AIAF RIVISTA • 2011/3 RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI 2011/3 GLI ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI FAMILIARE www.aiaf-avvocati.it Anno XVI n° 3, settembre-dicembre 2011 Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995 1. AIAF 3-11 ind edit_Layout 1 18/11/11 13.11 Pagina 1 AIAF 2011/3 SOMMARIO Editoriale 2 Gli aspetti economici della crisi familiare Milena Pini Focus 3 Assegni per il coniuge e i figli. Quando e quanto Fiorella Buttiglione 31 Decreto della Corte d’Appello di Cagliari (2010) con incarico alla Guardia di Finanza di interrogare l’Archivio dei rapporti finanziari 34 Divorzio all’italiana. La giurisprudenza della Suprema Corte Giulia Sarnari 40 I riflessi economici dell’assegnazione della casa familiare Marina Blasi 51 Proporzionalità e adeguatezza nel mantenimento della prole: riflessioni sulle modalità attuative del dovere Alessandra Cordiano 60 Questioni problematiche e novità giurisprudenziali in tema di mantenimento di figli maggiorenni Sabrina De Santi 64 Mantenimento dei figli e atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c. Corinna Marzi 69 Usufrutto sui beni intestati ai minori e affidamento condiviso Marina Marino 75 Inadempimento del mantenimento per i figli e ritiro o mancata concessione del passaporto: l’intervento del giudice tutelare Andrea Oliva 79 Alcune questioni fiscali in tema di diritto di famiglia Valentina Sarnari 89 Intestazione di partecipazioni societarie tra coniugi tra simulazione, negozio fiduciario e donazione Stefano Dindo 95 Aspetti civilistici e fiscali nella definizione dei rapporti partecipativi societari tra coniugi Alessandro Piras Europa 103 Inghilterra: l’assegnazione dei beni ereditati o acquisiti anteriormente al matrimonio da parte dei coniugi in caso di divorzio Suzanne Todd, Katharine Landells AIAF RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI Anno XVI n° 3, settembre-dicembre 2011 - nuova serie quadrimestrale Direttore responsabile Milena Pini Comitato di redazione Manuela Cecchi, Gabriella de Strobel, Luisella Fanni (coordinatrice Quaderni), Alberto Figone, Giulia Sarnari, Antonina Scolaro Redazione Galleria Buenos Aires 1, 20124 Milano - tel. e fax 02 29535945 [email protected] www.aiaf-avvocati.it Stampa O.GRA.RO. srl - vicolo dei Tabacchi 1, 00153 Roma 1. AIAF 3-11 ind edit_Layout 1 18/11/11 13.11 Pagina 2 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 GLI ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI FAMILIARE Milena Pini Avvocato del Foro di Milano e presidente dell’AIAF In sede di separazione e di divorzio devono essere frequentemente esaminate e risolte questioni di natura economica e patrimoniale, spesso molto complesse. La materia è vastissima e ricomprende in primo luogo l’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento per i figli e il coniuge separato, o dell’assegno di divorzio, e i criteri per la loro quantificazione. Come noto, secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, occorre far riferimento al tenore di vita di cui i coniugi hanno goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente l’assegno, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso. Devono dunque essere tenuti in considerazione le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari e azionari e in beni mobili, nonché le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività e di capacità di spesa. La valutazione delle reciproche capacità reddituali, patrimoniali e finanziarie può estendersi anche all’eventuale titolarità di beni e/o servizi non direttamente riferibile al coniuge, bensì mediata attraverso l’esistenza di partecipazioni in società di diversa natura. Attraverso gli schermi societari, infatti, il coniuge potrebbe disporre e usufruire di significativi e consistenti redditi o 2 “benefit” di natura economico-patrimoniale non direttamente riconducibili e/o intestati alle persone fisiche. Non è rara anche la situazione di intestazione di partecipazioni societarie a un coniuge, di cui l’altro sostenga, al momento della crisi, di essere l’effettivo proprietario: casistica spesso determinata dall’intento comune, durante la convivenza, di proteggere tale partecipazione societaria dai creditori in caso di dissesto. Nella determinazione degli accordi di natura economica in sede di separazione e divorzio è anche utile effettuare una valutazione dell’impatto fiscale delle condizioni economiche concordate, così da attuare una più conveniente pianificazione economica e patrimoniale per entrambi i coniugi: occorre dunque tener conto della detraibilità o deducibilità delle diverse voci. In questo numero della Rivista AIAF avvocati, magistrati, docenti universitari e commercialisti approfondiscono questi temi, indicando orientamenti giurisprudenziali e soluzioni concrete. Un utile contributo per una migliore comprensione della materia e della trattazione della casistica. La complessità delle questioni è peraltro aggravata dalla lungaggine e macchinosità della nostra anacronistica legislazione, e non si può che concordare con le riflessioni di Giulia Sarnari che, nell’articolo qui pubblicato, sottolinea quanto sia difficile “spiegare a chi vuole porre la parola fine a una vicenda coniugale che il nostro ordinamento prevede che occorre prima separarsi, poi attendere e, successivamente, affrontare il divorzio. E quanto è frequente sentirsi chiedere dopo essersi impegnati in una completa illustrazione del sistema ‘... Ma poi, dopo la separazione, è facile divorziare e definire ogni questione?’”. Purtroppo non lo è. 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 3 FOCUS ASSEGNI PER IL CONIUGE E I FIGLI. QUANDO E QUANTO1 Fiorella Buttiglione Già Consigliere presso la Corte d’Appello di Cagliari 1. Premessa Il riconoscimento concreto di un assegno di mantenimento del coniuge o di divorzio trova la sua disciplina nell’art. 156 c.c. e nell’art. 5, commi 6, 7 e 8, l.div. ed è ispirato al principio della tutela del coniuge più debole e dell’obbligo del coniuge economicamente più forte di assicurargli, ove consentito dai suoi redditi, la conservazione dello stesso tenore di vita2. Il minimo comune denominatore delle due norme è costituito dalla ormai pacifica natura assistenziale degli assegni di mantenimento e di divorzio. La giurisprudenza ha applicato, anche in tema di assegno di divorzio, il criterio guida sancito con riferimento all’assegno di separazione; infatti, in entrambi i casi deve essere assicurato al coniuge debole il mantenimento di “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”. E tale linea interpretativa dell’art. 5 l.div. è costante a partire dalla sentenza della Cassazione a Sezioni unite n. 11492/19903. Contemporaneamente, la giurisprudenza, interpretando le norme in esame, ne ha confermato la sostanziale differenza affermando che: a) l’assegno di mantenimento deve essere parametrato, tenuto conto delle “circostanze” e dei “redditi” dell’obbligato, sul solo tenore di vita che il coniuge debole ha diritto di conservare anche dopo la separazione; 1 Relazione tenuta all’incontro di aggiornamento e approfondimento in diritto di famiglia organizzato dalla sezione di Treviso dell’AIAF Veneto, 15 dicembre 2010. 2 Vedi relazione dell’incontro di studio “Prassi nelle cause di separazione e di divorzio”, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 26-28 ottobre 2005; è consultabile all’indirizzo http://astra.csm.it/incontri/menu1.php (codice incontro n. 1539). 3 Cass. n. 11492/1990: “L’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Ove sussista tale presupposto, che dovrà essere valutato anche con riferimento ai mezzi che possono essere acquisiti attraverso una attività lavorativa, confacente alla qualificazione della persona ed alla sua posizione sociale e di fatto, possibile nelle condizioni sia personali (per età e condizioni di salute) che ambientali (per le concrete possibilità offerte dal mercato del lavoro), la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purché ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alle deduzioni e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base dell’incidenza negativa di uno o più di essi)”. 3 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 4 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 b) l’assegno di divorzio, invece, può subire, al momento della determinazione del quantum, una certa falcidia, per effetto dell’applicazione degli altri criteri indicati dall’art. 5 l.div., sino a giungere alla sua riduzione e anche all’azzeramento, con totale perdita del diritto del coniuge debole di riceverlo. La differente disciplina, che in qualche modo penalizza il coniuge che ha diritto all’assegno di divorzio, ben si comprende ove si consideri la speranza del legislatore che la separazione sia una fase patologica reversibile, una specie di interruzione del rapporto, una frattura destinata a ricomporsi. In tale ottica, esclusi o attenuati alcuni obblighi derivanti dal matrimonio, resta per intero l’obbligo di mantenimento. Nel divorzio, invece, cessato definitivamente il vincolo matrimoniale – pur permanendo, per effetto di un principio di solidarietà che supera la rottura del vincolo, l’obbligo del coniuge forte di assicurare un assegno che consenta all’altro lo stesso tenore di vita –, si è prevista, con l’obiettivo di evitare “rendite puramente parassitarie”, una più ampia valutazione della complessiva posizione delle parti al momento della definitiva cessazione della vicenda matrimoniale, che può portare anche alla negazione dell’assegno di divorzio. Nel solco di tale interpretazione delle norme in esame, si inseriscono le decisioni della Cassazione4: • dell’irrilevanza, ai fini del riconoscimento dell’assegno di separazione, dell’attitudine al lavoro del coniuge debole quando in costanza della convivenza matrimoniale si era convenuto che lo stesso non lavorasse, perché deve essere conservato il “tipo di vita di ciascuno dei coniugi”; • dell’irrilevanza, ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell’assegno di divorzio, del precedente regime dell’assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione giudiziale o consensuale5. 2. Assegno di mantenimento per il coniuge separato Funzione dell’assegno è, dunque, quella di realizzare un riequilibrio economico delle posizioni dei due coniugi separati per garantire, ove consentito dalle capacità economiche dell’altro coniuge, la continuazione del precedente tenore di vita. Sul punto va subito chiarito che il tenore di vita va identificato con “lo standard reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi”6. È importante rilevare come il riferimento alle “potenzialità economiche complessive dei coniugi du4 Cass. n. 5555/2004: “Il diritto del coniuge separato senza addebito al mantenimento da parte dell’altro è subordinato dall’art. 156 cod. civ. alla condizione che chi lo pretenda ‘non abbia adeguati redditi propri’, a differenza di quanto previsto, in materia di divorzio, dall’art. 5, comma sesto, legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, del divorzio, che condiziona altresì il diritto al fatto che chi lo pretende non possa procurarseli per ragioni oggettive; ciò in quanto se – ad esempio – prima della separazione i coniugi avevano concordato o, quanto meno, accettato (sia pure soltanto ‘per facta concludentia’) che uno di essi non lavorasse, l’efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione, perché la separazione instaura un regime che, a differenza del divorzio, tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore e il ‘tipo’ di vita di ciascuno dei coniugi”. 5 Anche di recente la Cassazione ha ribadito tale differenza. Vedi sentenza n. 25010/2007: “La determinazione dell’assegno di divorzio, alla stregua dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, poiché, data la diversità delle discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti, correlate e diversificate situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti nel regime di convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio, con la conseguenza che l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione. Vedi sentenza n. 1758/2008: “La determinazione dell’assegno divorzile, alla stregua dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione dei coniugi, con la conseguenza che il diniego dell’assegno divorzile non può fondarsi sul rilievo che negli accordi di separazione i coniugi pattuirono che nessun assegno fosse versato dal marito per il mantenimento della moglie, dovendo comunque il giudice procedere alla verifica del rapporto delle attuali condizioni economiche delle parti con il pregresso tenore di vita coniugale”. 6 Cass. n. 20638/2004. 4 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 5 FOCUS rante il matrimonio” può rendere irrilevante l’accertamento delle somme spese concretamente per il mantenimento della famiglia in costanza di convivenza, perché, secondo la Cassazione, l’assegno deve tenere conto non dell’eventuale più modesto tenore di vita subìto o tollerato, bensì delle esigenze e delle aspettative del coniuge richiedente rapportate alle oggettive disponibilità di risorse economiche del coniuge onerato. In tale prospettiva è anche irrilevante che il coniuge richiedente abbia eventualmente una propria autonomia economica (tale da consentirgli di provvedere alle normali esigenze di vita sin da epoca antecedente al matrimonio e ancora al momento della separazione) se, comunque, il suo reddito non gli consente di riprodurre il tenore di vita goduto durante e per effetto del matrimonio. La Cassazione ha affermato tali princìpi in relazione a un caso di redditi molto elevati di entrambi i coniugi, in cui ha ritenuto il diritto della moglie a conservare il tenore di vita precedente; a tal fine ha rinviato la causa al giudice di merito per il rigoroso accertamento, sulla base della documentazione prodotta e della consulenza espletata, delle capacità economiche complessive dell’uno e dell’altro coniuge, evitando una valutazione sommaria e una comparazione approssimativa delle due posizioni patrimoniali e reddituali7. È utile ricordare che, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento, la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede la determinazione dell’esatto importo dei redditi posseduti attraverso l’acquisizione di dati numerici o rigorose analisi contabili e finanziarie, essendo sufficiente una seria e attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi8. Peraltro, come precisato di recente dalla Cassazione, la valutazione in ordine alle capacità economiche del coniuge obbligato ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno di mantenimento a favore dell’altro coniuge non può che essere operata sul reddito netto e non già su quello lordo, poiché in costanza di matrimonio, la famiglia fa affidamento sul reddito netto e rapporta a esso ogni possibilità di spesa9. 2.1 Presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento Da quanto già detto emerge che un presupposto per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento è la disparità economica tra i coniugi che sussiste – e dà diritto all’assegno – sia nel caso che il coniuge richiedente non lavori sia nel caso che abbia una propria indipendenza economica, ma non abbia comunque adeguati redditi propri o mezzi. Il diritto del coniuge debole all’assegno di mantenimento in caso di separazione spetta anche quando non vi sia stata convivenza tra i coniugi per effetto di una libera scelta e ciò in quanto in tale situazione permangono diritti e obblighi che nascono dal matrimonio10. Nella pratica delle controversie familiari, a volte, si pone il problema se il coniuge debole che gode di elargizioni da parte della famiglia di origine abbia comunque diritto all’assegno di mantenimento. 7 Cass. n. 20638/2004: “Condizioni per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti, occorrendo avere riguardo, al fine della valutazione della adeguatezza dei redditi del coniuge che chiede l’assegno, al parametro di riferimento costituito dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente, non assumendo rilievo il più modesto tenore di vita subito o tollerato. Peraltro, benché la separazione determini normalmente la cessazione di una serie di benefici e consuetudini di vita ed anche il diretto godimento di beni, il tenore di vita goduto in costanza della convivenza va identificato avendo riguardo allo ‘standard’ di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi, tenendo quindi conto di tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro”. Nello stesso senso Cass. n. 5061/2006. 8 In tal senso Cass. n. 23051/2007 e n. 25618/2007. 9 Cass. n. 9719/2010. 10 Cass. n. 17537/2003. 5 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 6 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 L’originaria posizione affermativa della Cassazione11, basata sulla considerazione che ciascuno dei coniugi separati, per effetto del dovere reciproco di solidarietà e di assistenza materiale che nasce dal matrimonio, è sottratto alla dipendenza economica della famiglia di origine, per cui eventuali aiuti di parenti o di terzi non possono escludere l’obbligo di mantenimento a carico del coniuge economicamente più forte, risulta successivamente contraddetta. Infatti, con la sentenza n. 5916/1996, la Corte di legittimità ha espresso il principio secondo il quale “il giudice dovrà tenere conto di ogni reddito disponibile da parte del richiedente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggono nel regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell’interessato”. 2.2 Criteri di liquidazione dell’assegno di mantenimento La determinazione dell’assegno deve essere rapportata, secondo quanto anticipato, al tenore di vita goduto durante il matrimonio e, altresì, alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Del tenore di vita ho già parlato, quindi mi limito a precisare che: “Il concetto è chiaro: significa assicurare ai soggetti deboli della famiglia – per il tempo successivo alla separazione – la possibilità di godere delle stesse utilità e di fare le stesse cose di prima; ciò comporta, in ultima analisi, che deve essere consentita al coniuge debole, per sé e per i figli, la stessa capacità di spesa; egli deve disporre degli stessi soldi che, prima della rottura della unità familiare, erano necessari per mantenere quel tenore di vita”. Ovviamente il coniuge debole ha diritto a un assegno che gli garantisca la conservazione del medesimo tenore sempre che i redditi del coniuge obbligato lo consentano, perché in caso contrario dovrà contrarre le proprie esigenze, come del resto gli altri componenti della famiglia separata. Interessante, in proposito, il chiarimento contenuto nella sentenza della Cassazione n. 18613/200812 che afferma che nell’assegno non vanno comprese, di regola, somme che consentano atti di spreco o di inutile prodigalità del suo destinatario. Il giudice deve tener conto solo del tenore di vita “normalmente” godibile in base ai redditi percepiti dalla coppia e non può dare rilievo ad atti di liberalità eccezionali o straordinari dell’obbligato durante la vita coniugale, non qualificabili come esborsi destinati “ordinariamente” alla vita anche sociale o di relazione dei coniugi o dell’avente diritto. Infatti, si soggiunge, il mantenimento non è destinato allo svolgimento di attività diverse da quelle “strettamente” inerenti allo sviluppo della vita personale, fisica, culturale e di relazione del coniuge che lo riceve e, quindi, non serve per gli investimenti o per consentire un’eventuale attività imprenditoriale di chi ne beneficia. Riguardo alle “circostanze” alle quali fa riferimento l’art. 156, secondo comma, c.c., si era in un primo momento ritenuto che si trattasse di circostanze sempre con diretta valenza economica. In tal senso si esprime la sentenza della Cassazione n. 7630/199713 e, più di recente, la n. 6712/2005. 11 Cass. n. 1691/1987. 12 Cass. n. 18613/2008: “Nella determinazione dell’assegno di mantenimento, deve tenersi conto del tenore di vita ‘normalmente’ godibile in base ai redditi percepiti dalla coppia, e, pertanto, colui al quale è riconosciuto il diritto a tale assegno, potrà chiedere, per tale titolo, le somme necessarie ad integrare entrate sufficienti a soddisfare le sue esigenze di vita personale ed in relazione al medesimo livello già raggiunto nel corso del matrimonio, non dovendosi nell’assegno comprendere, di regola, somme che consentano atti di spreco o di inutile prodigalità del suo destinatario; ne discende che non rilevano eventuali atti di liberalità eccezionali o straordinari dell’obbligato durante la vita coniugale, non qualificabili come esborsi destinati ordinariamente alla vita anche sociale o di relazione dei coniugi o dell’avente diritto; né il mantenimento è destinato allo svolgimento di attività diverse da quelle strettamente inerenti allo sviluppo della vita personale, fisica, culturale e di relazione del coniuge che lo riceve, e, quindi, non serve per gli investimenti o per consentire una eventuale attività imprenditoriale di chi ne beneficia”. 13 Cass. n. 7630/1997: “L’art. 156 cod. civ. attribuisce al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione, sempreché non fruisca di redditi propri idonei a fargli mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva prima della separazione e sussista una differenza di reddito tra i coniugi, un assegno tendenzialmente idoneo ad assicurargli detto tenore di vita. Tuttavia, poiché non sempre la separazione, aumentando le spese fisse dei coniugi, consente il raggiungimento di tale risultato, il secondo com- 6 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 7 FOCUS Tuttavia, sempre con riferimento alla liquidazione del quantum dell’assegno di mantenimento, si registra un’apertura della Cassazione alla valutazione anche di criteri diversi dalle sole circostanze di natura economica. Di recente si è infatti affermato che possono incidere sulla quantificazione dell’assegno, sempre in applicazione del disposto dell’art. 156, secondo comma, c.c., anche la breve durata del matrimonio e il contributo alla formazione del patrimonio, precisando, tuttavia, che tali criteri non possono però portare alla negazione dell’assegno (Cass. n. 20638/2004 e Cass. n. 23051/2007). Si tratta, invero, di fattispecie concrete non certo ricorrenti nella pratica, per cui non si ritengono espressione di un mutamento di indirizzo giurisprudenziale applicabile in ogni caso di richiesta di assegno di separazione14. Tant’è che la Cassazione, anche con la sentenza n. 2818/2006, ha ribadito (in motivazione) che: “La breve durata del matrimonio non preclude il riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi (Cass. 16 dicembre 2004 n. 23378)”, e ciò disattendendo la censura del ricorrente secondo cui la Corte d’Appello “non aveva tenuto conto, inoltre, della breve durata del matrimonio e della circostanza che tra i coniugi non si era formata alcuna comunione di carattere materiale né tanto meno spirituale”. 3. Presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio e criteri di liquidazione Ho già ricordato che la Cassazione, a partire dalla Cassazione a Sezioni unite n. 11492/1990 e con orientamento ormai consolidato15, riconosce all’assegno di divorzio, nella disciplina dettata dal ri- ma dell’art. 156 cod. civ. stabilisce che il giudice debba determinare la misura dell’assegno ‘in relazione alle circostanze ed ai redditi dell’obbligato’, con ciò riferendosi unicamente alle circostanze di ordine economico che possano influire sulla misura dell’assegno, quali l’assegnazione al coniuge beneficiato della casa coniugale e le maggiori spese alle quali possa andare incontro per tale ragione il coniuge onerato, nonché ogni altro fatto economico, diverso dal reddito dell’onerato, suscettibile d’incidenza sulle condizioni economiche delle parti, come il possesso di beni improduttivi di reddito, ma patrimonialmente rilevanti”. 14 Cass. n. 20638/2004: “La durata del matrimonio ed il contributo apportato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge, ovvero di quello comune, integrano parametri utilizzabili in occasione della quantificazione dell’assegno divorzile e non possono valere al fine di escludere la spettanza dell’assegno di mantenimento in caso di separazione personale, essendo tuttavia siffatti elementi valutabili in quest’ultima sede, ai sensi dell’art. 156, secondo comma, cod. civ., allo scopo di stabilire l’importo di detto assegno”. Devo osservare, però, che nel caso deciso il marito apparteneva a un nobile casato romano che conserva tuttora rilevanti testimonianze dell’imponente ricchezza di un tempo, essendo proprietario di beni in ogni parte di Italia, tra i quali un prestigioso appartamento sito nel palazzo di famiglia in Roma, destinato a casa familiare; anche la moglie era in situazione di autonomo elevato benessere economico, essendo titolare di un patrimonio immobiliare di non modesta entità, costituito da tre ampi appartamenti in zona centrale della città, da rilevanti somme liquide e titoli, nonché dai proventi della redditizia attività di consulenza nel campo architettonico e artistico. Di recente Cass. n. 23051/2007: “La durata del matrimonio ed il contributo apportato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge sono elementi valutabili al fine di stabilire l’importo dell’assegno di mantenimento”. Anche questa decisione è riferita a un caso non ricorrente. Il marito professore universitario di chimica analitica, esperto di informatica con studio professionale con sette/otto dipendenti, proprietario in via esclusiva della casa coniugale, nella quale viveva con i figli, maggiorenni, al cui mantenimento provvedeva, che aveva ammesso la disponibilità, nel 1988, di un capitale di circa mezzo miliardo di lire; che percepiva canoni di affitto per circa L. 100.0000.000 annui; che aveva avuto un notevole movimento di danaro sui propri conti bancari, eccetera. La moglie, laureata in biologia ed ex insegnante, proprietaria di un appartamento non dato in locazione, con oneri di una nuova sistemazione alloggiativa, proprietaria di gioielli di un certo valore e del reddito derivante dall’assegno di mantenimento corrispostole dal marito, nonché di una somma pari a L. 200.000.000 consegnatale dallo stesso. La Cassazione ha confermato l’assegno di mantenimento di € 4.500,00 mensili, tenuto conto, oltre che dei predetti elementi, della durata del matrimonio e del contributo apportato dalla donna alla formazione del patrimonio del coniuge, “elementi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, integrano parametri utilizzabili in occasione della quantificazione dell’assegno di mantenimento in caso di separazione personale (v., tra le altre, Cass., sent. n. 20838 del 2004)”. Vedi anche Cass. n. 23378/2004 e n. 25618/2007 annotata. 15 Cass. n. 10210/2005: “In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella disciplina dettata dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, il tenore di vita goduto durante il matrimonio, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, e non già quello tollerato o subito od anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui”. Vedi anche Cass. n. 4040/2003, n. 14004/2002, n. 6541/2002, n. 7068/2001 e n. 6660/2001. 7 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 8 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 formato art. 5 della legge n. 898 del 1970, natura eminentemente assistenziale, condizionandone l’attribuzione alla specifica circostanza che il coniuge debole sia privo di mezzi adeguati e si trovi nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. In proposito occorre sottolineare che la capacità lavorativa del coniuge debole non deve essere valutata in via meramente astratta, ma deve essere verificata in termini di concretezza e di attualità, accertando quali effettive possibilità di trovare un impiego egli abbia e, quindi, tenendo conto non solo degli elementi soggettivi riguardanti quel singolo coniuge (età, condizioni di salute, titoli professionali eccetera), ma anche di ogni fattore economico-sociale, ambientale e territoriale16. Costituisce giurisprudenza consolidata il principio secondo cui l’accertamento del diritto a ottenere l’assegno di divorzio si attua in due fasi, sicché è necessario che il giudice verifichi la sussistenza dei suoi presupposti sia in relazione all’an debeatur (verificando l’inadeguatezza dei mezzi personali del coniuge debole a mantenere lo stesso tenore di vita e l’impossibilità oggettiva di procurarseli) sia al quantum (applicando i criteri correttivi di cui all’art. 5 l.div.: condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo economico e personale di ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno di quello comune). A tal fine è necessario, anzitutto, individuare il tenore di vita dei coniugi nel corso del matrimonio, presupposto necessario in mancanza del quale la Cassazione ha annullato le decisioni dei giudici di merito che avevano riconosciuto, o negato, l’assegno di divorzio17. Come già detto, il tenore di vita da prendere in considerazione anche per l’assegno di divorzio non è solo quello fruito di fatto prima della separazione, bensì quello consentito dalle complessive condizioni economiche delle parti, con la precisazione che occorre anche tenere conto degli incrementi patrimoniali e dei miglioramenti successivi alla separazione, che siano naturale sviluppo della capacità di lavoro, di produzione di reddito e di affermazione professionale del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, già presenti in precedenza18. Presupposti dei quali occorre dare idonea prova19. 16 Cass. n. 13169/2004: “In tema di attribuzione dell’assegno di divorzio, di cui all’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi, dovendosi, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il raggiungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale, ambientale, territoriale. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva accolto la domanda di assegno di divorzio sulla base del notevole squilibrio esistente nella capacità di lavoro e di guadagno delle parti – essendo il reddito dell’un coniuge pari al triplo di quello dell’altro – così sottintendendo la mancanza di titolarità, da parte del coniuge beneficiario dell’assegno, di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive)”. Cass. n. 7117/2006: “Ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio e della determinazione della sua misura, ai sensi dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo modificato dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74), l’accertamento del giudice del merito in ordine alle condizioni economiche dei coniugi ed al reddito di entrambi deve essere compiuto, non in astratto, bensì in concreto; pertanto, detto giudice non può basare la propria decisione su un mero apprezzamento probabilistico, non fondato su dati realmente esistenti con riferimento alla specifica fattispecie. (Enunciando il principio di cui in massima, la Corte ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza, la quale si era basata, oltre che sui redditi reali dei coniugi, soprattutto su quelli virtuali, considerando, quale circostanza decisiva, il fatto che ‘la laurea della donna potrebbe darle un’entrata di due, tre milioni al mese’)”. 17 Cass. n. 4319/1999: “L’assegno di divorzio ha carattere assistenziale e trova il suo presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge istante a consentirgli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio; per determinare la misura dell’assegno è necessario individuare il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio e stabilire la somma occorrente per mantenerlo, tenuto conto che la valutazione delle precedenti condizioni economiche va operata con riferimento al momento della pronuncia di divorzio, e che essa può avere riguardo anche agli incrementi delle condizioni patrimoniali del coniuge obbligato che costituiscano naturale e prevedibile sviluppo dell’attività svolta durante il matrimonio; in relazione al tenore di vita così determinato deve operarsi la concreta commisurazione dell’assegno in ragione delle capacità economiche dell’istante e degli altri elementi di cui all’art. 5 della legge n. 898/1970 e cioè condizioni dei coniugi, ragioni del divorzio, contributo alla vita familiare e al patrimonio comune o dell’altro coniuge, reddito di entrambi, durata del matrimonio (nella specie la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva determinato l’assegno in assenza di una previa individuazione del tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio)”. 18 Cass. n. 1487/2004: “Nella determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, anche se successivi alla cessazione della con- 8 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 9 FOCUS 4. Come accertare i redditi dei coniugi 4.1 Onere probatorio della parte richiedente l’assegno Affrontando in altra occasione20 il problema dell’accertamento del tenore di vita goduto durante il matrimonio – imprescindibile elemento di riferimento per la determinazione degli assegni di separazione e di divorzio – ho osservato che, in via generale, quell’accertamento implica sostanzialmente la dimostrazione delle spese che la famiglia affrontava per mantenere il suo abituale stile di vita, di quanto costava il ménage familiare: “... Per tradurre il tenore di vita nel suo equivalente monetario, le strade sono pertanto almeno due: 1. si accertano le ENTRATE in senso ampio della famiglia, dalle quali può implicitamente desumersi il tenore di vita; 2. si accertano le USCITE, cioè i soldi che venivano concretamente spesi per le necessità familiari. Compito del giudice è quello di conservare ai figli ed al coniuge debole una capacità di spesa analoga a quella goduta in precedenza e, comunque, analoga a quella che può ancora permettersi il coniuge economicamente più forte. vivenza, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio e trovino radice nell’attività all’epoca svolta e/o nel tipo di qualificazione professionale e/o nella collocazione sociale dell’onerato, adeguatamente valutando se siano riferibili al tempo anteriore o successivo alla separazione, mentre non possono essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto computabile l’indennità percepita per una carica elettiva assunta dal coniuge onerato successivamente alla separazione, senza motivare in ordine al ritenuto carattere di ordinarietà e prevedibilità dell’incremento economico)”. Cass. n. 19446/2005: “Nella determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del matrimonio e aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili. Tali non possono essere considerati i miglioramenti economici relativi all’attività di lavoro subordinato svolta da ciascun coniuge durante la convivenza matrimoniale, i quali costituiscono evoluzione normale e prevedibile, ancorché non certa, del rapporto di lavoro. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto computabili, ai fini della determinazione della situazione economica della famiglia al momento della cessazione della convivenza, i compensi percepiti per lavoro straordinario e i premi di presenza e di produttività)”. Cass. n. 20204/2007: “Nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio, mentre non possono essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del matrimonio e aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili, con la conseguenza che non sono valutabili evoluzioni imprevedibili dall’attività lavorativa (come il passaggio da lavoratore dipendente a libero professionista). (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non essere collegato alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio il successo economico conseguito dal coniuge onerato, circa dieci anni dopo la cessazione della convivenza matrimoniale, dalla sua attività libero professionale, rispetto alla precedente attività di pubblico dipendente, quale comandante provinciale dei vigili del fuoco)”. 19 Cass. n. 24496/2006: “In tema di divorzio, a norma dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, l’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato alla stregua della verifica dell’adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione del tenore di vita precedente nonché della impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive. La nozione di adeguatezza postula un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con quella della famiglia all’epoca della cessazione della convivenza, che tenga altresì conto dei miglioramenti della condizione finanziaria dell’onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza, i quali costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio e trovino radice in detta attività e/o nel tipo di qualificazione professionale e /o nella collocazione sociale dell’onerato stesso. (Nella specie, in applicazione del principio di cui alla massima, la S.C. ha cassato la decisione della Corte di merito che, descritta nella sua solidità la situazione economica della moglie, ne aveva affermato il carattere deteriore rispetto a quella che sarebbe stata ove la convivenza con l’ex coniuge non fosse cessata, senza indicare alcun elemento idoneo a suffragare detta affermazione e limitandosi a giustificare tale inadeguatezza con l’avverbio ‘indubbiamente’ che accompagnava, nella motivazione della sentenza impugnata, la esplicitazione del relativo convincimento)”. 20 Relazione tenuta al corso di aggiornamento “I criteri di quantificazione dell’assegno per il coniuge e i figli”, organizzato da AIAF Lombardia, Milano 14 novembre 2008, e pubblicata sulla Rivista AIAF 2/2009, 30 ss., con il titolo Criteri di quantificazione degli assegni di mantenimento. I fogli di calcolo. Qui si affrontava anche il problema dei “fogli elettronici di calcolo” utilizzati da alcuni tribunali per liquidare gli assegni e, altresì, del noto Software Mo.Cam. applicato anche nella sentenza del Tribunale di Firenze, 3 ottobre 2007 - Pres. Aloisio - Rel. Governatori, in Famiglia e Diritto, 1/2008, 39-52. 9 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 10 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Onere della parte e del suo avvocato è quello di fornire gli elementi di prova utili per accertare quali fossero le ENTRATE ovvero quali le USCITE. In sostanza, occorre ricostruire il BILANCIO dell’azienda famiglia”. Riporto in nota alcune sentenze della Cassazione che pongono a carico del coniuge richiedente l’assegno l’onere di dimostrare, in via prioritaria, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio21. Per quanto riguarda specificamente l’assegno di divorzio occorre, inoltre, che il coniuge richiedente provi anche la sussistenza delle altre circostanze integranti i criteri di cui all’art. 5 l.div. che, nel caso concreto, valutati alla luce della durata del matrimonio, possono incidere positivamente sulla liquidazione del quantum: le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi. Occorre però dare conto della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in mancanza di prova da parte del richiedente della fascia socio-economica di appartenenza della coppia e del tenore di vita adottato in costanza di matrimonio oltre che della situazione esistente al momento della domanda, il giudice può “fare riferimento, quale parametro di valutazione del pregresso stile di vita, alla documentazione attestante i redditi dell’onerato”22. Mi sembra veramente opportuno, per un tempestivo e più puntuale accertamento delle condizioni economiche delle parti, che gli avvocati forniscano per tempo tutte le notizie utili per il riconoscimento e la quantificazione dell’assegno richiesto. In occasione del corso di aggiornamento professionale “Prassi nella cause di separazione e di divorzio”, organizzato nel 2005 dal Consiglio Superiore della Magistratura e strutturato in tre sessioni, è stato messo a punto l’elenco dei dati da fornire: • Generalità del coniuge − Nome e cognome − Data di nascita − Titolo di studio 21 Cass. n. 9915/2007: “In tema di separazione tra coniugi, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, al quale non sia addebitabile la separazione, il giudice del merito deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento ai fini della valutazione di congruità dell’assegno, il tenore di vita di cui i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito (sia pure molto elevato) emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti (quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso), dovendo, in caso di specifica contestazione della parte, effettuare i dovuti approfondimenti – anche, se del caso, attraverso indagini di polizia tributaria – rivolti a un pieno accertamento delle risorse economiche dell’onerato (incluse le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari e azionari e in beni mobili), avuto riguardo a tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro; e, nell’esaminare la posizione del beneficiario, deve prescindere dal considerare come posta attiva, significativa di una capacità reddituale, l’entrata derivante dalla percezione dell’assegno di separazione. Tali accertamenti si rendono altresì necessari in ordine alla determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del figlio minore, atteso che anch’esso deve essere quantificato, tra l’altro, considerando le sue esigenze in rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse e i redditi di costoro”. Per il giudizio di divorzio vedi Cass. n. 15610/2007: “La determinazione dell’assegno divorzile va effettuata verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontata a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Ai fini di tale accertamento, correttamente il tenore di vita precedente viene desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle disponibilità patrimoniali. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha desunto il carattere elevato del reddito goduto dai coniugi durante il matrimonio dalle denunce dei redditi di entrambi, dalle rispettive disponibilità d’immobili e dalla vendita di altri beni immobili)”. 22 Cass. n. 13169/2004: “L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione del tenore di vita precedente. A tal fine, il giudice del merito può tenere conto della situazione reddituale e patrimoniale della famiglia al momento della cessazione della convivenza, quale elemento induttivo da cui desumere, in via presuntiva, il precedente tenore di vita e può, in particolare, in mancanza di prova da parte del richiedente, fare riferimento, quale parametro di valutazione del pregresso stile di vita, alla documentazione attestante i redditi dell’onerato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva accolto la domanda di corresponsione dell’assegno divorzile in ragione dello stesso notevole squilibrio esistente, all’atto della pronuncia di scioglimento del matrimonio, nella ca- 10 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 11 FOCUS • Lavoro attuale dal ... − Tipo (per esempio: dipendente o autonomo) − Durata (a tempo indeterminato, a tempo determinato) − Lavoro precedente • Redditi: importo mensile e numero mensilità − Redditi occasionali − Partecipazioni societarie − Titoli o depositi − Conti correnti intestati, contestati o con sola delega di operare − Uso di carte di credito − Altri introiti periodici (per esempio: pensioni, indennità eccetera) − Contributi non occasionali delle famiglie di origine • Immobili − In proprietà − In uso per vacanze o per lavoro − Locati a terzi − Ubicazione, dimensioni, valore di mercato − Titolo di acquisto − Fondi agricoli: estensione e tipo di coltura • Mobili registrati − Autovettura e motocicli in proprietà o in uso − Barche − Velivoli − Beni di lusso: cavalli e collezioni • Viaggi e stile di vita dei componenti la famiglia (per esempio: ristorante, teatri, sport, frequentazione circoli) • Collaborazioni domestiche • Spese correnti − utenze domestiche − spese casa − condominio − vitto • Mutui, finanziamenti e pagamenti rateali In particolare ci sono degli indicatori che misurano il tenore di vita e che le parti possono facilmente dimostrare. Le dimensioni e le finiture della casa familiare e il tipo di arredi potranno essere documentati da planimetrie o fotografie; i viaggi fatti dalla famiglia dai passaporti o da fotografie datate; gli sport praticati o l’iscrizione a circoli con ricevute dei pagamenti effettuati; la proprietà o l’uso di barche e auto con delle foto. Peraltro è possibile utilizzare on line23 i servizi resi dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenpacità di lavoro e di guadagno delle parti, essendo risultato che il reddito del coniuge onerato era pari a circa il triplo di quello fruito dall’ex coniuge”. Cass. n. 6541/02: “L’accertamento del diritto all’assegno divorzile va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Ai fini di tale accertamento, correttamente il tenore di vita precedente viene desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto che il forte squilibrio tra l’entità dello stipendio percepito dalla ex moglie e quello dell’ex marito rendevano evidente la non titolarità da parte della prima – una volta venuto meno l’apporto delle entrate del coniuge – di mezzi adeguati, tenuto altresì conto della circostanza dell’attribuzione, ad opera della sentenza di primo grado, non impugnata sul punto, all’ex marito, del gratuito godimento della casa di proprietà della donna, così privata della opportunità di trarre un profitto dalla locazione di detto immobile. Al riguardo la Corte territoriale aveva altresì ritenuto che non potesse avere alcuna incidenza, per converso, l’assegnazione alla stessa, affidataria del figlio minore, della casa coniugale, di proprietà dell’ex marito)”. 23 https://portaleavvocati.visura.it/mostraCategorieListinoPubblico.do 11 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 12 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 za Forense proprio al fine di acquisire informazioni risultanti, per esempio, dal PRA, dall’archivio dell’Agenzia del Territorio, per effettuare visure societarie tramite le banche dati ufficiali delle Camere di Commercio eccetera. 4.2 Prospetti riassuntivi dei redditi e delle spese Siccome è purtroppo noto che l’assegno liquidato dal presidente in via temporanea e urgente “è destinato a durare a lungo”, maggiori elementi si mettono a disposizione del giudice, più congrua sarà verosimilmente la misura dell’assegno stesso. Sarebbe anche utile riportare i dati relativi rispettivamente ai redditi del marito e della moglie e così quelli riguardanti i costi affrontati dagli stessi per sé e per i figli in prospetti sinottici che possono fornire al giudice “una fotografia” della complessiva situazione, ovvero una lettura immediata di tutti gli elementi rilevanti, a volte dispersi in carte processuali inserite nel fascicolo di parte senza ordine e non facilmente leggibili. A titolo esemplificativo ne propongo alcuni. Prospetto riassuntivo A MOGLIE MARITO Disponibilità economiche Redditi finanze Beni immobili e mobili 1 2 3 4 5 6 7 8 ... Reddito netto effettivo Valore intrinseco immobili Disponibilità economiche Redditi finanze Beni immobili e mobili Reddito lavoro Depositi bancari Casa via P. 100% Casa via S. 50% Studio 100% Porsche Cayenne Mini Cooper Casa via S. 50% TOTALE TOTALE Reddito netto effettivo Valore intrinseco immobili Prospetto riassuntivo B MOGLIE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 COSTI ANNUALI MARITO COSTI ANNUALI MANUTENZIONE CASA COLF CONDOMINIO BOLLETTE: luce, gas, acqua, telefono ALIMENTAZIONE SPORT SVAGHI CULTURA VIAGGI SALUTE VARIE AUTO ASSICURAZIONE TOTALE 12 ##### ##### 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 13 FOCUS 5. L’assegno per i figli La Cassazione ha da tempo costantemente ritenuto che l’assegno di mantenimento dei figli deve essere liquidato tenendo conto di una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, culturale, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale. Ora l’art. 155 c.c., come sostituito dalla l. 8 febbraio 2006 n. 54, ha recepito sostanzialmente tale concetto prevedendo, al quarto comma, che: “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Ricordo che dall’indagine condotta dall’Associazione Nazionale Magistrati nel 2002 in oltre cinquanta Tribunali d’Italia, risultò che per il figlio venivano liquidati assegni da 50 a 400 euro e, dunque, una situazione di inaccettabile disparità di trattamento. La domanda formulata nel questionario era la seguente: “Se nell’impossibilità di determinare i redditi in fase presidenziale si opera una determinazione minima dell’assegno per il mantenimento dei figli o come contributo per il mantenimento prima di rinviare innanzi al g.i. a quanto ammonta l’importo?”. Le risposte furono le più diverse: • minimo 50 euro per figlio • 100 euro: 2 • 125 euro per un figlio • 100-150 euro • 125-150 euro per ciascun figlio • 150 euro: 2 • 175 euro: 3 • 200 euro: 9 • 225 euro • 200 euro per un figlio e 300-350 per due • ogni caso va valutato singolarmente • da 250 a 400 euro • a seconda dei redditi: 6 • 1/3 del reddito24. Non mi sembra che la situazione sia significativamente cambiata per effetto della riforma del 2006. 5.1 Affido condiviso e cura dei figli Le ultime statistiche registrano un aumento dei casi di affidamento condiviso. Ma il maggiore coinvolgimento del padre, che dovrebbe conseguire al provvedimento del giudice della separazione che affida la cura dei figli contemporaneamente al padre e alla madre, non sembra aver comportato un sostanziale mutamento nelle precedenti modalità di gestione del rapporto padre-figli. 24 Cfr. atti del convegno “Viaggio nei giudizi di separazione e divorzio. Come attuare un processo ragionevole” organizzato dall’Associazione Nazionale Magistrati a Roma il 3 giugno 2003, in cui vennero discussi tutti i problemi di carattere sostanziale e processuale messi in luce da un’approfondita indagine nei Tribunali di tutta Italia. E sullo specifico punto vedi la relazione: Buttiglione, Provvedimenti di natura patrimoniale. 13 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 14 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Intendo dire che l’esperienza sul campo ha dimostrato che il padre, che durante il matrimonio non si occupava della cura quotidiana dei figli, non ha cambiato la qualità e la quantità della relazione per il solo fatto che il giudice abbia disposto l’affidamento condiviso e regolato minuziosamente modi e tempi di frequentazione e di attenzione nei confronti dei figli. La bigenitorialità è un dato ontologico, “attiene alla struttura dell’essere in se stesso”; non è un’etichetta formale. Padre si nasce, non si diventa per ordine del giudice. Il principio di bigenitorialità – considerato dal punto di vista del bambino – tiene conto della sua naturale e legittima aspirazione a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, figure considerate fondamentali per il suo equilibrato sviluppo psico-fisico; quel principio – dal punto di vista dei genitori – comporta che ciascuno di loro assume, nei confronti dei figli e non dell’altro genitore, l’impegno di occuparsi della loro crescita sin dalla nascita. Quando i genitori uniti hanno svolto entrambi il loro compito, attuando nella quotidianità del rapporto con i figli il principio di bigenitorialità inteso come sopra, la qualità del rapporto padre-figli difficilmente potrà essere influenzata da un’eventuale separazione dei genitori e ciò a prescindere dal fatto che il giudice disponga o meno l’affidamento condiviso. In caso contrario, l’affidamento condiviso per provvedimento del giudice sancisce il principio di una bigenitorialità giuridica che, non avendo riscontro in una precedente bigenitorialità naturale, il più delle volte è destinato a rimanere lettera morta. In proposito vale la pena di rilevare che gli ultimi dati Istat confermano la tradizionale ripartizione dei ruoli nella coppia. Nel 2008-2009 il 76,2% del lavoro familiare delle coppie risulta ancora a carico delle donne, ciò comporta che ancora oggi il maggior peso nella cura dei figli viene sopportato dalle madri25 e la situazione resta evidentemente la medesima anche dopo la separazione. 5.2 Affido condiviso e oneri di mantenimento Con riferimento agli oneri economici di mantenimento dei figli, la Cassazione ha precisato che l’affidamento condiviso non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza, e ha escluso che l’istituto stesso implichi, come conseguenza “automatica”, che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto e autonomo, alle predette esigenze26. La pratica dei processi ha dimostrato che i cinque parametri di riferimento così puntualmente indicati nell’art. 155, quarto comma, c.c., non hanno aiutato più di tanto i giudici a liquidare assegni di mantenimento in misura “obiettivamente” più “giusta” in relazione al singolo caso concreto, sicché permangono le disparità nella liquidazione degli assegni denunciate nel corso degli ultimi anni nell’ambito di più sedi. 25 Istat, La divisione dei ruoli nelle coppie, in www.istat.it. Statistiche in breve. Periodo di riferimento: Anni 2008-2009. Diffuso il 10 novembre 2010: “Nel 2008-2009 il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne, valore di poco più basso di quello registrato nel 2002-2003 (77,6%). Persiste dunque una forte disuguaglianza di genere nella divisione del carico di lavoro familiare tra i partner. L’asimmetria nella divisione del lavoro familiare è trasversale a tutto il Paese, anche se nel Nord raggiunge sempre livelli più bassi. Le differenze territoriali sono più marcate nelle coppie in cui lei non lavora. L’indice assume valori inferiori al 70% solo nelle coppie settentrionali in cui lei lavora e non ci sono figli, e nelle coppie in cui la donna è una lavoratrice laureata (67,6%)”. 26 Cass. n. 18187/2006: “L’affidamento congiunto dei figli ad entrambi i genitori – previsto dall’art. 6 della legge sul divorzio (1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74), analogicamente applicabile anche alla separazione personale dei coniugi – è istituto che, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza, rimanendo per converso escluso che l’istituto stesso implichi, come conseguenza ‘automatica’, che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto e autonomo, alle predette esigenze. (Nell’enunciare il principio in massima, la S.C. ha rilevato come esso trovi conferma nelle nuove previsioni della legge 8 febbraio 2006, n. 54, in tema di affidamento condiviso, peraltro successiva alla sentenza impugnata)”. 14 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 15 FOCUS Si è detto27 che i giudici riducono quei criteri a clausole di stile e che in definitiva si giudica secondo il proprio “sentire”. Personalmente ho sempre ritenuto – e l’ho ripetuto in questa relazione – che è vero che c’è il rischio che il giudice sovrapponga, anche inconsapevolmente, la propria visione della vita e della gestione dei rapporti familiari alla ratio legis delle norme in materia, e che liquidi l’assegno a “sentimento”. Tuttavia, va considerato che le parti incontrano un’oggettiva difficoltà nel dimostrare quali somme sono necessarie per il mantenimento dei figli. Si pensi, ad esempio, al denaro speso per le forniture di luce, gas, telefono, per il vitto eccetera, che riguardano bisogni soddisfatti cumulativamente anche per gli altri componenti della famiglia. Tali difficoltà si trasferiscono sul giudice al momento della liquidazione dell’assegno, quando si devono tradurre in un determinato importo monetario i concetti astratti di “tenore di vita goduto dal figlio” o di “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. In caso di affidamento condiviso risulta addirittura aggravato l’onere probatorio delle parti, dovendosi dimostrare – e anche questo è oggettivamente difficile – non solo quanto costava il figlio quando la famiglia era unita, ma anche quali sono le sue “attuali esigenze”, nonché l’incidenza del “tempo di permanenza” e dei “compiti domestici e di cura” assunti in concreto da ciascun genitore. Al fine di liquidare un più congruo assegno di mantenimento può essere utile accertare, ad esempio, se dei figli si occupa una babysitter o anche parenti e terze persone; se alla cura della casa provveda una collaboratrice domestica; e se ciò sia reso necessario dagli impegni lavorativi del padre o della madre, ovvero se sia espressione di una ingiustificata delega ad altri delle responsabilità genitoriali. In definitiva, ritengo che occorre una paziente ricostruzione del concreto regime di vita della singola famiglia di cui di volta in volta ci occupiamo e che difficilmente l’attività dell’avvocato e del giudice potrà essere sostituita da fogli di calcolo elettronici dai quali,“inseriti certi dati”, si possa ottenere “un risultato giusto”. Si possono elaborare criteri di massima da tenere presenti nella liquidazione degli assegni di mantenimento, ma sarà sempre necessario adattare il risultato considerando le specificità del caso concreto. Comunque, anche per i costi affrontati per il mantenimento dei figli riterrei utile allegare agli atti un prospetto riassuntivo dei dati rilevanti per la liquidazione, di cui propongo un modello. Prospetto riassuntivo C FIGLIA 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 COSTI ANNUALI ISTRUZIONE SALUTE ALIMENTAZIONE ABBIGLIAMENTO MEZZI TRASPORTO SPORT SVAGHI VIAGGI TOTALE ##### 27 Nell’articolo Bernardini de Pace, Simeone, È il momento dei tribunali specializzati, in “Il Sole 24 Ore”, 20 ottobre 2008, n. 290, 11, ci si lamenta del fatto che: “... molti Giudici riducono il criteri dell’art. 155 del Codice Civile a mere clausole di stile, le disattendono come fanno anche per altri princìpi, alla fine l’ammontare dell’assegno finisce per essere l’espressione delle convinzioni del magistrato, invece che l’applicazione della legge”. 15 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 16 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 6. Poteri officiosi del giudice Per una più ampia disamina delle problematiche di cui ci stiamo occupando richiamo quanto ho già scritto in altra sede28. Qui, in sintesi, voglio ricordare che il potere istruttorio del giudice della famiglia in crisi si desume dall’art. 5, nono comma, l.div. – dettato con riferimento ai coniugi che divorziano, ma che pacificamente si applica anche ai coniugi che si separano (vedi tra le tante Cass. n. 10344/2005) – e ora, per quanto riguarda i figli, dall’art. 155, sesto comma, c.c. e dall’art. 155 sexies c.c. nell’attuale formulazione di cui alla l. n. 54/200629. Il giudice della separazione e del divorzio ha pienezza dei poteri officiosi in relazione ai provvedimenti da adottare in favore dei figli, atteso che è tenuto a regolare la loro complessiva situazione di vita da ogni punto di vista, compreso quello economico. Invece, con riferimento al coniuge economicamente debole si ritiene dai più che, nella materia dei processi di separazione e di divorzio, vigendo pur sempre il principio dispositivo, il coniuge richiedente l’assegno sia obbligato a provare i fatti posti a fondamento della domanda (art. 115 c.p.c.), mentre il potere officioso del giudice sarebbe solo sussidiario. In ogni caso, vorrei sottolineare che tale potere, sia pure sussidiario, è espressione dell’intenzione del legislatore di fare in modo che nel processo di separazione e di divorzio si arrivi, al di là delle capacità o delle possibilità probatorie delle parti, all’accertamento della verità reale. E in questa ricerca svolge un ruolo importante innanzitutto l’obbligo di collaborazione dei coniugi, che implica il loro dovere di mettere a disposizione dell’ufficio tutti gli elementi di valutazione della loro complessiva situazione economica (ai sensi dell’art. 5 l.div.: “... la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi ed al loro patrimonio personale e comune...”). I coniugi hanno perciò un dovere di verità che, ove maliziosamente disatteso, deve essere valutato come comportamento rilevante per desumerne argomenti di prova e per fondare il convincimento del giudice. Ma, in seconda battuta, nella ricerca della verità materiale svolge un ruolo fondamentale anche il potere officioso del giudice, che gli viene attribuito per finalità di natura pubblicistica30. Pur rilevando che nella pratica si registra una scarsa propensione dei giudici di merito a esercitare i poteri istruttori che il legislatore offre loro, deve precisarsi che, a parte le indagini di Polizia tributaria, il giudice può disporre d’ufficio gli stessi mezzi di prova che possono dedurre le parti (salvo il giuramento decisorio), rispettando tuttavia i limiti del codice civile, diversamente da quanto espressamente previsto dall’art. 421 c.p.c. La previsione del dovere di indagare a tutto campo, contenuta nel citato art. 5, nono comma, appare, infatti, comprensiva della possibilità di ricorrere a ogni mezzo di prova ritenuto rilevante e 28 Buttiglione, Assegni di mantenimento del coniuge e dei figli. Assegno di divorzio. Poteri istruttori d’ufficio. Indagini tributarie. Istruzioni per l’uso, in Mariani, Passagnoli, a cura di, Diritti e tutele nella crisi familiare, Padova, 2007, 31-94. Ne riporto il sommario: 1. Il viaggio dell’A.N.M. e del C.S.M. nei processi di separazione e di divorzio. – 2. La famiglia nel disegno del legislatore. – 3. La famiglia e il giudice oggi. – 4. Le prassi relative alle questioni patrimoniali. – 5. I criteri legali di determinazione degli assegni di mantenimento e di divorzio. – 6. Poteri istruttori d’ufficio nell’accertamento della capacità reddituale e patrimoniale dei coniugi. Mezzi di prova disposti dal giudice. Ordini di esibizione. – 7. Capacità reddituale e patrimoniale, la lettura delle dichiarazioni dei redditi. Studi di settore – 8. Indagini a mezzo della polizia tributaria. – 9. Anagrafe dei Conti Correnti e dei Depositi. Potenziamento delle attività di indagine della Guardia di Finanzia. Indagini sulle gestioni fiduciarie. – 10. Istruzioni per l’uso. Modelli di provvedimenti. Prospetto delle disponibilità economiche e delle spese dei coniugi. – 11. Conclusioni. 29 Ai sensi dell’art. 155 c.c. precedente la novella n. 54/2006, si riteneva che il giudice dovesse decidere nell’interesse dei figli anche in mancanza di specifiche istanze da parte dei genitori e in contrasto con i loro accordi, adottando i provvedimenti opportuni “dopo l’assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d’ufficio dal giudice” e che potesse disporre nel loro interesse anche accertamenti a mezzo della Polizia tributaria. La lettera degli artt. 155, settimo comma, c.c. e sesto e nono comma, l.div., si riteneva di così ampia formulazione da comprendere tutti i mezzi di prova consentiti dalle norme. 30 Cass. n. 7435/2002: “Nel sistema delineato dalla legge sul divorzio, la norma che dispone che i coniugi presentino, all’udienza di comparizione davanti al presidente del tribunale, la dichiarazione dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune pone una deroga al principio sull’onere della prova, imponendo ad entrambi i soggetti interessati un obbligo di collaborazione nella formazione della prova stessa ed attribuendo al giudice, ove sorgano contestazioni, poteri di accertamento d’ufficio”. Vedi Cass. n. 6087/1996 sulla natura pubblicistica del potere officioso. 16 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 17 FOCUS necessario, essendosi fatto riferimento, solo a titolo di esempio, alle indagini a mezzo della Polizia tributaria, come denunciato dall’inciso “anche”. I coniugi, dunque, forniscono dati di indagine, piste probatorie che il giudice può e deve autonomamente percorrere per arrivare alla verità. Nell’esercizio di tali poteri istruttori non trova neppure l’ostacolo delle eventuali preclusioni già maturate per le parti, atteso che il rito della separazione e del divorzio non soffre le preclusioni e le decadenze previste per il giudizio di cognizione ordinaria laddove debba prendersi in considerazione il fatto nuovo verificatosi successivamente al termine di decadenza. E ciò costituisce un riflesso del principio della valenza di giudicato rebus sic stantibus che caratterizza le decisioni accessorie a quelle sullo status, adottate dal giudice della separazione e del divorzio. Pertanto, nell’esercizio dei suoi poteri ex officio, il giudice potrà: assumere informazioni presso terzi; articolare una prova per testi, ovviamente quando dagli atti risultino le circostanze di fatto rilevanti e le fonti di conoscenza; disporre un interrogatorio formale su fatti rilevanti per l’accertamento delle condizioni economiche; dedurre un giuramento suppletorio, disporre ispezioni. Inoltre, il giudice potrà anche emettere ordini di esibizione ex art. 210 c.p.c. “sua sponte”, proprio considerato che l’art. 5, nono comma, l.div. “deroga ai princìpi generali in materia di onere probatorio e di esibizione delle prove” (Cass. n. 3529/1992 in motivazione). Il giudice può emettere l’ordine di esibizione anche nei confronti di terzi. Per esempio può ordinare agli istituti di credito di esibire gli estratti del conto corrente intrattenuto dal coniuge con la banca, o gli estratti delle carte di credito, senza che possa essere opposto il segreto bancario31. Giova ribadire che, secondo la Cassazione32, il giudice, facendo uso della regola dettata dall’art. 116 c.p.c., può “desumere argomenti di prova... in generale da contegno delle parti stesse nel processo”. Sicché un contegno inottemperante dell’obbligo di esibizione tenuto dalle parti – a fronte del dovere di lealtà e probità previsto in generale dall’art. 88 c.p.c. e del particolare dovere di collaborazione e in definitiva di verità previsto dall’art. 5, nono comma, l.div. – può indubbiamente costituire un serio argomento per dare credito alla versione della controparte che del contenuto di quei documenti non esibiti poteva giovarsi ai fini della prova della fondatezza delle sue istanze. Non mi pare che sia una buona ragione per respingere la richiesta delle parti di un ordine di esibizione il preteso eventuale carattere esplorativo dello stesso, argomentando dal dettato dell’art. 94 disp. att. c.p.c.33. Tale conclusione non si può condividere se si considera che nei processi di separazione e di divorzio il fine, come ripetuto più volte, è quello dell’accertamento della verità reale circa le posizioni economiche delle parti e non semplicemente quello della specifica prova del fatto contenuta in un documento. D’altronde è principio giurisprudenziale consolidato che il giudice non può non ammettere i mezzi di prova dedotti dal coniuge ritenendone genericamente il carattere esplorativo, perché “tale carattere è insito nella richiesta di indagini” e perché è sufficiente l’avere in qualche modo delimitato e precisato l’ambito della richiesta in senso oggettivo e soggettivo34. 31 Cass. n. 7953/1990: “L’ordine di esibizione di un documento alla parte o ad un terzo a norma dell’art. 210 c.p.c. costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (cass. 8-6-82 n. 3465); così come è riservato alla sua insindacabile valutazione l’accertamento del necessario requisito dell’indispensabilità di esso (cass. 23-1-78, n. 292). Inconsistente è peraltro la censura di violazione del segreto bancario, atteso che unico limite opponibile al provvedimento del giudice che ordini alla banca, come parte o come terzo, l’esibizione in giudizio di un documento o di altre cose di cui ritenga necessaria l’acquisizione è quello che l’art. 118 c.p.c. – che l’art. 210 c.p.c. espressamente richiama – pone per l’ispezione di esse, costituito (per quanto più rileva) dall’esigenza di non costringere la parte ed il terzo a violare uno dei segreti previsti dagli artt. 351 e 352 c.p.p. (tra i quali non è ricompreso il segreto bancario)”. 32 Cass. n. 3822/1995: “L’obbligo del giudice di verificare d’ufficio la presenza degli elementi costitutivi o dei requisiti di fondatezza della domanda non esclude che la prova di questi possa essere tratta dal comportamento processuale o extraprocessuale delle parti, che può costituire non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente fonte di prova”. 33 Art. 94 disp. att. c.p.c.: “L’istanza di esibizione di un documento o di una cosa in possesso di una parte o di un terzo, deve contenere la specifica indicazione del documento o della cosa e, quando necessario, l’offerta della prova che la parte o il terzo li possiede”. 34 Cass. n. 6087/1996 in motivazione. 17 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 18 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 In tal senso può ritenersi fondata la richiesta di ordinare ai principali istituti di credito della città di residenza delle parti di esibire gli estratti conto delle carte di credito e ogni altra documentazione relativa alla posizione del cliente, senza necessità di fornire più specifiche indicazioni, bastando la deduzione della parte che l’altra era titolare di un conto corrente e/o di carte di credito e, volendosi proprio indagare sul dato ignoto della reale capacità economica del coniuge tenuto a pagare l’assegno, desumibile alla stregua dei risultati concreti di quell’indagine. 7. Poteri del giudice e indagini fiscali L’art. 5, nono comma, l.div. – che come già detto si applica anche ai processi di separazione – dispone: “I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione davanti al Presidente del Tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi ed al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il Tribunale dispone indagini sui redditi e sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”35. Prima dell’entrata in vigore della l. n. 54/06 si riteneva che l’art. 5, nono comma, l.div. si applicasse per identità di ratio anche nel processo relativo agli assegni di mantenimento per i figli36. Ora la materia ha un’autonoma disciplina nell’art. 155, sesto comma, c.c. nel testo di cui alla novella del 200637 che dispone: “Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”. Solo accennando ai problemi che si sono posti all’attenzione dei commentatori delle nuove nor- 35 L’art. 706, terzo comma, ultima parte, c.p.c. prevede che: “Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi”; e l’art. 4, sesto comma, l.div. con diversa formula, che: “Al ricorso e alla prima memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate”. 36 Cass. n. 6087/1996 e n. 8417/2000. 37 Art. 155 c.c. - Provvedimenti riguardo ai figli [1] Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. [2] Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole. [3] La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. [4] Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. [5] L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. [6] Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”. Art. 155 sexies - Poteri del giudice e ascolto del minore. “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. L. 8 febbraio 2006 n. 54, art. 4 (Disposizioni finali), secondo comma. “Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. 18 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 19 FOCUS me, ritengo che l’art 5 l.div. non sia stato abrogato, che sia ancora in vigore con riferimento alla posizione dei coniugi e che sia sempre necessaria una contestazione38 “supportata da sufficienti elementi di ragionevolezza”39. D’altra parte, con riferimento all’art. 155 c.c. riguardante i figli, il potere officioso resta ampio, sicché il giudice può disporre “accertamenti” della Polizia tributaria (cosa diversa dalle verifiche fiscali vere e proprie, come dirò infra) che riguardano anche il tenore di vita dei genitori, seppure non espressamente menzionato. L’esercizio del potere di disporre “indagini” o “accertamenti” rientra nella discrezionalità del giudice. Tuttavia, il giudice non può rigettare le richieste del coniuge debole di un assegno dell’importo richiesto, sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali la richiesta era basata, senza avere prima disposto indagini d’ufficio. Più recentemente la Cassazione ha precisato che ove il giudice ritenga “aliunde” raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la Polizia tributaria40. Appare opportuno aggiungere che anche quando il giudice non ritenga di dover disporre indagini, perché per ipotesi non necessarie ai fini della decisione – in quanto già dimostrato in causa un reddito del coniuge forte sufficiente per poter accogliere le richieste di assegno di mantenimento dell’altro – egli, tuttavia, in presenza di una situazione anomala, ha il dovere di segnalazione al Comando della Guardia di Finanza competente in ragione del domicilio fiscale del coniuge ex art. 19, primo comma, lett. D), l. n. 413/1991 che ha modificato l’art. 36 d.p.r. 29 novembre 1973, n. 600. E le parti possono sollecitarlo in tal senso. 38 Cass. n. 9756/1996: “In tema di assegno di divorzio, il potere concesso al tribunale di disporre indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita dei coniugi, valendosi, se del caso, della polizia tributaria (art. 5, ottavo comma, della legge n. 898 del 1970, nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987) è subordinato alla disponibilità delle parti, ossia alla contestazione mossa da un coniuge circa la sufficienza e la veridicità, ai fini della decisione, della documentazione depositata dall’altro coniuge. Ne consegue che l’acquiescenza della parte interessata, che non contesti le risultanze e la completezza di detta documentazione, preclude alla medesima di dedurre in sede d’impugnazione il mancato uso di tali poteri da parte del tribunale e, in caso di contestazione, ove il giudice non faccia uso di essi, incombe sulla parte l’onere di dedurre in sede d’impugnazione l’uso mancato, insistendo per il suo esercizio”. 39 Sulle tematiche in esame: Fanticini, Accertamento delle potenzialità economiche delle parti, anche a mezzo della Polizia Tributaria, relazione tenuta al convegno “Responsabilità genitoriale e affidamento dei figli. Regole e prospettive dopo la Legge n. 54/2006”, Reggio Emilia, 6 maggio 2006. È consultabile all’indirizzo http://www.forumdonnegiuriste.it/convegno/FANTICINI%20Accertamenti%20polizia%20tributaria.pdf 40 Ex plurimis Cass. n. 10344/2005: “L’esercizio di tale potere..., che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, e non può essere considerato anche come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche; tale discrezionalità, tuttavia, incontra un limite nella circostanza che il giudice, potendosi avvalere di siffatto potere, non può rigettare le istanze delle parti relative al riconoscimento e alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione degli assunti sui quali si fondano, giacché in tal caso il giudice ha l’obbligo di disporre accertamenti d’ufficio (avvalendosi anche della polizia tributaria)”. Cass. n. 6575/2008: “In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento, l’esercizio del potere di disporre indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, che costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova, rientra nella discrezionalità del giudice di merito; l’eventuale omissione di motivazione sul diniego di esercizio del relativo potere, pertanto, non è censurabile in sede di legittimità, ove, sia pure per implicito, tale diniego sia logicamente correlabile ad una valutazione sulla superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti”. Cass. n. 9861/2006: “In tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga ‘aliunde’ raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria, atteso che l’esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella discrezionalità del giudice del merito e non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche”. (Richiamata anche dalla Cass. n. 12308/2007). Cass. n. 11059/2001: “In tema di assegno di divorzio, l’art. 5 della legge n. 898 del 1970, che fa carico al tribunale di disporre indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, in caso di contestazioni, non impone un adempimento dettato a pena di nullità ma si traduce in una deroga alle regole generali sull’onere della prova, nel senso che la domanda di corresponsione dell’assegno non può essere respinta per la mancata dimostrazione da parte dell’istante delle condizioni economiche dell’altro coniuge; conseguentemente, il giudice può avvalersi di tutti gli elementi di prova ritualmente acquisiti, può far uso di presunzioni e ricorrere a nozioni di comune esperienza per l’accertamento delle condizioni economiche delle parti e non è tenuto ad ammettere o disporre ulteriori mezzi di prova quando ricorrano elementi sufficienti per la formazione del suo convincimento, che si sottrae a censura in sede di legittimità quando sia logicamente e congruamente motivato”. 19 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 20 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 8. Indagini a mezzo della Polizia tributaria 8.1 Natura dell’attività di indagine della Polizia tributaria Anche per tali questioni, e per coloro che volessero approfondire, rimando alla più ampia indagine, condotta in altra sede, che qui sintetizzo41. La dottrina e la giurisprudenza si sono soffermate poco su tali aspetti, che attengono a specifici profili squisitamente fiscali e che spesso non fanno parte del patrimonio di conoscenze dei giudici e degli avvocati che si occupano di processi di separazione e di divorzio; circostanza che concorre a determinare il non frequente ricorso alle indagini e che, anche quando vengono disposte, determina la scarsa utilità di molte risposte e risultati deludenti42. Quanto alla natura delle indagini in esame, si possono individuare due tesi contrapposte: 1. è un’attività di tipo amministrativo che rientra, una volta attivata dal giudice, tra quelle tipiche della Polizia tributaria; 2. l’attività svolta ex art. 5, nono comma, l.div. rientra nell’area dell’attività giurisdizionale “delegata” dal giudice della separazione e del divorzio ed è caratterizzata dal solo esercizio di poteri che sono propri del “delegante”, con la precisazione che il potere di disporre una verifica fiscale non appartiene al giudice. In relazione a tali differenti impostazioni, mentre nell’ipotesi sub 1) si ritiene ammissibile che la Polizia tributaria, una volta incaricata di indagini, possa procedere a una verifica fiscale vera e propria, nell’ipotesi sub 2) lo si è escluso perché oggetto della delega deve necessariamente essere un potere che il delegante è legittimato a esercitare. Per verifica fiscale deve intendersi quella particolare procedura di controllo istituzionale e di natura esclusivamente amministrativa che “consiste nell’esercizio di una serie di poteri espressamente previsti dalla legge allo scopo di stabilire se un determinato soggetto di imposta abbia adempiuto a tutti gli obblighi formali e sostanziali che scaturiscono dal rapporto giuridico di imposta in materia di imposizione diretta e indiretta”43. Costituisce la fase preparatoria del procedimento di “accertamento tributario” che tende alla rettifica della dichiarazione dei redditi, alla liquidazione dell’imposta e all’applicazione delle sanzioni. Culmina con l’avviso di accertamento con il quale gli uffici finanziari richiedono al contribuente evasore una somma a titolo di imposta e di sanzioni. I poteri esercitati nella “verifica fiscale” sono disciplinati dagli artt. 32 e 33 del d.p.r. n. 600/1973 e dagli artt. 51 e 52 del d.p.r. n. 633/1972; consistono, in linea di massima, in poteri di accesso e di ispezione presso i locali dove si esercita la professione o l’attività imprenditoriale, per la ricerca e l’esame della documentazione contabile e, successivamente, per il raffronto tra quanto dichiarato al fisco e la reale posizione economico-finanziaria che emerge dalla realtà contabile. In particolare, va ricordata la possibilità di accesso, previe adeguate autorizzazioni, anche nei locali adibiti ad abitazione e altresì in altri luoghi individuati dalle norme citate; di perquisizioni personali; di apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti eccetera. Approfondendo quanto già accennato, deve rilevarsi che secondo alcuni autori44 i poteri e i limiti dell’azione che la Polizia tributaria e l’Amministrazione finanziaria più in generale svolgono per conto del giudice della separazione e del divorzio rientrano nella normale attività di istituto e di pro- 41 Vedi nota 39. 42 Costantini, Costantini, Le indagini della polizia tributaria nei procedimenti di divorzio e di separazione personale, in il fisco, 23/98, 7662 ss.; Pezzuto, Le indagini reddituali e patrimoniali della “polizia tributaria” nei procedimenti di separazione e di divorzio, in il fisco, 17/2003, fasc. 1, 7344 ss.; Fortuna, Le attività delegabili alla polizia tributaria da parte del giudice civile nell’ambito delle cause per lo scioglimento del matrimonio, in Rivista della Guardia di Finanza, 4/1995, 1027 ss. 43 Maraccio, Verifiche fiscali della Guardia di Finanza, in Il ragioniere professionista, 3/1994, 28. 44 Costantini, Costantini, Le indagini della polizia tributaria cit. 20 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 21 FOCUS cedimento amministrativo. Pertanto nel corso delle indagini l’attività di controllo potrà riguardare ogni tipo di rapporto o fatto fiscalmente rilevante posto in atto da ciascuno dei coniugi, quali, a titolo esemplificativo, denunce dei redditi e Iva, atti di vendita e di acquisto, contratti soggetti a registrazione, denunce di successione, proprietà immobiliari accatastate e non, contabilità di impresa e contabilità privata. In sostanza, gli ufficiali, gli agenti della Polizia tributaria e gli Uffici finanziari potrebbero “autonomamente”, anche senza specifica delega del giudice, utilizzare tutti i mezzi istruttori a loro disposizione. In particolare, la Polizia tributaria potrebbe esercitare i poteri di verifica e di indagine bancaria, raccogliendo alla fine i risultati in un rapporto-verbale da trasmettere al giudice della separazione o del divorzio. Secondo altri autori45, invece, la richiesta di indagini da parte del giudice ex art. 5, nono comma, l.div., va inquadrata nell’ambito della “delega” e rientra, pertanto, nell’area dell’attività giurisdizionale in quanto il delegante può solo delegare l’atto che è legittimato a fare in proprio. Ne consegue che l’attività delegata alla Polizia tributaria non è un’attività di tipo amministrativo da annoverare tra le attività tipiche degli organi delegati una volta attivata e che il giudice non può richiedere di svolgere “verifiche fiscali”, ovvero “controlli o ispezioni fiscali” tipicamente detti. Si ritiene, così, che con l’art. 5, nono comma, l. div., il “legislatore abbia inteso sostenere che il giudice debba, a richiesta di parte, effettuare delle indagini secondo le proprie consuete attribuzioni, avvalendosi degli organi cui tipicamente si rivolge nell’ambito delle proprie funzioni, quali consulenti tecnici ed ausiliari”46, “se del caso avvalendosi anche della polizia tributaria” nelle ipotesi in cui occorre “una particolare professionalità proprio nel settore oggetto di approfondimento”. Nelle due diverse posizioni si riflettono, nel primo caso, le aspirazioni dei difensori dei coniugi che contestano le risultanze documentali, interessati a vere e proprie verifiche fiscali e, nel secondo caso, le preoccupazioni degli ufficiali della Guardia di Finanza di contenere al massimo l’ambito delle indagini e lo stesso ricorso da parte del giudice alla collaborazione del Corpo solo dopo l’infruttuosa utilizzazione, diretta o tramite ctu, dei suoi poteri istruttori. Chi esclude che il giudice possa avvalersi della Polizia tributaria per verifiche fiscali, assume che il suo potere dispositivo debba esercitarsi attraverso la richiesta di “specifiche indagini” utili e necessarie per verificare la fondatezza delle contestazioni delle risultanze fiscali prodotte in causa dal coniuge. È solo in tal caso che la Polizia tributaria avrebbe un dovere di esecuzione e di relazione al termine delle stesse. 8.2 Oggetto delle indagini delegabili Si può convenire sull’esattezza delle premesse che portano all’esclusione della possibilità di chiedere alla Polizia tributaria una verifica fiscale vera e propria, che è strutturata per consentire l’accertamento di evasioni contributive, osservando peraltro che un’indagine in tali termini neppure interessa al giudice della separazione e del divorzio il cui più limitato obiettivo è di accertare se i redditi e i patrimoni del coniuge oggetto di indagini, contrariamente a quanto appare in causa e secondo la contestazione del coniuge debole, sono sufficientemente capienti per assicurare a quest’ultimo il giusto assegno di mantenimento o di divorzio. Ulteriori approfondimenti sarebbero ultronei perché, come già detto al paragrafo 3.1., non interessa determinare l’esatto ammontare dei redditi dei coniugi, ma si deve anche rilevare come non si possa ridurre la collaborazione della Polizia tributaria alle sole attività che il giudice istruttore o il suo consulente tecnico potrebbero autonomamente esperire. Come acutamente sottolineato, in tal mo- 45 Pezzuto, Le indagini reddituali e patrimoniali cit., 7346-7347; Fortuna, Le attività delegabili alla polizia tributaria cit., 10321035. 46 Artt. 118, 210, 213, 258, 261, 262 c.p.c.; artt. 194, 198 c.p.c. per nomina di un consulente tecnico che svolga indagini ed esamini documenti contabili e registri, con autorizzazione a chiedere chiarimenti alle parti, assumere informazioni da terzi eccetera; artt. 61-68 c.p.c. per il ricorso a un consulente ovvero ad altri ausiliari nominati dal giudice civile per farsi assistere da esperti in arti o professioni, o da persone idonee al compimento di atti che non è in grado di compiere da solo. 21 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 22 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 do si avrebbe il totale svuotamento dello strumento di indagine apprestato dal legislatore del 1987 proprio per superare talune difficoltà istruttorie, riscontrate in precedenza, a favore dell’accertamento della verità reale sulle condizioni economiche delle parti. In tale ottica di possibilità di più incisive indagini viene letta, in particolare, l’opzione legislativa di delegare alla Polizia tributaria anche l’accertamento del tenore di vita dei coniugi che, ben raramente, può delinearsi con sufficiente certezza attraverso produzioni documentali o prove testimoniali. Si ritiene così che il legislatore non abbia voluto introdurre una specie di consulenza tecnica demandata alla Guardia di Finanza ma abbia invece voluto “autorizzare il superamento dei limiti di un rigido contraddittorio e fornire il giudice, nell’ambito della sempre più delicata dinamica delle relazioni familiari, di poteri assai più incisivi e penetranti, aiutandolo a giungere, grazie alla collaborazione di funzionari dotati di specifica preparazione, con sollecitudine e garanzie di assoluta imparzialità, ad una riscontrabile ricostruzione della effettività reddituale e patrimoniale dei contendenti”47. Ma anche i fautori di quella che sembra la tesi più riduttiva del potere del giudice della separazione e del divorzio riconoscono che possa disporre “indagini sui redditi, patrimoni e sull’effettivo tenore di vita”, chiedendo alla Polizia tributaria una serie di attività, certamente rilevanti per accertare la complessiva situazione economica del coniuge oggetto di indagine. In particolare, è stato ritenuto48 che il giudice possa richiedere alla polizia giudiziaria: • l’acquisizione di dati già in possesso della Guardia di Finanza contenuti negli schedari dei singoli comandi o che possono essere acquisiti “a tavolino” consultando le banche dati dell’Anagrafe Tributaria, delle Camere di Commercio, del PRA, dell’Agenzia del Territorio...; • l’acquisizione di atti e informazioni presso terzi con delega alla Guardia di Finanza di attivarsi ex artt. 210 e 213 c.p.c.; • la verifica del “tenore di vita”, ovvero di profili meno visibili della situazione reddituale e patrimoniale del soggetto che si riflettono più direttamente sul suo tenore di vita (iscrizione a circoli esclusivi, frequenza di viaggi, disponibilità di natanti, cavalli da corsa, aeromobili privati da turismo, collaboratori domestici, cambio di costose autovetture eccetera); • indagini bancarie “mirate” (e finanziarie in senso ampio potendo riguardare “operatori finanziari” che spesso sono proprio quelli che gestiscono i patrimoni più cospicui, come avviene per l’attività di private banking offerta dagli enti creditizi o da loro controllate o collegate con soglie di accesso molto alte) per individuare anche le “posizioni occulte” che fanno transitare i pagamenti in nero, magari gestiti per il tramite di un prestanome; • indagini finanziarie a tappeto su tutto il territorio nazionale, sul presupposto che riguardino situazioni particolari e che il giudice le disponga con un provvedimento specifico e motivato che la Polizia tributaria dovrà notificare alle banche e agli altri intermediari; • la valutazione degli elementi acquisiti da parte della Polizia tributaria quando è necessario disporre di cognizioni tecniche specialistiche, caso in cui svolgerebbe un’attività di consulenza, pur senza poter effettuare delle proiezioni sui redditi in base a degli indicatori, non potendo formulare ipotesi (quanto guadagna uno che ha una Ferrari o un attico prestigioso o quanto frutta uno studio dentistico...). Infatti la Guardia di Finanza raccoglie indicatori sui quali dovrà esprimersi il giudice, che apprezzerà gli elementi individuati e stabilirà l’assegno. 47 Servetti, Gli aspetti patrimoniali nella separazione e nel divorzio, intervento al corso di formazione e aggiornamento professionale sul diritto di famiglia organizzato da AIAF Sicilia, Messina, 1 aprile 2005. 48 In proposito occorre ricordare che il tenore di vita può emergere anche sulla base del cosiddetto “accertamento sintetico” ex art. 38, quarto comma e ss., d.p.r. n. 600/1973 che consentono di contestare maggiori redditi imponibili non sulla base delle sole entrate, ma sulla base delle spese sostenute in un dato periodo di tempo. 22 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 23 FOCUS 8.3 Soggetti ai quali può essere delegata l’attività di indagine In relazione all’individuazione dei soggetti ai quali il giudice può delegare l’attività di indagine o di accertamento, il generico riferimento contenuto nell’art. 5, nono comma, l.div. “anche” alla Polizia tributaria (“... il tribunale dispone indagini… avvalendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”) – e ora nell’art. 155 c.c. (“... il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria...”) – è stato sempre inteso dai giudici nel senso che può essere delegata non solo la Guardia di Finanza, ma anche altri organi che per legge svolgono funzioni di Polizia tributaria, secondo la qualifica funzionale definita dall’art. 31 della l. 7 gennaio 1929 n. 4. Il giudice può perciò delegare le indagini non solo alla Guardia di Finanza (ufficiali e agenti di Polizia tributaria), ma anche agli Uffici finanziari dell’amministrazione civile (funzionari addetti). Sembra utile ricordare in proposito che la Guardia di Finanza è un corpo a se stante delle forze militarmente organizzate, dipendente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. È un organo di Polizia giudiziaria e tributaria oltre che di pubblica sicurezza. Svolge le funzioni di polizia economica e finanziaria a tutela del bilancio pubblico delle Regioni, degli Enti locali e dell’Unione europea con compiti di prevenzione, ricerca e repressione delle violazioni in materia tributaria, nel cui ambito può chiedere la collaborazione degli Uffici finanziari-Agenzia delle Entrate. Nella prassi, poi, specifiche attività di indagine vengono spesso richieste dal giudice della separazione anche all’Arma dei Carabinieri, alla Polizia di Stato o direttamente a professionisti esperti – dottori commercialisti – nominati come consulenti e autorizzati a richiedere al coniuge del cui patrimonio si indaga di mettere a disposizione la documentazione contabile tributaria e patrimoniale utile per l’accertamento e la valutazione della complessiva situazione economica dello stesso. 9. Indagini bancarie Si può dire che costituisca diritto vivente l’orientamento concorde dei giudici di merito di interpretare le norme in esame nel senso del potere del giudice della separazione e del divorzio di chiedere alla Polizia tributaria di svolgere accertamenti bancari. La stessa Cassazione ha enunciato il principio secondo cui è obbligatorio per il giudice, con i limiti di cui si è già detto, “... in caso di specifica contestazione della parte, effettuare i dovuti approfondimenti – anche, se del caso, attraverso indagini di polizia tributaria – rivolti ad un pieno accertamento delle risorse economiche dell‘onerato (incluse le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari ed azionari ed in beni mobili)...”49. 49 Cass. n. 9915/2007: “In tema di separazione tra coniugi, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, al quale non sia addebitabile la separazione, il giudice del merito deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento ai fini della valutazione di congruità dell’assegno, il tenore di vita di cui i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito (sia pure molto elevato) emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti (quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso), dovendo, in caso di specifica contestazione della parte, effettuare i dovuti approfondimenti – anche, se del caso, attraverso indagini di polizia tributaria – rivolti ad un pieno accertamento delle risorse economiche dell’onerato (incluse le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari ed azionari ed in beni mobili), avuto riguardo a tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro; e, nell’esaminare la posizione del beneficiario, deve prescindere dal considerare come posta attiva, significativa di una capacità reddituale, l’entrata derivante dalla percezione dell’assegno di separazione. Tali accertamenti si rendono altresì necessari in ordine alla determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del figlio minore, atteso che anch’esso deve essere quantificato, tra l’altro, considerando le sue esigenze in rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse ed i redditi di costoro”. 23 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 24 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 D’altronde lo stesso giudice ha certamente il potere di ordinare alle banche l’esibizione della documentazione riguardante la posizione del cliente50. Non si condivide, dunque, la diversa tesi di chi sostiene che la Polizia tributaria non possa fare delle indagini bancarie sulla base di un incarico del giudice della separazione e del divorzio. L’argomentazione secondo la quale non sarebbe possibile al giudice civile chiedere alla Polizia tributaria di acquisire copia della documentazione bancaria ex art. 32 d.p.r. n. 600/1973 e art. 51 d.p.r. n. 633/1972 perché i comandi del Corpo devono essere autorizzati dal Comandante di zona, che fa una autonoma valutazione della necessità di indagini bancarie, non considera la diversa funzione che svolgono le indagini del giudice civile delle cause di separazione e di divorzio. Ma quella tesi contrasta, in particolare, con gli incisivi poteri di indagine attribuiti a quest’ultimo dalla legge sul divorzio, addirittura ampliati dalla legge n. 54/2006 che ha recepito le prassi già in atto, e con le norme del codice di procedura civile. Ne consegue che, certamente, il giudice della separazione e del divorzio “può emettere ordini di esibizione alla banca sui movimenti eseguiti” sul conto corrente dei coniugi, con delega alla Polizia tributaria di acquisire la relativa documentazione, che la banca è tenuta a esibire ex art. 210 c.p.c. In definitiva, i poteri officiosi hanno a oggetto l’accertamento della complessiva situazione reddituale, patrimoniale e finanziaria dei coniugi (normalmente di quello più forte economicamente), la cui utilità e rilevanza deve essere valutata dallo stesso giudice; e sono altra cosa rispetto all’ipotesi di verifica fiscale vera e propria, rimessa all’autorizzazione e alla valutazione del Comando di zona con riferimento all’accesso ai dati più sensibili del contribuente. Sono ambiti decisionali diversi e i rispettivi poteri trovano ciascuno la propria fonte in una norma ad hoc attributiva delle rispettive legittimazioni. 10. Anagrafe dei conti correnti e dei depositi bancari. Archivio dei rapporti finanziari: un lungo cammino giunto al termine 10.1 Non più richieste cartacee e ampliamento dei dati acquisibili La l. 5 luglio 1991 n. 197, che ha convertito con modificazioni il d.l. 3 maggio 1991 n. 143, ha previsto l’Archivio unico informatico, tenuto da tutti gli intermediari creditizi o finanziari e dalle Poste italiane Spa, nel quale sono contenuti tutti gli elementi identificativi dei soggetti che intrattengono rapporti di conto o di deposito con gli stessi. Con l’art. 20, quarto comma, l. 4 dicembre 1991, n. 413, il legislatore ha previsto poi l’istituzione dell’Anagrafe dei rapporti di conto e di deposito e, con decreto interministeriale 4 agosto 2000 n. 269, ha stabilito che detta anagrafe può essere realizzata con maggiore efficienza ed economicità attraverso l’istituzione di un centro operativo in grado di collegarsi in via telematica con i predetti archivi unici. Con tale decreto, l’allora Ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, di 50 Cass. n. 7953/1990: “L’ordine di esibizione di un documento alla parte o ad un terzo a norma dell’art. 210 c.p.c. costituisce una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (cass. 8-6-82 n. 3465); così come è riservato alla sua insindacabile valutazione l’accertamento del necessario requisito dell’indispensabilità di esso (cass. 23-1-78, n. 292). Inconsistente è peraltro la censura di violazione del segreto bancario, atteso che unico limite opponibile al provvedimento del giudice che ordini alla banca, come parte o come terzo, l’esibizione in giudizio di un documento o di altre cose di cui ritenga necessaria l’acquisizione è quello che l’art. 118 c.p.c. – che l’art. 210 c.p.c. espressamente richiama – pone per l’ispezione di esse, costituito (per quanto più rileva) dall’esigenza di non costringere la parte ed il terzo a violare uno dei segreti previsti dagli artt. 351 e 352 c.p.p. (tra i quali non è ricompreso il segreto bancario)”. 24 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 25 FOCUS concerto con il Ministro dell’Interno e il Ministro delle Finanze, ha adottato il regolamento, composto di dieci articoli, istitutivo dell’Anagrafe mediante la costituzione di un centro operativo presso il Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, stabilendo tra l’altro: a quali soggetti vanno rivolte le richieste del centro operativo relative a rapporti di conto e di deposito e quali sono i soggetti che possono avanzare richieste al centro operativo di accesso all’anagrafe; le modalità di formulazione delle richieste; i termini di trasmissione delle risposte. Il flusso dei dati che giungono al centro operativo, su base consolidata giornaliera, transita dagli intermediari creditizi o finanziari e dalle Poste italiane Spa e, più in particolare, dai soggetti indicati nell’art. 2 del decreto alla Società interbancaria per l’automazione (SIA Spa) e, infine, al centro operativo al quale si rivolgono direttamente i soggetti richiedenti. Più di recente, con la Finanziaria del 2005 (l. 311/2004), sono stati potenziati i poteri ispettivi del Fisco sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, modificando alcuni articoli del Testo unico sulle Imposte sui redditi e del Testo unico Iva. Nei commi 402, 403 e 404 dell’art. 1 della citata legge, sono state introdotte delle modificazioni agli artt. 32 del d.p.r. n. 600/1973 e 51 del d.p.r. n. 633/1972, prevedendosi la possibilità per la Guardia di Finanza, a partire dal 1° gennaio 2005, di chiedere a banche, poste, intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e fiduciarie, dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto e a qualsiasi operazione effettuata con la clientela, mentre in precedenza si potevano solo chiedere informazioni relative a operazioni legate ai conti correnti. Nelle stesse disposizioni di legge si è prevista la trasmissione esclusivamente in via telematica delle richieste e delle risposte51, con decorrenza dal 1° luglio 2005. In realtà, l’entrata in vigore della procedura telematica è stata poi fatta slittare al 1° gennaio 200652 e solo con la circolare n. 32/E, emanata dall’Agenzia delle Entrate il 19 ottobre 2006, è stato finalmente reso operativo il sistema di trasmissione telematica dei dati acquisibili in base alle “procedure telematiche delle richieste e delle risposte”. Nella stessa circolare sono state indicate le specifiche tecniche per gli invii on line delle risposte che banche, poste e intermediari finanziari dovranno dare al Fisco; in particolare sono state definite alcune regole tecniche in materia di sicurezza e di posta elettronica certificata. Successivamente con la circolare n. 42/E del 24 settembre 2009, che ha sempre come oggetto “Archivio dei rapporti finanziari”, sono stati “forniti elementi utili al corretto utilizzo ai fini dell’attività di controllo”. In particolare si è precisato che l’Archivio dei rapporti finanziari “costituisce apposita sezione dell’Anagrafe tributaria nella quale confluiscono le comunicazioni cui sono tenuti, a norma dell’art. 7, sesto comma, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 605, tutti gli operatori finanziari”; che formano oggetto di comunicazione all’Archivio “i dati relativi ai rapporti esistenti, ancorché cessati, a partire dalla data del 1° gennaio 2005”. Inoltre, per effetto di diverse disposizioni di legge intervenute nel frattempo, gli operatori finanziari sono stati obbligati a comunicare anche l’esistenza “di operazioni di natura finanziaria poste in essere al di fuori di un rapporto continuativo (in seguito ‘operazioni extra-conto’); di rapporti, di qualsiasi genere, diversi da quelli intrattenuti con i titolari dei rapporti continuativi o delle operazioni extra-conto”. Nella circolare n. 42/E del 2009 sono state definite operazioni extra conto “le operazioni che vengono effettuate per cassa o, nell’accezione bancaria, allo ‘sportello’, contro presentazione di denaro contante o assegni, senza transito in un qualsiasi rapporto”, di valore superiore a 12.500 euro. Per esempio si richiamano: • i pagamenti diversi (incasso assegno circolare, cambio assegno di terzi, estinzione certificati di 51 Art. 32, terzo comma, d.p.r. n. 600/1973 e art. 51, quarto comma, d.p.r. n. 633/1972. 52 Vedi provvedimento prot. 119171 del Direttore dell’Amministrazione fiscale. 25 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 26 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 deposito, buoni fruttiferi, rimborso o deposito su libretto di risparmio, estinzione carte prepagate); • l’acquisto/vendita a termine di titoli, trasferimento titoli da altro istituto; • l’addebito per estinzione di assegno e assegni vidimati; • l’acquisto o vendita di divisa e/o banconote estere; • bonifico a vostro favore; • bonifico sull’estero; • erogazione prestiti personali e finanziamenti; • vendita/acquisto d’oro e metalli preziosi; • servizio eurogiro e moneygram. Secondo quanto si legge nella predetta circolare, “alla data attuale [...] l’Archivio contiene dati relativi a tutti i rapporti continuativi esistenti al 1° gennaio 2005 o costituiti dopo tale data (ancorché cessati) ed alle operazioni extra-conto effettuate a far corso dalla stessa data, unitamente alle informazioni relative ai soggetti che agiscono in nome e/o per conto di terzi [...] La base informativa dell’Archivio risulta ora allineata con l’ambito oggettivo dei dati acquisibili mediante le indagini finanziarie, così come individuato dalla circolare n. 32/E del 19 ottobre 2006”. Ed è pertanto “possibile inviare telematicamente le richieste informazioni a tutti gli operatori con i quali, in base alle risultanze dell’Archivio, il contribuente risulta certamente avere intrattenuto rapporti o compiuto operazioni”. Deve ricordarsi che nell’Archivio confluiscono anche le informazioni “concernenti i soggetti che agiscono per conto e a nome di terzi” con procure, deleghe a operare in nome e per conto del titolare nell’ambito dei rapporti continuativi o a effettuare le operazioni extra conto. E a tal fine va comunicata all’Archivio la procura o delega “unitamente ai dati identificativi, compreso il codice fiscale del procuratore o delegato” e per le operazioni extra conto vanno comunicati anche i dati relativi al soggetto nel cui interesse l’operazione viene eseguita, nel presupposto che il rapporto con l’operatore finanziario riguardi effettivamente il soggetto rappresentato. In definitiva, mentre prima si disponevano indagini sui rapporti bancari intrattenuti in senso ampio dal coniuge con delimitazione temporale e territoriale e la Polizia tributaria era costretta a notificare il provvedimento del giudice ai diversi enti, istituti e/o amministrazioni, ora non vi è più la necessità di richieste cartacee, potendosi procedere in via telematica. 10.2 Serpico Con un unico accesso all’Archivio dell’Anagrafe tributaria, ormai è possibile acquisire un numero sempre maggiore di dati utilizzando il nuovo sistema denominato “Serpico”, che consente la digitalizzazione di altri archivi, come quelli del Demanio, del Territorio, delle Dogane, dell’Inps, dell’Inpdap e dell’Inail, che convergono nel cervellone del Fisco e compongono la schermata del contribuente. Patrimoni, spese e guadagni potranno essere tracciati in tempo reale con il nuovo “Servizio per le informazioni sul contribuente” in dotazione agli 007 delle Entrate e della Guardia di Finanza. Si tenga presente quanto segue. Sulla sinistra del megascreen sono allineate le dichiarazioni dei redditi degli ultimi cinque anni, con l’indicazione dei redditi percepiti, degli scontrini farmaceutici portati in detrazione, degli interessi del mutuo, dei costi del condizionatore eccetera. Da un’altra finestra si acquisiscono informazioni sui beni posseduti. Si possono visionare i perimetri catastali di case, appartamenti e terreni; ma anche ottenere i dati relativi ai beni mobili (automobili, moto, barche, aeroplani). E da un’altra finestra ancora si verifica quanto si spende in un anno per le utenze (elettricità, gas, telefono e acqua); emergono iscrizioni a circoli ippici, nautici e club esclusivi, ma anche i viaggi in luoghi più o meno esotici. Interagendo con altri database si possono scaricare poi le notizie sui contributi pagati per la colf, 26 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 27 FOCUS sui modelli Isee presentati per mandare il figlio all’asilo o all’università. E attraverso un altro canale, le Entrate (e le Fiamme Gialle a patto che vi sia un‘indagine penale) possono accedere ai conti correnti e all’anagrafe dei rapporti finanziari53. 11. L’accesso all’Archivio dei rapporti finanziari 11.1 L’accesso all’Archivio dei rapporti finanziari su richiesta del giudice della separazione e del divorzio Dai pochi accenni fatti risulta evidente l’utilità di disporre di tali canali di indagine nelle cause di separazione e di divorzio, soprattutto quando si tratta di coniugi con un alto tenore di vita, di redditi da lavoro autonomo che non hanno riscontro nelle risultanze delle dichiarazioni fiscali. È notoria l’imponente evasione fiscale che caratterizza il nostro Paese. È altresì noto a tutti noi che in un gran numero di casi il coniuge economicamente più forte pone in atto una strategia tesa a nascondere i redditi e ad apparire progressivamente più povero man mano che si aggrava la crisi coniugale e si giunge alla separazione. In tale contesto, soprattutto quando sono ormai passati diversi anni dalla cessazione della convivenza, non è facile per il coniuge debole provare la reale e complessiva situazione economica del coniuge, che maliziosamente si sottrae all’obbligo di collaborare, disposto, come detto, dall’art 5, nono comma, della l.div. L’acquisizione delle informazioni contenute negli archivi tributari e dei rapporti finanziari costituirebbe un prezioso strumento e consentirebbe di tutelare meglio il coniuge debole, con evidente vantaggio in termini di contrazione del tempo necessario per l’istruttoria della causa, di attendibilità dei risultati e di durata dell’intero processo. La possibilità di consultazione degli archivi tributari su delega del giudice della separazione e del divorzio è talvolta messa in dubbio. 11.2 Posizione della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate Reso ormai operativo il sistema di accesso a tutti i dati contenuti nell’Anagrafe tributaria, la Polizia tributaria e la Guardia di Finanza possono attingere “a tavolino” tutte le notizie utili per accertare in senso ampio la posizione finanziaria del contribuente, individuato attraverso il codice fiscale, mentre prima, come già detto, in caso di indagini bancarie, si doveva notificare la richiesta alle varie banche, in funzione spesso esplorativa e con il rischio di risposte evasive. Attualmente dall’Archivio dei rapporti finanziari risulta con immediatezza quali sono i singoli istituti di credito o, in genere, gli operatori finanziari presso i quali Tizio ha una specifica posizione, sicché la Guardia di Finanza può successivamente acquisire le relative informazioni dai soli operatori con i quali, in base alle risultanze del predetto Archivio, il contribuente risulta certamente avere intrattenuto rapporti o compiuto operazioni extra conto. Va precisato, infatti, che solo nell’ambito delle verifiche fiscali (diversamente da quanto accade per le indagini disposte dal giudice penale e da quello della separazione) la Guardia di Finanza con un unico accesso all’Archivio dei rapporti finanziari visualizza anche gli estratti del conto corrente e il contenuto delle altre operazioni che risultano a nome del contribuente soggetto a verifica. 53 Al riguardo vedi gli articoli: Sono le tracce elettroniche che alimentano «Serpico», in “Il Sole 24 Ore”, 19 agosto 2010; Bellinazzo, Con il codice fiscale Serpico «setaccia» tutti i contribuenti italiani, in “Il Sole 24 Ore”, 12 ottobre 2010. Gli articoli sono consultabili rispettivamente agli indirizzi http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-11/sono-tracce-elettroniche-alimentano-222620.shtml?uuid=AYju36YC e http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-10-11/codice-fiscale-serpico-setaccia220300.shtml 27 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 28 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 La Polizia tributaria e la Guardia di Finanza collaborano normalmente con il giudice della separazione pur suggerendo che vengano disposti gli accertamenti sulla complessiva situazione economica del coniuge debole solo quando sia strettamente necessario, e solo per le informazioni che le parti e il giudice stesso non possono acquisire altrimenti. Sostengono che le forze di cui dispongono sarebbero appena sufficienti per raggiungere gli obiettivi che il Ministero fissa per ciascun anno, con la conseguenza che le indagini sui coniugi costituirebbero un serio aggravio per l’espletamento dei compiti istituzionali se venissero disposte con una certa frequenza. Tuttavia, in alcune sedi giudiziarie è capitato, per quanto riguarda in particolare l’accesso all’Archivio dei rapporti finanziari, che la Polizia tributaria o la stessa Agenzia delle Entrate abbiano rifiutato di evadere la richiesta del giudice della separazione e del divorzio, così come è avvenuto in precedenza per la richiesta di indagini presso le banche. Le motivazioni sono le stesse con le quali si motivava in precedenza il rifiuto di indagini bancarie, ovvero la necessità della previa autorizzazione del Direttore regionale delle Entrate o, per la Guardia di Finanza, del Comandante di zona, i quali, per legge, dovrebbero fare un’autonoma valutazione della necessità di indagini bancarie e, ora si afferma, della necessità di accedere agli archivi informatici. 11.3 Potere vecchio, strumento nuovo Si è già detto al Capitolo 7 che il riferimento all’art. 32 d.p.r. 600/1973 (e 51 d.p.r. 633/1972) non è preclusivo del potere del giudice della separazione e del divorzio di chiedere accertamenti finanziari; potere che ha la sua fonte in specifiche e successive disposizioni di legge di pari livello (art. 5 l. 898/1970 e art. 155 c.c. modificato con la l. n. 54/2006), e che ha finalità diverse e anche un oggetto più limitato della verifica fiscale vera e propria. È diritto vivente che il giudice della separazione possa chiedere, tramite la Guardia di Finanza, l’acquisizione della documentazione relativa ai rapporti intrattenuti dai coniugi con le varie banche, e che queste ultime non possano rifiutarne la consegna motivando il diniego con il rispetto del cosiddetto segreto bancario. Neppure le società fiduciarie possono invocare il cosiddetto segreto fiduciario come chiarito dalla giurisprudenza54. E non vi è motivo di ragionare diversamente per quanto attiene al potere del giudice della separazione e del divorzio di acquisire, tramite la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, le informazioni di carattere finanziario contenute nell’Archivio informatico. Ciò che cambia, infatti, è solo il nuovo strumento attraverso il quale esercitare il medesimo potere già riconosciuto dal diritto vivente, operando oramai la Guardia di Finanza in modalità telematica anziché in modalità cartacea. 11.3.1 Un caso di rifiuto di collaborazione da parte dell’Agenzia delle Entrate Il Tribunale di Palermo55, con ordinanza del 18 gennaio 2008 G.S. c/G.G. G.I. Angelo Piraino, ha disposto, ai sensi dell’art. 213 c.p.c., la richiesta di “informazioni all’Agenzia delle Entrate-servizio di anagrafe tributaria dei rapporti con gli intermediari dell’Agenzia delle Entrate, in merito rapporti bancari, postali e finanziari risultanti dalla medesima anagrafe ed intrattenuti dal resistente Sig. G.G. nato a ... in data ... C.F. ..., sia personalmente, che quale cointestatario, che quale semplice delegato o legale rappresentante”. 54 La Cassazione esclude che le banche possano rifiutare di esibire la documentazione in loro possesso opponendo la violazione del segreto bancario. Per le indagini presso le società fiduciarie tramite Guardia di Finanza vedi Ordinanza 27 marzo 2006 del Tribunale di Reggio Emilia, giudice istruttore Giovanni Fanticini (www.finanzaediritto.it/articoli/tribunale-civile-ordinanza-27-032006-societ%C3%A0-fiduciarie-ed-obblighi-di-riservatezza-1520.html). 55 La vicenda è riassunta nell’articolo Dell’Aira, Poteri e limiti del giudice istruttore nell’accertamento dei redditi e del patrimonio dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, tra accertamenti di polizia tributaria e interrogazione dell’anagrafe tributaria - poteri d’ufficio e refluenze penali, in www.diritto.it, 25 marzo 2010. 28 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 29 FOCUS L’Agenzia delle Entrate ha risposto che: “Tali informazioni, ancorché presenti in anagrafe tributaria, non sono autonomamente rilevabili, infatti le stesse possono essere acquisite solo con l’attivazione delle indagini finanziarie, le disposizioni degli articoli 32, comma uno, n. 7 d.p.r. 600/73 e art. 51 comma due, n. 7 d.p.r. 633/72, previa autorizzazione del Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate e non possono essere fornite ad altri soggetti, giuste disposizioni emanate dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 19 gennaio 2007”. Con nota del 29 maggio 2008, il Tribunale di Palermo ha trasmesso al direttore dell’Agenzia delle Entrate l’ordinanza emessa in data 26 maggio 2009 con la quale il giudice istruttore “ritenuto, pertanto, ingiustificato il rifiuto opposto all’Agenzia delle Entrate” disponeva “sollecitarsi l’Agenzia delle Entrate a fornire le informazioni richieste con l’ordinanza pronunciata da questo Tribunale in data 18 gennaio 2008, significando che la mancata ottemperanza alla richiesta di informazioni pronunziata da questo Tribunale integra gli estremi di una condotta punibile ai sensi dell’articolo 650 cod. pen.”. L’Agenzia delle Entrate ha opposto un ulteriore rifiuto, assumendo che i soggetti legittimati a chiedere le informazioni finanziarie sarebbero solo: 1) l’Autorità giudiziaria ai sensi delle vigenti disposizioni del codice di procedura penale; 2) gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati dal pubblico ministero; 3) l’Ufficio Italiano Cambi nell’ambito delle disposizioni di cui all’articolo 3 del d.lgs. 3 maggio 1991 n. 143 e successive modificazioni (normativa antiriciclaggio); 4) gli esperti del Secit (organismo oggi soppresso); 5) il Ministro dell’Interno, il Capo della Polizia, i Questori e il Direttore della Direzione Investigativa Antimafia. Dopo ulteriori vani solleciti il giudice istruttore ha trasmesso gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo per la valutazione dei profili di reato sottesi all’omesso invio delle più volte richieste informazioni. Alla fine la Guardia di Finanza ha ottemperato a quanto disposto dal giudice della separazione, come ho personalmente accertato, informandomi sull’esito del “braccio di ferro” tra giudice istruttore e Guardia di Finanza direttamente presso gli uffici giudiziari palermitani. 11.4 Modello di ordinanza del giudice che dispone accertamenti finanziari In definitiva, anch’io ritengo che il giudice della separazione, delegando alla Polizia tributaria i propri e autonomi poteri derivanti dall’art. 5 l.div. e dall’art. 155 c.c., come interpretati dal diritto vivente, può richiedere l’accesso alle informazioni risultanti dall’Archivio dei rapporti finanziari e altresì l’esibizione, ai sensi dell’art. 210 c.p.c., da parte degli istituti di credito o di altri enti e società interessati, della relativa documentazione riguardante il coniuge (e può anche, ex art. 213 c.p.c., chiedere le stesse informazioni direttamente all’Agenzia delle Entrate). In particolare, per le informazioni contenute nell’Archivio finanziario si potrebbe provvedere con un’ordinanza del seguente tenore: “Il Giudice istruttore, − ritenuto che TIZIA ha motivatamente contestato le risultanze della documentazione riguardante i redditi di TIZIO, assumendone una più elevata consistenza e sollecitando l’uso dei poteri officiosi ai fini della liquidazione dell’assegno di mantenimento/divorzio; − ritenuta la necessità di verificare quali siano le effettive disponibilità finanziarie di TIZIO; − visti l’art. 5 l. div. (n. 898/70) che attribuisce al giudice del divorzio il potere di disporre ‘indagini sui redditi e sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria; l’art. 155 c.c. (come modificato dalla l. n. 54/2006) che attribuisce al giudice della separazione il potere di disporre ‘un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi’ e l’art. 210 c.p.c.; 29 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 30 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 dispone che la Polizia Tributaria, 1- accerti l’esistenza di rapporti bancari di qualsiasi tipo intestati a TIZIO (codice fiscale) o comunque a lui riconducibili, relativamente al periodo dal ... al ... con accesso all’Anagrafe TributariaArchivio dei rapporti finanziari; 2- acquisisca, per il periodo sopra indicato, gli estratti conto e le operazioni extraconto relativi alla posizione di Tizio, chiedendone l’esibizione agli istituti di credito o altri enti e società interessati e la consegna in copia, ed invii la documentazione in tal modo acquisita a questo giudice, con una relazione di sintesi; 3- autorizza la delega delle indagini nell’ambito dell’organizzazione interna della stessa Guardia di Finanza”. Occorre anche ricordare che la Guardia di Finanza, oltre alla consultazione dell’Archivio dei rapporti finanziari, ha la possibilità di accedere, sempre “a tavolino”, ad altre banche dati in uso al Corpo, acquisendo ulteriori informazioni che interessano Tizio: • sui redditi prodotti, con accesso alla banca dati dell’Anagrafe tributaria; • sui beni mobili posseduti, con accesso alla banca dati ACI/PRA, RINA (Registro Navale Italiano), RID (Registro Imbarcazioni Diporto) e RAN (Registro Aeromobili Nazionale); • sui beni immobili, con rilevamento presso la banca dati SISTER-Agenzia del Territorio. 11.5 La piramide probatoria Tuttavia, resta pur sempre onere del coniuge, che abbia interesse a ottenere un assegno di mantenimento o di divorzio, fornire le informazioni relative alla situazione economica dell’altro coniuge. Sicché il potere officioso del giudice potrà non essere esercitato con riferimento a quelle informazioni che è certamente nella possibilità del richiedente l’assegno fornire, quali ad esempio quelle ottenibili attraverso il servizio reso dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense. Procedendo gradualmente nella prospettazione dei vari strumenti di prova, si può immaginare l’attività probatoria nelle cause di famiglia come una piramide alla cui base vanno inserite tutte le notizie che i coniugi hanno la possibilità di acquisire e fornire autonomamente e tutta la documentazione in loro possesso. Solo su tali presupposti, risalendo via via verso il vertice, si potrà sollecitare il giudice perché metta in atto specifici accertamenti mirati, indicando le singole piste da indagare (beni mobili, immobili, rapporti finanziari eccetera) quando l’attività istruttoria delle parti trova degli ostacoli. E su tali presupposti il giudice potrà decidere quali concreti accertamenti fare e a chi delegarli. 12. Conclusioni Nulla potrà essere come prima, ma cerchiamo di ricucire nel miglior modo possibile quanto si è rotto. Istruzioni per l’uso 1. Avvocati e giudici della famiglia specializzati e “speciali”, capaci di ascolto empatico. 2. Collaborano perché la famiglia in crisi possa guardare al processo come al luogo dove avranno tutela le aspettative di ciascuno: padre, madre e figli. 3. Aiutano i coniugi a imparare a “mediare” il conflitto, interrompendo la “cattiva infinità delle liti” e salvaguardando i rapporti personali. 30 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 31 FOCUS DECRETO DELLA CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI (2010) con incarico alla Guardia di Finanza di interrogare l’Archivio dei rapporti finanziari LA CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI Sezione Prima Civile dott. Gian Giacomo Pisotti dott. Fiorella Buttiglione dott. Tiziana Mariogna composta dai magistrati: Presidente Consigliere relatore Consigliere ha pronunciato il seguente DECRETO nel procedimento iscritto al n° ... del RG per l’anno 2010, promosso da: LUI residente in ... ed elettivamente domiciliato in Cagliari presso lo studio degli avv.ti ... e ... che lo rappresentano e difendono con procura speciale a margine del reclamo Reclamante contro LEI, residente in ... ed elettivamente domiciliata in Cagliari presso lo studio dell’avv.to ... che la rappresenta e difende con procura speciale a margine della memoria difensiva. Resistente Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale. Intervenuto *** Visti gli atti ed esaminata la documentazione prodotta, la Corte rileva quanto segue: - LUI ha proposto reclamo a questa Corte avverso il decreto in data 19/22.4.2009 del Tribunale di Cagliari con il quale, decidendo nella causa di modifica delle condizioni di separazione consensuale promossa dalla moglie LEI con ricorso del 6.6.2007, il primo giudice ha aumentato gli assegni di mantenimento dovuti dal reclamante così disponendo: “determina in € 3.200,00 l’assegno che LUI dovrà versare entro il 5 di ogni mese a titolo di contributo per il mantenimento della coniuge (€ 2.000,00) e del figlio (€ 1.200,00), oltre il 70% delle spese straordinarie sostenute nell’interesse della stessa; [...]”; - sostiene il reclamante che nel dispositivo il Tribunale non avrebbe indicato che quegli assegni riguardavano il periodo giugno 2007-febbraio 2009, come precisato nella motivazione ed inoltre che, nel medesimo dispositivo, per errore erano stati invertiti gli importi degli assegni liquidati spettando alla moglie € 1.200,00 ed al figlio € 2.000,00; 31 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 32 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 - - - - - - nel merito, chiede che la Corte rigetti la domanda di modifica delle condizioni della separazione consensuale non sussistendo provati e sensibili mutamenti delle circostanze ivi considerate e permanendo un complessivo equilibrio tra le posizioni delle parti; LEI lamenta l’inadeguatezza dell’assegno liquidato e chiede, in via di reclamo incidentale, che la Corte determini un importo maggiore; il P.M. ha chiesto il rigetto del reclamo; quindi osserva anzitutto devono correggersi l’errore materiale e l’omissione lamentati dal LUI. Quanto al primo il Tribunale ha liquidato gli assegni nella misura di € 3.200,00 “così come stabilita in sede di divorzio e confermata a seguito del reclamo proposto dal LUI avverso l’ordinanza presidenziale 20 febbraio 2009”, e siccome in detta sede per la moglie era stato liquidato un assegno di divorzio di € 1.200,00 e per il figlio un assegno di € 2.000,00, è evidente l’errore materiale. Anche per la durata temporale cui si riferiscono gli assegni, posto che nella motivazione del primo giudice si è fatto riferimento al periodo 6 giugno 2007 (richiesta ex art. 710 c.p.c.) pronuncia dei provvedimenti provvisori da parte del Presidente nella causa di divorzio (20 febbraio 2009), il dispositivo può essere integrato con tale indicazione; nel merito, va considerato che il Tribunale dopo avere acquisito nuova documentazione e disposto indagini a cura della Guardia di Finanza, ha omesso di fare una autonoma e completa valutazione di tutto il materiale probatorio acquisito motivando sul punto come di seguito riportato testualmente, per quel che ora occorre rilevare: “[...] Infine, l’attribuibilità al LUI di una capacità reddituale superiore a quella dal medesimo allegata deve presumersi in considerazione del versamento da parte dello stesso ed in favore della coniuge, dell’assegno di € 2.000,00, circostanza indicativa di una disponibilità di mezzi ulteriori rispetto a quelli tratti dalla mera percezione della pensione, gravata, quanto meno, dal pagamento del canone di locazione e dagli ordinari costi di vita. Se le considerazioni sopra esposte impongono, dunque, l’aumento dell’assegno dovuto dal LUI per il mantenimento della coniuge e del figlio, si osserva che la necessità di procedere ad una ‘lettura’ della documentazione in atti con l’ausilio di una consulenza tecnica – quale strumento indispensabile per una ricostruzione ‘reale’ delle condizioni economiche del LUI in considerazione della complessità, in specie, dei movimenti di conto corrente originati da operazioni chiaramente inserite (in riferimento agli importi più rilevanti) in un più ampio disegno di complessiva gestione delle attività imprenditoriali esercitate dal LUI tramite le società sopra menzionate – suggerisce di far propria le determinazione ‘prudenziale’ di detto assegno compiuta in sede presidenziale divorzile, rimettendo la tendenzialmente definitiva e più puntuale quantificazione dell’assegno alla sede cognitiva piena del procedimento di divorzio e ciò anche per ovvie ragioni di economia processuale legate alla limitata operatività (giugno 2007/febbraio 2009) dell’assegno in questa sede stabilito”. la Corte ritiene, invece, che debba procedersi nella sede della modifica delle condizioni della separazione consensuale alla completa valutazione delle circostanze sopravvenute; peraltro, risulta in atti che la Guardia di Finanza non ha ultimato le proprie indagini, come si legge nel rapporto depositato in Tribunale il 6.4.2009 (protocollo G.F. 68408/09 del 2.4.2009) nel quale, comunicando che erano risultati diversi conti correnti bancari intestati a soggetti terzi in relazione ai quali il LUI aveva la delega ad operare, aveva richiesto al giudice del procedimento di indicare se dovessero procedere ai relativi accertamenti presso gli istituti di credito di riferimento; ritenuto di dovere integrare tali accertamenti e di completare le indagini sui rapporti finanziari intrattenuti dal LUI nel periodo giugno 2007-febbraio 2009 con accesso all’Archivio dei rapporti finanziari, Sezione dell’Anagrafe Tributaria; sospeso il giudizio sul merito e sulle spese; 32 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 33 FOCUS P.Q.M. A- dispone che nel dispositivo del decreto pronunciato tra le parti in causa dal Tribunale di Cagliari in data 19/22.4.2009: a- laddove è scritto: “determina in € 3.200,00 l’assegno che LUI dovrà versare entro il 5 di ogni mese a titolo di contributo per il mantenimento della coniuge (€ 2.000,00) e del figlio (€ 1.200,00), oltre il 70% delle spese straordinarie sostenute nell’interesse della stessa; [...]”; deve leggersi “determina in € 3.200,00 l’assegno che LUI dovrà versare entro il 5 di ogni mese a titolo di contributo per il mantenimento della coniuge (€ 1.200,00) e del figlio (€ 2.000,00), oltre il 70% delle spese straordinarie sostenute nell’interesse della stessa; [...]”; b- che nel dispositivo stesso deve leggersi che detti assegni decorrono dal 6.6.2007 sino al 20.2.2009; B- dispone che la Guardia di Finanza, Gruppo di Cagliari, 2° nucleo operativo- Sezione Operativa- Viale Diaz n. 174, Cagliari: 4- provveda ad interrogare l’Archivio dei Rapporti Finanziari per accertare l’esistenza di rapporti bancari di qualsiasi tipo nei confronti di LUI, nato a ... il ... (CODICE FISCALE) o comunque a lui riconducibili, relativamente al periodo dal giungo 2007 al febbraio 2009; 5- autorizza la delega delle indagini nell’ambito dell’organizzazione interna della stessa Guardia di Finanza; 6- in caso di accertamento positivo, richieda agli istituti tramite i quali il LUI ha effettuato operazioni finanziarie di esibire e consegnare la documentazione relativa a dette operazioni finanziarie con riferimento in particolare ad: - elenco dei rapporti intrattenuti (conto corrente, carte di credito/debito, operazioni extraconto, garanzie, finanziamenti, altro); - estratti conto dei rapporti intrattenuti (vgs sub 1.); - A.U.I. - archivio unico informatico (operazioni non transitate sul conto); 4- dispone specificamente che l’accertamento riguardi i rapporti intestati o cointestati ad LUI ovvero sui quali lo stesso può agire in nome o per conto dei titolari o comunque disporre operazioni; 5- delega la Guardia di Finanza, Gruppo di Cagliari alla notifica del provvedimento e all’acquisizione dei relativi esiti documentali; 6- dispone che invii a questa Corte un rapporto scritto sui risultati dell’indagine. Rinvia la causa al ... Si comunichi alle parti e alla Guardia di Finanza. Il Consigliere estensore Il Presidente 33 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 34 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 DIVORZIO ALL’ITALIANA. LA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE Giulia Sarnari Avvocato del Foro di Roma Quanto è difficile spiegare a chi vuole porre la parola fine a una vicenda coniugale che il nostro ordinamento prevede che occorre prima separarsi, poi attendere e, successivamente, affrontare il divorzio. E quanto è frequente sentirsi chiedere dopo essersi impegnati in una completa illustrazione del sistema, sia pur sintetica e atecnica: “... Ma poi, dopo la separazione, è facile divorziare e definire ogni questione?”. E persino di fronte a tale quesito diventa veramente arduo offrire una consulenza legale tranquillizzante, anche se si ipotizzano i possibili scenari che si possono aprire al momento del divorzio e che possono seguire al divorzio. Infatti, non basta dover dire che non è sempre agevole riuscire a ottenere, nei tre anni previsti dalla legge, un titolo di separazione legale – presupposto per poter avanzare la domanda di divorzio (nonostante il varco aperto dieci anni orsono all’ammissibilità della pronuncia parziale di separazione) – e che non sussiste alcun automatismo al divorzio (che molti, invece, si aspettano, come se fosse un fatto amministrativo). È necessario far presente che lo scenario del contenzioso divorzile e post divorzile può essere anche molto ampio, lungo e articolato a causa del principio di solidarietà post coniugale che vige nel nostro ordinamento. Sovviene allora una ulteriore, frequente e logica domanda: “Ma non si può fare un accordo e definire subito e tutto senza lasciare alcuna pendenza?”. E anche a tale esigenza non è possibile dare un riscontro positivo, perché la Suprema Corte ha incontrovertibilmente sancito che al momento in cui si evidenzia la crisi coniugale e quindi si affronta la separazione, i coniugi non possono disciplinare gli aspetti economici del divorzio: nulli, infatti, sono i patti fatti al momento della separazione per disciplinare il futuro divorzio1 e alcuna rinuncia è possibile al momento della separazione rispetto a possibili pretese economiche conseguenti al divorzio. Non solo. È altrettanto pacifico che anche qualora i coniugi siano addivenuti a una separazione consensuale con cui hanno statuito di non vantare alcun diritto economico l’uno nei confronti dell’altro, ritenendo così di chiudere definitivamente ogni loro rapporto in quell’occasione con espresse clausole di rinuncia, giunti al divorzio tutto si può riaprire, secondo presupposti e criteri diversi e autonomi rispetto alla separazione. E anche in sede di divorzio non vi è alcuna soluzione che possa garantire la definitiva risoluzione di ogni pendenza economica con l’“ex”, salvo che ci si accordi in sede di divorzio congiunto con una dazione economica e/o patrimoniale, la cosiddetta una tantum a norma dell’art. 5, ottavo comma, l.div. La Cassazione infatti ha stabilito che il mancato riconoscimento di un assegno divorzile – perché non richiesto, sia in sede contenziosa che in sede di divorzio congiunto, o addirittura negato in sede giudiziaria – non preclude la possibilità di agire successivamente ex art. 9 l.div. per una modifica2, sia pur solo se sussistono sopraggiunte circostanze di portata tale da rendere giusti- 1 Cass. 11 novembre 2009, n. 23908; Cass. 10 marzo 2006, n. 5302. 2 Cass. 10 gennaio 2011, n. 366; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2339; Cass. 25 agosto 2005, n. 17320. 34 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 35 FOCUS ficato l’adeguamento dell’assegno, in aumento o in diminuzione, ovvero, la sua radicale eliminazione o, per converso, la sua attribuzione, e senza alcuna possibilità di nuova valutazione degli elementi che sono stati tenuti presenti al momento del divorzio3. Noi avvocati verifichiamo quotidianamente che la persona, nel momento in cui vive la propria relazione affettiva, sia essa fondata sul matrimonio che sulla convivenza di fatto, è spesso inconsapevole di tutti i diritti e i doveri che governano la relazione stessa. Quando la relazione affettiva viene meno, anche la persona più avveduta e informata si sorprende di come possano sussistere delle conseguenze economiche, talvolta davvero consistenti, e si sdegna con vigore quando si accorge che il divorzio non è affatto un punto di arrivo e, anzi, con il divorzio e dal divorzio tutto può cominciare. Il procedimento di divorzio, se è preceduto da un contenzioso di separazione, può svolgersi contemporaneamente a questo, non essendo inconsueto che i due giudizi si sovrappongano, oppure può verificarsi che la transazione raggiunta in sede di separazione non abbia alcuna rilevanza. Sulla nullità degli accordi matrimoniali in sede di separazione relativi al futuro divorzio, di cui si è detto, la posizione della Suprema Corte sembra veramente non scalfirsi. Ancora recentemente4 si è sancito che in sede di separazione non solo non è possibile disciplinare le conseguenze economiche del successivo divorzio, ma anche che in sede di divorzio non è possibile disciplinare il regime post divorzile e che il principio enunciato dall’art. 9 l.div. è indisponibile, con la conseguenza della nullità dell’accordo che in sede di divorzio preveda un impegno a non modificare le statuizioni appena assunte e condivise, essendo sempre possibile agire per la revisione a norma dell’art. 9 l.div. Certo, vi è da dire che se l’indisponibilità del diritto all’assegno divorzile viene ravvisata sostanzialmente nella sua natura eminentemente assistenziale, si potrebbe sostenere, come in diverse occasioni taluni hanno argomentato, che laddove l’assegno divorzile copra la funzione assistenziale sarebbe senz’altro indisponibile alla negoziazione delle parti, ma laddove realizzi anche la finalità compensativa e risarcitoria, rispetto a essa l’autonomia negoziale dei coniugi potrebbe essere sovrana. Ci si riferisce pur sempre a una indisponibilità sostanziale, giacché, questo sì, sotto il profilo processuale, la domanda volta al riconoscimento dell’assegno divorzile deve essere sempre postulata da chi vi abbia interesse5 e in assenza di essa il giudice non può pronunciarsi. Tuttavia, anche sotto questo specifico aspetto, non si può dimenticare che sussistono pronunce che temperano anche questo principio e che hanno sancito che la domanda di assegno divorzile può essere anche postulata “implicitamente” e quindi formulata “esplicitamente” anche in appello6, e che i mezzi di prova a sostegno di essa possono essere formulati sino all’udienza di discussione7. Dunque, nessuna possibilità di poter fare un accordo per il futuro divorzio. Nell’accingersi al giudizio va considerato che se è ben vero che nel divorzio le violazioni dei doveri coniugali non rilevano più e che si può vertere solo sulle conseguenze economiche a norma dell’art. 5 l.div., è anche vero che al momento del divorzio la conflittualità sedata o non emersa in sede di separazione ben può riemergere e trovare spazi processuali giacché, a prescindere da una declaratoria di addebito in sede di separazione, possono essere inserite ugualmente nel giudizio di divorzio le motivazioni che hanno portato alla separazione quali “ragioni della decisione” che, a norma dell’art. 5, sesto comma, l.div., costituiscono uno degli elementi determinanti la quantificazione dell’assegno divorzile. Significativa al riguardo è una pronuncia della Suprema Corte8, che è giunta a individuare un regime di vita post separazione, sancendo che in tema di assegno divorzile il criterio delle “ragioni del- 3 Cass. 10 gennaio 2011, n. 366. 4 Cass. 14 ottobre 2010, n. 22505. 5 Cass. 12 febbraio 2009, n. 3488; Cass. 28 aprile 2008, n. 10810. 6 Cass. 28 aprile 2008, n. 10810. 7 Cass. 27 maggio 2005, n. 11319. 8 Cass. 26 novembre 2008, n. 28218. 35 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 36 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 la decisione” di cui all’art. 5, sesto comma, l.div., fa sì che si possa aprire un accertamento relativo non solo al periodo della vita coniugale, ma anche al comportamento dei coniugi dopo la separazione che abbia costituito un impedimento al ripristino della loro comunione spirituale e materiale e alla ricostruzione del consorzio familiare. Anche in caso di divorzio congiunto, che dovrebbe essere immodificabile in presenza di una una tantum, sembrano aprirsi scenari incerti: in una recente pronuncia9 la Suprema Corte ha affermato che, in presenza della costituzione del diritto di usufrutto in capo al coniuge quale dazione di una tantum in sede di divorzio, si configura in capo al coniuge beneficiario la titolarità dell’assegno divorzile che consente di avere diritto alla pensione di reversibilità. A ben vedere, parrebbe non esserci scampo: infatti, la mancata previsione di un assegno di separazione a norma dell’art. 156 c.c. non è ostativa e non preclude affatto la possibilità di avanzare una domanda di assegno divorzile10 e la mancata pronuncia di addebito non preclude l’introduzione nel giudizio di divorzio di questioni relative alle relazioni interpersonali che hanno portato alla crisi coniugale per giustificare la richiesta di quantificazione. Con riferimento a questo specifico aspetto, peraltro, non è marginale notare che se da un lato l’inesistenza di un assegno di separazione non preclude affatto la possibilità di vedersi riconoscere un assegno divorzile11, per cui ben può essere postulata e istruita una domanda di assegno di divorzio12, dall’altro l’esistenza di un assegno di mantenimento è stato ritenuto dalla Suprema Corte un valido indice di riferimento per la quantificazione dell’assegno divorzile13. Ed è per tale affermazione che verifichiamo spesso in sede di merito che l’assenza di un assegno di separazione non è un dato “tranquillizzante”, mentre la sussistenza dell’assegno di separazione è senz’altro un buon viatico per ottenere il riconoscimento dell’assegno divorzile. Quando poi si entra nel vivo del contenzioso divorzile – che talvolta non ci si aspettava proprio di dover affrontare, avendo stipulato una serena separazione consensuale con accantonamento di ogni pretesa economica da parte dell’altro coniuge – ci si avvede che la sussistenza del diritto è molto più probabile che sia accertata di quanto si creda; che la circostanza che l’altro coniuge lavori, o possa lavorare e non voglia farlo, sia un dato meno rilevante di quanto il comune sentire ritenga e che l’indirizzo giurisprudenziale dei primi anni Novanta (formatosi dopo la seconda legge sul divorzio del 1987 che si fondava su un’interpretazione eminentemente letterale del concetto di “mancanza di redditi adeguati” di cui all’art. 5 appena rinnovato) è ormai ampiamente, e in maniera più che consolidata, superato. Infatti, dalla metà degli anni Novanta la Suprema Corte definisce la natura assistenziale dell’assegno, prevista dall’art. 5 l.div.: ha diritto a vedersi riconoscere l’assegno quel coniuge, non già che non abbia mezzi per provvedere al proprio sostentamento (come il concetto di assistenza e di solidarietà coniugale potrebbe evocare), bensì che non abbia i mezzi economici, reddituali e patrimoniali che gli consentano di svolgere o quel tenore di vita svolto durante il matrimonio o quel tenore di vita che ragionevolmente avrebbe condotto in base alle aspettative maturate durante il matrimonio e fissate al momento del divorzio14. Quindi, il fatto che il coniuge richiedente l’assegno divorzile svolga una propria attività lavorativa non è motivo sufficiente per far venire meno il diritto e quando ci viene detto: “Ma lui/lei, lavora!”, sappiamo che dobbiamo spiegare che tale circostanza non è di per se stessa motivo ostativo 9 Cass. 28 maggio 2010, n. 13108. 10 Con sentenza n. 28741 del 12 febbraio 2008 la Suprema Corte ha ribadito un orientamento ormai consolidato e granitico in forza del quale la determinazione dell’assegno di divorzio è assolutamente indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti al momento della separazione dei coniugi. 11 Cass. 6 agosto 2010, n. 18433; Cass. 18 marzo 2010, n. 6606; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2161. 12 Una tale domanda solitamente sorprende non poco quel coniuge che con una separazione consensuale aveva concordato con l’altro l’assenza di un assegno di separazione o che si era visto pronunciare una separazione giudiziale senza riconoscimento di alcun assegno di mantenimento. 13 Cass. 14 luglio 2011, n. 15559; Cass. 4 ottobre 2010, n. 20582; Cass. 26 novembre 2008, n. 28218. 14 Cass. 17 febbraio 2011, n. 3905; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2156; Cass. 2 febbraio 2009, n. 3489; Cass. 14 gennaio 2008, n. 593. 36 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 37 FOCUS al riconoscimento del diritto15. Può inoltre accadere che dopo tanti anni di cessazione della vita coniugale il coniuge onerato abbia degli incrementi patrimoniali che potevano essere ipotizzabili al momento del matrimonio. In tal caso il coniuge richiedente si avvale favorevolmente di questi incrementi16. Anche una sopravvenuta eredità, che non dovrebbe rilevare ai fini della valutazione complessiva delle condizioni economiche delle parti dal momento che è un incremento patrimoniale non riferibile a uno sviluppo naturale e prevedibile della situazione reddituale del soggetto onerato, in realtà, è stato detto, assume la sua rilevanza17. Vi è da notare poi che il fatto che l’art. 5 l.div. stabilisca che il giudice debba anche accertare se, non sussistendo i mezzi, sussista anche un’incapacità oggettiva di procurarseli, non costituisce per la Suprema Corte un temperamento al principio enunciato, giacché è consolidato l’orientamento in base al quale il soggetto richiedente l’assegno non ha l’onere di attivarsi a impegnarsi in una qualsivoglia attività lavorativa, ma soltanto in una attività confacente al proprio livello socio-culturale economico e allo stile di vita condotto durante il matrimonio18. Già in questa prima fase di accertamento di sussistenza del diritto, dunque, i coniugi possono ritrovarsi a dover “tirar fuori” quanto accaduto durante il matrimonio, molti anni addietro; quanto si pensava di aver archiviato, non meno di tre anni prima, con la vicenda separazione. E questo diventa davvero oneroso sotto il profilo probatorio, ancor più di quanto avvenuto nella precedente fase della separazione. Nel giudizio di separazione, infatti, il giudice, in presenza di una domanda di assegno del coniuge, deve limitarsi a equilibrare le sostanze della famiglia, togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno, sicché entrambi continuino a svolgere quel tenore di vita condotto durante il matrimonio. Nel caso del giudizio per il riconoscimento dell’assegno divorzile, il giudice è chiamato a effettuare una determinazione sulla condizione personale dei due coniugi al momento del matrimonio e al momento attuale, non solo sulle loro sostanze e sui loro redditi, e, quindi, a esprimere un convincimento meno oggettivo e più valutativo (quello espresso nel giudizio di separazione dovrebbe essere quasi meramente aritmetico). Di conseguenza il processo è più impegnativo. Se poi l’attività di accertamento processuale si svolge realmente in due fasi, nel senso che a una precedente e primaria di individuazione dell’an debeatur segue, come insegna la Suprema Corte, quella volta all’accertamento del quantum debeatur, a norma dell’art. 5, sesto comma, l.div., nella quale devono essere prese in considerazione le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale dato da ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, e tutto ciò in rapporto alla durata del matrimonio, ci si rende conto che l’impegno istruttorio è davvero complesso. Anche se non si possono dimenticare quelle abnormi pronunce che hanno riconosciuto il diritto all’assegno divorzile in presenza di un matrimonio cosiddetto “lampo”, addirittura di una settimana19, è solo il corretto bilanciamento di tutti gli elementi indicati dalla norma che può far conseguire una decisione equa. La Corte di Cassazione ha sancito che la giusta ponderazione di tutti questi criteri può anche comportare una quantificazione dell’assegno a zero e, quindi, annullare un diritto che è stato riconosciuto nella prima fase ermeneutica di accertamento20. Non si può comunque ignorare che purtroppo, nonostante l’assenza di elementi di riscontro pertinenti da parte del coniuge richiedente, spesso il giudizio volto all’accertamento e alla quantificazione dell’assegno divorzile viene condotto come un giudizio di accertamento dell’assegno ex art. 156 c.c. L’attività istruttoria è mortificata, laddove ci si limita a effettuare una comparazione dei red- 15 Cass. 4 febbraio 2011, n. 2747. 16 Cass. 4 ottobre 2010, n. 20582. 17 Cass. 26 febbraio 2010, n. 4758. 18 Vedi per tutte Cass. 17 febbraio 2011, n. 3905. 19 Cass. 28 maggio 2008 n. 14056; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2721 20 Fra tante vedi Cass. 19 maggio 2010, n. 12283. 37 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 38 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 diti delle parti e a individuare il coniuge oggettivamente più debole a livello economico per attribuirgli l’assegno divorzile, senza dare spazio alla sussistenza, alla valutazione e, quindi, al bilanciamento degli altri criteri. Ciò avviene, peraltro, proprio con il sostegno del pronunciamento della Suprema Corte che, in effetti, ha sancito più volte che il giudice può considerare prevalente e assorbente anche uno solo di tali elementi, ritenendolo idoneo a dare fondamento alla propria decisione21. Inoltre va segnalato che l’onere della prova, che secondo il generale principio della domanda è senz’altro in capo al coniuge richiedente, è davvero attenuato, giacché la Cassazione ha evidenziato che la prova in ordine allo stato di bisogno, o comunque a una situazione non adeguata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, incombe sul coniuge richiedente l’assegno. Tale prova, tuttavia, non deve essere fornita necessariamente in modo specifico poiché è sufficiente, anche per il suo contenuto negativo, che venga desunta implicitamente da tutte le risultanze emerse22; in particolare si afferma che quella sul tenore di vita può essere desunta anche dalle dichiarazioni dei redditi delle parti23. Comunque, con riguardo all’importanza che assume la condizione del coniuge al momento del divorzio, è rilevante segnalare la recente sentenza della Suprema Corte24 che sembra voglia scalfire il principio, sino a oggi consolidato25, che attribuiva irrilevanza alla convivenza more uxorio del coniuge richiedente l’assegno, o meglio poneva a carico dell’avente diritto l’onere di provare che da tale convivenza il coniuge richiedente l’assegno traesse una fonte stabile di mantenimento del suo tenore di vita, sancendo, in maniera davvero innovativa, e vedremo in futuro quanto significativa, che: “... l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e, in relazione ad essa, il presupposto per la riconoscibilità, a carico dell’altro coniuge, di un assegno divorzile, il diritto al quale entra così in uno stato di quiescenza, potendosene invero riproporre l’attualità per l’ipotesi di rottura della nuova convivenza tra i familiari di fatto”. Ed è anche importante segnalare che la Cassazione, con attenzione ai risvolti negativi in termini di giustizia equa che può avere l’eccessiva durata del processo, ha stabilito che se è vero che il giudice nel determinare l’assegno di divorzio deve fare riferimento ai redditi dei coniugi relativi al momento in cui è stata pronunciata la sentenza di divorzio, tuttavia, tale principio riguarda solo l’an debeatur ed è rivolto a evitare che il diritto possa rimanere pregiudicato dal tempo necessario a farlo valere in giudizio, ma non interferisce sull’esigenza che il quantum sia determinato alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi né sulla legittimità di determinare misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati26. A chiusura di questo scenario che si prospetta al coniuge divorziando e che avvilisce non poco colui che vorrebbe che l’ordinamento gli ponesse un rimedio “tombale” – per dirla con un termine gergale ma di grande efficacia – ma che è senz’altro molto garantista per quel coniuge che ha impegnato tante risorse nella vicenda matrimoniale e vi ha fondato tante aspettative, non si può non segnalare che l’onerosità processuale del giudizio divorzile è stata ulteriormente appesantita dal pronunciamento della Suprema Corte che stabilisce che la domanda per la determinazione della quota di pensione di reversibilità ben può essere introdotta in sede di divorzio con la domanda di divorzio27; un appesantimento tuttavia che, a ben vedere, realizza una buona finalità di economia processuale per entrambe le parti, anche per il soggetto onerato. 21 Cass. 6 agosto 2010, n. 18433; Cass. 15 luglio 2010, n. 16606; Cass. 27 maggio 2009, n. 12419. 22 Cass. 23 aprile 2010, n. 9710. 23 Cass. 29 gennaio 2010, n. 2161. 24 Cass. 11 agosto 2011, n. 17195. 25 Cass. 22 gennaio 2010, n. 1096. 26 Cass. 28 dicembre 2010, n. 26197. 27 Cass. 6 giugno 2011, n. 12175. 38 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 39 FOCUS Molto ancora si potrebbe dire sul divorzio in Italia, che non di rado si affianca anche al giudizio di divisione della comunione legale dei beni. Il divorzio può costituire una vicenda che non ha mai fine e addirittura sopravvive alla morte di uno dei coniugi, laddove assistiamo a giudizi di determinazione della quota della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge che talvolta sembrano una riedizione del giudizio di divorzio e che sono regolati dal principio primario della durata del matrimonio che non consente sempre di attribuire quote eque. Sarebbe senz’altro opportuno che il nostro ordinamento desse maggiore spazio alla negoziazione tra i coniugi e ammettesse la possibilità di trovare accordi definitivi, satisfattivi e vincolanti, prima e dopo il matrimonio, mutuando da altri ordinamenti e tenendo conto di quanto da ultimo affermato dal Regolamento europeo n. 126 del 16 marzo 2011. Autorevole dottrina28 ha osservato che il vulnus del nostro sistema è da ravvisare non tanto nella mancanza di autonomia negoziale dei coniugi (giacché a ben vedere rispetto, ad esempio, al sistema americano e anglosassone, l’opzione per il regime patrimoniale che il coniuge effettua al momento della celebrazione offerta dal nostro ordinamento dà maggiori garanzie di effettiva libertà di scelta di destinazione del proprio patrimonio rispetto agli accordi prematrimoniali), quanto nella mancanza di informazione giuridica del sistema legale che scaturisce dal matrimonio, dal regime patrimoniale scelto, dalla separazione e dal divorzio, per esercitare in modo consapevole la propria autodeterminazione. 28 Al Mureden, Rapporti Patrimoniali tra coniugi, lezione tenuta il 4 ottobre 2011 presso la Scuola di Alta Formazione in Diritto di famiglia, minorile e delle persone dell’AIAF. 39 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 40 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 I RIFLESSI ECONOMICI DELL’ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE Marina Blasi Avvocato del Foro di Roma 1. Premessa La crisi della famiglia e la rottura della comunione spirituale e materiale tra i coniugi impongono, ad almeno uno di loro, uno sradicamento dal proprio habitat che si ripercuote sull’equilibrio e sulla stabilità della persona, oltre che incidere sensibilmente sul tenore di vita e sulle condizioni economiche dell’intero nucleo familiare. L’attribuzione del godimento della casa coniugale, che viene disposto tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli, produce però effetti anche nei confronti di terzi non appartenenti al nucleo familiare in crisi, terzi ai quali è opponibile detta assegnazione. Si pensi ad esempio al comodante o al locatore che vedono la successione nel contratto di persona diversa da quella con cui era stato stipulato. Oggi dell’incidenza economica dell’assegnazione della casa coniugale prende atto l’art. 155 quater c.c. che, disponendo che “il giudice deve tener conto nella regolamentazione dei rapporti economici tra i genitori, considerando l’eventuale titolo di proprietà”, senza indicazione di automatismi e di criteri di valutazione, rimette al giudice della separazione o del divorzio la valutazione, caso per caso, dell’incidenza delle conseguenze economiche, anche rispetto ai terzi, dell’assegnazione della casa coniugale, che può però controbilanciare solo tra i genitori. Si tratta di un punto di arrivo che rimette all’interprete la valutazione caso per caso, recependo le difficoltà che lo stesso legislatore negli anni si è trovato ad affrontare per contemperare gli interessi della proprietà, l’interesse della prole, l’interesse dei terzi. Sino alla riforma del diritto di famiglia (l. 151/1975) nessuna norma in caso di separazione o di divorzio consentiva di privare il coniuge proprietario della casa del suo diritto di godimento dell’appartamento per assegnarlo in uso all’altro coniuge1 né di imporre al coniuge titolare del contratto di locazione di mettere l’abitazione coniugale a disposizione dell’altro2, privilegiandosi in tal modo il diritto del proprietario o la titolarità del diritto di godimento del bene. Con la legge 151/1975 è stato riformato l’art. 155 c.c. al quarto comma disponendo che “l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”, mentre di poco successiva è la legge sull’equo canone (l. 392/1978) che all’art. 6 ha previsto che nel caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel contratto di locazione al conduttore succede l’altro coniuge, se il diritto di abitare la casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest’ultimo. Si tratta del punto di partenza per la tutela del minore al mantenimento dell’habitat domestico. 1 Cass. n. 122/1964. 2 Cass. n. 2612/1951. 40 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 41 FOCUS In assenza di disposizioni analoghe nella legge per il divorzio, si discuteva se l’assegnazione potesse estendersi anche in caso di divorzio. Il contrasto giurisprudenziale che ne è conseguito è stato risolto in senso affermativo dalle Sezioni unite della Cassazione con sentenza n. 4089/1987. Nello stesso anno la legge di riforma del divorzio (l. 74/1987) modificava l’art. 6, introducendo al sesto comma la seguente previsione “l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età”, e inserendo inoltre due paragrafi con cui dispone che “in ogni caso ai fini della assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione in quanto trascritta è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.”. La riforma del divorzio introduce la possibilità di assegnazione al coniuge più debole, comprimendo in tal senso l’estensione del diritto di proprietà, ma al contempo evidenzia la necessità di considerare e valutare le condizioni economiche dei coniugi nel giudizio sull’an dell’assegnazione. La legge 54 del 2006 sull’affidamento condiviso e per la tutela della prole nei processi separativi, considerate le implicazioni di tale tutela con gli aspetti patrimoniali ed economici, è intervenuta nella disciplina dell’assegnazione della casa familiare con l’introduzione dell’art. 155 quater c.c., eliminando gli elementi di discontinuità tra i diversi tipi di processi separativi attraverso l’equiparazione della prole. L’art. 4.2 della citata legge prevede infatti che essa si applichi integralmente in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio nonché ai provvedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. È dunque normata la possibilità di assegnazione della casa familiare nelle coppie di fatto, anche se questa era stata già riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza interpretativa di rigetto n. 166/19983 e dalla Corte di legittimità4. Sempre ispirata alla tutela della prole, la l. 54/2006 ha altresì esteso la tutela dei figli minori anche ai figli portatori di handicap con l’art. 155 quinquies, secondo comma, c.c., che recita: “Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’art. 3, 3° cp, l. 104/1992 si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori”5. Di tali disposizioni si ritiene non debbano applicarsi quelle relative alla capacità, in quanto a esse si applicano le norme dell’amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione. Si devono invece ritenere applicabili: le disposizioni in merito al contributo di mantenimento, anche considerando che frequentemente il portatore di handicap è titolare di pensione di invalidità e di indennità di accompagnamento; le disposizioni in merito alla suddivisione tra i genitori dei compiti di 3 La Consulta con la pronuncia n. 166/1998 non riteneva necessaria una specifica norma, essendo la tutela del figlio naturale immanente nell’ordinamento, dal momento che la condizione dei figli deve essere considerata come unica, senza che abbiano influenza le circostanze della nascita e perché il fatto che i genitori siano o meno legati da un vincolo coniugale non può determinare una condizione deteriore per i figli, ciò in forza dell’art. 30 Cost. La Consulta rinviava all’art. 261 c.c. che stabilisce che il riconoscimento comporta l’assunzione da parte del genitore naturale di tutti quei diritti e quei doveri previsti dalla legge in relazione alla filiazione legittima e, dunque, rinvia al disposto degli artt. 147 e 148 c.c. che impongono ai genitori l’obbligo di mantenere, educare e istruire i figli, ciascuno secondo le proprie sostanze e capacità. Nell’ambito dell’obbligo di mantenimento assume importanza primaria, al fine di “garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio”, “la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio”. Invero, la Corte Costituzionale già nel 1988 con la sentenza n. 404 aveva già dichiarato incostituzionale l’art. 6 della egge equo canone (n. 392/1978) nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione del conduttore che abbia cessato la convivenza a favore del già convivente quando vi sia prole naturale. Infine la Corte Costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto n. 395 del 2005, ha chiarito che anche il provvedimento di assegnazione della casa familiare al genitore naturale è trascrivibile e opponibile ai terzi. 4 Si veda Cass. 26 maggio 2004, n. 10102 che, in tema di famiglia di fatto e nell’ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio per asserire l’assegnazione della casa familiare al genitore convivente con la prole, rinvia alla sentenza n. 166 del 1998 della Corte Costituzionale. 5 Per la nozione di portatore di grave handicap la l. 104/1992 individua “colui che presenta una menomazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale ovvero di emarginazione”. In particolare il terzo comma dell’art. 3 stabilisce che: “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sua sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi pubblici”. 41 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 42 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 accudimento e di cura del figlio; le disposizioni in merito all’assegnazione della casa coniugale. Anche in questo caso la novella ha normato una tutela per il figlio con grave handicap, recependo un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità6. Se da un lato l’art. 155 quater c.c. presenta un’impronta volta alla preminente tutela dell’interesse del figlio al mantenimento dell’habitat domestico, dall’altro elimina ogni riferimento al coniuge debole, non avendo riproposto il paragrafo dell’art. 6., sesto comma, l.div. che aveva indotto a ritenere la sussistenza di finalità ulteriori da perseguire oltre a quelle, pur primarie, dell’interesse dei figli. La valutazione economica ai fini dell’assegnazione oggi imposta assume rilievo esclusivamente nella regolamentazione dei rapporti economici tra i “genitori” e non tra i coniugi. La norma presuppone parità di condizioni tra i genitori con la possibilità che i figli possano godere delle stesse opportunità presso ciascuno di essi, ma è indubbio che l’assegnazione della casa familiare crei condizioni più favorevoli al coniuge assegnatario, condizioni che possono e devono essere controbilanciate con l’adeguata regolamentazione dei loro rapporti economici, anche alla luce dell’attuale contesto socioeconomico di crisi. 2. Le conseguenze economiche dell’individuazione della casa familiare La definizione di casa familiare postula di per sé una serie di conseguenze in merito all’individuazione dell’immobile e alla sua estensione, che incidono considerevolmente sull’equilibrio economico dei genitori e sul tenore di vita anche dei figli. Per casa familiare si intende il luogo dove si svolge in modo continuo e prevalente la convivenza familiare7, il luogo che costituisce il centro di aggregazione della famiglia, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, connotato da caratteri di stabilità e continuità. L’importanza e la funzione della casa familiare, oltre che nel momento patologico della crisi, emergono altresì nella formazione della famiglia, come indicato dagli artt. 144, 145, 146 c.c. da cui si evince la necessità di un centro di affetti e di aggregazione del nucleo familiare che abbia i caratteri di continuità e abitualità. L’obbligo di coabitazione va interpretato in relazione all’art. 144 c.c., che sottopone la fissazione della residenza familiare all’accordo tra i coniugi in base alle esigenze di entrambi e a quelle preminenti della famiglia, e all’art. 45 c.c., che attribuisce a ciascun coniuge la facoltà di avere un proprio domicilio autonomo rispetto alla residenza della famiglia, nel luogo in cui hanno sede principale i propri affari. I coniugi non hanno l’obbligo di fissare la residenza anagrafica nel medesimo luogo e il dovere di coabitazione è compatibile con la residenza anagrafica di uno o di entrambi i coniugi in altro luogo rispetto alla residenza familiare8. Ai fini quindi dell’individuazione della casa familiare da assegnare ai sensi dell’art. 155 quater c.c., il giudice dovrà tenere conto della residenza familiare, indipendentemente dalla diversa residenza anagrafica, scongiurando in tal modo la sottrazione dell’habitat domestico ai figli e al genitore collocatario attraverso espedienti meramente anagrafici. 6 In particolare, con la sentenza n. 16027/2001 la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito la situazione dei figli maggiorenni portatori di handicap. In tale pronuncia, argomentando dal principio ispiratore dell’istituto dell’assegnazione della casa coniugale – e cioè di misura di protezione dei figli volta a evitare l’ulteriore lacerazione di un allontanamento coattivo dal focolare domestico –, ha parificato la situazione del figlio maggiorenne completamente privo di autonomia economica – peraltro conseguenza della condizione di invalidità alla posizione del minore – e, quindi, ha ritenuto applicabile l’art. 155, quarto comma, c.c. in forza di interpretazione estensiva. 7 Cass. n. 3934/1980; n. 9157/1993; n. 2338/2006. 8 Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 2° ed., 110 ss.; Belvedere, Residenza e casa familiare riflessioni critiche, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 244. 42 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 43 FOCUS Non può ritenersi motivo valido a costituire deroga al criterio preferenziale, previsto dall’art. 155 c.c., la destinazione a studio professionale di parte dell’abitazione coniugale, considerato che l’attività professionale può adeguatamente essere svolta anche in altro luogo, sicché lo spostamento di uno studio professionale, non infrequente nell’attuale sistema sociale, non esclude il ripristino dell’attività in altra sede, comportando al più un iniziale rallentamento dell’attività lavorativa, destinato a dissolversi nel tempo9. Qualificata la casa familiare in relazione alla funzione di centro di aggregazione, non possono essere considerate tali le case acquistate durante la convivenza matrimoniale con la finalità di divenire casa familiare ma che non lo sono mai diventate per il sopravvenire della crisi o che sono state abitate solo da uno dei coniugi dopo la cessazione della convivenza10 in quanto manca l’elemento qualificante del centro attrattivo della communio. Allo stesso modo non può essere oggetto del provvedimento un immobile in cui i coniugi ancora non si sono trasferiti11 o che era già stato abbandonato12, anche se solo poco tempo prima della separazione, o ancora quell’immobile utilizzato, sia pure per lunghi periodi dell’anno, ma come casa di villeggiatura. Deve dunque escludersi ogni immobile di cui i coniugi avessero la disponibilità o che comunque usassero in via temporanea o saltuaria. L’impossibilità per il giudice di assegnare o disciplinare il godimento delle seconde case può determinare uno sbilanciamento delle posizioni, così come nel caso in cui l’assegnatario non proprietario della casa coniugale assegnata sia al contempo proprietario della seconda casa di villeggiatura. Il giudice, non potendo disporre assegnazioni in deroga di quanto sopra, dovrà tenere conto di tale squilibrio ai fini della quantificazione dell’assegno, considerando il valore economico della seconda casa quale fonte di reddito. In ogni caso nella separazione consensuale o divorzio congiunto è possibile per i genitori disciplinare e costituire un diritto di abitazione su di un immobile diverso da quello che fu la casa coniugale, ricorrendo a figure tipiche diverse da quelle disciplinate dall’art. 155 quater c.c. Individuato l’immobile qualificabile come casa familiare, deve poi analizzarsi la possibilità della sua estensione, anch’essa produttiva di conseguenze economiche che devono essere considerate dal giudice nella fase di bilanciamento delle posizioni economiche dei genitori. La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 454/1989, ha chiarito che la casa familiare è quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare, pertanto non è esauribile nell’immobile, poiché esso non sarebbe certo idoneo a garantire alla prole la continuazione del tenore di vita realizzato nel periodo della convivenza dei genitori, comprendendo la normale dotazione di beni mobili e suppellettili per l’uso quotidiano di essa. Ciò posto, non vi è dubbio che i coniugi, possano accordarsi per escludere taluni beni normalmente compresi nell’arredo della casa coniugale13. 9 Cass. 28 ottobre 2003, n. 16152. 10 Si veda la sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione Persona e Famiglia, del 27 maggio 2009, n. 2244, che nel caso di genitore convivente con la prole minorenne si sia allontanato, da tempo precedente la separazione, con la prole da detta casa, ha ritenuto che detto appartamento avesse perso la caratteristica di “casa familiare”, poiché la prole si è ormai senza dubbio ambientata altrove e, di conseguenza, attualmente quella casa non costituisce più il proprio ambito familiare. Ancora si rinvia a Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476 in cui si è stabilito che l’assegnazione della casa coniugale si giustifica in quanto finalizzata ad assicurare l’interesse della prole alla permanenza nell’ambiente domestico in cui essa è cresciuta; evenienza, questa, che postula la destinazione dell’immobile a stabile abitazione del coniuge e del figlio. (Nel caso di specie la nega in quanto ha invece ravvisato il carattere della stabilità nella permanenza della ricorrente in una diversa città). 11 Si veda Cass. 27 febbraio 2009, n. 4816, con cui è stata negata l’assegnazione di un appartamento differente da quello in cui la famiglia aveva vissuto anche se maggiormente rispondente alle necessità quotidiane della figlia adolescente. 12 Al riguardo la Corte d’Appello di Catania civile con decreto del 21 maggio 2009, in tema di modifica delle condizioni di divorzio, ha ritenuto che un appartamento, che da alcuni anni non risulti più arredato e sia inagibile per la mancata esecuzione dei lavori di manutenzione necessari e non particolarmente onerosi, ha perso i connotati propri della casa coniugale, intesa come centro di affetti e di legami dove i figli, minori o maggiorenni ma non economicamente indipendenti, hanno il loro habitat e il cui abbandono comporterebbe un ulteriore trauma rispetto a quello subìto a seguito della disgregazione del nucleo familiare. 13 Cass. 25 maggio 1998, n. 5189. 43 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 44 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Tale divisione degli oggetti di valore potrebbe avere uno sfruttamento economico o tali oggetti potrebbero essere utilizzati dal non assegnatario per l’arredamento del suo nuovo alloggio, contenendo in tal modo le spese di quest’ultimo. L’assegnazione si estende, inoltre, alle pertinenze della casa familiare quali la cantina e il box. Se è vero che esse, costituendo pertinenza dell’abitazione, devono seguire le sorti della casa principale, ci si domanda se tale applicazione rigida dell’istituto dell’assegnazione della casa familiare sia soddisfacente. Ferme restando infatti le esigenze di tutela dell’interesse dei figli, il giudice potrebbe non procedere a una assegnazione automatica del box, effettuando una valutazione del caso concreto attraverso la verifica del reale apporto dello stesso a quel centro di aggregazione nel quale si è svolta la vita familiare e lo stretto collegamento dei figli con questo spazio. In tal modo potrebbero essere valorizzate le esigenze di lavoro del coniuge non collocatario, che abbia riposto nel box gli strumenti di lavoro, ovvero la necessità di locare a terzi il box per incrementare il reddito della famiglia14. In merito all’estensione della casa familiare, qualora questa venga limitata alla parte occorrente ai bisogni delle persone conviventi della famiglia, il giudice potrebbe limitare l’assegnazione a quella parte di casa familiare realmente occorrente ai bisogni delle persone conviventi, tenendo conto delle esigenze di vita dell’altro coniuge, e delle possibilità di godimento separato e autonomo dell’immobile, attraverso modesti accorgimenti o piccoli lavori, consentendo così ai minori di poter accedere con facilità al genitore non collocatario-assegnatario di una parte dell’immobile originariamente unitario15. Tale soluzione ridurrebbe altresì gli effetti dell’assegnazione sul tenore di vita degli stessi figli e sarebbe auspicabile soprattutto per situazioni di famiglie monoreddito, o con redditi bassi, e di casa familiare gravata da mutuo. 3. Le conseguenze economiche dell’assegnazione della casa familiare in base al titolo originario di godimento Gli effetti economico patrimoniali dell’assegnazione della casa familiare si atteggiano diversamente a seconda del titolo di godimento in capo al coniuge originariamente titolare, titolo che il giudice valuta potendo comportare una sensibile riduzione del contributo di mantenimento a favore dei figli e influire anche nella quantificazione del contributo a favore del coniuge separato e dell’assegno divorzile. Invero, anche se la novella del 2006 ha imposto la valutazione unicamente nei rapporti economici tra i genitori, non è dubbio che, una volta assegnato l’immobile pur a esclusiva tutela e nell’interesse dei figli, il valore di una simile attribuzione si ripercuota anche sulla disciplina della posizione del coniuge assegnatario16. Nell’ipotesi di casa di proprietà esclusiva dell’altro coniuge ovvero in comproprietà tra l’altro coniuge e terzi, l’assegnazione non sarà limitata in alcun modo, non essendo preclusa la divisione eventualmente richiesta tra i comproprietari, divisione che non incide sul diritto del coniuge assegnatario. L’assegnazione influisce infatti sul godimento ma non sugli atti di disposizione dell’immobile, ai quali è opponibile l’assegnazione nel novennio e oltre se trascritta ai sensi dell’art. 155 quater c.c. 14 Cattaneo, La casa familiare, in Fam. pers. succ., 5/2011, 366 ss. 15 Cass. n. 26586/2009. 16 Si riporta Cass. 20 aprile 2011, n. 9079, secondo cui l’art. 156, secondo comma, c.c. stabilisce che il giudice debba determinare la misura dell’assegno “in relazione alle circostanze ed ai redditi dell’obbligato”, mentre l’assegnazione della casa familiare, prevista dall’art. 155 quater c.c., è finalizzata unicamente alla tutela della prole e non può essere disposta come se fosse una componente dell’assegno previsto dall’art. 156 c.c.; tuttavia, allorché il giudice del merito abbia revocato la concessione del diritto di abitazione nella casa coniugale (nella specie, stante la mancanza di figli della coppia), è necessario che egli valuti, una volta modificato in tal modo l’equilibrio originariamente stabilito fra le parti e venuta meno una delle poste attive in favore di un coniuge, se sia ancora congrua la misura dell’assegno di mantenimento originariamente disposto. 44 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 45 FOCUS Sotto il profilo economico tale assegnazione può determinare il giudice a escludere il contributo nelle situazioni di nuclei familiari con redditi bassi e soprattutto nel caso in cui la casa sia di esclusiva proprietà del genitore non collocatario ed eventualmente anche gravato dal mutuo contratto per il suo acquisto. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte antecedente la novella del 2006, nella determinazione del contributo di cui deve essere onerato il proprietario non assegnatario della casa familiare deve considerarsi che l’utilità della stessa dovrebbe valutarsi in misura pari all’esborso occorrente per godere dell’immobile a titolo di locazione dal momento che, se la debolezza economica dell’ex coniuge non può influire sull’an di tale assegnazione, non si può escludere che il vantaggio economico ottenuto incida sul quantum dell’assegno di divorzio17. In realtà il valore locatizio può costituire un punto di partenza della valutazione ma non deve essere l’unico elemento traducendosi in applicazioni automatiche, in quanto l’assegnazione della casa familiare ha la sua ratio nel soddisfacimento delle esigenze abitative della prole. La novella del 2006 ha lasciato all’interprete la valutazione dei fattori economici e il giudice terrà conto di tutte le circostanze rilevanti – personali, patrimoniali e reddituali – che caratterizzano il caso concreto, partendo non tanto dal vantaggio economico del coniuge assegnatario, ma dal sacrificio economico cui l’altro coniuge andrà incontro per assicurarsi un nuovo alloggio. Una valutazione più prossima al valore locatizio, pur senza automatismi e rigidità di sorta, potrebbe essere adottata, invece, nel caso di convivenza more uxorio e/o nuovo matrimonio del coniuge affidatario o, comunque, in tutti quei casi in cui nell’immobile vivano soggetti terzi (per esempio figli del coniuge assegnatario). Tale soluzione consentirebbe ai minori figli della coppia di continuare a vivere nella casa mantenendo le abitudini e le relazioni affettive che hanno caratterizzato la loro vita prima della separazione dei genitori, garantendo un equo ristoro al genitore titolare del diritto, almeno nella parte in cui il godimento dell’immobile sia a vantaggio di terzi. La situazione di genitori comproprietari della casa coniugale è la più frequente, sia che si tratti della casa caduta in comunione legale sia che si tratti di acquisto in comunione ordinaria. In tal caso l’assegnazione al coniuge collocatario della prole non comporta eccessive problematiche, incidendo sul diritto di proprietà essendone peraltro ammessa dalla giurisprudenza la divisione. In tale ipotesi l’assegnazione ex art. 155 quater c.c. influenzerà gli esiti della divisione con riferimento alla quantificazione del valore dell’immobile18, con riguardo alla divisibilità in natura (dovendosi privilegiare il mantenimento del godimento degli spazi idonei alla funzione di casa familiare) e, nel momento dell’assegnazione in caso di impossibilità di divisione, al comproprietario richiedente già assegnatario ai sensi dell’art. 155 quater c.c., escludendosi il ricorso al sorteggio. Nel caso in cui la casa familiare è goduta a titolo di locazione, l’art. 6 della legge sull’equo canone prevede espressamente che: “In caso di separazione giudiziale o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nel contratto di locazione succede al conduttore l’altro coniuge se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest’ultimo. Analogamente in caso di separazione consensuale e di nullità matrimoniale se i coniugi hanno così convenuto”, determinando una successione ex lege dell’assegnatario all’originario conduttore nel contratto di locazione. Il rapporto con l’originario conduttore si estingue e non è più suscettibile di reviviscenza, anche nel caso di abbandono della casa da parte dell’affidatario. Gli effetti dell’assegnazione si ripercuoteranno sulla quantificazione dell’assegno di mantenimento, stante l’onerosità del godimento della casa familiare che dovrà essere sostenuta dall’assegnatario con il proprio reddito e l’eventuale contributo di cui benefici a titolo di mantenimento. Nel caso di alloggi di edilizia residenziale pubblica, la situazione non cambia, atteso che numerose leggi regionali riproducono il contenuto dell’art. 6 l. equo canone prevedendo la successione del coniuge convivente con la prole all’originario assegnatario. L’originario assegnatario potrà concorrere per una nuova assegnazione. 17 Cass. n. 15722/2005. 18 Cass. n. 9310/2009. 45 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 46 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Spesso accade che un genitore della coppia, o anche un terzo, conceda in comodato un immobile di sua proprietà affinché sia destinato a casa coniugale. L’orientamento consolidato della Cassazione è sempre stato nel senso di ammettere l’assegnabilità, con la conseguenza che il coniuge affidatario subentra nel rapporto di comodato così come subentra nel contratto di locazione19. La Corte di Cassazione a Sezioni unite, con sentenza n. 13603/2004, ha inoltre specificato che il diritto del coniuge assegnatario trova nuovo e autonomo titolo nel provvedimento giudiziale in cui rileva la nozione di casa familiare; in questa prospettiva il dato oggettivo della destinazione a casa familiare, finalizzato a consentire un godimento per definizione esteso a tutti i componenti della comunità familiare, comporta che il soggetto che formalmente assume la qualità di comodatario riceve il bene, non solo e non tanto a titolo personale, quanto piuttosto quale esponente della comunità familiare. Per effetto della concorde volontà delle parti, dunque, si configura un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa doveva essere destinata il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa e alle finalità cui essa tende: né tale vincolo può considerarsi automaticamente caducato per il sopravvenire della crisi coniugale. Rigoroso dovrà pertanto essere l’accertamento della volontà delle parti di adibire l’immobile a casa familiare20. Resta salva in ogni caso la facoltà del comodante di chiedere la restituzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno segnato dai requisiti dell’urgenza e della non previsione ai sensi dell’art. 1809, secondo comma, c.c.21. Da ultimo, una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione22 ha disatteso l’indirizzo espresso dalle Sezioni unite, ribadendo che nel comodato precario la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris è rimesso in via potestativa al comodante che ha facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile sia stato adibito a uso familiare e sia stato assegnato in sede di separazione dei beni al coniuge affidatario dei figli. È bastata nel caso di specie la produzione di certificati medici e di una generica comunicazione con la quale alla comodante era stata trasmessa la volontà da parte del figlio di non volerla più ospitare in casa propria, per esigenze personali, perché si ritenesse sussistente lo stato di bisogno sopravvenuto, caratterizzato dall’urgenza e non previsione, per considerare applicabile il disposto della norma sopra richiamata. Quanto agli effetti economici dell’assegnazione di casa familiare goduta in comodato, considerata la gratuità del godimento del bene, valgono le considerazioni relative al bene di proprietà esclusiva del genitore, ai fini del bilanciamento degli interessi e delle questioni economiche, compreso il costo del sacrificio per il non assegnatario di trovare altra abitazione. Se la casa è attribuita a un coniuge in virtù di un contratto di portierato o di custodia, trattandosi di una modalità di retribuzione di un’attività lavorativa prestata, si ritiene impossibile procedere all’assegnazione. Analogamente in caso di alloggio di servizio riservato al personale delle forze armate, soprattutto nel caso in cui il militare abbia tra i propri doveri connessi alla funzione ricoperta quello di abitare in detto alloggio sito in caserma o in aeroporto. Pertanto in tali casi dovrà te- 19 Cass. 929/1995; Cass. 10258/1997. 20 Si rinvia a Cass. 11 agosto 2010, n. 18619 che ha stabilito che l’effettività della destinazione a casa familiare da parte del comodante non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso, ma implica un accertamento in fatto che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti attraverso una valutazione globale dell’intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sull’effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare. Una volta escluso, su tali basi, che il contratto di comodato concluso da una donna con il figlio implichi anche la destinazione a casa familiare, diviene inapplicabile il principio di diritto affermato nella citata sentenza n. 13603 del 2004 e, pertanto, la comodante non è tenuta a consentire la continuazione del godimento dell’immobile da parte della nuora, pur essendo questa assegnataria dell’immobile in quanto convivente con i figli. 21 Analoga posizione è stata espressa dalla Cassazione con sentenza n. 3072/2006. 22 Cass. 7 luglio 2010, n. 15986. 46 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 47 FOCUS nersi conto, nel contributo per il mantenimento della prole e del genitore con essa convivente, della necessità di reperire altra abitazione da adibire a casa familiare e i relativi costi connessi. 4. Le conseguenze economiche della durata dell’assegnazione della casa familiare Ai sensi dell’art. 155 quater c.c., la collocazione o l’affidamento della prole sono presupposti indispensabili dell’assegnazione della casa familiare, non potendosi disporre altrimenti alcuna assegnazione; diversamente non sarebbe modificabile a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell’indipendenza economica da parte dei figli, traducendosi in una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà, tendenzialmente per tutta la vita del coniuge assegnatario, in danno del titolare e/o contitolare. Nonostante il rinnovarsi, nel tempo, di opinioni che ammettono l’assegnazione della casa anche come componente in natura dell’adempimento dell’obbligo a mantenere il coniuge (o a corrispondere contribuzione post matrimoniale all’ex coniuge) economicamente più debole, ormai la costante giurisprudenza della Suprema Corte, seguita pure dalla quasi totalità dei giudici di merito, indica la possibilità di assegnare il godimento della casa esclusivamente al genitore convivente con la prole23. Il venir meno del presupposto della convivenza con i figli comporta quindi che la casa coniugale non possa essere assegnata né al coniuge che non vanti alcun diritto, reale o personale, sull’immobile, né al coniuge che ne sia proprietario, proprio in virtù dello scopo dell’assegnazione, e in tal caso il giudice della separazione o del divorzio deve respingere le contrapposte domande di assegnazione del godimento esclusivo della casa, lasciandone la disciplina agli accordi tra i coniugi24. La sussistenza di un interesse dei figli a continuare a vivere nella casa in cui sono cresciuti va dunque accertato caso per caso dal giudice che, nel determinarsi, deve avere esclusivo riguardo all’interesse della prole, subordinando a tale interesse le esigenze di vita dell’altro coniuge, anche eventualmente collegate allo svolgimento di attività lavorativa o imprenditoriale nell’abitazione familiare25. In tema di separazione, l’assegnazione della casa familiare postula l’affidamento dei figli minori o la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti. 23 Si veda Cass. 17 dicembre 2007, n. 26574, che ha stabilito che in materia di separazione (come anche di divorzio) l’assegnazione della casa familiare è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non potendo essere disposta, a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli articoli 156 del c.c. e 5 della legge n. 898 del 1970, in caso di divorzio, per sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati. Tali princìpi troverebbero conferma anche alla stregua dello ius superveniens costituito dalla legge n. 54 del 2006 che ha aggiunto all’articolo 155 del c.c. – a proposito di provvedimenti riguardo ai figli – l’articolo 155 quater. La nuova disposizione, infatti, mostra di volere dare consacrazione legislativa, con riferimento all’interesse dei figli in genere – e non più all’affidamento dei figli minori – proprio al consolidato orientamento giurisprudenziale, statuendo che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli e che il giudice tiene conto dell’assegnazione nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerando l’eventuale titolo di proprietà. Nello stesso senso si vedano: Cass. 16 maggio 2007, n. 11305; Cass. 28 settembre 2007, n. 20514; Cass. 14 maggio 2007, n. 10994; Corte d’Appello di Roma, Sez. Persona e Famiglia civ., 4 febbraio 2009, n. 538. 24 Si veda Cass. 18 febbraio 2008, n. 3934. Conforme: Cass. 22 marzo 2007, n. 6979 secondo cui, inoltre, “In mancanza di una normativa speciale in tema di separazione, la casa familiare in comproprietà è soggetta, infatti, alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione”; Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476; Cass. 20 settembre 2007, n. 19449 secondo cui l’assegnazione non può svolgere funzione perequativa delle condizioni reddituali del coniuge che ne goda; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1545; Tribunale di Monza, Sez. IV, 10 dicembre 2007; Corte d’Appello di Roma, 28 maggio 2008, n. 2249. Contra: la pronuncia del Tribunale di Viterbo del 12 ottobre 2006 secondo cui “l’istituto dell’assegnazione della casa familiare è stato ridisegnato rispetto a quello precedentemente vigente, nel senso che scomparso il criterio preferenziale, costituito dall’affidamento dei figli minori o dalla presenza di figli maggiorenni, l’attribuzione dell’alloggio viene condizionata all’interesse dei figli. Pertanto la norma non può escludere in via assoluta che in assenza di prole sia possibile assegnare la casa in virtù di altri criteri quali quello della tutela del coniuge economicamente o anche moralmente più debole dell’altro”. (Nello stesso senso Tribunale di Lecce 10 novembre 2006, secondo il quale il godimento della casa familiare in comproprietà può essere assegnato dal giudice della separazione anche al coniuge che non sia affidatario dei figli). 25 Cass. 17 dicembre 2009, n. 26586. 47 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 48 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Suddetta scelta però non può essere condizionata dalla ponderazione tra gli interessi di natura esclusivamente economica dei coniugi, o tanto meno degli stessi figli, in cui non entrino in gioco le esigenze della permanenza di questi ultimi nel quotidiano loro habitat domestico, dovendo essere subordinata esclusivamente a quest’ultima imprescindibile esigenza sulla quale possono interferire, ma non certo prevalere, interessi di carattere economico, ancorché riferiti, indirettamente, alla sfera patrimoniale degli stessi figli26. La rigidità di applicazione di tale principio può determinare, nel privilegio della conservazione dell’habitat familiare, una riduzione delle altre abitudini del minore, quali ad esempio attività ludiche, ricreative, sportive. In tal senso il trasferimento di residenza di un genitore non implica in alcun modo il trasferimento della residenza del minore, prevedendosi che nell’ipotesi di mutamento della residenza o del domicilio da parte di uno dei genitori, l’altro possa chiedere – se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento – la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici, dopo aver valutato l’interesse della prole a cambiare o meno la residenza. Il raggiungimento dell’indipendenza economica del maggiorenne determina la possibilità di revoca dell’assegno di mantenimento oltre alla revoca dell’assegnazione della casa coniugale. Giova precisare che la revoca dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorenne non comporta automaticamente che il figlio sia da considerarsi autosufficiente e che di conseguenza debba essere revocata anche l’assegnazione della casa familiare alla madre con la quale il figlio continua a vivere27. In relazione ai figli maggiorenni è emerso, in alcuni interventi giurisprudenziali, un particolare significato di autosufficienza intesa come autosufficienza di tipo psicologico, proprio con riguardo alle problematiche legate alla casa familiare. Si è infatti ritenuto che i figli, una volta cresciuti, non hanno più la stessa esigenza di mantenere l’ambiente domestico come punto di riferimento per il loro equilibrio. Di conseguenza è più facile che, pur in assenza di una raggiunta indipendenza del figlio, venga meno l’esigenza di comprimere i diritti dell’altro coniuge sulla casa familiare. Nei rapporti familiari che interessano i figli maggiorenni va allora accertato non tanto il requisito della mera coabitazione, ma piuttosto della convivenza, intesa come effettiva comunanza di vita, condivisione dell’ambiente domestico. Pertanto, l’attenzione dell’interprete dovrebbe polarizzarsi sul rapporto tra la casa e i soggetti che la abitano, per verificare se il ritorno saltuario del figlio nell’immobile giustifichi il sacrificio del coniuge che ne è titolare, costituendo un sostegno, soprattutto morale e psicologico, al figlio nella fase conclusiva della sua formazione culturale e sociale: quella che precede il momento della sua indipendenza patrimoniale ed esistenziale, che nell’attuale contesto socio-economico è sempre più ritardato. Devono distinguersi due situazioni: il caso in cui il ragazzo abbia ancora l’esigenza di mantenere l’habitat domestico nel quale è cresciuto e il diverso caso in cui non sia ancora in grado di avere una propria abitazione. In questa seconda ipotesi il provvedimento di assegnazione si trasformerebbe in una modalità di adempimento dell’obbligo di mantenimento gravante sul genitore non convivente28. 26 Cass. 22 novembre 2010, n. 23591. 27 Cass. 22 aprile 2005, n. 8539. 28 Cass. 22 marzo 2010, n. 6861 ha confermato la natura di casa familiare e non ha revocato l’assegnazione nel caso di un figlio che risultava trasferito in un altro Comune. Secondo la Corte, il trasferimento in altro Comune, risultante dai registri anagrafici, potrebbe essere collegato a una ricerca di lavoro, magari provvisoria. Sarebbe ipotizzabile, si sottolinea nella sentenza, una scissione tra domicilio, luogo in cui il soggetto ha stabilito (o conservato) la sede principale dei suoi affari e interessi (personali e patrimoniali) e residenza, luogo di dimora abituale (provvisoriamente differente), come indicato dall’articolo 43 c.c. Il Tribunale di Catania, I Sez. civ., con decreto del 26 febbraio 2010, ha ritenuto che debba disporsi la revoca dell’assegnazione della casa coniugale, essendo venuta meno la conformità dell’assegnazione della casa all’effettivo interesse della figlia al mantenimento dell’habitat domestico e dovendo prevalere l’interesse del padre all’esplicazione del proprio diritto dominicale. Nella specie il Tribunale, pur riconoscendo che la ragazza, maggiorenne, non è ancora economicamente autosufficiente e convive con la madre, ha ritenuto che la stessa, che frequenta l’università in un’altra città, non ha più interesse a mantenere l’habitat, posto che tra l’altro la madre ha contratto nuove nozze. 48 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 49 FOCUS L’art. 155 quater c.c., inoltre, ha inserito tra i fatti estintivi dell’assegnazione anche la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio del genitore assegnatario non titolare di diritto reale o personale di godimento della casa familiare. Sembra che il legislatore abbia preso in considerazione la situazione del coniuge non affidatario, a volte proprietario esclusivo dell’abitazione e che spesso, nella prassi, deve tollerare di vedere la sua casa abitata dal nuovo compagno del suo ex. Fin dall’entrata in vigore della norma se ne è però profilata l’incostituzionalità, evidenziando la compromissione alla libertà individuale di coltivare nuove relazioni sentimentali dopo la cessazione della convivenza coniugale, l’ingiustificata disparità di trattamento dei figli a seconda delle scelte dei loro genitori, l’ingiusta sottovalutazione dell’interesse della prole a mantenere l’habitat familiare rispetto all’interesse del soggetto titolare del diritto reale o personale sulla casa familiare con stravolgimento delle finalità dell’istituto. La nuova normativa, ritenuta in contrasto con gli artt. 30, 3 e 29 Cost. laddove prevede la revoca con carattere di automatismo dell’assegnazione in caso di nuovo matrimonio o di convivenza precludendo qualunque valutazione nell’interesse del minore, è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale che, con sentenza interpretativa di rigetto n. 308 del 2008 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, individuando una lettura costituzionalmente orientata della stessa. La Consulta ha sottolineato che l’assegnazione della casa familiare è strettamente funzionale all’interesse dei figli e che la coerenza della disciplina e della sua costituzionalità è recuperata se interpretata nel senso che l’assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta, ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata a un giudizio di conformità all’interesse del minore29. In tal senso è anche la giurisprudenza successiva, frutto di tale interpretazione costituzionalmente orientata che vede il prevalere dell’interesse a mantenere l’habitat familiare alla prole, nonostante il mutamento dei componenti della comunità. Il giudice dovrà comunque tenere conto della nuova situazione, procedendo a un bilanciamento degli interessi concorrenti dei minori alla conservazione del proprio ambiente domestico e quello del coniuge comproprietario dell’immobile che ne perde temporaneamente la disponibilità, conseguendone però una valutazione maggiormente significativa dell’utilità economica di cui il genitore convivente con i figli beneficia con pregiudizio dell’altro proprietario esclusivo o comproprietario30. 5. Gli oneri economici del godimento della casa familiare Anche gli oneri relativi alla casa familiare devono considerarsi in quel bilanciamento economico tra i genitori operato dal giudice a seguito dell’assegnazione della casa familiare. La giurisprudenza anche recentemente ha confermato che, qualora il giudice attribuisca a uno dei coniugi l’abitazione di proprietà dell’altro, la gratuità di tale assegnazione si riferisce solo all’uso dell’abitazione medesima, ma non si estende alle spese correlate a detto uso (comprese quelle, del genere delle spese condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), onde simili spese, in mancanza di un provvedimento espresso che ne accolli l’onere al coniuge proprietario, sono a carico del coniuge assegnatario31. 29 Al riguardo il Tribunale di Catania, con decreto del 16 gennaio 2009, ha ritenuto che in tema di modifica delle condizioni della separazione, nonostante la convivenza more uxorio della madre con un altro uomo (dal quale ha avuto un figlio), il mantenimento dell’assegnazione della casa familiare – sebbene di proprietà esclusiva del padre – si impone per meglio tutelare l’interesse del figlio minore, anche in considerazione della sua tenera età (appena sei anni), e, quindi, della particolare vulnerabilità dello stesso rispetto a un trasloco (evento, questo, normalmente fonte di disagi, se non addirittura traumatico). Analogamente la Corte d’Appello di Potenza, Sez. civ., con sentenza del 15 gennaio 2009, n. 8, ha ritenuto che la revoca dell’assegnazione della casa familiare non può essere effettuata per il semplice fatto che l’assegnatario vi conduce una relazione more uxorio, a meno che tale situazione di fatto non determini nocumento al benessere psicologico ed educativo della prole. 30 In tal senso si veda Tribunale di Roma, Sez. I, 3 dicembre 2007, n. 23601. 31 In tal senso Cass. civ. 22 febbraio 2006, n. 3836; conforme Tribunale di Roma 13 luglio 2009, n. 15643. 49 2. AIAF 3-11 focus1_Layout 1 18/11/11 13.12 Pagina 50 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Per quanto riguarda invece le spese cosiddette straordinarie, queste saranno a carico del 50% a ciascun coniuge, in caso di comproprietà del bene, o a totale carico del proprietario esclusivo. Questa ripartizione non ha, però, rilievo nei confronti del condominio che potrà chiedere l’intero contributo per gli oneri straordinari a uno solo dei due ex coniugi proprietari in virtù del principio della solidarietà32. Capita sempre più di frequente che, in sede di separazione personale dei coniugi o di divorzio, le parti consensualmente o il giudice decidano di assegnare il godimento della casa familiare al coniuge affidatario dei figli, magari disciplinando il titolo del godimento e le spese inerenti a tale godimento nel contesto degli obblighi alimentari o di mantenimento. Il giudice, nel porre a carico del coniuge obbligato altre spese oltre all’assegno di mantenimento in denaro, deve procedere all’accertamento del loro importo, così da poterle valutare complessivamente, insieme all’assegno in denaro, in rapporto sia alle esigenze del coniuge, a cui favore è disposto il mantenimento, sia ai redditi dello stesso obbligato. Altra ipotesi è quella relativa alla casa coniugale già goduta in locazione, per la quale opera il disposto dell’articolo 6, secondo e terzo comma, legge 392/78, con successione ex lege dell’assegnatario nel contratto. Il coniuge non assegnatario può essere obbligato a corrispondere, oltre all’assegno determinato in una somma di denaro, anche le altre spese, quali quelle relative al canone di locazione per la casa coniugale e ai relativi oneri condominiali, purché queste spese abbiano costituito oggetto di specifico accertamento nel loro ammontare e vengano attribuite, nel rispetto dei criteri sanciti dal primo e secondo comma dell’articolo 156 c.c. Infine dal momento che il diritto sulla casa coniugale, riconosciuto al coniuge non titolare di un diritto di proprietà o di godimento con il provvedimento giudiziale di assegnazione di detta casa in sede di separazione o divorzio, ha natura di atipico diritto personale di godimento e non già di diritto reale, ne consegue che questi non è soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili per la quota del medesimo immobile sulla quale non vanti il diritto di proprietà33. 32 Lo stesso dicasi per le spese straordinarie sostenute dall’assegnatario non proprietario. Si veda la sentenza del Tribunale di Bologna del 3 gennaio 2008, n. 8, che ha stabilito che il coniuge assegnatario della casa familiare, che per evitare la vendita forzata della stessa corrisponda al condominio dello stabile ove è ubicato l’immobile una determina somma a titolo di spese condominiali e spese processuali, per estinguere un debito gravante sull’altro coniuge (proprietario esclusivo dell’immobile), surrogandosi per espressa volontà del creditore nelle ragioni del condominio, ha diritto a ottenere la restituzione della somma versata. 33 La Cassazione in tema di Ici, con la sentenza n. 6192/2007, ha ribadito la natura personale del diritto in oggetto per escludere l’obbligo dell’assegnatario di pagare l’imposta comunale sugli immobili e per differenziare la posizione del coniuge da quella dell’usufruttuario. 50 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 51 FOCUS PROPORZIONALITÀ E ADEGUATEZZA NEL MANTENIMENTO DELLA PROLE: RIFLESSIONI SULLE MODALITÀ ATTUATIVE DEL DOVERE Alessandra Cordiano Professore aggregato di Diritto privato presso la Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi di Verona 1. Proporzionalità e solidarietà nel dovere di mantenimento della prole Il contenuto del dovere di mantenimento consiste nell’assolvimento dell’onere più strettamente materiale della funzione genitoriale, comprensivo dei bisogni essenziali dei figli e di tutti quegli aspetti finalizzati alla promozione e allo sviluppo della personalità della prole: dalle cure, che ragionevolmente si spiegano nella convivenza ordinaria, a quelle relative alla vita della prole al di fuori di detta convivenza. Il dovere di mantenimento – divergendo dall’obbligo strettamente alimentare che si conforma, invece, a un sobrio tenore di vita sui presupposti indefettibili dello stato di bisogno e dell’incapacità di procurarsi i necessari mezzi di sostentamento – viene solitamente valutato in concreto circa il suo contenuto, rispetto alla concrete possibilità dei familiari e al complessivo ménage della famiglia stessa, e inteso, nella sua complessità, anche con riferimento alle opzioni ideologiche e di fondo, nonché alla funzione educativa e promozionale della personalità della prole1. In ragione delle peculiarità e delle specificità delle componenti morali prima che materiali dell’obbligo in parola, questo non si esaurisce con l’assolvimento dei soli oneri patrimoniali, così da potersi ritenere onorato attraverso il mero adempimento di un’obbligazione. Il suo contenuto, da un lato, potrebbe possedere i tratti qualificanti dell’obbligazione di risultato – ma solo nel senso che il suo scopo ultimo attiene al sostentamento e alla garanzia delle esigenze quanto meno basilari della prole –, dall’altro, si distingue nettamente rispetto all’obbligazione per identificarsi come obbligo tipicamente familiare, divergendo dalla fattispecie di cui all’art. 1173 c.c. per struttura e per funzione. L’esatta configurazione del dovere appare individuabile con difficoltà, particolarmente rispetto al quantum della contribuzione, anche in ragione dell’autonomia concessa ai genitori nella scelta delle concrete modalità attuative del dovere. La norma di cui all’art. 147 e, conseguentemente, la successiva disposizione prevista all’art. 148 c.c. dispongono l’obbligo per i coniugi – con l’estensione pacifica ai genitori non coniugati2 – di contribuire all’assolvimento degli aspetti patrimoniali riguardanti la prole, prevedendo che le modalità della contribuzione si specifichino secondo un rapporto di proporzionalità e di adeguatezza alle capacità economiche degli stessi, come disciplinato dall’art. 148 c.c., che individua i criteri e le modalità della ripartizione. 1 Cass. 24 febbraio 2006, n. 4203, in Rep. Foro it., 2006, voce Separazione dei coniugi, n. 91; Cass. 22 marzo 2005, n. 6197, in Rep. Foro it., 2005, voce Matrimonio, n. 125; Cass. 3 aprile 2002, n. 4765, in Guida dir., 2002, fasc. 17, 34; Cass. 13 luglio 1995, n. 7644, in Dir. fam., 1995, 99; Cass. 22 marzo 1993, n. 3363, in Dir. fam. pers., 1994, 839. 2 Diversamente: Tribunale di Milano 18 aprile 1977, in Rep. Foro it., 1977, voce Matrimonio, n. 967; Tribunale di Roma 30 aprile 1977, in Dir. fam., 1977, 1224; Tribunale di Torino 3 marzo 1976, in Giur. merito, 1976, I, 277. 51 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 52 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Il criterio della proporzionalità costituisce uno strumento affatto peculiare, che assume tratti tipici nel campo diritto di famiglia: al terzo comma dell’art. 143 c.c. il regime patrimoniale primario prevede un criterio di proporzionalità, “in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo”, di contribuzione ai bisogni della famiglia; lo strumento di cui all’art. 193 c.c. della separazione giudiziale dei beni accorda tutela quando uno dei coniugi non contribuisca ai bisogni della famiglia “in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro”; il quarto comma del nuovo art. 155 c.c., infine, dispone che i genitori provvedano al mantenimento dei figli “in misura proporzionale al reddito”. Il principio della proporzionalità, pertanto, non intende riferirsi né a un mero computo matematico né a una divisione in parti uguali, come obbligo pro parte dei genitori e dei coniugi rispetto alle esigenze familiari. Piuttosto, esso offre un criterio elastico, esprimendo la propria funzione di strumento di garanzia per la realizzazione dei bisogni della famiglia e degli interessi della prole. Benché disposto in sede di concorso degli oneri nel mantenimento della prole, anche la funzione genitoriale globalmente intesa, comprensiva dei doveri correlati, si spiega proporzionalmente rispetto all’impegno cui sono tenuti i genitori, configurandosi al contempo solidalmente nei riguardi della prole. La proporzionalità, quindi, esprime i suoi effetti esclusivamente nei rapporti interni fra i genitori, risolvendosi nei confronti della prole e con riguardo all’esterno, in un obbligo di solidarietà passiva dei genitori stessi3. Detta solidarietà, tuttavia, non va intesa in senso tecnico sulla scorta della norma di cui all’art. 1294 c.c., poiché essa trova il proprio fondamento nei doveri contenuti agli artt. 147 e 148 c.c.: ogni condebitore solidale del dovere di mantenimento, in tutti i suoi aspetti anche non strettamente patrimoniali, è tenuto ad assolvere interamente (rectius, adeguatamente) le esigenze dei figli, i quali, per converso, hanno titolo per pretenderne l’assolvimento integrale da parte di ciascun genitore. In questa direzione vanno osservati la predetta solidarietà e un eventuale inadempimento4. L’adempimento per l’intero come direttamente esigibile nei confronti di entrambi i genitori anche separatamente, infatti, sarebbe proprio del mantenimento per la sua precisa funzione di garanzia, non rispondendo a un interesse di altri, come nel caso di una gestione di affari altrui5. Un orientamento che volesse privilegiare la fattispecie indicata dall’art. 2028 c.c. determinerebbe, prima fra tutte, la necessaria allegazione probatoria ex art. 2031 c.c.; in secondo luogo, la possibile preclusione di ogni tutela per il genitore adempiente che non fosse in grado di assolvere l’onere probatorio in parola, con il conseguente pregiudizio dell’interesse primario della prole, impedendone la soddisfazione della pretesa verso i genitori con la garanzia della solidarietà. La solidarietà di cui all’art. 148 c.c., poi, in forza di un principio di responsabilità genitoriale, garantisce l’interesse dei figli, assicurandone la pretesa e comprende un aspetto etico e morale, prima che patrimoniale, del dovere di mantenimento, tipico degli obblighi familiari. Questa funzione di garanzia e di responsabilità si esprime non solo nella fisiologia del rapporto familiare, nello svolgimento normale e quotidiano della vita della prole, ma anche nella crisi della famiglia, laddove l’accordo fra i genitori o una statuizione del giudice, concretizzando il principio di proporzionalità, viene a realizzare detta funzione. Si spiega così, pure, come il dovere di mantenimento non si esaurisca con il raggiungimento della maggiore età dei figli, ma si estenda anche oltre e sempre più frequentemente in favore del figlio maggiorenne non economicamente 3 Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 24 gennaio 2000, in Giur. nap., 2000, 110; Cass. 22 novembre 2000, n. 15063, in Giust. civ., 2001, I, 1296. 4 Cass. 20 aprile 1991, n. 4273, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 635; nega la solidarietà fra i genitori anche Cass. 18 febbraio 1999, n. 1353, in Fam. dir., 1999, 455; recentemente, Cass. 30 settembre 2010, n. 20509, in Fam. dir., 2011, 467: “L’obbligo di mantenere i propri figli ex art. 147 c.c. grava sui genitori in senso primario ed integrale, sicché qualora l’uno dei due genitori non voglia o non possa adempiere, l’altro deve farvi fronte con tutte le sue risorse patrimoniali e reddituali e deve sfruttare la sua capacità di lavoro, salva comunque la possibilità di agire contro l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle sue condizioni economiche”. 5 Cass. 11 luglio 1990, n. 7211, in Rep. Foro it., 1990, voce Matrimonio, 1999, n. 155. 52 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 53 FOCUS indipendente, posto che l’incapacità non sia ascrivibile a una condotta colpevole, negligente e imputabile6. Resta fermo, inoltre, che, poiché l’obbligo al mantenimento scaturisce per effetto della sola procreazione e a prescindere da qualsiasi strumento che ne attesti la formalizzazione giuridica – lo status di figlio legittimo, il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale7 –, esso sorge sin dal momento della nascita, in virtù di un principio che, fatte salve le ipotesi di filiazione adottiva, privilegia il dato biologico rispetto a quello formale-giuridico: l’efficacia meramente dichiarativa del riconoscimento e della dichiarazione giudiziale rilevano al solo fine ricognitivo di una situazione preesistente8 e ai fini processuali9. L’obbligo di contribuire al mantenimento della prole, pertanto, si riconosce sia per quel che concerne il passato sia con riferimento all’avvenire, identificandosi, nel primo caso, con il rimborso delle spese sostenute dal genitore affidatario, in virtù dell’obbligazione di mantenimento che, in quanto tale, è obbligazione solidale e concede il regresso al condebitore che ha assolto per l’intero10, costituendo, per il futuro, il fondamento per la valutazione del giudice in merito al quantum di detta contribuzione11. La tutela offerta dall’art. 148 c.c., che specifica l’obbligo di mantenimento e di contribuzione individuando i criteri e le modalità di ripartizione fra i genitori e, subordinatamente e sussidiariamente, gli ascendenti legittimi e naturali e il terzo datore di lavoro dell’inadempiente12, induce a una riflessione sul tema dell’inadempimento nella materia familiare. Questo, infatti, percorre tutta la patologia familiare, benché lo strumento in parola si ponga particolarmente per le ipotesi di coppie non coniugate e non conviventi, nelle quali un genitore è obbligato a versare all’altro un assegno periodico proporzionato alle proprie capacità economiche e reddituali13, e sebbene le ipotesi di applicazione alle coppie coniugate risultino residuali, in ragione del plausibile ricorso, in questi casi, alle forme di tutela per la fase patologica della famiglia14. 6 Cass. 22 marzo 2010, n. 6861, in Fam. dir., 2010, 776; Cass. 13 gennaio 2010, n. 400, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 823; Tribunale di Alessandria 1 febbraio 2010, in Fam. dir., 2010, 1029; Cass. 18 agosto 2006, n. 18187, in Foro it., 2006, I, c. 3346; Cass. 16 febbraio 2001, n. 2289, in Fam. dir., 2001, 275; Cass. 7 maggio 1998, n. 4616, in Giur. it., 1999, c. 252. 7 Cass. 6 novembre 1976, n. 4044, in Foro it., 1977, I, c. 413; Cass. 19 giugno 1990, n. 5833, in Giust. civ., 1991, I, 75. 8 Cass. 24 marzo 1994, n. 2907, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 84; Cass. 16 luglio 2005, n. 15100, in Foro it., 2006, I, c. 476; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in Fam. dir., 2006, 504, con nota di Figone; Cass. 6 dicembre 2006, n. 26175, in Guida dir., 2007, 7, 66. 9 Cass. 25 febbraio 2009, n. 4588, in Foro it., 2009, I, 1026: “Poiché i genitori devono adempiere l’obbligazione di mantenimen- to verso i figli in proporzione alle loro sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo, ai fini della quantificazione del rimborso pro quota vanno tenuti presenti tali criteri, considerando, cioè, quanto avrebbe dovuto corrispondere il genitore qualora il riconoscimento avesse avuto luogo fin dalla nascita del minore”. 10 Cass. 23 gennaio 1993, n. 791, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1914; Cass. 2 marzo 1994, n. 2065, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 95; Cass. 24 marzo 1994, n. 2907, in Rep. Foro it., 1994, voce Filiazione, n. 96; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in Fam. dir., 2006, 504. 11 Cass. 1 ottobre 1999, n. 10861, in Rep. Foro it., 1999, voce Filiazione, n. 10; Cass. 4 novembre 2010, n. 22506, in Pluris: “[...] il diritto di regresso di un genitore nei confronti dell’altro per le spese interamente sostenute per il mantenimento, sin dalla nascita, del figlio presuppone l’accertamento del quantum dovuto in restituzione; quantum che, sebbene suscettibile di liquidazione equitativa, trova limite negli esborsi in concreto, o presumibilmente, sostenuti dal genitore che ha affrontato, per intero, la spesa. In entrambi i casi, non si può prescindere né dalla considerazione del complesso delle specifiche, molteplici e, nel tempo, variabili esigenze effettivamente soddisfatte, o notoriamente da soddisfare, nel periodo da considerare ai fini del rimborso, né dalla valorizzazione delle sostanze e dei redditi di ciascun genitore (quali, all’epoca, goduti ed evidenziati, eventualmente in via presuntiva, dalle risultanze processuali), né dalla correlazione con il tenore di vita di cui il figlio ha diritto di fruire, da rapportare a quello dei suoi genitori”. 12 Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, I, 1441; Tribunale di Milano 30 giugno 2000, in Fam. dir., 2000, 534. 13 Tribunale di Roma 13 dicembre 1993, in Dir. fam., 1994, 1059; Tribunale di Messina 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, 2899. 14 Si veda però, Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Dir. fam. pers., 1995, 1409, per il ricorso all’art. 148 c.c. nella fase della separazione di fatto, per la speditezza e la sommarietà del procedimento de quo, in una fase precedente l’istanza per separazione personale. 53 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 54 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 2. I concetti di inadempimento e di adeguatezza del mantenimento L’inadempimento del contributo al mantenimento costituisce fattispecie significativa, come confermato dalle pronunce in materia di danno esistenziale in ambito endofamiliare per mancata esecuzione del dovere15. La ripartizione del mantenimento della prole avviene sia attraverso un accordo fra i genitori stessi sia con ricorso al giudice (sui problemi di competenza nella filiazione naturale)16. Il contenuto degli accordi in materia patrimoniale, in particolare, è strettamente correlata con il problema dall’inadempimento del dovere di mantenimento, concernendo le ipotesi di filiazione naturale per le quali non sia intervenuto un titolo esecutivo ad accertare il quantum di detta contribuzione, come i casi in cui il quantum sia stato concordato giudizialmente o negozialmente fra le parti, ma non riesca a coprire quanto necessario per il soddisfacimento delle esigenze della prole. A dimostrazione che il contributo al mantenimento (e la composizione negoziale dell’adempimento del dovere) rappresenta un tema di rilievo per la significativa casistica dei conflitti in materia, questa modalità negoziale è espressamente prevista dal quarto comma del nuovo art. 155 c.c., introdotto dalla novella sull’affidamento condiviso, che prevede la configurabilità di accordi fra i genitori in merito al contributo dovuto per il mantenimento della prole17. L’individuazione della nozione d’inadempimento rispetto al ricorso a un procedimento sommario e cautelare, quale quello dell’art. 148 c.c., è utile per comprendere se in questo possano essere ricondotte le situazioni di adempimento inadeguato ai bisogni della prole. Sembra opportuno verificare, di conseguenza, se l’inadempimento sancito dalla norma in esame comprenda anche l’inadeguatezza dello stesso e se l’adempimento non adeguato alle necessità della prole possa essere reputato adempimento inesatto, rientrando nello schema generale dell’inadempimento tout court. Al contempo, la ricostruzione della nozione in esame rivela la propria utilità anche nei casi di inottemperanza della prescrizione emessa nel procedimento della crisi familiare, visto che queste ipotesi hanno una frequenza più che significativa (come testimoniato dal disposto dell’art. 709 ter c.p.c.) e dal momento che le nuove modalità attuative del dovere comportano conseguenze peculiari. In una fattispecie affrontata dal Tribunale di Milano, il giudice rigettava la richiesta avanzata da un genitore affidatario alla condanna al pagamento di una somma superiore a quella fornita per la mancanza stessa del presupposto dell’inadempimento18. La mancata integrazione della fattispecie in parola era motivata sul presupposto che il genitore obbligato provvedeva ampiamente al mantenimento dei figli, avendo lasciato all’affidataria la casa familiare, sopportando tutte le spese di gestione, comprese quelle relative al contratto di mutuo costituito per il suo acquisto, e stipulando in favore dei figli una consistente polizza assicurativa. Le necessità vitali della prole apparivano senz’altro soddisfatte e garantite per il futuro, a nulla rilevando le eventuali potenzialità contributive dell’obbligato di ben altra entità: se all’affidataria avesse premuto una richiesta di maggior consistenza, la via percorribile sarebbe stata quella di un procedimento di cognizione ordinario. Il percorso argomentativo è fondato sull’idea che, qualora non sia identificabile una fattispecie di inadempimento integrale del dovere, ma a essere lamentato sia il quantum dovuto, nella ragione della supposta insufficienza e inadeguatezza rispetto alle effettive sostanze dell’obbligato, lo strumento più consono dovrebbe rimanere quello di un ordinario giudizio di cognizione. In quella sede, infatti, il convincimento del giudice sulla bontà delle ragioni delle parti potrebbe formarsi con maggiore completezza, per non dover essere obbligato a pronunciarsi con estrema celerità e per la sommarietà delle assunzioni probatorie, che ordinariamente caratterizzano la procedura ex art. 148 c.c. Lo spirito della norma esaminata, proprio per la sua funzione prioritaria di strumento snel- 15 Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, in Studium iuris, 2001, 216, annotata da Scalera. 16 Cass. 3 aprile 2007, n. 8362, in Fam. dir., 2007, 446, con nota di Tommaseo; contra Cass. 5 maggio 2011, n. 9936, inedita. 17 Cass. 8 novembre 2006, n. 23801, in Foro it., 2007, I, c. 1189; Cass. 10 ottobre 2005, n. 20290, in Fam. pers. succ., 2007, 107. 18 Tribunale di Milano 25 giugno 1987, in Dir. fam. pers., 1988, 349. 54 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 55 FOCUS lo a protezione d’interessi primari, quali quelli al mantenimento della prole, dovrebbe mantenere detta peculiarità, lasciando al giudizio ordinario altre pretese che, benché legittime, non recano in sé quella premura e quell’urgenza proprie del ricorso ex art. 148 c.c. L’inadempimento tutelato dall’art. 148 c.c. è affatto singolare, recando in sé i tratti tipici della violazione degli obblighi coniugali e familiari, accanto ad analogie con la struttura “tradizionale” dell’inadempimento, quale rimedio generale a garanzia del soddisfacimento dell’interesse creditorio. In tal senso, la fattispecie non si configura necessariamente come mancato assolvimento delle prestazioni dovute dall’obbligato, ma anche come dato che attesta altresì il solo pericolo di insolvenza per il futuro, così da legittimare un tutela peculiare, sommaria e cautelare, giustificata dalla rilevanza degli interessi sottesi, sulla base del semplice periculum in mora. Il rimedio conferito dalla disposizione non sarebbe funzionale essenzialmente al recupero di somme versate in via anticipata dal genitore convivente, quanto alla garanzia dell’osservanza futura del versamento delle prestazioni patrimoniali dovute in adempimento del dovere contributivo. Nondimeno, la tesi dell’inadempimento come presupposto del ricorso all’art. 148 c.c., secondo comma, è avallata dalla Corte Costituzionale, che ha definito la norma in esame “un efficace rimedio all’inadempimento”19 e, in precedenza, dal giudice di legittimità, per il quale il decreto emesso costituisce titolo esecutivo contro chiunque risulti inadempiente dell’obbligo di mantenimento dei minori20. Dimostrando una certa sensibilità, la giurisprudenza di merito è incline piuttosto a interpretare estensivamente il concetto in questione, riconoscendo l’inadempimento anche quando il quantum spontaneamente versato risulti inadeguato21. L’affermazione costante della giurisprudenza che il mantenimento debba essere adeguato, conduce alla verifica della clausola dell’adeguatezza, che può essere correlata al comportamento dei genitori o del genitore, secondo modalità che soddisfino tutte le esigenze della prole22. Di qui è possibile individuare due diversi profili nel dovere di mantenimento. Il primo, concernente i bisogni primari dei figli, che prescinde dal tenore di vita della famiglia e dei genitori e che potrebbe coincidere con il sostentamento vitale, tipico dell’obbligazione alimentare; il secondo, nel quale il mantenimento viene commisurato alla gestione della famiglia, al tenore di vita concretamente realizzato e, inevitabilmente, alla classe sociale cui la famiglia appartiene. Questo correttivo sociale, evidentemente, distingue in maniera rilevante l’ammontare del mantenimento, perché diverse possono essere le spese sostenute dai genitori e reputate più o meno essenziali, come quelle per gli studi universitari o quelle voluttuarie e ludiche. Allo stesso tempo, la funzione del mantenimento mantiene una propria finalità di tipo etico ed educativo, oltre che assistenziale e patrimoniale, così che può non risultare sempre agevole determinare detta adeguatezza. Può avvenire così che le spese affrontate in ragione dello status sociale si rivelino importanti, quando anche eccessive; per altro verso, l’entità del mantenimento potrebbe essere determinato dai genitori in una misura minore rispetto al tenore di vita concretamente possibile, in una funzione prettamente educativa. Il mantenimento contiene, quindi, un suo scopo tipico, educativo ed etico oltre che assistenziale, dei bisogni più strettamente materiali. Quanto detto, oltre a confermare la difficoltà che talvolta si incontra nell’operare un controllo esterno sull’entità del mantenimento in ragione delle sue diverse componenti, è utile per riaffermare la sua funzione di strumento protettivo dell’interesse della prole23. Appare dunque presumibile che la strada più consona al dettato normativo sia quella di considerare integrato un adempimento inesatto, quindi un inadempimento, ogniqualvolta la prestazione sia effettivamente inadeguata rispetto alle esigenze necessarie e basilari della prole (anche maggiorenne), come comprensive di un da- 19 Corte Cost. 16 giugno 2002, n. 236, in Foro it., 2003, I, c. 738. 20 Cass. 23 marzo 1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, I, 1441. 21 Così Tribunale di Messina 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, I, 2900. 22 Cass. 19 marzo 1989, n. 1862, in Giust. civ., 1984, I, 1765. 23 Cass. 17 gennaio 1996, n. 364, in Fam. dir., 1996, 227; Cass. 15 gennaio 1998, n. 317, in Giust. civ., 1998, I, 337 ss. 55 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 56 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 to ulteriore rispetto a quello meramente patrimoniale24 e benché vi sia un titolo negoziale fra i genitori per un assegno di mantenimento, del tutto inadeguato alle necessità ordinarie e straordinarie della prole. Affidandosi, poi, alla clausola dell’ordinaria diligenza nell’adempimento, come criterio per valutare il comportamento dei soggetti obbligati, si vede confermato che il genitore obbligato debba soddisfare l’interesse più materiale della prole, in proporzione alle proprie sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale e casalingo. Sulla scorta del disposto dell’art. 1176 c.c., se il dovere di mantenimento posto a carico dei genitori consiste in una prestazione proporzionata alle rispettive sostanze e alla capacità di lavoro professionale o casalingo, allora il quantum dell’assegno di mantenimento deve correlarsi non solo al reddito attuale degli obbligati, ma anche al reddito che potremmo definire potenziale. Il contenuto della contribuzione, in altre parole, va valutato con riferimento al reddito effettivamente percepito e riguardo alla capacità lavorativa e alle astratte capacità economiche degli obbligati, individuando bene le sostanze rispetto al reddito. Da un lato, quindi, entra nel calcolo ogni valore anche potenziale di reddito; dall’altro, deve essere censurato il comportamento di chi svolge un lavoro sicuramente più redditizio di quanto dichiari, o di quello che lasci improduttivi immobili di sua proprietà25, quasi che incomba sui genitori un obbligo più generale di attivarsi per mettere a frutto la propria capacità di lavoro e che, conseguentemente, un comportamento contrario a detto dovere potrebbe integrare un inadempimento degli obblighi previsti dall’art. 147 c.c.26. Alla luce del criterio della diligenza, viene da interrogarsi se sia possibile configurare un dovere per il genitore di mantenere inalterato il proprio reddito, in particolare a seguito della pronuncia del giudice sul contributo al mantenimento della prole, alle condizioni presenti al momento della decisione del giudice, così da poter censurare ogni scelta che modifichi in peius la situazione patrimoniale dell’obbligato; e se esista un dovere di migliorare il reddito e di massimizzare le proprie capacità lavorative per dare piena attuazione ai diritti sanciti e ai rapporti solidaristici nei confronti della prole. La questione non è di pronta risoluzione. Senz’altro sono da sanzionare quei comportamenti posti in essere dai genitori e dai coniugi, preordinati al solo fine di sottrarsi alla prestazione imposta giudizialmente o fondati sul rancore provato verso l’altro per aggravarne la situazione economica27. Al contempo, il dovere di mantenimento deve, talvolta, essere coordinato e bilanciato con altre situazioni di rango costituzionale, come il diritto al lavoro: questo, come individuato dalla Carta Costituzionale e dallo Statuto dei lavoratori e coordinato con il suo speculare dovere, non prevede l’obbligo di svolgere quasiasi tipo di lavoro che non realizzi la personalità dell’individuo. Non potrebbe essere censurata, a titolo d’esempio, la scelta di un lavoro che, sebbene meno remunerativo, non sia però usurante della sua salute psicofisica. Il pericolo che da una meccanica configurazione del reddito in funzione del mantenimento, come reddito percepito e potenziale, derivi un dovere di massimizzare le proprie capacità lavorative a discapito di altre situazioni costituzionalmente garantite, deve condurre a privilegiare una logica di tutela delle scelte esistenziali dell’obbligato28, favorendo una tesi cosiddetta “dinamica dell’obbligazione al mantenimento”, che è mutevole per sua stessa natura e può subire variazioni anche in 24 Tribunale di Trieste 21 marzo 2005, in Fam. pers. succ., 2005, 325, con nota di Corapi, dove si afferma l’esperibilità del rimedio ex art. 148 c.c. “anche ove si lamenti l’insufficienza delle somme di fatto corrisposte, non postulandosi un inadempimento integrale”; contra Tribunale di Milano 25 giugno 1987, in Dir. fam. pers., 1988, 349. 25 Cass. 16 ottobre 1991, n. 10901, in Rep. Foro it., 1991, voce Matrimonio, 4130, nn. 175 e 176; con riferimento alla libertà di scelta del lavoro, in rapporto con gli obblighi di mantenimento: Cass. 11 marzo 2006, n. 5378, in Foro it., 2006, I, c. 1361. 26 Contra Tribunale di Catania 1 aprile 2008, in Corr. mer., 2008, 915, ma in una fattispecie caratterizzata per l’assenza di prole. 27 Cass. 24 gennaio 2007, n. 1607, in Dir. fam. pers., 2007, 1133, chiarisce come, nell’ambito del giudizio di separazione, la determinazione del contributo per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole non si fondi su una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge, come avviene fra questi. L’arricchimento di uno dei genitori, pertanto, garantisce al minore una migliore soddisfazione delle sue esigenze e non comporta una correlata, automatica e proporzionale diminuzione del contributo dovuto dall’altro genitore; anche Cass. 24 febbraio 2006, n. 4203, in Fam. dir., 2006, 599, con nota di Longo. 28 Cass. 11 giugno 1997, n. 5244, in Rass. dir. civ., 1997, 922, con nota di Misto. 56 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 57 FOCUS danno della ragioni creditorie, qualora, per motivazioni dettate da esigenze esistenziali e non da intenti punitivi o dolosi, l’obbligato subisca una contrazione del proprio reddito29. La necessità di attuare un bilanciamento fra le ragioni della prole e le scelte dell’individuo sull’impiego delle proprie energie fisiche e intellettive spiega l’esigenza di valutare concretamente gli interessi correlati e di non optare per un’automatica equazione fra mancata attuazione della capacità lavorativa o peggioramento delle condizioni economiche e inadempimento della prestazione di mantenimento, giacché in questa materia, ancor più che in altre, ogni soluzione meccanica finisce per rivelarsi fallace. Più utile, forse, una visione che comprenda ogni scelta operata dai soggetti coinvolti nella vita familiare come inserita nel contesto di un comune dovere di collaborazione: un comune progetto collaborativo destinato a esprimersi nella fisiologia dei rapporti, successivamente alla disgregazione dell’unità familiare, divenendo a sua volta specificazione del più ampio dovere di solidarietà postconiugale e postfamiliare. 3. Nuove modalità di attuazione del dovere Una rilevante innovazione introdotta dalla novella del 2006 interessa il contenuto degli accordi che intercorrono tra i genitori circa l’affidamento e il mantenimento della prole. La riflessione concernente gli accordi patrimoniali in sede di separazione, che nella disciplina previgente interessava soprattutto la separazione consensuale, conosce un dibattito in costante espansione, con riferimento alle disposizioni derogabili e inderogabili della materia familiare, ai diritti disponibili e indisponibili, nonché, più in generale, alla concezione privatistica o pubblicistica dell’istituto familiare e degli interessi coinvolti. L’incessante evoluzione, percepita e reale, dei temi trattati ha coinvolto conseguentemente la disciplina di riforma che, modificando il settimo comma della formulazione originaria dell’art. 155 c.c., ha introdotto un duplice riferimento agli accordi fra i coniugi, distinguendo fra accordi in materia personale (art. 155 c.c., secondo comma) e in materia patrimoniale (art. 155 c.c., quarto comma), in luogo della disposizione previgente, secondo la quale il giudice era tenuto a considerare gli accordi proposti dalle parti, potendosene discostare sulla base di un migliore assetto degli interessi morale e materiale della prole, con il solo obbligo di una adeguata motivazione sul punto. In via preliminare, va osservato come la volontà del legislatore di disciplinare separatamente i differenti aspetti dell’affidamento dei figli rappresenti un elemento di notevole pregio, nella misura in cui ciò costituisce una rinnovata attenzione ai diversi profili della vita della prole nella crisi familiare, con l’intento di organizzare quest’ultima ricalcando il più possibile il ménage della famiglia prima della rottura e la sua unità. Di tutta evidenza le differenze contenute nel secondo e quarto comma del nuovo art. 155 c.c.: gli accordi in materia patrimoniale sono fatti salvi, quando “liberamente sottoscritti dalle parti”; laddove il giudice deve prendere atto degli “accordi intervenuti tra i genitori”, quando questi non siano “contrari all’interesse della prole”. Alcuni aspetti testuali contenuti nella norma, però, sembrano avere consistenza dubbia: la libera sottoscrizione degli accordi sul mantenimento rende conto, con tutta probabilità, dell’impostazione formalistica delle convenzioni patrimoniali dell’art. 162 c.c.; nello stesso senso, se il secondo comma parla di accordi tra genitori, il quarto comma tratta di accordi intervenuti fra le parti, accentuandone il profilo spiccatamente contrattuale. Il quarto comma dell’art. 155 c.c., infine, prescrive che il giudice debba prendere atto degli accordi sull’affidamento e fare salvi quelli sul mantenimento. Tralasciando l’analisi dei negozi in materia personale, l’indagine relativa al contenuto degli accor- 29 Nondimeno, ma con riguardo al mantenimento del coniuge: Cass. 11 marzo 2006, n. 5378, in Foro it., 2006, I, c. 1361, con nota di De Marzo. 57 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 58 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 di patrimoniali e all’esplicazione delle modalità di adempimento deve far rilevare, in primo luogo, come il tenore della norma disponga che i genitori siano tenuti a provvedere al mantenimento della prole “in misura proporzionale al proprio reddito”, prevedendo così una modalità di configurazione del contenuto degli accordi con riferimento a un criterio di proporzionalità. La norma, contravvenendo a un orientamento attestato del secondo comma dell’art. 155 c.c. nell’originaria formulazione e al principio espresso dall’art. 148 c.c., individua la modalità di realizzazione del principio di proporzionalità secondo l’esclusivo rinvio al reddito di ciascun genitore, mancando di prevedere un riferimento alla “capacità di lavoro professionale e domestico”, se non come criterio di determinazione dell’assegno. Il timore è rafforzato dalla lettura del progetto di modifica ddl 957/2009 che, analogamente al ddl 2454/2010, menziona il principio di proporzionalità nella contribuzione commisurato alle “risorse economiche”, lasciando ai “compiti domestici e di cura” la valenza di contributo “diretto”. Inoltre, poiché il criterio della proporzionalità del mantenimento ha vigore salvo siano intervenuti accordi liberamente sottoscritti dalle parti, è dubbio se la capacità espansiva dell’autonomia negoziale si spinga sino alla deroga dello stesso principio. Se a una prima lettura della norma, il giudice sembrerebbe non aver titolo per intervenire sull’accordo patrimoniale intercorso, dovendo recepire la volontà concorde dei genitori a prescindere dal contenuto delle intese raggiunte, agevolmente si accoglie l’orientamento che sostiene il vaglio del giudice, in ossequio al disposto di cui all’art. 158 c.c.30. Il profilo, tuttavia, richiede un’attenta osservazione, se non altro nella prospettiva dell’ampliamento dell’autonomia negoziale familiare, scevra di qualsiasi meccanismo di controllo garantistico. La previsione di criteri nella determinazione dell’assegno periodico (“le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”) dovrebbero far presumere, almeno fino a quando il legislatore non intervenga in senso diverso, la garanzia dell’attuazione del principio predetto. I criteri d’individuazione del contenuto dell’assegno di mantenimento, già enucleabili dall’interpretazione delle clausole generali e dei princìpi espressi dalle disposizioni di cui agli artt. 148 e 143, terzo comma, dovrebbero assicurare il principio di proporzionalità della contribuzione, come specificazione del dovere di solidarietà familiare e garanzia di eguaglianza e di pari dignità dei suoi membri. La proporzionalità del mantenimento, si è detto, non equivale a una matematica distribuzione o attribuzione esclusiva dei compiti fra i genitori, se non nella misura di una regolamentazione interna fra questi nell’organizzazione della vita familiare dopo la rottura; esso è altresì volto alla realizzazione, anche nel contesto dell’autoregolamentazione dei genitori, dei medesimi princìpi sopra riferiti. Così, se è pur vero che appaia astrattamente ammissibile (per il mancato ed espresso riferimento della norma sul punto) la configurabilità di accordi che deroghino al principio di proporzionalità del mantenimento, non sono certamente condivisibili intese contrarie all’interesse dei figli, all’adeguatezza del loro mantenimento, nonché alla garanzia dell’eguaglianza proporzionale nella contribuzione. Quanto detto, per un verso, deve far riflettere sul diffuso costume della divisione in pari quota delle spese ordinarie e straordinarie che, sebbene appaia più efficiente sotto il profilo della risoluzione dei conflitti, talvolta non realizza né il principio della contribuzione proporzionale né un’effettiva condivisione delle scelte riguardo alla prole. Per altro verso, si è indotti a guardare con sospetto ai progetti di riforma recentemente presentati (ddl 957/2009 e 2454/2010), che sanciscono la modalità di contribuzione “in forma diretta e per capitoli di spesa”, così come decise dai coniugi e, “solo nel caso di disaccordo, stabilite dal giudice”. Le osservazioni compiute conducono a soffermarsi sulle odierne modalità di attuazione del mantenimento, che accanto a quello indiretto – modalità oggi residuale nell’idea del legislatore31 –, pre- 30 Cass. 24 aprile 2007, n. 9915, in Guida dir., 2007, 20, 40. 31 Nondimeno Cass. 18 agosto 2007, n. 18187, in Fam. dir., 2007, 345, con nota critica di Dogliotti. 58 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 59 FOCUS vede l’adempimento “diretto” alle spese e il mantenimento che avvenga “in natura”. È un pensiero esplicito del riformatore che il mantenimento diretto e quello in natura costituiscano una forma di contribuzione migliore dell’assegno mensile che, molto frequentemente, finisce per equivalere a una “delega in bianco” attribuita al genitore domiciliatario e che rende sperequate le posizioni, spesso in danno del genitore non domiciliatario con un reddito più alto. L’assegno mensile sarebbe, pertanto, una fonte di ulteriori conflitti fra i genitori con ripercussioni significative sulla prole. Nonostante l’apparente preferenza del legislatore verso nuove forme di contribuzione, però, la casistica continua a profilarsi secondo le abituali modalità di attuazione con l’assegno di mantenimento32. La persistenza verso strumenti ampiamente collaudati (e criticati) si spiega con una serie di motivi, il primo dei quali è che il mantenimento in natura, che conosce una diffusione più ampia, è teso a soddisfare le ragioni economiche di una fascia sociale “alta” della popolazione, quella alla quale è consentita tale forma di gestione e segregazione del patrimonio (soprattutto immobiliare) in favore della prole. Per altro verso, il mantenimento diretto ha come presupposto (almeno teorico) la parità di tempo di permanenza presso ciascun genitore e un complesso sistema di “calcolo per costo di ciascun figlio” per bilanciare la permanenza non in pari grado, che non può che destare qualche perplessità. È vero che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, deve essere posta a carico del genitore non domiciliatario una forma di contribuzione che, nel caso dell’assegno, tenga presente i tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore; ma è anche vero che il criterio della determinazione dei tempi di permanenza deve rispettare il principio di proporzionalità (e di adeguatezza) della contribuzione, che non può reputarsi derogato nell’ipotesi di contribuzione diretta. Inoltre, il principio di bigenitorialità, fondamento teorico della novella, non si esprime con la “parità di tempo della collocazione” della prole: orientamenti in tal senso costituiscono palese violazione dell’interesse del minore. Infine, sebbene il fondamento assiologico del mantenimento diretto sia quello di consentire la conservazione di un rapporto diretto tra genitore non affidatario e minore, non può tacersi che, nell’ipotesi di mancato adempimento del dovere, la tutela giudiziale risulti ancora più complessa con un ulteriore aggravio nei riguardi del genitore domiciliatario, solitamente colui che “anticipa” le spese, o, per esempio, dello stesso figlio maggiorenne33. Se si pensa poi alle fattispecie di violazione degli obblighi di assistenza familiare o al reato di elusione del provvedimento giudiziale, la questione è acuita quando il mantenimento diretto, o in natura, avviene con prestazioni saltuarie, quand’anche non marginali, o voluttuarie in favore dei figli; queste, sebbene possano assecondarne i desideri e talvolta i capricci, non consentono l’adempimento delle esigenze essenziali e basilari della vita della prole, né assolvono quella funzione etica ed educativa propria del dovere di mantenimento di cui all’art. 147 c.c. In conclusione, pare che le riforme attuate e quelle che si profilano all’orizzonte siano pervase, talvolta, dalla forte ambizione di bandire il “vecchio” e realizzare il “nuovo”, con scelte non sempre del tutto ben meditate. 32 Da ultimo, Cass. 4 novembre 2010, n. 22502, in Fam. dir., 2010, 247. 33 Cass. 12 ottobre 2007, n. 21437, in Fam. dir., 2008, 584. 59 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 60 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 QUESTIONI PROBLEMATICHE E NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI MANTENIMENTO DI FIGLI MAGGIORENNI Sabrina De Santi Avvocato del Foro di Verona 1. Premessa L’entrata in vigore della legge 54/2006 sull’affido condiviso e i rapidi mutamenti della realtà economica e sociale che stanno investendo la nostra collettività hanno avuto significative ricadute nella soluzione delle crisi dei rapporti di famiglia, inducendo la giurisprudenza e la dottrina a interrogarsi su conclusioni che sembravano stabilmente acquisite e sulla rispondenza di orientamenti consolidati ai valori costituzionali. Al riguardo, occorre considerare che accanto agli articoli 147 e 155 c.c., che disciplinano il mantenimento dei figli senza alcuna distinzione tra maggiorenni e minorenni, si colloca l’art. 30 Cost., che impone ai genitori, in pari misura, il diritto-dovere di assistere la prole, realizzando con ciò quel dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 della stessa Carta Costituzionale per consentire il pieno sviluppo della personalità dell’individuo. Tale valore, proprio perché strettamente connesso all’art. 2 Cost., esprime un valore fondante del nostro ordinamento e non può essere inteso in senso formale, guardando al mero svolgimento di attività economiche, quali che ne siano la natura e gli effetti economici, al fine di escludere l’obbligo dei genitori. Per questa ragione, confrontandosi con una realtà in continuo divenire, la dottrina e la giurisprudenza, fornendo un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in parola, hanno ritenuto che l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento della prole non cessi ipso facto con il raggiungimento della maggiore età, ma coincida con la raggiunta autonomia del figlio. La questione centrale della cessazione dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori di figli, divenuti adulti a loro volta, ha occupato la giurisprudenza già a partire dagli anni Sessanta. 2. La posizione della giurisprudenza di legittimità Con le sentenze n. 87 e n. 124 del 1962, la Cassazione ha individuato quale termine per la fine dell’obbligo il completamento degli studi con il conseguimento del titolo relativo o, in alternativa, l’avviamento del figlio a una professione, a un’arte o a un mestiere confacente, per quanto possibile, alla condizione sociale della famiglia. Nel contesto socio-culturale degli anni del dopoguerra e del boom economico, a fronte di un ridotto tasso di alfabetizzazione, i giovani, normalmente, apprendevano un mestiere già ben prima della maggiore età e raggiungevano l’indipendenza economica poco più che ventenni. Oggi, a un elevato tasso di istruzione corrisponde il progressivo procrastinarsi dell’ingresso nel mondo del lavoro che d’altra parte, nel momento attuale, offre scarse prospettive di un rapido affrancamento dalla famiglia di origine. 60 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 61 FOCUS La giurisprudenza, confrontandosi con un contesto sociale così profondamente diverso rispetto a quello che ha visto nascere le norme del codice e della Costituzione, ha avuto modo di adattare i princìpi elaborati negli anni passati. In particolare, accanto alla regola tradizionale di valorizzazione della responsabilità del figlio chiamato a fare tutto quanto è possibile per rendersi economicamente indipendente e alla regola di tendenziale irreversibilità degli effetti della raggiunta autonomia1, la giurisprudenza ha iniziato a dare rilievo, per un verso, all’esigenza di rispettare le aspirazioni e le attitudini del figlio e, per l’altro, ha dovuto confrontarsi con la necessità dei giovani di accettare provvisoriamente soluzioni lavorative precarie e sostanzialmente inappaganti rispetto all’obiettivo di una vita economicamente autonoma. In questo continuo e delicato bilanciamento di interessi, in cui giocano un ruolo decisivo le specificità del caso concreto, è possibile dare un’adeguata spiegazione alla giurisprudenza della Suprema Corte. Ad esempio, è stato negato il diritto al mantenimento del figlio che non aveva terminato gli studi universitari e aveva rifiutato un posto di lavoro in banca offertogli dal padre – genitore non convivente –, giustificando tale atteggiamento con l’impossibilità di allontanarsi dalla propria città per accudire la madre e la nonna conviventi e malate2. È stato invece riconosciuto il diritto a essere mantenuto del figlio maggiorenne che aveva abbandonato il lavoro di apprendista muratore in quanto, secondo i giudici, solo l’atteggiamento colposo o doloso del figlio, consistente nel mancato svolgimento di un’attività per inerzia o per rifiuto ingiustificato di un’occupazione adeguata al proprio percorso formativo, poteva giustificare la cessazione di ogni contributo3. Ancora, la Corte di legittimità, nel confermare il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne che, pur avendo terminato il proprio percorso di studi, non si era inserito nel mondo del lavoro in maniera soddisfacente, ha affermato che deve escludersi in via generale che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini e i suoi effettivi interessi siano rivolti. La sentenza ha però aggiunto che la legittimità del desiderio di coltivare le proprie ambizioni non può essere disgiunto dai limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e siano compatibili con le condizioni economiche della famiglia4. 3. Una recente pronuncia della Suprema Corte Evidente riprova delle conclusioni raggiunte si trae da un recente intervento dei giudici di legittimità con la sentenza 26 gennaio 2011, n. 1830. La Corte di Cassazione è tornata, infatti, a riflettere sul mantenimento dei figli maggiorenni affrontando il tema da un’angolazione particolare. Nel caso concreto a venire in rilievo non è il fatto che la figlia, dopo una laurea breve, abbia intrapreso nuovi studi universitari, procrastinando così l’inserimento nel mondo del lavoro, ma le nozze di questa con un giovane studente. In generale, con il matrimonio, secondo la giurisprudenza ribadita dalla sentenza in parola, cessa automaticamente il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli. Il principio trae fondamento dai diritti e dai doveri che nascono dalla costituzione di un nuovo nucleo familiare. Per effetto del matrimonio i coniugi attuano una comunione materiale e spirituale di vita, che impone a entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia “in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo” (art. 143 c.c.). 1 Vedi infra par. 4, Cass. civ., Sez. I, 21 febbraio 2007, n. 4102. 2 Cass. civ., Sez. I, 18 gennaio 2005, n. 951. 3 Cass. civ., Sez. I, 21 febbraio 2007, n. 4102. 4 Cass. civ., Sez. I, 3 aprile 2002, n. 4765. 61 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 62 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Lo spostamento del dovere di mantenimento dalla famiglia di origine al coniuge presuppone tuttavia, l’effettivo instaurarsi della comunione materiale e spirituale tra coniugi. Ancora una volta la Suprema Corte, privilegiando una dimensione valutativa sostanziale e non meramente formale, ha dato rilievo non al matrimonio-atto, ma, in una dimensione effettuale, al matrimonio-rapporto, che segue alla costituzione di una nuova famiglia autonoma e finanziariamente indipendente. Nel caso esaminato dalla sentenza, la Corte non ha ritenuto di dover sospendere il mantenimento della figlia da parte del padre perché la celebrazione del matrimonio non aveva portato ad alcun cambiamento nella vita dei giovani, sia pur legati da una relazione sentimentale. Di fatto il matrimonio era stato contratto per consentire al marito di rimanere in Italia per terminare i propri studi, ma non aveva comportato alcun mutamento della vita dei coniugi: la moglie aveva continuato a vivere presso la madre e a studiare, mentre il marito, privo di mezzi economici, aveva continuato a frequentare l’istituto professionale per completare il proprio ciclo di studi. 4. Questioni processuali Accanto alle questioni sostanziali, sul piano processuale, con l’introduzione della novella del 2006, dottrina e giurisprudenza sono tornate a riflettere sulla legittimazione a chiedere l’assegno di mantenimento. La Corte ha ribadito il principio secondo cui il nuovo 155 quinquies c.c. ha disciplinato una mera modalità di pagamento, lasciando inalterata la legittimazione alternativa di figlio e genitore convivente nel diritto a pretendere l’assegno dal genitore obbligato5. Tale ricostruzione rende apertissima la questione della posizione processuale dei figli all’interno del giudizio di separazione o di divorzio e dei procedimenti di modifica. Secondo l’impostazione tradizionale, infatti, tali procedimenti non consentono la partecipazione dei figli maggiorenni o minorenni che siano. Riconoscere che l’art. 155 quinquies non individua una legittimazione esclusiva del figlio maggiorenne, ma si pone sul diverso piano dell’individuazione del destinatario materiale del pagamento, vale a confermare, in generale, l’orientamento tradizionale. La tesi opposta, peraltro, comporterebbe delle evidenti ricadute quanto alla capacità a testimoniare del figlio nei giudizi di separazione, di divorzio e di modifica (ma anche in quelli di annullamento), almeno nei casi in cui le circostanze fattuali incidano sulla valutazione delle condizioni economiche dei genitori obbligati. Non sembra invece che affermare la legittimazione processuale del figlio a chiedere l’assegno di mantenimento all’interno del giudizio di separazione possa escludere la sua capacità a testimoniare con riferimento alle domande di addebito. La legittimazione concorrente del figlio maggiorenne e del genitore convivente – ribadita, come si diceva, anche dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte – pone poi il delicato problema della nozione di convivenza nei casi, ad esempio, in cui la frequenza settimanale dell’università in luogo diverso da quello di residenza dei genitori si accompagni, nei fine settimana, a soggiorni alternati presso l’uno o l’altro. Proprio questa evenienza – anch’essa emersa nella prassi giurisprudenziale a seguito dei mutamenti sociali che hanno comportato un’estrema mobilità delle persone sul territorio – induce ad attribuire alla convivenza una caratterizzazione funzionale, legata, in altre parole, allo scopo della disciplina che si tratta di applicare. La legittimazione del genitore a richiedere il mantenimento per il figlio maggiorenne nasce, infatti, dal concreto contributo che il primo fornisce alle fondamentali esigenze di vita del secondo. Non rileva quindi il mero fatto della coabitazione, magari a esclusivo fine di svago, se esso non si ac- 5 Cass. civ., Sez. I, 29 marzo 2011, n. 7105. 62 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 63 FOCUS compagna a un concreto e costante contributo, anche materiale, al soddisfacimento dei bisogni del figlio stesso. Per completezza vanno ricordate, infine, le sentenze che chiariscono cosa accada in punto di legittimazione quando il figlio perde la propria autonomia economica dopo averla acquisita per aver svolto un’attività lavorativa o per altre cause quali, ad esempio, l’aver contratto matrimonio poi fallito. In questi casi la perdita da parte del figlio del diritto di essere mantenuto comporta il venire meno anche della legittimazione del genitore convivente6. In tali casi residua in capo al figlio la mera possibilità di agire per ottenere il riconoscimento del diritto agli alimenti. 5. Mantenimento e assegnazione della casa coniugale Un ultimo problema che comincia a porsi nella prassi riguarda poi la rilevanza che le scelte del figlio maggiorenne convivente possono assumere quanto all’assegnazione della casa coniugale. Se il figlio convivente con il genitore assegnatario sceglie di convivere con l’altro genitore per assisterlo in una situazione di precarietà sanitaria e assistenziale, resta infatti aperto l’interrogativo sulla sorte dell’assegnazione della casa. Da un lato, infatti, si avverte la necessità di individuare limiti alle possibilità di ingiustificati e continui cambiamenti di valutazione del figlio, dall’altro, però, esiste la necessità di non penalizzarlo, nel caso che scelga, in attuazione di un dovere solidaristico, meritevole di considerazione, di prestare a uno dei genitori un’assistenza necessaria a garantire adeguate condizioni di vita. Si tratta dell’ennesima riprova di come le norme in materia di diritto di famiglia non possano risolvere i problemi in modo automatico, ma richiedano sempre la mediazione culturale che gli operatori del diritto (avvocati e giudici) realizzano attraverso l’attività interpretativa. 6 Cass. civ., Sez. I, 21 febbraio 2007, n. 4102. 63 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 64 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 MANTENIMENTO DEI FIGLI E ATTI DI DESTINAZIONE EX ART. 2645 TER C.C. Corinna Marzi Avvocato del Foro di Roma La riforma dell’articolo 155 c.c., operata con legge n. 54 dell’8 febbraio 2006 (“Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”), cambia sensibilmente la normativa in ordine all’entità del contributo per il mantenimento dei figli da stabilirsi in sede di separazione o divorzio o regolamentazione dei rapporti tra genitori naturali. Infatti, nell’affermare che “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”, l’articolo, da un lato, riconosce un’ampia autonomia negoziale ai genitori in ordine al mantenimento della prole e, dall’altro, svincola la misura del loro contributo dal solo criterio della proporzionalità alle proprie capacità economiche. Pertanto, a seguito della riforma, i coniugi/genitori in crisi possono stabilire l’entità del contributo di ciascuno al mantenimento dei figli in base a criteri diversi e in deroga al principio di proporzionalità finora previsto, purché assicurino ai figli un tenore di vita adeguato alle condizioni familiari nel loro complesso. Alla luce dell’ampia autonomia negoziale riconosciuta ai genitori dal predetto art. 155, quarto comma, c.c., appare pienamente condivisibile l’orientamento della giurisprudenza maggioritaria, sia di merito che di legittimità1, che si è mostrata propensa ad ammettere e ratificare i patti tramite i quali i genitori prevedono l’adempimento dell’obbligazione di mantenimento della prole in un’unica soluzione, attribuendo ai figli beni immobili ovvero beni mobili fruttiferi, ovviamente sempre a condizione che detti accordi appaiano rispondenti all’interesse dei figli. Proprio per rispondere all’interesse di questi ultimi, con tali accordi, il genitore non collocatario che volesse sostituire la corresponsione di un importo determinato e periodico per il mantenimento della prole con un contributo una tantum, non dovrebbe limitarsi a trasferire beni immobili, ovvero beni mobili fruttiferi, in favore del genitore collocatario o degli stessi figli, ma anche offrire una garanzia legale atta ad assicurare la certezza delle obbligazioni assunte sulla destinazione dei cespiti e dei loro frutti. A tale riguardo si rileva come la giurisprudenza di merito2 abbia ritenuto non rispondente all’interesse dei figli l’alienazione di un compendio immobiliare in favore del coniuge affidatario in assenza delle suddette garanzie. L’indicazione data dalla giurisprudenza per realizzare tale interesse è nel senso di apporre sul bene immobile che si trasferisce un vincolo di destinazione che consenta di sottrarlo alla libera disponibilità del genitore collocatario e dei suoi eventuali creditori, legandolo al preminente interesse dei figli. Si deve tenere presente che l’art. 2645 ter c.c., introdotto dall’art. 39 novies, d.l. 30 dicembre 2005, 1 Ex multis cfr. Cass. 2 febbraio 2005, n. 2088. 2 Tribunale di Reggio Emilia, sentenza del 26 marzo 2007, in Famiglia e Minori, 5, 2007, 72, annotata da Rossi; in Guida al Diritto, 18, 2007, 58, annotata da Tonelli; in Fam., pers. e succ., 10, 2007, 779, annotata da Partisani. 64 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 65 FOCUS n. 273, con decorrenza dal 1° marzo 2006, non solo consente di apporre sul bene e i suoi frutti un vincolo di destinazione per il mantenimento della prole, ma evita anche il rischio di espropriazione su tali beni, facendo sì che essi possano essere assoggettati a esecuzione per i soli debiti contratti a tale scopo e non anche per i debiti personali dell’intestatario del compendio. Come si può agevolmente notare, trattasi in sostanza di una variazione qualitativa del patrimonio del tutto simile a quella già collaudata e che ritroviamo nell’atto di costituzione di fondo patrimoniale. Giova, quindi, approfondire l’esame dell’art. 2645 ter c.c. (“Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”), in particolare sui profili che più interessano in relazione alla tematica del mantenimento della prole. Al riguardo va ricordata una nota pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia3 e la circolare n. 5 del 7 agosto 2006 dell’Agenzia del Territorio, che affronta le problematiche relative alla trascrivibilità di una pattuizione istitutiva di un vincolo di destinazione all’interno dell’accordo di separazione legale fra i coniugi. Ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., un soggetto, che possiamo definire conferente-disponente, può sottrarre alla propria garanzia patrimoniale uno o più beni immobili, ovvero mobili iscritti in pubblici registri, appartenenti al suo patrimonio, imprimendo su di essi un vincolo di destinazione funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche. Il vincolo di destinazione, che non può avere una durata maggiore di novant’anni (nel caso in cui il beneficiario sia un ente o una pubblica amministrazione) o della vita del beneficiario, deve risultare da atto pubblico e può essere trascritto ai fini dell’opponibilità nei confronti dei terzi. La trascrizione dell’atto rappresenta una mera facoltà e non un obbligo. Gli effetti della trascrizione dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. sono due: • la separazione del patrimonio, in forza della quale solo i creditori che hanno pretese correlate ai beni vincolati li possono aggredire insieme ai loro frutti; • l’opponibilità del vincolo ai terzi in generale. In altri termini, con suddetto atto è possibile costituire un vincolo di destinazione su di una massa patrimoniale che, pur restando nella sfera del conferente, assume, per la durata stabilita, la connotazione di massa patrimoniale distinta e separata rispetto alla restante parte del suo patrimonio, proprio in virtù del vincolo di destinazione impresso e reso opponibile nei confronti dei terzi con l’esecuzione della formalità della trascrizione. La separazione (o segregazione) del patrimonio destinato è, peraltro, condizionata agli interessi cui è destinato l’atto, se meritevoli di tutela. Quest’ultimo requisito inerisce, infatti, alla causa negoziale e costituisce la contropartita del fatto che il vincolo apposto, da un lato, priva per un periodo anche molto lungo il conferente della pienezza delle facoltà insite nel diritto di proprietà, mentre dall’altro sottrae i beni oggetto del negozio alla garanzia generica rappresentata per i creditori dal patrimonio del disponente. Il requisito dell’interesse meritevole di tutela, di cui fa parola la norma in questione, è stato valutato in diversi modi in dottrina. Per taluni autori4 l’atto è trascrivibile solo allorquando esso persegua un interesse di pubblica utilità, mentre secondo altri5 il requisito del merito alla tutela è soddisfatto ogniqualvolta lo scopo perseguito sia lecito. Una tesi intermedia6, che riscuote i maggiori consensi, ritiene che, a fronte del sacrificio dei creditori derivante dalla separazione patrimoniale, non è sufficiente prevedere uno scopo meramente lecito ma è necessario che lo scopo non sia futile. Secondo quest’ultima tesi il controllo del meri3 Tribunale di Reggio Emilia, sentenza del 26 marzo 2007 cit. 4 Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, in Giust. civ., II, 2006, 165 ss. 5 Patti, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter cod. civ., in Vita not., III, 2006, 979. 6 De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., in Atti del Convegno “Atti Notarili di destinazione dei beni: art. 2645 ter c.c.”, Milano, 19 giugno 2006. 65 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 66 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 to di tutela non può prescindere dalla valutazione comparativa degli interessi che vengono sacrificati (in primis quelli dei creditori) e la finalità perseguita. Il giudizio sulla tutela cui si è fatto parola, di regola di esclusivo dominio dell’organo giudicante, quando non risulta da un provvedimento del magistrato, deve essere effettuato dal notaio che riceve l’atto pubblico di destinazione. Un’eventuale declaratoria di nullità dell’atto, potendo comportare per il notaio la sanzione prevista per l’art. 28 legge notarile, può indurre quest’ultimo a rifiutarsi di rogare un atto di destinazione formalmente lecito. A tal proposito, non appare condivisibile la posizione assunta da alcuni notai che si sono rifiutati di predisporre l’atto in parola a garanzia dell’adempimento del mantenimento dei figli naturali in seno a una famiglia di fatto, ritenendo applicabile la disciplina de qua ai soli accordi tra coniugi uniti in matrimonio e i loro figli. In nessuna parte della norma, infatti, si evince una siffatta limitazione. Nessuno potrà, infatti, negare la valenza di atto pubblico (utile alla trascrizione dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c.) degli accordi che disciplinano il mantenimento dei figli naturali riconosciuti in sede giudiziale o notarile o per testamento. La particolare difesa degli interessi è insita nella circostanza che detto vincolo è apposto a tutela dell’adempimento dell’obbligo alimentare dei genitori nei confronti di minori o maggiorenni non ancora autosufficienti economicamente. Gravemente discriminatoria è un’interpretazione che distingua tra figli naturali e figli legittimi. Con riferimento alla forma, la norma in esame prevede la possibilità di trascrivere unicamente gli atti di destinazione in forma pubblica. È una previsione che possiamo definire ad trascritionem; infatti, la mancanza della forma scritta non comporta la nullità dell’atto di destinazione, non essendo richiesta ad substantiam, bensì la sua non trascrivibilità e, conseguentemente, l’inopponibilità del vincolo. Sempre in relazione alla forma, si rileva che la mancanza di un riferimento alla forma testamentaria (diversamente da quanto avviene, ad esempio, in tema di fondo patrimoniale ai sensi dell’art. 167 c.c.), sembrerebbe precludere la possibilità di atti di destinazione mortis causa. Ciò nonostante, la dottrina maggioritaria7, che si è espressa sul punto, riconosce cittadinanza al negozio testamentario di destinazione, anche se taluni autori subordinano l’effetto dell’opponibilità del vincolo ai terzi al fatto che il testamento rivesta la forma dell’atto pubblico. Va da ultimo rilevato come il vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. si differenzi notevolmente del trust di matrice anglosassone. Invero, elemento centrale del trust è il programma, cioè l’attività necessaria per realizzare la finalità: il profilo dinamico e attivo della destinazione. Elemento centrale dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. è invece la mera attribuzione di funzione del bene allo scopo, ossia l’imposizione del vincolo: il profilo statico e passivo della destinazione. Ciò ha fatto sì che l’art. 2645 ter c.c. si sia prestato a non molte applicazioni pratiche. Tuttavia la norma in questione ha trovato un notevole sviluppo in un particolare ambito: si sta assistendo, negli accordi conclusi dai coniugi in crisi, a un ricorso sempre più frequente a pattuizioni che prevedono l’adempimento dell’obbligazione di mantenimento della prole in un’unica soluzione e, segnatamente, attribuendo ai figli un compendio immobiliare sul quale viene apposto un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. L’apposizione di detto vincolo risulta funzionale a sottrarre il cespite trasferito alla libera disponibilità del genitore collocatario e di impegnarlo al preminente interesse dei figli, attenuando nel contempo, come si è visto più volte, il rischio di espropriazione da parte dei creditori. L’orientamento della giurisprudenza maggioritaria, sia di merito che di legittimità8, è di dichiarare leciti e, per l’effetto, di omologare accordi tramite i quali i genitori prevedono l’adempimento dell’obbligazione di mantenimento della prole in un’unica soluzione, attribuendo ai figli beni immobili ovvero beni mobili fruttiferi; ciò purché tali accordi appaiano rispondenti all’interesse della prole. Un esempio paradigmatico del richiamato orientamento giurisprudenziale si ravvisa nella già citata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, riferita al caso di due coniugi separati, che congiunta7 De Donato, Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in Bianca, a cura di, La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, Milano, 2007, 42 ss. 8 Ex multis Cass. 17 giugno 2004, n. 11342. 66 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 67 FOCUS mente adivano il Tribunale per una modifica delle condizioni del verbale di separazione relative all’obbligo alimentare del padre. I coniugi chiedevano di sostituire l’obbligo di versamento periodico di una somma di denaro per il mantenimento dei figli minori da parte del padre con il trasferimento di più immobili fruttiferi in favore della madre collocataria. Si chiedeva, dunque, ritenersi assolto l’obbligo alimentare del padre attraverso i frutti degli immobili di proprietà dello stesso trasferiti alla ex coniuge. Il Tribunale di Reggio Emilia ha accolto l’istanza per la modifica consensuale delle condizioni della separazione e, per l’effetto, ha sostituito l’obbligo, gravante sul padre non collocatario, di versare un assegno mensile con il trasferimento di un immobile alla ex coniuge, ma a una ben articolata condizione e cioè che sugli immobili trasferiti venisse apposto un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. L’apposizione di tale vincolo, che consente di sottrarre i cespiti trasferiti alla libera disponibilità della madre collocataria, avrebbe infatti costituito, secondo il Tribunale, una maggiore garanzia per i minori a che i frutti di detti immobili venissero effettivamente impegnati al preminente interesse dei figli, principalmente al loro mantenimento. Invero, la richiesta di modifica presentata dai coniugi nel ricorso introduttivo non era stata esposta in questi termini: inizialmente, infatti, chiedevano semplicemente di sostituire l’obbligo del mantenimento gravante sul padre non collocatario, che avveniva con il pagamento di un assegno mensile, con il mero trasferimento alla madre collocataria di un compendio immobiliare, senza peraltro alcuna garanzia circa la destinazione del cespite e dei suoi frutti al mantenimento della prole. Il Collegio, ritenuta la richiesta di modifica presentata dai coniugi non rispondente all’interesse della prole, suggeriva di apporre sui beni da trasferire un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., lasciando intendere che, in caso contrario, la domanda non sarebbe stata accolta. I coniugi modificavano pertanto la domanda iniziale seguendo l’anzidetto suggerimento. Più precisamente, al negozio traslativo degli immobili – negozio sostitutivo delle condizioni di cui al verbale di separazione omologato – i coniugi hanno aggiunto le seguenti pattuizioni: “Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter c.c. la sig.ra (B) si obbliga [...] ad impegnare i frutti degli immobili per il mantenimento della prole sino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del più giovane dei figli; ai sensi e per gli effetti dell’art. 2645 ter c.c. la sig.ra (B) si impegna, altresì, a non alienare gli immobili [...] sino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del più giovane dei figli”. Nel provvedimento esaminato viene quindi affrontata e risolta la fondamentale questione: la salvaguardia dell’interesse della prole. A tale riguardo, il Tribunale si esprime in termini assolutamente positivi, in quanto “è assicurata ai figli – sino al raggiungimento della loro autosufficienza economica – una fonte di reddito” che, tra l’altro, non può essere aggredita dai creditori del coniuge affidatario. Rileva, inoltre, il Tribunale che, per la realizzazione degli interessi ai quali è preposto il vincolo, può agire, oltre al conferente, qualunque interessato (e, quindi, anche il pubblico ministero o un tutore o un curatore speciale): l’intestatario dei beni, ossia il coniuge collocatario, non potrà ovviamente essere completamente libero di godere e disporre dei cespiti. Al contrario sarà tenuto a salvaguardare l’esigenza di mantenimento della prole al di sopra di ogni suo qualunque interesse. Una volta previsto il vincolo di destinazione sull’atto pubblico (o all’interno di un provvedimento giudiziale omologato), al fine dell’effettiva conoscibilità dell’esistenza del vincolo di cui all’art. 2645 ter su uno o più determinati immobili, è necessario che ne venga data la pubblicità mediante la trascrizione dell’atto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari. Le modalità di attuazione della pubblicità immobiliare del vincolo in questione sono state chiarite dalla circolare n. 5/2006 emanata dall’Agenzia del Territorio che affronta nel dettaglio i profili applicativi in merito alla trascrivibilità dell’atto (pubblico), partendo dalla seguente considerazione: gli atti di destinazione in parola generano una peculiare situazione giuridica per cui, da un lato, il conferente, pur avendo vincolato un bene, ne resta nella titolarità giuridica e, dall’altro, i beneficiari, pur ricoprendo il ruolo di destinatari degli interessi meritevoli di tutela, non sono i destinatari di effetti traslativi o costitutivi di diritti reali. Atteso quanto precede, secondo la predetta circolare, l’esecuzione di una formalità di trascrizione deve essere redatta sulla base dei seguenti criteri: 67 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 68 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Quadro A, nel campo “Dati relativi alla convenzione”, va indicato il codice generico “100”, utilizzando la seguente descrizione: “Atto di destinazione per fini meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2645 ter c.c.”; Quadro C - Soggetti, va utilizzata la sola parte “contro”, con l’indicazione degli estremi anagrafici o dei dati identificativi del conferente, nonché della quota del diritto reale oggetto dell’atto di destinazione; Quadro D, vanno indicati gli elementi essenziali dell’atto di destinazione nonché i beneficiari degli atti con i relativi estremi anagrafici. In mancanza, poi, di indicazioni circa il regime della trascrivibilità delle vicende modificative-estintive del vincolo, nella circolare in questione si ritiene opportuno – a seguito della cessazione degli effetti giuridici del vincolo, per il decorso del termine di novant’anni o a causa della morte del beneficiario – informare i terzi della vicenda estintiva mediante una formalità di annotazione di “inefficacia”. Detta formalità viene preferita alla cancellazione, giacché quest’ultima comporterebbe l’estinzione giuridica della formalità principale (la trascrizione dell’atto di destinazione). Da ciò deriva che nei certificati ipotecari dovrà essere riportata non soltanto la formalità di annotazione dell’efficacia, ma anche la trascrizione dell’atto di destinazione, ossia la formalità principale. Con riferimento alla sua natura e alla sua trascrivibilità il verbale d’udienza – che contiene il negozio di trasferimento di diritti reali immobiliari ai quali si appone contestualmente un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter sui suoi frutti per il mantenimento della prole –, deve essere considerato alla stregua di un atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c. Detto verbale, inoltre, come rilevato dalla richiamata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, nonché da buona parte della giurisprudenza di legittimità, costituisce, previa omologazione dell’accordo, titolo idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari del negozio di trasferimento di diritti reali immobiliari ivi contenuto e ciò in forza di quanto stabilito dall’art. 2657, primo comma, c.c., secondo cui la trascrizione non si può eseguire se non in forza di sentenza, di atto pubblico ovvero di scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. Purtroppo non tutti i tribunali ritengono di accollarsi l’onere della trascrizione del verbale omologato, rimandando i coniugi al notaio che, munito della copia autentica del verbale di separazione omologato (o di altro provvedimento giudiziale), provvede a tutti gli adempimenti del caso. Lo stesso discorso vale per i provvedimenti giudiziali che prevedono il trasferimento immobiliare tra coniugi relativamente ai quali alcuni tribunali non intendono assumersi le responsabilità proprie dei pubblici ufficiali nel controllo in merito all’esistenza o meno di vincoli o pesi gravanti sugli immobili trasferiti che potrebbero essere forieri di liti e responsabilità per danni. Parimenti i cancellieri di alcuni tribunali non intendono assumersi responsabilità in merito alla tempestività della trascrizione del trasferimento che, se effettuata in ritardo, potrebbe pure comportare danni e conseguenti richieste di risarcimento. La riforma è ancora troppo recente per prevedere, nell’ambito degli atti trascrivibili, quali potranno essere le difficoltà che potrebbero sorgere una volta che si intendesse pubblicizzare una vicenda estintiva. Nulla quaestio, infatti, nel caso in cui il termine risolutivo fosse certo nel quando (raggiungimento della maggiore età, morte del beneficiario, novant’anni eccetera), ma quid juris se il termine apposto fosse incerto nel quando come quello indicato dalla sentenza esaminata del Tribunale di Reggio Emilia che prevede l’estinzione del vincolo “al raggiungimento dell’autonomia economica del figlio minore”? Chi stabilisce quando effettivamente si è avverato il termine estintivo in mancanza di accordo tra le parti? Sarà necessario altro provvedimento del giudice che ha omologato l’accordo? Oppure il notaio potrà raccogliere il consenso spontaneo del beneficiario e provvedere così all’annotamento dell’“inefficacia”? I problemi probabilmente nasceranno fra qualche anno, quando, soprattutto in sede di contenziosi familiari, il conferente (principalmente quando è l’obbligato alimentare) vorrà rientrare nella piena disponibilità dell’immobile destinato e si vedrà opporre il mancato raggiungimento della piena autonomia economica dall’altro coniuge o dal figlio stesso, magari già ultratrentenne. 68 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 69 FOCUS USUFRUTTO SUI BENI INTESTATI AI MINORI E AFFIDAMENTO CONDIVISO Marina Marino Avvocato del Foro di Roma Il tema dell’usufrutto sui beni intestati ai figli minori porta con sé notevoli problemi interpretativi che si sono ulteriormente complicati a seguito dell’applicazione della legge n. 54 del 2006. Preliminarmente è utile ricordare che, ai sensi dell’art. 324 c.c., non sono soggetti a usufrutto legale: • le pensioni di reversibilità da chiunque corrisposte; • i beni: a) acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro; b) lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione; c) lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la potestà, o uno di essi, non ne abbiano l’usufrutto (la condizione non ha tuttavia effetto per i beni spettanti al figlio a titolo di legittima); d) pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione, e accettati nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la potestà (se uno solo di essi era favorevole all’accettazione, l’usufrutto legale spetta esclusivamente a questi). Per quanto attiene agli aspetti fiscali relativi ai beni dei figli minori, non soggetti a usufrutto, va precisato che i redditi che derivano da tali beni devono essere dichiarati da uno dei genitori a nome di ciascun figlio; se la potestà è esercitata da uno solo dei genitori, la dichiarazione deve essere presentata da questi. Stante la specifica elencazione normativa dei beni dei minori non soggetti a usufrutto legale, ne discende che tutti gli altri beni intestati ai figli minorenni sono soggetti a usufrutto legale dei genitori. Lo stesso art. 324 c.c. stabilisce infatti che: “I genitori esercenti la potestà hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio”, e l’art. 327 c.c. precisa che: “Il genitore che esercita in modo esclusivo la potestà è il solo titolare dell’usufrutto legale”. L’esame della giurisprudenza ci permette di affermare che prima dell’entrata in vigore della legge n. 54 del 2006, nei casi di separazione o divorzio dei genitori, non sono sorti rilevanti problemi interpretativi, in quanto si riteneva pacifico che l’usufrutto spettava al coniuge affidatario dei figli minori. Successivamente all’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, poiché l’ipotesi ordinaria di affidamento dei figli minori è l’affidamento condiviso a entrambi i genitori, appare chiaro che, nell’ipotesi di esistenza di beni immobili di proprietà di un figlio minore, l’usufrutto sui medesimi spetterà a entrambi i genitori, con tutte le intuibili conseguenze che potranno prodursi nell’ipotesi di contrasto tra gli stessi e del conseguente pregiudizio che potrà derivarne al minore. Laddove non vi sia conflitto tra i genitori, gli stessi dovranno decidere come impiegare i frutti del bene di proprietà del minore, seguendo la regola dell’accordo; laddove però non vi sia accordo o i genitori siano separati o divorziati e i figli siano affidati in regime di affido condiviso, i genitori potranno chiedere al giudice di autorizzare la scelta proposta da uno dei due, oppure chiedere al 69 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 70 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 giudice di nominare un curatore che amministri i beni del minore, con il conseguente aumento di spese, a danno del minore, che questo comporta. Di certo la circostanza che due genitori trovino un accordo per attribuire ai figli posizioni giuridiche soggettive – che, essendo previste a diretto vantaggio della prole perché attribuite in adempimento di obblighi (artt. 30 della Cost. e 147 e 148 c.c.), individuano quali soggetti attivi solo ed esclusivamente i figli –, dovrebbe escludere che il genitore affidatario, e nel caso di affidamento condiviso i genitori, possa vantare diritti sui frutti del bene intestato al figlio. Infatti, laddove sia rispettato il principio della proporzionalità regolato dall’art. 148 c.c., non c’è motivo di pretendere il rimborso di spese effettuate nell’interesse del minore utilizzando i frutti percepiti. È ben vero che l’art. 324 c.c. prevede che i frutti percepiti siano destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione e educazione dei figli, ma non si deve dimenticare l’esistenza e, a giudizio di chi scrive, la prevalenza dei princìpi affermati dal legislatore negli articoli 147 e 148 c.c. Pertanto le spese straordinarie, e cioè quelle relative a cure mediche non coperte dal Servizio sanitario nazionale o quelle necessarie alla formazione culturale del minore e sportive, dovranno essere corrisposte dai genitori nel rispetto della medesima proporzionalità che si utilizza nella determinazione del contributo al mantenimento dei figli ex art. 148 c.c., sempre che queste spese siano effettivamente necessarie e consone alle possibilità economiche dei genitori. Si deve anche tenere presente che i genitori frequentemente concordano modalità alternative di contribuzione al mantenimento dei figli, prevedendo, anziché un assegno periodico, la corresponsione di un importo o la costituzione o traslazione di diritti reali su beni, a titolo di una tantum per i figli. Il principio cardine che regola l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli è quello contenuto nell’art. 148 c.c., che disciplina in maniera inderogabile sia l’aspetto della proporzionalità sia quello dell’interesse del minore. Spesso ci si è trovati di fronte alla domanda se sia o meno possibile determinare il contributo al mantenimento dei figli, da parte di un genitore, con la corresponsione una tantum, come quella prevista per il coniuge nel divorzio. Alcuni ritengono che tale ipotesi non sia in alcun modo percorribile, con la conseguenza che tale statuizione contenuta nell’accordo debba essere considerata tamquam non esset, altri invece la ritengono ammissibile. Deve essere chiarito che i genitori, all’atto della separazione, dovranno comunque avere piena consapevolezza che, contrariamente a quanto previsto per la corresponsione una tantum in favore del coniuge all’atto del divorzio, questa corresponsione non è liberatoria in quanto un assegno di contributo al mantenimento dei figli ben potrà essere nuovamente determinato, ove tale contribuzione una tantum non risponda più ai criteri di cui all’art.148 c.c. sovraindicati. In ordine all’ammissibilità o meno di detti accordi la giurisprudenza di merito è divisa e ha articolato opinioni anche assai difformi tra loro. In via preliminare va detto che queste contribuzioni hanno, usualmente, per oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali a favore dei figli minori. Una parte della giurisprudenza di merito esclude fermamente l’ammissibilità di questi accordi e il valore liberatorio degli stessi, e ciò in considerazione sia del silenzio della normativa in ordine alla possibilità di liquidare con il pagamento di una tantum l’obbligo al mantenimento dei figli, sia dell’indisponibilità del medesimo diritto. Da questa analisi non può che discendere la facoltà per il Tribunale di determinare, comunque, un assegno a titolo di contributo al mantenimento dei figli minori. Altre sentenze di merito ritengono invece ammissibili gli accordi tra i coniugi che prevedano la costituzione o la traslazione di diritti reali in capo ai figli e, quindi, riconoscono la validità della liquidazione una tantum dell’assegno in favore dei figli. Alcune di esse, come la sentenza della Corte d’Appello di Milano, si limitano ad affermare la liceità della liquidazione una tantum a mezzo del trasferimento di un diritto reale su di un bene (nel caso di specie era stata trasferita la nuda proprietà di un immobile al figlio e l’usufrutto sullo stesso alla madre affidataria) con il contemporaneo riconoscimento che, ove le situazioni si fossero modificate, il genitore affidatario avrebbe potuto chiedere la modifica delle condizioni della separazione con la determinazione di un assegno per il mantenimento del figlio, in aggiunta al trasferimento operato. Il Tribunale di Vercelli e la Cor- 70 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 71 FOCUS te d’Appello di Torino hanno qualificato l’accordo con il quale un coniuge, nell’ambito degli accordi di separazione, si impegna a trasferire la titolarità di un determinato bene immobile ai figli quale contratto a favore di terzi, con la conseguenza che, in caso di mancato trasferimento successivamente all’omologazione della separazione, la legittimazione ad agire per ottenere la sentenza costitutiva spetta ai terzi e cioè ai figli. Appare quindi chiaro che se il negozio traslativo o costitutivo dei diritti reali a favore dei figli, concluso dai coniugi all’atto della separazione consensuale, deve essere configurato come un negozio in favore di terzi, il figlio si trova a essere il terzo beneficiario. Accanto a questa giurisprudenza di merito vi è quella di legittimità che inquadra l’accordo relativo al trasferimento, o la costituzione di diritti reali su un immobile in favore dei figli, come accordo di diritto familiare e si rifiuta di inquadrarlo nello schema del contratto a favore di terzi di cui all’art. 1411 c.c. A questo riguardo la Cassazione con la sentenza n. 4277/78 ha negato che al figlio potesse essere riconosciuta la qualifica di terzo beneficiario ex art. 1411 c.c., poiché – rilevava la Corte – il figlio era parte del negozio medesimo e ciò deriva dall’inquadramento che la Corte faceva di questa situazione, definendola accordo o convenzione di diritto familiare sottratta alle regole generali del negozio giuridico. Successivamente, la Suprema Corte ha mutato opinione e ha ritenuto di inquadrare la questione sotto il profilo del contratto con obbligazioni del solo proponente di cui all’art. 1333 c.c., sostenendo: “Allorché taluno, in sede di separazione coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al mantenimento di una figlia minore, impegnandosi a tal fine a trasferirle nel prossimo futuro un determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto preliminare a favore di terzo. Quando poi, in esecuzione di detto obbligo, dichiara per iscritto di trasferire alla figlia tale bene, avvia il processo formativo di un negozio che, privo della connotazione dell’atto di liberalità, esula dalla donazione ma configura una proposta di contratto unilaterale, gratuito e atipico che, ai sensi dell’art. 1333 c.c., in mancanza di rifiuto del destinatario entro il termine adeguato alla natura dell’affare e stabilito dagli usi, determina la conclusione del contratto stesso e, quindi, l’irrevocabilità della proposta. A nulla rilevando che la volontà di accettazione non risulti da atto scritto, dovendosi ritenere assolto l’obbligo della forma attraverso le modalità con cui è stata formulata la proposta”. All’inizio degli anni Novanta, la Corte di Cassazione, in relazione all’accordo con il quale i coniugi pongono fine alla convivenza, ha affermato: “Esso può invero riguardare anche negozi che, pur trovando sede ed occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in questa, in quanto non sono direttamente collegati ai diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio: tali negozi pertanto non si configurano come convenzioni di famiglia, quali figure giuridiche distinte dai contratti e caratterizzate da un sostanziale parallelismo di interessi e volontà (v. in tal senso Cass. 1978 n. 4277), ma costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale. Come questa Suprema Corte ha frequentemente affermato (v. tra le altre, Cass. 1984 n. 3940), è diritto di ciascuno dei coniugi condizionare il proprio consenso alla separazione personale ad un soddisfacente assetto globale dei propri interessi economici, sempre che con tale composizione non si realizzi una lesione di diritti inderogabili. La sentenza impugnata ha configurato le obbligazioni assunte con la richiamata scrittura del 22 aprile 1977, ed in particolare quella con la quale la Greco si impegnava a trasferire al marito l’appartamento di via Trieste, come modalità del più ampio accordo transattivo raggiunto tra i coniugi nell’ambito della loro discrezionale ed autonoma determinazione, rivolto al fine di definire il giudizio di separazione promosso dal Coglitore con addebito alla moglie e di prevenire l’altro, che il medesimo si era riservato di promuovere in ordine alla proprietà della casa coniugale e del negozio gestito dalla Greco. La configurazione della fattispecie contrattuale delineata dalla Corte di merito appare immune da errori di diritto, tenuto conto che l’oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, ma alla oggettiva situazione di contrasto che esse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni (Cass. 1988 n. 3714); che le reciproche concessioni cui fa riferimento l’art. 1965 c.c. debbono intendersi rapportate alle posizioni assunte dalle parti stesse non solo nella lite in atto, ma anche in vista di controversie che possano insorgere tra loro e che esse intendano prevenire, ed in particolare vanno commisurate alle rispettive pretese e contestazioni concretamente formulate, e non ai diritti effettivamente spettanti in base alla legge (Cass. 1987 n. 71 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 72 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 4619); che infine il giudice, allo scopo di verificare la natura ed il contenuto transattivo dell’accordo, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell’intesa, anche se non richiamato nel documento, senza che ciò comporti violazione del principio della prova scritta (Cass. 1983 n. 3758; Cass. 1988 n. 3714, cit.). È peraltro noto che l’indagine compiuta dal giudice di merito al fine di stabilire l’oggetto, l’estensione ed i limiti della transazione inerisce ad un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione esente da vizi logici ed errori giuridici (Cass. 1981 n. 4612)”. In buona sostanza la Corte di Cassazione riconosce che al momento della separazione consensuale i coniugi possono raggiungere accordi che non trovano causa nella separazione medesima e che possono quindi avere natura negoziale; pertanto a detti accordi andranno applicate le regole generali del negozio giuridico. Questo tipo di accordi è ritenuto ammissibile dal momento che con gli stessi si disciplinano gli aspetti economici della separazione e gli stessi possono far parte del contenuto del verbale di separazione. Dal punto di vista dei requisiti formali l’accordo, in quanto inserito nel verbale di udienza – redatto da un ausiliario del giudice a norma dell’art. 126 c.p.c. e diretto a far fede di ciò che in esso è attestato –, deve ritenersi che assuma la forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2699 c.c., costituendo, a seguito dell’omologazione, titolo per la trascrizione, ai sensi dell’art. 2657 c.c. La Cassazione, con la sentenza del 15 maggio 1997, n. 4306, ha affermato che il trasferimento di diritti reali, dal momento che si riconnette alla convenzione diretta a regolare il regime della separazione (essendone parte), ne segue validamente la forma, senza che si possa distinguere fra trasferimenti onerosi o gratuiti. Tale distinzione, infatti, assume rilievo in quella sede sotto il profilo formale, essendo l’atto disciplinato, in via esclusiva dalla normativa speciale dell’art. 126 c.p.c. Nella prassi, molti Tribunali di merito hanno accolto tale soluzione e significativa al riguardo è la sentenza del Tribunale di Cagliari1: “Il Tribunale, nel recepire la volontà dei coniugi di compiere un trasferimento immobiliare in seno al verbale di separazione consensuale, svolge funzione analoga a quella dell’ufficiale rogante; è perciò nullo il trasferimento se dal predetto verbale non risultino gli estremi della licenza edilizia o della concessione in sanatoria, o la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante la preesistenza dell’opera al giorno 1 settembre 1967, o ancora se non sia allegata copia della domanda di sanatoria munita degli allegati. 2 ottobre 2000”. Altra parte della giurisprudenza solleva obiezioni che attengono ai controlli formali, normativamente previsti, nel caso di atti che abbiano per oggetto diritti reali. In particolare, si osserva che il giudice che riceve le dichiarazioni delle parti relative a un trasferimento immobiliare in sede di separazione consensuale o di divorzio congiunto, si limiterà a verificare che i coniugi effettuino le dichiarazioni di conformità urbanistica dell’immobile previste dall’art. 40 della legge n. 47/85 o, nell’ipotesi che si tratti di un trasferimento di terreni, richiederà il deposito del certificato di destinazione urbanistica di cui all’art. 18 della stessa legge, adempimenti dovuti a pena di nullità dell’atto di trasferimento. Conseguentemente, coloro che sostengono tale indirizzo ritengono che il giudice debba limitarsi a dare atto della volontà delle parti di effettuare il trasferimento immobiliare indicato nel verbale, al quale potrà essere riconosciuta natura di contratto preliminare di vendita, ma nessun controllo sulla validità dell’atto è richiesto. Ciò in quanto non essendo il trasferimento immobiliare parte del contenuto necessario della separazione, non sarebbe compito del Tribunale vagliarne la validità. In relazione alle problematiche che tutto questo comporta è bene osservare come, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 23 legge n. 229/2003 che ha disposto l’abrogazione dei commi 13 ter, 13 quater, 13 quinquies dell’art. 3 d.l. n. 90/90, non sia più prevista, a pena di nullità, la dichiarazione di parte di inserimento dell’immobile nella denuncia dei redditi e che la situazione sia tale per cui la scelta migliore sia quella di stipulare, prima della comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente per la sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, un atto di compravendita con- 1 Tribunale di Cagliari, sentenza pubblicata in Riv. Giur. Sarda 2001, 785. 72 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 73 FOCUS dizionato alla sottoscrizione del verbale di separazione alle condizioni contenute nel ricorso. Tale soluzione garantisce entrambe le parti; evita che si debba avviare un giudizio che tenga luogo dell’atto di trasferimento che eventualmente si renda necessario per il rifiuto a stipulare da parte di colui che si era impegnato a trasferire la proprietà dell’immobile; evita i pericoli connessi al tempo non breve intercorrente tra la sottoscrizione del verbale, l’omologazione, il rilascio delle copie e la trascrizione. Evita, cioè, che nel frattempo il coniuge possa trasferire a terzi la proprietà dell’immobile con atto notarile che verrebbe a essere trascritto certamente prima del verbale di separazione. Ormai, assai più che in passato, la giurisprudenza riconosce la legittimità del trasferimento di proprietà di un bene immobile in capo a un figlio minore, in quanto soggetto di diritto autonomo, laddove questo trasferimento abbia come scopo quello dell’adempimento degli obblighi ex artt. 147 e 148 c.c. da parte di quel genitore, con conseguente estinzione, totale o parziale, dei sovra richiamati obblighi. Per tutti quei casi in cui l’intestazione di un bene immobile affittato, di titoli di Stato, di un pacchetto azionario o di fondi di investimento al figlio minore venga scelta dai genitori come una tantum dell’assegno di mantenimento per i figli (ad esempio in tutti quei casi in cui questa scelta risulti essere di maggiore tutela per il figlio rispetto alla corresponsione di un assegno mensile, in considerazione delle problematiche relative all’esecuzione futura dell’obbligo di mantenimento, che potrebbe essere così improbabile da mettere a rischio il diritto del figlio a essere mantenuto, o perché detto assegno è stato determinato sulla scorta del reddito che appare e sarebbe assai difficile la dimostrazione del reddito reale), sarà utile, se non necessario, nel caso di affidamento condiviso, prevedere nello specifico la rinuncia del genitore che trasferisce detto bene all’usufrutto su di esso onde evitare che l’autore del trasferimento possa tentare di avvantaggiarsene, con il pericolo che il rischio, che si è evitato con il trasferimento, torni a ripresentarsi sotto altra forma. Sentenza interessante è quella del Tribunale di Salerno del 4 luglio 2006 che, in tema di reclamo ex art. 2674 bis c.c. e 113 ter disp. att. c.c. contro la trascrizione con riserva, affronta gli argomenti più importanti in materia: quello della natura degli atti di trasferimento di questo tipo, quello della compatibilità degli stessi con la struttura del contratto a favore del terzo, quello del contenuto necessario o meno degli accordi di separazione e della possibilità che al verbale di separazione venga riconosciuto di essere titolo valido alla trascrizione. Il problema dell’usufrutto si pone anche al momento dello scioglimento della comunione legale: in forza dell’art. 194, II comma c.c., il giudice, cioè il Tribunale per i Minorenni, su ricorso del coniuge affidatario, può costituire a favore di quest’ultimo l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge in conseguenza dello scioglimento della comunione. In considerazione del carattere pubblico del bene che questa norma intende tutelare, non sono validi accordi che escludano la possibilità di farvi ricorso e il Tribunale per i Minorenni, quando i coniugi applicano concordemente l’art. 194, II comma e, quindi, costituiscono l’usufrutto su una parte dei beni dell’obbligato, ben potrà rideterminare la quota ove la medesima non venisse ritenuta adeguata alla tutela dei minori. Questa normativa che, per molto tempo ha tutelato i diritti dei minori a non vedersi privati della possibilità di continuare a vivere nella casa dove erano sempre vissuti e che negli anni ha garantito loro la possibilità di vedere soddisfatti i diritti di credito eventualmente maturati a seguito dell’inadempimento di uno dei genitori, con la legge sull’affidamento condiviso perde parte della propria peculiarità, dal momento che si pongono non pochi problemi, soprattutto di carattere processuale, ai quali fino a ora non sono state date risposte dalla giurisprudenza. Nell’ipotesi in cui un immobile è di proprietà comune dei coniugi affidatari in via condivisa dei figli minori e il coniuge, che non vive nella casa, decida di voler sciogliere la comunione su detto bene e procedere, di conseguenza, alla vendita del medesimo, è legittimo chiedersi chi abbia la legittimazione attiva a proporre al Tribunale per i Minorenni, competente per territorio, la richiesta di costituzione di un usufrutto in favore del figlio e, in modo particolare, se sia necessario procedere alla nomina di un curatore in considerazione dell’evidente conflitto di interessi, quantomeno rispetto al genitore che intende procedere allo scioglimento della comunione e alla conseguente divisione del bene comune. Vi sono infine delle notazioni di carattere fiscale relative a detti trasferimenti. La Cassazione, con 73 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 74 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 la pronuncia del 30 maggio 2005, n. 11458, ha ritenuto, per quello che attiene ai casi di trasferimento di immobili effettuati come adempimento di accordi determinati e assunti in sede di separazione personale dei coniugi, che nel caso di un trasferimento gratuito da parte del padre separato alle figlie della propria quota di proprietà della casa di abitazione, in ottemperanza a un’obbligazione assunta in sede di separazione consensuale, si dovesse applicare non la normativa generale sugli atti di trasferimento di beni immobili tra coniugi o tra parenti in linea retta, ma la normativa speciale sugli atti esecutivi di atti di separazione personale tra coniugi di cui all’art. 19, legge 6 marzo 1987, n. 74. Di opinione difforme è l’Agenzia delle Entrate che in una propria risoluzione (Risoluzione 151/E del 19 ottobre 20052) esclude dal beneficio, di cui all’art. 19 l.div., la cessione di una quota di un immobile al figlio della coppia all’interno di un procedimento di divorzio, perché tale cessione “non sembra trovare causa giuridica nella sistemazione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi al momento dello scioglimento del matrimonio, bensì in un intento di liberalità nei confronti di un soggetto terzo (nella fattispecie uno dei figli), circostanza che non appare strettamente e funzionalmente collegata con lo scioglimento del matrimonio e che, peraltro, avrebbe potuto essere realizzata in qualunque momento”. Questa interpretazione dell’Agenzia delle Entrate non convince affatto, dal momento che detti trasferimenti non hanno una causa di liberalità all’origine, ma sono trasferimenti in adempimento agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c. e, quindi, sono chiaramente atti relativi ai procedimenti di separazione o divorzio e quindi con esenzione fiscale. Per i trasferimenti che riguardano i figli nati fuori dal matrimonio, si deve considerare che la Corte Costituzionale3 ha così deciso: “Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, lettera b), della Tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 cod. civ. nell’ambito dei rapporti fra genitori e figli”. La Corte Costituzionale è pervenuta a tale decisione ritenendo “irragionevole e non conforme all’art. 3 della Costituzione” la non estensione ai provvedimenti ex art. 148 c.c., per la determinazione del contributo al mantenimento del figlio naturale, dell’esenzione tributaria prevista per gli atti relativi ai giudizi di separazione e divorzio estesa anche ai provvedimenti relativi ai figli. La Corte Costituzionale ha altresì affermato che la mancanza di un rapporto di coniugio tra i genitori non giustifica la disparità di trattamento tributario del provvedimento di condanna che comporterebbe un trattamento deteriore nei confronti dei figli naturali rispetto a quelli legittimi. Di conseguenza il principio dell’esenzione tributaria deve essere esteso anche ai trasferimenti operati dal genitore naturale a favore del figlio, in adempimento all’obbligo di contribuire al mantenimento dello stesso, se non si vuole ricreare un’ulteriore disparità di trattamento in violazione degli artt. 3 e 30 della Costituzione. 2 Il testo è disponibile all’indirizzo http://www.professionisti24.ilsole24ore.com/AreaProfessionisti/Diritto/agenzia_delle_entrate%20154_05.htm?cmd=art&codid=20.0.1556497669 3 Corte Cost. 11 giugno 2003, n. 202, in Dir. fam. pers., 2003, 323. 74 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 75 FOCUS INADEMPIMENTO DEL MANTENIMENTO PER I FIGLI E RITIRO O MANCATA CONCESSIONE DEL PASSAPORTO: L’INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE Andrea Oliva Giudice tutelare presso il Tribunale di Roma Non v’è dubbio che il giudice tutelare non abbia competenza in materia di recupero delle somme di denaro che il genitore separato (o divorziato o naturale non più convivente) non abbia corrisposto all’altro genitore a titolo di mantenimento dei figli, ovvero quale contributo alle spese straordinarie resesi necessarie per questi ultimi. Ciò, tuttavia, non significa che il giudice tutelare non possa affrontare questo argomento con le parti in contraddittorio tra di loro e che da quella sede impropria non possa scaturire persino un verbale di composizione bonaria di tutte le pendenze economiche fino a quel momento accumulatesi per effetto della violazione di quanto statuito dal Tribunale (nella pratica, ad esempio, non è infrequente un accordo in forza del quale il genitore inadempiente si impegni a estinguere il suo debito complessivo in forma rateale e, dunque, secondo una ben precisa tempistica). Quando, poi, questa tipologia di genitori litiga dinanzi al giudice tutelare in quanto uno di essi ha negato all’altro il consenso al rilascio del passaporto oppure ha revocato (anche ad nutum) il consenso già espresso dinanzi all’autorità di Polizia (così determinando l’automatico ritiro di tutti i documenti validi per l’espatrio intestati alla controparte), il tema dell’inadempimento alle predette obbligazioni pecuniarie può assumere un’importanza del tutto particolare, a volte decisiva. Il dato normativo di riferimento in materia è costituito dall’art. 12, secondo comma, della legge 21 novembre 1967, n. 1185 e successive modifiche (d’ora in poi, semplicemente art. 12), nella parte in cui recita: “Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari [...] che riguardino i discendenti di età minore...”. Già a una prima lettura risulta evidente che questa ipotesi di soppressione della libertà riconosciuta dall’art. 16, secondo comma, Cost. (“ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”) trova il suo fondamento – e non potrebbe essere diversamente – in un’altra disposizione di medesimo rango, e precisamente nell’art. 30, primo comma, Cost., laddove si dichiara che “è dovere (oltre che diritto) dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. Il legislatore, in altri termini, nel soppesare le due posizioni (quella di chi avanza la pretesa di poter continuare a viaggiare liberamente all’estero e quella di chi invece richiede che questa facoltà sia subordinata al corretto adempimento degli obblighi economici di mantenimento e/o all’adozione di tutte le relative garanzie), ritiene che – in linea di principio e fatte salve alcune eccezioni che esamineremo in seguito – sia la seconda a dover prevalere. Viene dunque adottata una sorta di “scala di valori” nell’ambito della quale il denaro a disposizione deve essere impiegato secondo un ben preciso ordine di priorità: in primis, per il mantenimento dei soggetti a proprio carico e, solo in un secondo momento, per l’effettuazione di viaggi al di fuori dell’Italia. A conferma di ciò, d’altra parte, non va dimenticato che la violazione dei cosiddetti “obblighi di assistenza familiare” (ivi compresi quelli rilevanti in questa sede) è opportunamente prevista e punita come reato dalla norma incriminatrice speciale dell’art. 570 c.p. 75 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 76 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Essendo questa la ratio di fondo della disciplina specialistica in esame, va da sé che il collegato procedimento dinanzi al giudice tutelare ne risulti fortemente condizionato sotto molteplici aspetti, a cominciare da quello dell’effettivo ambito di utilizzabilità dell’art. 12. Un’interpretazione rispettosa dell’art. 3 Cost., infatti, deve necessariamente far ritenere che questa norma ordinaria, malgrado faccia esplicito riferimento al solo caso di chi si trovi già all’estero, possa e debba trovare applicazione anche a chi sia ancora presente sul territorio nazionale e risulti non avere adempiuto agli obblighi di mantenimento verso i figli. Per mera completezza, si può comunque precisare che una differenza tra le due fattispecie pur sempre esiste, ma attiene all’eseguibilità dell’ordine di ritiro del passaporto. In particolare, nel caso di persona presente in Italia, detto ritiro può essere portato a compimento in tempi rapidissimi; nel caso invece di persona che si trovi già all’estero, la stessa può vedersi ritirato il passaporto solo in occasione del rientro in Italia, con la conseguenza che almeno fino ad allora permarrà sicuramente in essere l’illecita condotta di sottrazione agli obblighi economici verso la prole. Una volta che sia stato depositato il ricorso finalizzato a ottenere l’autorizzazione al rilascio del passaporto, il giudice tutelare emette il decreto di comparizione e, in genere, pone la convocazione della controparte a carico del soggetto ricorrente. Nella circostanza, si badi, può essere utile avvisare il destinatario che, in caso di sua assenza ingiustificata, la stessa potrà essere ritenuta equivalente al rilascio del consenso richiesto. Poiché, infatti, accade spesso che il diniego di consenso al rilascio del passaporto sia solo il frutto di un banale dispetto tra persone ancora in litigio, può valere la pena di ricordare che se non vi è nulla di veramente importante da riferire al magistrato, è meglio non presentarsi, facilitando così la definizione del procedimento. Di fatto, con un simile stratagemma (non saprei come altro definirlo...), in molti casi la parte convocata non compare e tutto si riduce a una rapida verifica della regolarità e tempestività della notifica. Se viceversa la controparte si presenta per assumere le vesti di parte resistente, le dichiarazioni che in prima udienza saranno rilasciate dagli interessati potrebbero perfino determinare l’avvio di un vero e proprio procedimento camerale contenzioso caratterizzato dalla concessione del doppio termine (quello per note e documenti e quello per eventuali repliche). Si immagini, a titolo di ipotesi, che il diniego del consenso al rilascio del passaporto (o il ritiro del passaporto direttamente ottenuto con istanza al Commissariato di P.S.) sia stato motivato proprio da un inadempimento del soggetto ricorrente agli obblighi economici che ha verso i propri figli. In tal caso, qualora non sia altresì esibita la copia autentica di una sentenza di condanna ai sensi del già citato art. 570 c.p. (sentenza che, evidentemente, tronca sul nascere il contraddittorio), il giudice tutelare è tenuto a verificare se la doglianza abbia un fondamento oppure no. L’istruttoria inizia sempre con le medesime domande. Il magistrato le rivolge al ricorrente e sono più o meno del seguente tenore: “È vero quanto afferma la parte resistente? e se lo è, sulla base di quali contromotivazioni lei ritiene che il passaporto le debba essere rilasciato o resituito?”. Generalmente, quando non si limita a mascherare la propria totale inadempienza dietro la formulazione di vere e proprie petizioni di principio (del tipo: “Viviamo in un Paese democratico, mi sento una persona libera, non vedo perché mi si debba impedire di andare all’estero”), il ricorrente propone sempre una risposta abbastanza articolata, che apre la strada al vero e proprio contraddittorio. In questa sede, per evidenti ragioni, non è possibile effettuare una rassegna completa di tutte le molteplici varianti del caso. Ci limiteremo pertanto a segnalare soltanto le ipotesi più frequenti e interessanti, per poi verificare attraverso quale iter il giudice pervenga alla sua decisione e quali contenuti essa possa avere. L’esperienza quotidiana consente di affermare che di solito il ricorrente propone due tipi di repliche, entrambe potenzialmente idonee a fargli conseguire il passaporto. La prima – di gran lunga più utilizzata – consiste nel contestare l’addebito, evidenziando che il mantenimento è stato, sì, versato solo in parte, ma che ciò è stato dovuto esclusivamente alle limitate possibilità economiche del momento (per intenderci, in sede penale questa stessa linea difensiva punterebbe tutto sulla mancanza del dolo, cioè dell’elemento soggettivo del reato ex art. 570 c.p.). La seconda, invece, può essere prospettata finanche in caso di totale inadempienza agli obblighi di mantenimento dei figli e consiste nel sottolineare che il passaporto serve al richiedente: 76 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 77 FOCUS a) per ragioni di salute (“Sono gravemente malato e devo ricevere cure specifiche che solo in quel determinato Paese sono in grado di somministrarmi”) oppure b) per motivi di lavoro (“Sono stato licenziato e ora mi sto rivolgendo anche al mercato estero: dunque, se non mi sarà data la possibilità di viaggiare fuori dell’Italia, non potrò riprendere a lavorare e a guadagnare e, di conseguenza, non potrò neanche ricominciare a versare il mantenimento per i miei figli”). Di fronte a queste controdeduzioni, l’errore che il giudice tutelare deve evitare a tutti i costi è di lasciare che il procedimento si trasformi in una vera e propria anticipazione di un possibile giudizio per la modifica delle condizioni stabilite dal Tribunale. Naturalmente questo non vuol dire che gli elementi che emergeranno non potranno essere utilizzati in futuro anche dinanzi al Collegio, ma significa semplicemente che nel contesto in esame dovranno essere acquisiti soltanto dati utili alla definizione del ricorso per l’ottenimento del passaporto. E, come vedremo, anche in sede di decisione il magistrato potrà emettere provvedimenti che mirino non tanto a penalizzare tout court l’una o l’altra parte, quanto piuttosto a permettere nel tempo la ricomposizione complessiva della vicenda. Gli elementi di prova di cui il giudice tutelare chiede (anche d’ufficio) l’acquisizione sono sempre e soltanto di tipo documentale. In particolare, rispetto alle fattispecie sopra riportate alle lettere a e b si potrà trattare di uno o più dei seguenti documenti: 1) le prove dei versamenti eseguiti per il mantenimento dei figli (ricevute rilasciate dalla controparte oppure estratti di conto corrente da cui risultino i bonifici mensili e le relative causali); 2) le dichiarazioni dei redditi del ricorrente e/o le certificazioni ISEE che lo riguardano; 3) la documentazione medica originale attestante la patologia di cui soffre il ricorrente, le cure di cui la stessa necessita e gli effettivi contatti (e-mail, fax, lettere) con la struttura ospedaliera straniera che dovrebbe prendere in carico il paziente; 4) infine, sempre in originale, la lettera di licenziamento pervenuta al ricorrente, il suo attuale stato di disoccupazione e le eventuali offerte di lavoro pervenutegli dall’estero (con l’indicazione dettagliata delle mansioni che andrebbe a ricoprire, del termine di durata del contratto e della retribuzione lorda che sarebbe corrisposta). In genere, dati gli interessi in gioco e considerato che anche la parte resistente potrebbe avere fin da subito qualcosa da controbattere (per esempio sul comportamento che il ricorrente abbia già tenuto in passato oppure sulle reali condizioni economiche di quest’ultimo oppure sul fatto che in realtà il ricorrente si stia solo preparando a un trasferimento definitivo all’estero, essendosi già liberato di tutti i suoi beni in Italia), è pressoché inevitabile che il magistrato debba concedere il già accennato doppio termine (per note e documenti e per eventuali repliche). Questo tempo, tuttavia, quantunque ristretto (in genere, non si supera mai il mese e mezzo), potrebbe rivelarsi molto utile anche per lo svolgimento di trattative stragiudiziali tra le parti, che potrebbero infine sfociare in un ben preciso accordo complessivo (con tanto di annesse garanzie) che poi sarebbe formalizzato dinanzi al magistrato. Qualora, invece, non si riesca a raggiungere una composizione bonaria della vicenda, spetterà al giudice tutelare prendere la decisione (poi reclamabile, entro dieci giorni, dinanzi al Tribunale per i Minorenni, in base all’art. 45, secondo comma, disp. att. c.c.). Come anticipato, ove possibile, il magistrato non dovrebbe soltanto pensare a distribuire torti e ragioni (ciò che spesso lascia aperta la porta a futuri contrasti sul medesimo punto), ma dovrebbe viceversa calibrare il provvedimento sulle caratteristiche del caso di specie, cercando di contemperare le rispettive esigenze e, soprattutto, puntando a una soluzione che, entro un tempo determinato, consenta il totale ripianamento del debito accumulato. In quest’ottica, un notevole ausilio è offerto dall’estrema elasticità del termine di durata dei passaporti. Mentre infatti la carta d’identità (sia essa valida per l’espatrio oppure no) deve avere sempre la durata prestabilita dalla legge (dieci anni, per l’esattezza), nel caso del passaporto, invece, il termine di validità non deve necessariamente coincidere con quello massimo consentito (ancora una 77 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 78 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 volta dieci anni), ma può anche essere appositamente ridotto (e in misura pure considerevole, per esempio a un solo anno). Il giudice tutelare, pertanto, qualora al termine dell’istruttoria dovesse rendersi conto che la situazione non propende decisamente per l’una o per l’altra parte, ma risulta viceversa sostanzialmente suddivisa – qualora cioè dovesse formarsi la convinzione che la doglianza di parte resistente è fondata, ma che il passaporto non rappresenta per il ricorrente un semplice mezzo di svago (cioè, il mezzo per effettuare viaggi meramente turistici), bensì costituisce anche e prima di tutto uno strumento indispensabile per uscire da una situazione economica e/o personale difficile –, potrebbe sicuramente adottare una decisione, per così dire, interlocutoria, caratterizzata dai seguenti punti cardine: 1) congrua limitazione del termine di validità del passaporto da rilasciare o da restituire al ricorrente (un anno o due al massimo: dipende anche da quale durata minima sia necessaria per l’ingresso nel Paese straniero de quo); 2) previsione del prolungamento di detto termine di validità, ma a condizione che vengano tempestivamente rispettati determinati impegni (per esempio il fatto che il ricorrente, avendo ricominciato a lavorare all’estero, riprenda automaticamente a versare il mantenimento per i figli, magari anche con un quid pluris al fine di avviare il ripianamento del debito pregresso); 3) infine, fissazione di un’udienza di rinvio (in epoca di poco anteriore alla scadenza del passaporto temporaneo), al fine di verificare se e quali mutamenti vi siano stati nel frattempo e se gli stessi permettono di considerare soddisfatta la condizione di cui al punto 2 (naturalmente, nulla esclude che in tale occasione le parti possano chiedere di verbalizzare un accordo che fino a quel momento non erano stati in grado di raggiungere e che ponga davvero la parola fine alla lite). In conclusione, dunque, si può dire che, sia pur in misura ridotta, anche il giudice tutelare sia posto dall’ordinamento giuridico in condizione di intervenire fattivamente su talune vertenze economiche tra genitori lato sensu separati. A questo magistrato monocratico spetterà il compito di non invadere le competenze collegiali e, nell’ambito della cornice costruita dal legislatore, di usare anche quel pizzico di pragmatismo e di buon senso che sono sempre ingredienti indispensabili quando si tratta di ricomporre liti di tipo familiare. 78 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 79 FOCUS ALCUNE QUESTIONI FISCALI IN TEMA DI DIRITTO DI FAMIGLIA Valentina Sarnari Dottore commercialista e revisore legale in Roma 1. Premessa Nel nostro ordinamento, il diritto tributario non prevede una disciplina specifica delle imposte dovute dai coniugi intesi come unico soggetto passivo d’imposta. Infatti, le imposte sui redditi hanno carattere personale e sono dovute da ciascun coniuge in ragione del reddito prodotto e prescindendo dai vincoli familiari con un altro soggetto. Il reddito prodotto e percepito da ciascun coniuge ha, pertanto, una propria autonomia fiscale e deve imputarsi in capo a ciascuno per intero e separatamente. Fatte queste ordinarie premesse di carattere generale, non si può certo non tener conto che il reddito complessivo dei coniugi, intesi quale unico nucleo familiare, può essere, però, influenzato dall’esistenza di un fondo patrimoniale1 o anche dall’usufrutto legale su beni di figli minori2. Così come non si deve trascurare che per quanto riguarda l’azienda, costituita prima o dopo il matrimonio e gestita da uno solo o da entrambi coniugi, il codice civile prevede una disciplina specifica e autonoma3. Nella pratica professionale accade comunemente di dover determinare l’imposta dovuta da contribuenti che erogano, o percepiscono, un assegno di mantenimento a seguito della dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, oppure valutare in che misura il diritto ad avvalersi delle detrazioni di imposta per figli a carico, in quanto totalmente o parzialmente affidatari degli stessi, incida sull’imposta netta dovuta. Accade altrettanto frequentemente di essere chiamati a coordinarsi con il legale del giudizio di separazione/divorzio per la determinazione dell’assegno di mantenimento, spiegando così un intervento a monte del processo decisionale che porta alla richiesta di un assegno di mantenimento di un determinato e specifico ammontare. Da questo punto di vista, pertanto, senza alcuna presunzione di esaustività e completezza, ma so- 1 Il fondo patrimoniale è costituito da tutti i beni immobili e immobili che uno, entrambi i coniugi o un terzo, finalizzano specificatamente per far fronte ai bisogni della famiglia. L’articolo 4, comma 1, d.p.r. n. 917/1986, statuisce che i redditi derivanti dai beni costituenti il fondo patrimoniale sono imputati, per metà del loro ammontare netto, a ciascun coniuge. 2 Per i redditi derivanti dai beni appartenenti ai figli minori, non emancipati, si deve distinguere se i beni ricadono o meno nell’usufrutto legale dei genitori. I redditi dei beni soggetti a usufrutto legale sono imputati a ciascun genitore per metà del loro ammontare netto. I redditi dei beni che non ricadono nell’usufrutto legale dei genitori vengono ricondotti direttamente al minore in qualità di autonomo soggetto d’imposta. 3 Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 4, comma 1, d.p.r. n. 917/1986, si distinguono tre categorie di azienda tra coniugi in comunione: 1) azienda costituita prima del matrimonio da uno solo dei coniugi, anche se entrambi la gestiscono; 2) azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da un solo coniuge, mentre l’altro si limita a una semplice collaborazione senza assunzione di responsabilità verso terzi; 3) azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi, ovvero in comunione legale dei coniugi (si tratta della cosiddetta azienda coniugale). 79 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 80 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 lo con l’intento di fornire alcuni spunti di riflessione su problematiche di carattere ricorrente, si procede a trattare le questioni di natura fiscale che hanno maggior interesse e un impatto diretto nei giudizi di separazione e divorzio e che non possono, pertanto, rimanere sconosciute anche a chi non è un operatore del diritto tributario. In quest’ottica, dunque, non si può prescindere da alcuni concetti e definizioni. 2. Il reddito tassabile Il primo concetto e assunto, che a giudizio della scrivente è fondamentale, è che nel nostro ordinamento non c’è una specifica definizione di cosa debba intendersi per reddito tassabile, quanto piuttosto un’elencazione di categorie di reddito e delle rispettive regole di tassazione4. Il reddito complessivo imputabile a un determinato soggetto non è altro, pertanto, che la somma algebrica (+/-) di uno o più redditi dallo stesso percepiti/prodotti dallo stesso in un determinato periodo di imposta5, secondo il principio della annualità dell’obbligazione tributaria6. Le categorie di reddito sono: 1. redditi fondiari, disciplinati dagli articoli dal 25 al 43 del d.p.r. n. 917/1986; 2. redditi di capitale, disciplinati dagli articoli dal 44 al 48 del d.p.r. n. 917/1986; 3. redditi di lavoro dipendente, disciplinati dagli articoli dal 49 al 52 del d.p.r. n. 917/1986; 4. redditi di lavoro autonomo, disciplinati dagli articoli 53 e 54 del d.p.r. n. 917/1986; 5. redditi d’impresa, disciplinati dagli articoli dal 55 al 66 del d.p.r. n. 917/1986; 6. redditi diversi, disciplinati dagli articoli dal 67 al 71 del d.p.r. n. 917/1986. I redditi di partecipazione in società di persone e assimilate non costituiscono un’autonoma categoria di reddito anche se hanno una disciplina tipica e particolare, prevista dall’articolo 5 del d.p.r. n. 917/1986. 3. Le modalità di determinazione dell’imposta/del reddito netto Per determinare l’imposta dovuta ovvero, ai fini che qui forse maggiormente interessano, il reddito netto complessivamente percepito da un determinato soggetto, occorre seguire una serie di specifici passaggi: 1. determinare il reddito complessivo lordo, che è dato dalla somma algebrica dei redditi imponibili netti di ciascuna categoria, calcolati e definiti ciascuno sulla base delle regole sue proprie e specifiche. La determinazione del reddito derivante da ciascuna categoria è un passaggio essenziale per calcolare il reddito complessivo di ciascun contribuente. Infatti, ai sensi dell’articolo 9 del d.p.r. n. 917/1986, a ogni categoria di reddito preside una diversa regola di determinazione, così come redditi appartenenti a un’unica categoria devono essere determinati unitariamente7; 2. determinare gli oneri deducibili (si dirà nel seguito di cosa si tratta e della differenza con gli 4 Articolo 6 del d.p.r. n. 917/1986. 5 Per le persone fisiche e le società di persone, il periodo d’imposta coincide sempre con l’anno solare, mentre per le società di capitale il periodo di imposta può essere anche a cavallo di due anni solari (i.e. 1 luglio - 30 giugno dell’anno successivo). 6 Articolo 7, comma 1, d.p.r. n. 917/1986. Invero questo principio presenta due eccezioni: una in sede di perdite riportabili da anni precedenti, l’altra in sede di pagamento dell’imposta dovuta, considerata la possibilità di compensare i crediti d’imposta dell’anno precedente con i debiti dell’anno in corso. 7 Ad esempio un contribuente può essere proprietario di più beni immobili, diversamente utilizzati, ma avrà un unico reddito fondiario che li comprenderà tutti. 80 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 81 FOCUS oneri detraibili) per i quali il contribuente ha diritto a una corrispondente diminuzione dal reddito lordo complessivo (punto 1); 3. calcolare il reddito imponibile come differenza delle poste di cui ai precedenti punti 1 e 2 (i.e. reddito complessivo meno oneri deducibili); 4. determinare l’imposta lorda dovuta, mediante l’applicazione al reddito imponibile (punto 3) delle aliquote progressive corrispondenti ai diversi scaglioni8; 5. determinare gli oneri detraibili (si dirà nel seguito di cosa si tratta e della differenza con gli oneri deducibili di cui al precedente punto 2), per i quali il contribuente ha diritto a una riduzione dell’imposta lorda (punto 4); 6. determinare l’imposta netta definitivamente dovuta come differenza tra l’imposta lorda e gli oneri detraibili. Dal procedimento sopra esposto se ne deduce che il reddito netto imputabile a ciascun contribuente è dato dalla differenza tra il reddito lordo complessivo (punto 1) e l’imposta netta (punto 6). È ora possibile introdurre altre due definizioni e concetti che fiscalmente hanno rilevanza e significato specifici, ma che possono assumere, per l’operatore del diritto di famiglia, un diverso interesse e motivo di attenzione. Indipendente dalle spese sostenute per la produzione di ciascuna tipologia di reddito (i.e. spese telefoniche per l’avvocato che svolge la propria attività professionale presso uno studio autonomo o spese di carburanti e lubrificanti per un imprenditore che esercita il trasporto merci eccetera), l’ordinamento tributario attribuisce rilevanza fiscale ad alcuni oneri, in termini di vantaggio fiscale, sia sotto il profilo della loro deducibilità dal reddito lordo sia sotto quello della loro detraibilità dall’imposta lorda. E precisamente: 3.1 Gli oneri deducibili Può trattarsi di spese rappresentate da materiali esborsi finanziari sostenuti dal contribuente ovvero di poste a carattere meramente figurativo, che possono essere portati in detrazione dal reddito lordo, con l’indubbio conseguente vantaggio di ridurre il reddito imponibile e, come si dice in gergo, di “scendere di scaglione” e di “abbattere l’aliquota marginale”9. Un esempio di onere deducibile corrispondente a un materiale esborso di denaro è rappresentato dai contributi previdenziali e assistenziali obbligatori sostenuti per sé o per familiari a carico (i.e. i contributi soggettivi versati da un ingegnere alla propria cassa di previdenza). Altro esempio di onere deducibile, ma che non comporta per il contribuente un esborso di denaro, è il valore corrispondente alla rendita catastale dell’abitazione principale e di sue pertinenze. In questo caso la deduzione è consentita nella misura del 100% della rendita rivalutata al fine di evitare che venga 8 Le aliquote sono progressive nel senso che aumentano più che proporzionalmente rispetto all’aumento del reddito e si applicano su scaglioni di reddito. Si riporta qui di seguito una tabella degli scaglioni e delle aliquote vigenti alla data attuale: reddito da 15.000,00 28.000,00 55.000,00 75.000,00 9 a 15.000,00 28.000,00 55.000,00 75.000,00 oltre scaglioni di reddito aliquota imposta totale progressivo imposta aliquota marginale 15.000,00 13.000,00 27.000,00 20.000,00 23% 27% 38% 41% 43% 3.450,00 3.510,00 10.260,00 8.200,00 3.450,00 6.960,00 17.220,00 25.420,00 23% 25% 31% 34% L’aliquota marginale è determinata dal rapporto fra l’imposta lorda complessiva e il reddito lordo. 81 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 82 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 sottoposto a tassazione, se pure nella misura della sola rendita catastale, l’immobile destinato ad abitazione principale del contribuente. 3.2 Gli oneri detraibili Anche gli oneri detraibili sono spese rappresentate da materiali esborsi finanziari sostenuti dal contribuente ovvero poste a carattere meramente figurativo, che possono essere portati in detrazione dall’imposta lorda. Nel caso in cui queste detrazioni siano eccedenti rispetto all’imposta lorda non possono essere riportate nell’anno successivo e il coniuge non può utilizzare le detrazioni eccedenti dell’altro coniuge10. Questi oneri possono essere determinati in misura forfettaria ovvero in misura proporzionale al reddito. Spettano detrazioni per: a) familiari a carico; b) svolgimento di lavoro dipendente, autonomo o d’impresa; c) sostenimento di specifiche spese. Nei primi due casi si tratta di oneri figurativi la cui misura è determinata rispettivamente forfettariamente e proporzionalmente al reddito prodotto. Nel terzo caso si tratta di vere e proprie spese sostenute dal contribuente per le quali è riconosciuta una percentuale di detrazione sempre inferiore al 100% e a volte con franchigie ovvero limiti massimi di importi detraibili. Ad esempio le spese mediche, che sono detraibili nella misura del 19% della spesa e per importi complessivamente superiori a € 129,11; oppure le spese per assicurazioni sulla vita, che sono detraibili nella misura del 19% del premio pagato e, comunque, per un importo non superiore a € 1.291,14. In questa sede appare inopportuno, oltre che poco utile, fare un elenco di tutti gli oneri deducibili e di tutti gli oneri detraibili, ma soprattutto delle regole di deducibilità e detraibilità (percentuali, franchigie, importi massimi), in quanto non potrebbe mai essere esaustivo e sarebbe anche di scarsa utilità nel tempo, considerato che il legislatore fiscale può modificare anche da un anno all’altro le regole di deduzione e detraibilità, rimandando quindi all’operatore la verifica caso per caso, sulla base delle istruzioni ministeriali di volta in volta vigenti. Valgano, tuttavia, due regole di carattere generale e normativamente sempre valide. Affinché l’onere dia diritto alla deduzione dal reddito ovvero alla detrazione dall’imposta, è necessario che ricorrano i seguenti requisiti: a) deve trattarsi di onere specificatamente previsto dalla legge. L’elencazione degli oneri deducibili è prevista dall’articolo 10 del d.p.r. n. 917/1986, quella degli oneri detraibili è prevista dagli articoli 12 e seguenti del d.p.r. n. 917/1986. Le elencazioni sono tassative; b) nel caso si tratti di spese sostenute dal contribuente mediante effettivi esborsi di denaro, il pagamento deve essere stato effettuato nell’anno solare di riferimento e deve essere sempre comprovato da idonea documentazione. Fatte queste premesse su alcuni concetti di riferimento propedeutici, nel seguito si possono comprendere più agevolmente alcune delle questioni “fiscali” più tipiche e frequenti nel diritto di famiglia. 4. Assegno di mantenimento: detraibilità e imponibilità del medesimo Trattasi di onere deducibile qualificato in forma specifica dall’articolo 10, comma 1, lettera c) del d.p.r. n. 917/1986, nel quale si legge: “Dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili 10 A questo principio generale ricorrono due eccezioni: 1) le spese per interessi passivi sui mutui ipotecari contratti per l’acquisto dell’abitazione principale; 2) le spese sanitarie sostenute per figli affetti da gravi patologie. 82 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 83 FOCUS nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti dal contribuente: [...] c) gli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimento dell’autorità giudiziaria”. Si precisa che qualsiasi altra qualificazione o caratteristica dovesse assumere l’obbligo al mantenimento di uno dei coniugi in favore dell’altro, non determina in capo all’obbligato alcun diritto alla detrazione. Al riguardo la Corte Costituzionale, con ordinanza del 22 novembre-6 dicembre 2001, ha definitivamente chiarito che la deducibilità o meno di oneri e spese non è generale e illimitata, in quanto solo il legislatore ha il potere di individuare quali siano gli oneri che danno diritto alla deduzione/detrazione, in considerazione del necessario collegamento tra la produzione di reddito e il conseguente gettito erariale che ne deve necessariamente derivare. Infatti se in capo a chi eroga l’assegno di mantenimento sorge un diritto alla deduzioni di un importo corrispondente, in capo a chi lo riceve si determina un reddito imponibile da sottoporre a tassazione, assimilato a quello di lavoro dipendente11. Sono, dunque, deducibili unicamente gli assegni effettivamente corrisposti periodicamente al coniuge, limitatamente alla quota prevista per il suo mantenimento e nella misura fissata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria. Dall’interpretazione letterale della norma discende che dall’intero importo riconosciuto nel provvedimento dell’autorità giudiziaria è deducibile unicamente la quota spettante per il mantenimento del coniuge, se e in quanto effettivamente erogata e limitatamente alla misura massima stabilita dal giudice. Se il provvedimento del giudice non distingue la quota dell’assegno destinata al mantenimento dei figli, l’assegno si considera destinato al coniuge per metà del suo ammontare (art. 2 del d.p.r. n. 42/1988). L’assegno deve, inoltre, avere carattere periodico e non deve essere corrisposto in un’unica soluzione. La corresponsione deve essere, altresì, provata e non solo dovuta12, perché – come detto – la quota di assegno percepita dal coniuge a titolo di proprio mantenimento determinerà in capo al medesimo un reddito imponibile, equiparato ai redditi di lavoro dipendente, sul quale si dovrà calcolare l’imposta dovuta, tenendo conto delle detrazioni d’imposta spettanti13. 4.1 Sulla deducibilità di somme erogate al coniuge Si passa ora all’esame di alcune questioni che sono state dibattute in dottrina e giurisprudenza e che, però, hanno sempre trovato soluzione alla luce dei fattori sopra esposti quali unici indicatori e punti di riferimento per inquadrare la deducibilità o meno delle somme erogate in favore del coniuge. Se nel provvedimento giudiziale è previsto che un coniuge, in ragione dell’accollo delle rate del mutuo dell’altro coniuge senza possibilità di chiederne il rimborso, non eroghi alcun assegno di mantenimento, non potrà portare in detrazione l’importo del mutuo pagato14. Sono indeducibili le somme corrisposte al coniuge a titolo volontario e non specificatamente de- 11 Non è un caso che nel Modello Unico/Modello 730 in corrispondenza dell’importo indicato quale onere per l’assegno di mantenimento corrisposto al coniuge deve indicarsi anche il codice fiscale del coniuge beneficiario. E ciò al fine di consentire all’amministrazione finanziaria di operare in via automatica e diretta i necessari e corrispondenti controlli nonché eventuali accertamenti di redditi non dichiarati, ovvero di deduzioni non spettanti. 12 Commissione Tributaria Centrale, I Sezione, 16 febbraio 1999, n. 760. 13 Si segnala che la detrazione d’imposta effettivamente spettante diminuisce al crescere del reddito fino ad annullarsi del tutto se il reddito complessivo supera € 55.000 (Istruzioni Modello Unico 2011, anno d’imposta 2010). 14 Circolare n. 50/E del 12 giugno 2002. 83 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 84 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 terminate dal giudice, quali ad esempio anche gli importi derivanti dalla rivalutazione Istat dell’assegno di mantenimento, se non specificatamente previsto nel provvedimento dell’autorità giudiziaria15. È, invece, deducibile l’assegno formato da una parte fissa e da una parte variabile. A volte nella determinazione dell’assegno periodico di mantenimento è previsto che il coniuge obbligato versi le imposte dovute sull’assegno di mantenimento; in questo caso la Suprema Corte ha stabilito che è deducibile la parte variabile corrispondente all’imposta dovuta sull’assegno di mantenimento16. Non appare, invece, ancora risolta la questione del regime fiscale da applicare alle somme ricevute/erogate in un’unica soluzione o anche in via rateale, a seguito di azione esecutiva. Si pensi al caso in cui un coniuge, per il recupero degli assegni non versati spontaneamente, debba dare luogo a un’azione esecutiva, come per esempio un pignoramento presso terzi dello stipendio del coniuge tenuto al mantenimento, o alla vendita esecutiva, mobiliare o immobiliare. La questione va oltremodo complicandosi laddove il ricavato dell’azione esecutiva tenesse conto anche della quota spettante per il mantenimento dei figli o addirittura non fosse capiente per il soddisfacimento del credito complessivamente maturato, tanto per il mantenimento dei figli, quanto per quello del coniuge. A parere della scrivente, trattandosi normalmente di riscossione di somme arretrate e non già di incasso periodico dell’assegno, la riscossione così realizzata dovrebbe ritenersi innanzitutto destinata agli urgenti fabbisogni della famiglia e, in particolare, dei figli che si sono visti sacrificare il giusto mantenimento, magari anche per diversi anni, e non dovrebbero esserci, quindi, ulteriori detrazioni di somme per le corrispondenti imposte. A tal riguardo, con riferimento all’articolo 1193, comma 2, c.c., si ritiene di poter ragionevolmente sostenere che tra i due debiti vale a dire il mantenimento del coniuge e il mantenimento dei figli, entrambi ugualmente garantiti, quello nei confronti dei figli debba essere considerato più oneroso, in quanto per il soggetto che lo eroga non dà diritto ad alcun abbattimento dell’imposta dovuta. Come visto, la quota di assegno di mantenimento nei confronti del coniuge consente invece una deduzione dal reddito di importo corrispondente, con un indubbio beneficio fiscale, che rende così il debito nei confronti del coniuge complessivamente meno oneroso. Si ritiene, pertanto, che il ricavato dell’eventuale azione esecutiva che il coniuge dovesse essere costretto ad affrontare dovrebbe innanzitutto attribuirsi alla quota di mantenimento dei figli complessivamente non riscossa negli anni e, solo dopo aver completato il recupero dell’intero importo spettante a tal fine, si dovrebbe imputare le residue somme recuperate all’assegno di mantenimento in favore del coniuge. Infine, si ritiene che il coniuge, che ha diritto sia all’assegno di mantenimento per se stesso – a norma dell’art. 156 c.c. o all’assegno divorzile, a norma dell’art. 4 della legge sul divorzio – sia all’assegno di mantenimento per i figli a lui affidati o con lui conviventi in seguito alla pronuncia di separazione e/o alla sentenza di divorzio, sia tenuto, necessariamente, a imputare il pagamento ricevuto dal coniuge onerato, magari in maniera parziale e frazionata, innanzitutto all’adempimento dell’obbligazione di mantenimento per i figli che trova il suo fondamento primario anche nei princìpi generali di ordine pubblico che regolano il nostro ordinamento, laddove la Costituzione con l’art. 30 stabilisce che è dovere e diritto dei genitori mantenere i figli. Qualora si accogliesse, comunque, l’ipotesi che le somme via via percepite, o incassate definitivamente in un’unica soluzione, siano riferibili, seppure in quota parte, anche all’assegno di mantenimento del coniuge, a giudizio della scrivente si dovrebbe considerare che le somme così acquisite possono essere equiparate ad arretrati percepiti in forza di sentenze e quindi con natura paragonabile a quella degli altri redditi, di cui all’articolo 50 del d.p.r. n. 917/1986. Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 21 del d.p.r. n. 917/1986, questi redditi sono soggetti a tassa- 15 Risoluzione 19 novembre 2008, n. 448/E. 16 Cass. 3 maggio 2005, n. 9148. 84 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 85 FOCUS zione separata nella ragionevole considerazione che trattandosi di riscossione di redditi che si sarebbero dovuti assoggettare a tassazione in anni d’imposta differenti nei quali, quindi, potrebbero essere state in vigore anche differenti norme di determinazione del reddito imponibile e dell’imposta netta, non sarebbe corretto assoggettare a tassazione detti redditi interamente nell’anno in cui si sono finalmente percepiti. Sugli arretrati, infatti, l’imposta si determina applicando all’ammontare percepito l’aliquota corrispondente alla metà dell’ammontare globale dei redditi percepiti nel biennio precedente17. 5. Detrazioni per figli a carico Si chiarisce innanzitutto che in linea generale per i figli, anche se non conviventi, con un reddito personale complessivo non superiore a € 2.840,51 (limite vigente per l’anno d’imposta 2010), il contribuente ha diritto a una detrazione d’imposta a carattere figurativo stabilita dalla legge in misura forfettaria. La detrazione spetta a prescindere dall’età del figlio ed è al 50% per ciascun genitore o al 100% per genitore con il maggior reddito. Rispetto a precedenti periodi di imposta non è più possibile una ripartizione in percentuali differenti (ad esempio 70% e 30%). In tal senso è anche la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 16 marzo 2007, n. 15/E. Per la ripartizione della detrazione tra i coniugi bisogna fare anche una distinzione sulla base della specifica situazione familiare degli stessi: a) genitori non legalmente ed effettivamente separati: la detrazione deve essere ripartita al 50% tra ciascun genitore oppure, previ accordi tra i genitori, può essere attribuita anche interamente al genitore con il reddito più alto; b) genitori separati: la ripartizione è variabile in base al tipo di affidamento stabilito nel provvedimento del giudice: • affido a uno solo dei genitori: la detrazione spetta interamente al genitore affidatario. Con diverso accordo può però stabilirsi anche una ripartizione al 50%, ovvero al 100% al coniuge che ha il maggior reddito. Si segnala una recentissima sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bari (n. 128/15/11), nella quale si legge che la detrazione per carichi di famiglia spetta per intero al genitore affidatario dei figli, anche se l’altro ha fruito per il 50% della stessa detrazione. Nel caso in esame, l’affidamento dei figli a uno solo dei genitori era stato disposto dal Tribunale per i Minorenni e tale atto legittimava correttamente la detrazione per intero, indipendentemente dal fatto che l’altro genitore avesse fruito del 50% del beneficio; • affidamento congiunto o condiviso: la detrazione è ripartita tra i genitori al 50%, salvo sempre un diverso accordo con cui la detrazione può essere usufruita al 100% dal coniuge con il maggior reddito; c) genitori non coniugati: si applica la medesima disciplina prevista per i genitori separati, qualora siano stati adottati specifici provvedimenti di affidamento. Mentre in assenza di provvedimenti in tal senso, la detrazione spetta al 50% per ciascun genitore, fatta sempre salva la possibilità di accordo tra le parti di lasciare la detrazione al 100% in favore del genitore con il maggior reddito; d) coniuge mancante o che non ha riconosciuto i figli: in questo caso per il figlio di età anagrafica maggiore si applicano le detrazioni previste per il coniuge a carico, ove più convenienti. Per i figli successivi si dovrà tener conto del numero dei figli a carico, comprendendo nel conteggio anche il primo. A differenza di quanto esposto precedentemente riguardo all’impossibilità di recuperare in anni 17 In tal senso, Commissione Tributaria Regionale di Roma, XIV Sezione, 24 novembre-1 dicembre 2009, n. 427/14/2009. 85 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 86 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 successivi o trasferire sull’altro coniuge gli oneri detraibili che non trovano capienza nell’imposta, la detrazione per figli a carico per i genitori separati, che non trova capienza nell’imposta di uno dei due genitori, può essere invece devoluta in favore dell’altro genitore. La rinuncia da parte del genitore con imposta incapiente a fruire della detrazione spettante in favore dell’altro non opera però automaticamente, ma deve essere portata a conoscenza dell’altro genitore. Le spese sostenute per figli a carico (quali, per esempio, spese mediche, spese per l’istruzione eccetera), per le quali si ha diritto alla detrazione dall’imposta lorda di un importo corrispondente alla spesa sostenuta (si ricorda che la detrazione è sempre però in percentuale, con franchigie e importi massimi), seguono le medesime regole di ripartizione sopra esposte. Non si deve però dimenticare il principio generale in virtù del quale la detrazione spetta se la spesa è stata effettivamente sostenuta dal contribuente. Pertanto, nel caso di affido congiunto, qualora si sia scelta una ripartizione della detrazione d’imposta per figli a carico nella misura del 50% ciascuno, le spese sostenute per i figli verranno ripartite nella stessa misura se pagate da entrambi i genitori oppure potranno essere portate in detrazione, anche nella misura del 100%, solo dal genitore che le ha effettivamente sostenute e non se le è viste rimborsare per quota dall’altro coniuge. 6. Abitazione principale: benefici fiscali a seguito del provvedimento di assegnazione Sotto il profilo fiscale, si definisce abitazione principale quel fabbricato che risulti idoneo ad alloggiare singole persone o nuclei familiari, catastalmente classificato o classificabile nelle categorie da A/1 ad A/11 esclusa la categoria A/10 (uffici e studi privati), che il contribuente destina alla residenza propria e/o dei propri familiari. Si considera principale l’abitazione in cui il contribuente o un suo familiare, compreso il coniuge separato (ma non divorziato), ha la propria dimora abituale che, salvo prova contraria, coincide con la residenza anagrafica. Il possesso di abitazioni adibite a tale scopo dà diritto a non scontare alcuna imposta sul relativo reddito fondiario per tutto il periodo in cui permangono i suddetti requisiti, attraverso il meccanismo dell’imputazione di una deduzione dal reddito lordo (calcolato tenendo conto anche del valore dell’abitazione principale) di un importo corrispondente alla rendita catastale rivalutata dell’immobile stesso. Come visto questo diritto spetta anche per l’abitazione che, a seguito dell’emanazione del provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, venga assegnata all’altro coniuge che non ne è proprietario o non ne è proprietario al 100%. Ai fini dell’Imposta comunale sugli immobili (Ici), a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 1 del d.l. n. 93/2008 convertito con legge 126/2008, sono considerate esenti tutte le unità immobiliari aventi uso abitativo e le relative pertinenze18 adibite ad abitazione principale del possessore. Si segnala che l’esenzione, prevista dalla norma generale, può essere estesa sulla base dei Regolamenti comunali di autonoma emanazione anche ad altre abitazioni che vengono assimilate all’abitazione principale19. Secondo un’interpretazione successiva dell’Amministrazione finanziaria, a carattere più restrittivo20, si ritiene invece che l’esenzione possa essere estesa ad altri immobili solo al ricorrere delle seguenti condizioni: 1) quando l’immobile viene concesso in uso a un proprio parente in linea retta o collaterale entro un determinato grado di parentela; 2) quando l’immobile è posseduto a titolo di proprietà o usufrutto da anziani o disabili che acqui- 18 L’esenzione si applica a condizione che l’abitazione non rientri nelle categorie catastali A1 (abitazioni civili), A8 (ville) e A/9 (castelli) e relative pertinenze. 19 In tal senso: Risoluzione 12/2008/DF; Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia 2008/2009 e Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna 4/2009. 20 Risoluzione 4 marzo 2009, n. 1/DF. 86 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 87 FOCUS siscono permanentemente la residenza in istituti di ricovero o sanitari e l’abitazione non venga concessa in locazione a terzi. Rimanendo nell’ambito di riferimento che qui interessa, si segnala che l’abitazione coniugale così come sopra definita – che viene assegnata all’altro coniuge, che non è proprietario dell’immobile o è proprietario solo in quota, sulla base del provvedimento dell’autorità giudiziaria a seguito del provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio – è comunque esente per il coniuge non assegnatario, in quanto l’immobile così destinato viene assimilato all’abitazione principale. L’esenzione è riconosciuta, però, solo a condizione che il contribuente non dimorante, in quanto non assegnatario, non sia titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale su un altro immobile destinato ad abitazione principale nello stesso Comune. Al riguardo si confronti sempre la Risoluzione ministeriale 5 giugno 2008 n. 12/DF, in base alla quale risulta riconosciuta l’esenzione anche se il titolare dell’immobile assegnato all’altro coniuge è proprietario di un altro immobile situato in un Comune diverso, oppure situato nello stesso Comune, ma non destinato ad abitazione principale. Con riguardo, infine, ad altre detrazioni connesse con il possesso di immobili adibiti ad abitazione principale che vengono assegnate a uno solo dei coniugi, non proprietario o proprietario solo in quota parte, si ritiene utile in particolare riferirsi alla sorte della detraibilità degli interessi sui mutui ipotecari contratti per l’acquisto o per la ristrutturazione dell’abitazione principale. Si chiarisce innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 15 del d.p.r. n. 917/1986, spetta una detrazione d’imposta corrispondente al 19% degli interessi sul mutuo contratto per l’acquisto o per la ristrutturazione dell’abitazione principale. Per aver diritto alla detrazione devono però, coesistere le seguenti condizioni: 1) deve esistere un contratto di mutuo finalizzato all’acquisto/ristrutturazione dell’abitazione principale. La detrazione spetta anche se il mutuo è finalizzato all’acquisto di un’ulteriore quota dell’abitazione principale21. Non danno diritto alla detrazione gli interessi corrisposti per altri contratti di finanziamento diversi dal mutuo (aperture di credito, cessioni dello stipendio eccetera). La finalità può risultare o dal contratto di mutuo o dal contratto di acquisto dell’immobile oppure anche da altra documentazione che la Banca abbia considerato idonea22; 2) l’immobile deve essere offerto in garanzia ipotecaria. Si segnala che può offrirsi in garanzia anche altro immobile e il diverso immobile può essere anche di altri soggetti23; 3) il mutuante deve risiedere in Italia o in uno Stato della Comunità europea; 4) nell’atto di mutuo devono essere riportati gli estremi dell’atto di acquisto del relativo immobile. L’Amministrazione finanziaria ha precisato che l’annotazione va fatta sul documento che attesta il pagamento degli interessi24. Sono beneficiari della detrazione tutti gli acquirenti l’immobile che siano anche intestatari del mutuo, entro limiti massimi di importo pagato per interessi, che da un anno all’altro può anche variare (per l’anno d’imposta 2010 l’importo è stato fissato in € 4.000). Il diritto alla detrazione si può perdere se nel corso dell’anno muta la destinazione dell’immobile. In particolare, la detrazione si può perdere se la variazione di destinazione avviene a seguito di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili. In questi casi bisogna fare però dei distinguo e precisamente: il coniuge intestatario del mutuo che continua ad abitare nell’immobile mantiene il diritto alla detrazione, anche se in quota, mentre l’altro coniuge perderebbe questo diritto25. Di diverso avviso è risultata l’Amministrazione finanziaria con successiva Circolare n. 55 del 14 giugno 2001, nella quale sembra permanere il diritto, per intero o pro quota, se nell’immobile risiede un familiare del coniuge non assegnatario e comunque fino alla sentenza di divorzio. 21 Risoluzione 14 novembre 2007, n. 328/E. 22 Circolare 20 aprile 2005, n. 15/E. 23 Circolare 26 gennaio 2001, n. 7/E; Commissione tributaria centrale 5 maggio1992, n. 3250 e 5 maggio 1992, n. 3253. 24 Circolare 2 giugno 1982, n. 29/9/1449. 25 Circolare 15 maggio 1997, n. 137/E. 87 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 88 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 7. Conclusioni Tutte le questioni fin qui trattate certamente non esauriscono in maniera completa le problematiche fiscali che hanno un risvolto determinante nel caso in cui lo stato di famiglia del contribuente varia a seguito della cessazione degli effetti civili del matrimonio e che, quindi, devono essere attentamente considerate dal contribuente stesso nell’esercizio d’imposta di riferimento e nei successivi. Tuttavia, si può ragionevolmente affermare che esse accendono un riflettore su temi che senz’altro hanno un impatto dirompente sulla migliore soluzione economica del giudizio di separazione/divorzio. Infatti se, come fin qui evidenziato, si considera che alcuni benefici fiscali possono variare a seguito della separazione dei coniugi, a seconda delle scelte effettuate dalle parti e ammesse nel provvedimento dell’autorità giudiziaria, si comprende facilmente come anche le problematiche relative alla quantificazione del più equo ammontare dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge, ovvero l’assegnazione o meno dell’abitazione coniugale, possano essere influenzate anche da queste valutazioni. Pertanto può risultare utile fare, sempre nel rispetto della prioritaria e imprescindibile tutela economica e psicologica dei figli e ove le condizioni processuali complessive lo consentano, una valutazione dell’impatto fiscale delle condizioni di separazione da sottoporre all’autorità giudiziaria, effettuando così una più conveniente pianificazione complessiva degli aspetti reddituali e patrimoniali dei coniugi coinvolti. 88 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 89 FOCUS INTESTAZIONE DI PARTECIPAZIONI SOCIETARIE TRA CONIUGI TRA SIMULAZIONE, NEGOZIO FIDUCIARIO E DONAZIONE Stefano Dindo Avvocato del Foro di Verona Con questa nota mi propongo di esaminare le problematiche che sorgono quando, in occasione della crisi coniugale, ci si trova dinanzi a una situazione di fatto per cui uno dei due coniugi risulti intestatario di una partecipazione sociale, mentre l’altro sostenga di essere il reale proprietario di tale partecipazione, intestata a suo tempo all’altro coniuge per vari motivi, tra cui spesso quello di proteggere detta partecipazione dai creditori in caso di dissesto. La fattispecie è nota e ricorrente e può essere così esemplificata, per renderne più chiara la trattazione: Tizio fa intestare alla moglie Clelia la partecipazione di controllo della società Alfa, impresa che ha iniziato da poco la sua attività. Tizio, infatti, è un imprenditore e ritiene, in tal modo, di cautelarsi nei confronti dei creditori in caso di insuccesso delle sue iniziative. Di fatto l’intestazione avviene mediante pagamento direttamente da parte di Tizio della quota di capitale sociale sottoscritta da Clelia. Nel tempo viene effettuato anche un aumento del capitale di Alfa sottoscritto da Clelia, ma anch’esso pagato da Tizio, mentre l’attività di Alfa si sviluppa sempre di più. Quando interviene la crisi coniugale, Tizio è l’amministratore unico di Alfa, il cui socio di maggioranza risulta essere Clelia, con suo diritto, pertanto, di esercitare tutti i poteri sociali, inclusi quelli di nomina o revoca dell’organo amministrativo. Tizio a quel punto intende ottenere l’accertamento della sua proprietà della quota; Clelia sostiene, invece, di esserne la legittima proprietaria e si propone di esercitare tutti i diritti che le competono come socia di Alfa. I coniugi non hanno sottoscritto alcun accordo tra loro, mentre è provato che i versamenti che hanno liberato il capitale sono effettivamente stati fatti da Tizio. Nell’affrontare il caso si pone subito il quesito relativo all’identificazione del negozio realmente intervenuto tra i coniugi. In astratto si potrebbe pensare a una donazione indiretta intervenuta tra i coniugi, ovvero a una intestazione simulata in capo a Clelia che dissimulerebbe l’intestazione effettiva in capo a Tizio oppure, infine, a una intestazione fiduciaria della partecipazione a Clelia nell’interesse di Tizio. Cerchiamo di fare chiarezza ricordando, anzitutto i tratti essenziali dei negozi sopra indicati. In primis va ricordato che per negozio fiduciario, in generale, si intende “un accordo tra due soggetti, fiduciante e fiduciario, con cui il primo dichiara al secondo, che accetta, di volergli trasferire o di voler costruire in testa allo stesso una situazione giuridica soggettiva reale o personale, per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore (rispetto a quello immediatamente risultante dal negozio)”1. L’essenza del negozio fiduciario, pertanto, è costituita dal fatto che le parti intendono realmente trasferire o costituire in testa al fiduciario un determinato rapporto; ciò, in vista del conseguimento di un ulteriore scopo pratico, in relazione al quale le parti concludono un ulteriore accordo interno, il pactum fiduciae, che può avere vario contenuto, ma che generalmente riguarda l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà del bene a lui intestato al fiduciante su sua richiesta o, comunque, al verificarsi di determinate situazioni. 1 Ex multis Cass. 21 novembre 1988, n. 6263. 89 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 90 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Si è, invece, in presenza di simulazione relativa soggettiva quando (se si pensa all’esempio sopra formulato inerente l’intestazione di una partecipazione) chi fornisce i mezzi per acquistare la partecipazione ne diventa anche proprietario, essendo questa la volontà delle parti, salvo che nei rapporti esterni, nei quali, invece, figura quale proprietario il soggetto al quale le quote sono intestate. I due fenomeni (negozio fiduciario e simulazione), dunque apparentemente simili, sono in realtà profondamente diversi. Con il negozio fiduciario si attua un’interposizione reale di persona, per cui l’interposto acquista la titolarità delle quote sociali, “pur essendo, in virtù di un rapporto interno [cosiddetto ‘pactum fiduciae’] con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a trasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario”2. La simulazione relativa soggettiva attua invece un’interposizione di persona solo fittizia, per cui l’interposto non acquista la titolarità delle quote (solo all’esterno appare titolare delle quote) che in concreto viene acquistata dal soggetto interponente. Da tutto quanto sin qui descritto si discosta radicalmente la donazione che, dispone l’art. 769 c.c., è quel contratto col quale una parte, per spirito di liberalità, arricchisce l’altra disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione. Si ha quindi donazione se a favore del donatario si verifica un arricchimento, sempreché sussista l’animus donandi. La donazione, poi, può essere anche indiretta ogni qualvolta un determinato negozio, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da fini di liberalità e abbia lo scopo e l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario3. La distinzione tra i tre negozi è pertanto chiara concettualmente, anche se nella pratica non è certo agevole individuare la fattispecie applicabile, se non vi sono documenti e se ci si deve basare solo su situazioni di fatto. Del resto un rapporto fiduciario deve trovarsi pur sempre necessariamente insito anche nell’accordo simulatorio, al fine di non disvelare agli occhi di terzi la situazione di apparenza voluta. Va sin da subito sottolineato un aspetto fondamentale: la configurazione del negozio, in un senso o nell’altro, ha risvolti pratici di non poco conto con riferimento alla prova che si può dare (o non si può dare) del negozio che si sostiene essere intervenuto tra i coniugi, ovvero con riferimento a profili processuali, perché in caso di simulazione si rende necessaria l’integrazione del contraddittorio con la chiamata in giudizio del terzo contraente, che in questo caso sarebbe la stessa società, il cui capitale sia interessato dalla partecipazione, con tutte le problematiche che ciò comporta (tanto che, come si dirà in seguito, appare preferibile l’opinione di chi sostiene che nell’ipotesi qui considerata non sia neppure configurabile una simulazione). O ancora di tipo sostanziale perché, in caso di accertamento della simulazione, gli effetti di tale riconoscimento sono retroattivi ex tunc, con ogni conseguenza anche di tipo fiscale che ciò comporta (si pensi, ad esempio, ai dividendi percepiti medio tempore che dovrebbero essere imputati al proprietario reale della partecipazione). Invece, in caso di accoglimento della domanda di accertamento dell’esistenza di un rapporto fiduciario e del conseguente diritto al ritrasferimento della partecipazione, la sentenza, quanto al ritrasferimento, ha natura costitutiva ex art. 2932 c.c. e ha pertanto effetto ex nunc. Vediamo più da vicino le problematiche relative alla prova. Nella simulazione, innanzitutto, è pacifico che la prova della sua esistenza non potrà essere data per testimoni, se fatta valere da una delle parti, così come dispone l’art. 1417 c.c. Se Tizio, dunque, impostasse le sue pretese sostenendo che l’intestazione della partecipazione a Clelia è simulata, si troverebbe immediatamente preclusa la strada, per il semplice fatto che la relativa prova non potrebbe che essere data per iscritto. Non avrebbe alcun valore né significato, cioè, provare che il pagamento della sottoscrizione del capitale era stato eseguito da Tizio o che, di fatto, Tizio aveva sempre esercitato i diritti connessi allo status di socio, ad esempio sostituendo sistematicamente la moglie nelle assemblee sociali o 2 Cass. 6 maggio 2005, n. 9402. 3 Ex multis Cass., Sez. un., n. 928/1992. 90 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 91 FOCUS simili, proprio perché l’unica prova ammissibile per prendere in considerazione l’esistenza della simulazione è la prova scritta. Di più. Si discute addirittura se in ambito societario possa veramente darsi simulazione relativa soggettiva – dovendosi quindi indagare caso per caso se ricorra l’una piuttosto che l’altra figura – o se piuttosto si debba concludere che ogni intestazione di quote sociali a soggetto diverso da quello che fornisce i mezzi per procedere all’acquisto sia configurabile, in ogni caso, come negozio fiduciario, se la stessa risulti provata (salvo ovviamente che non si possa configurare un atto diverso, quale potrebbe essere ad esempio un atto di liberalità). L’opinione che appare prevalente è incline a non ritenere configurabile la simulazione nell’ipotesi considerata4, per cui la fattispecie integrerebbe gli estremi di un’interposizione fiduciaria reale (cioè veramente voluta). Tale opinione è senz’altro da condividere, perché ammettere che l’intestazione di una certa partecipazione sia simulata, significherebbe obbligatoriamente ammettere e dimostrare che anche la società, il cui capitale sia interessato dalla partecipazione, sia consapevole e parte dell’accordo simulato. Ciò non è possibile, perché non è concepibile che una società sia partecipe e accetti che uno dei suoi soci sia in realtà diverso da quello che appare a libro soci. In conclusione, dunque, è possibile affermare che, in una fattispecie come quella considerata nel nostro esempio, l’ipotesi che ci si trovi in presenza di un atto simulato vada scartata, sia perché non appare configurabile una simulazione nell’ipotesi considerata quanto piuttosto un negozio fiduciario, sia perché, oltretutto, tale simulazione non potrebbe essere provata se non con atto scritto, per cui impostare la difesa in quel senso non potrebbe che portare a un insuccesso. Veniamo ora al negozio fiduciario. Qui la prova del negozio fiduciario, o meglio del pactum fiduciae (se si ammette che lo stesso non debba rivestire la forma scritta), che ne è la base, potrà essere fornita, oltre che in base a una dichiarazione scritta, anche, in linea di principio, con qualsiasi mezzo di prova, inclusa quella testimoniale ovvero tramite presunzioni, purché gravi, precise e concordanti nel significato di cui all’articolo 2727 c.c. Nella fattispecie in esame, che riguarda partecipazioni societarie, non si pone, infatti, neppure la problematica inerente la possibilità o meno di provare con qualsiasi mezzo anche l’esistenza di atti per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam. Per questi ultimi, in effetti, la giurisprudenza prevalente5 ritiene che se il pactum fiduciae riguarda, ad esempio, beni immobili per la cui cessione è richiesta la forma scritta ad substantiam (art. 1350 c.c.), sia necessario che anche il pactum fiduciae inerente l’obbligo di ritrasferimento debba rivestire la forma scritta, essendo lo stesso assimilabile al contratto preliminare, per il quale è imposta la stessa forma del contratto definitivo (art. 1351 c.c.). Non manca anche chi sostiene che, invece, sia ammissibile la prova per testi anche quando la cessione riguardi beni per il cui trasferimento sia richiesta la forma scritta ad substantiam, perché, secondo questa tesi, oggetto della prova sarebbe il pactum fiduciae nel suo complesso in quanto tale e non il negozio ricompreso in tale patto che obbliga al ritrasferimento; ma, ripetiamo, nel caso delle partecipazioni il problema non dovrebbe sussistere, perché tale forma non è richiesta per la cessione delle partecipazioni e anche perché, ai sensi dell’art. 219 c.c., ciascun coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene. È pur vero, infatti, che l’art. 2470 c.c., così come modificato dal d.lgs. 6/2003 che disciplina l’efficacia e la pubblicità degli atti di trasferimento delle quote di società a responsabilità limitata, dispone che tale trasferimento ha effetto di fronte alla società dal momento del deposito dell’atto di trasferimento con sottoscrizione autenticata, ma è anche vero che ciò non toglie che il negozio di trasferimento di quote sociali sia e resti a forma libera e che, quindi, lo stesso non rientra tra quegli atti che, ai sensi dell’art. 1350 c.c., devono farsi con forma scritta. In caso di controversia, quin4 Cass. 28 settembre 1994, n. 7899; Tribunale di Genova 30 maggio 2005; Tribunale di Roma 18 luglio 1980; contra Tribunale di Milano 1 febbraio 2001. 5 Da ultima anche Cass. n. 10163/2011. 91 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 92 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 di, accadrà semplicemente che la sentenza costitutiva che disponga il trasferimento della proprietà della partecipazione sarà il titolo opponibile alla società, per gli effetti di cui all’art. 2470 c.c. Considerazioni analoghe valgono anche per la cessione di partecipazioni azionarie. Il patto fiduciario in conclusione potrà essere provato nel caso di specie sia con prova testimoniale, che mediante presunzioni purché gravi, precise e concordanti (art. 2727 c.c.). Chiariamo allora che non si tratta di provare solo, ad esempio, l’assenza di un corrispettivo o che il fiduciario non avesse i mezzi per acquistare le quote sociali, ciò non potendo escludere che si sia trattato di un atto di liberalità (ad esempio una donazione come esamineremo poi). Naturalmente l’assenza di un corrispettivo è elemento comune anche al negozio fiduciario in quanto, di regola, questo viene posto in essere per realizzare un interesse del fiduciante, per cui se corrispettivo vi è, questo dovrebbe essere in favore del fiduciario che si presta all’operazione. Ma la mancanza di corrispettivo sarà uno degli elementi da prendere in considerazione per raggiungere la prova mediante presunzione dell’esistenza del rapporto fiduciario. Non può essere però l’unica. Non è sufficiente nemmeno provare solo che i soggetti abbiano in concreto perseguito un risultato ulteriore rispetto a quello derivante dal negozio che si assume essere fiduciario: non è sufficiente cioè dare una “giustificazione” al negozio che si assume fiduciario, perché ciò se consente (forse) di escludere l’ipotesi dell’atto di liberalità (non ci sarebbe cioè l’animus donandi) a ben vedere non sembra poter escludere l’ipotesi della simulazione (per escludere la quale, ricordiamo, si dovrebbe dimostrare che il trasferimento o l’intestazione delle quote non è stato realmente voluto). È allora interessante esaminare alcuni precedenti (che non sono numerosi) che riguardano il tema dell’onere della prova del negozio fiduciario inerente partecipazioni. Ad esempio nel caso esaminato dal Tribunale di Genova 30 maggio 2005 il convenuto eccepiva che l’intestazione di talune quote sociali dalla madre alla sorella fosse stata posta in essere in base a un negozio fiduciario. Il Tribunale ha accolto la domanda sulla scorta delle prove testimoniali, considerate univoche nell’aver provato l’intestazione fiduciaria. Ancora, in altro caso esaminato dalla Corte di Cassazione6 l’attore sosteneva che l’intestazione delle quote sociali alla moglie e ai figli era avvenuta fiduciariamente (a titolo di anticipazione sulla futura successione), affermando, a sostegno della sua tesi, di aver fornito la prova di avere la delega sui conti correnti societari e di aver operato per la società. La Cassazione ha però respinto la domanda, ritenendo non provato il pactum fiduciae perché quanto allegato e provato dall’attore costituiva mero indizio e non prova del patto fiduciario. Nel caso esaminato dal Tribunale di Milano (sentenza 1 febbraio 2001), poi, l’attore chiedeva che venisse accertata l’intestazione solo fiduciaria delle quote sociali (di più società) fatta alla convenuta. Il Tribunale ha accolto la domanda sulla base delle prove testimoniali dalle quali era risultato che la convenuta, dinanzi a terzi, aveva riconosciuto che le quote erano di proprietà dell’attore e si era dimostrata pronta a ritrasferirgliele a semplice richiesta e a prezzo zero e di documenti scritti inerenti una dichiarazione di vendita firmata dalla convenuta con la quale ella ritrasferiva le quote di una delle società. Infine si può ricordare il caso deciso da Cass. n. 1926/1999, in cui l’attrice chiedeva (per motivi fiscali) che venisse accertata la titolarità solo fiduciaria delle quote che le aveva trasferito il convivente (in questo caso il ritrasferimento era avvenuto e l’attrice era la fiduciaria che chiedeva l’accertamento del negozio). La Corte, in quel caso, ha ritenuto provato il negozio fiduciario sulla scorta di talune considerazioni (il rapporto di convivenza e l’indisponibilità della capacità economica da parte dell’attrice), ma soprattutto alla luce di due dichiarazioni scritte: la prima era quella di ritrasferimento che non prevedeva corrispettivo, mentre la seconda riguardava una manleva a favore dell’attrice da tutte le eventuali sopravvenienze passive che fossero maturate, derivante dall’intestazione delle partecipazioni. Di fatto, quindi, in assenza di documentazione scritta, la prova dell’esistenza del pactum fiduciae non è agevole. 6 Cass. n. 9402/2005. 92 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 93 FOCUS Vi sono però fatti che, tra loro concatenati, potrebbero far presumere ex art. 2727 c.c. provata l’esistenza del patto. Ad esempio: a) i pagamenti dei conferimenti effettuati dal fiduciante (come nella fattispecie qui in esame); b) il fatto che alle assemblee o, in genere, alla vita sociale abbia in realtà partecipato solo o prevalentemente il fiduciante; c) eventuali ammissioni del fiduciario dinnanzi a terzi, circa suoi obblighi di ritrasferimento delle quote; d) corrispondenza sociale tra società e socio e viceversa, che faccia intendere l’esistenza di un rapporto tra fiduciante e fiduciario; e) eventuale pagamento di dividendi direttamente al fiduciante. Come che sia, dunque, per quanto sin qui trattato, si è giunti alla conclusione per cui, se non vi è documentazione scritta, scartata l’idea, in linea di principio, di percorrere la strada della simulazione relativa, può ipotizzarsi di verificare se vi è possibilità di provare l’esistenza di patto fiduciario che obblighi, nel nostro caso, Clelia a ritrasferire la partecipazione al marito. L’indagine volta a verificare la possibilità o meno di provare il negozio fiduciario dovrà pertanto esaminare circostanze quali quelle sopra indicate. Cosa accade, però, se non si riesce a provare in alcun modo l’esistenza del negozio fiduciario? Esaminiamo l’esempio che stiamo trattando: Clelia si ritroverebbe a essere proprietaria di una partecipazione di controllo di Alfa senza avere pagato alcun corrispettivo o, comunque, senza avere provveduto ai conferimenti. Può dirsi, allora che se non vi è prova che il negozio sia simulato o fiduciario, ci si trovi dinnanzi a una donazione? E in tal caso sarebbe possibile per Tizio richiedere l’accertamento della nullità dell’atto di donazione avente a oggetto la partecipazione, onde tornare per questa via in possesso della quota sociale che assume sua? Vediamo. Innanzitutto va subito chiarito che in caso di donazione indiretta non è necessario che l’atto sia stipulato in forma solenne. Quest’ultima, cioè, è richiesta solamente in caso di donazione diretta, perché così espressamente dispone l’art. 782 c.c. Per la validità delle donazioni indirette invece è sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c. che prescrive l’atto pubblico per la donazione7. Ma nel caso in essere deve ritenersi che oggetto della presunta donazione sia il denaro conferito da Tizio per liberare il capitale sociale, oppure la partecipazione? Il punto è di grande rilievo: nel primo caso, infatti, si potrebbe sostenere che la donazione del denaro, in quanto donazione diretta, andava stipulata per atto pubblico, in mancanza del quale l’atto di donazione sarebbe nullo. Nel secondo caso, invece, l’atto sarebbe comunque valido perché riguarderebbe una donazione indiretta. La giurisprudenza si è occupata sovente dell’argomento dell’intestazione di beni sotto nome altrui ed è ormai sostanzialmente univoca nel ritenere che nell’ipotesi di acquisto di un bene mobile o immobile (quindi anche di partecipazioni sociali) con denaro proprio del disponente e intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intende in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta del bene e non del denaro impiegato per l’acquisto8. Nel caso in esame, pertanto, Tizio non potrebbe ottenere soddisfazione sostenendo la nullità della donazione, perché Clelia potrebbe utilmente eccepire che la donazione è valida in quanto donazione indiretta, essendo state rispettate le forme tipiche dell’atto. A quel punto Clelia resterebbe senz’altro proprietaria delle quote, fatta salva solamente per Tizio (ove dovessero ricorrerne i presupposti) la possibilità di chiedere la revocazione della donazione per ingratitudine ex art. 801 c.c., applicabile anche alle donazioni indirette ai sensi dell’art. 809 c.c. 7 Ex multis Cass. n. 5333/2004. 8 Così a partire dalla decisione della Suprema Corte, Sez. un., n. 9282/1992, poi confermate, da varie pronunce, da ultima Cass. n. 20638/2005. 93 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 94 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Possibilità che, in caso di crisi coniugale, potrebbe essere meno remota di quanto non si possa pensare, ove si riesca a dimostrare che il donatario si sia reso colpevole di ingiuria grave verso il donante, intendendosi per ingiuria grave anche quei comportamenti del coniuge che possano ledere l’onorabilità dell’altro coniuge come ad esempio l’inizio di un rapporto amoroso con un altro partner, ove le modalità di instaurazione del nuovo legame possano ritenersi ingiuriose9. Questa conclusione, però, presuppone che nella fattispecie considerata sia rinvenibile nell’attribuzione di Tizio a Clelia un animus donandi, in quanto tale requisito è essenziale perché possa ritenersi che l’attribuzione sia intervenuta a titolo di donazione. Perché ci sia donazione (diretta o indiretta) non è sufficiente che risulti provato che chi ha ricevuto l’attribuzione si sia arricchito senza corrispettivo; è anche necessario che vi sia prova o che comunque si possa ritenere che ciò è avvenuto per volontà da parte di chi attribuisce il bene di beneficiare il donatario. Ma nel caso in esame Tizio aveva intestato la partecipazione a Clelia per proteggere la partecipazione da possibili pretese dei propri creditori, non per spirito di liberalità. Ne consegue che ove questo fatto fosse provato, se ne dovrebbe dedurre che l’attribuzione effettuata a favore di Clelia non potrebbe considerarsi donazione. Qui si affaccia, allora, un problema rilevante, che riguarda l’onere della prova: incombe alla donataria l’onere di provare lo spirito di liberalità del donante o, viceversa, è la donataria a doverlo provare per poter sostenere il suo buon diritto di essere titolare del bene? Sul punto una decisione risalente della Corte di Cassazione10 ha confermato che è il donante a dover dimostrare che l’attribuzione non aveva la finalità di liberalità, per cui dal punto di vista pratico potrà non essere agevole fornire una simile prova. Importante, però, è il principio per il quale, in linea di massima, è possibile dimostrare l’insussistenza di animus donandi, il che dovrebbe aprire la strada a una domanda, da parte dell’apparente donante, o di ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.) o di arricchimento senza causa (2041 c.c.), perché se non vi è donazione perché non vi è animus donandi, e se non vi è nessun’altra causa che possa giustificare l’attribuzione, si dovrà concludere (nel nostro caso) che la posizione di Clelia sarà assoggettata alle norme generali, che includono la disciplina della ripetizione dell’indebito o dell’arricchimento senza causa. L’oggetto dell’azione di arricchimento senza causa potrebbe essere costituito dalla richiesta proprio di restituzione della partecipazione, perché ai sensi dell’art. 2041, secondo comma, qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda. L’oggetto dell’azione di ripetizione dell’indebito sarebbe, invece, la restituzione del pagamento effettuato da Tizio, con conseguenze ben diverse, anche sul piano pratico. In conclusione, in presenza di partecipazioni sociali intestate a un coniuge, che le abbia acquisite con denaro messo a disposizione dall’altro coniuge e utilizzato per effettuare i necessari conferimenti di capitale, dovrebbe ragionarsi e procedersi come segue, se non vi sono documenti scritti idonei a qualificare il negozio realmente intercorso tra i coniugi. Si deve innanzitutto escludere la strada dell’interposizione fittizia, mentre, invece, va verificata quella del negozio fiduciario, con interposizione reale nell’intestazione della partecipazione e obbligo di ritrasferimento della stessa, perché la prova dell’esistenza di tale negozio può essere fornita con qualsiasi mezzo. Se tale strada non fosse percorribile andrà verificato se sia possibile provare che l’attribuzione è avvenuta senza spirito di liberalità, con la finalità di azionare la domanda di arricchimento senza causa o, in subordine, quella di ripetizione dell’indebito. Altrimenti l’attribuzione dovrà considerarsi come avvenuta per donazione indiretta, cui si applicheranno le norme sulle donazioni, compresa la revoca per indegnità, ove ne sussistono i presupposti. 9 Cass. n. 87/2003. 10 Cass. n. 3147/1980, citata in Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 2005. 94 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 95 FOCUS ASPETTI CIVILISTICI E FISCALI NELLA DEFINIZIONE DEI RAPPORTI PARTECIPATIVI SOCIETARI TRA CONIUGI Alessandro Piras Dottore commercialista e revisore legale in Roma Nell’ambito del “confronto dialettico” tra coniugi è di usuale e diffusa esperienza professionale la necessità di esaminare efficacemente e valutare opportunamente le reciproche capacità reddituali, patrimoniali e finanziarie, in particolare allorquando la titolarità di beni e/o servizi risulti non direttamente riferibile ai medesimi, bensì mediata attraverso l’esistenza di partecipazioni in società di diversa natura. Attraverso gli schermi societari, infatti, i coniugi potrebbero disporre e usufruire di significativi e consistenti “benefit” di natura economico-patrimoniale non direttamente riconducibili e/o intestati alle persone fisiche: intesi, evidentemente, essi “benefit” non nella loro accezione fiscale, bensì come libera disponibilità di beni, immobili e mobili, e come rilevante indiretta capacità finanziaria e reddituale. Obiettivo, dunque, del presente elaborato è fornire alcuni spunti di riflessione su specifici aspetti di natura civilistica e fiscale in tema di definizione dei rapporti partecipativi societari tra coniugi. 1. Acquisizione delle partecipazioni societarie alla comunione legale Una delle problematiche di natura civilistica oggetto di diversificate interpretazioni dottrinarie, unitamente a non univoche pronunce giurisprudenziali di merito, attiene all’acquisizione, o meno, al regime della comunione legale delle quote di partecipazioni societarie acquistate da uno dei coniugi, o da entrambi, in costanza di matrimonio: in altri termini, e più precisamente, quali siano le condizioni negoziali e la natura dei titoli partecipativi affinché possa essere attribuita a una valutazione di merito soggettivo (ipotizzata co-titolarità) una più che fondata ragionevolezza, dunque oggettività, patrimoniale [riconoscimento giuridico ex art. 177, lettera a), del codice civile]. Al riguardo si ritiene utile e opportuno segnalare subito che l’orientamento1 prevalente e consolidato della dottrina civilistica2 – seppur con soluzioni non sempre coincidenti – appare oramai concorde nel ritenere che gli acquisti delle quote di partecipazione in società di capitali3 rientrino tra i beni che cadono in regime di comunione legale: attraverso l’acquisto della quota sociale il coniuge, infatti, non accantona denaro di cui può disporre, ma lo investe in un diverso bene economico autonomamente suscettibile di produrre reddito, quindi valorizzabile. 1 Per un approfondimento delle differenti tesi in materia cfr. Piccolo, Comunione legale e partecipazioni sociali, in www.filodiritto.it, 9 maggio 2009, consultabile all’indirizzo http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=1496 2 Carraro, Oppo e Trabucchi, a cura di, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1977. 3 Per le partecipazioni anche di società di persone cfr. Cass. 2 febbraio 2009, n. 2569, di cui infra. 95 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 96 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 La tesi positiva4 pone, dunque, l’accento sull’aspetto patrimoniale (l’articolo 177 del codice civile utilizza il termine “acquisti” senza fare alcun riferimento all’oggetto dell’acquisto), rappresentato dall’acquisizione di azioni o quote, equiparando, quindi, tale forma di investimento alle altre forme di impiego fruttifero del risparmio ricomprese nella generale nozione di acquisti prevista dal citato articolo 177 del codice civile e non ravvisando, dunque, un’ontologica incompatibilità delle azioni o quote a costituire oggetto della comunione legale, fatta salva, peraltro, la distinzione tra proprietà della partecipazione e legittimazione all’esercizio dei diritti incorporati nella qualità di socio. Diverse le pronunce giurisprudenziali di merito positivo, e segnatamente: • Cassazione 22 novembre 2000, n. 2736 sancisce che i redditi di partecipazione societaria derivanti da quote acquisite in regime di comunione legale tra coniugi siano da imputarsi ai fini fiscali a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare netto. Nel caso di specie, la decisione della Corte trae origine dall’interpretazione letterale delle disposizioni codicistiche in tema di comunione legale tra coniugi, la cui ratio è chiaramente sottesa a ricomprendere nella comunione legale, di norma, ogni situazione giuridicamente apprezzabile sotto il profilo patrimoniale. I giudici muovono le proprie argomentazioni dal dettato dell’articolo 177, primo comma, c.c. che dispone, tra l’altro, che “... omissis... Costituiscono oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali... omissis...”, e del successivo articolo 179 che individua ed elenca i beni personali del coniuge che non costituiscono oggetto della comunione, non annoverandovi i redditi di partecipazione. Alla stregua delle citate disposizioni legislative, la Corte conclude, dunque, affermando che tutti gli acquisti operati dai coniugi (in regime di comunione legale) in costanza di matrimonio entrano a far parte della comunione legale, con la sola esclusione dei casi eccettuati espressamente previsti dalla legge, e ancora che, poiché l’acquisto di quote sociali e del relativo reddito non risulta annoverato nei casi eccettuati, ne consegue che, secondo le disposizioni del codice civile, quest’ultimo deve ritenersi soggetto al regime proprio della comunione legale. • Tribunale di Salerno 16 febbraio 2007 riconduce le azioni societarie nell’ambito dei beni giuridici che possono costituire oggetto della comunione legale in quanto, pur non essendo meri titoli di credito bensì titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale risulta prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo status di socio incorporato in tali titoli (richiamate anche Cass. 18 agosto 1997, n. 7437 e Cass. 23 settembre 1997, n. 9355). • Cassazione 2 febbraio 2009 n. 2569 stabilisce che l’iniziale partecipazione di uno dei coniugi a una società di persone e i suoi successivi aumenti, ferma la distinzione tra la loro titolarità e la legittimazione all’esercizio dei diritti nei confronti della società che essi attribuiscono al socio, rientrano tra gli acquisti che, a norma dall’articolo 177, lett. a), c.c., costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio a opera di uno solo di essi, e non sono beni personali, ove non ricorra una delle ipotesi previste dall’articolo 179 del codice civile. Secondo quest’ultimo orientamento farebbero, dunque, parte della comunione legale gli aumenti della partecipazione nella società eseguiti in costanza di matrimonio, con la necessaria distinzione tra la partecipazione iniziale acquisita anteriormente al vincolo coniugale e i suoi aumenti successivi. Ad adiuvandum non sembra privo di utilità segnalare le precisazioni contenute nella Circolare 22 ottobre 2008 n. 6/IR emanata dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili in tema di problematiche relative al trasferimento delle partecipazioni di società a responsabilità limitata, dove è stato chiarito che: 4 Diversamente, la posizione minoritaria e negativa, che tende a escludere dalla comunione legale le azioni o le quote societarie, muoverebbe dalla considerazione che la comunione debba riguardare solo “gli acquisti”, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento di proprietà della cosa o la costituzione di diritti reali sulla cosa medesima, con esclusione, quindi, dei diritti di credito. E poiché la situazione giuridica incorporata nei titoli di partecipazione societaria non sarebbe ascrivibile alla categoria dei diritti reali, ma risulterebbe piuttosto assimilabile a quella dei diritti di credito, l’acquisto di azioni o quote di partecipazione dovrebbe ritenersi escluso dalla comunione legale. 96 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 97 FOCUS (a) la comunione dei coniugi si estende anche all’acquisto di partecipazioni in società di capitali; (b) ove l’acquisto avvenga a titolo personale da parte di uno solo dei due coniugi, dall’atto dovrà risultare il consenso del coniuge escluso dall’acquisto; (c) in caso di acquisto della quota da parte del coniuge in regime di comunione dei beni, l’organo amministrativo sarà obbligato a iscrivere entrambi i coniugi nel libro soci. 2. Strumenti di controllo da parte dei titolari di quote di partecipazione L’azione riformatrice attuata dal legislatore civilistico con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ha attribuito rilevanza centrale alla posizione dei soci, in particolare attraverso il rafforzamento dei diritti di informazione e di consultazione, già peraltro disciplinati, seppur con minore ampiezza, dal previgente articolo 2489 c.c. Infatti, l’attuale articolo 2476, secondo comma, c.c. statuisce, testualmente, che: “I soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione”. Pertanto al coniuge eventualmente proprietario di una quota di partecipazione, anche minima, al capitale sociale, ma escluso5 dalla gestione attiva dell’impresa in quanto non titolare di alcuna carica di natura amministrativo-consiliare, verrebbe comunque riconosciuta, in quanto portatore di un proprio interesse economicamente tutelato dalla legge, la possibilità di un consapevole e efficace controllo sulle dinamiche aziendali, attraverso: • il diritto all’informazione (“notizie sullo svolgimento degli affari sociali”), da intendersi in una accezione ampia del termine tale da ricomprendervi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, la richiesta di: 1) chiarimenti e precisazioni attinenti situazioni economico-patrimoniali periodiche della società (i.e. esistenza, o meno, di specifici asset mobiliari e immobiliari; presenza, o meno, di crediti commerciali e/o di diversa natura; ammontare delle disponibilità liquide esistenti sugli estratti conto bancari; stato e natura dell’indebitamento; composizione delle principali voci di costo; impiego e remunerazione del capitale investito eccetera); 2) notizie su singoli affari intrapresi; 3) dati sull’andamento generale dell’impresa; • il diritto di consultazione (“anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione”), espressione tramite la quale, a opinione e giudizio di chi scrive, possono ragionevolmente essere annoverate e incluse sia le scritture contabili, civilistiche e fiscali, obbligatorie (i.e. libro giornale, registri ai fini Iva, libro verbali assemblee, libro verbali consigli di amministrazione, libro verbali collegio sindacale) sia tutti i documenti relativi alla gestione (scil. estratti conto bancari, fatture, corrispondenza, contratti stipulati dalla società, stati di avanzamento lavori, atti giudiziari e di accertamento fiscale eccetera). Quanto ai termini e alle modalità attraverso i quali esercitare i menzionati diritti, il contenuto della disposizione normativa consente di affermare che: • non sussistano particolari formalità da osservare (rispetto, tuttavia, dei princìpi generali di correttezza, buona fede, riservatezza e privacy6) e specifici limiti di tempo (il controllo va tuttavia 5 Il socio amministratore ha già il diritto, implicito nella carica ricoperta, di accedere a tutta la documentazione sociale in ragione proprio della funzione gestoria. 6 La tutela della società è realizzata non già attraverso un’interpretazione inammissibilmente restrittiva del dovere di disclosure, bensì sul piano della responsabilità per l’ipotetica violazione del segreto, cfr. Niccolini, Stagno d’Alcontres, a cura di, Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004. 97 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 98 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 contemperato con le esigenze di un regolare svolgimento dell’attività amministrativa7); • sia sempre possibile per il socio avvalersi dell’assistenza di professionisti nello svolgimento dell’attività consultivo/ispettiva ovvero delegare loro l’esercizio del diritto. Questione controversa, invece, la possibilità di includere nell’accezione terminologica del diritto di consultazione anche il potere di estrarre, e quindi ottenere, copia della documentazione sociale. Al riguardo una parte della giurisprudenza8 di merito reputa pienamente legittima tale circostanza. Nel caso in cui l’esercizio del diritto de quo sia oggetto di diniego da parte dell’organo amministrativo9 e siano ravvisabili gli estremi del pregiudizio imminente e irreparabile, si ritiene possa essere validamente esperita l’azione e la tutela cautelare di cui all’art. 700 c.p.c. Mutatis mutandis, l’articolo 2320, terzo comma, c.c., che attribuisce ai soci accomandanti il diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite e di controllarne l’esattezza attraverso la consultazione dei libri e degli altri documenti societari. Al riguardo è di tutta evidenza che il riferimento testuale “al bilancio e al conto dei profitti e delle perdite”, contenuto nella citata disposizione normativa, deve essere inteso nella sua accezione tecnico-contabile quale documento inequivocabilmente costituito, nel suo insieme unitario e organico, da stato patrimoniale e conto economico, dovendosi, pertanto, configurare – evidentemente per il socio accomandante – quale strumento di attendibile conoscenza del risultato economico conseguito nell’esercizio (ivi inclusa la distinta evidenza dei componenti positivi e negativi che quel risultato hanno concorso a determinare) e della connessa composizione del patrimonio aziendale (in modo da esprimere la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa nei limiti delle informazioni desumibili dalla classificazione e identificazione delle poste patrimoniali in funzione delle caratteristiche tecniche e finanziarie delle attività e passività, avuto riguardo al loro grado di liquidità ed esigibilità). In altri termini, e più precisamente, anche al socio accomandante di una società in accomandita spetterà quel medesimo diritto di informazione riconosciuto al titolare di una quota di partecipazione al capitale sociale di una società a responsabilità limitata; diritto di informazione necessario per un corretto riscontro e controllo della contabilità della società funzionale all’esercizio dei propri doveri societari. 3. Metodi e criteri di valorizzazione delle quote di partecipazione Come noto, la quota di partecipazione in una società configura, sostanzialmente, un bene patrimoniale immateriale – assimilabile ai beni mobili, non iscritti al pubblico registro, di cui all’articolo 812, terzo comma, c.c. – ed esprime un’identificata posizione contrattuale, da cui derivano diritti e 7 Tribunale di Milano 30 novembre 2004, ove viene precisato come nell’ambito dei diritti dei soci non possa essere consentito “... omissis... l’accesso indiscriminato ai locali della società, a prescindere dalla volontà della società stessa ovvero con modalità non concordate o comunque irragionevoli e contrarie al canone di buona fede, sicché normalmente può prefigurarsi l’accesso con modalità concordate in giorni ed orari lavorativi... omissis...”. 8 Tribunale di Biella 18 maggio 2005, Tribunale di Ivrea 2 luglio 2005, Tribunale di Roma 4 dicembre 2007 e 16 gennaio 2008, Corte d’Appello di Milano 13 febbraio 2008: riconoscimento del diritto di acquisire a proprie spese copia dei documenti inerenti la gestione aziendale. Contra, nega tale facoltà: Tribunale di Chieti 25 agosto 2005, Tribunale di Parma 25 ottobre 2004, Tribunale di Milano 30 novembre 2005. 9 La violazione dei diritti esaminati potrebbe integrare fattispecie sanzionatorie di natura non solo civile, ma vieppiù amministrative e penali. Con riferimento al primo aspetto, il rifiuto dell’organo amministrativo di fornire informazioni e notizie sulla gestione degli affari dell’impresa e/o di esibire la documentazione sociale potrebbe legittimare l’esercizio dell’azione di responsabilità e, in presenza di gravi irregolarità, integrare eventualmente anche gli estremi di una revoca cautelare dalla carica e dalle funzioni di rappresentanza legale e amministrativa trattandosi di fatti/eventi (violazione di obblighi di lealtà, correttezza e diligenza) di entità tale da incidere negativamente sulla natura fiduciaria del rapporto contrattuale. In ordine ai profili amministrativi, le violazioni in esame potrebbero integrare la fattispecie di impedito controllo (articolo 2625, primo comma, c.c.). Ove, infine, la condotta omissiva possa aver cagionato un danno ai soci, potrebbe addirittura invocarsi il reato di cui all’articolo 2625, secondo comma, c.c. 98 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 99 FOCUS doveri, avente un (oggettivo) valore – non necessariamente proporzionale10 all’ammontare del capitale sociale dalla stessa (quota) rappresentato – causalmente connesso al complessivo valore economico-patrimoniale dell’impresa partecipata. La determinazione, dunque, del “pregio” (rectius costo/prezzo) di una quota di partecipazione risulta collegata in modo funzionale al valore dell’azienda cui la medesima si riferisce. Al riguardo occorre segnalare che pervenire alla determinazione del valore di una società non equivale a determinarne automaticamente anche il prezzo. Mentre quest’ultimo, infatti, è il risultato di una contrattazione e deriva dall’incontro sul mercato di forze economiche contrapposte a interessi ed esigenze non coincidenti, il valore (economico) di un’impresa – e consequenzialmente delle relative quote di partecipazione – è il risultato dell’applicazione di uno o più criteri valutativi, di astrazioni suggerite dalla tecnica aziendalistica i cui risultati costituiscono, generalmente, la base di partenza delle trattative che conducono alla determinazione del prezzo. Ciò premesso, le metodologie maggiormente proposte dalla dottrina aziendalistica e utilizzate nella prassi professionale sono riconducibili alle seguenti principali categorie: • metodi patrimoniali • metodi reddituali • metodi misti (patrimoniali/reddituali) • metodi finanziari • metodo dei moltiplicatori • metodo EVA (Economic Value Added) Segnatamente, in estrema sintesi: Metodi patrimoniali Le metodologie di tipo patrimoniale11 sono fondate sul principio della valutazione analitica della consistenza del patrimonio di un’azienda. Il valore di un’impresa in funzionamento è, dunque, il risultato della valorizzazione (motivata e documentata ovvero basata su parametri e formule dedotti dall’esperienza) degli elementi attivi e passivi dell’impresa, inclusi i beni immateriali (a titolo esemplificativo: marchi, brevetti, know-how, rete di vendita eccetera). Tutti gli anzidetti elementi patrimoniali vanno assunti non al loro valore contabile, bensì al loro valore corrente; il che implica l’attivazione di un processo valutativo atto a tramutare il patrimonio netto aziendale, espresso in valori contabili alla data di riferimento della stima, in patrimonio netto aziendale espresso in valori correnti alla medesima data. Partendo dal capitale netto contabile si procede, dunque, alla valutazione dei valori correnti non monetari, alla valutazione delle plusvalenze e minusvalenze delle altre voci patrimoniali attive e passive e alle opportune rettifiche e adeguamenti dei fondi di accantonamento per rischi e impegni. La somma algebrica del capitale netto contabile e delle rettifiche, adeguamenti e valutazioni, come sopra descritti, determina il valore dell’impresa (patrimonio netto rettificato). 10 L’ipotesi di proporzionalità perfetta, invero, tra la percentuale della quota di partecipazione e la percentuale del capitale (economico) complessivo rappresentato dalla medesima quota si rivela alquanto inappropriata e scarsamente rappresentativa della realtà economico-giuridica sottostante; il “valore del capitale” definisce, infatti, anche il valore di una quota di partecipazione solo allorquando quest’ultima corrisponde alla totalità del capitale medesimo: i.e. quota di partecipazione corrispondente al 100% del capitale sociale. Nella valorizzazione dei titoli partecipativi occorrerebbe, dunque, tener presente la più che verosimile e consueta ipotesi di applicabilità – quali elementi qualificanti del valore, quindi del prezzo, della partecipazione – di un “premio di maggioranza” ovvero di uno “sconto di minoranza”: il valore (economico) di una quota di partecipazione dipenderà, pertanto, anche dalla circostanza che il possibile acquirente, a seguito dell’incremento della percentuale in suo possesso, raggiunga un “controllo di maggioranza” in sede di assemblea ordinaria e/o straordinaria dei soci, ovvero non consegua un quorum di voti sufficienti a controllare le deliberazioni delle medesime assemblee. 11 Secondo il metodo patrimoniale semplice il valore di un’azienda trova la sua formalizzazione nell’espressione di seguito indicata: W = PNR dove: W = valore dell’azienda, PNR = patrimonio netto rettificato che tiene conto degli elementi patrimoniali contabilizzati. Nel caso del metodo patrimoniale complesso, il valore di un’azienda trova formalizzazione nella seguente espressione: W = PNR + A dove (in aggiunta alla simbologia più utilizzata): A = componenti immateriali non contabilizzati. 99 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 100 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 Metodi reddituali L’adozione di una metodologia di tipo reddituale presuppone, preliminarmente, la stima della redditività medio-normale prospettica dell’azienda, ovvero l’intrinseca capacità dell’impresa di produrre stabilmente un flusso di ricchezza. Le metodologie di tipo reddituale considerano, infatti, il valore di un’impresa direttamente dipendente dai redditi che, in base alle attese, la stessa sarà in grado di realizzare e produrre nel futuro12. Metodi misti (patrimoniali/reddituali) Tali metodologie considerano il valore di un’azienda come funzione della sua consistenza patrimoniale e del valore di avviamento, inteso come valore attuale di una serie di sovraredditi futuri (i.e. eccedenza del reddito medio normale rispetto al reddito di un normale impiego di disponibilità finanziarie)13. Nella considerazione che il valore del capitale economico di un azienda è suscettibile di molteplici e differenti determinazioni quantitative e che non può ragionevolmente postularsi l’esistenza di una metodologia valutativa “ottima” in senso assoluto, la scelta del metodo in oggetto consente di coniugare le caratteristiche di razionalità dei modelli basati su grandezze flusso (metodi reddituali) con i requisiti di obiettività propri delle metodologie patrimoniali14. Metodi finanziari Le metodologie in oggetto si basano sul principio secondo il quale il valore dell’azienda è dato dal valore attualizzato di tutti i flussi di cassa che la stessa sarà capace di generare per un certo numero di anni successivi; flussi di cassa in cui è compreso anche l’importo di liquidazione dell’intero complesso aziendale15. Metodo dei moltiplicatori Le metodologie in oggetto determinano il valore dell’azienda attraverso l’applicazione di coefficienti moltiplicatori a una o più specifiche grandezze economiche e/o finanziarie dell’impresa da valutare. In altri termini, e più precisamente, la determinazione del valore dell’impresa avviene prendendo generalmente a riferimento i prezzi praticati dal mercato e rapportandoli a una misura di performance (utile netto, margine operativo lordo, flussi di cassa eccetera) realizzata dall’azienda in un dato periodo. Le metodologie in esame configurano, dunque, più prezzi probabili di negoziazione per una data impresa, con riferimento a esperienze omogenee e paragonabili, che valori oggettivi del capitale economico di una impresa: in sintesi, valutazioni non dimostrabili, dedotte da osservazioni di mercato e utilizzabili quale metodo di controllo delle tecniche valutative analitiche. Metodo EVA L’EVA16 rappresenta un indicatore della performance aziendale e misura, attraverso il confronto tra il reddito operativo netto normalizzato e il costo medio ponderato del capitale complessivamente investito nell’attività d’impresa, la variazione di valore – in termini differenziali – generata dalla ge- 12 Secondo il metodo reddituale puro il valore di un’azienda trova formalizzazione nella seguente espressione: W = R/i dove: W = valore dell’azienda, R = reddito medio normalizzato atteso per il futuro, i = tasso di attualizzazione del profitto. Nell’ipotesi in cui, in relazione alla natura dell’attività e alle condizioni del mercato, si presuma un flusso reddituale di durata limitata nel tempo, l’espressione diventerà: W = R x ani dove (in aggiunta alla simbologia già illustrata): n = numero definito e limitato di anni. 13 Secondo il metodo patrimoniale/reddituale il valore di un’azienda trova formalizzazione nella seguente espressione: W = PNR + ani x (R – i1 x PNR) dove: W = valore dell’azienda, PNR = patrimonio netto rettificato, R = reddito medio normalizzato, i = tasso di attualizzazione, i1 = tasso di rendimento del sovrareddito. 14 Una metodologia di valutazione è “razionale” quando è dotata di consistenza sul piano teorico, “obiettiva” quando è concretamente applicabile e fondata su dati certi o quantomeno credibili (i.e. informazioni sulla consistenza patrimoniale). In questa ottica i metodi basati su grandezze flusso (metodi reddituali e finanziari) sono estremamente razionali, ma spesso limitatamente obiettivi; diversamente i metodi patrimoniali risultano estremamente obiettivi, ma al contempo limitatamente razionali. 15 Secondo il metodo finanziario l’espressione finanziaria più comune (flussi di cassa scontati) è la seguente: W = F1 x V1 + F2 x V2 + ... + Fn x Vn dove: W = valore dell’azienda, Fn = flussi monetari disponibili (comprensivi del flusso derivante dalla liquidazione dell’azienda), Vn = coefficienti di attualizzazione. 16 L’Economic Value Added viene calcolato attraverso la seguente espressione: EVA = NOPAT – WACC x CI dove: EVA = Economic Value Added, NOPAT = reddito operativo netto normalizzato, WACC = costo medio ponderato delle fonti di finanziamento, CI = capitale investito rettificato. 100 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 101 FOCUS stione operativa nel corso del periodo di riferimento. Rappresenta, pertanto, un parametro di valutazione della performance aziendale che riassume valori di natura economica [redditività operativa espressa dal net operating profit after tax (nopat)], patrimoniale (capitale circolante netto, investimenti in attivo fisso, passività operative espressi dal capitale investito netto rettificato) e finanziaria [costo dell’equity e dell’indebitamento finanziario, rischio specifico dell’attività, struttura finanziaria espressi dal costo medio ponderato delle fonti di finanziamento (wacc)]. Secondo quanto esposto sinteticamente, la scelta della metodologia di stima da adottare (ovvero di contestuali diverse metodologie) dipenderà naturalmente: 1) dalle caratteristiche della struttura giuridico-gestionale dell’impresa; 2) dal settore di attività; 3) dalle informazioni quali-quantitative acquisite e disponibili (cfr. paragrafo precedente); 4) dall’identità dei soggetti interessati. A titolo esemplificativo, ove oggetto di una definizione negoziale tra coniugi risultasse una quota di partecipazione in una società immobiliare, potrebbe ritenersi validamente applicabile una metodologia di natura patrimoniale: la logica che, nella fattispecie, più che ragionevolmente indurrebbe all’adozione e renderebbe praticabile l’applicazione del citato procedimento valutativo risulterebbe fondata sul convincimento che nella valutazione delle attività componenti il patrimonio – fondamentalmente gli immobili – siano di fatto già presenti tutte quelle informazioni necessarie per la determinazione del valore del capitale economico della società (in particolare, valori di mercato degli immobili17) risultando, dunque, la capacità reddituale marginale rispetto al peso degli investimenti sul patrimonio netto complessivo dell’impresa. 4. Imponibilità delle plusvalenze da cessione di quote di partecipazione Ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 67, lettere c) e c bis), e 68 del d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi), le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni societarie, azionarie e non [dunque, ai fini di cui trattasi, sia in società di persone (Sas e Snc) che in società di capitali (Spa, Srl, Sapa)], concorrono alla determinazione del reddito imponibile del cedente (persona fisica) secondo termini e modalità sinteticamente schematizzati nella tabella alla pagina seguente. Consequenzialmente, è di tutta evidenza che, con riferimento a ogni ipotesi – di natura transattiva e non – finalizzata a una eventuale definizione dei rapporti partecipativi societari tra coniugi, ne dovrà essere attentamente e opportunamente valutato il relativo impatto fiscale. Al riguardo non sembra privo di utilità segnalare il chiarimento fornito dall’Amministrazione finanziaria con Risoluzione 30 aprile 2002, n. 131/E, in merito al regime di tassazione applicabile alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate acquisite in regime di comunione legale dei beni ex art. 177 c.c. Il caso riguarda una persona fisica, in regime di separazione legale dei beni ex art. 215 c.c., il cui coniuge in costanza di tale regime ha acquisito una partecipazione societaria qualificata nella misura del 30%, oggetto di successiva cessione e relativo realizzo di plusvalore. In data anteriore all’acquisto i coniugi hanno tuttavia convenuto, con scrittura privata autenticata, che le quote di capitale acquisite avrebbero costituito comunione in parti uguali (così come i relativi utili, oneri e passività); di talché l’apposita istanza rivolta all’Agenzia delle Entrate finalizzata alla richiesta/conferma del regime impositivo applicabile al caso di specie, segnatamente: quale che sia la tassazione della plusvalenza realizzata sulla complessiva cessione di suddetta partecipazione del 30% in base al17 Questo convincimento si fonda, a ben vedere, sull’ipotesi che i vari beni immobili considerati abbiano un loro autonomo valore, realizzabile anche cedendoli separatamente. In conseguenza di tale assunto verrebbe meno – o diverrebbe tenue fino al punto di perdere significato – quel collegamento funzionale tra i beni che normalmente caratterizza il patrimonio di un’azienda. 101 3. AIAF 3-11 focus2_Layout 1 18/11/11 13.13 Pagina 102 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 % DI QUALIFICAZIONE partecipazione qualificata società di capitali/enti dotati di organo assembleare: % di diritti di voto esercitabili in sede di assemblea ordinaria > al: • 2% per titoli negoziati in mercati regolamentati • 20% altre partecipazioni diverse da società di persone/enti: % di partecipazione al capitale ovvero al patrimonio sociale > al: • 5% per titoli negoziati in mercati regolamentati • 25% altre partecipazioni diverse da partecipazione non qualificata diritti di voto / % di partecipazione < % di cui sopra DETERMINAZIONE DELLA PLUSVALENZA differenza tra il corrispettivo percepito18 e il costo o valore di acquisto aumentato di ogni onere relativo19 NATURA DELLA PARTECIPAZIONE REGIME DI TASSAZIONE La plusvalenza deve essere indicata nel modello unico PF (quadro RT) e concorre alla determinazione del reddito nella misura del 49,72% del relativo ammontare (40% per le plusvalenze realizzate sino al 31 dicembre 2008) La plusvalenza (comunque da indicare nel modello unico PF, quadro RT) è da assoggettare a imposta sostitutiva nella misura del 12,5% (non occorre, pertanto, alla determinazione del reddito complessivo della persona fisica) N.B. L’articolo 2, comma 6, del d.l. 13 agosto 2011 n. 138 ha elevato la misura dell’imposta sostitutiva al 20% con effetto dalla data del 1° gennaio 2012. l’imposta sostitutiva del 12,5%, trattandosi invero di quote di partecipazione non qualificate (15%) attribuibili nella misura del 50% a ciascun coniuge in forza e virtù proprio della scrittura privata. Positivo il riscontro dell’ufficio secondo il quale “... omissis... L’atto stipulato produce gli effetti di individuare l’effettiva comproprietà delle quote sociali e la suddivisione ivi prevista assume necessariamente valenza ai fini dell’individuazione dell’entità della partecipazione ceduta e della relativa aliquota di imposta sostitutiva applicabile... omissis... Pertanto, l’imputazione a ciascuno dei coniugi della metà della partecipazione ceduta conduce all’applicazione dell’imposta sostitutiva nella misura del 12,5 per cento, configurandosi una cessione di partecipazione non qualificata... omissis...”. Tuttavia, impia sub dulci melle venena latent20: inquietante, infatti, il parere conclusivo contenuto nella citata risoluzione secondo cui “... omissis... considerato che tale soluzione comporta un’attenuazione della tassazione non soltanto del ‘capital gain’, ma anche dei dividendi derivanti dalla partecipazione sociale, resta fermo il potere dell’Amministrazione finanziaria di verificare, in sede di accertamento, che l’atto stipulato tra le parti non sia finalizzato a simulare l’effettivo possessore delle azioni per interposta persona, ai sensi dell’articolo 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. In tal caso, tra l’altro, potrebbe essere ravvisato anche il reato di falso in atto pubblico”. Ciò nondimeno, affirmanti incumbit probatio21! 18 Le plusvalenze sono, pertanto, tassate con applicazione del criterio di cassa cioè quando il prezzo della cessione sia realmente pagato e corrisposto. 19 Per le partecipazioni in società di persone il valore iniziale è incrementato dei redditi fiscali imputati nei vari periodi d’imposta al socio e ridotto degli utili effettivamente distribuiti e delle perdite imputate al socio. 20 Publio Ovidio Nasone, Amori, I, 8, 104 (ndr: Sotto il dolce miele si nascondono tremendi veleni). 21 Ndr: L’onere della prova spetta a chi afferma. 102 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 103 EUROPA INGHILTERRA: L’ASSEGNAZIONE DEI BENI EREDITATI O ACQUISITI ANTERIORMENTE AL MATRIMONIO DA PARTE DEI CONIUGI IN CASO DI DIVORZIO Suzanne Todd Partner - Family Team, Head of Italian Group London, Withers LLP Katharine Landells Partner - Family Team, Withers LLP In Inghilterra l’assegnazione dei beni ereditati o acquisiti anteriormente al matrimonio da parte dei coniugi in caso di divorzio è sempre stato un tema dibattuto. Questo fin dai tempi del caso White, discusso alla Camera dei Lord nell’ormai lontano 2000 e trattato nell’articolo di Suzanne Todd e Michael Wells-Greco, Inghilterra. La ripartizione dei beni in caso di divorzio, pubblicato in Rivista AIAF 1/2007. La sentenza del caso White ha introdotto nel diritto di famiglia inglese il “criterio di eguaglianza” (in inglese “yardstick of equality”). La sentenza stabiliva che questo principio doveva essere applicato dai giudici al fine di calcolare l’ammontare del compenso economico spettante a uno dei coniugi. Dal caso White in poi, il principio che riconosce a ogni coniuge il diritto all’assegnazione di una porzione del patrimonio familiare in caso di divorzio ha avuto una notevole evoluzione, consolidandosi ulteriormente anche grazie alla decisione pronunciata nel 2006 nell’ambito del caso Miller vs McFarlane. A fronte di tale evoluzione oggi, in Inghilterra, la determinazione dei beni che sono stati acquisiti in costanza di matrimonio (di seguito detti anche “beni matrimoniali”) da assegnare a ciascuno dei coniugi e di quelli che invece esulano da questa categoria è oggetto di una valutazione sempre più attenta. Due recenti decisioni della Corte d’Appello inglese dimostrano l’attuale orientamento giurisprudenziale su questo tema e come la sua trattazione si sia notevolmente sviluppata dai tempi del caso White. Vi riportiamo qui di seguito una sintesi di tali decisioni. Il caso Robson vs Robson Nel caso Robson, deciso dalla Corte d’Appello nel 2010, il marito era titolare di un cospicuo patrimonio (pari a 22 milioni di sterline) che nella quasi totalità era stato acquisito prima del matrimonio e in gran parte ereditato. Il marito era proprietario di un “sontuoso” immobile nell’Oxfordshire, poi adibito a casa familiare, di una tenuta agricola, di un immobile tra le montagne della Scozia, di due immobili siti a Londra e di due appezzamenti di terreno edificabili. Il suo reddito annuale lordo ammontava a circa 470.000 sterline. Il giudice di prima istanza (dott. Justice Charles Wilson) ritenne che il marito non avesse ben gestito la tenuta agricola. Considerato che la famiglia aveva sempre adottato uno stile di vita troppo alto rispetto al reddito familiare, il giudice non era affatto convinto del fatto che il marito sarebbe stato in grado, contrariamente a quanto sosteneva, di preservare la tenuta agricola a beneficio della prole e delle generazioni future. A differenza di quanto dichiarato dal marito, ovvero che la tenuta agricola fosse un immobile “dinastico”, il giudice ritenne che “la coppia si manteneva finan- 103 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 104 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 ziariamente solo con il patrimonio ereditato dal marito e che il loro stile di vita era molto più dedito al divertimento e a perseguire le passioni sportive che a preservare l’eredità di famiglia per la prole e le generazioni future”. Il giudice decise di assegnare alla moglie una somma, inferiore a quella dalla stessa richiesta, pari a 8 milioni di sterline, disponendo che 5 milioni dovessero essere investite in beni immobili. Il marito fu comunque costretto a vendere la tenuta agricola per recuperare tale somma. La circostanza che il patrimonio ereditato era stato già speso durante il matrimonio aveva condotto il giudice alla conclusione che il restante ammontare dovesse essere distribuito tra le parti. Questa fu la principale ragione della pronuncia di questa sentenza. Il marito appellò la sentenza. Nel frattempo la moglie acquistò una proprietà del valore di 4,3 milioni di sterline ovvero di un valore di 700.000 sterline inferiore rispetto ai 5 milioni di sterline che le erano stati assegnati per questo tipo di investimenti. La sentenza di appello ridusse l’importo del compenso economico inizialmente assegnato alla moglie da 8 a 7 milioni di sterline sia perché il coniuge aveva acquistato un immobile a un prezzo inferiore alla somma (5 milioni di sterline) che gli era stata assegnata sia perché si era ritenuto che il giudice di prima istanza avesse quantificato le esigenze economiche della moglie in modo ingiustificatamente troppo alto. La Corte d’Appello sottolineò che, sebbene il patrimonio fosse stato ereditato dal marito, tuttavia i coniugi avevano deciso di comune accordo di provvedere ai bisogni della famiglia con tali beni e di utilizzarli praticamente in sostituzione del loro reddito lavorativo. La Corte d’Appello rilevò anche che “non si può contestare una sentenza che ha trattato il patrimonio nello stesso identico modo in cui i coniugi lo hanno impiegato in costanza di matrimonio”. La Corte d’Appello ha inoltre pronunciato una serie di princìpi guida fondamentali: 1. l’obiettivo primario del Tribunale nell’esercizio delle sue funzioni deve sempre essere quello di addivenire a una decisione equa e giusta; 2. per addivenire a una decisione equa e giusta il giudice deve valutare lo stato di bisogno di ciascun coniuge (need), il suo diritto a ricevere un indennizzo (compensation) e a ricevere una porzione del patrimonio familiare (sharing), come stabilito in occasione del caso Miller vs McFarlene; 3. la circostanza che i beni in questione siano ereditati e non derivino dal reddito lavorativo del coniuge non costituisce una ragione valida per trattare tali beni differentemente da quelli acquisiti in costanza di matrimonio. La natura ereditaria dei beni tuttavia ha la sua rilevanza, come pure la durata del matrimonio e tutte le altre circostanze del caso, ivi incluso anche per quanto tempo i coniugi hanno usufruito del patrimonio ereditato. Più i coniugi avranno usufruito dei beni ereditati in maniera rilevante per lungo tempo, meno equa e giusta sarà la sentenza che non prende in considerazione tali beni nella definizione degli aspetti patrimoniali di una coppia in caso di divorzio. Tuttavia “qualora uno o più beni siano acquisiti prima del matrimonio o siano ereditati nel corso dello stesso, al coniuge che ha ereditato tali beni potrebbe essere riconosciuto il diritto a detenerli. Se invece durante il matrimonio tali beni sono stati considerevolmente utilizzati per sostenere la famiglia, la sentenza che non li assegna all’uno e all’altro coniuge rendendo in tal modo impossibile il soddisfacimento delle esigenze economiche delle parti non sarà certamente equa”. Nell’esercizio delle sue funzioni il Tribunale farà tutto quanto è in suo potere per addivenire al soddisfacimento delle esigenze di entrambe le parti anche qualora questo dovesse portare all’assegnazione o alla vendita di beni ereditati dai coniugi. Il caso Jones vs Jones Un altro precedente relativo ai beni patrimoniali acquisiti dal marito anteriormente il matrimonio è stato il caso Jones deciso a fine 2010 da una Corte d’Appello presieduta, tra l’altro, dallo stesso giu- 104 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 105 EUROPA dice di prima istanza del caso Robson. Il caso Jones e il caso Robson avevano in comune la seguente circostanza: la sussistenza di beni acquisiti anteriormente al matrimonio ma costituenti fonte primaria per il soddisfacimento dei fabbisogni economici della famiglia e, quindi, da assegnare e ripartire necessariamente tra i coniugi, a seconda della loro qualità e natura, ai fini della definizione del divorzio. Mentre nel caso Robson la quasi totalità del patrimonio del marito era stata acquisita prima del matrimonio e in gran parte ereditata, nel caso Jones il patrimonio detenuto dal marito era quello acquisito per effetto dell’esercizio di un’attività commerciale. Tale attività era stata avviata nel 1986, circa dieci anni prima del matrimonio. Le parti contrassero matrimonio nel 1996, quando il marito aveva quarantaquattro anni e la moglie ne aveva quasi trenta, per poi separarsi a gennaio 2006. Sebbene all’inizio del procedimento il marito avesse dichiarato che la sua attività aveva approssimativamente un valore di 3 milioni di sterline, nel maggio 2007 la stessa fu venduta al prezzo di 25 milioni di sterline. Lord Justice Wislon della Corte d’Appello comunicò alle parti che il patrimonio familiare, ammontante complessivamente a 25 milioni di sterline, era composto da beni matrimoniali e beni acquisiti anteriormente al matrimonio (di seguito detti anche “beni non matrimoniali”) e che pertanto occorreva innanzitutto individuare esattamente quali beni appartenessero rispettivamente all’una e all’altra categoria. Solo a seguito di tale distinzione, si sarebbe proceduto a un’equa assegnazione degli stessi, tenendo conto di tutte le circostanze del caso. Secondo Lord Justice Wilson non vi era alcuna ragione valida tale per cui la moglie avrebbe dovuto beneficiare anche dei beni non matrimoniali né vi era motivo per cui i beni matrimoniali non dovessero essere condivisi equamente tra i coniugi. Il nodo della questione era quindi stabilire il valore dei beni non matrimoniali, ovvero il valore dell’attività commerciale del marito alla data del matrimonio. Lord Justice Wilson identificò due importanti nuovi criteri, di seguito riportati, da applicare al fine di definire il valore dell’attività commerciale alla data del matrimonio. Lord Justice Wilson riteneva fosse opportuno determinare il valore della società sulla base dell’applicazione del criterio del cosiddetto “potenziale latente” (latent potential) o del cosiddetto “trampolino di lancio” (springboard) ovvero considerando anche il potenziale di crescita futura del valore della società. Secondo Lord Justice Wilson, alla luce dell’applicazione di tale criterio, il valore della società alla data del matrimonio ammontava a 4 milioni di sterline (i consulenti contabili delle parti ritennero che, senza l’applicazione di tali criteri, il valore della società del marito ammontava a 2 milioni di sterline). Il secondo criterio introdotto da Lord Justice Wilson era quello della “crescita economica passiva” (passive economic growth) tra la data del matrimonio e quella della vendita della società. L’aumento del valore della società generato dalla crescita passiva non poteva esattamente essere considerato come un bene non matrimoniale alla pari del valore della società alla data del matrimonio. In questo caso Lord Justice Wilson dichiarò che il valore complessivo della “porzione non matrimoniale” della società era pari a 9 milioni di sterline. Dividendo equamente l’importo di 16 milioni di sterline (ovvero la cifra risultante dalla differenza tra il valore della società alla data del matrimonio, 9 milioni di sterline, e quello al momento del divorzio, 25 milioni di sterline, Lord Justice Wilson assegnò alla moglie un compenso di 8 milioni di sterline. Lord Justice Wilson specificò che era stato definito tale ammontare non solo ed esclusivamente in virtù di un calcolo “prettamente aritmetico”, ma anche e soprattutto in considerazione del fatto che il giudice avesse comunque ritenuto l’importo equo e giusto. In questo caso, l’ammontare risultava adeguato in quanto in ogni caso corrispondeva al 32% dell’intero patrimonio familiare. I princìpi del diritto inglese Il caso Robson e il caso Jones sono i più recenti di una lunga serie di casi giudiziari in cui si è cercato di affrontare il tema della disciplina e, in particolare, dell’assegnazione ai coniugi in caso di 105 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 106 AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011 divorzio dei differenti beni patrimoniali. La prima significativa decisione su questo tema fu quella del caso White. In questo caso il giudice riconobbe che “la natura e il valore dei beni nonché il momento e le circostanze in cui la titolarità degli stessi è stata acquisita, sono fattori rilevanti ai fini della decisione finale degli aspetti patrimoniali del divorzio”. Nonostante quanto statuito nella decisione del caso White, continuava a persistere tra i giudici una disparità di opinioni in merito all’effettiva rilevanza o meno di tali fattori. Il caso Miller vs McFarlane dimostrò che circa la qualificazione non matrimoniale di un bene vi erano due distinte scuole di pensiero. Secondo un primo orientamento erano da considerarsi non matrimoniali tutti quei beni che i coniugi avevano acquisito o ereditato oppure ricevuto per effetto di una donazione in costanza di matrimonio. Sempre secondo questo orientamento il “criterio dell’eguaglianza” non doveva essere automaticamente applicato ai beni non matrimoniali. La seconda scuola di pensiero invece riteneva non matrimoniali i beni e le attività, ivi incluse quelle commerciali, non impiegati o esercitate nel contesto familiare (non-business partnership, non-family assets). La prima scuola di pensiero divenne negli anni l’orientamento dominate come dimostrato dai casi Robson e Jones. Qualunque sia stato l’orientamento adottato dal caso White in poi, di prassi, tutti i beni posseduti dai coniugi sono considerati nell’ambito del patrimonio familiare, anche se la loro natura incide notevolmente sulla relativa assegnazione finale. Nel caso Charman, deciso nel 2007, emerse chiaramente che il “principio di condivisione”, introdotto con il caso Miller vs McFarlane, dovesse essere applicato a tutti i tipi di beni e non solo a quelli acquisiti nel corso del matrimonio. Applicazione dei princìpi ai casi Robson e Jones Nel caso Robson la natura dei beni e il modo in cui i coniugi li hanno utilizzati nel corso del matrimonio sono fattori determinati per la decisione del caso. Lord Justice Ward, al paragrafo 43 della sentenza, indicò una serie di linee guida per la definizione dei casi aventi a oggetto patrimoni familiari di elevato valore economico e composti in gran parte da beni ereditati dai coniugi: “Il fatto che il patrimonio sia ereditato e non frutto di reddito da lavoro costituisce una ragione sufficiente per attribuire a tali beni un trattamento differente da quello dei beni acquisiti dai coniugi durante il matrimonio grazie ai proventi della loro attività lavorativa... Non rilevano soltanto le modalità con cui la titolarità dei beni è stata acquisita ma anche la natura degli stessi. Quindi un antico castello ereditato potrebbe avere un trattamento diverso rispetto a quello che sarebbe applicato ad una cascina, così come l’aver ereditato un cimelio di famiglia di gran valore è un cosa ben diversa dall’aver ereditato un portafoglio di titoli ed azioni. La natura e le modalità di acquisto dei beni potrebbero costituire una valida ragione per non applicare il principio di eguaglianza...”. Nel caso Robson alla moglie fu riconosciuto un compenso calcolato sulla base delle sue esigenze economiche. Nel caso Jones si ritenne che non vi erano sufficienti motivi per non applicare il principio di eguaglianza, tanto che la totalità dei beni non matrimoniali fu assegnata al marito. Il valore dei beni “non matrimoniali” fu calcolato sulla base del valore della società detenuta dal marito (venduta nel 2007) alla data del matrimonio. Tuttavia, a parte la crescita passiva, non fu riconosciuto alcun compenso per il maggior valore che la società aveva acquisito nel corso di matrimonio. Una breve analisi comparativa dei casi Robson e Jones appare molto utile per comprendere i differenti orientamenti sulla qualificazione dei beni acquisiti anteriormente al matrimonio e sulla cui base i giudici inglesi hanno deciso queste due fattispecie. Sebbene a prima vista i due casi potrebbero apparire simili, l’esito finale è sostanzialmente diverso. Le conseguenze del trattamento applicato all’immobile ereditato e adibito a casa familiare nel caso Robson, in cui il compenso assegnato alla moglie fu calcolato puramente in funzione delle sue esigenze economiche, e quelle del trattamento applicato all’attività commerciale costituita prima del matrimonio nel caso Jones, in cui l’aumento del valore della società nel corso del matrimonio fu equamente diviso tra i coniugi, furono totalmente differenti. Nel caso Jones, la natura e la 106 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 107 EUROPA fonte del patrimonio in questione, non essendo né un castello né un cimelio di famiglia, hanno “giocato” significativamente a sfavore del marito. Ciò detto, che cosa possiamo concludere? La natura e la fonte del patrimonio in questione e qualunque incremento di valore dello stesso durante il matrimonio sono fattori che nel diritto inglese incidono notevolmente sul tipo di trattamento applicato ai beni acquisiti anteriormente al matrimonio. Sicuramente questo tema continuerà a essere dibattuto. Le modalità di trattamento dei beni ereditari in Inghilterra sono profondamente diverse da quelle adottate in Italia o in altri Paesi del Civil Law. Ad esempio l’istituto della successione necessaria non esiste in Inghilterra così come il regime matrimoniale di comunione o separazione dei beni. Gli accordi matrimoniali potrebbero essere un espediente preventivo con cui la coppia può cercare di disciplinare l’assegnazione del patrimonio in caso di divorzio. Tuttavia tali accordi, se stipulati prima del matrimonio, non sono validi e vincolanti per la giurisdizione inglese, contrariamente a quanto accadrebbe in altre giurisdizioni1. 1 Per una discussione più approfondita vedi Todd, Mitchell, Accordi prematrimoniali in Inghilterra e Galles: l’impatto della sentenza sul caso Radmacher vs Granatino, in Rivista AIAF, 2/2011, 58-64. 107 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 108 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 109 AIAF - Organi statutari Presidente: Milena Pini Vicepresidente: Luisella Fanni Giunta Esecutiva: Milena Pini (Presidente), Luisella Fanni (Vicepresidente), Marina Marino (AIAF Lazio), Daniela Abram (AIAF Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF Sicilia), Gabriella de Strobel (AIAF Veneto), Liana Maggiano (AIAF Liguria), Antonina Scolaro (AIAF Piemonte) Direttore Scuola di Alta Formazione dell’AIAF: Marina Marino Comitato Direttivo Nazionale Abruzzo Puglia Maria Carla Serafini (presidente) Federica Di Benedetto Ada Marseglia (presidente) Calabria Stefania Mendicino (presidente) Luisella Fanni (presidente) Vittorio Campus, Anna Marinucci, Francesco Pisano Campania Sicilia Rosanna Dama (presidente) Erminia Del Cogliano Remigia D’Agata (presidente) Cinzia Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto Emilia Romagna Toscana Ada Valeria Fabj (presidente) Daniela Abram, Lorenza Bond, Isabella Trebbi Giordani Manuela Cecchi (presidente) Sandra Albertini, Gigliola Montano, Bruna Repetto, Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi Friuli Venezia Giulia Umbria Maria Antonia Pili (presidente) Graziella Cantiello Anna Maria Pacciarini (presidente) Stefania Cherubini, Maria Rita Tiburzi Lazio Veneto Marina Marino (presidente) Nicoletta Morandi, Costanza Pomarici, Giulia Sarnari Alessandro Sartori (presidente) Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco, Giuliana Castelletti, Francesca Collet, Lorenza Cracco, Guido Dalla Palma, Gabriella de Strobel, Caterina Evangelisti Franzaroli, Anna Kusstascher, Rita Mondolo, Giovanna Olivieri, Umberto Roma, Anna Sartor, Giulia Schiaffino, Lara Sereno, Damiana Stocco, Assunta Todini, Daniela Turci Liguria Liana Maggiano (presidente) Ilaria Felicetti, Alberto Figone Lombardia Franca Alessio (presidente) Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni, Cinzia Calabrese, Cinzia Colombo, Giuseppina Debiasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania Lingua, Carla Loda, Francesca Mazzoleni, Gerardo Milani, Laura Pietrasanta, Milena Pini, Nicoletta Stefania Pisano, Mirella Quattrone, Antonella Ratti Marche Anna Pelamatti Cagnoni (presidente) Marina Guzzini Piemonte Antonina Scolaro (presidente) Maria Cristina Bruno Voena, Cristina Giovando, Maria Cristina Ottavis, Marina Torresini Sardegna Trentino Alto Adige Elisabetta Peterlongo (presidente) 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 110 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 111 4. AIAF 3-11 europa_Layout 1 18/11/11 13.15 Pagina 112 AIAF RIVISTA • 2011/3 RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI 2011/3 GLI ASPETTI ECONOMICI DELLA CRISI FAMILIARE www.aiaf-avvocati.it Anno XVI n° 3, settembre-dicembre 2011 Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995