione del neofita per il mondo esterno,
senza però più essere femministe, familiste o
in carriera. Le donne non sono più catalogabili, qui nasce il dramma dei giornali. Balza
dunque agli occhi la ricercatezza delle pagine
pubblicitarie dedicate a moda e alla bellezza
e la sempre maggiore debolezza dei contenuti diretti a target che vengono continuamente modificati, nella speranza di essere
raggiunti con successo. Così il mercato editoriale cerca di “inventare” nuovi giornali di
massa per le donne-consumatrici, anche
attraverso la distribuzione nei supermercati.
Insomma il giornalismo per le donne è soprattutto di servizio. E la stampa sembra non
riuscire a tenere il passo con la “Donna
Nuova”, descritta da Eurisko.
Paola Pastacaldi
Bella del ’46
Arianna, numero 1, aprile ’57
17 (25)
Informazione e Giustizia - I giudici di legittimità, Sezione Penale, mutano linea e distinguono le responsabilità
L’intervistato diffama, il cronista no
Roma. Il giornalista che intervista un personaggio pubblico va trattato, in sede penale,
diversamente rispetto al personaggio pubblico se questo, offendendo l’altrui reputazione,
è chiamato a risponderne davanti a un tribunale. La Cassazione (V sezione penale) ha
cambiato linea rispetto a un’altra sua sentenza del 25 gennaio 1999. Questa volta ha
assolto il direttore e una redattrice di Repubblica, Eugenio Scalfari e Alessandra Longo,
mentre 15 mesi prima aveva condannato
Giuliano Ferrara, intervistato da Antonio
Padellaro per il settimanale L’Espresso, sul
procuratore capo di Napoli, Agostino Cordova, al quale aveva attribuito “eccessi deliranti”.
Nella sentenza “Ferrara”, la Cassazione ha
affermato il principio che in sede di intervista
giornalistica è punibile il giornalista che
“riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione”.
La stessa sezione penale della Cassazione
ha fatto oggi un ragionamento diverso. In
sostanza non è poi così vero che la colpa sia
sempre dei giornalisti: non si può accusare
di diffamazione il cronista che, di fronte a un
personaggio pubblico, riferisce fedelmente le
parole, anche critiche, rivolte a una persona
nota. La Cassazione riconosce ai cronisti
“l’esimente da intervista” e aumenta in
questo caso il limite della verità cui bisogna
attenersi. Certo, purché nel titolo, nell’introduzione e nelle domande si sia rimasti fedeli
al ragionamento dell’intervistato, che magari
ha parlato di “scimmiette funzionali alla cultura maschile”. Come ha fatto Lidia Ravera,
intervistata da Alessandra Longo, a proposito dell’allora neo presidente della Camera
Irene Pivetti, che ha querelato il quotidiano.
Non si tratta di diffamazione a mezzo stampa, ha sentenziato la Corte, né il reato può
essere provato adducendo il “contributo
causale alla diffusione” offerto dal cronista
alle espressioni sotto accusa. Il principio
“della continenza”, se si tratta di una intervista, va inteso, insomma, in modo lato.
Spiegano, infatti, gli alti magistrati, che
hanno definitivamente annullato la condanna per diffamazione: è vero che i limiti del
diritto di cronaca sono la verità del fatto
narrato, la rilevanza pubblica della notizia,
la correttezza del modo in cui il fatto è riferito. Ma è anche vero che nel caso di pubblicazione di un’intervista, queste indicazioni
devono essere rapportate a ciò che dice
l’intervistato. E qui il “limite della verità si
atteggia in maniera del tutto peculiare”.
Conta che l’intervista sia stata realmente
rilasciata e che i concetti e le parole riportate siano esattamente rispondenti a quanto
è stato riferito al cronista. Che i giudizi
pronunciati siano poi veri, non riguarda la
posizione del giornalista.
Affermano ancora i supremi giudici: quando
l’intervista pubblicata consista in valutazioni
o giudizi esternati da personaggi noti, su
atteggiamenti di altri soggetti pubblici nel
corso di un dibattito, che per il suo stesso
contenuto e per chi lo ha animato, interessa
la gente, si profilano ulteriori prospettive sul
limite di verità.
In questo caso il cronista deve rigoroso
rispetto alle opinioni manifestate criticamente, per fare emergere l’obiettività del dibattito
e fornire al pubblico un quadro il più genuino
possibile, in grado di orientare il giudizio della
gente anche sull’intervistato. Il cronista è
tenuto a riportare il testo dell’intervista “nella
sua integralità”, e deve rimanere neutrale di
fronte alla libertà di chi parla. Se l’intervistato
dicesse poi cose che ledono la reputazione
del personaggio interessato, è lui che se ne
deve assumere la responsabilità.
(da “Il Sole 24 Ore” del 26 aprile 2000)
Il “cuore” della sentenza:
i personaggi pubblici
LA MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE CON LA QUALE È STATA AFFERMATA LA
NON PUNIBILITÀ DEL GIORNALISTA CHE RIPORTI
FEDELMENTE DICHIARAZIONI DI NATURA DIFFAMATORIA RESE DA UN ESPONENTE POLITICO SU ALTRO
PERSONAGGIO DI RILIEVO PUBBLICO – Deve applicarsi l’esimente del diritto di cronaca (Cassazione Sezione
Quinta Penale n. 2144 del 25 febbraio 2000, Pres. Ietti, Rel.
Cicchetti).
Pubblichiamo il testo integrale della motivazione della
sentenza della Suprema Corte, Sezione Quinta Penale, con
la quale è stata riconosciuta l’esimente del diritto di cronaca
al ricorrente che riporti, nel testo dell’intervista, dichiarazioni
di natura diffamatoria rilasciate da un personaggio pubblico.
(omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca deve essere
riconosciuta in presenza di tre requisiti: 1) la verità del fatto
narrato; 2) la pertinenza all’interesse che esso assume per
l’opinione pubblica; 3) la correttezza delle modalità con cui il
fatto viene riferito.
Nel caso di pubblicazione di un’intervista i criteri stabiliti dalla
giurisprudenza ai fini del riconoscimento dell’esimente del
diritto di cronaca, vanno rapportati alle espressioni verbali
provenienti dalla persona intervistata, costituenti il “fatto” in
sé.
Il limite della “verità” si atteggia, pertanto, in maniera del tutto
peculiare, siccome riferito non al contenuto dell’intervista,
cioè alla rispondenza del fatto riferito dall’intervistato alla
realtà fenomenica, ma al fatto che l’intervista sia stata realmente operata e concetti o parole riportati dal giornalista
siano perfettamente rispondenti al profferito dalla persona
intervistata.
Quando, poi il “fatto-intervista” pubblicato consista in valutazioni o giudizi esternati da personaggi ben noti, su atteggiamenti di altri personaggi “pubblici” nell’ambito di un dibattito
che – proprio per l’intrinseco contenuto e per la notorietà dei
protagonisti – interessa l’opinione pubblica, si profilano ulteriori prospettive sul limite di “verità” in stretta connessione
con gli altri due (interesse alla conoscenza da parte della
pubblica opinione e continenza).
Il giornalista è tenuto, in tal caso, al rigoroso rispetto delle
opinioni, manifestate dall’intervistato anche in termini critici,
al fine di far emergere l’obiettività del dibattito e fornire al
pubblico un quadro più genuino possibile, atto ad orientare il
giudizio anche sul personaggio intervistato.
Pertanto, non solo è tenuto a riportare il testo dell’intervista
nella sua integralità quanto deve rimanere per così dire
“neutrale” dinanzi alla pur libera esternazione dell’intervento
del soggetto interrogato.
Quest’ultimo, qualora le sue parole integrino una lesione alla
reputazione del “personaggio” interessato, non può non
assumerne la responsabilità, anche se poi intenda far valere
la scriminante del diritto di critica (ove ne sussistano i presupposti) ben distinto – ovviamente – da quello di cronaca invocato dal giornalista.
Nel caso in cui il giudice di merito ravvisi la non punibilità
dell’intervistato per esercizio del diritto di critica, rimane
consequenziale l’estensione di tale esimente al giornalista
ed al direttore responsabile.
Qualora, viceversa, venga esclusa la scriminante per l’intervistato, nulla toglie che l’articolista possa invocare il diritto di
cronaca, certamente non comunicabile alla persona intervistata.
Passando all’interesse che la pubblicazione dell’intervista
deve assumere per l’opinione pubblica, occorre ancora sottolineare come il fatto, per racchiudere in sé tale interesse,
deve coinvolgere “personaggi pubblici” (in veste di intervistato non meno che in quella di soggetto attinto dai giudizi ritenuti diffamatori), nell’ambito di un dibattito provocato dalle
esternazioni di uno di essi.
La diffusione dell’intervista risponde perfettamente, in tal
caso, alla funzione informativa della stampa e soddisfa
correttamente l’esigenza, sentita dal grande pubblico, di
approfondire la conoscenza dei soggetti (si ripete, intervista-
to non meno che persona interessata nel giudizio critico) agli
apici della vita politica, culturale e economica del paese
anche attraverso le modalità delle loro espressioni verbali.
Il principio di continenza, che in realtà assume rilevanza
soprattutto nell’accertamento dell’esercizio del diritto di critica, può – tuttavia – riguardare quello di cronaca sotto una
diversa prospettiva che finisce per involgere la stessa configurazione della partecipazione (ex art. 110 cod. pen.) al reato
di diffamazione.
Si intende fare riferimento al contenuto dell’articolo pubblicato, in relazione alle parti diverse dalla rigorosa riproduzione
delle estrinsecazioni dell’intervistato, quali titolo, introduzione
all’intervista e domande.
Il mantenimento della posizione di “testimone” obiettivo, che
si limita a sintetizzare nel titolo il contenuto critico dell’intervista, a spendere semplici espressioni volte a presentare l’intervistato ed apporre quesiti strettamente funzionali alla
manifestazione della sua opinione, si risolve nella realizzazione di quegli elementi che, seppure rapportabili ad un principio di continenza in senso lato, valgono a riassumere l’atteggiamento di distacco dall’intrinseco contenuto – anche
diffamatorio – delle risposte.
Nella concreta fattispecie, la giornalista Longo – come risulta
dalle pronunce di merito – ha raccolto e pubblicato fedelmente l’intervista alla ben nota scrittrice-giornalista-femminista
Livia Ravera (contenente anche le espressioni diffamatorie,
che l’impugnata sentenza ritiene “non argomentate”) chiedendole commenti sulle precedenti estrinsecazioni di Irene
Pivetti, neo presidente della Camera.
Nessuna parte dell’articolo che non riguardi le risposte della
Ravera, è stata ritenuta di per sé diffamatoria dai giudici di
merito, i quali hanno finito per fondare il concorso personale
sulla semplice diffusione dell’intervista, cioè su una condotta
coperta dall’esercizio del diritto di cronaca.
Per quanto sopra detto si configura pienamente l’esimente,
sicché i ricorrenti vanno ritenuti non punibili ed entrambe le
sentenze di merito devono essere annullate senza rinvio.
(www.giustizia-e-legge.it)
Ma con Ferrara la stessa Corte decise diversamente
LIMITI DEL DIRITTO DI CRONACA NELLE
INTERVISTE - Il giornalista risponde del
reato di diffamazione quando riferisce valutazioni gratuitamente offensive (Cassazione
Sezione V Penale n. 2283 del 25 gennaio
1999, Pres. Marvulli, Est. Nappi).
In un’intervista pubblicata dal periodico
L’Espresso nel giugno 1995 Giuliano Ferrara, criticando “l’avvitamento antigarantista
della magistratura italiana” ha fatto riferimento agli “eccessi deliranti di Cordova”.
In seguito a querela proposta dal magistrato
Agostino Cordova, Procuratore della Repubblica di Napoli, Ferrara è stato processato
per diffamazione insieme all’autore dell’intervista Antonio Padellaro e al direttore responsabile del settimanale Claudio Rinaldi.
Il Tribunale di Roma ha condannato tutti e tre
gli imputati. La Corte d’Appello ha confermato la condanna di Ferrara, mentre ha assolto
Padellaro e Rinaldi in quanto ha ritenuto che,
pubblicando l’intervista, essi abbiano esercitato il diritto di cronaca.
Questa decisione è stata impugnata davanti
alla Suprema Corte sia da Ferrara, che ha
sostenuto di avere correttamente esercitato
il diritto di critica, sia dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma e da
18 (26)
Cordova, i quali hanno sostenuto che Padellaro e Rinaldi, pubblicando le dichiarazioni di
Ferrara si sono resi responsabili di concorso
nel reato di diffamazione. La Cassazione
(Sezione V Penale n. 2283 del 25 gennaio
1999, Pres. Marvulli, Est. Nappi) ha rigettato
il ricorso di Ferrara, in quanto ha ritenuto che
egli abbia varcato il limite posto dalla legge
all’esercizio del diritto di critica.
La critica negativa dell’operato altrui - ha
affermato la Corte - non è di per sè offensiva, quando sia socialmente rilevante, perchè
non può considerarsi lesiva della reputazione altrui l’argomentata espressione di un
dissenso rispetto a comportamenti di interesse pubblico. L’esigenza di ricorrere al diritto
di critica come scriminante, anziché come
criterio per l’accertamento della stessa
esistenza di un’offesa, si pone nei casi in cui
l’espressione della critica comporti necessariamente anche valutazioni negative circa le
qualità morali o intellettuali o psichiche del
destinatario; in questi casi - ha osservato la
Corte - l’inevitabilità del collegamento alla
critica scrimina l’offesa (che sarebbe illecita),
ma solo nei limiti in cui essa è indispensabile
per l’esercizio del diritto costituzionalmente
garantito. Sicché rimangono egualmente
punibili quelle espressioni che la giurisprudenza definisce “gratuite”, nel senso di non
necessarie all’esercizio del diritto, in quanto
inutilmente volgari o umilianti o dileggianti.
Nel caso in esame - ha affermato la Corte l’inequivoco riferimento negativo alle capacità psichiche del dr. Cordova non era affatto
necessario per esprimere una critica alla
magistratura italiana, che, secondo il ricorrente, adotta prassi antigarantiste emblematicamente rappresentate nei loro limiti estremi dall’opera del Procuratore della Repubblica di Napoli; pertanto non può ritenersi che
l’offesa recata alla reputazione del querelante sia scriminata dall’esercizio del diritto di
critica.
La Corte ha invece accolto il ricorso del
Procuratore Generale e di Agostino Cordova, affermando che la pubblicazione di
dichiarazioni rese da persone interessate su
fatti di pubblico interesse, pur se lesive della
reputazione di altri soggetti, può essere lecita se risponde all’esigenza di ricostruire gli
avvenimenti in base a fonti che appaiono
attendibili. Quando l’esistenza di un fatto è
controversa - ha affermato la Corte - non è
censurabile il giornalista che riporti le
contraddittorie dichiarazioni dei protagonisti
e dei testimoni, neppure se le utilizzi per
proporre una propria ricostruzione della
vicenda; in questi casi, invero, il giornalista
non è in grado di verificare ulteriormente l’attendibilità delle dichiarazioni riportate e l’esistenza stessa di quelle dichiarazioni assume
rilevanza ai fini dell’esercizio del diritto di
cronaca.
Ma la scriminante dell’esercizio del diritto di
cronaca - ha precisato la Corte - non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il
giornalista non le abbia in alcun modo
controllate; nè a maggior ragione la scriminante è univocabile quando l’intervistato
esprima valutazioni critiche gratuitamente
offensive, perchè in questo caso l’illiceità
delle dichiarazioni riferite è immediatamente
rilevabile dal giornalista, senza neppure l’esigenza di indagini intese a verificarne la corrispondenza ai fatti; in altri termini, se è discutibile la punibilità del giornalista che riporti
asserzioni dell’intervistato risultate poi non
vere, non è certamente discutibile la punibilità del giornalista che riporti valutazioni
gratuitamente e palesemente offensive
dell’altrui reputazione.
(www.giustizia-e-legge.it)
ORDINE
6
2000
CRONISTI NELLA GIURISPRUDENZA
Gli adeguati controlli
salvano il giornalista
La pubblicazione della notizia di un esposto all’autorità giudiziaria può costituire
diffamazione se il giornalista non dimostra di aver eseguito adeguati controlli
sulla verità dei fatti denunciati (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2367 del 3 marzo
2000, Pres. Duva, Rel. Sabatini).
Nell’aprile del 1990 il quotidiano Alto Adige
ha pubblicato, con il titolo “L’ospedale a
rischio senza filo per sutura” un articolo nel
quale si dava notizia di un esposto presentato alla Procura della Repubblica di Trento da
C.D. infermiere dell’Ospedale in merito a
presunte scorrettezze nelle forniture di materiale sanitario.
La società Bieffe Medital, fornitrice dell’ospedale, ha promosso davanti al Tribunale Civile
di Trento un’azione giudiziaria nei confronti
di C.D., nonché del direttore e dell’editore del
quotidiano Alto Adige, sostenendo che le
informazioni contenute nell’articolo erano
infondate e lesive della sua reputazione e
chiedendo la condanna dei convenuti al
risarcimento dei danni.
Il Tribunale ha respinto la domanda, affermando che il quotidiano si era limitato a
riportare la notizia dell’esposto presentato da
C.D., che doveva pertanto tenersi conto della
verità di questa notizia piuttosto che della
fondatezza o meno del contenuto dell’esposto e che il giornale aveva esercitato il diritto
di cronaca riportando una notizia acquisita
in buona fede da una fonte attendibile quale
l’infermiere C.D.
Questa decisione è stata riformata dalla
Corte di Appello di Trento che ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del
danno in misura di 80 milioni di lire.
La Corte di Trento ha ritenuto che “con il
narrare fatti non veri, vengono lesi non solo
diritti fondamentali della persona, ma lo stesso diritto della collettività ad un’informazione
rispondente al vero; ed il giornalista è tenuto,
quale suo obbligo inderogabile (art. 2 legge
3.2.1963 n. 69) a rispettare la verità dei fatti
data dalla corrispondenza tra l’oggettivamente narrato e lo storicamente accaduto”.
La Corte ha osservato che in questo caso
nessun accertamento risultava essere stato
eseguito dal giornale in merito ai fatti oggetto dell’esposto di C.D., esposto che poteva
essere stato dettato da motivi non necessariamente ispirati dalla verità dei fatti e,
pertanto, di non sicura affidabilità. Il giudice
di appello ha anche rilevato che l’esposto
indicava fatti sicuramente lesivi della credibilità del prodotto della Bieffe, che nulla era
stato acquisito in causa in ordine alla verità
di tali fatti – smentiti, al contrario, da un
primario ospedaliero – e che del resto non
era risultato che in sede penale fosse stato
dato alcun seguito all’esposto.
Contro questa decisione hanno proposto
ricorso il direttore e l’editore del quotidiano,
non l’autore dell’esposto.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n.
2367 del 3 marzo 2000, Pres. Duva, Rel.
Sabatini), ha rigettato il ricorso affermando
che il giornalista ha l’obbligo non solo di
controllare l’attendibilità della fonte (non
sussistendo fonti informative privilegiate) ma
anche di accertare e rispettare la verità
sostanziale dei fatti oggetto della notizia, con
la conseguenza che, solo se tale obbligo sia
stato scrupolosamente osservato, potrà
essere utilmente invocata l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca. La Corte ha
osservato che la decisione dei giudici di
merito è stata correttamente motivata sul
rilievo che l’articolista si era limitato a riportare l’esposto di C.D. senza effettuare un
minimo accertamento per lo meno sulle
eventuali voci che circolavano nell’ambiente
ospedaliero; l’affidamento, sostenuto dal
direttore del giornale, sulla qualifica professionale di C.D. è irrilevante – ha affermato la
Corte – stante l’obbligo, da parte del giornalista, di controllare l’attendibilità della fonte,
obbligo che attiene al necessario contemperamento tra l’interesse pubblico all’informazione ed il dovuto rispetto del diritto alla
reputazione e all’onore della persona.
(www.legge-e-giustizia.it)
L’informativa non è
“fonte qualificata”
Un’informativa della Guardia di Finanza
all’autorità giudiziaria non costituisce
fonte qualificata, tale da esimere il giornalista dal controllo sulla veridicità dei
fatti riferiti, mentre un comunicato stampa costituisce fonte attendibile (Tribunale
Civile di Roma Sezione Prima Civile n. 501
del 13 gennaio 2000).
Non integra legittimo esercizio del diritto di
cronaca la diffusione, come notizie vere,
delle ipotesi indagatorie formulate dalla polizia giudiziaria. Un’informativa della Guardia
di Finanza diretta all’autorità giudiziaria non
costituisce una fonte qualificata, tale da
esimere il giornale dalla verifica della veridicità del fatto, esonerandolo dal necessario
vaglio serio e rigoroso delle notizie da pubblicare, di cui è comunque onerato il giornalista. Ai fini dell’accertamento della sussistenza della verità putativa della notizia, ovvero
ORDINE
6
2000
della scusabilità dell’errore relativo alla notizia non vera, ma diffusa come tale, non
basta la considerazione della provenienza
della notizia stessa (per esempio, autorità
giudiziaria o, come nel caso in esame, autorità di polizia), dovendo valutarsi anche la
finalità del mezzo con cui essa viene
trasmessa.
Così se il comunicato diffuso dalle forze di
polizia per dare atto alla stampa degli esiti di
una certa operazione costituisce una fonte
degna di affidabilità per il giornalista, non
altrettanto può dirsi per il rapporto destinato
all’autorità giudiziaria, nel quale necessariamente devono farsi congetture o ipotesi di
indagine, sulla cui veridicità il giornale non
può fare affidamento per esercitare legittimamente il diritto di cronaca.
(www.legge-e-giustizia.it)
Cassa integrazione
non significa
prepensionamento
Nel settore giornalistico il collocamento in
cassa integrazione non comporta necessariamente la possibilità di prepensionamento - La legge 5 agosto 1981, n. 416
(recante la disciplina delle imprese editrici e
provvidenze per l’editoria) prevede – con
specifiche e distinte disposizioni – due diversi
benefici: il trattamento straordinario di integrazione salariale e il prepensionamento. Quanto
al primo l’art. 35 stabilisce che il trattamento
straordinario di integrazione salariale di cui
all’art. 2, quinto comma, della legge 12 agosto
1977, n. 675, e successive modificazioni, è
esteso, con le modalità previste per gli impiegati, ai giornalisti professionisti dipendenti da
imprese editrici di giornali quotidiani e dalle
agenzie di stampa a diffusione nazionale
sospesi dal lavoro per le cause indicate nelle
norme citate. Quanto al prepensionamento e
all’esodo anticipato, il successivo art. 37 stabilisce che ai giornalisti professionisti è data
facoltà di optare, entro sessanta giorni dall’ammissione al trattamento di cui all’articolo 35,
ovvero, nel periodo di godimento del trattamento medesimo, entro sessanta giorni dal
maturare delle condizioni di anzianità contributiva richiesta, per il beneficio consistente
nell’anticipata liquidazione della pensione di
vecchiaia al cinquantottesimo anno di età, nei
casi in cui siano stati maturati almeno 18 anni
di anzianità contributiva; beneficio questo
peraltro limitato al numero di unità ammesso
dal Ministero del lavoro e della previdenza
sociale e per i soli casi di ristrutturazione o riorganizzazione in presenza di crisi aziendale.
Successivamente il decreto-legge 20 maggio
1993, n. 148 (recante interventi urgenti a
sostegno dell’occupazione), conv. in L. 19
luglio 1993, n. 236, all’art. 7 ha dettato norme
in materia di cassa integrazione guadagni
prevedendo in particolare al comma 4 che sino
al 31 dicembre 1995 le disposizioni di cui all’articolo 35 della legge 5 agosto 1981, n. 416, e
successive modificazioni, si applicano anche
al settore dei giornali periodici e al settore delle
imprese radiotelevisive private, estendendosi
a tutti i dipendenti delle aziende interessate,
quale che sia il loro inquadramento professionale, nonché ai dipendenti delle aziende
funzionalmente collegate. Quindi – come ha
esattamente rilevato il Tribunale – l’art. 7 del
decreto legge richiama solo l’art. 35 della legge
n. 416/81, ossia solo il trattamento straordinario di integrazione salariale e non anche l’art.
37, ossia l’istituto del prepensionamento. Né
c’è alcuna esigenza logica o sistematica per
cui i due istituti debbano necessariamente
concorrere, essendo anzi gli stessi fondati su
presupposti diversi ed incompatibili, quali nel
primo caso la prosecuzione del rapporto
(seppur in una temporanea situazione di quiescenza in ragione del collocamento in c.i.g.) e
nell’altra ipotesi l’anticipata risoluzione del
rapporto medesimo. A ciò si aggiunga che,
trattandosi di disposizione temporanea
(perché applicabile fino al 31 dicembre 1995)
e speciale, essa è di stretta interpretazione.
Soccorre quindi il principio ermeneutico secondo cui ubi lex voluit dixit, principio di cui la
Suprema Corte ha fatto applicazione anche
nella materia della previdenza sociale (Cassazione Sezione Lavoro n. 2117 del 24 febbraio
2000, Pres. D’Angelo, Rel. Amoroso).
(www.legge-e-giustizia.it)
“Chi fa giudiziaria
non è un free lance”
GIORNALISTA ADDETTO ALLA CRONACA
GIUDIZIARIA CON CONTRATTO PER
COLLABORAZIONI SALTUARIE – Può
essere ritenuto lavoratore subordinato in
caso di inserimento nell’organizzazione
aziendale come responsabile del servizio
per una provincia (Cassazione Sezione
Lavoro n. 4533 del 10 aprile 2000, Pres. Trezza, Rel. Roselli). Nel periodo dal giugno 1978
all’ottobre 1991 F.N. ha lavorato per il quotidiano Il Messaggero come giornalista, provvedendo all’informazione in materia di cronaca giudiziaria per la provincia di Latina,
senza essere inquadrata come dipendente.
Nell’ottobre 1991 l’incarico le è stato revocato. Ella ha promosso davanti al Pretore di
Latina un giudizio diretto ad ottenere l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro giornalistico subordinato nel periodo dal
giugno 1978 all’ottobre 1991, nonché la
condanna della società editrice del quotidiano al pagamento di differenze di retribuzione
e alla sua reintegrazione nelle mansioni in
precedenza svolte.
Il Pretore ha accertato l’esistenza della
subordinazione nella forma prevista dall’art.
2 del contratto nazionale di lavoro giornalistico (“collaborazione fissa” caratterizzata dalla
prestazione non quotidiana, ma continuativa,
con responsabilità di un servizio) e ha
condannato la società editrice a reintegrare
la cronista nel suo posto di lavoro.
Questa decisione è stata confermata in
grado di appello. Il Tribunale di Latina ha rilevato tra l’altro che C.M. non si era limitata a
cedere articoli giornalistici di propria iniziativa, ma che era solita scrivere dopo aver
proposto gli argomenti ed avere ottenuto
l’approvazione della redazione, la quale poi
sottoponeva gli scritti a revisione; ciò era
sufficiente a ravvisare il lavoro subordinato,
considerata la natura intellettuale delle
prestazioni.
La società editrice ha proposto ricorso per
Cassazione sostenendo, tra l’altro, che il
Tribunale avrebbe dovuto attribuire una
portata decisiva al contratto sottoscritto tra le
parti, nel quale si faceva riferimento ad una
collaborazione saltuaria ed esterna. La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4533 del
10 aprile 2000, Pres. Trezza, Rel. Roselli), ha
rigettato il ricorso, affermando che il rapporto
di lavoro deve essere qualificato in base al
contenuto effettivo delle prestazioni rese e al
concreto atteggiamento delle parti.
Per quanto attiene più particolarmente all’attività del giornalista, la Corte, richiamando la
sua costante giurisprudenza, ha affermato
che il vincolo della subordinazione va ravvisato soprattutto nella permanente disponibilità del lavoratore ad eseguire le istruzioni
della direzione, ben potendo avvenire che la
disponibilità permanga negli intervalli non
lavorativi, stante la discontinuità delle richieste aziendali; sussiste, per contro, il lavoro
autonomo quando venga prestabilita nel
contratto un’unica fornitura, anche se
scaglionata nel tempo, con unica retribuzione, non potendo neppure escludersi una
successione di simili contratti (Cass. 28 luglio
1995 n. 8260; 12 agosto 1997 n. 7494).
La peculiarità delle prestazioni intellettuali del
giornalista – ha affermato la Corte – esclude
comunque che la subordinazione possa
essere intesa, quanto alla soggezione alle
direttive del datore di lavoro, nel senso in cui
viene richiesta quando si tratti di mansioni
manuali o comunque esecutive (Cass. 18
febbraio 1993 n.1989).
A questi principi – ha osservato la Corte – si
sono esattamente attenuti i giudici d’appello,
i quali nel caso di specie e sulla base delle
risultanze istruttorie, hanno rilevato che la
prestatrice di lavoro aveva, per quasi tredici
anni, curato la cronaca giudiziaria della
provincia, da sola ed attenendosi al potere
direttivo del caporedattore. Né ella, hanno
osservato ancora i giudici di merito, si era
limitata alla cessione di articoli già confezionati, ma aveva, prima di scrivere, concordato
l’argomento con lo stesso caporedattore, il
quale poi rivedeva il testo. Ciò dimostra un
inserimento della lavoratrice nell’organizzazione d’impresa, e non una semplice collaborazione esterna. Non può parlarsi – ha
concluso la Corte - di iniziative spontanee ed
unilaterali della collaboratrice e quindi di
assenza di un vincolo contrattuale quando,
come nel caso di specie, la prestazione lavorativa sia stata per più anni e con continuità
utilizzata dal datore di lavoro, il quale abbia
così manifestato la volontà di accettazione,
ancorché non nella forma espressa della
dichiarazione, non potendosi dubitare della
idoneità del mero comportamento, pur non
accompagnato da una forma espressiva, a
manifestare una volontà negoziale.
(www.legge-e-giustizia.it)
19 (27)
SENTENZA
Commistione pubblicità-informazione:
anche il Tribunale ha sanzionato
Paolo Occhipinti e Caterina Vezzani
“Il direttore del settimanale correttamente non si è dissociato dalla giornalista difendendosi sul punto della omissione di controllo: la
assoluta evidenza della violazione contestata non consente in ogni modo alcuna difesa sui limiti di tale controllo”
Pubblichiamo integralmente la sentenza
con la quale il Tribunale Civile (Sezione V)
di Milano ha confermato la decisione del
Consiglio nazionale e quella del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia su un caso ormai famoso di
commistione pubblicità-informazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE QUINTA CIVILE
Il Tribunale - composto da
Dott. SERGIO VAGLIO (presidente relatore);
Dott. FRANCESCO MALASPINA (giudice):
Dott. GIUSEPPE VALENTI (giudice)
con l’intervento di
MARIA GRAZIA MARZATICO (pubblicista);
RENZO MAGOSSO (giornalista professionista);
P.M. DOTT. ADA RIZZI - ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nei procedimenti civili riuniti iscritti il 29/1/00
ed il 7/2/00 ai numeri di ruolo generale sopra
indicati, promossi con ricorsi ex art. 63 della
legge 3/2/63, n. 69,
da CATERINA VEZZANI, elettivamente
domiciliato in Milano presso lo studio
dell’Avv. CORSO BOVIO, dal quale è rappresentata e difesa per delega (RICORRENTE)
e da PAOLO OCCHIPINTI, elettivamente
domiciliato in Milano presso lo studio
dell’Avv. MAURIZIO FUSI, dal quale è
rappresentata e difesa per delega (RICORRENTE)
per l’annullamento della decisione resa in
data 3/11/99 con la quale il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha respinto il
ricorso interposto dagli stessi Vezzani e
Occhipinti avverso la decisione in data
9/9/96 con la quale il Consiglio regionale
SENTENZA
dell’Ordine dei giornalisti per la Lombardia
aveva inflitto ai ricorrenti la sanzione disciplinare dell’avvertimento scritto; premesso che
nessuna norma prevede la partecipazione al
presente giudizio dei Consigli regionale e
nazionale dei giornalisti; che per ciò solo la
loro partecipazione renderebbe nullo il
procedimento; che ogni dubbio su tale soluzione risulta fugato dalla presenza del P.M. e
dei due rappresentanti del giornalismo chiamati a far parte del Collegio;
Letti gli atti e sentite le parti come da verbale
in pari data 23/3/2000, su conforme parere
del P.M., sciogliendo la riserva,
GIUDICA I RICORSI NON MERITEVOLI DI
ACCOGLIMENTO.
Osserva, infatti, che il rispetto del principio
della necessaria separazione tra informazione e pubblicità è stato più volte sollecitato dal
Consiglio regionale della Lombardia, sia per
evitare che un giornale si trasformi in un
catalogo commerciale, sia per tutelare il
cittadino che ha diritto ad una corretta informazione che gli consenta di riconoscere
quali notizie, servizi ed altre attività redazionali appartengono alla responsabilità della
redazione o del singolo giornalista e quali,
invece, siano diretta espressione di altri enti
o aziende: la pubblicità deve essere chiara,
palese, esplicita e riconoscibile, soprattutto
la c.d. pubblicità redazionale: la lealtà verso il
lettore impone che il lavoro giornalistico e
quello pubblicitario rimangano separati ed
inconfondibili: qualsiasi forma di pubblicità
occulta diventa un inganno per il lettore ed
una forma degenerativa della qualità
dell’informazione (delibera di indirizzo del
Consiglio Lombardo): la comunicazione
pubblicitaria persuasiva o suggestiva è caratterizzata dall’assenza di quella neutralità che
rappresenta invece il primo requisito richiesto all’informazione obbiettiva: il messaggio
pubblicitario sviluppa una sorta di difesa
naturale da parte del lettore che invece non
è preparato a contrapporre la propria capacità critica ai segnali ricevuti da una fonte
riconosciuta come neutrale quale deve essere l’articolo giornalistico.
Un primo riconoscimento testuale ed esplicito in sede legislativa del divieto di pubblicità
occulta si trova nell’art. 8, comma secondo
della Legge 6/8/90, n. 223, dove si legge che
la pubblicità televisiva e radiofonica deve
essere riconoscibile come tale ed essere
distinta dal resto dei programmi con mezzi
ottici o acustici di evidente percezione; il
D.LGS. 25/1192, n. 74, con le sue definizioni
alle quali qui si fa rinvio per brevità, ha lo
scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole
e dalle sue conseguenze sleali, in genere, gli
interessi del pubblico nella fruizione di
messaggi pubblicitari; l’art. 7 del Codice di
autodisciplina pubblicitaria prevede la necessaria identificazione della pubblicità.
Di fronte ad un testo apparentemente informativo ed in assenza di un dimostrato
rapporto di committenza tra autore dei testi
ed impresa, occorre accertare, in via presuntiva, la presenza di elementi gravi precisi e
concordanti che concorrano a stabilirne il
contenuto promozionale; in caso positivo
occorre verificare la sussistenza dei requisiti
di evidente percezione idonei a rivelare
immediatamente la natura promozionale del
testo medesimo; la mancanza di detti requisiti consente di qualificare il messaggio come
ingannevole.
L’indagine relativa ad un articolo collocato in
una rubrica dedicata alla salute ed alla
bellezza contenente specifici riferimenti,
anche fotografici, a determinati prodotti,
nonché ad un inserto recante consigli sull’igiene orale accompagnati dall’indicazione
dei prodotti da prediligere con relativa documentazione fotografica, è già stata conclusa
con la qualifica di messaggio ingannevole
nel Provv. N. 3618 dei 15/2/96.
Nel caso in esame la rubrica destinata alla
bellezza ed alla igiene orale contiene un
riquadro che non è destinato con evidenza
al messaggio pubblicitario in quanto porta il
titolo “E LAVARSI I DENTI DIVENTA UN
GIOCO” ed espone i “piccoli segreti per
iniziare i più piccini all’igiene orale, con il
suggerimento di regalare il SUO (maiuscolo)
spazzolino ed il SUO (maiuscolo) dentifricio,
“per esempio della linea Mentadent denti in
Crescita, studiata per i più piccoli”: sopra la
scritta “Linea orale per bambini” risulta apposta una immagine fotografica che rappresenta tre spazzolini a forma di pupazzetti in piedi
insieme ad un tubetto di dentifricio parimenti
in piedi, recanti la scritta “mentadent” da
leggere in linea verticale; disteso in primo
piano figura altro tubetto di dentifricio recante la scritta bene evidente, e leggibile regolarmente in linea orizzontale: “mentadent”.
La difesa esclude trattarsi di messaggio
pubblicitario; la delibera impugnata parla di
evidente messaggio pubblicitario; la difesa
parla di buona fede e deduce che se si tratta
di messaggio evidentemente pubblicitario
non si tratta di pubblicità ingannevole: in
realtà la responsabilità emerge in ogni caso
dalla commistione tra l’informazione giornalistica contenente l’iniziazione dei più piccoli
all’igiene orale facendo in modo che lavarsi i
denti diventi un gioco come dal titolo e dal
testo, ed il messaggio pubblicitario derivante
dalla esposizione consigliata dei prodotti
Mentadent come linea orale per bambini.
Il direttore del settimanale correttamente non
si è dissociato dalla giornalista difendendosi
sul punto della omissione di controllo: la
assoluta evidenza della violazione contestata non consente in ogni modo alcuna difesa
sui limiti di tale controllo.
P.T. M.
IL TRIBUNALE, SU CONFORME PARERE
DEL P.M.. RESPINGE
ENTRAMBI I RICORSI RIUNITI.
COSÌ DECISO IN MILANO IL 23/3/2000
IL PRESIDENTE
“La Procura di Como fuori dalla
Costituzione” per l’atteggiamento
verso i cronisti giudiziari della città
Intervento del presidente dell’Ordine della Lombardia a tutela dei cronisti giudiziari di Como e del diritto dei cittadini all’informazione.
Un cronista ha opposto il segreto professionale sulle fonti alla richiesta del Pm di consegnare l’elenco delle sue “utenze telefoniche”
Milano, 13 maggio. Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ha indirizzato oggi questa lettera al
Procuratore generale della Repubblica, Francesco Saverio Borrelli, denunciando un
conflitto tra Procura della Repubblica di
Como e cronisti giudiziari di Como in tema di
diritto di cronaca:
“Signor Procuratore generale, Le trasmetto copia di due messaggi a me pervenuti il
14 aprile e il 12 maggio dai cronisti giudiziari
di Como circa i rapporti estremamente tesi
tra questi ultimi e la Procura della Repubblica di quella città. Sono in gioco i diritti costituzionali di cronaca e di critica nonché il diritto dei cittadini a una informazione completa
e corretta. L’atteggiamento della Procura
di Como sorprende perché indubbiamente si colloca fuori dal quadro costituzionale.
Ieri agenti di polizia giudiziaria si sono
presentati nella redazione del Corriere di
Como con un decreto di sequestro per
acquisire le utenze telefoniche di tutti i cellulari in dotazione al giornale. Il sostituto procuratore Silvia Perrucci ha indiziato di reato
(reticenza) il giornalista Paolo Moretti, reo di
aver “pescato” una notizia rilevante riguardante l’abbandono di una minore. Paolo
Moretti ha opposto il segreto professionale
alla richiesta del Pm di fornire le utenze
20 (28)
telefoniche da lui utilizzate il giorno prima
della pubblicazione della notizia “incriminata”
sul Corriere di Como.
Il segreto professionale sulle fonti delle notizie è riconosciuto ai giornalisti dall’articolo 2
della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della
professione giornalistica e dall’articolo 13
della legge n. 675/1996 sulla tutela dei dati
personali (meglio nota come “legge sulla
privacy”). Questo principio è tutelato anche
da numerose risoluzioni e decisioni delle
Corti europee di Giustizia.
La tutela più forte e incisiva dell’attività giornalistica viene dalla Corte costituzionale, che
ha stabilito via via principi, che il legislatore
avrebbe dovuto tradurre in leggi:
● “I giornalisti preposti ai servizi di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e
(devono essere) posti in grado di adempiere
ai loro doveri nel rispetto dei canoni della
deontologia professionale” (sentenza 10
luglio 1974 n. 225).
● “Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall’articolo
21 della Costituzione - e questo interesse
implica, in un regime di libera democrazia,
pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati
ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee” (sentenza
15 giugno 1972 n. 105).
L’articolo 10 della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (legge dello Stato italiano 4 agosto 1955 n. 848) afferma: “Ogni
persona ha diritto alla libertà di espressione
e questo diritto comprenda la libertà di
opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa
essere interferenza di pubbliche autorità”
L’articolo 10 della Convenzione, mutuato
dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è stato ampliato
successivamente dall’articolo 19 del Patto
internazionale di New York relativo ai diritti
civili e politici (legge dello Stato italiano 25
ottobre 1977 n. 881) il quale stabilisce:
“...Ogni individuo ha il diritto della libertà di
espressione; tale diritto comprende la libertà
di cercare, ricevere e diffondere informazioni
e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la
stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta”.
Si tratta di un crescendo di affermazioni e
riconoscimenti. Non sfugga la rilevanza
dell’inserimento, attraverso leggi ordinarie,
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del Patto di New
York relativo ai diritti civili e politici nell’ordinamento giuridico dello Stato: il diritto di
“cercare, ricevere e diffondere informa-
zioni attraverso la stampa” figura esplicitamente nel nostro ordinamento e amplia
la sfera del “diritto di manifestare il
pensiero” tutelata dall’articolo 21 della
Costituzione.
La Corte Costituzionale con una serie di
decisioni ha, infatti, riconosciuto e affermato
non soltanto il principio che i cittadini hanno
diritto di ricevere informazioni, ma che essi
hanno diritto a ricevere un’informazione
completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata. Le linee-cardine fissate dalle decisioni
emesse dal 1960 in poi hanno trovato un’ampia conferma nella fondamentale sentenza
24 marzo 1993 n. 112.
Queste citazioni servono solo a dimostrare l’assunto secondo il quale “la Procura
di Como, con le sue iniziative, si è collocata fuori dal quadro costituzionale”.
Sono sicuro, Signor Procuratore generale,
che Lei interverrà a tutela del diritto dei cittadini all’informazione e contro ogni iniziativa
che è oggettivamente una limitazione della
“libertà di informazione e di critica”, principio
cardine della legge professionale dei giornalisti e che mette i giornalisti, mediatori intellettuali, al servizio della comunità nazionale.
Con alta stima,
Il presidente dell’OgL
dott. Franco Abruzzo
ORDINE
6
2000
Dal n. 73/2000 di “aprile” (mensile del Movimento dei comunisti unitari)
Editoria, finalmente la riforma
Appunti per migliorarla
Autorità di garanzia, pubblicità, credito, tariffe postali, nuovo contratto dei giornalisti.
Proposte di Asie (Associazione per lo sviluppo delle imprese editoriali) per editori “piccoli” e “grandi”
di Roberto Di Matteo
Dopo anni di attesa, sembra ormai giunto finalmente il momento di una seria riforma della legge
416 sull’editoria (il governo D’Alema ha approvato
un disegno di legge il cui iter è ora incerto per tutto
ciò che è seguito al voto del 16 aprile). Si tratta non
di effettuare alcuni aggiustamenti normativi, né di
operare tagli al bilancio dello Stato, bensì di
compiere un’opera riformatrice attraverso un vera
e propria legge di sistema in grado di rafforzare e
sviluppare il pluralismo informativo del nostro
paese. La possibilità di poter lavorare ad un miglioramento del testo è confortata dalle affermazioni di
autorevoli esponenti dei Democratici di sinistra,
fatte nel recente convegno dedicato alla riforma
convocato proprio dalla Quercia. In quella occasione si è avviato un confronto serio tra le parti interessate. È stata confermata la volontà di apertura
ad un lavoro emendativo teso a varare una legge
figlia non di una parte politica o di un pezzo del
mondo editoriale, bensì una riforma che raccolga
le esigenze di tutto il panorama editoriale.
Non c’è dubbio, ma questo come Asie (Associazione per lo sviluppo delle imprese editoriali), lo avevamo sottolineato in altre occasioni, che l’editoria nel suo complesso non può continuare a vivere regolata da leggi che, pur svolgendo nel passato un ruolo fondamentale per la salvaguardia del pluralismo politico e culturale, si fondano su meccanismi di contribuzione diretta agli
editori senza distinzione tra grandi e piccoli.
Con l’ingresso in Europa, tale anomalia (come
altre del sistema produttivo italiano) è destinata a
scomparire. Questo è quello che la legge ci propone, affermando la necessità che l’impresa editoriale si confronti con il mercato, abbandonando la
linea dei contributi a pioggia, a partire da quelli
devoluti dalla legge 250. Questa impostazione di
fondo ci trova concordi. Asie non è intenzionata a
mettersi di traverso, poiché ritiene inevitabile accogliere la sfida del mercato.
La nostra, però, non è una accettazione acritica
del testo di legge. Anzi, vogliamo entrare nel merito, perché pensiamo che molto può e deve essere
rivisto.
1
Nel disegno di legge si dice basta al “finanziamento pubblico” per dare spazio alle logiche di mercato. Si vuole riconvertire l’intervento pubblico diretto teso a sanare a valle i disavanzi di bilancio delle testate, a favore di un sostegno ad un’editoria che fa dell’innovazione tecnologica e della qualità del prodotto i suoi punti di riferimento. Gli strumenti proposti sono: una politica
del credito agevolato e delle agevolazioni fiscali,
nonché la potatura del ginepraio burocratico a cui
è sottoposta l’attività dell’azienda editoriale. Tutto
questo è sufficiente perché l’attuale panorama
dell’editoria italiana si sviluppi e prosperi, o quanto
meno rimanga inalterato? La differenza tra piccoli
e grandi è presa in considerazione?
Un serio dibattito non può non partire dal tema
delle risorse. Insomma, se giudichiamo inevitabile
l’abolizione del “sostegno diretto”, in modo altrettanto netto ci preme sottolineare che probabilmente non è attraverso il credito “più” agevolato e gli
sconti fiscali che una larghissima parte dell’editoria italiana riuscirà non solo a rafforzarsi ma anche
a rimanere in vita.
È da rilevare, peraltro, che queste modalità di
credito agevolato, così come sono configurate nel
testo di legge, se da un lato possono essere proficuamente adottate da imprese editoriali almeno
minimamente consolidate, sono difficilmente fruibili per chi vuole intraprendere un’attività ex-novo,
sia editoriale tradizionale, che on-line. Difatti difficilmente una banca concede un credito a chi non
può avanzare da subito importanti garanzie.
Se lo spirito della legge è premiare qualità e innovazione, va studiato un meccanismo che possa
consentire, non solo un tasso di sconto straordinario, ma la possibilità che la richiesta di credito
venga accolta dalle banche anche in assenza di
beni alienabili da parte dell’impresa.
Dunque, per tentare di spiegare chiaramente
questa parte che riguarda il tema delle risorse,
simuliamo che tutte le testate siano beneficiate
dalla legge 250 (quella che finanzia i giornali di
partito) e che di colpo questa risorsa venga abolita. Non occorre fare un grande sforzo di immaginazione per renderci conto che potrebbero continuare le pubblicazioni solo coloro che hanno una
fonte alternativa di redditività. E, ancora senza
2
ORDINE
6
2000
sforzo, non è difficile individuare nella risorsa
pubblicità questa fonte alternativa. Diciamolo chiaramente: senza la risorsa della pubblicità, credito
agevolato e sconti fiscali sarebbero sufficienti, a
malapena, per avviare un’impresa editoriale non
certo per farla vivere nel tempo. Ecco, dunque,
una prima e fondamentale differenza tra grandi e
piccoli: la risorsa pubblicità. Si può obiettare che
una testata che si affermi sul mercato per qualità
del prodotto e capacità innovativa non avrebbe
difficoltà ad essere un vettore appetibile per i grandi inserzionisti pubblicitari. Ma questa risposta
risulterebbe fin troppo semplicistica. Difatti, come
sappiamo, la struttura del mercato pubblicitario per
quanto riguarda tutti i mezzi di comunicazione è
attualmente imperniata sulla certificazione del
“punto contatto”. Ora la domanda, su cui varrebbe
la pena soffermarsi, è la seguente: può avere un
valore commerciale, riferito all’investimento pubblicitario, l’arcipelago dell’editoria minore? Noi dell’Asie crediamo di sì. Crediamo che occorra chiedere con forza che le oltre diecimila testate, tante
sono quelle riferibili alla cosiddetta editoria minore, distribuite in edicola o recapitate a domicilio,
divengano oggetto, quanto meno, di riflessione da
parte degli operatori del settore pubblicitario. Tutto
ciò è possibile ad una condizione: che si possa
avere quanto meno un censimento vero e non
approssimativo di tutto ciò che si stampa e di ciò
che è realmente letto. Noi abbiamo la presunzione di scommettere, che se questa indagine venisse svolta scopriremmo che la testata dell’editoria
minore non è semplicemente sfogliata, come
accade spesso con la grande testata nazionale,
bensì letta e diffusa capillarmente “casa per casa”.
Questi due elementi sono o non sono valori
aggiunti per il sistema pubblicità?
Dunque se - schematicamente - per avere risorse
pubblicitarie occorre la certificazione del punto
contatto, il primo problema è capire come tutti
quelli che oggi non usufruiscono di tale servizio
possano accedervi. Ma questo ci porta ad un
problema ancora precedente, a cui accennavamo
prima: quante sono e cosa scrivono la miriadi di
testate che si definiscono come “editoria minore”?
Chi dovrebbe occuparsi di un censimento non
puramente statistico se non “l’Autorità per le
garanzie nelle comunicazioni?”
La legge 249 del 31/7/1977 all’articolo 1 nota 12
recita testualmente: “Entro il 30 giugno di ogni
anno presenta al presidente del consiglio dei ministri per la trasmissione al parlamento una relazione sull’attività svolta dall’Autorità e sui programmi
di lavoro; la relazione contiene, fra l’altro, dati e
rendiconti relativi ai settori di competenza, in particolare per quanto attiene allo sviluppo tecnologico, alle risorse, ai redditi e ai capitali, alla diffusione potenziale ed effettiva, agli ascolti e alle letture
rilevate, alle pluralità delle opinioni presenti nel
sistema informativo, alle partecipazioni incrociate
tra radio, televisione, stampa quotidiana e stampa
periodica e altri mezzi di comunicazione a livello
nazionale e comunitario”. A leggere la relazione
che l’Autorità ha trasmesso al presidente del
consiglio in data 9/7/’99 questa parte di obblighi
che la legge impone alla stessa Autorità risultano,
per l’articolo citato, del tutto inevasi. Non troviamo
una riga per quanto attiene le risorse, i redditi e i
capitali, nulla sulla diffusione potenziale ed effettiva, sulla rilevazione delle letture, eccetera. Insomma chi, come noi, credeva che la creazione di uno
strumento fondamentale come l’Autorità riuscisse
a rendere non più magmatica la galassia dell’editoria minore è rimasto profondamente deluso.
Ecco allora un primo punto: come si può condurre
in porto la riforma della 416 se mancano pezzi
fondamentali di conoscenza (non solo statistici)
relativi all’assetto dell’universo editoriale? E come
è pensabile che la rilevazione della diffusione e
della lettura sia effettuata da una società privata
(la Ads) e non da un organo pubblico che ha tra i
suoi compiti proprio quello di fornire quei dati?
Da qui, una prima rivendicazione: il governo
imponga all’Autorità di fornire tutte le analisi senza
le quali un lavoro emendativo della legge di riforma risulterebbe senza bussola e occorre sottolineare che quel tipo di rilevazioni effettuate potrebbero rappresentare lo strumento per una trattativa
non episodica nei confronti degli inserzionisti
pubblicitari. Sia chiaro che non pensiamo di imporre per legge l’affidamento di uno quota delle risorse pubblicitarie all’editoria minore, bensì vogliamo
che il nostro mondo venga riconosciuto per quello
che vale, per la sua qualità, per la sua rete capillare di distribuzione, l’affezione dei propri lettori. È
evidente che senza le risorse della pubblicità o c’è
il denaro pubblico o si può fare poca strada.
La riforma della 416 prevede un adeguamento della disciplina previdenziale e sociale per giornalisti e poligrafici: è un tema che
andrà sicuramente approfondito. Certo è, che non
si affronta una questione che a noi sta molto a
cuore. Mi riferisco al contratto dei giornalisti.
Come è pensabile che una piccola testata possa
affrontare i costi del contratto dei giornalisti come
fosse la Repubblica o il Corriere della Sera? E
quanti giovani rischiano di rimanere giornalisti in
“nero”, perché, come per altre categorie, non si
possono stipulare diversi gradi di contratto con
relativi oneri per l’editoria? Anche questo è un
punto da sottoporre alla discussione, affinché una
diversa articolazione del contratto dei giornalisti
possa divenire non una rivendicazione degli editori contro la categoria, ma un tema vero da integrare nella discussione sulla legge di riforma.
3
Con la riforma della 416 si prevede che la
nuova articolazione degli strumenti indiretti
d’intervento pubblico (credito agevolato,
agevolazioni fiscali) vada in parallelo alla riforma
delle agevolazioni tariffarie in particolare di quelle
postali, la cui normativa è già stata definita dalla
legge finanziaria del ’99. Non a torto, nel nostro
mondo, su questo tema si è discusso molto:
perché è del tutto evidente che l’eliminazione della
tariffa agevolata rischia di mettere in grave crisi
gran parte dell’editoria minore. Certo, si tratterebbe di una partita di giro, quello che prima veniva
scontato direttamente allo sportello postale ora
verrebbe rimborsato direttamente dallo Stato. Ma
ciò non è sufficiente a renderci tranquilli. Anche
qui, credo, occorre ragionare freddamente evitando di barricarci, se ci sarà concesso a difesa di
uno “status quo ante”.
Esistono, a nostro giudizio, quattro condizioni che
potrebbero rendere effettiva la nuova regolamentazione tariffaria:
a) codificare con le Poste S.p.A. un nuovo tipo di
rapporto con gli editori che preveda, così come
per gli appalti pubblici o privati, la possibilità di
stipulare dei veri e propri contratti che esaltino il
rispetto di standard d’efficienza, preventivamente
stabiliti, che l’Ente poste deve rispettare per non
incorrere nel pagamento di penali previste contrattualmente;
b) in alternativa, ipotizzare che le Poste S.p.A.
rinuncino alla loro posizione di monopolio in
questo settore, rendendo libero l’editore di contrattare sul mercato costi e condizioni del servizio;
c) ci sono testate che fino ad oggi hanno risparmiato fino a 30 miliardi grazie alle tariffe agevolate. Per questi, e per noi, come abbiamo visto, non
cambierebbe nulla. Ma è sostenibile un profilo
tariffario omogeneo per tutti, senza tenere presente bilanci e assetti societari? Una S.p.A. è uguale
ad una cooperativa di giornalisti? Pensiamo,
ovviamente, di no. Anzi, crediamo che il fondo di
450 miliardi destinato al rimborso degli oneri
postali debba essere riclassificato diversamente
tra grandi e piccoli; d) la partita di giro, cui accennavamo, se da un lato formalmente lascia invariati i costi, dall’altra - in mancanza di meccanismi
fissati per legge, che garantiscano tempi certi per
il rimborso previsto - possono crearsi gravi problemi di bilancio. Per una testata piccola e media
spendere oggi e avere il rimborso magari dopo
due anni è rischiare di vedersi riconosciuto un diritto post-mortem.
4
Un’ultima questione riguarda le testate di
partito. E’ questo un tema delicato, tale che
da più parti è stata avanzata la proposta di
stralcio dalla riforma complessiva. A me preme
innanzitutto fare una sorta di appello: sarebbe
sbagliato che questa parte del mondo editoriale si
chiamasse fuori dalla discussione generale per
aprire, con il governo, un tavolo di trattativa separato. Siamo convinti che la salvaguardia dei giornali di partito sia un punto irrinunciabile, la loro
sopravvivenza rappresenta, senza dubbio, la cartina tornasole della tenuta della democrazia. Occorre sconfiggere quella corrente di pensiero,
purtroppo non minoritaria nella società, che vuole
cancellare qualsiasi forma di sostegno pubblico
alla politica e con esso cancellare una parte del
pluralismo informativo.
Da subito, però, può e deve essere fatta chiarezza in questo settore, distinguendo tra testate
autenticamente di partito, che rappresentano cioè
partiti e movimenti politici, e testate che approfittando dei varchi concessi dalla precedente
normativa, prendono i soldi come un giornale di
partito spacciandosi ai lettori come testate d’opinione (testo ripreso da www.aprile.org).
5
LIBRERIA
DI TABLOID
Chiara
Forti
Redazioni
pericolose
di Letizia Gonzales
“Un microcosmo di tensioni,
frustrazioni, conflitti. Descritti
con ironia crudele. Un racconto
di redazione dove la protagonista, che impiega il suo tempo a
passare pezzi altrui, soffre per
essere un lavoratore mentale
che non partecipa creativamente all’ideazione del giornale
dove lavora, ma subisce scelte
e decisioni prese da altri. Dalla
direttora, dai suoi collaboratori,
dalla gerarchia che domina la
redazione.” È la prefazione di un
saggio pamphlet Redazioni
pericolose di Chiara Forti, in
libreria da pochi mesi.
Il libro che ben descrive il ruolo
difficile e frustrante del giornalista addetto al desk, cioè alla
fattura del giornale, vuole essere una denuncia del malessere
che colpisce molti giovani e non
solo loro, che non si sentono
coinvolti nel giornale che producono e si interrogano sul senso
del loro mestiere.
Esemplare di questo disagio
un’inchiesta svolta recentemente in un grande gruppo editoriale milanese dove più del 67%
dei giornalisti non si riconosce
nel “prodotto” finale, il 46% ritiene poco interessante il proprio
lavoro e il 38% ripetitivo, stressante, dequalificato.
Il libro suddiviso in brevi capitoli
(la cultura del ritaglio, propaggini del computer, riunioni di redazione... partecipate numerosi, e
così via) è uno specchio fedele
e paradossale del ruolo del lavoratore mentale, come lo definisce l’autrice, dominato dal
computer. Non più giornalisti a
caccia di notizie, presenti là
dove accadono gli eventi, ma
ritagli e telefono come surrogati
dell’informazione vissuta da
altri. Bandita l’intervista in prima
persona, l’esperienza dal vivo
da raccontare con le proprie
emozioni, perché non c’è tempo
e costa troppo. Si va in archivio
al centro documentazioni. Non
si esce più, si resta al desk.
Esemplare il capitolo dedicato al
ritaglio, dove l’autrice racconta
come “ l’amore per il ritaglio è un
sentimento generale e profondo
e non un tic passeggero e isolato. Senza i ritagli le redazioni
non avrebbero la capacità di
reggersi in piedi”. L’orgoglio
professionale non esiste più e
l’unico modo di sopravvivere a
questo disagio è un urlo collettivo, disumano, liberatorio come
rivolta contro l’opprimente potere della gerarchia.
Tutto esagerato? Forse. Partendo però dalla descrizione di
situazioni e personaggi in un
settimanale femminile, come
quelli raccontati in questo libroinchiesta, ci si può interrogare
sul futuro del mestiere del giornalista, insidiato dalle nuove
tecnologie e dal mercato. Dai
collaboratori “disperati” disposti
a qualsiasi sacrificio,anche
economico, pur di ritagliarsi uno
spazio nel giornale e forse
guadagnarsi un futuro da R.O. E
ancora, sulla qualità del prodotto giornale e sull’autonomia di
chi fa informazione.
Chiara Forti,
“Redazioni pericolose”,
Edizioni Deriva Approdi, pagine 91, lire 12.000
21 (29)
LIBRERIA DI TABLOID
Sigfrido Bartolini
Testimone del suo tempo
di Mario Pancera
Questo volume nasce insieme con una mostra che il
pittore, incisore, scrittore e
fervido polemista Sigfrido
Bartolini, pistoiese, 68 anni,
ha tenuto negli spaziosi
ambienti della Triennale di
Milano, tra il marzo e l’aprile scorsi.
Anche chi non ha visto
l’ampia antologica, ricca di
spunti e di richiami culturali
(non c’erano soltanto quadri, acquerelli, acqueforti e
disegni, ma anche fotografie, libri, lettere sulla sua
attività e sui suoi incontri
con gli intellettuali italiani ed
europei di mezzo secolo),
può tuttavia seguirne da
queste pagine l’itinerario
umano, artistico e ideale.
Numerosi sono i testi introduttivi e - va detto - quasi
tutti tendono a collocare il
pittore in un’area ideologica
ben precisa, mentre a me
sembra che Bartolini vada
considerato come uomo che
ha dedicato la sua vita all’arte. È valida la sua opera
oppure no? L’opera è valida
se ha valore l’uomo. Manzù
si recava in Vaticano con un
fiore rosso l’occhiello: che
cosa cambia dei suoi ritratti
di Giovanni XXIII o della sua
Porta della Morte?
Così vorrei che si parlasse
di Bartolini, uomo che tra i
suoi sogni ricorrenti ha quello di una farfalla variopinta
che s’ingigantisce nella luce,
che per il suo coloratissimo
mondo adopera soltanto
due gialli, due rossi, un verde e un azzurro, che lavora
quando ne ha voglia, che
nasconde la sua severa
malinconia (talmente dura
da risultare pessimismo) in
un tripudio di immagini e
paesaggi metafisicamente
immobili, come non toccati
dalla violenza e dalle tragedie della vita. Non ne ho
visto uno in cui appaia una
presenza umana.
Bartolini non è etichettabile
tanto facilmente. L’ho incontrato una sola volta. “Sono
l’ultimo desaparecidos”, mi
ha detto, a indicare che si
sentiva parte della quale ha
successo ripudiando il figurativo. Lui è figurativo, nella
grande tradizione toscana
che va - per indicare rudimentalmente, due limiti
temporali e culturlai - da
Masaccio a Soffici, entrambi
amati. E, anzi, a Soffici, spiega, “devo soprattutto la mia
formazione come uomo”. Ma
la poesia dei quadri di Soffici e quella dei quadri di
Bartolini sono del tutto diverse: là trovi, nel silenzio della
Natura, un afflato romantico,
qui senti il dolore della solitudine. Di più, a ben vedere,
trovi la denuncia dell’impotenza dell’uomo di fronte a
se stesso.
“Non so se sono testimone
del mio tempo”, dice affrontando direttamente il problema, “perché il mondo che mi
sta intorno di per sé mi
porterebbe a non far niente,
cioè mi fa schifo”.
E tuttavia, in questa civiltà in
declino, pensa di avere un
“dovere di testimonianza”,
ritiene necessario fondare
dei caposaldi (ed evidentemente lui si sforza di essere
tra questi), dei riferimenti,
considera doveroso essere
testimoni per “aiutare gli altri
a continuare o a riprendere
o a ritrovare o a ricominciare”, insomma per dare
sempre più dignità non solo
al mondo dell’arte, ma all’intelligenza dell’uomo tout
court.
Per una crudele coincidenza
del destino il libro-documento che è una sorta di rapporto sui cinque anni di novità
in Lombardia, a cura della
Direzione Generale Cultura,
progettato come soddisfatto
resoconto agli elettori del 16
aprile scorso ed anche
come legittimo manifesto
elettorale della giunta alla
conclusione del primo quinquennio di mandato, si è
subito trasformato in un
omaggio alla memoria di
Marzio Tremaglia, assessore alla cultura, prematuramente scomparso proprio in
quei giorni.
Il libro si apre con una ben
orientata prefazione di
Tremaglia ed è stato poi
curato da Romano F. Cattaneo, che ha provveduto a
dotarlo anche di un CDROM utile per contenere
tutte le iniziative, i nomi, gli
indirizzi, che altrimenti
avrebbero occupato trenta
pagina a stampa.
Un segno di adesione al
nuovo che avanza, quanto
mai giustificato da un
programma portato a compimento, tra il 1995 e il 2000,
all’insegna della novità.
Novità di impostazione,
22 (30)
novità di metodi, novità di
contenuti. Sono diversi gli
elementi che hanno caratterizzato la purtroppo interrotta stagione di Tremaglia, che
sarà probabilmente continuata dalla squadra che ha
collaborato con lui: occorre
ricordare la concezione
della cultura non come
racconto della storia, ma
storia essa stessa; la difesa
del patrimonio culturale e
del paesaggio secondo
quanto prescrive l’articolo 9
della Costituzione, l’attenzione al sistema delle biblioteche, in procinto di diventare
anche mediateche, la realizzazione della Rete culturale
on-line, la conservazione dei
beni architettonici e storici,
la creazione di sistemi culturali integrati, la programmazione concordata con lo
Stato. Sullo sfondo di questi
criteri e obiettivi generali il
libro sviluppa poi il resoconto dell’attività svolta nei vari
campi.
Pietro Petraroia chiarisce in
un saggio i modelli innovativi di gestione e in un altro
descrive un panorama artistico quanto mai ricco e articolato, documentato poi
analiticamente da dieci
schede di Brunella Reverberi su altrettante memorabili
mostre, da Iside a Klimt, da
Kandiski a Lotto, da L’anima
Bartolini è anche un eccellente xilografo (ha illustrato
un famoso Pinocchio con
tavole intorno alle quali ha
lavorato una dozzina d’anni),
è un maestro dell’incisione,
ma ha pure curato monografie, scritto poesie, illustrato
libri di vario genere, scritto
centinaia di articoli.
Noto per la sua polemica e
scettico sul presente (“Viviamo in un momento di poca o
punta creatività”), afferma di
essere molto severo con se
stesso. Fa la sua rivoluzione
con la reazione: continuare
infatti a essere figurativo,
dice, “in un mondo così, è
fare opera di rottura”.
Sigfrido Bartolini
“Testimone
del suo tempo”,
a cura di
Carlo Fabrizio Carli,
Ed. Mazzotta,
pag. 246, s.i.p.
(omaggio
alla memoria
di Marzio
Tremaglia)
Romano F. Cattaneo
Ripensare la cultura
in Lombardia
di Vincenzo Ceppellini
Camilla Cederna
Il lato debole
e il volto a Hokusai, che
hanno offerto ai cittadini
lombardi ore di autentico
piacere intellettuale. Altre
sezioni del libro rendono
conto dell’attività svolta nel
campo del cinema e della
multimedialità (ne parla Alex
Voglino) e in quello più
specifico della cultura popolare, alla quale sono stati
dedicati convegni e manifestazioni di indubbio coinvolgimento.
Ma forse è nel saggio Cultura a 360 gradi di Gianfranco
de Turris che si coglie il
nucleo più profondo del
nuovo portato al successo
dall’assessorato Tremaglia.
È finita la liturgia della vulgata, la tutela dei tabù ideologici, il condizionamento di
conventicole che rappresentavano solo se stesse. Cultura a 360 gradi ha voluto dire
apertura a intellettuali di
qualsiasi matrice ideale, di
ogni percorso storico, di ogni
livello, alto o basso che
fosse perché in un modo
massmediale è giusto avvicinare la gente sia alla cultura alta che a quella definita
bassa.
Tra gli eventi significativi del
quinquennio si citano, a
questo proposito, le mostre
sul Futurismo, il recupero di
figure come Ezra Pound e
Julius Evola, la visita del
Dalai Lama.
Per concludere il suo discorso Tremaglia aveva scelto
una citazione da Simone
Weil . “Dobbiamo conservare gelosamente le gocce del
passato vivente... la distruzione del passato è forse il
destino supremo”. In questo
orizzonte aperto, autentico
segno di cultura, è così
potuto accadere che in
mezzo al tafferuglio parlamentare per il dibattito sulla
fiducia al nuovo governo, un
avversario di Tremaglia, il
segretario ds Veltroni, abbia
interrotto il clima di rissa e
chiamato i colleghi, tutti i
colleghi, a rivolgere un
applauso di congedo e di
premio al giovane assessore della Regione Lombardia.
Non è stato solo un episodio
di lutto, è stato anche un
episodio di cultura.
“Ripensare la culturaCinque anni di novità
in Lombardia (1995-2000)”
a cura di
Romano F. Cattaneo Regione Lombardia,
Assessorato alla Cultura
Edizioni Gabriele
Mazzotta, pag. 160
più CD-ROM
di Luigi Bolognini
Secondo Giulio De Benedetti, il peggior rischio per il giornalista è di voler fare lo scrittore. Il che ha senza dubbio
un notevole fondo di verità
(guai a chi si crede sommo
letterato e trasforma un articolo in incomprensibile
pastrocchio poetico), ma non
è vero del tutto. Perché il
giornalismo (certo giornalismo, ovvio: mica tutto) può
usare stilemi letterari fino a
trasformarsi esso stesso in
letteratura. Il sistema migliore per capirlo è leggere un
articolo a distanza di decine
d’anni. Se, persa l’attualità,
scomparsi i riferimenti, rimane perfettamente leggibile,
facilmente siamo di fronte a
una sorta di opera letteraria.
In questa categoria rientra
certamente la rubrica Il lato
debole, che dal 1956 al 1976
fu un punto di forza dell’Espresso. Quei quattro articolini ordinati in due colonne
nella pagina centrale, erano
un’oasi di serenità, un
momento di sorriso in un
giornale che, allora molto più
di ora (ma erano altri tempi),
faceva dell’impegno e della
denuncia politica i suoi tratti
distintivi. Loro autrice e gran
maestra, Camilla Cederna a
personalissimo avviso di chi
scrive la più grande giornalista italiana. Anche se ora
sono in pochi a ricordarsela.
Ottima, dunque, l’idea di
Feltrinelli di affidare a due
parenti, la nipote Giulia Borgese (giornalista al Corriere),
e la cugina Anna Cederna il
compito di scegliere un
centinaio di pezzi (su circa
quattromila) e di ripubblicarli.
Il nome della rubrica ne spiega già il senso. Per Camilla,
normalmente dedita a reportage e inchieste serissimi,
dall’Italia e dal mondo,
dall’Algeria alla Cina, era
proprio il lato debole: un
divertissement, un momento
di disimpegno, nel senso
migliore del termine. La
Cederna col suo tipico stile
leggero ma mai fatuo schizzava una magistrale serie di
bozzetti di dame e signori
della media e grande borghesia illuminata milanese,
quella dei salotti: la solissima, l’intellettuale, la pedante
e così via.
Ora che il tempo ha reso
praticamente irriconoscibili i
riferimenti, questi ritratti si
trasformano in esercizio di
stile di puro divertimento, da
giornalismo insomma si
sono trasformati (appunto) in
letteratura, in tipi umani non
più legati alla realtà contingente, in maschere assolute,
eterne, e quindi in qualche
modo ancor più attuali. Prendiamo Discorsi in U, elenco
di comportamenti e luoghi
comuni degli e sugli uomini:
“Gli uomini son tutti dei
bambinoni. Agli uomini piace
comandare. Agli uomini
piace essere protetti. Con gli
uomini non si può mai dire. È
un uomo molto a posto. L’uomo è cacciatore. Da uomo a
uomo. Sai, tra uomini... Cosa
vuoi, gli uomini. Gli uomini,
mia cara. È un uomo come
tutti gli altri. Gli uomini, se
non ci fossero, bisognerebbe
inventarli. Cosa siete, voi
uomini! Con gli uomini non si
ragiona. Gli uomini? Non me
ne parlare. Son tutti uguali.
Tante belle parole, e poi...
Son tutti imbroglioni. Son dei
materiali. Sono una razza a
parte, e che piaghe! Se gli
uomini non brontolano, non
son più loro. Un uomo vale
un altro. Gli uomini hanno il
complesso materno.
È un uomo di pezza”. In
questo blob (ma scritto
quando Blob era solo il titolo
di un misconosciuto filmetto
americano, non dimentichiamolo) c’è tutto lo stile di
Camilla: quasi parlato, informale ma al contempo rigoroso, semplice ma impossibile
da ricreare. Ed è una fortuna
che la Cederna, come Brera,
non abbia creato una scuola. Certe cose sono inimitabili.
A un certo punto della storia
della rubrica (e quindi del
libro), in coincidenza con
piazza Fontana, c’è una
cesura piuttosto netta, di stile
e argomenti. L’innocenza, la
gaiezza originarie sono
perdute irrimediabilmente: i
toni si fanno più cupi, le argomentazioni più serie. Si apre
la strategia della tensione, la
lotta politica si fa armata, i
misteri si susseguono ai
misteri, le trame si intrecciano. E Camilla perde la voglia
di scherzare e si trasforma in
giornalista investigativa. Ma
in effetti non cambia molto:
lei, infatti, continua a raccontare Milano esattamente
come prima. È Milano ad
essere cambiata, dalla metropoli del boom che “scopriva il brivido del consumismo,
si concedeva le prime vacanze in Kenya” (definizione di
Maria Latella) e dei fermenti
intellettuali (Fo, Jannacci,
Simonetta), diventa una città
divisa, impaurita. E Camilla
semplicemente si adegua.
Tutto è così cambiato che
non si riesce più a ridere. Ma
si continua a pensare.
Camilla Cederna
(a cura di Giulia Borgese e
Anna Cederna),
“Il lato debole”,
Feltrinelli, Milano, 2000,
pagine 160,
lire 15000
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2000
I NOSTRI ERRORI
La recensione del libro di Alfio Caruso (Da cosa nasce
cosa), apparsa sul n. 5 di Tabloid, risulta firmata da
Mattero Collura. Non c’è dubbio che si tratti, invece, di
Matteo Collura, collega noto. Qualche volta, purtroppo,
capita di sonnecchiare. Chiediamo scusa a Matteo Collura
e ai nostri lettori.
(Fr. Ab.)
Settimio Paolo Cavalli
Il marketing librario
di Gigi Speroni
Settimio Paolo Cavalli gioca
in casa nel parlar de I
mestieri del libro, titolo di una
collana della Editrice Bibliografica dedicata a quei
pacchetti di carta stampata
che racchiudono e tramandono tutte le nostre conoscenze, i nostri sogni, oggi aggrediti dalla volatile concorrenza
on line...
Di quello che l’autore definisce il “prodotto libro di carta,
come lo conosciamo e amiamo da tempo, come continuerà ad essere conosciuto
e amato almeno da tutti i feticisti che nel libro o del libro
vogliono godere non solo il
contenuto, ma l’odore, la
consistenza, il tatto, il vederlo
sullo scaffale o sul tavolo o
sul comodino, macchia di
colore o memento mori che
sia”.
Parole che testimoniano la
passione e l’affetto di chi i libri
li conosce da sempre, è
impegnato da quarant’anni
nel mondo editoriale e sa
coniugare la laurea in organizzazione aziendale con
una scioltezza di scrittura
collaudata da numerose
collaborazioni in testate
specialistiche. Di un innamorato che, comunque, definisce il suo feticcio un “prodotto”, perché anche per il libro
“i conti devono tornare: non
può (non deve) esistere un’azienda in perdita, anche
quelle no-profit, anche quelle
di servizio, anche le Fondazioni culturali devono far
quadrare i conti. Un’azienda
in perdita è un danno per se
stessa, per chi ci lavora e per
la società tutta. È la contraddizione lampante di qualsiasi
principio di marketing, oltre
che di buon senso”.
Pianta i piedi per terra, amico
scrittore: se non vendi non
esisti.
Le cifre che Cavalli ci offre
fanno riflettere: 3.688 case
editrici con 339.00 titoli in
commercio per un fatturato di
soli 4.392 miliardi, “meno
della Barilla Italia che non è
certo la maggiore azienda
italiana, per cui se facessimo
una media il fatturato/azienda sarebbe poco più di un
miliardo lordo annuo per una
produzione media di 12-13
titoli. Nella realtà esiste un
vero oligopolio in cui i primi
cinque gruppi editoriali
coprono circa il 55 % del
fatturato totale, e la tendenza
alla concentrazione delle
sigle editoriali è fortissima”.
(E in crescendo: la Rusconi
Libri è stata recentemente
assorbita dalla Rcs) ,
“È questo, della concentrazione, uno dei pochi segni,
per ora, di una tendenza alla
‘industrializzazione’ del settore che sicuramente incide
sulla sua struttura.”
Ma qual è la filosofia di
conduzione delle aziende?
“Difficile a dirsi, guardandosi
attorno sembrerebbe quella
di un mercato maturo, anzi
saturo, senza essere passata dalla prima e dalla seconda fase, senza servizi e
senza assistenza, ma con
tante promozioni banali, con
una ancora forte pressione
sulla spinta di vendita. In
concreto l’editoria vive una
fase marchet oriented senza
disporre, o senza servirsi
dello strumento principale, il
marketing appunto”.
Da qui il saggio di Cavalli
Marketing librario: 225 pagine utili anche a chi ha un
manoscritto nel cassetto e
può imparare a costruire un
“prodotto” per l’editore che
deve pensare al mercato.
Remo Danovi
Il pendolo della professione
legale e Codici deontologici
di Gian Luigi Falabrino
Avvocato celebre e studioso
del diritto, Remo Danovi ha
particolarmente approfondito, a partire dal 1984, i
problemi della professione
forense e, prima fra tutti, la
deontologia professionale.
Ora torna su questi temi con
due libri necessari, a mio
parere, sia agli avvocati già
esperti sia ai giovani che si
accingono ad entrare nell’avvocatura. E anche ai magistrati che con gli avvocati
hanno a che fare tutti i giorni.
Il primo di questi libri è Il
pendolo della professione. È
una raccolta di saggi che
approfondiscono molti temi
di diritto forense, a cominciare dal codice deontologico
degli avvocati, per il quale –
nel 1997 – è stato redatto un
progetto per la codificazione
delle regole. Particolarmente
interessante è l’analisi delle
ragioni pro e contro la codificazione, anche grazie alla
comparazione con alcune
soluzioni straniere.
Altrettanto approfondita è la
questione della pubblicità
individuale dell’avvocato,
esaminata anche in relazione ai principi europei. Così
costituisce un utile memento
ORDINE
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2000
il capitolo dedicato all’uso
dilatorio che sia i magistrati
sia gli avvocati fanno degli
strumenti processuali.
Il libro prende il titolo da un
saggio su tre anni di legislazione forense (1997-99).
Tutto era cominciato nel
1994 con l’indagine dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per la
quale “tutte le libere professioni devono essere assoggettabili alle regole della
concorrenza in dipendenza
delle nozioni d’impresa adottata dagli organi comunicatori”. Su questa base, il Ministro di giustizia ha elaborato
il disegno di legge del luglio
1998 per il riordino delle
professioni, dopo che, con la
legge del 24 febbraio 1997,
era stato abolito l’albo dei
procuratori. Queste e altre
leggi sulle professioni (part
time, inserimento degli avvocati nel ruolo dei magistrati,
società professionali, formazione e accesso, scuole di
specializzazione ecc.) sono
esaminate con dovizia di
particolari.
Gli ultimi capitoli del volume
sono dedicati, fra l’altro, alla
riforma
dell’ordinamento
forense nelle prospettive
dell’avvocatura, agli ultimi
congressi nazionali forensi e
ai loro orientamenti, agli
onorari dell’avvocato, ai
rapporti fra stampa e cultura
forense.
Interamente dedicato ai
Codici deontologici è l’altro
recente libro di Remo Danovi, utilissimo per la possibilità
di comparazione fra i criteri
adottati nelle varie professioni, soprattutto quando fra
esse vi sono punti di contatto. Il volume è diviso in due
parti: le professioni riconosciute, quali gli architetti, gli
avvocati, i biologi, i commercialisti, i giornalisti, i medici, i
notai ecc.; e le altre attività
professionali (arbitri, avvocatura dello Stato, giudici di
pace, insegnanti, magistrati,
pubblicitari ecc.).
Esauriente è il capitolo dedicato alla deontologia del
giornalista, alla cui base sta
la legge istitutiva dell’Ordine
3 febbraio 1963, n. 69):
“Senza quella legge – ricorda Franco Abruzzo nel
commento al capitolo – i
giornalisti si ridurrebbero ad
essere impiegati senza
deontologia”. Ma la genericità dei principi enunciati
negli artt. 2 e 48 di quella
legge ha spinto la Federazione nazionale della stampa a
l’Ordine nazionale ad elaborare alcune “carte” interpretative dei principi, “che si
pongono come casistica
rispetto agli artt. 2 e 48 della
legge professionale” (Abruz-
Perché se un cronista scrivendo un articolo deve rispettare le cinque famose W
(Who, Where, What, When,
Why) anche lo stratega di
un’azienda editoriale è tenuto a seguire la stessa regola
nel collocare un libro, rispondendo alle stesse domande:
Chi? Dove? Quando? Che
cosa? Perché?
Settimio Paolo Cavalli nell’illustrare quelli che definisce
“strumenti di un’utopia possibile”, atti a fornire nuova linfa
al prodotto-libro, offre spunti
di riflessione e dati sconsolanti.
Spulcio: “Oggi il ciclo di vita
media di un libro da libreria è
inferiore ai novanta giorni
entro i quali gioca tutta la sua
esistenza. Questo drammatico accorciamento della vita
media di un libro è una delle
cause – non la sola – del
proliferare di nuovi prodotti
che scalzano via via sempre
più velocemente quelli
presenti sul bancone del
libraio. Non a caso in Italia
escono mediamente oltre
50.000 titoli all’anno”.
Fatti più in là, collega.
Dei libri, oltre al best seller,
all’instant book c’è anche il
coffee table book, “letteralmente libro da tavolino, lo si
usa per far bella figura con gli
ospiti lasciandolo in bella
vista, di piatto naturalmente,
sul tavolino del salotto
buono”.
“Nella mente del possibile
acquirente l’arte è un argomento ‘alto’ che regge un
prezzo alto, mentre la cucina
è un argomento ‘basso’ che
richiede un prezzo basso. A
parità di ogni altra caratteristica (formato, numero di
parole, confezione, numero e
superficie delle illustrazioni,
ecc.) un libro di cucina non
può avere lo stesso prezzo di
un libro d’arte: il possibile
acquirente lo giudicherebbe
aprioristicamente caro, e non
lo comprerebbe”.
“Non chiedetemi perché”,
sostiene Cavalli. E se lo dice
lui…
Gli è ben chiaro, invece,
perché una certa politica
editoriale diventa suicida:
quando spaccia come novità
lavori già editi, sceneggiature
come opere di narrativa;
ripubblica vecchie edizioni
con titoli diversi… “Specchietti per le allodole” che
non ingannano il 7% di “lettori forti” ma demotivano quel
“40 per cento di lettori occasionali”, i quali, delusi, finiscono per non comperare più
libri. “Un po’ come gli elettori
che, a forza di sentirsi presi
in giro dalle forze politiche,
non vanno più a votare; con
la differenza che le forze politiche continuano a governarci anche se sono state elette
da quattro gatti, i libri non è
possibile venderli obbligatoriamente per legge”…
“È curioso notare come, in
generale, i mezzi su cui si fa
pubblicità ai libri siano
completamente
sbagliati:
pagine letterarie dei quotidiani, riviste letterarie, strumenti
per addetti ai lavori. Tutti
canali diretti sempre a quel
7% che non ha certo bisogno
di essere invogliato ad avvicinarsi al prodotto libro e che si
avvale per decidere le
proprie scelte della critica
(propaganda e non pubblicità), del ‘passa parola’, del
consiglio del libraio e di se
stesso. È l’altro 40 %, che
sicuramente non legge le
pagine letterarie, che va
sollecitato dalla pubblicità”.
Cavalli ne ha anche per noi
o, meglio, su di noi.
“Attenzione, non c’è idea più
stupida che pensare che ‘fare
regali’ ai giornalisti sia un’attività utile o pagante a fini
promozionali.
Se siete coloro che pensano
che, fatte le debite eccezioni,
i giornalisti siano dei corrotti
comprabilissimi, è dannoso
oltre inutile inimicarseli con
un regalo che, rispetto a
quello che possono offrire i
produttori di automobili –
vestiti, profumi, viaggi, ecc. –
non può essere che ‘peanust’, noccioline, come dicono
gli americani”.
Fatte le debite eccezioni…
zo). Sono la Carta di Treviso
per una cultura dell’infanzia,
(5 ottobre 1990), il Vademecum per la Carta di Treviso
(25 novembre 1995), la
Carta dei doveri del giornalista (8 luglio 1993); e infine il
Codice deontologico relativo
al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività
giornalistica (in riferimento
all’art. 25 della famosa legge
675 del 31 dicembre 1996);
quest’ultimo codice è stato
approvato il 15 luglio 1998
dal Consiglio dell’Ordine
nazionale dei giornalisti e
fatto proprio dal Garante per
la protezione dei dati personali (29 luglio 1998).
Abruzzo ricorda anche che
le Carte di Treviso sono state
ispirate alla Convenzione
internazionale sui diritti
dell’infanzia, firmata a New
York il 20 novembre 1989 e
tradotta nella legge italiana il
27 maggio 1991, n. 176. Può
essere utile ricordare che,
nel decimo anniversario
della Convenzione di New
York (novembre 1999novembre 2000), si svolgerà
al Palazzo Reale di Milano il
27 settembre prossimo un
convegno internazionale sul
tema “I diritti dell’infanzia”. Il
convegno inaugurerà la
Mostra omonima all’Arengario, a prolusione del 2° Festival Internazionale della
Comunicazione Sociale (2830 settembre 2000 – Università Bocconi di Milano).
È una curiosità, ma straordinariamente interessante, la
pubblicazione del Codice
barbaricino, tratto da un libro
di Antonio Pigliaru (La
vendetta barbaricina come
ordinamento
giuridico,
1959), che offre molti spunti
di riflessione sul permanere
fino al Novecento di ordinamenti tribali pre-statali, soprattutto in questi giorni nei
quali molti si scandalizzano
per la vendetta contenuta nel
Kanun albanese e invocata
dai parenti e amici del bambino ucciso a Mariano Comense. In realtà, le due tradizioni tribali hanno leggi molto
simili, a cominciare dall’art. I
del Codice barbaricino: “L’offesa dev’essere vendicata.
Non è uomo d’onore chi si
sottrae al dovere della vendetta, salvo nel caso che
avendo dato con il complesso della sua vita prova della
propria virilità, vi rinunci per
un superiore motivo morale”.
Ma, a parte le curiosità storico-sociologiche, altri sono i
codici contenuti nella seconda parte del libro che hanno
molta importanza nella società contemporanea.
E fra questi il Codice di autodisciplina pubblicitaria, istituito nel 1966 e successivamente modificato più volte.
Come dice l’avv. Giorgio Ferrari nel commento al capitolo, “L’Autodisciplina pubblicitaria in Italia rappresenta
oggi una realtà ormai definitamene affermata... ed ha
sicuramente creato nel
nostro Paese un costume
pubblicitario ben preciso ed
insieme un convincimento
generalizzato della sua corrispondenza ai criteri di una
vera correttezza professionale”.
Ferrari ricorda anche che,
“con una decisione recentissima e senza precedenti, la
Cassazione (sentenza n.
1259/99) ha dettato il principio di diritto” secondo il quale
le regole contenute nel Codice di autodisciplina pubblicitaria “costituiscono parametri di valutazione della correttezza professionale”.
È anche da ricordare l’art. 7
di questo codice, che impone
la distinzione della pubblicità
dall’informazione, in perfetta
analogia con le norme della
Carta dei doveri.
Settimio Paolo Cavalli,
“Il marketing librario”,
Editrice Bibliografica, Milano, pagine 225,
lire 40.000
Remo Danovi,
“Il pendolo
della professione”,
Giuffrè Editore, 1999
lire 48.000
Remo Danovi,
“Codici deontologici”,
Egea
(Bocconi-Giuffrè), 2000,
lire 80.000
L’ECO DELLA STAMPA
ECO STAMPA
MEDIA MONITOR S.R.L.
Via Compagnoni 28, 20129 Milano
Tel. 02 74 81 131
Fax. 02 76 11 03 46
23 (31)
Riforma universitaria
In arrivo 104 lauree specialistiche:
c’è anche giornalismo
Roma, 14 aprile - Il turismo, lo sport, ma
anche il giornalismo, i servizi sociali e la
cooperazione allo sviluppo. Le nuove classi
delle lauree specialistiche biennali toccano
indirizzi e ambiti che stanno acquistando un
peso nuovo nella società. Con lo schema di
decreto sulla Determinazione delle classi di
lauree specialistiche universitarie - che il
ministro Ortensio Zecchino ha consegnato
al Consiglio universitario nazionale (Cun) si aggiunge dunque un altro tassello al
nuovo volto dell’università italiana.
Il nuovo sistema è quello del “3+2”: la laurea
avrà infatti durata triennale e ad essa seguiranno - per i laureati che sceglieranno di
proseguire gli studi - lauree specialistiche
biennali. Due gli obiettivi principali: garantire
al titolo di studio una immediata spendibilità
sul mercato del lavoro e curare l’attuale
“patologia” dell’università italiana, vale a dire
la mortalità studentesca ed i tempi lunghi
per il termine degli studi. Le classi, cioè le
aree scientifico-disciplinari, sono 41 per le
lauree triennali (però mancano quelle per le
aree sanitarie e scientifico-strategiche) e
ben 104 per le lauree specialistiche biennali.
Lo schema di decreto, la cui pubblicazione
è prevista entro giugno, introduce in 7 articoli molteplici novità. Ad esempio, gli
studenti potranno specializzarsi in ben quattro classi di biotecnologie (agrarie, industriali e farmaceutiche, mediche, veterinarie), 15
indirizzi di ingegneria, ma anche in settori
emergenti: dalla programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali a quella dei sistemi turistici e degli eventi culturali,
all’organizzazione e gestione dei servizi per
lo sport e le attività motorie. È prevista
anche una laurea biennale in discipline per
la cooperazione allo sviluppo e una in scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua. In vari casi, poi, sarà anche
possibile redigere e discutere la tesi in
lingua straniera.
Gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea
specialistica nell’ambito dell’autonomia
universitaria, si sottolinea nel decreto, “sono
definiti dagli Atenei entro 18 mesi dalla data
di pubblicazione del decreto sulla Gazzetta
Ufficiale”. Gli studenti saranno valutati con il
sistema dei crediti (a ciascun credito corrispondono 25 ore di lavoro per studente). Per
conseguire la laurea di primo livello (triennale), lo studente deve aver acquisito 180
crediti. In base al decreto, “per ogni corso di
laurea specialistica i regolamenti didattici di
ateneo determinano i crediti assegnati a
ciascuna attività formativa”.
Per quanto riguarda la laurea specialistica
in giornalismo, va ricordato che nel periodo 1930-1934 l’Università di Perugia avviò il
corso di laurea in scienze politiche “con indirizzo giornalistico”. Gli studenti dovevano
frequentare per due anni (nei mesi di marzo,
aprile e maggio) le esercitazioni pratiche
della Scuola di giornalismo di Roma, ottenendone un certificato di compiuto tirocinio.
Con questo certificato potevano conseguire
la laurea che li abilitava all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti e quindi all’esercizio della
professione. Abolita nel 1934, dopo quattro
anni di funzionamento, la scuola di giornalismo di Roma, fu cancellato anche il corso
di laurea “con indirizzo giornalistico” dell’Università di Perugia.
Queste le 104 classi delle lauree specialistiche biennali previste dallo schema di decreto:
■ antropologia culturale e etnologia
■ progettazione e sperimentazione nei settori
delle telecomunicazioni visive e dello spettacolo
■ archeologia
■ programmazione e gestione dei servizi formativi
e psico-pedagogici
■ architettura del paesaggio
■ programmazione e gestione delle politiche
e dei servizi sociali
■ architettura e ingegneria edile
■ pubblicità e comunicazione d’impresa
■ archivistica e biblioteconomia
■ scienza e ingegneria dei materiali
■ biotecnologie agrarie
■ scienze biologiche e biologiche applicate
■ biotecnologie
■ scienze chimiche
■ industriali e farmaceutiche
■ scienze cognitive
■ biotecnologie mediche
■ scienze della natura
■ biotecnologie veterinarie
■ scienze della politica
■ culture e metodologie per la società dell’informazione
■ scienze della programmazione e gestione
dei sistemi sanitari
■ discipline della comunicazione sociale e istituzionale
■ scienze delle attività motorie preventive e adattive
■ discipline dello spettacolo teatrale, cinematografico
e televisivo
■ scienze delle pubbliche amministrazioni
■ discipline per la cooperazione allo sviluppo
■ scienze delle relazioni internazionali
■ disegno industriale
■ scienze delle religioni
■ editoria, comunicazione multimediale e giornalismo
■ scienze dell’educazione degli adulti
e della formazione continua
■ farmacia e farmacia industriale
■ scienze e tecnica dello sport
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filologia e letterature dell’antichità
scienze e tecnologie agrarie
filologia moderna
scienze e tecnologie agroalimentari
filosofia e storia della scienza
scienze e tecnologie chimiche industriali
filosofia teoretica, morale, politica ed estetica
scienze e tecnologie dei sistemi di navigazione
giurisprudenza
scienze e tecnologie fisiche
informatica per le discipline umanistiche
scienze e tecnologie informatiche
ingegneria aerospaziale e astronautica
scienze e tecnologie per l’ambiente e territorio
ingegneria biomedica
scienze economiche
ingegneria chimica
scienze economiche per l’ambiente e la cultura
ingegneria civile
scienze economiche-aziendali per il management
ingegneria dell’automazione
scienze geofisiche
ingegneria delle telecomunicazioni
scienze geografiche
ingegneria e modellistica matematico-fisica
per le scienze applicate
scienze geologiche
ingegneria elettrica
scienze infermieristiche
ingegneria elettronica
scienze matematiche
ingegneria energetica
scienze pedagogiche
ingegneria gestionale
scienze psicologiche
ingegneria informatica
scienze sociologiche e sociologiche applicate
ingegneria meccanica
scienze statistiche demografiche e sociali
ingegneria navale
ORDINE - TABLOID
periodico ufficiale del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Mensile / Spedizione in a. p. (45%)
Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXI - Numero 6,
giugno 2000
Direttore responsabile FRANCO ABRUZZO
Condirettore BRUNO AMBROSI
Direzione, redazione, amministrazione
Via Appiani, 2 - 20121 Milano
Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307
24 (32)
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scienze statistiche economiche, finanziarie e attuariali
ingegneria per l’ambiente e per il territorio
scienze statistiche per la ricerca sperimentale
interpretariato di conferenza
scienze, tecnologie e gestione dei sistemi
agro-zootecnici
lingua e cultura italiana
scienze, tecnologie e gestione delle risorse del territorio
rurale, forestali e agroambientali
lingue e letterature afro-asiatiche
storia antica
lingue e letterature moderne euro-americane
storia contemporanea
lingue straniere applicate
storia della filosofia
linguistica
storia e conservazione dei beni architettonici
e ambientali
medicina e chirurgia
storia e conservazione dei beni scientifici della civiltà
industriale
medicina veterinaria
storia e conservazione del patrimonio artistico
metodologie per la ricerca empirica nelle scienze sociali
storia medievale
metodologie per l’analisi valutativa dei sistemi complessi
storia moderna
musicologia e beni musicali
studi europeistici e delle politiche e istituzioni
dell’Unione europea
odontoiatria e protesi dentaria
teoria della comunicazione
organizzazione e gestione dei servizi per lo sport
e le attività motorie
teoria e tecniche della normazione e dell’informazione
giuridica
pianificazione territoriale urbanistica e ambientale
traduzione letteraria e traduzione tecnico-scientifica
progettazione e gestione dei sistemi turistici
e degli eventi culturali
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