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L’USO SCRITTO DELLA LINGUA
Scrivere è sempre nascondere qualcosa
che venga poi scoperto
introduzione
(I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cap. VIII)
La lingua scritta è il mezzo privilegiato per comunicare con interlocutori
lontani nello spazio e per garantire al messaggio di un testo una durata nel
tempo: questo è la ragione d’essere di un’antologia, che non a caso propone
testi scritti particolarmente significativi e forieri di un “messaggio centrale” (di
cui abbiamo parlato a p. 132 del volume A di Trame).
Già, ma nell’antologia la lingua scritta viene proposta soprattutto:
• per essere compresa (non a caso esercizi di comprensione accompagnano
tutti i testi proposti);
• per essere analizzata nelle sue diverse strutture narratologiche, retoriche, stilistiche;
• infine per essere usata ai fini di produrre altri testi scritti, (spesso di tipologia e con finalità differenti, come avete potuto comprendere dalla varietà di
testi e di tipologie narrative che Trame vi propone).
Lo scopo di questo volumetto è quello di affinare le vostre competenze di
lettori e scrittori: la vostra esperienza di lettori, infatti, sarà messa alla prova
innanzi tutto per quanto riguarda una corretta comprensione, il primo, indispensabile gradino per poter poi diventare anche buoni “scrittori”. La vostra
capacità di comprensione sarà messa alla prova attraverso delle tipologie di
esercizio differenti (almeno in parte) da quelle a cui l’antologia vi ha abituato:
si tratta delle tipologie OCSE-PISA, le cui caratteristiche e finalità vengono
spiegate a p. 00 (questa sarà, tra l’altro, per voi l’occasione di poter godere della
lettura di sei nuovi racconti integrali).
A partire dalla vostra accertata (secondo metodi internazionali) competenza di
lettori, si può passare alla fase della scrittura.
Questo avverrà - attraverso quattro sezioni - in due tempi:
• dapprima – dopo una “palestra di prescrittura” – proveremo ad applicare
praticamente alcune delle tecniche che avete studiato nella prima parte del
volume A di Trame: il fine dell’antologia è infatti quello che voi sappiate riconoscerle leggendo testi di altri scrittori, così da diventare “lettori esperti”.
Il fine di questo volume è di verificare se le conoscete così bene da poterle applicare. Non tutte, naturalmente, a meno che la vostra ambizione sia quella di
diventare scrittori di professione;
• il secondo passo è quello scrivere testi veri e propri, cosa che sicuramente
già fate, ma questa “palestra di scrittura” ha il fine di insegnare a scrivere in
modo meditato e razionale. Scrivere “facendosi capire” dai propri lettori
non è così scontato. Saper comunicare è un’arte che si impara attraverso l’esercizio. Non a caso Vasilij Andreevi Žukovskij, un poeta russo del XIX secolo che di mestiere faceva il traduttore, diceva che “ciò che si scrive con fatica
si legge con facilità”.
V. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010
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Il fine che vi proponiamo è dunque più modesto del diventare scrittori veri e
propri ma molto utile ai fini pratici della scrittura nella vostra vita scolastica e
nella vostra vita futura. Per questa ragione le sezioni finali del volume sono dedicate alla stesura:
• del tema;
• del testo argomentativo;
• del saggio breve.
Non passeremo in rassegna i vari tipi di testo (che avete già studiato alle scuole
medie e, dopo l’uso del volume A di Trame pp. 684-709, dovreste aver approfondito e messo a punto), non riprenderemo scritture “tecniche” come il riassunto (che già trovate nel volume A di Trame a p. 156 e sgg.) rispetto al testo
in prosa, o la parafrasi e il commento rispetto al testo in poesia (nel volume B
a p. 73 e sgg.). Ci soffermeremo invece sull’abilità di scrittura, spesso, a torto,
ritenuta un talento naturale ma che in realtà si apprende attraverso alcune strategie ed esercizi via via più complessi che vi condurranno a produrre testi sempre più chiari, comprensibili ed efficaci rispetto al tema trattato. Lo faremo,
appunto, adottando le tecniche imparate nel volume A di Trame, cui spesso faremo, non a caso, riferimento.
Chiariamo allora il nostro scopo, che è quello di fare in modo che ogni testo
scritto da voi prodotto abbia come requisiti di essere chiaro, corretto,
comprensibile, interessante.
Tutti voi potete diventare dei buoni “autori” se avrete la pazienza di seguire il
percorso che vi proponiamo: avrete l’opportunità di cimentarvi con testi creativi, espressivi, composti per lasciare spazio alla fantasia o per fissare sulla pagina sentimenti e sensazioni del mondo interiore, vostro o dei personaggi che
saprete inventare.
Tutto questo sarà utilissimo ai fini di produrre testi destinati ai compiti scritti
di lingua e letteratura italiana, dove vi rivolgete essenzialmente all’insegnante
di italiano. Ma padroneggiare bene per iscritto la propria lingua madre è fondamentale per ogni disciplina scolastica e in tutte le situazioni della vita che richiedono un uso scritto della lingua.
Basta avere, in ogni caso, ben chiari due aspetti, che non bisogna mai trascurare:
a chi ci rivolgiamo
qual è lo scopo per il quale scriviamo.
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LA
COMPRENSIONE
DEL TESTO
Le prime
indagini.
È solo di recente che nella scuola italiana si sono diffuse prove di verifica che
fanno riferimento a organismi internazionali, ma in verità è già dalla metà dell’Ottocento che questo tipo di valutazioni era stato concepito e si era diffuso in
molti paesi. L’origine di queste prove veniva dalla volontà di alcuni pedagogisti
di conoscere i sistemi scolastici di altri popoli in modo più sistematico, cercando di superare l’occasionalità delle ricerche in proposito e tentando di raccogliere informazioni che consentissero di evidenziare analogie e differenze nei
sistemi d’istruzione. L’obiettivo era molteplice, ma sostanzialmente era finalizzato alla conoscenza e alla comprensione del funzionamento dei sistemi scolastici per raggiungere le condizioni migliori di apprendimento e insegnamento, pur essendo molto complesso, certamente, costruire dei curricoli che
permettessero di ottenere in modo attendibile una comparazione.
La svolta degli
anni Ottanta.
La difficoltà che queste prime organizzazioni dovettero affrontare per realizzare i loro lavori non era solo concettuale, ma anche di natura economica, perché non riuscivano a coinvolgere istituzioni pubbliche o private per finanziare
le loro ricerche. Tuttavia, negli anni Ottanta, quando divenne più chiaro per
molti Stati che il rapporto costi-benefici nell’istruzione non era un passaggio
trascurabile, vennero accolte con maggiore interesse le indagini valutative sui
sistemi scolastici, per poter individuare la relazione più efficace tra investimenti nel settore dell’istruzione e la riuscita economica della formazione
fornita. Le prime rilevazioni internazionali adattarono strumenti e procedure che erano già stati utilizzati in America, rivedendo i punteggi in relazione ai programmi dei diversi paesi interessati, ma questo sistema aveva eviV. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010
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denti limiti, non foss’altro per la parzialità del parametro di riferimento; così
dopo i primi strumenti messi a punto soprattutto dall’OCSE (Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel 1997 ebbe inizio PISA
(Programme for International Student Assessment), che aveva l’obiettivo di
fornire informazioni utili sui risultati dei sistemi d’istruzione per migliorare le
politiche scolastiche. I lavori di PISA inoltre erano pensati con una cadenza regolare e ripetuta nel tempo, che si stabilì in cicli di quattro anni.
A che cosa
serve la scuola.
Alla base dei test OCSE PISA, dunque, c’è la volontà di verificare in quale misura la scuola prepari i giovani ad affrontare la vita di cittadini e di lavoratori,
proprio in un momento storico come questo, in cui l’offerta di lavoro implica
una notevole mobilità e la necessità di un apprendimento continuo. PISA ritiene
che nelle attuali condizioni sociali e culturali non sia più utile una scuola finalizzata alla sola trasmissione di contenuti, ma piuttosto a mettere in condizione gli
studenti di applicare ciò che hanno appreso per affrontare (e risolvere) i problemi della vita reale. La scuola deve quindi preparare a sapere e saper fare,
abilità che si sostituiscono alla precedente idea di una scuola trasmettitrice di
conoscenze, promuovendo un’idea di scuola come luogo formativo che stimola
le capacità e le motivazioni necessarie per continuare ad apprendere tutta la vita.
Che cosa
valuta PISA.
Da tutto ciò risulta chiaro che PISA valuta la scuola in base a un criterio
esterno ad essa – di carattere politico ed economico – e non sulla base del
possesso di conoscenze: la scuola deve essere in grado di lavorare sulla literacy, ovvero sulla capacità degli studenti di ricercare, identificare, elaborare informazioni e comunicare i propri ragionamenti su di esse.
LA REALIZZAZIONE DEL TEST
Obiettivi del
test, ambiti
e tempi
d’intervento.
Il progetto PISA è frutto di una collaborazione di molti organismi diversi e dirige
la sua indagine su numerosi paesi del mondo: al test del 2006 hanno aderito 57
nazioni e 62 a quello del 2009. Il lavoro ha sostanzialmente tre obiettivi: il primo
è di individuare indicatori comparabili a livello internazionale su studenti della
stessa età (15 anni) per verificare se i sistemi di educazione siano capaci di
preparare i giovani ad affrontare la vita civile e lavorativa; un secondo è
quello di poter interpretare i dati ottenuti per mettere in atto politiche efficaci
a livello di indicazioni ministeriali; un terzo infine è quello di monitorare gli
sviluppi delle politiche educative stesse, qualora fossero state immesse delle
riforme. Le discipline sulle quali PISA ha stabilito di operare sono l’abilità di
lettura, la matematica, le scienze naturali. Ogni ciclo PISA si articola su quattro fasi che si svolgono nel corso di quattro anni: ideazione del test (primo anno),
indagine pilota per affinare il test (secondo anno), somministrazione del test agli
studenti dei paesi aderenti (terzo anno), preparazione dei risultati con elaborazione dei dati a livello nazionale e internazionale (quarto anno).
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I test
di lettura.
Per quanto riguarda l’abilità di lettura, ritenuta trasversale a molti ambiti e non
solo propria della letteratura, PISA ha condotto un’ampia riflessione sulle situazioni di lettura distinguendone le tipologie principali: ad uso privato e
personale; ad uso pubblico per partecipare a eventi della sfera civile; in contesto lavorativo, legata all’esecuzione di un compito; a fini educativi, per acquisire informazioni che vengono richieste da altri. Sulla base di queste tipologie,
la prova PISA sulla lettura conterrà un racconto o un testo teatrale, che rispondono all’ambito della lettura personale, una lettura di carattere scolastico, che risponde alla tipologia di testo con fine educativo, un foglio informativo, che si riferisce a un contesto lavorativo, una lettura a uso pubblico. Il
formato dei testi potrà essere – per soddisfare tutte le tipologie possibili – sia
continuo (testi in prosa: narrativi, espositivi, descrittivi, argomentativi, di
istruzioni, documenti o atti ufficiali, ipertesti), sia non continuo (tabelle, moduli, figure, grafici, annunci e pubblicità, certificazioni). Si è aggiunta di recente un’ulteriore distinzione sulla modalità di lettura, che si divide tra lettura
a stampa ed elettronica, perché a seconda del mezzo è diversa anche la modalità della lettura, che deve essere ugualmente padroneggiata dagli studenti.
Caratteristiche
dei quesiti
proposti.
Le domande vengono costruite tenendo conto di tre aspetti che mirano a valutare la comprensione del testo stesso:
a individuare informazioni: cioè scorrere il testo, cercare, localizzare, selezionare l’informazione richiesta;
b comprendere il significato generale di un testo, considerandolo nel suo
insieme: ad esempio indicare l’argomento principale, lo scopo dell’autore,
trovare informazioni significative sia a livello implicito, sia a livello esplicito;
c riflettere sul testo e valutarlo, spiegando e difendendo il proprio punto di
vista interpretativo, giustificato attraverso anche conoscenze extratestuali,
in possesso dello studente.
Formati
di risposta.
Dopo numerosi passaggi, PISA ha scelto di riferirsi alle seguenti cinque tipologie di domanda:
a domande a risposta semplice (scelta tra quattro o cinque proposte);
b domande a scelta multipla complessa (costituite da una serie di VeroFalso o a scelta multipla);
c domande aperte a risposta univoca (cioè con una sola risposta esatta che lo
studente deve produrre o selezionare tra più alternative);
d domande aperte a risposta breve (lo studente può avere più risposte corrette);
e domande aperte a risposta articolata, in cui si deve fornire una risposta
più estesa.
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Scale
di competenza
di lettura.
PISA ha immaginato una scala di classificazione della difficoltà delle domande
sulla base della probabilità che ha uno studente di rispondere correttamente a
una domanda che fa parte della prova. In questo modo vengono contemplate
contemporaneamente sia la difficoltà dei quesiti sia l’abilità dello studente di rispondere ai quesiti. La divisione in scala è secondo un livello di difficoltà crescente, da 1 a 5, secondo questo criterio:
• livello 1: si richiede al lettore di reperire informazioni in un punto preciso
del testo o di cogliere l’idea principale se questa è ripetuta più volte;
• livello 2: si chiede di cercare connessioni linguistiche o tematiche all’interno
di un unico capoverso o di sintetizzare informazioni contenute in parti diverse del testo per dedurre lo scopo dell’autore;
• livello 3: si chiede di individuare connessioni logiche all’interno del testo,
esplicite o implicite, non necessariamente in un unico capoverso, per localizzare o valutare informazioni;
• livello 4: si verifica che il lettore sappia seguire collegamenti linguistici o tematici lungo più capoversi per localizzare, interpretare e valutare informazioni di carattere astratto presenti nel testo, ma spesso non esplicitate chiaramente;
• livello 5: si chiederà al lettore di sapere trovare una relazione tra specifiche
porzioni di testo e il suo significato o scopo implicito.
Numero dei
quesiti e loro
descrizione.
Nel test OCSE PISA ogni quesito, nella parte dedicata al docente, viene descritto secondo molti indicatori: il tipo di item proposto, la sua classificazione
sulla scala, la sua valutazione in termini numerici (secondo un criterio che qui
non abbiamo ricordato perché non utilizzato nel testo), la sua risposta corretta,
quelle parzialmente corrette e quelle errate (nel nostro caso saranno presenti
solo le risposte corrette). La quantità dei quesiti deve rispecchiare la presenza
delle diverse tipologie e dei livelli di difficoltà.
Il contenuto
di questo
fascicolo.
Sulla base di tutte le informazioni presentate nel corso di questa breve introduzione, che certo trascura molti dati (per esempio quelli inerenti ai testi
non continui, o ai punteggi assegnati in seicentesimi ecc.) sono state predisposte le prove che seguono, costruite su sei racconti di autori e generi
letterari diversi (non raggruppati per genere, ma presentati in ordine crescente di difficoltà), in modo da offrire un allenamento alle tipologie proposte dalle prove OCSE PISA. In coda ai racconti e alle verifiche sono stati
predisposti i correttori con le indicazioni descrittive degli item. La valutazione delle abilità di lettura proposte da prove come quelle che seguono può
anche essere intesa come una possibile indagine sulle abilità raggiunte all’interno di una scuola, intendendo ogni classe come un paese a sé, con partecipanti, abilità e metodi confrontabili e riferibili all’efficacia del lavoro
dell’intero istituto.
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anno 1955
John Steinbeck
luogo
Stati Uniti
L’affare al n°7
di rue de M...
genere
racconto
fantastico
Presentazione dell’opera
Steinbeck è stato uno dei più caratteristici rappresentanti della ripresa economica americana in letteratura, convinto della funzione
di nuova responsabilità che in quegli anni si attribuiva allo scrittore e del forte impegno sociale che questa implicava. Il vigore, la
verità e l’immediatezza con cui descriveva le drammatiche vicende del mondo rurale della California gli attirarono le simpatie del
pubblico e della critica anche fuori dagli Stati Uniti, come dimostra l’ammirazione mostrata per lui, in Italia, da Pavese e Vittorini.
Il periodo bellico, tuttavia, segnò una frattura nel mondo steinbeckiano: la società americana, nel dopoguerra ormai profondamente cambiata, stava avviandosi verso valori e modelli consumistici, lontani dalla visione della realtà che aveva così fortemente
caratterizzato lo scrittore negli anni Trenta e Quaranta. L’affare al n° 7 di rue de M... appartiene al filone satirico e ironico di Steinbeck, rivolto per l’appunto contro questa nuova società, che lo scrittore coltivò a partire dagli anni Cinquanta.
Esasperando le situazioni sino al punto di rottura, tramutando la piccola realtà in un mondo surreale, la sua satira insidiosa non risparmia nessuno: la nobiltà, la borghesia, il clero, i piccoli impiegati, le spie, i confidenti della polizia. Il suo atteggiamento è quello di chi, fingendosi un cittadino rispettoso e conformista, recita una falsa obbedienza, un falso perbenismo, ma attraverso la deferenza clownesca mostra il ridicolo delle convenzioni e delle norme.
John Steinbeck
Nato a Salinas nel 1902, crebbe nella campagna californiana, sfondo di molti
suoi lavori. Nel 1919-25 frequentò saltuariamente la Stanford University e nel
1925-35 fu occupato nei più disparati lavori manuali oltre che nelle prime
prove narrative, che coincidono con la grande crisi economica del 1929 e il successivo rilancio. Il suo primo libro importante è la raccolta di racconti I pascoli
del cielo (1932), seguito da Al dio sconosciuto (1933), nei quali lo scrittore sviluppa quella che rimarrà la sua tematica caratteristica, il rapporto tra l’uomo e
la terra in California. Dopo un primo romanzo di grande successo, Pian della
Tortilla (1935) di tono picaresco, decide per una scrittura sempre più aspra e
polemica. Così è in La battaglia (1936), storia di uno sciopero di lavoratori agricoli, e soprattutto in Uomini e topi (1937), tragica storia di due braccianti in cerca di lavoro, e in Furore
(1939), che narra la disperata migrazione di una famiglia dell’Oklahoma verso una California dominata da
strutture agrarie di tipo feudale. Furore ricevette nel 1940 il premio Pulitzer e diventò, nella trasposizione
di John Ford, un classico del cinema americano. Dopo essersi trasferito a New York, Steinbeck passò parte
della guerra in Europa come corrispondente per il «New York Herald Tribune». Di argomento bellico è la
commedia La luna è tramontata (1942), ambientata nella Norvegia occupata dai nazisti. Dopo alcuni altri
romanzi, tornò al grande successo internazionale con La valle dell’Eden (1952), moderna trasposizione
della vicenda di Caino e Abele, oggetto di una fortunata versione cinematografica di Elia Kazan. Nell’ultima
fase della sua produzione acquistano maggiore rilievo i motivi ironici e satirici: Quel fantastico giovedì
(1954); Il breve regno di Pipino IV (1957); L’inverno del nostro scontento (1961) e il tema del viaggio
(Viaggio con Charley, 1962). Nel 1962 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Morì a New York
nel 1968.
vevo sperato di sottrarre alla curiosità del pubblico gli eventi piuttosto curiosi che, da un mese a questa parte, m’hanno dato qualche
preoccupazione. Sapevo, naturalmente, che nel vicinato si facevano
molte chiacchiere. Mi erano perfino giunte all’orecchio alcune delle
versioni distorte che circolavano nel quartiere: storie, mi affretterò ad ag-
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1. Si definisce quarto
potere la capacità che
hanno i mezzi di
comunicazione di massa
di influenzare l’opinione
pubblica.
2. È la linea di discendenza
attraverso cui una famiglia
continua la sua storia;
si usa normalmente per
indicare la discendenza
di una casata nobiliare.
3. La casata dei Borboni
salì al trono di Francia
nel 1589 e vi rimase fino
all’800, poco prima della
dichiarazione della
repubblica.
4. Si tratta di una parola
spagnola che significa
appassionato o amante
di qualcosa, in questo caso
della gomma americana.
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giungere, in cui non c’era un briciolo di verità. Sia come sia, il mio desiderio di tenere la faccenda in privato è stato mandato in frantumi, ieri, dalla
visita di due esponenti del quarto potere1, i quali mi hanno assicurato che la
storia, o per meglio dire una storia, aveva oltrepassato i confini del mio arrondissement.
In vista della pubblicità che ci sovrasta, ritengo mio dovere riferire gli autentici particolari di quegli avvenimenti che sono ormai noti come il Caso
del N. 7 di Rue de M…, affinché sciocche assurdità non vadano ad aggiungersi a una serie di circostanze non prive di una certa bizzarria. Descriverò
gli eventi come si svolsero, senza commenti, permettendo così al pubblico
di giudicare da sé la situazione.
All’inizio dell’estate mi trasferii con la mia famiglia a Parigi e presi alloggio
in una graziosa casetta al N. 7 di Rue de M...: un edificio che, in altra
epoca, era stato la scuderia della grande casa che sorge lì accanto. L’intera
proprietà è ora posseduta, e in parte abitata, da una nobile famiglia francese, di antichità e lignaggio2 tali che i suoi membri si ostinano a considerare inaccettabile la pretesa dei Borboni3 al trono di Francia.
In quella graziosa stalla rimodernata, con tre piani di stanze sovrastanti un
ben pavimentato cortile, portai la mia famigliola, formata da mia moglie,
dai miei tre figli (due ragazzetti e una signorinella) e, naturalmente, dal sottoscritto. Il nostro personale, in aggiunta alla custode che, come saprete, è
compresa nella casa, è composto da una cuoca francese di grande abilità, da
una cameriera spagnola e dalla mia segretaria, una ragazza di nazionalità
svizzera i cui vertici di capacità e ambizione sono uguagliati soltanto dalle
sue vette morali. Questo, dunque, era il nostro piccolo gruppo familiare
quando gli eventi di cui sto per farvi la cronaca ci piovvero tra capo e collo.
Se qualcuno deve avere un influsso su questa faccenda, non posso proprio
far altro che addossarne non dico la colpa ma piuttosto la paternità, sia
pure innocente, al mio figliolo minore John, che soltanto di recente ha
compiuto gli otto anni: un bambino vivace, di singolare bellezza e dalla robusta dentatura.
Questo giovanotto, durante i sette anni passati in America, è diventato non
dirò proprio un vizioso ma piuttosto un aficionado4 di quella strana abitudine americana che consiste nel «masticare la cicca», e uno degli aspetti
piacevoli della nostra primavera parigina stava nel fatto che il cadetto John
avesse trascurato di portare con sé, dall’America, parte di quell’atroce sostanza gommosa. La dizione del bambino divenne più chiara e non più inceppata e dai suoi occhi scomparve l’espressione da ipnotizzato.
Ahimè, quella deliziosa situazione non doveva protrarsi a lungo. Un vecchio amico di famiglia, che si trovava a viaggiare in Europa, portò in regalo
ai bambini una provvista più che adeguata di quell’ignobile gomma; convinto di usare loro una gentilezza. Di conseguenza, tornò a insediarsi l’antico stato di cose. Le parole si aprivano un umido varco attorno a un grosso
gnocco di gomma ed emergevano con il rumore di un sifone difettoso. Le
mascelle erano costantemente in moto, dando alla faccia, nella migliore
delle ipotesi, un’espressione tormentata, mentre gli occhi assumevano un
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che di vitreo, come quelli di un maiale cui di recente fosse stata recisa la
giugulare5. Poiché sostengo che i bambini non vadano inibiti, mi rassegnai
a un’estate non così piacevole come a tutta prima avevo sperato.
Ci sono momenti in cui non seguo la mia consueta teoria del laissez-faire6.
Quando compongo il materiale per un libro, o per un lavoro teatrale, o per
un saggio, quando, in una parola, è richiesto il massimo della concentrazione, ecco che tendo a imporre regole tiranniche in nome della mia personale comodità ed efficienza. Una di queste norme è che non ci siano né
masticamenti né esplosioni di bolle, mentre io mi sforzo di concentrarmi.
Questa regola è stata compresa in modo così compiuto dal cadetto7 John,
che egli l’accetta come una delle tante leggi di natura e non tenta né di protestare né di sottrarvisi. È suo piacere, e mio conforto, che mio figlio venga
talvolta nella mia stanza di lavoro, dove per un certo tempo siede tranquillamente accanto a me. Sa che deve starsene in silenzio e, dopo essersi trattenuto tanto a lungo quanto il suo carattere glielo consente, se ne va in
punta di piedi, lasciando entrambi arricchiti da quella tacita vicinanza.
Due settimane fa, nel tardo pomeriggio, sedevo al mio tavolo di lavoro, intento a un breve saggio per il Figaro Littéraire8, saggio che in seguito fece
sorgere qualche controversia, essendo stato pubblicato con il titolo «Sartor
Resartus»9. Ero arrivato a quel passaggio che riguarda l’abbigliamento più
consono per l’anima quando, con mia meraviglia e disappunto, udii l’inconfondibile suono, molle ed esplosivo insieme, di un pallone di gomma da
cicche che si rompe. Guardai severamente il mio rampollo e vidi che masticava a tutt’andare. Le guance erano rosse per l’imbarazzo e i muscoli
delle mascelle sporgevano rigidamente in fuori.
«Conosci la regola», dissi, in tono gelido.
Con mio stupore, negli occhi gli spuntarono le lagrime e, mentre le mandibole continuavano a masticare di lena, la vocetta biascicante si fece strada
oltre il grosso bolo di gomma che riempiva la bocca.
«Non sono stato io», gridò John.
«Come sarebbe a dire, non sei stato tu?» lo investii, irritato. «Ho sentito
benissimo, come ora vedo benissimo che mastichi».
«Oh, papà!» gemette lui. «È vero, ti dico. Non sono io che la mastico, è lei
che mastica me».
Per un momento, lo scrutai negli occhi, da vicino. È un bambino onesto e
soltanto quand’è pressato da un interesse assai più forte di lui permette a se
stesso una bugia. Mi nacque l’orribile sospetto che la cicca avesse avuto finalmente partita vinta e che la ragione di mio figlio stesse vacillando. In tal
caso, era meglio procedere con le buone. Mostrai pazientemente il palmo
della mano. «Posala qui», dissi.
Coraggiosamente, il mio bambino tentò di districare il bolo di gomma
dalle mascelle. «Non vuole lasciarmi andare, papà», farfugliò.
«Apri bene», dissi; poi, infilandogli le dita in bocca, m’impossessai del
grosso gnocco di gomma e, dopo una lotta in cui le mie dita continuavano
a scivolare e a perdere la presa, riuscii a estrarlo e a deporre l’orribile viscosità molliccia sulla scrivania, in cima a una risma di carta bianca.
5. È uno dei modi usati per
uccidere un maiale, ovvero
quello di tagliare la vena
giugulare al collo.
L’animale muore in pochi
secondi.
6. In francese “lasciar
fare”; come già dichiarato
poco sopra il protagonista
del racconto preferisce non
dare troppi divieti ai figli,
ad eccezione di alcune
poche regole.
7. Cadetto indica il figlio
maschio non primogenito
all’interno di una famiglia
nobile. Il termine è usato
qui in modo ironico.
8. Le Figaro è un
quotidiano francese, di
antica fondazione (1826);
Le Figaro littéraire dal
1946 è un settimanale
gratuito, pubblicato in
aggiunta al quotidiano in
cui compaiono articoli di
letteratura, filosofia, critica
teatrale cinematografica,
racconti, ecc.
9. Sartor resartus (Il sarto
rappezzato) è il titolo
di un’opera scritta da
T. Carlyle nel 1836, in cui
l’autore costruisce una
singolare filosofia degli
abiti, per riflettere su ciò
che è essenziale e ciò che
è superfluo, su ciò che
condiziona le abitudini
umane e il giudizio sociale.
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10. Si tratta di un
organismo che vive
in acqua, con
un’organizzazione
monocellulare, dalla forma
ovale la cui superficie
è ricoperta da ciglia
attraverso le quali
il paramecio si sposta.
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Per un attimo, parve rabbrividire là sul foglio candido; poi, con tranquilla
lentezza, cominciò a ondularsi, a gonfiarsi e rimpicciolirsi con l’esatto movimento di una masticazione in atto, mentre mio figlio e io osservavamo
con gli occhi fuori della testa.
Per un pezzo la osservammo, mentre io esploravo la mia mente, in cerca di
una possibile spiegazione. O io stavo sognando, oppure qualche principio finora sconosciuto aveva eletto a sua sede la cicca di gomma che pulsava sulla
mia scrivania. Non sono un ottuso. Mentre consideravo quella cosa indecente,
centinaia di piccoli pensieri e barlumi di comprensione saettavano attraverso il
mio cervello. Alla fine domandai: «Da quanto tempo ti stava “masticando”?».
«Fino da ieri sera», rispose lui.
«E quando ti sei accorto di questa… propensione da parte sua?».
Parlò con assoluto candore. «Ti prego di credermi, papà», disse. «Ieri sera,
prima di addormentarmi, l’ho messa sotto il cuscino, come faccio sempre.
Di notte mi sono svegliato e ho scoperto che l’avevo in bocca. L’ho rimessa
sotto il cuscino e stamattina l’avevo di nuovo in bocca, distesa sulla lingua.
Quando, però, mi sono sentito completamente sveglio, ho avuto l’impressione di un lieve movimento e subito dopo mi sono accorto che non ero più
io il padrone della gomma. Si era messa a fare di testa sua. Ho cercato di
togliermela di bocca, papà, e non ci sono riuscito. Tu stesso, con tutta la tua
forza, hai visto com’è stato difficile estrarla. Sono venuto nella tua stanza
da lavoro per aspettare che ti riposassi un momento, perché volevo metterti
al corrente delle mie difficoltà. Oh, papà, che cosa pensi che sia successo?».
L’immonda cosa teneva prigioniera tutta la mia attenzione.
«Devo riflettere», dissi. «Siamo in presenza di un fenomeno un po’ fuori
dell’ordinario, e ritengo che non si debba accantonarlo così, senza indagarci su».
Mentre parlavo, nella gomma sopravvenne un cambiamento. Cessato di
«masticare» se stessa, per un poco parve riposarsi; poi, con un movimento
fluido, come quegli esseri monocellulari dell’ordine Paramecium 10, la
gomma scivolò attraverso la scrivania, nella direzione di mio figlio. Per un
attimo lo stupore mi colpì e per un intervallo anche più lungo non afferrai
il vero intento della gomma. La vidi cadere sul ginocchio di John, arrampicarsi orridamente su per il davanti della maglietta. Soltanto allora capii.
Stava tentando di ritornargli in bocca. Lui la guardava salire, paralizzato
dal terrore.
«Ferma!» gridai, perché mi ero reso conto che il mio terzogenito era in
pericolo, e in momenti simili sono capace di una violenza che rasenta la
furia omicida. Afferrai il mostro sul mento del piccolo e, uscendo a grandi
passi dal mio studio, entrai nel salone, aprii la finestra e scagliai la cosa tra
il pesante traffico della Rue de M…
Ritengo doveroso, per un genitore, dissipare, quand’è possibile, quegli
choc che potrebbero causare incubi o traumi. Ritornai nel mio studio e trovai il piccolo John seduto dove l’avevo lasciato. Fissava nel vuoto.
«Figliolo», dissi, «tu e io abbiamo visto qualcosa che, pur avendo la certezza che sia accaduta, troveremmo difficile descrivere ad altri con qualche
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probabilità di riuscirci. Ti prego di immaginare la scena se noi raccontassimo questa storia agli altri componenti della famiglia. Temo immensamente che diventeremmo lo zimbello di tutta la casa».
«Sì, papà», disse lui, passivo.
«Ragion per cui intendo proporti, figlio mio, di seppellire entrambi l’episodio in fondo alla nostra memoria e di non farne mai parola a nessuno,
finché vivremo». Aspettai il suo assenso e, poiché non veniva, lanciai
un’occhiata al suo faccino e lo vidi completamente devastato dall’orrore.
Pareva che gli occhi volessero schizzargli dalla testa. Seguii la direzione del
suo sguardo. Sotto la porta, si stava infiltrando un foglio bianco, sottile
come carta, che, una volta entrato nella stanza, crebbe fino a diventare una
bolla grigiastra e rimase là sul tappeto, a pulsare e a contrarsi. Dopo qualche istante si mosse di nuovo per progressione pseudopodiana11, avanzando
verso mio figlio.
Mi precipitai, lottando per non lasciarmi sopraffare dal panico. L’afferrai e
la scaraventai sulla mia scrivania; poi, agguantata, tra i molti trofei che
adornavano le pareti, una mazza di guerra africana, letale strumento irto di
punte, battei la gomma fino a rimanere io senza fiato ed essa ridotta a un
lacero pezzo di sostanza plastica. Nell’attimo stesso in cui mi riposai, la vidi
raccogliersi su se stessa e, per alcuni momenti, contrarsi rapidamente quasi
stesse ridendo della mia rabbia e impotenza, e poi muoversi inesorabilmente verso mio figlio, che a questo punto si era rincantucciato in un angolo, gemente di terrore.
Ora una gelida calma si era impossessata di me. Raccolsi la sudicia cosa,
l’avvolsi nel fazzoletto, uscii di casa, percorsi tre isolati fino alla Senna e
scagliai il fazzoletto nella pigra corrente del fiume.
Passai buona parte del pomeriggio a calmare il mio figliolo e a cercar di
convincerlo che non aveva più niente da temere. Ma era tale il suo nervosismo che la sera dovetti dargli mezza tavoletta di sonnifero per farlo addormentare, mentre mia moglie insisteva perché telefonassi al medico.
Non osavo, quella sera, dirle perché non potevo obbedire al suo desiderio.
Durante la notte, venni svegliato – anzi, venne svegliata l’intera casa – da
un urlo soffocato e atterrito, che arrivava dalla camera dei bambini. Infilai le scale a due gradini alla volta e irruppi nella camera, facendo scattare
contemporaneamente l’interruttore della luce. John sedeva in mezzo al
letto, urlante, mentre con le dita si tormentava la bocca semiaperta,
bocca che, orridamente, continuava a masticare. Mentre guardavo, una
bolla emerse tra le dita infantili e scoppiò con un umido e viscido
«plop».
Che speranza c’era di conservare il nostro segreto, ormai? Bisognò spiegare ogni cosa; ma, con la scoppiettante gomma inchiodata a un tagliere
per mezzo di un punteruolo del ghiaccio, la spiegazione risultò più facile
del previsto. E sono orgoglioso dell’aiuto e del conforto che mi venne dato.
Non c’è forza che valga la solidarietà di una famiglia unita. La nostra cuoca
francese risolse il problema col rifiutarsi di crederci, perfino dopo averlo
11. Si dice così
l’andamento di alcuni
organismi monocellulari
(ad esempio le amebe)
che circondano
e inglobano le prede
per farne il proprio cibo.
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12. La Michelin è una
famosa ditta produttrice di
pneumatici per automezzi.
13. Il terrier è una
particolare razza di cani da
caccia specializzati nella
ricerca di animali selvatici,
specie nelle tane
sotterranee.
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visto con i suoi occhi. Non era una cosa ragionevole, ci spiegò, e lei era un
essere ragionevole di una ragionevole razza. La cameriera spagnola ordinò
e pagò un esorcismo al parroco che, pover’uomo, dopo due ore di strenui
tentativi se ne andò, mormorando che la questione riguardava più lo stomaco che non l’anima.
Per due settimane, fummo assediati dal mostro. Lo bruciammo nel caminetto, facendolo sfrigolare tra azzurre lingue di fuoco fino a fondersi in una
repellente porcheriola confusa tra la cenere. Prima che spuntasse il mattino, era già strisciata attraverso il buco della serratura della stanza dei
bambini e ancora una volta venimmo strappati al sonno dalle urla del Cadetto.
Disperato, mi portai con l’auto in piena campagna e la gettai dal finestrino
della macchina. Il mattino dopo era di ritorno. Evidentemente, era strisciata fino all’autostrada e si era collocata lungo il flusso del traffico verso
Parigi, finché era stata raccolta da un pneumatico. Quando la estirpammo
dalla bocca di John, aveva ancora impressa l’impronta di un battistrada Michelin12.
Fatica e avvilimento finiscono alla lunga per farsi sentire. Esausto, sentendo che la mia volontà di lottare si era afflosciata e dopo che avevamo
tentato tutti i mezzi possibili e immaginabili per distruggere la cicca, la
posai alla fine sotto una campana di vetro che uso, in genere, per proteggere il mio microscopio. Poi crollai in poltrona e rimasi a osservare la nemica con occhi stanchi ed espressione disfatta. John dormiva nel suo lettino
sotto l’effetto dei sedativi, effetto rinforzato dalla mia promessa che non
avrei mai perso di vista la Cosa.
Accesi la pipa e mi disposi alla sorveglianza. Dentro la campana di vetro,
il grigio gnocco coperto di escrescenze si spostava inquieto, alla ricerca
di una via per uscire dalla sua prigione. Di tanto in tanto si fermava,
come soprappensiero, ed emetteva una bolla nella mia direzione. Sentivo benissimo l’odio che aveva per me. Nella mia stanchezza, scoprii
che la mia mente scivolava in un’analisi che fino a quel momento mi era
sfuggita.
Sul retroscena di quella realtà, mi ero soffermato solo affrettatamente. La
spiegazione doveva essere che, grazie a una costante associazione con la
vita lambente rappresentata da mio figlio, la magia dell’esistenza si era trasmessa alla gomma. E, con la vita, era venuta l’intelligenza: non l’intelligenza maschia e aperta del ragazzo, ma un’astuzia perfida e calcolatrice.
Come poteva essere diversamente? L’intelligenza, senza l’anima a farle da
contrappeso, deve di necessità essere malvagia. La gomma non aveva assorbito alcuna parte dell’anima di John.
Benissimo, stabilì la mia mente, ora che abbiamo un’ipotesi delle origini,
vediamo di considerarne la natura. Che cosa pensa? Che cosa vuole? Di
che cosa ha bisogno? La mia mente spiccava balzi da terrier13. Ha bisogno, si diceva, di ritornare nel suo ospite, mio figlio, e vuole assolutamente tornarci. Vuole essere masticata. Dev’essere masticata per sopravvivere.
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Dentro la campana di vetro, la gomma inserì un sottile cuneo della propria
sostanza sotto la pesante base di vetro e spinse in modo tale che l’intero
vaso si sollevò di alcuni millimetri. Risi, nel ficcarla sotto di nuovo. Risi
con un senso di trionfo quasi folle. Avevo trovato la soluzione.
In sala da pranzo, mi procurai un piatto di plastica, dalla dozzina di simili stoviglie che mia moglie aveva acquistato per le merende all’aperto. Poi, capovolgendo la campana e tenendo il mostro compresso sul
fondo, cosparsi la bocca del vaso di pesante cemento da presa14, garantito a prova d’acqua, d’alcool e di acidi. Pressai il piatto contro l’apertura e ve lo tenni premuto finché l’adesivo fece presa, incollando per
sempre il piatto al vetro, formando un contenitore a perfetta tenuta. Infine rimisi la campana di vetro nella posizione originale e regolai la
lampada da tavolo in modo da poter osservare ogni movimento della
mia prigioniera.
Di nuovo essa si mise a esplorare il cerchio di base, alla ricerca di una via
per fuggire. Poi si collocò in modo da fronteggiarmi ed emise, rapida, un
gran numero di bolle. Udivo i suoi brevi, scoppiettanti «plop» attraverso il
vetro.
«Ti tengo, bellezza», gridai. «Sei in trappola, finalmente».
Questo accadeva una settimana fa. Da allora non mi sono mai mosso dalla
poltrona vicino alla campana di vetro, e al massimo ho distolto un attimo lo
sguardo per accettare una tazza di caffè. Quando devo andare in bagno,
mia moglie siede lì a darmi il cambio.
Posso ora riferire le seguenti, consolanti notizie. Nel corso del primo
giorno e della prima nottata, la cicca di gomma americana tentò con ogni
mezzo di fuggire. Poi, per un giorno e una notte parve agitata e nervosa,
come se per la prima volta si rendesse conto della disperata situazione in
cui si trovava. Il terzo giorno si rimise all’opera per tentare un movimento
masticatorio, solo che l’azione era enormemente accelerata, ora, un po’
come la masticazione di un tifoso di baseball. Il quarto giorno cominciò a
indebolirsi e ora notavo con gioia una sorta di squamosa aridità sulla sua
superficie un tempo così elastica e lustra.
Siamo ormai al settimo giorno e ritengo che stia per avvicinarsi la fine. La
gomma giace al centro del piatto. Il suo colore si è fatto livido e giallastro.
Oggi, quando mio figlio è entrato nella stanza, la gomma ha dato un balzo
di eccitazione; poi, è parsa rendersi conto di non avere alcuna speranza e si
è afflosciata sul piatto. Stanotte morirà, penso, e soltanto allora scaverò una
profonda buca in giardino, vi depositerò la campana di vetro sigillata e vi
pianterò dei gerani.
È mia speranza che questo resoconto possa finalmente far tacere alcune
delle sciocche fandonie che sono state spacciate nel vicinato.
14. Cemento che è
in grado di indurire molto
rapidamente, usato
normalmente per la
costruzione dei muri.
L’affare al n° 7 di rue de M..., in “Il racconto”, I, n. 1, giugno 1975
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STRUMENTI DI LETTURA
La storia
L’incipit è quello tipico di tanti
racconti del soprannaturale e
dell’orrore, inteso a rafforzare la “veridicità” di una vicenda che, dopo poche battute, si rivela invece fantastica. In questi
casi il narratore premette che la storia che
il lettore si sta accingendo a leggere è un
resoconto di pura verità, essendone egli
stato protagonista e testimone diretto, e
che con il presente scritto intende dissipare gli equivoci intorno a una certa vicenda dai contorni oscuri. Sennonché,
nello specifico, la minacciosa presenza all’origine della vicenda non si presenta
sotto le sembianze di un’entità soprannaturale né come un’orripilante creatura generata dalle oscurità della terra e neppure
nelle vesti di un sanguinario serial killer.
Essa assume, in questo caso, la più inoffensiva sembianza immaginabile, quella di
una minuscola, banale (benché, volendo,
leggermente ripugnante) gomma da masticare. L’innocuo “vizio” di masticare la
gomma, il chewing-gum americano, si trasforma però in un vero e proprio incubo,
angoscioso e ossessivo, ancor più sconvolgente in quanto la vittima predestinata è il
figlio del narratore stesso, un tenero
bimbo di otto anni.
Il personaggio
narratore
L’impressione di veridicità della vicenda è
rafforzata dal fatto che l’io narrante sembra essere facilmente identificabile con la
figura dell’autore reale del racconto,
John Steinbeck, il quale soggiornò ripetutamente a Parigi insieme alla famiglia.
Il protagonista, infatti, è uno scrittore, e
uno scrittore di successo, a giudicare dall’alto profilo residenziale della sua dimora parigina e dal numeroso seguito di
persone di servizio. Inoltre, nella realtà,
Steinbeck aveva effettivamente un figlio
di nome John, nato nel 1946 e che perciò, all’epoca della stesura del racconto,
aveva la stessa età del John masticatore di
chewing-gum.
Le tecniche
narrative
Benché il racconto sia costruito come
un tipico racconto di “orrore quotidiano” e narri una vicenda angosciosa,
nella quale un incubo ritorna ossessivamente ad assillare personaggi “reali” calati in una realtà quanto mai “normale”,
il fatto che il “mostro” persecutore sia
una banale gomma da masticare introduce una forte componente ironica e satirica. Siamo, anzi, in presenza di due
piani di lettura ben distinti: il chewinggum, sembra voler suggerire l’autore,
proprio per la sua banale inoffensività è
il simbolo più adatto per esprimere le
subdole insidie del moderno consumismo, che sotto apparenze allettanti insinua tra le pieghe della vita quotidiana, a
partire da quella dei bambini, gli invisibili tentacoli della manipolazione psicologica di massa.
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DOMANDE DI VERIFICA
1
L’ambientazione del racconto pone i personaggi protagonisti in
a
b
c
d
Una casa in affitto in una località di villeggiatura in America.
Una casa di Parigi, che faceva parte di una dimora storica.
Una villa dei Borboni, a Parigi.
In una non meglio identificata rue de M.., all’interno di una casa sconosciuta.
2
Tra il saggio che sta scrivendo il protagonista della storia dal titolo Sartor Resartus e quanto accade a lui e al figlio si può dire ci sia una qualche corrispondenza?
a No, le due vicende sono completamente diverse: in una si parla di abiti e nell’altra di un
chewing-gum che non vuole smettere di essere masticato.
b No, in una si parla di filosofia e nell’altra si fa il resoconto di un fatto reale.
c Sì, si parla in entrambi della stessa questione ovvero di che cosa sia essenziale e cosa superfluo
per gli uomini.
d Sono simili almeno in alcune cose perché fanno riferimento alla difficoltà di raggiungere l’essenziale e di rifiutare le convenzioni sociali più inutili.
3
Facendo riferimento alle caratteristiche che la gomma presenta nel corso del racconto, produci
una sua descrizione, ripercorrendo la storia nell’ordine di narrazione.
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Le vie tentate per contrastare la gomma e la sua irrefrenabile volontà chiamano in causa diverse
qualità umane: quali ritieni siano, deducendole dal racconto?
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5
Quale registro ritieni sia stato usato nel racconto, facendo sì che a generare di volta in volta sconcerto, paura, terrore o panico sia una semplice gomma da masticare? Giustifica la tua risposta, argomentandola attraverso quanto puoi dedurre dalla lettura del racconto e dal suo significato.
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6
“È mia speranza che questo resoconto possa finalmente far tacere alcune delle sciocche fandonie
che sono state spacciate nel vicinato” dice il protagonista nella frase conclusiva del testo, andando a concludere quanto affermato in apertura. Per quale motivo, secondo te, l’autore costruisce con questo intento la storia, che narra con il tipico andamento piano di un resoconto?
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Margery Allingham
anno 1931
Il fantasma
di Henry
luogo
Inghilterra
genere
racconto
tra realtà
e fantasia
Presentazione dell’opera
I romanzi della Allingham appartengono al tipo “sofisticato” del genere poliziesco e dimostrano una notevole accuratezza sia nella
descrizione dei più disparati ambienti sociali, sia nella definizione psicologica dei personaggi. Il fantasma di Henry, uno dei racconti
migliori della Allingham, può essere considerato un esempio dello stile della scrittrice, caratterizzato da uno spirito sottilmente satirico e una buona dose d’ironia. Il suo, anzi, è uno humour d’impronta tipicamente britannica, sempre molto contenuto nei toni
ma acuto e pungente, che la scrittrice appunta tanto sui personaggi principali quanto su quelli secondari.
Margery Allingham
Nata a Londra nel 1904, negli anni fra le due guerre fu una prolifica autrice
di romanzi gialli, tanto che, accanto ad Agata Christie, Dorothy Sayers, Josephine Tey, Gladys Mitchell e altre, può essere considerata una tipica esponente dell’“epoca d’oro” del romanzo poliziesco inglese. È la creatrice di
Albert Campion, un investigatore dilettante che maschera la propria intelligenza sotto un’aria ebete e svagata; il suo, per di più, è soltanto uno pseudonimo, sotto il quale si cela un personaggio di altissimo lignaggio, addirittura vicino alla Casa Reale. Fa la sua comparsa nel 1929 in La lunga notte di
Black Dudley, seguito da L’isola (1930), Il segreto della torre, La polizia in
casa (entrambi del 1931) e Dolce pericolo (1933), ove appare un altro personaggio fisso, la bellissima lady Amanda, moglie di Campion e alter ego della scrittrice. Nei primi anni
Trenta la Allingham pubblica anche alcuni romanzi con lo pseudonimo di Maxwell March, ma il vero
grande successo arriva con Morte di un fantasma (1934), che segna uno spartiacque nella sua produzione. I primi romanzi con il personaggio di Campion, infatti, sono densi di azione, mentre da Morte di un
fantasma in poi sono più strettamente “classici”, meno movimentati e caratterizzati da una più accurata
definizione psicologica dei personaggi: Corte d’Assise (1936), Danza sull’abisso (1937), La parte del destino (1938) ecc. In Black plumes (1940) la Allingham sostituì Campion con l’ispettore Bridie, ma con
minor successo. Tornò quindi al vecchio protagonista in Il ritorno di Campion e L’amnesia del signor Campion (entrambi del 1941), ma il filone si andava ormai esaurendo, tanto che in Un’ombra nella nebbia
(1952), da molti considerato il suo capolavoro, Campion ha una parte del tutto marginale, e nella versione
cinematografica l’autore della sceneggiatura lo tagliò del tutto. L’ultimo romanzo, Cargo of Eagles, lasciato
incompiuto alla morte della scrittrice nel 1966, fu portato a termine dal marito Philip Youngman Carter, il
quale proseguì da solo la serie dedicata al bizzarro investigatore creato quattro decenni prima dalla moglie.
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ara Millie, credo di essermi spiegato abbastanza, vero? Henry». Il
signor Henry Brownrigg firmò con uno svolazzo il foglietto di carta
celeste, poi lo posò esattamente al centro della vaschetta mal lavata,
e lasciato l’utensile bene in vista sul tavolo di cucina, perché la moglie lo trovasse al suo rientro, si allontanò, soddisfatto d’aver espresso il suo
rimprovero con fermezza e insieme con garbo.
In quindici anni di matrimonio, il signor Brownrigg sentiva di essersi impadronito dell’arte di dire alla moglie il fatto suo. Non che fosse riuscito ad
insegnarle qualcosa. Con una donna ottusa come Millie, questo andava al
di là di ogni speranza. Ma ormai, grazie alla lunga pratica, poteva indiriz-
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zarle un rimprovero o farle pervenire un biasimo in modo tale da penetrare
la placida balordaggine di lei.
Mezz’ora dopo che Millie fosse tornata dalla spesa, e prima che il pranzo
fosse portato in tavola, la vaschetta sarebbe stata al suo posto nella camera
oscura1, lustra e splendente come quando era nuova, e nient’altro sarebbe
stato detto sull’argomento. A tavola, tutt’al più, Millie sarebbe stata un po’
più ansiosa del solito di compiacere (senza riuscirvi) il marito.
Il signor Brownrigg passò dietro il bancone, spazzando via un granello di
polvere dallo scatolone di creme per il viso. Erano le dodici e venticinque.
Tra cinque minuti esatti, Phyllis Bell avrebbe lasciato il suo ufficio in fondo
alla High Street, e tra sette minuti e mezzo sarebbe entrata dalla porticina
stretta e inondata di sole nella farmacia fresca e profumata di spezie.
Si sarebbe fermata sul pezzetto di pavimento sul quale il sole formava una
chiazza gialla e azzurra, tra i grandi vasi della vetrina2 che erano l’emblema
del mestiere del signor Brownrigg, e l’avrebbe fissato con i suoi limpidi
occhi azzurri, sporgendo le piccole labbra adorabili.
Il farmacista prese dal banco uno degli specchietti che erano in vendita tra
altri articoli di profumeria e si specchiò. Non era un uomo molto appariscente. Alto non era mai stato, e, a quarantadue anni, la persona robusta
mostrava la netta tendenza a metter su pancia; ma c’era forza e virilità nelle
spalle quadrate, la faccia rasatissima e il collo largo avevano un che di taurino, e le labbra erano piene e carnose.
A Phyllis piacevano i suoi occhi. La incantavano, diceva, e molte delle altre
giovani donne che entravano nel negozio per acquistarvi qualcosa, e si intrattenevano a conversare col signor Brownrigg attraverso il banco, sarebbero state d’accordo con lei. Gli occhi del signor Brownrigg erano scurissimi, rotondi, ardenti; occhi che parevano quasi un’assurdità, in un farmacista
grassoccio di mezz’età che aveva una moglie come Millie.
Ma il signor Brownrigg non contemplava i propri occhi. Si lisciò i capelli,
si umettò le labbra, poi, rendendosi conto che Phyllis sarebbe entrata da un
momento all’altro, sparì dietro il banco di vendita. Era bene, si ripeteva
sempre, non mostrarsi mai troppo impaziente.
Ma stava tenendo d’occhio la porta, quando la ragazza entrò. Intravide la
gonna verde, mentre lei si arrestava un attimo sullo scalino, e notò l’espressione mezzo ansiosa, mezzo preoccupata con cui sbirciava verso il banco.
Era contento che non fosse entrata mentre c’erano altri clienti. Phyllis era
diversa da tutte le altre avventurette avute durante quei quattordici anni.
Quando c’era Phyllis in negozio, il signor Brownrigg andava sempre a rischio di sbagliarsi, di lasciar cadere la roba e di imbrogliarsi nel dare il resto.
Brownrigg uscì dal cantuccio oscuro, emozionato suo malgrado, e bruscamente attirò a sé la ragazzina bionda, attraverso quella parte del banco che
era leggermente più bassa del resto e che lui teneva sgombra di proposito.
La baciò, e l’impetuosità improvvisa e avida del gesto lo tradì. Sentì che la
ragazza tratteneva il fiato, prima di liberarsi e indietreggiare.
– Non… non dovete – disse lei, riassestandosi nervosamente il cappellino.
Aveva sì e no vent’anni, era piccola e d’aspetto un po’ infantile, con i capelli
1. Per alcune particolari
preparazioni i farmacisti
usano una camera oscura
perché la luce non
modifichi le proprietà
chimiche dei componenti
da loro trattati.
2. Nelle farmacie –
soprattutto quelle più
antiche – sono esposti in
appositi scaffali i vasi di
ceramica dipinta nei quali
sono contenute le sostanze
utili a preparare i farmaci.
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3. Istrione è sinonimo di
attore; istrionico, in questo
caso, vuol dire che il
farmacista non voleva
assumere un
atteggiamento che
apparisse non naturale,
fatto apposta, come
farebbe un attore.
4. Il libro mastro è il
registro della contabilità
che ogni attività
commerciale possiede per
tenere conto dei movimenti
di pagamento ricevuti
e da effettuare.
5. Si dice capitale vincolato
una somma di denaro
posta in banca che, per
poter essere usufruita,
deve soddisfare a una
determinata condizione (ad
esempio la maggiore età di
un figlio, la morte del suo
possessore attuale, ecc.).
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chiarissimi e il portamento aggraziato, tranquillo. Ora gli occhi azzurri
erano spaventati e un po’ disgustati, come se si fosse trovata coinvolta in
un’emozione che i suoi istinti giudicavano poco gradevole.
Henry Brownrigg riconobbe l’espressione. L’aveva già vista in altri occhi,
ma, mentre in occasioni passate era riuscito a mostrarsi benevolmente divertito e di conseguenza amabile e rassicurante, in Phyllis quell’espressione
quasi lo spaventò.
– Perché no? – replicò bruscamente; troppo, e se ne accorse subito, mentre
il sangue gli saliva alla faccia.
Phyllis prese un lungo respiro.
– Sono venuta a dirvi – dichiarò con voce incerta, da bambina che recita
una lezione – che ho pensato molto a questa storia. Non posso andare
avanti così. Voi siete sposato. Io voglio sposarmi, un giorno o l’altro. Perciò... voglio dirvi che non tornerò più.
– Ne avete parlato con qualcuno? – domandò lui, raggelandosi.
– Di voi? No, misericordia!
Tanta veemenza era convincente; lì per lì, Brownrigg ignorò quanto di
poco lusinghiero vi era compreso e sospirò di sollievo.
– Ma tu mi ami – mormorò poi. – Io ti amo e tu mi ami. Lo sai, no?
Non voleva essere istrionico3 di proposito, ma gli veniva un tono roco,
quello che, come alcuni attori hanno scoperto, è fra i più efficaci ad esprimere profonda sincerità.
Phyllis assentì avvilita, e insieme stranamente imbarazzata. I suoi occhi andarono alla strada piena di sole, prima di tornare a posarsi sul farmacista.
– Addio – mormorò con un filo di voce, e fuggì dal negozio.
Attraverso la vetrina, Brownrigg la vide allontanarsi, quasi di corsa.
Per un poco, rimase a fissare la chiazza di sole sulla porta. Poi rialzò lo
sguardo e sorrise. Sarebbe tornata. Domani, o magari fra una settimana.
Sarebbe tornata. Ma l’ostacolo, l’ostacolo insuperabile, si sarebbe levato di
nuovo, e a lungo andare l’avrebbe sconfitto, facendogliela perdere.
Di sicuro, l’avrebbe persa. Phyllis era diversa dalle altre.
A meno che... l’ostacolo non fosse stato rimosso.
Henry Brownrigg aggrottò la fronte.
C’erano anche altre cose da considerare.
Il vecchio libro mastro4 insudiciato dalle mosche stava lì a ricordargliele.
Ma una volta rimosso l’ostacolo, automaticamente sarebbero state spazzate
via anche le altre difficoltà; non c’era l’assicurazione? E quel capitaletto che
il padre di Millie aveva vincolato5 con tanta prudenza, nemmeno fosse stato
presago che la figlia, da adulta, sarebbe stata una perfetta ebete?
Gli occhi del signor Brownrigg si posarono sul cassettino sotto il bancone,
quello con l’etichetta «Ricette – Non toccare». Era chiuso, e nemmeno
Perry, il fattorino e commesso di bottega, che ficcava il naso dappertutto,
sospettava che sotto la pila di foglietti si nascondesse un piccolo fascio di
lettere scritte con la calligrafia quasi infantile di Phyllis.
Brownrigg si voltò bruscamente. Aveva il respiro faticoso, e quasi tremava.
Il momento era venuto.
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Alcuni mesi prima, Henry aveva deciso che sarebbe diventato vedovo entro
l’anno; il colloquio di quel mattino gli aveva fatto capire che bisognava
stringere i tempi.
In quel momento Millie, ancora rossa di vergogna al pensiero della vaschetta mal lavata, mise dentro la testa dalla porticina del retro.
– È in tavola, Henry – annunciò, e aggiunse, con quella stupidità che aveva
smesso di fargli piacere, dandogli un senso di superiorità, e che ormai lo
annoiava a morte: – Come sei serio. Oh, Henry, hai forse fatto qualche errore? Non avrai mica dato a un cliente una bottiglia per un’altra?
– No, cara Millie – replicò il marito, fissandola gelido e calcando sul sarcasmo. – Questo è uno di quegli sbagli idioti che ancora non mi è capitato di
fare. Non ho raggiunto il livello di mia moglie, si vede.
E mentre seguiva la figura rassegnata di lei, nella stanzetta dietro il negozio, una parola echeggiava ritmicamente nel suo cervello, a tempo coi battiti del suo cuore: – Presto! Presto! Presto!
– Henry, caro – disse Millie Brownrigg guardando turbata il marito – perché il dottor Crupiner? È così salato nelle parcelle... a parte il fatto che è
decrepito.
Millie era in piedi, davanti allo specchio, nella grande stanza da letto sopra
il negozio, e si spazzolava i capelli castani striati di grigio, prima di rifarsi la
treccia e girarsela attorno alla testa.
Henry Brownrigg, sdraiato nel letto all’altra estremità della stanza, non le
diede risposta.
Millie continuò a parlare. Era abituata ai silenzi di Henry. Era così intelligente, Henry! La maggior parte del tempo la impiegava a pensare.
– Ho sentito una quantità di cose strane sul dottor Crupiner – osservò. –
Dicono che è talmente vecchio, che si dimentica tutto. Perché non andiamo da quello della mamma? Lei ne ha una tale fiducia...
– Disgraziatamente per lei, povera donna, tua madre ha la tua stessa intelligenza, ma non ha un uomo che si prenda cura di lei – disse Henry Brownrigg.
Millie non fece commenti.
– Crupiner – continuò Brownrigg – non sarà un genio, come medico generico, ma è specialista per un certo tipo di disturbi. Voglio che tu vada da
lui. Desidero che ti rimetta bene, mia cara.
La faccia dolce e inespressiva di Millie arrossì, e gli occhi le si fecero umidi
e smarriti. Henry, che la vedeva riflessa nello specchio, girò la testa. In certi
momenti, vedendo quanto lei gli era grata di una parola buona, provava
quasi un certo disgusto per il progetto che aveva architettato.
– Sai, Henry, – riprese improvvisamente la signora Brownrigg – io mi sento
piuttosto bene. Quelle cose che mi dai tu mi fanno benissimo, ne sono
certa. Ora non mi sento più molto stanca, alla fine della giornata. Non potresti continuare a curarmi tu?
L’uomo s’irrigidì sotto le coltri. Quel poco rimorso provato poc’anzi svanì,
lasciandolo seccato e guardingo.
– Si capisce, che ti fanno bene – confermò, soddisfatto di sapere che, fino
ad un certo punto, diceva la verità, almeno per il momento. – Io non credo
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nelle specialità, ma le pillole di Fender sono buone, aiutano a tirarsi su.
Però preferisco assicurarmi che sei organicamente a posto. Non mi piace il
fatto che appena ti affretti un po’ ti viene subito l’affanno, e poi le tue labbra hanno un colore che non mi piace.
La grassoccia, ingenua Millie si guardò allo specchio, e si passò un dito
sulle labbra.
Come molte donne della sua età, aveva perso i colori, e attorno alla bocca
aveva effettivamente un leggerissimo alone azzurrognolo.
Il farmacista si affrettò a rassicurarla.
– Non sarà niente di grave, ne sono sicuro, ma è meglio andare stasera
stessa a consultare Crupiner – disse. – Non vogliamo correre rischi, vero?
Millie assentì, con le labbra tremanti.
– Sì, caro – disse; e aggiunse nel suo solito modo stucchevole. – Penso che
hai ragione.
Dopo che Millie fu scesa per occuparsi della colazione, Henry si alzò, l’ultima frase pronunciata ancora sulle labbra. Se la ripeté, pensoso.
– Non possiamo correre rischi. Proprio così. Niente rischi. Nessuna stupida imprudenza, Henry Brownrigg!
Solo gli sciocchi fanno le cose a casaccio. Solo gli sciocchi si fanno cogliere
in fallo. Ma in effetti, l’impresa era veramente semplice. Millie era così ingenua, così incredibilmente fiduciosa.
Verso la fine della giornata, il signor Brownrigg era nervosissimo. Perry, il
commesso, gli aveva riferito, con molto candore, di aver visto il giovane
Hill passare lungo l’Acacia Road nella sua nuova auto, a velocità sostenuta,
e aveva aggiunto tra l’altro che nella macchina c’era anche quella ragazza
bionda, Phyllis Bell. Se la ricordava, vero, il signor Brownrigg? Quella
biondina tanto graziosa…
Per un attimo, Henry Brownrigg aveva tremato all’idea che il commesso
avesse scoperto il suo segreto e stesse punzecchiandolo con malizia. Ma
anche dopo essersi convinto che non era così, il fatto e la rabbia restarono.
Hill era un bel giovanotto, scapolo. Phyllis era giovane e inesperta. Il farmacista se li immaginava fermi in qualche boschetto fuori città, intenti a tenersi per mano, forse a baciarsi: il suo cuore, che poteva restare calmo sotto
lo sguardo spaventato di Millie che parlava della propria malattia, gli balzava nel petto all’idea di quell’abbraccio.
«Presto!». La parola si formò di nuovo nel suo cervello. «Far presto, far
presto!».
Millie era senza fiato quando arrivarono alla vecchia casa del dottor Crupiner. Henry, assorto nei propri pensieri, aveva camminato molto in fretta.
Il dottore li ricevette subito. Era un vecchietto impolverato. Dentro di sé,
Millie pensava che le sarebbe piaciuto dargli una buona spazzolata, e a
quell’idea le si presentò alla mente un quadretto così spassoso da farla
uscire in una risatina sciocca. Henry dovette lanciarle un’occhiataccia,
scrollando la testa.
Subito lei arrossì, e il suo volto ritrovò la consueta espressione ottusa.
Henry illustrò al dottore i sintomi della moglie, e Millie parve grata e sor-
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presa dell’ansia che il marito tradiva. Evidentemente, Henry aveva notato i
suoi piccoli malesseri, più spesso di quanto lei non supponesse.
Quando Henry ebbe terminato l’elenco dei piccoli malanni di Millie, nessuno dei quali era veramente grave in sé, ma il cui totale assommava a una
quantità piuttosto paurosa di indizi, il dottor Crupiner girò verso di lei gli
occhietti avidi, dalla cornea striata di venuzze rosse. Le labbra del vecchio,
coperte di piccole macchie come il registro di Henry, si sporsero per un attimo, prima che la voce ne uscisse, affannosa e sepolcrale.
– Bene, signora, vostro marito sembra preoccupato per voi. Sarà bene che
vi dia un’occhiata.
Millie tremava. L’apprensione le faceva di nuovo mancare il respiro. Un paio
di volte, negli ultimi tempi, aveva avuto l’impressione che quelle pillole di
Fender le dessero l’affanno, anche se sotto altri aspetti la facevano sentire più
arzilla, ma aveva preferito non farne parola con Henry.
Il dottor Crupiner le si accostò, respirando forte dal naso, nello sforzo per
concentrarsi. Le premette un dito tozzo e malfermo nell’occhiaia, tirando
giù la pelle per scrutare con occhio miope la cornea. Poi le appioppò una
manata sulle spalle, nell’intento di rincuorarla, e le toccò il palmo delle mani.
Il signor Brownrigg, che osservava con occhio pensoso e sfuggente il rituale, prese improvvisamente il medico da parte, e i due uomini ebbero una
conversazione sottovoce, all’altra estremità della stanza.
Millie non poté fare a meno di ascoltarne una parte, anche perché il dottor
Crupiner era mezzo sordo, e Henry era ansioso di farsi sentire bene.
– Vent’anni fa – udì Millie. – D’improvviso. – E poi, dopo una pausa, la parola terribile: – Ereditario.
Il tremito di Millie aumentò di intensità, e la sua faccia larga e insulsa prese
un’aria terrorizzata. Stavano parlando del suo povero papà, che era morto
all’improvviso, di un attacco cardiaco.
Sentì il cuore martellare dolorosamente. Ecco perché, dunque, Henry
sembrava tanto preoccupato!
Il dottor Crupiner tornò ad avvicinarsi. Millie dovette slacciarsi la camicetta e il dottore le auscultò il cuore con un vecchissimo stetoscopio. Millie, che già stava tremando, cominciò a respirare con difficoltà, tanto la sua
ansia si era acuita.
Finalmente il vecchio terminò il suo esame. Per alcuni secondi rimase a fissarla senza batter ciglio, poi tornò da Henry e insieme si portarono verso il
fondo della stanza.
Millie aguzzò le orecchie e udì la voce cavernosa del vecchio.
– ... una certa irregolarità. Niente di preoccupante, per ora. Bisognerà che
la riveda fra qualche giorno.
Poi ci fu una domanda di Henry che lei non riuscì a captare, ma subito
dopo, dato che il dottore sembrava incerto sulla risposta, il farmacista soggiunse con voce normale:
– Le ho dato delle pillole di Fender.
– Pillole di Fender? – il dottore parve ripetere quelle parole con sollievo. –
Eccellenti. Di solito io non ho simpatia per le specialità, ma quelle pillole
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6. Si intende una persona
di servizio che
evidentemente andava
in casa Brownrigg durante
la mattina.
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sono ottime, e vi risparmierò il disturbo di preparare qualcosa di mia prescrizione. Continuate pure con quelle, per qualche giorno. Sono ottime, anch’io le prescrivo molto spesso. Vanno prese con moderazione, s’intende.
– Oh, certo – assicurò Henry. – Comunque pensate che abbia fatto bene a
fargliele prendere, dottore?
Millie era sorpresa e compiaciuta per lo zelo che il tono di Henry rivelava.
– Senza dubbio, caro Brownrigg –. E il dottor Crupiner tornò ad avvicinarsi a Millie. – Allora, signora Brownrigg – disse con affettata giovialità –
abbiatevi cura e fate quello che dice vostro marito. Tornate a trovarmi tra
una decina di giorni e sarete di nuovo vispa come prima. Arrivederci. Ah,
signora Brownrigg, mi raccomando: niente emozioni, badate bene! Cercate di stare calma il più possibile e non affaticatevi.
Le strinse distrattamente la mano, e mentre Henry aiutava Millie a raccogliere le sue cose, mostrando una premura assolutamente insolita, il vecchio andò a togliere da uno scaffale un polveroso volume di medicina.
Un momento prima che i due uscissero, Crupiner sbirciò Henry al di sopra
delle lenti.
– Quelle pillole di Fender sono un’ottima idea – osservò in tono completamente diverso dal borbottio professionale di poco prima. – Proprio quello
che ci vuole. Contengono una piccola dose di digitalina.
Una delle abitudini meno lodevoli del signor Brownrigg era il suo modo di
trascorrere il sabato sera.
Alle sette e mezzo, paziente e solerte, benché disapprovasse, Millie faceva
sparire le tracce della cena e metteva sulla tovaglia di tela verde un bicchiere e una bottiglia di whisky sigillata.
Fatto questo, si ritirava in cucina, rigovernava e si metteva a stirare. Di solito si riservava quest’operazione per il sabato sera, perché era una faccenda
lunga, con frequenti soste per piccoli punti da dare alle camicie di Henry e
alla sua biancheria, e Millie sapeva che avrebbe avuto dinanzi a sé una
lunga serata tranquilla.
Infatti, aveva tempo fino a mezzanotte. Quando l’orologio di cucina segnava le dodici, Millie riponeva l’asse da stiro e posava il ferro sul fornello
spento lasciandolo lì a raffreddarsi.
Poi andava nel soggiorno e toglieva di mezzo il bicchiere e la bottiglia
vuota, perché la donna a giornata6 non li vedesse il mattino dopo. Inoltre
raccoglieva da terra i giornali e rimetteva in ordine la stanza.
Finalmente, dopo avere spento la stufetta a gas, si occupava di Henry.
Circa tre settimane dopo la sua prima visita al dottor Crupiner (il medico, su
suggerimento di Henry, aveva aumentato la dose delle pillole Fender da tre a
cinque al giorno) Millie passò la sera del sabato seguendo il solito cerimoniale.
Per un uomo impegnato in un progetto quale quello del signor Brownrigg,
ubriacarsi anche una sola volta, in modo totale e sistematico, poteva essere
pura follia. Ma Brownrigg continuava a farlo, una volta la settimana.
Un bicchiere di whisky lo rendeva taciturno. Dodici abbondanti dosi di
whisky, ovvero, l’intera bottiglia, facevano di lui un sacco silenzioso e senza
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forze, incapace di movimento e di parola, e tuttavia – fenomeno quanto
mai notevole – ugualmente in possesso della propria lucidità.
Millie avrebbe anche potuto domandarsi perché mai il marito ci tenesse
tanto a trasformarsi in una specie di rudere paralitico, ogni sabato sera della
propria vita; ma, nonostante la sua grande stupidità, Millie era una donna
tollerante: secondo lei, gli uomini erano creature strane e privilegiate che
trovavano diletto nelle più assurde forme di perversione7. Ragione per cui lo
lasciava fare, e nascondeva perfino alla madre la debolezza del consorte.
Henry Brownrigg comunque provava un grande piacere nella sua orgia settimanale8. Gli altri giorni non beveva, e quella del sabato sera era insieme
un’avventura ed un’abitudine. All’inizio del suo piano aveva pensato di rinunciare all’orgia fino a progetto attuato, ma poi si era persuaso dell’assoluta necessità di attenersi rigidamente al normale corso della sua vita, in
modo che non vi fosse nessun appiglio, anche piccolissimo, al quale i sospetti altrui potessero agganciarsi.
Nella serata in questione, Millie si esaurì completamente nello sforzo di
trascinare il marito di sopra e metterlo a letto. Era talmente stanca e spossata che si lasciò cadere sull’orlo del letto, ansando penosamente, incapace
di trovare la forza per spogliarsi. E così dimenticò di prendere le due pillole
che Henry le aveva lasciato sul piano della toletta. Se ne rese conto quando
era già coricata, ma non poté, in nessun modo, indursi ad alzarsi dal letto,
per prenderle.
Il mattino dopo, Henry le trovò ancora al loro posto. Ascoltò in silenzio le
spiegazioni di Millie e infine, mentre lei aggiungeva scuse su scuse, ridiventò quello di sempre.
– Cara Millie – disse, nel tono esasperato che la moglie conosceva anche
troppo – a che serve che io faccia tutto quello che posso per farti star bene,
se tu mi metti il bastone tra le ruote, ogni momento?
Millie si chinò sui fornelli. Henry, forse intuendo che lei cercava di nascondere le lagrime, si fece più conciliante.
– Non ti piacciono? – domandò gentilmente. – Hanno un sapore che non
ti va? Forse sono troppo grosse? Senti, cercherò di renderle più facili da
ingerire. Lascia fare a me. Su, su, non preoccuparti. Le pesterò e le chiuderò in una capsula. Però tu devi prendere la medicina, ricordatelo.
Millie divenne pensosa. Henry doveva essere molto preoccupato per lei, altrimenti non si sarebbe certo mostrato così comprensivo verso i suoi stupidi errori.
Bill Perry, l’aiutante di Brownrigg, era un ragazzo impacciato, e forse sarebbe rimasto un timido fino alla morte.
Era smilzo, rosso di capelli, con una certa tendenza all’acne e coi grossi polsi
ruvidi e sempre arrossati. Detestava il signor Brownrigg, come solo i giovani
possono detestare chi possiede una lingua pungente, ma a Millie voleva bene,
e i suoi occhi slavati assumevano una luce gentile, quando lei gli parlava.
Il giovane Perry non pensava affatto che Millie fosse tanto cretina quanto il
padrone cercava di farla apparire in ogni occasione.
Non foss’altro perché lei si mostrava sempre gentile, il giovane Perry si interessava molto allo stato di salute di Millie.
7. Millie cioè non approva
quel particolare
divertimento del marito
che trova vicino alla follia.
8. Il termine è usato qui
per indicare la condizione
un po’ proibita e un po’
esagerata del bere fino
all’abbrutimento.
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Il lunedì sera, Perry vide il signor Brownrigg mettere il contenuto delle
pillole di Fender in capsule di gelatina, e volle sapere per chi fossero.
Brownrigg si mostrò insolitamente comunicativo. Spiegò al commesso, in
tutta confidenza, che la signora Millie non stava affatto bene e che il dottor
Crupiner era preoccupato per lei.
Brownrigg lasciò anche capire che tanto lui quanto Crupiner, da gente del
mestiere, erano convinti che se l’assenza di ogni preoccupazione e le pillole di
Fender non potevano salvare la povera donna, nulla avrebbe potuto salvarla.
– Volete dire che potrebbe morire? – domandò, desolato, il giovane Perry.
– Così… all’improvviso?
Subito, si pentì di aver parlato. Al signor Brownrigg tremava la mano al
punto che lasciò cadere una capsula. Perry capì allora che il Vecchio era
terribilmente affezionato alla sua Vecchia, sotto sotto, e che la punzecchiava con cattiveria solo perché si vergognava di mostrare i propri sentimenti.
All’istante, il cuore sensibile e sentimentale del giovane Perry s’intenerì per
il povero signor Brownrigg, perdonandogli tutte le osservazioni sarcastiche di cui era tanto prodigo.
Arrivarono i rifornimenti di medicinali. Bill Perry aprì i due scatoloni più
grandi e mise a posto la roba; il più piccolo lo aprì, ma lasciò che la roba la
mettesse a posto il padrone.
Brownrigg finì di confezionare le capsule, si lavò le mani, poi si mise al lavoro con la solita alacrità.
Non era molta, la roba arrivata, e il giovane Perry che, qualche tempo
prima, aveva dato un’occhiata al registro dei conti, credeva di sapere perché. Il Vecchio ce la faceva appena appena. Il giro d’affari era scarso, la farmacia rendeva pochino.
Il ragazzo leggeva la nota del grossista, e Brownrigg riponeva via via i medicinali.
– Bicarbonato di sodio, magnesia – leggeva Perry, stentatamente. – Iodio,
chinino, tintura di digitale... dev’essere questa, signor Brownrigg. Qui,
questo pacco più grosso...
Bill Perry sapeva di leggere male, e voleva solo rendersi utile, indicando il
pacco, ma Brownrigg gli lanciò un’occhiata addirittura terrificante, mentre
afferrava il pacco e lo riponeva nell’armadione dei medicinali.
Il giovane Perry era costernato. Era già in ritardo e voleva andarsene. Imbarazzato com’era, continuò a farfugliare, peggiorando più che mai le cose.
– Mi dispiace, signore – disse. – Volevo solo rendermi utile. Pensavo che
poteste... ecco... che foste distratto e che poteste confondervi.
– Ah, – fece lentamente il signor Brownrigg, fissandolo con i suoi occhi ardenti e tondi in modo tutt’altro che rassicurante. – E, secondo te, a che
cosa penso, mentre faccio il mio lavoro?
– A… alla signora Millie, signore – balbettò spaventatissimo il povero Perry.
Henry Brownrigg si irrigidì. Il sangue gli si congelò, gli occhi parvero
rientrare nella fronte.
Bill Perry, accortosi di aver detto qualche altra sciocchezza, e temendo
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d’essersi mostrato indelicato ed invadente, scambiò per imbarazzo quei sintomi minacciosi.
– Scusate – disse ancora. – Cercavo proprio di rendermi utile. Sono anch’io
un po’... un po’ frastornato, signore. La signora Brownrigg è sempre stata
così gentile con me. Mi dispiace tanto che sia così ammalata.
Un gran sospiro sfuggì dal petto del farmacista.
– Non devi scusarti, ragazzo mio – disse, con una cortesia che il commesso
non gli conosceva. – Sai com’è, ho i nervi un po’ scoperti. Vai pure, ora. Finirò da me.
Il giovane Perry non se lo fece dire due volte, felice di ritrovarsi libero nella
chiara serata estiva, ma anche un po’ commosso per la rivelazione improvvisa di quella tragedia d’amore coniugale.
Phyllis camminava spedita lungo Coe’s Lane, una scorciatoia tra la via in
cui abitava e Priory Avenue. Era un viottolo angusto e tortuoso, con un
prato polveroso da una parte e una staccionata piuttosto alta dall’altra.
In quel momento la scorciatoia appariva deserta, ma quando Phyllis raggiunse il grosso albero che sorgeva proprio a metà strada, una persona uscì
da dietro il tronco e le si fece incontro.
La ragazza si fermò bruscamente in mezzo al viottolo, con le guance in
fiamme, trattenendo il respiro, come se avesse avuto paura di se stessa.
Brownrigg stesso non era preparato alla violenza della fitta che sentì in
petto, nel vedersela davanti; l’impeto di passione che gli bloccava il respiro
e gli rendeva le palpebre pesanti e la bocca arida, quasi lo spaventò.
Erano soli nel viottolo, e lui la baciò, concentrando nelle braccia e nelle
labbra avide tutto l’insopportabile desiderio accumulato in quei diciotto
giorni.
Quando la lasciò andare, lei piangeva.
– Vattene – gli disse, e il tono era disperato e implorante. – Oh, ti prego... va’
via!
Dopo il bacio, Henry era ritornato umano. Non era più quell’essere posseduto dai demoni, appostato dietro l’albero, in attesa. Poteva comportarsi
normalmente, almeno per un po’.
– E va bene – disse. Poi, in tono così accorato che lei gli credette davvero,
aggiunse: – Ti vedi anche quest’oggi con Peter Hill?
Le labbra della ragazza tremavano, gli occhi erano supplichevoli.
– Cerco di liberarmi – mormorò. – Non lo capite che cerco di liberarmi di
voi? Ma non è facile, credetemi.
Per un minuto intero, Brownrigg la fissò con occhio indagatore. Poi, diede
in una breve risata e si allontanò, a grandi passi. Camminava in fretta, i
tondi occhi assorti ma il passo sciolto e deciso. I suoi pensieri erano piacevoli. Dunque, Phyllis era là, pronta per lui, una volta che l’ostacolo fosse
stato rimosso; quello era stato il suo unico dubbio, ma adesso era certo del
fatto suo. Restava solo da mandare ad effetto la parte materiale del piano.
Altre piccole cose, relativamente prive d’importanza, si affollavano alla sua
mente: per esempio, la nuova storia che il vecchio registro avrebbe raccontato quando il premio dell’assicurazione fosse stato versato in banca e il caV. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010
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9. Composto che consiste
in una miscela di estratti
dalla digitale, che in dose
massiccia risultano letali,
producendo un arresto
cardiaco.
10. Unità di misura usata
anticamente nella
farmaceutica inglese,
corrispondente circa a 3,6
grammi.
11. L’autore si riferisce a
un famoso caso giudiziario
della seconda metà
dell’800 in cui un medico
di nome Pommerais, per
poter usufruire dei capitali
della moglie, aveva prima
avvelenato la suocera e
poi aveva ucciso la moglie
usando la digitalina.
Il medico legale Tardieu,
molto famoso per avere
risolto casi celebri, venne
incaricato di fare l’autopsia
e capì che era stata usata
la digitalina, ma comprese
altrettanto che sarebbe
stato molto difficile
dimostrarlo; al processo
portò i suoi esperimenti
effettuati su tre rane
e alcuni cani, per
argomentare la sua tesi.
La difesa riuscì a rendere
dubbie le dimostrazioni
di Tardieu, ma il tribunale
condannò ugualmente
a morte Pommerais per
circostanze sospette.
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pitaletto di Millie investito ben diversamente. Ma lui le scacciò, spazientito. Per adesso bisognava restare con i piedi per terra. Quel pomeriggio, lo
aspettava un lavoretto delicato e bisognava portarlo a termine.
Quando arrivò a casa, Millie s’era già diretta da sua madre.
Quel giorno, si chiudeva bottega più presto del solito, e il commesso aveva
il pomeriggio di libertà.
Il signor Brownrigg fece il giro della casa e si assicurò che tutte le porte fossero chiuse. Le saracinesche nella farmacia erano abbassate, e lui sapeva benissimo che non lasciavano filtrare nemmeno un filo di luce dall’interno.
Si tolse la giacca e indossò il camice. Accese la luce in bottega, chiuse la porta
tra la farmacia e il soggiorno dell’abitazione, poi si mise al lavoro.
Sapeva perfettamente quel che doveva fare. Ormai, da otto giorni Millie aveva
preso regolarmente cinque pillole al giorno. Ciascuna conteneva un sedicesimo di grammo di digitalina9, e la droga aveva la prerogativa di accumularsi
nell’organismo. Nessuna meraviglia, se Millie, negli ultimi tempi, s’era lamentata di mali di testa e di disturbi al fegato! Millie era proprio un’idiota!
Tirò fuori la bottiglia di digitalina, arrivata il giorno in cui il giovane Perry
gli aveva fatto prendere quel po’ po’ di spavento. Il grossista non poteva
aver trovato nulla di strano in quell’ordinazione. Non ci sarebbero state inchieste sull’uso che ne aveva fatto: il che voleva dire che sarebbe potuto
stare tranquillo... a cose fatte.
Lavorava febbrilmente, e intanto il pensiero galoppava. Conosceva la dose.
Tutto era stato predisposto mesi prima, quando gli era nata l’idea, e aveva
ripassato mentalmente il procedimento da usarsi, infinite volte, per esser
certo di non commettere errori.
Nove dragme10 di quella tintura avrebbero ucciso un paziente che non
avesse già avuto della digitalina in circolo. D’accordo che la tintura si deteriorava facilmente, ma quella bottiglia era ancora fresca; di sei giorni appena, se il grossista era stato onesto.
Preparò il bruciatore e l’evaporatore. Ci voleva tempo. Lui era piuttosto
pratico, ma aveva le mani malferme, e i vapori gli andavano negli occhi, irritandoglieli.
D’improvviso scoprì che erano quasi le quattro. Venne colto dal panico. Di
lì un paio d’ore appena, Millie sarebbe tornata a casa, e c’era ancora tanto
da fare.
Mentre il bruciatore faceva il suo lavoro, la mente di Brownrigg mulinava.
La digitalina era talmente difficile da rintracciare, dopo… questo era il
vantaggio! Perfino il grande Tardieu era stato incapace di affermare con sicurezza se nel caso Pommerais era stata usata la digitalina, e questo, dopo
un’autopsia scrupolosa e le prove sulle rane e su ogni sorta di animali11.
La faccia di Henry Brownrigg si allargò in una specie di ghigno. Il vecchio
Crupiner non era Tardieu. Crupiner si sarebbe ben guardato dal richiedere
un’autopsia. Avrebbe rilasciato il certificato di morte senza indagare troppo.
Probabilmente non sarebbe nemmeno venuto ad esaminare il cadavere.
Una scampanellata alla porta di servizio lo fece sussultare al punto che, per
poco, non rovesciò tutto il suo armamentario. Per un momento, restò im-
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mobile ed ansante, come un animale preso in trappola, ma poi si ricompose. Si rimise la giacca, e si mosse per andare ad aprire.
Chiuse dietro di sé la porta del negozio, si lisciò i capelli ed aprì, sicuro di
mostrare un aspetto assolutamente normale.
Ma il ragazzino con il giornale della sera non aspettò d’essere pagato, come
tutti i sabati, e fuggì via, dopo una sola occhiata alla faccia del signor
Brownrigg. Era un dodicenne timido, che spesso si metteva in mente chissà
che, e il compagno che l’aveva incaricato della commissione, un ragazzo
più grande, gliene disse di tutti i colori e prese mentalmente nota di passare
lui il lunedì sera a riscuotere i soldi della settimana.
L’effetto dell’incidente, su Henry Brownrigg, fu notevolissimo. Il farmacista tornò al suo lavoro come un sonnambulo, e per tutto il resto dell’operazione dovette imporsi di pensare a quello che stava facendo.
Come Dio volle, terminò.
Spense il bruciatore, pulì l’evaporatore, misurò con cura la dose tossica, abbondando, tanto per non sbagliare.
Poi, fece sparire accuratamente i residui e si sentì molto meglio.
Stava per chiudere la farmacia, e si era già rimesso la giacca, quando ebbe
una sorpresa sgradevolissima. Dapprima, la sua attenzione venne attirata
da uno strato di lievissima polvere sopra una delle bottiglie. La tolse, con
cura meticolosa. Detestava il disordine.
Aveva rimesso via il fazzoletto, quando lo sguardo gli cadde sul ripiano del
banco, e il primo barlume dell’orrenda verità gli si presentò alla mente.
Dal ripiano, i suoi occhi si spostarono agli scaffali, ai diversi oggetti esposti, alle bottiglie e ai vasi di farmacia, all’impiantito stesso.
Grosse gocce si formarono sulla fronte di Henry Brownrigg. Non c’era un
centimetro di superficie, in tutto il negozio, libero da quello strato di sottilissima, impalpabile polvere giallastra.
La digitalina! Digitalina sparsa dappertutto, ovunque! La prova della sua
colpa in ogni dove, limpida, inconfondibile, elementare per un osservatore
intelligente.
Henry Brownrigg era inchiodato al suolo.
Un po’ alla volta il suo cervello, aggrappandosi all’istinto di difesa, di conservazione, ricominciò a funzionare. Un rinvio, ecco la prima cosa da farsi:
rinviare. Millie non doveva prendere la capsula quella sera, come sarebbe
stato nei piani. Né quella sera né l’indomani. Millie non doveva morire
fino a che ogni traccia della digitalina non fosse scomparsa dal negozio.
Rapidamente, cambiò tutto il suo programma. Quella sera si sarebbe comportato come al solito, e l’indomani, appena Millie fosse uscita per andare
in chiesa, lui avrebbe dato una prima spolverata, in modo che il commesso
non si accorgesse di nulla.
Lunedì, poi, con una scusa qualsiasi, avrebbe mandato a chiamare un’impresa di pulizia. Sarebbero venuti con un’enorme macchina per aspirare,
introducendo i tubi attraverso la vetrina. Sovente lui aveva detto che intendeva chiamarli per una buona ripulita.
Quelli dell’impresa lavoravano in fretta; perciò, entro martedì…
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Nel frattempo, attenersi alla più assoluta normalità. Questo era l’importante. Non fare nulla che potesse insospettire Millie o destarne la curiosità.
Gli venne il pensiero che sarebbe stata una truce ironia pregare Millie di
aiutarlo a spolverare il negozio quella sera stessa: ma lo scacciò. Con tutta
la buona volontà, non ci sarebbe stato il tempo di fare un lavoro accurato.
Andò a lavarsi le mani in cucina e ritornò nell’ingresso. Un passo sulle
scale, sopra la sua testa gli fece salire alla gola un urlo che riuscì appena in
tempo a reprimere.
Era Millie. Era rientrata dalla porta di servizio senza che lui la sentisse, e
solo il cielo sapeva da quanto tempo si trovasse in casa.
– Henry – gli annunciò lei, mite come sempre – mi sono fatta prestare da
mia madre una tenda per la tua camera da letto, così non sarai più disturbato dagli spifferi d’aria e dalla luce che filtra in camera. È un bel tendone
spesso. Ho finito proprio adesso di metterlo su.
Henry Brownrigg rispose con un borbottio che avrebbe potuto significare
qualsiasi cosa. Aveva i nervi completamente a pezzi.
L’osservazione che lei fece seguire, suonò rassicurante; così rassicurante
che lui, per poco, non diede in una sonora risata.
– Oh, Henry – disse lei – oggi mi hai dato solo quattro di quelle pillole.
Non dimenticare la quinta, sai, caro?
– Prosciutto cotto, piselli in scatola già pronti, insalata di patate e salsa piccante in bottiglia. Che cuoca ho sposato, mia cara Millie.
Henry Brownrigg traeva una maligna soddisfazione da quelle battute sarcastiche da quattro soldi. Quando vide la faccia pallida di Millie irrigidirsi,
ne rimase contentissimo.
Mentre, seduto a tavola, guardava la moglie, Brownrigg si rese conto di un
curioso fenomeno. La donna spiccava in mezzo a tutto il resto della stanza
come se lei sola fosse in rilievo. Henry vedeva chiaramente ogni linea del
suo volto, ogni piega dell’abito di stoffa scura, come se quei particolari fossero stati sottolineati con un pesante tratto di matita nera.
Millie era silenziosa. Persino il suo solito torrente di banalità si era prosciugato, ed Henry ne era contento.
Si sorprese ad osservarla con occhio spassionato, come se fosse stata un’estranea. Arrivò alla conclusione che, in fondo, non la odiava affatto. Al contrario, era dispostissimo a credere che, sia pure in modo limitato, fosse una
persona apprezzabile e di grandi qualità. Ma... gli intralciava la strada!
Quella creatura vuota e grassoccia, niente affatto diversa da tante altre padrone di casa della città, aveva commesso l’errore capitale di mettersi sul
sentiero di Henry Brownrigg. Lei, quella donnetta ridicola, priva di interesse, si ergeva tra Henry Brownrigg e i più riposti desideri del suo cuore.
In quel momento, nulla faceva tanta impressione sul farmacista quanto
quell’impudenza, quell’incredibile audacia di moglie.
Lunedì, pensava. Lunedì, al più tardi martedì, e poi…
Millie cominciò a sparecchiare.
Il signor Brownrigg trangugiò il suo primo bicchiere di whisky e soda con
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avidità maggiore del solito. Per lui, il piacere della bevuta del sabato stava
tutto nella strana sensazione che provava una volta ubriaco.
Quando Henry Brownrigg diveniva, per sua moglie e per il resto del
mondo, un sacco vuoto e inerte, per se stesso si trasformava invece in un
tranquillo, potentissimo fantasma annidato comodamente nel guscio protettivo del proprio corpo, in grado di vedere e di comprendere tutto, ma
troppo onnipotente e troppo importante per dirigere le piccole questioni
di nessuna importanza che formavano il suo immediato universo.
In quelle occasioni, Henry Brownrigg si sentiva un dio.
La sera cominciò come tutte le altre, e quando nella bottiglia quadrata non
rimasero più che due dita dell’elisir12 color ambra, Millie, e la polvere in
bottega, e il dottor Crupiner, erano divenuti nella mente di Henry tante
formicuzze, sulle quali lui torreggiava, colosso di intelligenza e di potere.
Quando anche quelle due dita si furono ridotte a un velo giallognolo sul
fondo della bottiglia di vetro bianco, il signor Brownrigg rimase perfettamente immobile. In pochi minuti, avrebbe raggiunto il culmine della sua
ascesa al di sopra dei comuni mortali: e cioè quando il suo corpo, così importante ai loro occhi, fosse divenuto per lui letteralmente nulla. Meno di
un pesante ingombro, meno ancora di un rivestimento inerte: un nulla assoluto, un elemento senza peso, senza alcuna importanza.
Quando Millie entrò nella stanza, nella carne di Henry Brownrigg si sarebbe potuto conficcare un ago, e lui non se ne sarebbe accorto.
Solo quando fu a letto, con l’inutile corpo rivestito di un pigiama di bucato, Henry si accorse che Millie si comportava in modo diverso dal solito.
La donna aveva ripiegato con cura gli abiti del marito, deponendoli sulla
sedia ai piedi del letto, e tutt’a un tratto lui la vide scrutare qualcosa con
aria assorta.
Seguendo lo sguardo di lei, notò per la prima volta il tendone nuovo. Era
senza dubbio una tenda bellissima: un tessuto spesso, pesante, felpato, che
aveva tutta l’aria di non lasciare passare nemmeno un filo di luce, nemmeno il più lieve spiffero d’aria.
Henry ricordava perfettamente d’aver perso la pazienza con Millie, un
giorno, in presenza del commesso Perry, e cercando un pretesto per dare
sfogo alla sua rabbia, aveva inventato lo spiffero in camera da letto. Spiffero
che non c’era, questo era il bello: il suo fantasma lo ricordava perfettamente. La porta aderiva benissimo allo stipite. Ma così Millie aveva avuto
un motivo di più per preoccuparsi.
Millie uscì dalla camera del marito, senza spegnere le luci. Lui cercò di
chiamarla, e solo allora si rese conto degli svantaggi di essere uno spirito
disincarnato. Non poteva parlare, naturalmente.
Giaceva perplesso per quella evidente lacuna nella sua onnipotenza,
quando udì la moglie scendere di sotto invece di entrare nella propria
stanza, dall’altra parte del corridoio. Andò subito su tutte le furie, e si sarebbe alzato, sempre che gli fosse stato possibile. Ma nel bel mezzo della
sua rabbia, si ricordò un particolare molto spassoso, e giacque immobile,
internamente convulso da risa segrete.
12. Si dice elisir un liquore
corroborante, un prezioso
distillato dalle proprietà
e dal gusto eccezionali; in
questo caso il testo allude
al whisky.
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Ben presto, Millie sarebbe morta, morta. Morta!
Millie non sarebbe stata più una stupida. Millie non l’avrebbe più mandato
in bestia con la propria sbadataggine. Millie sarebbe stata un cadavere!
Lei tornò di sopra ed entrò in punta di piedi nella stanza.
Ormai l’alcool aveva fatto il suo effetto, ed Henry non poteva muovere
nemmeno la testa. Ben presto, sarebbe sopraggiunta l’incoscienza totale,
ed egli avrebbe lasciato completamente il corpo, per precipitare in una
oscurità eccitante.
Riusciva a vedere soltanto le spalle e la testa di Millie, quando la donna entrava nel suo campo visivo. Era piuttosto seccato. Lei aveva ancora quelle
linee attorno alla persona, e sulla faccia un’espressione assorta, che Henry
ricordava d’averle già visto nel corso di qualche impresa domestica particolarmente difficile.
Millie spense la luce, poi si diresse verso la finestra. Henry, a questo punto
interessatissimo, la vide tirar su la veneziana.
Poi, con sua grande meraviglia, udì un fruscio di carta; non un fruscio qualsiasi, ma uno particolare e a lui ben noto, che aveva udito centinaia di volte.
Improvvisamente lo individuò. Carta adesiva. Millie aveva in mano il
grosso rotolo di carta adesiva che lui usava in negozio.
Era talmente indignato contro di lei, che, per qualche istante, non si domandò nemmeno che cosa stesse facendo la moglie; solo quando la vide
profilarsi contro la seconda finestra, intuì. Millie stava tappando le fessure.
Il suo fantasma rise di nuovo. Lo spiffero! Sciocca, stupida Millie che davvero aveva creduto alla storia dello spiffero.
Lei riabbassò le veneziane e riaccese la luce. Aveva la solita faccia mite e
inespressiva, il solito sguardo vuoto e insulso.
Il marito la vide andare alla toletta, muoversi indaffarata, come sempre
quando si occupava delle faccende domestiche.
Ancora una volta, il fenomeno che aveva notato a tavola lo colpì. Vide la
mano di lei e ciò che conteneva: li vide con chiarezza a causa del contorno
nerissimo, più che mai in contrasto con la tovaglietta candida della toletta.
Millie stava posando sul ripiano due pezzi di carta: uno bianco, con l’orlo
frastagliato, uno celeste di forma a lui nota.
Il fantasma di Henry Brownrigg si agitò nella sua prigione: ora il corpo
aveva cessato di essere un’entità trascurabile, era diventato una bara, una
bara sigillata, di piombo, che lo soffocava nel suo inanimato involucro.
Lottò per liberarsi, per ridare vita e peso alla propria potenza, per muoversi.
Millie sapeva!
Il foglietto bianco con l’orlo frastagliato era una lettera di Phyllis tolta dal
cassettino della farmacia, e quello azzurro – ora se ne ricordava – era il biglietto che lui le aveva lasciato nella vaschetta mal lavata.
Rivide le proprie parole scarabocchiate a matita, con tanta chiarezza, come
se avesse posseduto un obiettivo telescopico.
«Cara Millie, credo di essermi spiegato abbastanza, vero?».
E poi la firma, un «Henry» con tanto di svolazzo. Pensare che quando l’aveva scritto si era sentito così soddisfatto di sé!
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Lottò come un disperato. Ora la bara era fatta di vetro, di pesante opaco
vetro che restava insensibile a tutti i suoi sforzi.
Millie esitava. Aveva preso in mano di nuovo la lettera di Phyllis. Ecco, la
rileggeva.
Henry la vide farsi seria e strappare la lettera in tanti pezzi, che si ficcò poi
nella tasca del golf.
Henry Brownrigg comprese. Millie aveva pietà di Phyllis. Nonostante la
sua ottusità, aveva intuito la sincera infatuazione della poverina, e aveva deciso di tenere la cosa per sé, di lasciare Phyllis fuori da quella storia.
E adesso? Henry Brownrigg si contorceva dentro il proprio corpo inerte.
Millie era tornata vicino alla toletta. Ora vi deponeva qualcos’altro. Cos’era? Oh, ecco cos’era...
Il registro dei conti! Henry lo vide perfettamente, il vecchio registro macchiato dalle mosche, la cui storia era facile a leggersi e a comprendersi
anche per il magistrato più ottuso.
Ora Millie si stava allontanando. Henry quasi rischiò di non accorgersi che
si era fermata vicino al caminetto. La donna non si chinò nemmeno. Con il
piede calzato dalla pantofola, aprì la chiavetta della stufa a gas.
Poi, uscì dalla stanza, chiudendo la luce, prima di tirare a sé l’uscio. Henry udì
prima il fruscio del tendone che veniva chiuso, poi il cigolio dei cardini e lo
scatto della serratura. Seguì una brevissima pausa, poi si udì girare la chiave.
Millie si era comportata durante tutta l’operazione come se stesse preparando la cena, o riordinando lo stanzino di sgombero.
Chiuso nella sua prigione, il fantasma di Henry Brownrigg ascoltava, impotente. Dall’altra estremità della stanza arrivava un sibilo sostenuto, costante.
Su, in soffitta, sebbene lui non potesse naturalmente sentirlo, il contatore
del gas ticchettava a pieno ritmo.
Henry Brownrigg ebbe la visione di quello che si sarebbe svolto il mattino
dopo. Le chiavi erano uguali in tutte le porte delle stanze, perciò Millie
non avrebbe avuto nessuna difficoltà a spiegare che, svegliandosi, aveva
sentito odore di gas e che, trovando la porta del marito chiusa a chiave,
aveva aperto con la chiave della propria.
Il fantasma si mosse nel proprio guscio. Ancora una volta la terra e i fatti
terreni apparivano piccoli e trascurabili. L’incoscienza stava per sopraggiungere, l’oscurità era in attesa, pronta a sopraffarlo; solo che, in quell’oscurità, non vi sarebbe stato più nulla di eccitante.
L’oscurità lo ingoiò. Egli aveva perso ogni nozione del guscio, ormai. Il guscio era annientato, aveva abbandonato la lotta.
Il riverbero della luce di un lampione, che filtrava sotto la veneziana, stava
sbiadendo. Impallidiva sempre più. Ecco... era scomparso.
Mentre lo spettro di Henry Brownrigg strisciava fuori, nel gelo notturno,
un mormorio gli risuonò accanto, carico di raggelante certezza:
«I tipi così riescono sempre a farla franca. Sono troppo ottusi, troppo pratici, troppo privi di fantasia. Riescono sempre a farla franca».
Il fantasma di Henry, in “Il racconto”, I, n. 2, luglio 1975
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STRUMENTI DI LETTURA
La storia
Il fantasma di Henry è una via di
mezzo tra due generi letterari, quello del
giallo vero e proprio e il noir. Se nel
primo l’elemento principale è la soluzione di un enigma, destinata a sciogliere
la tensione e ricondurre a una condizione
di equilibrio, nel secondo il finale rimane
spesso “aperto” e, in ogni caso, non è mai
consolatorio. Nel Fantasma di Henry, infatti, assistiamo all’accurata progettazione
di un delitto ma alla fine non c’è nessun
assassino da scoprire, poiché né la vittima né il colpevole sono quelli che ci saremmo aspettati, anzi, abbiamo ottimi
motivi per supporre che l’assassino rimarrà impunito. Altro elemento tipicamente noir è il torbido sentimento amoroso che s’impossessa del protagonista,
una cupa ossessione che lo spinge ad architettare quello che egli, illusoriamente,
ritiene un “delitto perfetto”. Se vogliamo,
proprio nelle ultime battute, il racconto
sembra sconfinare addirittura nella ghost
story, con l’immagine dello spettro del
protagonista che, mentre striscia fuori,
«nel gelo notturno», sente risuonare intorno a sé una sconvolgente e beffarda
sentenza: l’assassino riuscirà a farla
franca. L’intera vicenda è scandita dalle
tappe che preludono al compimento del
delitto, dettagliatamente “motivato” almeno per quanto riguarda il protagonista
principale. E in effetti, alla fine, un delitto
avrà luogo, anche se all’ultimo momento
l’assassino si troverà nei panni della vittima, e viceversa.
I personaggi
L’intera vicenda si sviluppa intorno a personaggi profondamente ambigui, che alla fine si rivelano tutt’altro rispetto a quel che apparivano all’inizio.
Tutto ruota intorno al signor Brownrigg,
farmacista di mezza età, la cui acuta descrizione psicologica trova riscontro in
una gustosa e pungente caratterizzazione
fisica. Tronfio, supponente e prevarica-
tore, si rivela invece un imbecille e un
pasticcione, vittima predestinata della
propria debolezza e dell’inclinazione al
vizio dell’alcol, che lo spinge settimanalmente a ubriacarsi tanto da piombare
in uno stato di catatonia completa. La
“sciocca” Millie, sua moglie, sembra essergli completamente sottomessa, ma
l’ambiguità di certe sue considerazioni
sul marito dovrebbero mettere prontamente sull’avviso il lettore riguardo all’effettivo acume della donna. Ambigui
sono anche i personaggi di contorno,
dall’anziano dottor Crupiner a Phyllis
Bell, la ragazza attratta in un primo
tempo dal bieco farmacista ma che ora lo
rifiuta, a Bill Perry, il commesso, devoto
a Millie ma pronto a fraintendere clamorosamente le intenzioni e i reali sentimenti di Henry Brownrigg.
Il narratore
L’impersonalità del narratore è
quasi una regola del genere giallo, dettata da esigenze strumentali come quella
di non fornire prima del dovuto al lettore determinate informazioni, oppure
di mantenere intorno a uno o più personaggi un alone di mistero o ambiguità.
In questo caso, il narratore scompare e
lascia in primo piano il personaggio
principale, il signor Brownrigg, che seguiamo nella lunga, meticolosa ma farraginosa preparazione del delitto. Il maturo farmacista è convinto di conquistare
per sempre la giovanissima Phyllis, ma al
lettore non mancano elementi tali da
poter concludere che quella di Brownrigg è e rimarrà soltanto un’illusione.
Al contempo, la più volte ribadita stupidità di Millie appare, a ben guardare,
solo un pregiudizio dettato dalla sconfinata supponenza del marito. Il narratore, neutro e impersonale, fornisce
così una sorta di puzzle di elementi
volta a volta congrui o contrastanti, che
il lettore dovrà ingegnarsi a disporre
nel modo più adeguato.
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DOMANDE DI VERIFICA
1
Ripercorri gli elementi della descrizione fisica di Brownrigg che appaiono nella prima parte del
racconto e valuta se, in base a quanto dice il testo, le affermazioni che seguono sono vere o false.
a
b
c
d
e
2
Era un uomo alto di quarantacinque anni.
Era una persona robusta che tendeva ad appesantirsi.
Aveva faccia rasata, un collo taurino e labbra carnose.
Non aveva occhi interessanti né incisivi.
Nel complesso era un uomo appariscente e piacevole.
V
V
V
V
V
F
F
F
F
F
Nella parte iniziale del racconto, Brownrigg parla di un “ostacolo”: a che cosa pensi si riferisca?
a Al fatto che sarebbe comparso presto un fidanzato per Phyllis, la ragazza di cui egli dice di essere innamorato.
b Al fatto che non possiede sufficiente denaro per fare la vita che vorrebbe.
c Alla presenza della moglie che gli impedisce di avere relazioni con altre donne in modo più libero.
d A Perry, il fattorino della bottega, la cui presenza rappresenta per lui un ostacolo ad agire liberamente.
3
Sulla base dello svolgimento del racconto, puoi dire per quale motivo Brownrigg porta la moglie
Millie dal dottor Crupiner?
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4
Per più di una volta nel corso del racconto si fa riferimento al “vecchio registro macchiato dalle
mosche”. Per qual motivo, secondo te, questo elemento ricorre in modo quasi marginale, ma tuttavia insistito?
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5
L’abitudine del sabato sera di sbronzarsi con il whisky pone Brownrigg in una particolare condizione che viene descritta nel racconto per due volte, una nel corso del testo, per rendere conto
delle abitudini di vita del protagonista, e una seconda volta nella scena finale. Quale differenza
esiste nella descrizione del corpo e della mente nelle due situazioni?
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6
Quando il fantasma di Henry sta lasciando definitivamente il corpo, comprendendo di essere
stato ucciso dalla moglie, dice a proposito della donna che “i tipi così riescono sempre a
farla franca. Sono troppo ottusi, troppo pratici, troppo privi di fantasia. Riescono sempre a farla
franca”. Valutando la figura di Millie, saresti d’accordo con l’opinione di Brownrigg?
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Gabriel García Márquez
anno 1972
Un signore molto
vecchio con due ali
enormi
luogo
Colombia
genere
racconto
fantastico
Presentazione dell’opera
Un signore molto vecchio con due ali enormi, del 1968, fu scritto un anno dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine, capolavoro di García Márquez e uno dei massimi romanzi del Novecento. Anche qui ritroviamo una colorita quanto amara rappresentazione di un paese dell’America Latina, del quale lo scrittore delinea la condizione allucinata con inventiva, bruciante ironia ma
anche con una profonda schiettezza.
Gabriel García Márquez
Nato nel 1928 ad Aracataca, Colombia, come giornalista soggiornò in Francia,
Messico, Spagna e Italia, dove studiò al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Ai romanzi Foglie morte (1955) e Nessuno scrive al colonnello
(1961) seguono i racconti di I funerali della Mama Grande (1962), ove già
emerge il mondo mitico e paradossale che gli sarà caratteristico. Dopo La
mala ora (1962), il romanzo Cent’anni di solitudine (1967), centrato sull’immaginaria ed epica comunità di Macondo, viene considerato il suo capolavoro e riscuote un successo planetario. Ai racconti di L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata (1972) seguono Occhi
di cane azzurro (1974), L’autunno del patriarca (1975) e Cronaca di una
morte annunciata (1981). Nel 1982 ottiene il premio Nobel per la letteratura. Seguono L’amore ai tempi
del colera (1985), Il generale nel suo labirinto (1989), Dell’amore e altri demoni (1994). Nel 1999 gli
viene diagnosticata una grave malattia che lo spinge a scrivere le sue memorie, il cui primo volume, Vivere per raccontarla, esce nel 2002. Nel 2004, vinta la sua battaglia contro il cancro, pubblica il romanzo
Memoria delle mie puttane tristi (2004) e il monologo teatrale Diatriba d’amore contro un uomo seduto
(2007). È anche autore di numerosi volumi di articoli e saggi.
l terzo giorno di pioggia avevano ucciso così tanti granchi dentro casa
che Pelayo dovette attraversare il cortile allagato e buttarli in mare,
perché la notte il piccolo aveva avuto la febbre e si pensava fosse a
causa del fetore. Il mondo era triste fin dal martedì. Il cielo e il mare
erano un tutt’uno di cenere, e la sabbia della spiaggia, che in marzo scintillava
come polvere di fuoco, era diventata una brodaglia di fango e molluschi
marci. A mezzogiorno la luce era talmente fioca che quando Pelayo tornò a
casa dopo aver buttato via i granchi fece fatica a vedere cosa si muoveva e si
lamentava in fondo al cortile. Dovette avvicinarsi un bel po’ prima di rendersi conto che era un vecchio, sdraiato a faccia in giù nel pantano, che malgrado i continui sforzi non riusciva ad alzarsi, impedito dalle sue enormi ali.
Spaventato da quell’incubo, Pelayo corse a cercare Elisenda, sua moglie,
che stava facendo impacchi al bambino malato, e la portò in fondo al cortile. Tutti e due osservarono il corpo caduto con tacito stupore. Era ve-
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stito come uno straccivendolo. Gli restava appena qualche filo sbiadito
sul cranio pelato e pochissimi denti in bocca, e la sua penosa condizione
di bisnonno fradicio lo aveva privato di ogni grandezza. Le ali da grosso
avvoltoio, spennacchiate e sporche, erano definitivamente incagliate nel
pantano. Pelayo ed Elisenda l’osservarono talmente tanto, e con tale attenzione, che si ripresero ben presto dallo stupore e finirono per trovarlo
familiare. Allora si azzardarono a parlargli e lui rispose in un dialetto incomprensibile, ma con una bella voce da navigatore. Fu così che passarono sopra l’inconveniente delle ali e conclusero con molto buonsenso
che era un naufrago solitario di qualche nave straniera affondata nella
tempesta. In ogni modo decisero di chiamare una vicina che sapeva tutto
della vita e della morte, e a lei bastò un’occhiata per disilluderli.
«È un angelo» disse. «Veniva di sicuro a prendersi il bambino, ma è talmente vecchio, poveretto, che la pioggia l’ha abbattuto».
Il giorno dopo tutti sapevano che in casa di Pelayo era prigioniero un angelo in carne e ossa. Contro il parere della saggia vicina, per cui gli angeli
di questi tempi erano fuggiaschi sopravvissuti a una cospirazione celestiale, non avevano avuto cuore di ammazzarlo a bastonate. Pelayo lo
aveva sorvegliato tutto il pomeriggio dalla cucina, armato del suo randello di gendarme, e prima di andare a letto lo aveva trascinato fuori dal
pantano e chiuso con le galline nel pollaio. A mezzanotte, quando aveva
smesso di piovere, Pelayo ed Elisenda stavano ancora ammazzando granchi. Poco dopo il bambino si era svegliato senza febbre e con appetito. A
quel punto si erano sentiti magnanimi e avevano deciso di mettere l’angelo su una zattera con acqua dolce e provviste per tre giorni, e di abbandonarlo alla sua sorte in alto mare. Ma quando alle prime luci dell’alba
erano usciti nel cortile, avevano trovato tutti i vicini davanti al pollaio, a
divertirsi con l’angelo senza la minima devozione e a gettargli roba da
mangiare attraverso la rete come se fosse un animale da circo e non una
creatura sovrannaturale.
Padre Gonzaga arrivò prima delle sette, allarmato da quella notizia spropositata. Allora erano già accorsi curiosi meno frivoli di quelli dell’alba e
avevano fatto ogni genere di congettura sul futuro del prigioniero. I più
semplici pensavano che sarebbe stato nominato alcalde1 del mondo. Altri,
di spirito più rude, supponevano che sarebbe stato promosso generale da
cinque stellette per vincere tutte le guerre. Alcuni visionari speravano che
venisse tenuto come stallone per fondare sulla terra una stirpe di uomini
alati e sapienti che reggessero l’universo. Ma padre Gonzaga prima di diventare sacerdote era stato un robusto taglialegna. Affacciato alla rete, ripassò un momento il suo catechismo e poi chiese che gli venisse aperta la
porta per esaminare da vicino quel pover’uomo che sembrava piuttosto
un’enorme gallina decrepita in mezzo alle altre galline assorte. L’angelo
era sdraiato in un angolo e si asciugava al sole le ali spiegate, tra le bucce
di frutta e gli avanzi di colazione che gli avevano buttato i più mattinieri.
Insensibile alle impertinenze del mondo, alzò a stento gli occhi da antiquario mormorando qualcosa nel suo dialetto quando padre Gonzaga
1. Era detto così in Spagna
e nelle sue colonie un
funzionario statale che
aveva funzioni
amministrative
e giudiziarie. Deriva
dall’arabo al-qadi, giudice.
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2. Il testo allude al fatto
che la lingua ufficiale della
Chiesa è il latino.
3. Parola spagnola
e portoghese che significa
centesimo.
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entrò nel pollaio e gli diede il buongiorno in latino. Il parroco ebbe i
primi sospetti sulla sua impostura appena si rese conto che non capiva la
lingua di Dio2 né sapeva salutare i suoi ministri. Poi constatò che visto da
vicino appariva fin troppo umano: aveva un insopportabile odore di intemperie, il rovescio delle ali coperto di alghe parassitarie, le penne più
grandi sciupate da venti terrestri, e niente nella sua miserabile natura era
compatibile con l’illustre dignità degli angeli. Allora uscì dal pollaio e
con un breve sermone mise in guardia i curiosi contro i rischi dell’ingenuità. Ricordò che il diavolo aveva la brutta abitudine di ricorrere ad artifizi da carnevale per confondere gli incauti. Argomentò che se le ali non
erano l’elemento essenziale per stabilire le differenze tra uno sparviero e
un aeroplano, tanto meno potevano esserlo per riconoscere gli angeli. Ma
promise di scrivere una lettera al suo vescovo, perché questi ne scrivesse
un’altra al suo primate, e costui una terza al Sommo Pontefice, così che il
verdetto finale giungesse dai tribunali supremi.
La sua prudenza cadde in cuori sterili. La notizia dell’angelo prigioniero
si sparse con tale rapidità che in poche ore nel cortile c’era una baraonda
da mercato, e dovettero portare la truppa con le baionette per disperdere
la folla in tumulto che stava per buttar giù la casa. Elisenda, con la spina
dorsale storta a forza di spazzare immondizia da fiera, ebbe allora la
buona idea di recintare il cortile e far pagare cinque centavos3 il biglietto
per vedere l’angelo.
Arrivarono curiosi fin dalla Martinica. Arrivò una fiera girovaga con un
acrobata volante che passò varie volte a razzo sopra la folla, ma nessuno
gli badò perché le sue ali non erano d’angelo ma di pipistrello siderale.
Arrivarono in cerca di guarigione i malati più disgraziati dei Caraibi: una
povera donna che fin da bambina contava i battiti del proprio cuore e non
le bastavano più i numeri, un giamaicano che non riusciva a dormire perché era tormentato dal rumore delle stelle, un sonnambulo che di notte si
alzava a disfare quanto aveva fatto da sveglio, e molti altri meno gravi. In
mezzo a quel disordine da naufragio che faceva tremare la terra, Pelayo
ed Elisenda erano felici nella loro stanchezza, perché in meno di una settimana avevano riempito di soldi le camere da letto, e la fila di pellegrini
che aspettava di entrare giungeva ancora fin oltre l’orizzonte.
L’angelo era l’unico che non partecipava al proprio evento. Passava il
tempo a cercare di accomodarsi alla meglio nel suo nido prestato, stordito dal calore infernale delle lampade a olio e delle candele votive che
mettevano vicino alla rete. All’inizio cercarono di fargli mangiare cristalli
di canfora, che secondo la scienza della saggia vicina era l’alimento specifico degli angeli. Ma lui li disdegnava, come aveva disdegnato senza assaggiarli i pranzi papali che gli portavano i penitenti, e non si seppe mai
se fu perché era un angelo o perché era vecchio che finì per mangiare soltanto pappette di melanzana. La sua unica virtù sovrannaturale sembrava
la pazienza. Soprattutto nei primi tempi, quando le galline lo becchettavano in cerca dei parassiti stellari che proliferavano nelle sue ali, e gli
storpi gli strappavano le penne per passarsele sulle magagne, e persino i
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più misericordiosi gli tiravano sassi cercando di farlo alzare per vederlo a
figura intera. L’unica volta che riuscirono a innervosirlo fu quando gli
bruciarono il fianco con un ferro per marchiare i manzi, perché era rimasto immobile così tante ore che lo credevano morto. Si svegliò di soprassalto, strepitando nella sua lingua ermetica con le lacrime agli occhi, e
sbatté un paio di volte le ali sollevando un vortice di sterco di gallina
e polvere lunare, e un uragano di panico che non sembrava di questo
mondo. Molti pensarono che la sua reazione non fosse di rabbia ma di
dolore, però da quel momento si guardarono bene dall’infastidirlo, perché la maggior parte comprese che la sua non era una passività da eroe in
ritiro, ma da cataclisma in riposo.
Padre Gonzaga affrontò la frivolezza della folla con formule di ispirazione domestica, in attesa di ricevere il verdetto definitivo sulla natura
del prigioniero. Ma la posta da Roma aveva perso la nozione dell’urgenza. Passavano il tempo ad appurare se il reo aveva l’ombelico, se il suo
dialetto era legato in qualche modo all’aramaico4, se poteva stare più
volte sulla punta di uno spillo o se non era semplicemente un norvegese
con le ali. Quelle lettere flemmatiche sarebbero andate avanti e indietro
fino alla fine dei secoli, se un fatto provvidenziale non avesse posto termine alle tribolazioni del parroco.
Accadde che in quei giorni, fra le numerose attrazioni delle fiere errabonde dei Caraibi, giunse in paese il triste spettacolo della donna che si
era trasformata in ragno per aver disobbedito ai genitori. Il biglietto per
vederla non solo costava meno del biglietto per vedere l’angelo, ma era
permesso farle ogni genere di domanda sulla sua aberrante condizione ed
esaminarla dal dritto e dal rovescio, perché nessuno mettesse in dubbio la
verità dell’orrore. Era una tarantola spaventosa delle dimensioni di un
montone e con una testa da donzella triste. La cosa più straziante però
non era la sua figura assurda, ma la sincera afflizione con cui raccontava i
dettagli della propria disgrazia: quando era ancora quasi una bambina era
scappata dalla casa dei genitori per andare a un ballo, e mentre tornava
attraverso il bosco dopo aver ballato tutta la notte senza permesso un
tuono spaventoso aveva squarciato il cielo, e da quella fenditura era uscito
il lampo di zolfo che l’aveva trasformata in ragno. Il suo unico alimento
erano le palline di carne trita che le gettavano in bocca le anime caritatevoli. Un simile spettacolo, carico di tanta verità umana e di un così terribile monito, doveva sconfiggere senza volere quello di un angelo sprezzante che si degnava a stento di guardare i mortali. E poi, i pochi miracoli
attribuiti all’angelo rivelavano un certo disordine mentale, come il caso
del cieco che non aveva recuperato la vista ma aveva messo tre denti
nuovi, e quello del paralitico che non aveva ripreso a camminare ma era
stato lì lì per vincere alla lotteria, o quello del lebbroso a cui erano nati
girasoli nelle ferite. Quei miracoli di consolazione, che sembravano piuttosto passatempi beffardi, avevano già danneggiato la reputazione dell’angelo quando la donna trasformata in ragno finì di distruggerla. Fu
così che padre Gonzaga guarì per sempre dall’insonnia, e il cortile di Pe-
4. L’aramaico era la lingua
semitica parlata
correntemente al tempo
di Gesù e presente nel
territorio del vicino Oriente
già da mille anni circa,
come lingua ufficiale
del culto e della legge.
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5. Struttura portante
della penna con cui essa
si attacca all’ala.
layo ritornò solitario come ai tempi in cui aveva piovuto per tre giorni e
i granchi si aggiravano nelle camere da letto.
I padroni di casa non ebbero niente di cui lamentarsi. Grazie al denaro
raccolto costruirono una villa a due piani, con balconi e giardini, e soglie
molto alte perché non entrassero i granchi d’inverno, e sbarre di ferro
alle finestre perché non entrassero gli angeli. Inoltre, Pelayo aprì un allevamento di conigli a un passo dal paese e rinunciò per sempre al suo
brutto lavoro di gendarme, ed Elisenda si comprò delle scarpette di raso
a tacco alto e tanti vestiti in seta cangiante, di quelli che all’epoca indossavano la domenica le signore più invidiate. Il pollaio fu l’unica cosa a
non ricevere attenzioni. Se qualche volta lo lavarono con creolina e vi
bruciarono grani di mirra non fu in omaggio all’angelo ma per scacciare
il fetore da letamaio che ormai si aggirava ovunque come un fantasma e
stava invecchiando la casa nuova. All’inizio, quando il piccolo imparò a
camminare, badarono che non ci si avvicinasse troppo. Ma poi pian piano
dimenticarono i loro timori e si abituarono alla puzza, e prima che il
bambino cambiasse i denti si era già infilato a giocare dentro il pollaio, la
cui recinzione marcita cadeva a pezzi. L’angelo non fu meno scontroso
con lui che con il resto dei mortali, ma sopportava le infamie più ingegnose con una mansuetudine da cane senza illusioni. Contrassero la varicella insieme. Il medico che curò il bambino non seppe resistere alla tentazione di auscultare l’angelo, e sentì talmente tanti soffi al cuore e
rumori nelle reni da sembrargli incredibile che fosse ancora vivo. Ma fu
la logica delle sue ali a stupirlo di più. Apparivano così naturali in quell’organismo completamente umano che non riusciva a capire perché non
le avessero anche gli altri uomini.
Quando il bambino andò a scuola, il sole e la pioggia avevano da tempo
distrutto il pollaio. L’angelo si trascinava qua e là come un moribondo
senza padrone. Lo cacciavano via da una camera a colpi di scopa e un momento dopo se lo ritrovavano in cucina. Sembrava essere in così tanti
posti assieme da spingerli a pensare che si sdoppiasse, che si moltiplicasse
in tutta la casa, e l’esasperata Elisenda gridava fuori di sé che era una disgrazia vivere in quell’inferno pieno di angeli. Lui riusciva a stento a
mangiare, i suoi occhi da antiquario erano così annebbiati che inciampava nei pilastri della casa, e non gli restavano che le cannule5 pelate delle
ultime penne. Pelayo gli buttò addosso una coperta e gli fece la carità di
lasciarlo dormire sotto la tettoia, e solo allora si accorsero che passava la
notte a delirare per la febbre con scioglilingua da vecchio norvegese.
Quella fu una delle poche volte in cui si allarmarono, perché pensavano
che stesse per morire, e neppure la saggia vicina aveva saputo dire che
cosa si faceva degli angeli morti.
Eppure non solo sopravvisse al suo peggiore inverno, ma parve riprendere le forze al primo sole. Rimase immobile per giorni e giorni nell’angolo più appartato del cortile, dove nessuno poteva vederlo, e agli inizi di
dicembre cominciarono a spuntargli sulle ali penne grandi e dure, penne
da uccellaccio decrepito che sembravano quasi un nuovo guaio della vec-
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chiaia. Ma lui doveva conoscere la ragione di quei cambiamenti, perché
stava bene attento che nessuno li notasse, né sentisse le canzoni da marinaio che a volte cantava sotto le stelle. Una mattina Elisenda stava affettando una cipolla per il pranzo, quando entrò in cucina un vento che
sembrava d’alto mare. Allora si affacciò alla finestra e sorprese l’angelo
nei suoi primi tentativi di volo. Erano talmente goffi che aprì con le unghie un solco d’aratro fra gli ortaggi e per poco non buttò giù la tettoia
con quegli indegni colpi d’ala che scivolavano sulla luce e non trovavano
appiglio in aria. Ma riuscì a guadagnare quota. Elisenda tirò un sospiro di
sollievo, per lei e per lui, quando lo vide passare sopra le ultime case, tenendosi su in qualche modo con un incerto svolazzio da avvoltoio senile.
Continuò a vederlo anche quando finì di tagliare la cipolla, e continuò a
vederlo anche quando non era possibile che potesse vederlo, perché
ormai non era più una seccatura nella sua vita, ma un punto immaginario
sull’orizzonte del mare.
Un signore molto vecchio con due ali enormi,
in L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata,
Mondadori, Milano 2004
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STRUMENTI DI LETTURA
La storia
Sin dall’incipit, l’autore riesce
a farci accettare come “normali” una
quantità di elementi surreali, da una casa
invasa dai granchi al fatto di scovare in
fondo al cortile un anziano signore con
le ali. Così, dopo lo spavento causato da
quell’«incubo», alla fine si finisce per
trovarlo «familiare». Tuttavia, poiché in
quel mondo tropicale, impantanato e
misero, pare non esservi posto per i sentimenti, colui che la superstizione popolare aveva immediatamente identificato
come un angelo caduto diventa un fenomeno da baraccone, da esibire a pagamento. Il sistematico, minuzioso intreccio di reale e surreale fa scaturire quel
senso di «realismo magico» per cui García Márquez è giustamente famoso, dove
la «magia» è come la scintilla che rivela
tutto lo squallore di una «realtà» avida,
cinica e crudele. Così, alla fine, quando
l’uomo con le ali vola via, per qualcuno
sarà soltanto una «seccatura» in meno.
La lingua
e lo stile
In García Márquez, considerato il maggior esponente del moderno «realismo
magico» in letteratura, un acuto senso
del particolare sfuma costantemente nell’indefinito e nel fantastico. La prosa è
scorrevole ma costantemente pervasa
da un’ironia amara. Il linguaggio, complesso e articolato, intreccia realtà e fantasia, storia e leggenda, vita quotidiana e
mito, infimo e sublime. Nel racconto
trovano posto, nella stessa misura paradossale, uno stile vivo e concreto e una
dolente rappresentazione della vita.
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DOMANDE DI VERIFICA
1
L’ambientazione del racconto è situata in:
a
b
c
d
2
Un pollaio malridotto in prossimità del mare.
Una villa ben costruita con un pollaio semi distrutto.
Un cortile pieno di fango, di granchi e galline.
Una casa in sud America, vicina al mare, tormentata dalla presenza dei granchi.
Prima che la vicina di casa lo riconosca come tale, l’autore introduce la figura dell’angelo (oltre
a ciò che già dice nel titolo) come “un vecchio, sdraiato a faccia in giù nel pantano, che malgrado i continui sforzi non riusciva ad alzarsi, impedito dalle sue enormi ali”; un “corpo caduto”; “vestito come uno straccivendolo”; “con il cranio pelato”; “pochissimi denti in bocca”;
“bisnonno fradicio”; con “ali da grosso avvoltoio, spennacchiate, sporche, incagliate nel pantano”; capace solo di “parlare un dialetto incomprensibile”.
Sapresti interpretare i dati scelti dall’autore per presentare il personaggio dell’angelo?
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3
Servendoti degli elementi tratti dal racconto, quale giudizio sull’angelo esprime il parroco,
padre Gonzaga?
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4
Tenendo conto di tutto lo svolgimento del racconto, quale comportamento hanno gli uomini
del popolo (esclusi i protagonisti) rispetto all’angelo?
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Considerando l’aspetto dell’angelo e il suo comportamento nel corso della storia, individua gli
aspetti “divini” che connotano la sua immagine.
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6
Ripercorrendo l’intera storia, si può dire che Márquez abbia usato l’espediente dell’angelo –
presentato nei termini che conosciamo – per dare una sua particolare valutazione della realtà
umana?
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Antonio Tabucchi
anno 1985
Treni che vanno
a Madras
luogo
Italia
genere
racconto tra
realtà
e fantasia
Presentazione dell’opera
L’attenzione critica dedicata a Pessoa ha fornito a Tabucchi suggerimenti e suggestioni anche per la sua opera narrativa. Dopo i
primi romanzi lo scrittore si è rivolto soprattutto alla forma del racconto, più congeniale a creare situazioni in cui si mette in evidenza ciò che è possibile, relativo o capovolto rispetto alla realtà, e in cui ritornano insistentemente i motivi del destino, dell’ambiguità, dell’insensatezza dell’esistenza. Alla base di Piccoli equivoci senza importanza vi è il concetto della vita come rebus, rebus
destinati a rimanere senza soluzione fra mille ipotesi e congetture. In Treni che vanno a Madras il compagno di viaggio del protagonista “potrebbe” essere colui che commette l’omicidio di cui si parla sul giornale il giorno seguente, ma il protagonista di Rebus,
un altro racconto della stessa raccolta, riflettendo sull’impossibilità di capire la realtà, fa questa considerazione: «la vita è come
una tessitura, tutti i fili si intrecciano, è questo che un giorno vorrei capire, vedere tutto il disegno». Tuttavia, poiché il disegno
sfugge al protagonista quanto al lettore, i piccoli rebus diventano metafora di un rebus ben più ampio, quello rappresentato dalla
letteratura, vista come enigma insolubile o come equivoco.
Antonio Tabucchi
Nato a Pisa nel 1943, già direttore a Lisbona dell’Istituto italiano di cultura,
della letteratura portoghese ha fatto oggetto d’insegnamento, saggi critici e
traduzioni. A lui si deve la diffusione in Italia delle opere di Fernando Pessoa,
il massimo scrittore lusitano moderno. Pessoa ha profondamente influenzato
il Tabucchi narratore, autore di romanzi e racconti lunghi fra i quali Piazza
d’Italia (1975), Il piccolo naviglio (1978), Notturno indiano (1984), Il filo dell’orizzonte (1986), Requiem (1992), Sostiene Pereira (1994), il suo libro di
maggior successo, La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), Si sta facendo sempre più tardi (2001). Dopo il suo primo racconto Irma Serena, pubblicato nel volume L’Astromostro. Racconti per bambini (1980), sono uscite
numerose raccolte: Il gioco del rovescio (1981), Donna di Porto Pim e altre storie (1983), Piccoli equivoci
senza importanza (1985), I volatili del Beato Angelico (1987), L’angelo nero (1991), Sogni di sogni
(1992). Per il teatro ha scritto i monologhi I dialoghi mancati (1988), mentre della sua produzione saggistica ricordiamo La gastrite di Platone (1998) e, tra quelli dedicati a Pessoa, Il poeta e la finzione
(1983) e Un baule pieno di gente (1990).
treni che da Bombay vanno a Madras1 partono dalla Victoria Station.
La mia guida assicurava che una partenza dalla Victoria Station vale
da sola un viaggio in India, e questa era la prima motivazione che mi
aveva fatto preferire il treno all’aereo. La mia guida era un libretto
un po’ eccentrico che dava consigli perfettamente incongrui, e io lo stavo
seguendo alla lettera. Il fatto era che anche il mio viaggio era perfettamente
incongruo, dunque quello era il libro fatto apposta per me. Trattava il viaggiatore non come un predone avido di immagini stereotipe2 al quale si consigliano tre o quattro itinerari obbligatori come nei grandi musei visitati di
I
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1. Il viaggio descritto dal racconto attraversa da ovest a est
la penisola indiana nella zona meridionale, congiungendo
due delle maggiori città della regione.
2. La similitudine accosta l’idea del viaggiatore più banale
desideroso di conoscere i luoghi più tipici a quella del
predone, ovvero del brigante che si impadronisce delle
cose preziose che incontra sulla sua strada in terra
straniera. Così facendo l’autore pone idealmente a
confronto un turismo più superficiale che incontra le
bellezze artistiche e naturali di un paese seguendo schemi
predefiniti, con uno più attento alla realtà che incontra,
anche se apparentemente meno organizzato.
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corsa, ma alla stregua di un essere vagante e illogico, disponibile all’ozio e
all’errore. Con l’aereo, diceva, farete un viaggio comodo e rapido, ma salterete l’India dei villaggi e dei paesaggi indimenticabili. Con i treni di lunga
percorrenza vi sottoporrete al rischio di soste fuori programma e potrete
anche arrivare un giorno più tardi del previsto, ma vedrete la vera India.
Però, se avrete la fortuna di prendere il treno giusto, sarà puntualissimo e
confortevole, avrete cibo eccellente e un servizio perfetto, e un biglietto di
prima classe vi costerà meno della metà di un biglietto aereo. E poi non dimenticate che sui treni indiani si possono fare gli incontri più imprevedibili.
Queste ultime considerazioni mi avevano definitivamente convinto; e forse
mi era anche capitata la fortuna del treno giusto. Avevo attraversato paesaggi di rara bellezza, o comunque indimenticabili per l’umanità che avevo
visto; il vagone era di un conforto eccezionale, l’aria condizionata gradevole, il servizio impeccabile. Stava calando il crepuscolo e il treno attraversava un paesaggio di montagne rosse e scabre. Il servitore entrò con uno
spuntino su un vassoio di legno laccato, mi porse una salvietta umida, mi
versò il tè, mi informò con discrezione che ci trovavamo in mezzo all’India.
Mentre mangiavo sistemò la mia cuccetta, specificò che il vagone ristorante
restava aperto fino alla mezzanotte e che se desideravo cenare nel mio
scompartimento bastava suonassi il campanello. Lo ringraziai con una piccola mancia e gli restituii il vassoio vuoto. Poi restai a fumare guardando dal
finestrino quel panorama ignoto, pensando al mio strano itinerario. Andare
a Madras a visitare la Società Teosofica3, per un agnostico4, e per di più fare
due giorni di treno, era un’impresa che probabilmente sarebbe piaciuta agli
strambi autori della mia stramba guida di viaggio. Ma la verità era che una
persona della Società Teosofica mi avrebbe potuto fornire un’informazione
alla quale tenevo moltissimo. Era una tenue speranza, forse un’illusione, e
non volevo bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo: preferivo cullarla
e assaporarla con un certo agio, come si ama fare con le speranze alle quali
teniamo molto e che sappiamo hanno poche possibilità di realizzarsi.
La frenata del treno mi strappò alle mie considerazioni, forse al mio torpore. Probabilmente mi ero appisolato per qualche minuto e il treno era già
entrato in una stazione senza che potessi leggere il nome sul cartello. Avevo
letto sulla guida che una delle fermate intermedie era Mangalore, o forse
Bangalore, non ricordavo bene, ma ora non avevo voglia di mettermi nuovamente a sfogliare il libro per cercare l’itinerario della strada ferrata. Sotto
la pensilina c’erano rari viaggiatori: indiani vestiti all’occidentale dall’aspetto
di persone facoltose, un gruppo di donne, alcuni facchini affaccendati. Doveva essere una città importante e industrializzata. In lontananza, oltre i binari, si vedevano le ciminiere di una fabbrica, grandi edifici e viali alberati.
L’uomo entrò mentre il treno si stava rimettendo in movimento. Mi salutò
frettolosamente, verificò che il numero della cuccetta libera corrispondesse
a quello del suo biglietto e dopo avere constatato che non c’erano errori mi
chiese scusa dell’intrusione. Era un europeo di una grassezza flaccida, portava un completo blu abbastanza fuori luogo dato il clima e un cappello
elegante. Come bagaglio aveva soltanto una valigetta ventiquattrore di
3. La teosofia afferma che
tutte le religioni hanno
un’unica origine e che
nel corso della storia solo
alcune persone
a conoscenza di questa
verità abbiano potuto
rivelarla agli altri. I seguaci
della teosofia
appartengono a un
movimento che chiede
di raggiungere la verità
religiosa solo attraverso
un percorso graduale
ed esclusivo, sotto la guida
di maestri. Non tutti sono
presupposti raggiungere gli
stessi livelli di conoscenza
e di approfondimento
religioso.
4. Posizione di chi ritiene
di non sia possibile
affermare o negare
l’esistenza di Dio, in
quanto non si possiedono
elementi sufficienti alla
soluzione del problema.
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5. Si individua come
dravidica la regione
meridionale della penisola
indiana.
6. Il testo allude al fatto
che l’agnello era un
animale usato da molte
religioni, soprattutto nel
passato, nei sacrifici verso
le divinità. Peter consiglia
l’agnello perché ritiene che
la cucina indiana usi dei
procedimenti che
assomigliano a quelli dei
riti religiosi e dunque
l’agnello sarebbe un piatto
particolarmente conforme
alle modalità della cucina
indiana.
7. Le civiltà dravidiche si
attestarono nella valle del
fiume Indo nel periodo
compreso tra il III e il II
millennio a.C., praticavano
l’agricoltura, conoscevano
l’uso della ceramica
e la lavorazione dei metalli;
la vita associata era
organizzata in città. Dopo
il II millennio a.C. gli arii,
popolazione nomade di
origine indoeuropea, resero
le civiltà dravidiche loro
sottomesse, inglobandole.
8. Si tratta di sculture e
templi monumentali nella
roccia, compiuti sotto la
dinastia Pallava (III-IX
secolo), caratterizzati da
un ricco ornato con
elementi vegetali, animali,
umani.
9. Tempio costruito in
granito sotto la dinastia
Pallava, datato all’VIII
secolo, dedicato alle
divinità indu Shiva e Visnu.
Dichiarato Patrimonio
dell’Umanità dall’UNESCO,
è uno dei maggiori esempi
di arte e architettura
indiana.
10. Nel testo sacro della
religione indiana, i Veda, si
indica il Brahma come uno
Spirito che attraversa tutto
il cosmo e si definisce
infinito ed eterno; per
questo il racconto parla
di ‘panteismo’, perché
l’induismo intende tutto
il mondo pervaso dallo
Spirito di Brahma.
11. Il testo probabilmente
allude a una divinità in
forma di aquila dalla testa
bianca e dalle ali d’oro,
che nei Veda è citata come
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cuoio nero. Si sedette al suo posto, trasse di tasca un fazzoletto candido e si
pulì con cura gli occhiali da vista, sorridendo. Aveva un’aria affabile ma riservata, quasi compunta.
– Anche lei va a Madras? – mi chiese senza aspettare la mia risposta – questo treno è molto puntuale, arriveremo domani mattina alle sette.
Parlava un buon inglese con accento tedesco, ma non mi parve tedesco.
Olandese, mi venne da pensare senza sapere perché, o forse svizzero. Aveva
l’aria di un uomo d’affari, così a prima vista pareva sulla sessantina, ma
forse era più vecchio.
– Madras è la capitale dell’India dravidica5 – aggiunse – se non c’è mai stato
avrà cose straordinarie da vedere –. Parlava con la disinvoltura un po’ distaccata degli europei che conoscono l’India, e mi preparai a una conversazione basata sulle banalità. Decisi che era opportuno informarlo che potevamo cenare nel vagone ristorante, preferendo intercalare i prevedibili luoghi comuni dell’inevitabile dialogo con i necessari silenzi previsti da un
pasto consumato civilmente.
Mentre camminavamo nel corridoio mi presentai scusandomi per la distrazione di non averlo fatto prima.
– Oh, le presentazioni sono diventate una formalità inutile, ormai – affermò con la sua aria affabile. Accennò un lieve inchino con la testa. – Mi
chiamo Peter – concluse.
A cena si dimostrò un esperto prezioso. Mi sconsigliò le cotolette vegetali
sulle quali mi stavo orientando per pura curiosità, «perché i vegetali devono essere molto variati e lavorati» disse «ed è difficile che ciò possa verificarsi nelle cucine di un treno». Tentai timidamente altri cibi a caso, suscitando sempre la sua disapprovazione. Alla fine acconsentii al tandoori di
agnello che egli aveva scelto per sé, «perché l’agnello è un cibo nobile e sacrificale, e gli indiani hanno il senso della ritualità del cibo6».
Parlammo molto delle civiltà dravidiche7, anzi, parlò quasi sempre lui,
perché i miei interventi si limitavano alle domande tipiche dell’inesperto,
a qualche timida obiezione, perlopiù al consenso incondizionato. Mi descrisse con dovizia di dettagli i rilievi rupestri di Kancheepuram8 e l’architettura dello Shore Temple9, mi parlò di culti arcaici e ignoti, estranei
al panteismo induista10, come quello delle aquile bianche11 di Mahabalipuram12; del significato dei colori, dei riti funebri, delle caste13. Gli esposi
con qualche esitazione quello che sapevo: le mie conoscenze della penetrazione europea sulle coste del Tamil14; parlai della leggenda del martirio di san Tommaso a Madras15, del fallito tentativo dei portoghesi di fon-
Garuda, un antico maestoso uccello che portava agli dei il
nettare dal Cielo alla Terra.
12. Anche a Mahabalipuram sono presenti templi
monumentali costruiti sotto la dinastia Pallava, fra il VII e
il IX secolo, dichiarati nel 1984 Patrimonio dell’Umanità
dall’UNESCO.
13. In India la società è divisa in gruppi sociali, o caste, che
costituiscono una gerarchia rigida, per cui un individuo che
fa parte di una casta non può entrare a fare parte di
un’altra, specie se questa risulta di rango più elevato.
14. Si fa riferimento all’arrivo degli occidentali nella
regione del Tamil, situata nell’India sud orientale, a partire
dal XVI secolo in avanti; si trattò dei Portoghesi,
successivamente degli Olandesi e infine dei Britannici.
15. La tradizione cristiana dell’India racconta che
Tommaso, apostolo di Cristo, venne a diffondere il Vangelo
in India e morì a Madras, martire. Nella cripta della chiesa
si dice siano conservati resti delle sue ossa.
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dare un’altra Goa16 su quelle coste, delle loro guerre con i reami locali,
dei francesi di Pondicherry17. Egli completò le mie informazioni e corresse certe mie inesattezze sulle dinastie indigene citando nomi, date,
luoghi e avvenimenti. Parlava con sicurezza e competenza, e la sua erudizione denotava una vastità di conoscenze che lo facevano supporre un
esperto qualificato, forse un professore universitario o uno studioso illustre. Glielo chiesi in modo diretto, con una certa ingenuità, sicuro di una
risposta affermativa. Egli sorrise non senza finta modestia e scosse il
capo.
– Solo un semplice amatore – disse – è una passione che il destino mi ha invitato a coltivare.
La sua voce aveva una nota struggente, mi parve, come un rimpianto o una
pena. I suoi occhi erano lustri, e il volto glabro pareva più pallido sotto la
luce del vagone ristorante. Aveva mani delicate e i gesti stanchi. C’era una
sorta di incompiutezza, nel suo aspetto, qualcosa di dimidiato18, ma era difficile dire che cosa: pensai a qualcosa di infermo e di nascosto, come una
vergogna.
Tornammo nel nostro scompartimento continuando a conversare, ma ora
la sua verve si era affievolita e il nostro colloquio era intercalato da lunghi
silenzi. Mentre ci disponevamo a prepararci per la notte, solo per dire qualcosa, senza una ragione specifica, gli chiesi perché viaggiasse in treno, piuttosto che in aereo. Pensavo che per una persona della sua età sarebbe stato
più agevole e comodo usare l’aereo, invece di sottoporsi a un viaggio così
lungo; e probabilmente mi aspettavo la confessione del timore di un simile
mezzo di trasporto, come a volte accade a persone che non vi furono abituate nella giovinezza.
Il signor Peter mi guardò perplesso, come se non ci avesse mai pensato.
Poi si illuminò all’improvviso e disse:
– Con l’aereo si fanno viaggi comodi e rapidi, ma si salta la vera India.
Certo con i treni che fanno lunghi percorsi c’è il rischio di arrivare anche
con un giorno di ritardo; ma se si ha la fortuna di indovinare il treno giusto
si può fare un viaggio molto confortevole e arrivare con estrema puntualità.
E poi sul treno c’è sempre il piacere di una conversazione che l’aereo non
permette.
Fu più forte di me e mormorai:
– India, a travel survival kit.
– Come? – disse lui.
– Niente – risposi – mi era venuto in mente un libro –. E poi dissi con sicurezza: – Lei non è mai stato a Madras.
Il signor Peter mi guardò con candore.
– Per conoscere un luogo non è sempre necessario esserci stati – affermò.
Si tolse la giacca e le scarpe, infilò la sua valigetta sotto il cuscino, tirò la
tenda della sua cuccetta e mi augurò la buona notte.
Avrei voluto dirgli che anche lui aveva una tenue speranza, e per questo
aveva preso il treno: perché preferiva cullarla e assaporarla a lungo, invece
di bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo, ne ero certo. Ma natural-
16. Si tratta di un piccolo
stato fondato dai mercanti
portoghesi sulla costa
occidentale dell’India nel
XVI secolo. Rimase sotto il
dominio portoghese per
450 anni fino al 1961,
quando venne inglobato
dall’India.
17. Pondicherry è una città
fondata dai francesi nel
XVII secolo sulla costa sud
orientale dell’India e
rimasta in possesso della
Francia fino al 1956.
18. Dimezzato, diviso a
metà.
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mente non dissi niente, spensi la luce centrale, lasciai la veilleuse azzurra19,
tirai la mia tenda e gli augurai la buona notte.
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19. Si tratta della lampada
dalla luce azzurra che
rimane accesa durante la
notte negli scompartimenti
ferroviari, senza disturbare
il sonno dei viaggiatori. Dal
francese veille, veglia.
20. Come detto in
precedenza, il Tamil Nadu
è la regione sud orientale
dell’India
21. A. von Chamisso
pubblicò nel 1814 la Storia
straordinaria di Peter
Schlemihl, in cui il
protagonista viveva molte
avventure originate
dall’aver barattato con il
demonio la sua ombra per
un sacco dal quale
sarebbero uscite
continuamente monete
d’oro.
22. Il racconto di Peter fa
riferimento al fatto che
molti degli ebrei
perseguitati dai nazisti nel
corso della seconda guerra
mondiale rientrarono in
speciali programmi di
studio nel campo della
ricerca medica, come cavie
umane.
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Ci svegliò il fastidio della luce accesa all’improvviso e una voce che chiedeva qualcosa. Dal finestrino si vedeva una baracca di tavole rischiarata da
una luce fioca, con un cartello incomprensibile. Il controllore era accompagnato da un poliziotto molto scuro dall’aria sospettosa.
– Stiamo entrando nel paese Tamil Nadu20 – disse il controllore con un sorriso – è una pura formalità –. Il poliziotto tese la mano e disse:
– Documenti, prego.
Guardò il mio passaporto con aria distratta e lo richiuse subito. Sul documento del signor Peter si trattenne con maggiore attenzione. Mentre lo
esaminava mi accorsi che era un passaporto israeliano.
– Mister... Shi… mail? – sillabò faticosamente il poliziotto.
– Schlemihl – corresse il mio compagno di viaggio – Peter Schlemihl.
Il poliziotto ci restituì i documenti, spense la luce e si accomiatò freddamente. Il treno aveva ripreso a correre attraverso la notte indiana, la luce
della lampada azzurra creava un’atmosfera di sogno, restammo a lungo in
silenzio, poi alla fine io parlai.
– Lei non può avere questo nome – dissi – esiste un solo Peter Schlemihl,
è un’invenzione di Chamisso21, e lei lo sa perfettamente. Una cosa del genere va bene per un poliziotto indiano.
Il mio compagno di viaggio non rispose. Poi mi chiese:
– Le piace Thomas Mann?
– Non tutto – risposi.
– Che cosa?
– I racconti, alcuni romanzi brevi, Tonio Kröger, Morte a Venezia.
– Non so se conosce una prefazione al Peter Schlemihl – disse lui – è un
testo ammirevole.
Il silenzio cadde di nuovo. Pensai che il mio compagno si fosse addormentato, ma non poteva essere, certo. Aspettava solo che parlassi io, e io parlai.
– Che cosa va a fare a Madras?
Il mio compagno di viaggio non rispose subito. Tossì leggermente.
– Vado a vedere una statua – sussurrò.
– È un lungo viaggio, per vedere una statua.
Il mio compagno non rispose. Si soffiò il naso a più riprese.
– Voglio raccontarle una piccola storia – disse poi – ho voglia di raccontarle una piccola storia –. Parlava sommessamente e la sua voce mi giungeva attutita da dietro la tenda. – Molti anni fa, in Germania, conobbi un
uomo. Era un medico, e doveva visitarmi. Stava seduto dietro una scrivania e io stavo in piedi nudo davanti a lui. Dietro di me c’era una fila di
altri uomini nudi che egli doveva visitare. Quando ci avevano condotti in
quel luogo ci avevano detto che noi servivamo al progresso della scienza
tedesca22. Accanto al medico c’erano due guardie armate e un infermiere
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che riempiva delle schede. Egli ci poneva delle domande precise concernenti le nostre funzioni virili, l’infermiere procedeva a certe analisi sui nostri corpi, e poi scriveva. La fila procedeva svelta, perché quel medico
aveva fretta. Quando avevo già superato il mio turno, invece di proseguire
verso la stanza in cui ci conducevano, indugiai qualche attimo, perché il
mio sguardo fu attratto da una statuetta che il medico teneva sulla scrivania. Era la riproduzione di una divinità orientale, ma io non l’avevo mai
vista. Rappresentava una figura danzante, con le braccia e le gambe in posizioni armoniche e divergenti iscritte in un circolo. C’erano solo pochi
spazi aperti in quel circolo, piccoli vuoti che aspettavano di essere chiusi
dall’immaginazione di chi lo guardava. Il medico si accorse del mio rapimento e sorrise. Aveva una bocca sottile e beffarda. – Questa statua rappresenta il circolo vitale – disse – nel quale tutte le scorie devono entrare
per raggiungere la forma superiore della vita che è la bellezza. Le auguro
che nel ciclo biologico previsto dalla filosofia che concepì questa statua lei
possa avere, in un’altra vita, un gradino superiore a quello che le è toccato
nella sua vita attuale23.
Il mio compagno di viaggio tacque. Nonostante il rumore del treno potevo
avvertire perfettamente la sua respirazione pausata e profonda.
– Vada avanti, la prego – dissi.
– Non c’è molto da aggiungere – disse lui – quella statua era l’immagine di
Shiva danzante, ma io allora non lo sapevo. Come vede non sono ancora
entrato nel circolo del riciclaggio vitale24, e la mia interpretazione di quella
figura è un’altra. Ci ho pensato ogni giorno, è l’unica cosa a cui ho pensato
in tutti questi anni.
– Quanti anni sono passati?
– Quaranta.
– Si può pensare a una sola cosa per quarant’anni?
– Credo di sì, se si è provata su di noi la turpitudine.
– E quale è la sua interpretazione di quella figura?
– Credo che essa non rappresenti affatto il circolo vitale. Rappresenta semplicemente la danza della vita.
– In che cosa consiste la differenza? – chiesi io.
– Oh, è molto diverso – sussurrò il signor Peter. – La vita è un cerchio. C’è
un giorno in cui il cerchio si chiude, e noi non sappiamo quale –. Si soffiò
di nuovo il naso e poi disse: – E ora mi scusi, sono stanco, se permette vorrei cercare di dormire.
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Mi svegliai nei dintorni di Madras. Il mio compagno di viaggio era già rasato e pronto nel suo impeccabile vestito blu. Aveva un’aria riposata e sorridente, aveva rialzato la sua cuccetta e mi indicava il vassoio della colazione posato sul tavolo accanto al finestrino.
– Ho aspettato che si svegliasse per prendere il tè insieme – disse. – Non ho
voluto disturbarla, dormiva così bene.
23. Come poco oltre il
racconto chiarirà, si tratta
della statua di Shiva, una
delle tre divinità maggiori
indu. Il discorso fatto dal
medico spiega un concetto
proprio della religione
induista secondo la quale
ogni forma di vita, anche
quelle che appaiono più
basse, assumeranno
attraverso un ciclo
successivo di
reincarnazioni una forma
più alta e perfetta.
Sottintesa è la teoria
propria del nazismo
secondo cui solo la razza
ariana era superiore,
mentre quella semitica,
ovvero quella ebrea, era
inferiore e imperfetta. Nelle
parole del medico si
fondono perciò la teoria
nazista con quella della
religione indu.
24. Ovvero non è ancora
morto; solo attraverso la
morte, secondo la religione
induista, si entra nel ciclo
delle reincarnazioni.
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Entrai nello stanzino del lavabo e feci rapidamente la toeletta mattutina,
raccolsi le mie cose, sistemai il mio bagaglio e mi sedetti davanti alla colazione. Cominciavamo a percorrere un luogo abitato, una zona di villaggi
popolosi con le prime avvisaglie di città.
– Come vede siamo in perfetto orario – disse il mio compagno – sono le
sette meno un quarto –. Piegò con cura il suo tovagliolo. – Mi piacerebbe che anche lei andasse a vedere quella statua – aggiunse – si trova
nel museo di Madras. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa –. Si alzò in
piedi e prese la sua valigetta. Mi tese la mano e mi salutò col suo tono affabile. – Sono grato alla mia guida di viaggio che consigliava questo
mezzo di trasporto – disse, – è vero che sui treni indiani si possono fare
gli incontri più inattesi: la sua compagnia è stata per me un piacere e un
conforto.
– È un piacere reciproco – replicai – sono io che sono grato ai consigli della
mia guida.
Stavamo entrando nella stazione, davanti a un marciapiede brulicante di
folla. Il treno azionò i freni e il convoglio si fermò dolcemente. Gli cedetti
il passo ed egli scese per primo, facendomi un cenno di saluto con la mano.
Mentre si allontanava lo chiamai e lui si voltò.
– Non so dove potrei eventualmente comunicarle la mia opinione – gridai
– non ho il suo indirizzo.
Lui tornò sui suoi passi, con quell’aria perplessa che già gli conoscevo, e rifletté un istante.
– Mi lasci un messaggio all’American Express25 – disse – passerò a raccoglierlo.
Poi ciascuno di noi si perse tra la folla.
***
25. American Express è
una società nata in
America nel 1850,
specializzata in servizi
finanziari e di viaggio. Nelle
sue sedi sparse in tutto il
mondo, è possibile fare
operazioni finanziarie di
cambio e di credito,
usufruire di una sorta di
fermo posta per recapitare
messaggi personali,
comunicare attraverso il
telefono.
26. Cfr. nota 8.
27. Il Kerala è uno stato
che occupa una lunga e
stretta striscia di terra
costiera nella zona sud
occidentale dell’India; per
Goa cfr. nota 16.
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A Madras restai solo tre giorni. Furono giorni intensi, quasi febbrili. Madras è una città enorme di case basse e di immensi spazi incolti, ingorgata
da un traffico di biciclette, di autobus sconnessi e di animali; per percorrerla da una punta all’altra ci vuole molto tempo. Assolti gli obblighi che
mi aspettavano mi restò un solo giorno di libertà, e al museo preferii una
visita ai rilievi rupestri di Kancheepuram26, che distano molti chilometri
dalla città. La mia guida, anche in quell’occasione, si rivelò una preziosa
compagnia.
La mattina del quarto giorno mi trovavo in una stazione degli autobus che
fanno il percorso per il Kerala e per Goa27. Mancava un’ora alla partenza,
faceva un caldo torrido e le pensiline dell’enorme hangar della stazione
erano l’unico rifugio contro la calura delle strade. Per ingannare l’attesa
comprai il giornale in lingua inglese di Madras. Era un giornale di appena
quattro fogli, dall’aspetto di giornale di parrocchia, con molti annunci di
ogni specie, riassunti di film popolari, cronaca cittadina. In prima pagina,
con molto rilievo, c’era la notizia di un omicidio avvenuto il giorno precedente. La vittima era un cittadino di nazionalità argentina che viveva a Ma-
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dras dal 1958. Era descritto come un signore schivo e discreto, senza amicizie, settantenne, che viveva in una villetta nel quartiere residenziale di
Adyar. La moglie era deceduta tre anni prima per cause naturali. Non avevano figli.
Era stato ucciso con un colpo di pistola al cuore. Era un omicidio apparentemente inspiegabile, perché l’assassino non aveva agito a scopo di furto.
La casa risultava in ordine, senza tracce di scassi. L’articolo descriveva
l’abitazione come una residenza semplice e sobria, con alcuni pezzi
d’arte di buon gusto e un piccolo giardino. Pareva che la vittima fosse un
intenditore di arte dravidica; il giornale menzionava alcuni servigi resi
nella catalogazione del locale museo e riportava la fotografia di uno sconosciuto: il viso di un vecchio calvo, con gli occhi chiari e la bocca sottile.
Era una descrizione neutra e anodina28. L’unico particolare curioso era la
fotografia di una statuetta abbinata al volto della vittima. Si trattava certo di
un abbinamento plausibile, perché la vittima era un intenditore di arte dravidica e la danza di Shiva è il pezzo più noto del museo di Madras, una specie di simbolo. Ma quell’accostamento plausibile suscitò in me un altro accostamento. Mancavano ancora venti minuti alla partenza, cercai un
telefono e feci il numero dell’American Express. Mi rispose una signorina
gentile.
– Vorrei lasciare un messaggio per il signor Schlemihl – dissi.
La signorina mi pregò di attendere un attimo e poi disse:
– Per il momento non abbiamo nessuna persona con un recapito a questo
nome, ma se lo desidera può lasciare ugualmente il suo messaggio, gli sarà
consegnato appena passerà.
– Pronto, pronto – ripeté la telefonista che non sentiva più la mia voce. –
Un attimo, signorina – dissi – mi lasci riflettere un attimo.
Che cosa potevo dire? Pensai al ridicolo del mio messaggio. Forse che
avevo capito? E che cosa? Che per qualcuno il cerchio si era chiuso?
– Non ha importanza – dissi – ho cambiato idea –. E riattaccai.
Non escludo che la mia immaginazione abbia lavorato più del consentito.
Ma se avessi indovinato quale era l’ombra che il signor Schlemihl aveva
perduto; e se mai gli capitasse di leggere questo racconto, per lo stesso
strano caso che ci fece incontrare quella sera in treno, vorrei che gli giungesse il mio saluto. E la mia pena.
28. Insignificante.
Treni che vanno a Madras, in Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano 1985
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STRUMENTI DI LETTURA
La storia
La vicenda esprime in modo esemplare il
concetto, tipico di Tabucchi, dalla vita come rebus.
Attraverso quali misteriosi passaggi, infatti, si può
collegare un incontro casuale durante un viaggio in
treno nella remota India all’angoscia dei campi di
sterminio nazisti nell’Europa sconvolta dall’ultima
guerra mondiale? E poi, questo collegamento esiste
davvero, oppure è soltanto frutto dell’interpretazione del protagonista del racconto? E il cerchio, alla
fine, si chiude davvero? e per chi? Il finale rimane
aperto, e il rebus irrisolto.
quella presente che si intreccia con quella passata,
che ritorna, incancellabile, quella della guerra e dei
campi di sterminio.
Lo spazio
L’immensità caotica dell’India, i suoi grovigli di strade, di gente, di traffico, di case, di vegetazione, apre e chiude il racconto. Tra lo spazio aperto
e illimitato dell’India dell’incipit e della chiusa, c’è lo
spazio limitato del treno, l’angusto scompartimento
dove, poco alla volta, fra allusioni, reticenze, ambiguità si costruisce il rebus dettato dal viaggiatore misterioso.
I personaggi
Il protagonista-narratore definisce il suo
viaggio «perfettamente incongruo» e descrive se
stesso come «un essere vagante e illogico». Si presenta dunque come un personaggio che non ama
rispettare le regole e stare in schemi predefiniti.
Per esempio, si dice agnostico, ma si sobbarca due
giorni di treno per andare a Madras a visitare la
Società Teosofica; viaggia in treno e non in aereo
– cosa che gli farebbe risparmiare tempo – perché
vuole vedere «la vera India» e non quella dei circuiti turistici predefiniti. Durante il suo percorso,
in modo del tutto inatteso, entra in contatto con
un misterioso viaggiatore che si presenta con il
nome fittizio di un personaggio letterario – Peter
Schlemihl, l’uomo che in un racconto di Adalbert
von Chamisso vende la sua ombra al diavolo – e
talora si esprime con le identiche parole del libro
che il narratore usa come guida turistica. Anche il
passeggero appare, a suo modo, non meno «illogico» del narratore: provvisto di un bagaglio minimo, vestito in modo incongruo rispetto al clima
indiano, affabile ma riservato, è di età e di nazionalità indefinibili. Viaggia però con passaporto
israeliano.
Il narratore
Le perplessità del narratore diventano le
stesse del lettore: sperduto tra le varie interpretazioni
possibili, si sente intrappolato come tra le figure di
un insolubile rebus illustrato. Né il narratore, né il
lettore riescono perciò a dare un ordine all’universo,
destabilizzando qualsiasi tipo di certezza e costringendosi a riflettere su un mondo dai molteplici significati.
Le tecniche narrative
Seppure con finalità del tutto particolari,
l’andamento narrativo del racconto potrebbe essere
paragonato a quello di un giallo (del resto, nella storia non manca il classico delitto). Tabucchi, infatti,
procede accumulando indizi, dettagli inquietanti, allusioni misteriose, anche se nella sua opera l’infittirsi del mistero non culmina nella soluzione finale e
la tensione non si scioglie in una liberatoria “spiegazione”. Al contrario, il mistero rimane tale, non
solo, ma in conclusione diventa ancora più inquietante perché sentiamo che il «cerchio» non si è
chiuso, e la realtà rimane alla fine sostanzialmente
indecifrabile.
Il tempo
ll tempo del viaggio in treno diventa un
viaggio nel tempo e anche un viaggio all’interno dell’enigma rappresentato dall’uomo che ha il nome di
un personaggio letterario. Dunque, anche il lettore
deve andare indietro nel tempo, è invitato a stornare
la propria attenzione dal “presente” di questo racconto, quello di Tabucchi, al “passato” di un altro
racconto, quello di Chamisso, alla ricerca di un possibile scioglimento del rebus circa l’identità del misterioso viaggiatore. Non si tratta solamente, però,
di rimandi letterari: c’è anche il tempo della Storia,
La lingua e lo stile
La scrittura di Tabucchi è semplice e al
tempo stesso raffinata, intensa e coinvolgente ma
sempre venata d’ironia. Evoca vividamente ambienti, personaggi e situazioni, eppure rimane
ben lontana da qualsiasi tipo di realismo. Il suo
stile ha un andamento apparentemente lineare,
ma da esso scaturisce alla fine un mondo complesso e quasi indecifrabile, cosicché la fedeltà al
dato reale sfuma continuamente in una dimensione di sogno.
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DOMANDE DI VERIFICA
1
Alle righe 11-18 e 122-127 si trovano due passi quasi identici. In base ai contenuti del racconto,
sapresti spiegare che cosa comprende il protagonista a proposito del suo interlocutore Peter attraverso le parole che questi ripete dalla guida di viaggio?
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2
Il nome Peter Schlemihl scritto sul passaporto del viaggiatore risulta essere:
a
b
c
d
3
L’ambientazione della prima parte del racconto si trova:
a
b
c
d
4
Un nome israeliano, come la nazionalità del suo possessore
Un falso, derivato da un racconto di Thomas Mann
Il nome del protagonista di un romanzo di Chamisso
Il nome di un medico tedesco
Nell’India meridionale
In un treno di lunga percorrenza con destinazione Madras
Nella città di Bombay
Tra Goa e Pondicherry
“E quale è la sua interpretazione di quella figura?”.
“Credo che essa non rappresenti affatto il circolo vitale. Rappresenta semplicemente la danza
della vita”.
“In che cosa consiste la differenza? – chiesi io”.
“Oh, è molto diverso – sussurrò il signor Peter. – La vita è un cerchio. C’è un giorno in cui il cerchio si chiude, e noi non sappiamo quale”.
Sulla base dei contenuti del racconto e anche del suo finale, quale interpretazione pensi si
possa dare a questa precisazione di Peter sul significato della statua di Shiva come cerchio e
non come circolo vitale?
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Che cosa significa nella parte finale del racconto l’espressione “se avessi indovinato quale era
l’ombra che il signor Schlemihl aveva perduto [...] vorrei che gli giungesse il mio saluto. E la mia
pena”.
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6
Sapendo che l’agnello nella religione ebraica e cristiana è un animale che rappresenta la vittima
sacrificata per riparare al male che esiste nel mondo, sapresti interpretare la scelta di Peter di
prendere per cena l’agnello e di consigliarlo al suo compagno di viaggio “perché è un cibo nobile
sacrificale”?
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7
Considera come possibile l’interpretazione che nel finale propone il protagonista-narratore secondo cui Peter avrebbe compiuto un lungo viaggio per arrivare, dopo quarant’anni, a commettere l’omicidio del medico nazista del campo a cui era stato assegnato. Per quali motivi secondo
te il protagonista dice di provare “pena”?
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anno 1970
Isaac Bashevis Singer
luogo
Polonia
Il figlio
genere
racconto
realistico
Presentazione dell’opera
La narrativa di Singer, costantemente fedele a certi temi e atteggiamenti, è sostanzialmente divisa in due filoni, che potremmo definire rispettivamente magico-folklorico e realistico. Nel primo, che si esprime in alcuni romanzi brevi e in numerosi racconti ambientati nei villaggi della vecchia Polonia rurale, compaiono ogni sorta di demonietti o demoni maggiori, streghe vecchie o giovani
e belle, amanti diabolici. In alcuni racconti scritti negli Stati Uniti viene introdotto anche il tema del «magico» contemporaneo, legato a fenomeni di telepatia e stati di allucinazione (Singer dichiarava di essere particolarmente attento a tutte le forme di conoscenza non razionale). Nei romanzi e racconti di carattere realistico, spesso di evidente impronta autobiografica, Singer dà corpo
a una narrativa attenta alle dinamiche storiche e sociali. Nei racconti di ambiente americano, come Il figlio, lo scrittore pone particolare attenzione al mondo interiore dei personaggi, mettendone in luce travagli e debolezze. Centrale è il tema dell’identità, dello
scontro tra un sistema di valori tradizionali e l’inesorabile processo di assimilazione dell’ebraismo alla cultura dominante.
Isaac Bashevis Singer
Scrittore polacco naturalizzato statunitense, nacque a Radzymin, presso Varsavia, nel 1904. Sin dalla prima infanzia visse in un ambiente di profonda cultura
religiosa. Figlio e nipote di rabbini, studiò alla scuola rabbinica (yeshivah) di
Varsavia e quell’ambiente osservante e bizzarro, domestico e sacrale, costituì
una ricca fonte di spunti per la sua narrativa, in un inesauribile teatro di casi
umani, personaggi curiosi, situazioni comiche o patetiche. Esordì con il romanzo
storico Satana a Goray (1935) e nello stesso anno, prevenendo l’invasione tedesca della Polonia, emigrò a New York. Nonostante le sue opere si conoscano
nella versione inglese, in parte tradotte da lui stesso (considerava queste traduzioni come un «secondo originale»), in parte da letterati americani come Saul
Bellow, Singer compose sempre in yiddish (cfr. nota 17 nel racconto), da lui definita «la saggia e umile lingua di noi tutti, l’idioma di un’umanità spaventata e piena di speranza». Il primo romanzo pubblicato in inglese fu La famiglia Moskat (1950), cui seguirono, tra gli altri, La fortezza (1957), Il mago di Lublino (1960),
Lo schiavo (1962), La proprietà (1969). Molte sono le raccolte dei suoi racconti, ad esempio Gimpel l’idiota
(1957), Breve venerdì (1964), Un amico di Kafka (1970), Una corona di piume (1973), La morte di Methuselah e altre storie (1988). La trilogia autobiografica Un ragazzo in cerca di Dio (1976), Un giovane in cerca
di amore (1978) e Perduto in America (1981) ripercorre in particolare le tappe della sua evoluzione spirituale. Tra i racconti e i romanzi autobiografici ricordiamo ancora Alla corte di mio padre (1966), Ricerca e
perdizione (1984), mentre tra le raccolte di storie per l’infanzia, che attingono al patrimonio popolare della
terra d’origine, vi sono Zlateh la capra (1966), Un giorno di felicità (1976), Quando Schlemiel andò a Varsavia (1978). Fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1978. Morì a Miami nel 1991.
a nave proveniente da Israele doveva arrivare a mezzogiorno, ma era
in ritardo. Si fece sera prima che attraccasse a New York; poi dovetti attendere ancora prima che si lasciassero sbarcare i passeggeri.
Il tempo era caldo e piovoso. Una folla era venuta ad attendere l’arrivo della nave. Mi parve che tutti gli ebrei della città fossero lì: ebrei assimilati1, e anche rabbini con lunghe barbe e basette2; ragazze con un nu-
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1. Il testo fa riferimento agli ebrei che si sono conformati
alle abitudini di vita dei popoli lontani dalla Palestina
presso cui si sono stabiliti per via della diaspora.
2. Il rabbino, all’interno delle comunità di religione ebraica,
è colui che, dopo avere studiato i testi sacri e le loro
maggiori interpretazioni, è in grado di insegnare e
commentare i libri biblici e di decidere sui problemi della
vita quotidiana sulla base dei principi religiosi. Portano
normalmente una lunga barba e l’abito nero.
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3. Durante la seconda
guerra mondiale gli ebrei
che vennero internati nei
campi di concentramento
vennero marchiati con un
numero sul braccio, unico
segno della loro identità.
4. Le organizzazioni
sioniste nacquero alla fine
del XIX secolo tra gli ebrei
residenti in Europa per
istituire uno stato ebraico
in terra d’Israele.
Soprattutto in seguito
all’antisemitismo del ’900
le organizzazioni sioniste si
occuparono anche di
raccogliere informazioni e
materiali giudiziari per
agire legalmente contro i
loro persecutori.
5. La yeshivah è una scuola
presso cui si impara lo
studio dei testi sacri
dell’ebraismo (Torah), è
diretta da un rabbino e si
divide in piccola (in cui si
fornisce un’istruzione di
base) e grande (in cui si
approfondiscono gli studi a
livello universitario).
6. Tiro e Sidone erano città
fenicie, situate sulla costa
a nord della Palestina. Il
protagonista allude qui
all’epoca antica, in cui i
commerci via nave
portavano alle città di
scambio più vicine e non
oltreoceano, in America,
per via della diaspora e
delle persecuzioni.
7. Nietzsche, filosofo
vissuto tra la fine dell’800
e l’inizio del ’900 parlò di
‘eterno ritorno’, teoria
secondo la quale nella
Storia e nella vita di
ognuno le cose che
accadono non sono
infinite, ma anzi possono
ripresentarsi in modo tale
che eventi già vissuti
possono ritornare infinite
volte nel futuro.
8. Il protagonista pone a
confronto i tranquilli ebrei
d’America con quelli che
pochi anni prima, in
Europa, erano stati
vittima delle persecuzioni
naziste.
9. Si fa riferimento alla
kippah, un piccolo cappello
a forma di zuccotto che
tutti gli uomini di religione
ebraica portano sul capo.
10. I gentili secondo la
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mero impresso sul braccio nei campi di sterminio hitleriani3; ufficiali di organizzazioni sioniste4 con cartelle rigonfie; studenti yeshivah5 con il cappello di velluto e la barba incolta; donne di mondo con il volto imbellettato
e le unghie laccate. Mi resi conto che ero di fronte a un’epoca nuova della
storia ebraica. Quando mai gli ebrei avevano avuto navi? E se le avevano
avute, le loro navi si erano dirette a Tiro e a Sidone6, non a New York. Pur
ammettendo per vera la folle teoria di Nietzsche sull’eterno ritorno7, erano
dovuti passare quattro-cinque millenni prima che accadesse nel presente
un minimo degli eventi accaduti prima. Ma quell’attesa mi infastidiva. Misuravo ogni persona con gli occhi e ogni volta mi facevo la stessa domanda:
che cosa rende costui mio fratello? Che cosa rende costei mia sorella? Le
donne di New York agitavano i ventagli, parlavano tutte insieme con voci
roche, si ristoravano con cioccolata e coca-cola. Lo sguardo che si sprigionava dai loro occhi era di una durezza non ebrea. Era difficile credere che
appena pochi anni prima i loro fratelli e le loro sorelle d’Europa erano andati al macello come pecore miti8. Giovani ortodossi moderni, con minuscoli zucchetti9 nascosti come cerotti nei capelli folti, parlavano ad alta voce
in inglese e scherzavano con le ragazze, che nel contegno e nelle vesti non
mostravano alcun segno della loro religione. Persino i rabbini qui erano
diversi, ben diversi da mio padre e da mio nonno. A me, tutta quella gente
pareva mondana e scaltra. Quasi tutti, eccetto me, si erano procurati il permesso di salire sulla nave. E facevano conoscenza fra loro con insolita rapidità, si scambiavano informazioni, scotevano il capo con l’aria di chi la sa
lunga. Incominciarono a sbarcare gli ufficiali della nave, rigidi nelle loro
uniformi con le spalline e i bottoni dorati. Parlavano in ebraico, ma avevano l’accento dei gentili10.
Rimasi fermo ad attendere un figlio che non vedevo da vent’anni. Aveva
cinque anni quando mi ero separato da sua madre. Io ero venuto in America, lei era andata nella Russia sovietica. Ma evidentemente una rivoluzione11, a lei, non era bastata. Voleva la rivoluzione permanente. E, a
Mosca, l’avrebbero liquidata, se non avesse avuto dalla sua chi poteva essere ascoltato in alto loco. Le sue vecchie zie bolsceviche12, reduci dalle prigioni polacche per attività comunista, avevano interceduto per lei, e se l’era
cavata con la deportazione13 in Turchia, con il suo bimbo. Di là aveva trovato il modo di raggiungere la Palestina, e vi aveva allevato nostro figlio in
un kibbutz14. Ora egli veniva a trovarmi.
religione ebraica sono tutti coloro che non appartengono
al popolo eletto, ovvero i non ebrei.
11. Si fa riferimento al movimento rivoluzionario che portò
la Russia nel 1917 al rovesciamento della monarchia
zarista e all’instaurazione del primo Soviet.
12. I bolscevichi ritenevano che in Russia proletari e
contadini dovessero guidare la rivoluzione, concordando
con le tesi di Lenin. Dalla rivoluzione del 1917 si dicono
bolscevichi tutti colori che, in tutto il mondo e non solo in
Russia, concordavano con le tesi del socialismo. Il testo fa
riferimento ad alcune zie della moglie del protagonista
imprigionate in Polonia proprio per avere aderito alle tesi
dei bolscevichi.
13. Si tratta del forzato allontanamento dalla terra in cui si
vive per essere trasferiti in un luogo lontano, senza le
stesse condizioni economiche, sociali e civili.
14. Il kibbutz è un’associazione volontaria di lavoratori
nello stato d’Israele, basata sul possesso comune della
terra e sull’uguaglianza sociale e civile.
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Mi aveva mandato una fotografia fatta al tempo in cui aveva servito l’esercito e combattuto gli arabi15. Ma era sfocata, e per di più lo ritraeva in uniforme. Ora, mentre i primi passeggeri cominciavano a sbarcare, mi venne
in mente che non avevo un’immagine chiara dell’aspetto di mio figlio. Era
alto? Basso? I suoi capelli biondi erano diventati scuri con gli anni? L’arrivo
di quel figlio in America mi riportava indietro in un’epoca che avevo considerato già relegata nell’eternità. Egli emergeva dal passato come un fantasma. Non si inseriva nella mia attuale vita privata, né fuori avrebbe legato con le mie conoscenze. In casa non avevo una stanza per lui, non un
letto, né denaro, né tempo. Come quella nave che batteva bandiera bianca
e blu con la stella di Davide16, egli costituiva una strana combinazione del
passato e del presente. Mi aveva scritto che di tutte le lingue da lui parlate
nell’infanzia, l’yiddisch17, il polacco, il russo, il turco, ora parlava soltanto
l’ebraico. Così sapevo in anticipo che, con quel poco di ebraico che avevo
appreso dal Talmud e dal Pentateuco, non mi sarebbe stato possibile conversare con lui. Invece di parlare da padre a mio figlio, avrei farfugliato e
avrei dovuto cercare le parole nei vocabolari.
Le spinte e il chiasso aumentavano. La banchina era in tumulto. Tutti urlavano e si lanciavano in avanti con la gioia esagerata della gente che ha perduto il senso della misura per quanto riguarda le conquiste terrene. Le
donne gridavano istericamente; gli uomini piangevano con mugolii rochi. I
fotografi scattavano fotografie, e i cronisti si precipitavano dall’uno all’altro, facendo frettolose interviste. Poi accadde quel che mi accade sempre
quando faccio parte di una folla: mentre tutti divenivano una sola famiglia,
io rimanevo un estraneo. Nessuno parlava con me, né io con gli altri. La
forza segreta che li aveva uniti mi metteva in disparte. Certi sguardi mi misuravano assenti, quasi dicessero: che cosa fa qui costui? Quando tentai,
vincendo la riluttanza, di fare una domanda a qualcuno, l’altro non mi
ascoltò, o almeno se ne andò via prima ancora che finissi di parlare. Avrei
potuto benissimo essere uno spettro. Dopo un poco mi risolsi, come sempre in casi simili, a fare pace col destino. Mi tenni in un angolo, lontano dal
trambusto, e osservai le persone a mano a mano che scendevano dalla nave,
selezionandole nella mia mente. Mio figlio non poteva essere tra i vecchi,
né fra le persone di mezza età. Non poteva avere i capelli nero pece, le
spalle larghe e gli occhi ardenti; un tipo del genere non poteva essere germogliato dai miei lombi. Ma a un tratto apparve un giovane stranamente
simile al soldato dell’istantanea, alto, magro, piuttosto curvo, con il naso
lunghetto e il mento stretto. «Questo è lui», qualcosa proruppe in me. Mi
strappai dal mio cantuccio per corrergli incontro. Egli cercava qualcuno.
L’amore paterno mi si destò dentro. Aveva le guance incavate e un pallore
malato soffuso sul viso. È malato, è tisico, pensai ansiosamente. Avevo già
aperto la bocca per chiamare «Gigi», come sua madre ed io lo chiamavamo
da bambino, quando improvvisamente un donnone caracollò verso di lui e
lo serrò tra le braccia. Il suo pianto si tramutò in una specie di latrato; presto una folla di altri parenti lo circondò. Mi avevano portato via un figlio
che non era mio! In quel fatto sentivo una specie di ratto spirituale. I miei
15. Il testo allude al
conflitto tra gli ebrei che si
sono stabiliti sul territorio
della Palestina e gli arabi
che lo abitavano in
precedenza.
16. La bandiera bianca a
strisce blu con la stella di
Davide in centro è quella
dello stato d’Israele.
17. Significa giudaico e si
riferisce alla lingua che gli
ebrei parlarono nell’Europa
centrale e orientale tra il X
e il XVII secolo; tuttora è
diffusa in numerose
comunità in tutto il
mondo. È scritta con i
caratteri dell’alfabeto
ebraico ma si distanzia
dall’originale perché fonde
una particolare lingua
germanica medievale con
elementi della lingua
ebraica e aramaica.
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18. Uno dei campi di
sterminio più tristemente
noti durante la
persecuzione nazista degli
ebrei.
19. Cfr nota 5.
20. La Torah nella religione
ebraica indica i primi 5
libri delle Sacre Scritture
(Genesi, Esodo, Levitico,
Numeri, Deuteronomio)
ai quali si riferisce il nucleo
più antico ed essenziale
della religione ebraica,
in cui sono contenute
le principali norme di
comportamento e di purità.
21. Il testo si riferisce al
piano di sterminio di Hitler
durante la seconda guerra
mondiale, per cui dopo
avere ucciso gli ebrei nelle
camere a gas, i loro corpi
venivano bruciati in forni;
le ceneri poi, come si dice
poco più avanti nel testo,
venivano poste in anonime
fosse.
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sentimenti paterni si sentirono umiliati e arretrarono in fretta in quel nascondiglio dove le emozioni possono rintanarsi per anni senza farsi sentire.
Ebbi la sensazione di essere arrossito di vergogna, come se fossi stato colpito in faccia. Stabilii di attendere con pazienza, di non lasciare i miei sentimenti prorompere prematuramente. Per un pezzo non sbarcò più alcun
passeggero. Che cos’è un figlio, in fondo? pensavo. Che cosa rende il mio
seme più importante per me che per un altro? Che valore ha un legame di
sangue e di carne? Siamo tutti schiuma dello stesso calderone. Se retrocedi
di un certo numero di generazioni scopri che probabilmente tutta questa
folla di sconosciuti ha avuto un avo in comune. E fra due o tre generazioni
i discendenti di coloro che ora sono parenti saranno estranei. Tutto è temporaneo e passeggero; siamo spuma dello stesso oceano, pantano della stessa
palude. Poiché non si può amare tutti, non si dovrebbe amare nessuno.
Altri passeggeri sbarcarono. Tre giovani comparvero insieme e li esaminai.
Nessuno dei tre era Gigi; e comunque, se uno lo fosse stato, nessuno me lo
avrebbe tolto. Fu un sollievo vedere che ciascuno dei tre se ne andava con
qualcun altro. Nessuno di loro mi era piaciuto. Appartenevano alla feccia.
L’ultimo si era persino voltato e mi aveva lanciato un’occhiata aggressiva,
come se in qualche modo misterioso avesse captato i miei pensieri di disapprovazione per lui e per i suoi simili.
Se è mio figlio, sbarcherà per ultimo, mi venne in mente a un tratto, e benché questa fosse una supposizione, non so come, ero certo che sarebbe
stato così. Mi ero armato di pazienza e di quella rassegnazione che è sempre pronta in me a immunizzarmi contro i miei fallimenti e a frenare qualsiasi velleità di liberarmi dalle mie limitazioni. Continuai a osservare ogni
passeggero attentamente, cercando di indovinare il carattere e la personalità dall’aspetto e dal vestito. Forse era soltanto frutto d’immaginazione,
ma ogni volto mi trasmetteva i suoi segreti e mi pareva di sapere esattamente come funzionava ogni cervello. Tutti i passeggeri avevano qualcosa
in comune: la fatica di un lungo viaggio attraverso l’oceano, l’irritabilità e
l’insicurezza della gente che arriva in un paese nuovo. Gli occhi chiedevano tutti, con un’ombra di delusione: è questa l’America? Una ragazza con
il numero impresso sul braccio scosse irosamente il capo. Il mondo intero
era un Auschwitz18. Un rabbino lituano, con la barba grigia tagliata tonda e
gli occhi sporgenti, stringeva un pesante volume. Lo aspettava un gruppo
di studenti yeshivah19 e appena egli li raggiunse incominciò a predicare con
lo zelo stizzito di uno che possieda la verità e cerchi di divulgarla in fretta
e furia. Lo udii dire: «Torah... Torah...20». Avrei voluto chiedergli perché la
Torah non avesse difeso e salvato milioni di ebrei dai forni crematori21 di
Hitler. Ma a quale scopo chiederglielo, quando già sapevo la risposta? «I
miei pensieri non sono i vostri pensieri». Subire il martirio in nome di Dio
è il più alto dei privilegi. Un passeggero parlava una specie di dialetto che
non era né tedesco né jiddisch, ma un pasticcio inintelligibile attinto a libri
antichi. Strano, quelli che erano venuti ad attenderlo chiacchieravano nello
stesso linguaggio.
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Pensai che nel più completo caos esistono leggi precise. I morti restano
morti. Coloro che vivono hanno i loro ricordi, i loro calcoli, i loro progetti. Chi sa dove, nei fossati della Polonia, vi sono le ceneri di coloro che
furono bruciati. In Germania, gli ex nazisti giacciono nei loro letti, ognuno
con l’elenco dei propri delitti, delle torture, degli stupri più o meno violenti. Chi sa dove, deve esservi un Onnisciente che conosce i pensieri di
ogni essere umano, che sa le sofferenze di ogni infima creatura, che conosce ogni cometa, ogni molecola della più lontana galassia. Gli parlai. Bene,
potente Onnisciente, per te ogni cosa è giusta. Tu sai tutto e sei informato
di tutto... per questo sei tanto bravo. Ma che cosa debbo fare io con le mie
briciole di realtà?… Sì, debbo attendere mio figlio. Di nuovo era cessato lo
sbarco dei passeggeri; pensai che dovevano essere scesi a terra tutti. Divenni nervoso. Forse mio figlio non era a bordo di quella nave? Forse me
lo ero lasciato sfuggire? E se si fosse gettato nell’oceano? Quasi tutti se ne
erano andati dalla banchina e intuivo che gli inservienti si preparavano a
spegnere le luci. Che cosa dovevo fare adesso? Avevo avuto una premonizione: doveva andare storto qualcosa con quel figlio che per vent’anni era
stato per me soltanto una parola, un nome, una colpa sulla coscienza.
Improvvisamente lo vidi. Scendeva lentamente, incerto, con l’espressione
di chi non si aspetti che qualcuno gli sia venuto incontro. Non smentiva la
sua fotografia, ma pareva più vecchio. Aveva rughe giovanili nel volto e gli
abiti sgualciti. Dimostrava la trascuratezza e la negligenza di un giovane
che non ha casa, che ha passato anni in luoghi strani, che ha avuto parecchie traversie ed è invecchiato precocemente. Tra i suoi capelli arruffati e
scarmigliati mi parve di vedere qualche filo di paglia o di fieno, come di
chi dorme nei fienili. I suoi occhi azzurri, che guardavano di traverso sotto
le sopracciglia biancastre, avevano il sorriso semicieco di un albino22. Portava con sé una cassetta di legno come una recluta dell’esercito, e un pacco
avvolto in carta marrone. Invece di corrergli subito incontro, rimasi immobile, a bocca aperta. Il portamento del dorso era leggermente curvo,
non come quello di uno studente yeshivah23, ma piuttosto di chi è abituato
a portare sulle spalle carichi pesanti. Assomigliava a me, ma riconobbi alcune caratteristiche di sua madre, l’altra metà che non poté mai fondersi
con la mia. Persino in lui, che era il prodotto di noi due, non armonizzavano le nostre caratteristiche contrastanti. Le labbra della madre non si accordavano con il mento del padre. Gli zigomi sporgenti non s’intonavano
con la fronte alta. Egli si guardò intorno attentamente e il suo volto diceva
bonario: «Naturalmente, non è venuto a incontrarmi».
Mi avvicinai e domandai incerto: – Atah Gigi?
Egli rise. – Sì, sono Gigi.
Ci baciammo e la sua barbetta ispida mi raspò le guance come una grattugia. Era un estraneo per me, eppure nello stesso tempo sapevo che gli
ero devoto come lo è il padre verso il figlio. Rimanemmo immobili con
quella sensazione di appartenerci reciprocamente, che non ha bisogno di
parole. In un attimo seppi come dovevo trattarlo. Aveva servito tre anni
nell’esercito, aveva combattuto una guerra crudele. Doveva avere avuto
22. L’albino è chi, per via
ereditaria, ha un difetto di
produzione della melanina
nella pelle, negli occhi e nei
capelli. Per questo un
albino ha pelle e capelli
molto chiari e occhi di un
azzurro molto pallido.
23. Cfr. nota 5.
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chi sa quante ragazze, ma era rimasto timido quanto può esserlo un uomo.
Gli parlai in ebraico, piuttosto meravigliato io stesso della mia conoscenza
della lingua. Acquisii immediatamente l’autorità di un padre, e tutte le mie
inibizioni svanirono. Volevo prendere la sua cassetta di legno, ma egli non
me lo permise. Indugiammo a cercare un tassì, ma tutti se n’erano già andati. La pioggia era cessata. La strada lungo il porto si stendeva umida,
scura, malamente pavimentata, l’asfalto tutto buche e pozze d’acqua che riflettevano lembi di cielo luminoso, un cielo basso e rosso come una cappa
di rame. L’aria era soffocante. Guizzavano lampi senza tuoni. Cadeva qualche rara goccia d’acqua, ma era difficile sapere se erano le ultime della cessata pioggia, o le prime di un nuovo acquazzone che incominciava. Il fatto
che New York si mostrasse a mio figlio così cupa e triste feriva il mio orgoglio. Avevo la sciocca ambizione di fargli vedere subito i quartieri più belli
della città. Ma attendemmo un quarto d’ora e nessun tassì comparve. Si
sentivano già i primi fragori dei tuoni. Dovevamo rassegnarci ad avviarci a
piedi. Parlavamo tutti e due con lo stesso stile, breve e tagliente. Come vecchi amici che conoscono i reciproci pensieri, non avevamo bisogno di lunghe spiegazioni. Mi diceva senza parole: «Capisco che non potessi stare
con mia madre. Non ho rimostranze. Anch’io sono fatto della tua stessa
pasta...».
Gli domandai: – Che tipo di ragazza è quella di cui mi hai scritto?
– Una brava ragazza. Ero il suo consigliere nel kibbutz. Poi andammo insieme nell’esercito.
– Che cosa fa nel kibbutz?
– Lavora nei granai.
– Ha studiato almeno?
– Siamo andati insieme alle scuole superiori.
– Quando vi sposerete?
– Al mio ritorno. I suoi genitori pretendono un matrimonio ufficiale.
Lo disse in un modo che significava: «Naturalmente, noi due non abbiamo
necessità di simili cerimonie, ma i genitori delle ragazze hanno una mentalità diversa».
Feci un cenno a un tassì di passaggio ed egli quasi protestò.
– Perché un tassì? Potevamo camminare. Posso camminare per miglia.
Dissi all’autista di condurci oltre la quarantaduesima strada, verso la parte
illuminata di Broadway, e poi di voltare nella quinta strada. Gigi sedette
guardando fuori dal finestrino. Non fui mai tanto orgoglioso dei grattacieli
e delle luci di Broadway quanto quella sera. Egli guardava e taceva. Intuii,
non so come, che stava pensando alla guerra contro gli arabi, e a tutti i pericoli ai quali era sopravvissuto sul campo di battaglia. Ma le forze che reggono il mondo avevano stabilito che dovesse venire a New York a vedere
suo padre. Era come se sentissi i suoi pensieri passare dietro la sua fronte.
Certo, anche lui, come me, stava ponderando gli eterni interrogativi.
Quasi per provare le mie forze telepatiche, gli dissi:
– I casi fortuiti non esistono. Se è detto che devi vivere, resti vivo. È destino che sia così.
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Volse il capo e mi guardò meravigliato:
– Ehi, leggi nel pensiero, tu!
E sorrise, stupito, incuriosito e incredulo, come se gli avessi paternamente
giocato uno scherzo.
Il figlio, in Un amico di Kafka, Longanesi, Milano 1987
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STRUMENTI DI LETTURA
Il personaggio
narratore
Poiché l’intera vicenda è osservata dal
punto di vista dell’io narrante, emerge in
primo piano la psicologia del narratore, il
suo proprio modo di vedere la realtà. Con
un profondo senso di estraneità, egli
sente di appartenere a un’epoca passata,
non più in sintonia con i modi di vita che
vede praticati in terra americana. Persino
coloro i quali, in attesa come lui sul molo,
recano evidenti i segni della propria appartenenza religiosa, sembrano dimostrare una modernità che non gli appartiene. Come l’unica fotografia del figlio
in suo possesso è «sfocata», egli stesso dichiara di non avere «un’immagine chiara» del giovane, il quale emerge dal passato «come un fantasma». La folla eterogenea in attesa della nave gli appare un
campionario dell’intera umanità, «gente
che ha perduto il senso della misura per
quanto riguarda le conquiste terrene»,
ma mentre tutti sembrano diventare «una
sola famiglia», egli si sente un estraneo,
anzi, «uno spettro». L’attesa del figlio si
tramuta così in un tempo di riflessione su
di sé, in cui hanno parte l’appartenenza
culturale e religiosa ebraica, ma anche, in
senso più lato, il significato e lo scopo
dell’appartenenza al genere umano fino a
domandarsi: l’Onnisciente sa tutto, «ma
che cosa debbo fare io con le mie briciole
di realtà?». Disorientato, senza un valido
punto di riferimento in questo mondo
«sfocato», il personaggio-narratore troverà nell’incontro col figlio le ragioni per
tornare a confrontarsi lucidamente e positivamente con la realtà.
Il tempo
Il racconto intreccia magistralmente due diverse dimensioni tem-
porali, il tempo reale che il personaggio-narratore trascorre sul molo in attesa della nave, e il tempo interiore
della memoria, delle riflessioni sulla vita, sul passato, sui misteriosi, insondabili legami che collegano al «tutto» le
«briciole di realtà» di cui dispone. Le
sue vicende personali, quelle della ex
moglie, del figlio lontano, che ora è
cresciuto e ha combattuto in guerra,
s’intrecciano con le vicende collettive
del popolo ebraico. È il tempo della
meditazione sul contrasto tra il passato
e il presente, tra l’antica fede dei padri
che ancora sopravvive nei segni esteriori degli ebrei ortodossi e il destino
delle nuove generazioni, costrette a difendere con le armi la sopravvivenza di
Israele.
Le tecniche
narrative
Oltre che sul piano temporale, anche
dal punto di vista narrativo il racconto
appare suddiviso in due parti. La prima
è costruita come un lungo, ininterrotto
monologo interiore, attraverso il quale
conosciamo il modo di pensare del protagonista, il suo punto di vista sul
mondo, i suoi sentimenti. Nel secondo,
scandito per lo più dal dialogo diretto
tra padre e figlio, si scioglie, per così
dire, la cupa tensione accumulatasi nella
prima parte in cui dominano le riflessioni sul senso di estraneità, l’ossessione
dell’olocausto e l’angoscia per quello
che potremmo definire “il silenzio di
Dio”. Il dialogo ha la funzione di un’apertura al mondo, di una liberazione
dalle ossessioni personali: parlare è andare finalmente verso «l’altro» e, non a
caso, il racconto si chiude sul sorriso del
figlio.
V. Jacomuzzi, R. Miliani, F.R. Sauro, Trame - Dalla comprensione del testo alla scrittura © SEI 2010
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DOMANDE DI VERIFICA
1
“A me tutta quella gente pareva mondana e scaltra”. Così dice il narratore osservando la folla in
attesa dello sbarco della nave, all’inizio del racconto. Sulla base dei contenuti del testo, quali motivi spingono il protagonista a fare questa considerazione?
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2
“Avevo già aperto la bocca per chiamare ‘Gigi’, come sua madre ed io lo chiamavamo da bambino, quando improvvisamente un donnone caracollò verso di lui e lo serrò tra le braccia. [...] Mi
avevano portato via un figlio che non era mio!”.
Questa breve sezione del testo significa che:
a Una donna riconosce erroneamente il figlio del protagonista come suo e si allontana con lui.
b Il protagonista non riesce a riconoscere suo figlio.
c Non è semplice per il protagonista riconoscere il figlio; pensa di averlo identificato, ma poi invece vede che non è così.
d Il figlio del protagonista non è sulla nave.
3
Durante l’attesa del figlio, una delle preoccupazioni più importanti del protagonista è di non sapere in quale lingua potrà conversare con lui. Facendo riferimento a tutti gli elementi a tua disposizione nel testo, per quale motivo questo aspetto risulta così problematico per il protagonista?
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4
“Che cos’è un figlio, in fondo? Che cosa rende il mio seme più importante per me che per un
altro? Che valore ha un legame di sangue e di carne? Siamo tutti schiuma dello stesso calderone.
Se retrocedi di un certo numero di generazioni scopri che probabilmente tutta questa folla di sconosciuti ha avuto un avo in comune. E fra due o tre generazioni i discendenti di coloro che ora
sono parenti saranno estranei”.
In questa parte del testo si può distinguere tutta la paura del protagonista di incontrare suo figlio.
Sapresti giustificare questa interpretazione?
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5
Leggi le seguenti affermazioni e indica se a tuo giudizio risultano vere o false, sulla base dei contenuti del racconto:
a La madre del ragazzo che sta arrivando, almeno da un certo momento in avanti,
ha allevato il figlio in un kibbutz.
b Il vero aspetto del figlio è molto diverso dall’immagine sfuocata della fotografia
che il padre aveva con sé.
‘V
F
‘V
F
c L’aspetto del volto del figlio appare al padre come una copia fedele di quello della
madre; non riconosce invece tratti propri.
‘V
d Il modo di comportarsi e di muoversi del ragazzo era composto e curato.
‘V
e Il ragazzo aveva combattuto nell’esercito di Israele e aveva compiuto anche lavori
pesanti.
f Dopo qualche domanda del padre il figlio dice di essere fidanzato e che tra
poco si sposerà.
6
F
F
‘V
F
‘V
F
Considera come il protagonista del racconto cambi la sua prospettiva nel vivere la paternità di un
figlio lontano, dal momento in cui lo aspetta, a quello in cui lo incontra e infine gli parla e lo
ascolta: si può dire che ci sia un’evoluzione radicale nel personaggio? O si può affermare che in lui
era sempre esistito il sentimento di paternità e che egli scopre soltanto di possederlo, nel momento in cui vede il figlio? Giustifica i due punti di vista argomentandoli.
Primo punto di vista: ..........................................................................................................................................................................
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Secondo punto di vista:
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anno 1970
Giorgio Scerbanenco
luogo
Italia
Villa della
disperazione
genere
racconto
realistico
Presentazione dell’opera
La fama di Scerbanenco come giallista è affidata alla tetralogia incentrata su Duca Lamberti, esperto della nuova criminalità dell’hinterland milanese, caratterizzata da una notevole violenza. Alla produzione romanzesca lo scrittore ha affiancato un cospicuo
numero di racconti, spesso brevissimi e dall’effetto fulminante. Villa della disperazione appartiene al ristretto numero di quelli che
non sono ambientati a Milano o comunque nel nord industrializzato. Al di là dell’impianto narrativo giallo o noir, i suoi romanzi e
racconti appaiono oggi come un amaro e disincantato spaccato degli anni Sessanta, che svelano un’Italia difficile, avida, cattiva e
disillusa, ben lungi dalla solita immagine edulcorata degli anni del cosiddetto “miracolo economico”. «Le storie che racconta Giorgio Scerbanenco non sono storie delicate, sono storie nere, nerissime, storie di delitti efferati, di sentimenti abbietti, di trasgressioni e devianze, di bassifondi bruti e di ambienti alti anche peggio. Sono storie ambientate in un’Italia di ieri che non ha quasi
niente di diverso da quella di oggi, perché potere e politica, delitti e passioni, mafia e criminalità più o meno o per niente organizzata sono ancora gli stessi» (Carlo Lucarelli).
Giorgio Scerbanenco
Vladimir Giorgio ·čerbanenko, poi italianizzatosi in Giorgio Scerbanenco, nacque a Kiev nel 1911 da madre italiana e padre ucraino. A sedici anni si trasferì
a Milano dove praticò svariati mestieri prima di approdare all’editoria, ricoprendo importanti incarichi redazionali e direttivi presso noti settimanali femminili. Scrittore straordinariamente prolifico e versatile, esordì come romanziere nel 1935 e quando scomparve prematuramente al culmine del successo,
nel 1969, aveva al suo attivo innumerevoli racconti e più di sessanta romanzi
(altri ancora furono pubblicati postumi). Famoso soprattutto come autore di
romanzi “rosa”, molto in voga negli anni Cinquanta e Sessanta, diede tuttavia
il meglio di sé nel genere giallo e noir, tanto da essere oggi considerato un maestro del genere. Venere privata (1966), Traditori di tutti (1966), I ragazzi del massacro (1968) e I milanesi
ammazzano al sabato (1969), costituiscono un ciclo il cui protagonista è Duca Lamberti, ex medico dalla
profonda umanità che diventa una sorta di investigatore privato, a contatto con i risvolti più torbidi e
spietati della vita metropolitana. Scerbanenco è stato anche uno straordinario autore di racconti, talora
brevissimi ma sempre di fulminante intensità, recentemente raccolti in varie edizioni (Uccidere per amore.
Racconti 1948-1952, Racconti neri, Il cinquecentodelitti). A tutt’oggi, Scerbanenco è l’unico autore italiano
a essersi aggiudicato, con Traditori di tutti, il prestigioso “Gran Prix de la littérature policière”, che dal
1948 viene ogni anno assegnato in Francia al miglior romanzo giallo. Alla sua memoria è dedicato anche
il premio più importante per la narrativa gialla italiana, il “Premio Scerbanenco”.
La vecchia Alfa1, attraversato il caos costruttivo di San Giovanni a
Teduccio2, lasciò la strada borbonica3 e prese quella che conduceva
al Vesuvio, di cui nella chiarità del pieno mattino di giugno si vedeva l’aggraziata e pur minacciosa mole.
Al volante c’era un giovane con un grosso ciuffo di capelli neri che gli ricadeva in mezzo alla fronte, e vicino a lui c’era come il suo contrario, un
L
5
1. Si tratta di un modello della Alfa Romeo, ditta
produttrice di automobili del gruppo FIAT. Così anche per
quanto riguarda la Giulietta, citata poco più avanti nel
racconto.
2. San Giovanni a Teduccio è un quartiere della periferia di
Napoli; prima paese autonomo, venne aggregato alla città
durante il fascismo e, pur mantenendo alcuni aspetti
dell’antico borgo, ha avuto uno sviluppo poco coerente per
via della speculazione edilizia.
3. Molte delle strade presenti nel sud italiano erano state
fatte costruire durante la dominazione dei Borboni,
regnanti sulle Due Sicilie dal 1734 all’Unità d’Italia.
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4. Ferdinando Sanfelice fu
un architetto del XVII
secolo, di famiglia nobile
napoletana, che realizzò
molti edifici sia civili sia
religiosi nell’area campana,
secondo lo stile barocco.
5. Le ringhiere dei balconi
durante l’età barocca erano
talvolta fatte in ferro
battuto e ricche di motivi
ornamentali come foglie,
fiori, piccoli animali,
creature fantastiche.
6. Sinonimo di anticamera,
cioè un locale che precede
la zona effettivamente
abitata della casa.
7. Il lavabo, fatto in ferro
battuto con una catinella
nella parte superiore e una
brocca che conteneva
l’acqua nella parte
inferiore, era in uso nelle
camere da letto per fare la
toilette personale; è un
altro indizio del fatto che
nella casa mancano le
comodità proprie dell’età
contemporanea, come
l’acqua corrente.
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uomo anziano, ma grosso, tutto robusto e tutto rapato in testa. Nei sedili
dietro c’era un uomo di neppure trent’anni con un maglione grigio scuro
dal collo alto fino al mento perché quel giugno anche a Napoli fece freddo,
era bruno, ma dai capelli tagliati cortissimi, meno di un dito, e, anche se era
rasato da poche ore, aveva una maschera violacea sulle guance. Vicino a lui
una donna giovanissima, bionda, boccheggiava al finestrino aperto, l’abito
premaman, per quanto largo fosse, aderiva ormai strettissimo al suo ventre
enorme di gestante all’ultimo giorno. Dopo una svolta quasi a L, l’Alfa
fermò di colpo davanti alla villa. La villa era tutta recintata da una staccionata, all’ingresso c’era un grande cartello: Ministero della Pubblica Istruzione.
Sovrintendenza ai monumenti della Campania. Restauro e ripristino delle ville
settecentesche vesuviane. L’ingresso è consentito soltanto alle autorità competenti.
Non è permessa alcuna visita.
L’uomo rapato lesse il cartello senza parlare e senza parlare tutti scesero. Il
ragazzo col ciuffo dette un piccolo colpo di clacson, poi slegò i numerosi
bagagli che erano sul tetto dell’Alfa. Non c’era nessuno sullo stradone, l’aria era polverosa di microscopiche faville che piovevano dalle falde del Vesuvio spazzato da un vento abbastanza forte e freddo.
Al brevissimo, quasi inesistente colpo di clacson il portello della staccionata si aprì e vennero avanti una donna e un uomo, anziani ma dall’aspetto
robusto, e una ragazza alta, dal viso pallido, dai capelli bruni, lunghi, tutti
in disordine, da una gonna rossa cortissima, ma spiegazzata e stracciata.
Senza parlare, la vecchia donna andò a sostenere la giovane gestante, mentre il vecchio e la ragazza presero le molte valigie che erano sul tetto della
vettura, escluse due che, con un gesto imperioso, il vecchio robusto dalla
testa rapata volle portare lui.
«Sbrighiamoci,» disse il ragazzo col ciuffo, «prima che qualcuno ci veda.»
Attraversarono lo stradone in fretta e furono tutti al riparo un momento
dopo dietro la staccionata che circondava la villa, senza che si fosse visto un
passante o un’auto.
La villa sembrava dovesse crollare da un momento all’altro, i due portali
disegnati dal Sanfelice4 erano spariti, così le preziose ringhiere panciute e
fogliute dei quattro balconi5, e delle preziose persiane dell’epoca non esisteva neppure il ricordo: finestre e balconi erano tappati da assi di legno.
Percorso il lungo androne arrivarono nel cortile con porticato e, a sinistra,
entrarono nel vasto anticamerone di servizio, buio come una cantina, la
luce filtrava soltanto da due grandi finestre tappate però dalle assi di legno
e a destra di questa area di disbrigo6 entrarono nella cucina. Una cucina del
tardo seicento, grande come una vasta sala da ballo di oggi, con un camino
alto due metri, il soffitto che recava ancora qualche traccia di affreschi di
cani che inseguivano la selvaggina, fagiani, lepri, uccellini.
«Di qui, signori,» disse la vecchia. Aprì una porta ed entrarono in una
stanza ancora più vasta della cucina. Le finestre non erano chiuse dalle assi
di legno, ma da polverosi vetri e rozze imposte non verniciate. In quell’immensità, il letto matrimoniale, l’altro letto singolo, un armadione, enorme
e sgangherato, un lavabo con la brocca e il catino7, un tavolino e due sbrin-
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dellate poltrone, si sperdevano come pochi chicchi di riso in una grande
scodella.
«Signora, stendetevi qui un poco,» disse la vecchia alla giovane, nel suo
morbido, grasso napoletano. Aiutò la donna incinta, viola in viso, a mettersi sul letto. «È un letto molto morbido, mio marito dice che è troppo
morbido, che fa fatica a dormirci.»
Erano entrati anche il vecchio e la ragazza con le valigie, insieme col giovanotto dal ciuffo che aveva guidato l’Alfa.
«Mandali via,» disse il grosso uomo rapato al ragazzo col ciuffo. «Tu resta
qui, dobbiamo parlare.»
Senza parole, con un gesto e uno sguardo, il ragazzo ordinò ai tre di uscire
e chiuse la porta dietro di loro.
Il vecchio gli andò davanti. Con la mano gli indicò una delle poltrone.
«Siediti.» Così lo dominava meglio. «Che posto è?»
«È il posto più sicuro, signo’, qui non vi trova nessuno,» disse il ragazzo,
anche lui evidentemente napoletano.
«Perché?»
«Perché è un monumento nazionale...» disse il ragazzo, «avete visto la
staccionata e il cartello? Nessuno va a pensare che qualcuno si voglia nascondere qui, infatti nessuno ci si è mai nascosto.»
«Chi ha pensato a questo nascondiglio?» disse il grosso vecchio, incombendo su di lui.
«Gli amici…» disse il ragazzo, dette un’inflessione speciale alla parola
amici. «Siete con una signora che aspetta un bambino, non potevamo tenervi a Napoli, troppo vistoso. Allora abbiamo pensato qui, è l’angolo più
deserto della zona.»
«Chi sono quei due vecchi e la ragazza?» disse il grosso.
Fece segno di no all’uomo col maglione dal collo alto fino al mento, che
aveva preso una bottiglia di whisky da una valigia e gliene offriva un po’ in
un bicchiere di metallo, dette un’occhiata alla donna distesa sul letto che
invece beveva bravamente dalla bottiglia.
«Sono i custodi della villa. La ragazza è la loro figlia, ed è la mia fidanzata,» disse caldamente il giovane col ciuffo. «Per questo gli amici mi
hanno detto: “Tu hai la passione, lassù, in quella villa, e allora portali
lassù”. Sono gente brava, dovete stare sicuro, dotto’,» cominciò a chiamarlo dottore per quanto con quella faccia non desse troppo la sensazione
del dottore.
La grande camera era illuminata da due sole finestre e quindi, nonostante
la mattinata così luminosa, era piena di ombre. L’uomo in maglione era seduto sul letto vicino alla giovane donna, fumavano tutti e due quei robusti
sigaretti, e dopo tutto il whisky lei, invece di vomitare, pareva che stesse
molto bene, e aveva un dolce color fragola in viso.
«Come ti chiami?» disse il vecchio.
«Fiorello,» disse il ragazzo.
«Io mi chiamo Gennaro. Se non ci credi, fai male,» disse il grosso, si frugò
sotto la giacca, come avesse prurito, e ne tirò fuori una grossa browning8.
8. Browning è in realtà il
nome della ditta
produttrice dell’arma, non
del modello.
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9. Non si tratta
evidentemente degli scavi
di Pompei. La battuta
ironica di Fiorello intende
dire che la villa è un
rudere, come appunto le
case scavate a Pompei.
10. Ovvero un medico
ginecologo, in grado di fare
nascere i bambini
(cavapupi, ovvero in
dialetto prendi-bambini,
dal ventre della madre).
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«Sono più napoletano di te anche se da quarant’anni vivo a New York e
parlo l’italiano così male.» Alzò la voce rabbiosamente, urlò addirittura:
«Alzati!».
Lentamente, non per svogliatezza, ma per terrore, Fiorello si alzò, cercando di non guardare la piatta canna della rivoltella.
«Ascoltami, Fiorello,» disse Gennaro, «tu mi sei stato raccomandato dagli
amici di laggiù. Mi hanno dato la tua fotografia a New York, e a Capodichino, quando siamo scesi dall’aereo, tu eri lì ed eri quello della fotografia.
Ti ho chiesto: “Lei è dell’agenzia alberghiera?” e tu hai risposto, secondo
la parola d’ordine: “Sì, dell’hotel Continental”. Tutto questo va bene, ma
io prima di fidarmi sto attento.» Alzò la browning, gliel’appoggiò sulla
pelle, sotto il mento, costringendolo ad alzare il viso. «In questo posto ci
sono molte cose che non mi piacciono. Per esempio non c’è il telefono.»
«Dotto’,» si lamentò Fiorello, «ma in questi scavi di Pompei9 cosa volete
che mettano il telefono? È solo questione di pochi giorni, poi vi troviamo
la casa degna di voi, dotto’.»
Gennaro abbassò la rivoltella, ma la tenne sempre in mano.
«Poi non mi piaci tu. Sei troppo giovane, l’ho detto anche a New York
quando mi hanno dato la tua fotografia, per una cosa così grossa. Mi
hanno assicurato che posso fidarmi, ma non mi piaci lo stesso.» Alzò di
nuovo la rivoltella verso il suo viso, guardò un attimo l’uomo in maglione
che si era disteso sul letto accanto alla donna. «Ti assicuro che, se sbagli,
se servi due padroni, se prendi soldi da noi e poi vai a informare la polizia,
non ti salverai più, e non solo tu, ma tua madre, tuo padre, la tua ragazza,
tua sorella. Siamo venuti qui per questo, ci sono troppi figli di Giuda intorno a noi, e siamo venuti a sistemarli.»
«Dottore, io non le faccio certe cose.»
«Sarà,» disse il grosso. «E poi non mi piace che non ci sia la luce elettrica.
Qui di notte ci infilzano come tordi allo spiedo.»
«Dotto’, qui non c’è mai stata la luce elettrica, sono ville di tre, quattro secoli fa. Ma ci sono i lumi a petrolio e le candele, e poi nessuno si sogna di
venire qui, state sicuro, dotto’, parola.»
L’altro si rimise la rivoltella dentro la camicia.
«Adesso cerca di ricordarti quello che mi occorre subito, e portamelo subito.»
In quel momento la donna distesa sul letto ebbe una specie di breve rantolo.
Il vecchio, con voce d’improvviso tenera, raucamente dolce, le si rivolse:
«Cos’hai, cara?».
«I dolori, papà, diventano sempre più forti,» disse lei.
«Il dottore verrà subito,» la rassicurò lui, poi la sua voce ritornò dura e si
rivolse al ragazzo napoletano. «Te l’ho già detto prima in macchina: mi
occorre subito l’ostetrico.»
«Sì, dottore, lo teniamo il cavapupi10, gli amici lo sapevano che arrivavate
con la signora così.»
«Subito vuol dire subito, ragazzo.»
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«Sì, dotto’, fra un’ora arrivo qui col cavapupi.»
«E mi occorrono due auto.»
«Due, dotto’?»
«Non molto grandi, ma veloci. E subito. Quando vieni qui con l’ostetrico
devi portare anche le due auto, col serbatoio pieno.»
«Piccole, ma veloci,» rifletté a voce alta il ragazzo. «Due Giuliette forse
vanno bene.»
«Non conosco le auto italiane, ma voglio che facciano almeno i centosessanta.»
«Va bene, dottore.»
«Sono le undici e tre quarti. All’una meno un quarto devi essere qui col
dottore. Se succede qualche cosa a mia figlia perché tu ritardi, è meglio
che ti tagli la gola da solo.»
«No, dotto’, sono qui anche prima di un’ora.» Il ragazzo era lucido di sudore.
«E porta questo messaggio agli amici, ricordati bene le parole.»
«Sì, dotto’.»
«Questo è il messaggio: “voglio subito casa con telefono”.»
Quello voleva tutto subito, pensò il ragazzo.
«E adesso voglio la cosa più importante: il numero di telefono dell’amico
più grosso, e tutti e due sappiamo chi è.»
«Sì, dotto’, ve lo scrivo subito.»
Lo sapeva a memoria, aveva in tasca dei foglietti sparsi, consunti, sgualciti,
e una matita che si passò tra le labbra per inumidirla. Era un numero facile
da ricordare, 35.25.65, e scrisse il numero sul foglietto, ma arrivato alla
quinta cifra sbagliò, non si accorse che invece di scrivere 6 aveva scritto 5,
così consegnò al vecchio, la mano tremante per l’agitazione, il foglietto
con scritto questo numero sbagliato: 35.25.55.
«Adesso va’ via e fa’ presto,» disse il vecchio.
Solo quando fu fuori, sulla strada, il ragazzo riprese a respirare normalmente. Era la prima volta che veniva in contatto con gli americani, era
stata una prova di fiducia che gli avevano dato, ma un po’ pesante. Coi
suoi padroni napoletani si sentiva molto più sicuro, ma di questi stranieri
e delle loro rivoltelle aveva paura. E bisognava far subito subito. Si mise al
volante dell’Alfa, girò la macchina e discese verso Napoli, continuava a
pensare che doveva trovare il cavapupi, subito subito, e poi le due Giuliette, subito subito, che strano che a mezzogiorno, a Napoli, e in giugno,
dovesse fare freddo, tirò su il finestrino dalla sua parte e senza accorgersene continuava a premere l’acceleratore, finché, come era prevedibile,
appena arrivò sulla via borbonica, due militi della strada11 alzarono il loro
palettino irritante e gli fecero segno di fermarsi, coi loro irritanti caschi, le
loro irritanti moto appoggiate al muro, e le loro irritanti facce.
Il ragazzo col ciuffo, Fiorello, era un napoletano verace, e un napoletano
verace se nell’orecchio ha il rombo di cento “subito, subito, subito”, non
resiste a tante cose irritanti insieme. E infatti non resisté. Invece di fermarsi all’intimazione, accelerò, schizzò via nel traffico convulso di San
11. Ovvero due vigili
urbani oppure due agenti
della polizia stradale.
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12. Fedele Fischetti è un
pittore del Settecento
napoletano, che affrescò
edifici di culto e palazzi
civili, tra cui anche molte
parti della reggia di
Capodimonte, della
residenza reale e della
reggia di Caserta.
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Giovanni a Teduccio in quell’ora convulsa vicino all’ora di colazione. Era
impossibile che ce la facesse, e infatti non ce la fece. Un bambino che era
caduto di bicicletta rompendo il fiasco di vino che teneva in mano e che
piangeva, lì, in mezzo alla strada, lo bloccò, e dallo specchietto lui vide arrivare come un proiettile uno dei motociclisti.
«Vieni fuori.»
Il ragazzo guardò il bambino che si rialzava, fradicio di vino rosso e di lacrime, e scese. Dette al milite la patente e il libretto. Arrivò anche l’altro
milite.
«Perché sei scappato?»
«Avevo fretta.»
Il milite si trattenne i documenti.
«Sali, e seguici,» disse. «E sta’ tranquillo.»
«Tranquillissimo,» disse lui colando sudore dalla fronte al rimbombo di
quella voce nelle orecchie: “Subito, subito, subito.”
La prima mezz’ora l’italo-americano Gennaro la passò a ispezionare la villa.
Il vecchio custode, con un lume a petrolio in mano, lo condusse al piano superiore e alle soffitte, o stanze, a quei tempi, per la servitù. Il lume a petrolio era necessario perché di sopra tutte le finestre erano sbarrate da assi di
legno. La larga scala era senza l’arabescata ed elaborata balaustra di bronzo,
bisognava stare attenti perché non sempre i gradini si mostravano sicuri, sul
primo e sul secondo pianerottolo si erano aperte due falle, due grossi buchi
dai quali s’intravedeva il vago chiarore dell’anticamera sottostante.
«Dotto’, attento a dove mettete i piedi,» diceva il custode.
Al piano superiore vi erano due grandi saloni e quattro stanze. Anche qui
vi erano dei buchi nel pavimento, e anche nel soffitto. Pezzi di muro cadevano un po’ da per tutto, sempre semplici scaglie, ma era una pioggia
continua. In uno dei saloni vi era ancora un massiccio, lungo tavolo dell’epoca, evidentemente non era stato rubato soltanto per la sua mole e la
sua pesantezza. E a tutte le pareti si vedevano ancora, in ogni stanza o salone, le larghe chiazze di affreschi del Fischetti12, gentili vergini nude
nelle volute ariose e geometriche delle decorazioni, con fantastici paesaggi
sullo sfondo, monti sui quali si ergevano leggiadre rocche, e cani da caccia
che inseguivano la selvaggina in irreali foreste.
Gennaro guardò tutto senza capire, guardò il grande lampadario penzolante pericolosamente dal soffitto.
«Una volta c’era la luce elettrica,» disse indicandolo con la browning, che
teneva in mano.
«No, signore, quello è un lampadario a candele.»
«Di sopra cosa c’è?»
«Le soffitte. Il tetto è molto rotto, si sta sfasciando tutto, sono due anni
che hanno messo quel recinto col cartello intorno alla villa, ma non hanno
ancora fatto nulla. Sono venuti un paio di volte, forse a controllare che la
villa sia ancora in piedi, ma io ho paura a starci, qualche notte magari ci
casca tutto addosso.»
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Gennaro ispezionò anche le soffitte, e solo quando fu sicuro che nella villa
non c’era nessuno tornò da basso nella stanza dove erano sua figlia e il genero.
Tina dormiva.
«È ubriaca fradicia,» disse l’uomo in maglione. «Non resiste alle doglie,
adesso le ha ogni quarto d’ora, ma non si sveglia neppure, si lamenta un
po’. Il bambino nascerà sbronzo.»
«Non c’è nessuno nella villa, Charlie,» disse Gennaro.
Charlie aveva un viso da duro, ma non da bruto, i suoi occhi, anzi, esprimevano intelligenza, acume, se avesse portato gli occhiali sarebbe sembrato un giovane e aitante professore.
«Figurati che consolazione,» disse acre. «Avrai tempo di incontrare tanti
poliziotti da non poterli contare. Non si va in giro a fare i gangster con
una donna gravida appresso.»
«Io non lascio mia figlia sola in un momento come questo. E tu che sei
suo marito dovresti pensare come me.»
«No, non posso pensare che Tina abbia il bambino qui, in questa catapecchia, in questo letto,» Charlie alzò la voce, guardò il suocero con odio,
«non ci farei dormire il gatto, su queste lenzuola, su questo cuscino…»
«Forse non nasce subito, domani o dopo ci sistemeranno in una casa migliore.»
«No, nasce qui, fra poche ore, le doglie sono sempre più fitte. Senti,»
disse Charlie.
Pur nel sonno dell’ubriachezza Tina si mosse convulsamente e lanciò una
specie di ululato, poi respirò profondamente e ricadde in quella specie di
coma.
«Adesso guarda l’orologio, fra dieci minuti gliene verrà un’altra, poi
gliene verranno ogni cinque minuti e allora ci vuole subito il medico.»
«Sta arrivando,» disse Gennaro.
All’una e mezzo non era arrivato nessuno. Alle due neppure, alle due e
mezzo Tina si svegliò urlando e Charlie dovette metterle una mano sulla
bocca. Le dettero ancora tanto whisky da narcotizzarla, e lei si riaddormentò.
Gennaro guardò l’orologio.
«Vado a telefonare.»
Charlie si accese uno dei sigaretti che gli erano rimasti.
«E a chi telefoni? Non hai ancora capito che ti hanno tradito? Siamo venuti qui per vedere se tradivano, e adesso lo sappiamo.»
«Vado a telefonare lo stesso.»
Aprì una delle due valigie che aveva voluto portare personalmente lui:
c’era parecchia roba, quattro cinture caricatori per la browning, due pistole mitragliatrici e due mitra smontati in due. Sul fondo c’erano le scatole, tre, coi candelotti di nitroglicerina, ne aprì una e si mise due candelotti in tasca, prese una cintura caricatore e se l’allacciò alla vita. Sembrava
un po’ più grosso, ma era già abbastanza grosso per non destare sospetti.
Un uomo così equipaggiato, e deciso a usare il suo equipaggiamento, è un
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po’ difficile da prendere. Charlie non disse nulla e non lo guardò neppure
molto: il vecchio gli faceva pena, gli faceva pena sua moglie schiacciata da
un tiranno così spietato e aveva anche pena di se stesso. Ma era nato in
quell’ambiente, e doveva viverci. Gennaro risolveva tutto sparando. Anche
quando parlava senza puntare la rivoltella era implicito che se qualcuno
non fosse stato del suo parere, avrebbe sparato. Facesse pure.
Il vecchio si tolse la rivoltella da sotto la camicia ed entrò di colpo nella
stanza accanto, la grande cucina: c’era la ragazza che sembrava una zingara
che stava ascoltando una radio a transistor, e al tavolo c’erano sua madre e
suo padre che discutevano, con un fiasco di vino in mezzo a loro. Puntò la
rivoltella contro di loro.
«Devo telefonare. Quanto è lontano il telefono più vicino?»
Il custode si alzò.
«Signo’, non sparate, noi non vi abbiamo fatto niente.»
«Dov’è il telefono più vicino!» urlò selvaggiamente Gennaro. «Se no,
sparo davvero.»
«È più su, verso il Vesuvio,» disse il custode, frustato da quell’urlo, «c’è
un ristorante per i turisti che vanno fino in cima, lì c’è il telefono.»
«Allora mi ci accompagni, e subito. Voi due starete qui in camera col mio
genero,» le sospinse malamente nella stanza. «Vado a telefonare. Sta’ sicuro che torno. Se non torno, sai cosa devi fare,» disse a Charlie.
Oh, sì, lo sapeva, doveva uccidere le due donne. I traditori devono morire, sì, verissimo, ma a che serviva?
«Sì, lo so,» disse Charlie.
Guardò Gennaro che usciva col custode, richiuse la porta e, con lo stile
desiderato da suo suocero, levò dalla cintura la rivoltella e la tenne puntata
contro le due donne.
«Sedete nelle poltrone e non seccate.»
Carezzò con la sinistra il viso umidiccio di Tina. Dormiva tranquilla.
Guardò l’orologio: erano più di venti minuti che non aveva la doglia.
Forse aveva ragione il suocero, poteva essere un falso allarme.
Dopo un’ora e mezzo, Gennaro non era ancora tornato. Tina non sudava
più, continuava a dormire e ogni tanto rabbrividiva, e non aveva più avuto
nessuna doglia. Chiese delle altre coperte alle due donne, ma Tina continuò lo stesso a tremare.
Dopo un’ora e tre quarti, Gennaro tornò, rientrò nella stanza spingendo
avanti il custode.
«Mi hanno dato un numero di telefono falso,» disse con una voce senza
rabbia ma cattiva, spietata. «Ho chiamato venti o trenta volte, risponde
uno che non ha niente a che fare col nostro amico. Siamo dentro la trappola. Bisogna uscirne subito perché fra poco arriverà la polizia.»
Era logico, pensò anche Charlie, avevano tradito, avevano voluto liberarsi
dagli ispettori che venivano da New York.
«Mamma santissima, guardate sotto il letto, signo’, quello è sangue, si
sente anche l’odore,» disse la moglie del custode. Charlie guardò subito:
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da sotto il letto usciva e si allargava una spessa macchia di liquido scuro lucido che subito diveniva opaco. Si curvò a guardare. Il sangue gocciava dal
sotto del materasso, allora Charlie sollevò un attimo le coperte e il lenzuolo che coprivano Tina, e la ricoprì subito stringendo i denti dalla nausea.
«Tina, Tina,» carezzandola sul viso e sentì il viso non ancora freddo ma
che stava divenendo rapidamente freddo, la scosse, le mise l’orecchio sulla
bocca, e così capì, che era morta, sotto i suoi occhi, dissanguata.
«È morta,» disse.
Gennaro si avvicinò, cauto, a Tina, le mise una mano dietro il collo, alla
nuca, le sollevò il capo e non ebbe bisogno di altro che di questo, di sentire l’innaturale peso della testa di lei e l’innaturale rigidità del collo. La
ridepose, cauto, sul cuscino e la coprì tutta col lenzuolo. Sedette sull’altro
lettino, accanto a Charlie, e stettero tutti e due lì in fondo al loro abisso di
disperazione, per lunghi e lunghi e lunghi minuti. Poi Gennaro si alzò.
«Dobbiamo andare,» disse, «fra poco qui arriva la polizia.»
Era logico. Erano stati traditi e adesso li davano in pasto alla polizia.
«Ma dove andiamo?» disse Charlie. «Non conosciamo nessuno, neppure
i posti…»
«Io so dove andare,» disse Gennaro. «A Napoli, ai telefoni. Voglio telefonare a New York perché siano informati di quello che succede qui, e di
che genere di amici sono. E perché vengano a prenderci.»
Forse era l’unica cosa che potessero tentare, pensò Charlie.
«Tu porta la valigia coi soldi,» disse Gennaro, «io prendo quella con le
armi.» Le mani gli tremavano. Si rivolse ai tre napoletani che stavano in
piedi, ammucchiati vicino al muro. «Mia figlia è morta per colpa vostra.
Se voi non foste delle sporche carogne di traditori, il medico sarebbe arrivato qui in tempo e mia figlia sarebbe viva, e anche il bambino. Siete degli
assassini.»
«No, signo’, no, signo’, Fiorello è acqua chiara, non ha tradito mai nessuno, gli deve essere successo qualche cosa,» disse la vecchia custode.
«Ah, sì? E che cosa? E perché mi ha dato un numero di telefono falso?
Stai zitta.» Si avvicinò alla ragazza, le prese un braccio. «Tu adesso vieni
con noi e ci insegni la strada.» Si rivolse ai genitori della ragazza. «Se la
volete rivedere viva state qui buoni. Se noi ci salviamo, si salva anche lei.»
Guardò Charlie che si stava asciugando con le dita gli occhi umidi. «Andiamo, Charlie.»
Charlie bevette, vuotò la bottiglia di whisky, e prese la sua valigia piena di
valuta italiana avvolta nei pigiama, negli slip, nei maglioni e nelle camicie.
«Io non vengo con voi, io ho paura, lasciatemi stare.»
La ragazza si divincolò dalla presa di Gennaro che le teneva un braccio e
frullò via verso i suoi genitori che le si strinsero addosso, in una posa di
protezione che era quasi un affresco, come quelli dipinti sui muri della
villa.
Il viso di Gennaro si scompose tutto nel furore, la morte della figlia gli ribollì nel sangue come veleno. Era vecchio, ma nessuno ebbe il tempo di
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13. Il forcipe è uno
strumento usato talvolta
durante i parti, quando si
presentano difficoltà nella
nascita, per estrarre il
bambino; il plasma è usato
per le trasfusioni di
sangue, in caso di
emorragia.
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accorgersi di ciò che succedeva. Anche Charlie, solo quando udì la sequenza di spari, capì che cosa aveva fatto Gennaro, mentre i tre, i custodi
e la loro figlia, non capirono neppure di morire, morirono semplicemente,
senza saperlo.
«Sporche carogne, assassini.»
«Sei tu un assassino,» disse Charlie, la voce ingolata di pianto rabbioso.
«Muoviti!» Gennaro gli agitò la rivoltella davanti. «O vuoi star qui ad
aspettare la polizia?»
Charlie resisté alla voglia di sparare lui al vecchio pazzo e uscì per primo
dalla stanza. Uscirono insieme dalla villa, sullo stradone, sotto il sole non
caldo del tardo pomeriggio, ciascuno con la sua valigetta blu scurissimo, in
una specie di foschia data dal polverume pietroso delle falde del Vesuvio,
che il vento quasi freddo diffondeva nell’aria. S’incamminarono, verso
Napoli.
Nel buio totale dello stradone, le due Giuliette, con le mezze luci, fermarono davanti alla villa. Al volante della prima era Fiorello, che dette il solito, piccolo colpettino di clacson e scese, quasi rotolò fuori dall’auto. Subito, subito, subito, risentiva sempre la voce. Era riuscito a farsi rilasciare
dalla polizia stradale solo un’ora prima, ma in un’ora, grazie ai suoi padroni, aveva trovato le Giuliette e il cavapupi. Chi sa come era arrabbiato
l’americano, doveva ritornare dopo un’ora e arrivava invece con nove ore
di ritardo.
L’altra Giulietta era guidata da quello che Fiorello chiamava il cavapupi,
che scese dall’auto a fatica, data la corpulenza, con una grossa valigia, in
cui vi era tutto quello che poteva occorrere per un parto, fino ai flaconi di
plasma e al forcipe13. Era il solito medico quarantenne che ha passato tre
o quattro anni in galera per procurato aborto, se non per omicidio colposo in seguito alla morte della ragazza che non voleva essere madre.
Corsero tutti e due verso la staccionata, il portello era aperto, il ragazzo
col ciuffo in fondo era contento, aveva fatto quello che doveva fare, anche
se in ritardo, l’americano doveva riconoscerlo. Soltanto, non gli piacque il
buio assoluto della villa, e il silenzio assoluto. Perché stavano così al buio?
La luce dei lumi a petrolio avrebbe dovuto trapelare dalle finestre, così invece sembrava che non ci fosse nessuno. Entrarono a tentoni, poi il dottore fece scattare l’accendino: erano in cucina.
«Silvana, Silvana,» disse Fiorello. Nessuno rispose. Chiamava la sua ragazza.
Sul tavolo c’era una candela, il dottore l’accese.
«Silvana, Silvana...»
Continuò a chiamarla, non comprendendo come mai nella villa non ci
fosse più nessuno, finché, entrando nella camera vicina, non la vide ammucchiata a terra insieme con la madre e il padre, in un ricamo di macchie
di sangue che decorava il volto e gli abiti di tutti e tre, alla viva, lunga, fumosa fiamma della candela che il dottore teneva alta.
«Dottore, che cosa è?» il ciuffo gli ondeggiò sulla fronte, vedeva che cosa
era ma non riusciva ancora a capire, a crederlo.
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«Li hanno sparati,» disse il dottore, in grasso napoletano.
Fissò la candela al tavolo e andò vicino al letto, sollevò il lenzuolo che copriva il viso di Tina, posò una mano sulla fronte di lei, sollevò tutta la coperta e vide la pozza di sangue. Non avrebbe avuto più da cavare nessun
pupo. Poi si volse subito a quei sordi tonfi e vide Fiorello che stava sbattendo la testa contro il muro con tutta la sua forza. Gli saltò addosso e lo
trattenne.
«Lasciatemi fare, dotto’, che volete che faccia d’altro, adesso? Lasciatemi
fare.»
L’indomani, nel tardo pomeriggio, un quotidiano riportò per primo la notizia: Ieri sera, negli uffici delle comunicazioni intercontinentali della SET, sono
stati arrestati due pericolosi banditi italo-americani che avevano chiesto una comunicazione con New York. Il loro atteggiamento aveva messo in sospetto l’agente di P.S. Andrea Salapanti che aveva chiesto loro i documenti. Uno dei due
banditi, allora, il più anziano, ha subito sparato, ma l’agente Salapanti è riuscito
a evitare il colpo e a sparare a sua volta ferendolo lievemente, riducendolo all’impotenza. L’altro, il più giovane, non ha opposto alcuna resistenza. In seconda pagina i particolari...
Villa della disperazione, in Il centodelitti, Garzanti, Milano 1970
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STRUMENTI DI LETTURA
La storia
Una serie di banali contrattempi – un 5 al posto di un 6, un bambino
che cade dalla bici – scatenano un massacro. Siamo a Napoli e due gangster italoamericani venuti da New York per sistemare certe faccende oppongono ai
ritmi blandi e caserecci della malavita nostrana una spietata ferocia criminale. Il
racconto, d’intonazione tipicamente noir,
ha la caratteristica di essere ambientato
completamente nell’universo squallido e
crudele della malavita, con l’esclusione di
qualsiasi personaggio “positivo”.
renti, quello “dentro” la villa e quello
“fuori”. Nel tempo di “fuori” il giovane
Fiorello annaspa freneticamente per compiere il suo incarico, in quello di “dentro”
la tensione aumenta in un crescendo parossistico. Sono due dimensioni temporali
non comunicanti, e soltanto al lettore è
dato di percepirne la giustapposizione,
che genera una forte carica di suspense.
La banalità dei disguidi all’origine del
massacro stride con il clima di cupa angoscia e di tensione che regna all’interno
della villa.
Lo spazio
I personaggi
Gennaro, un gangster italoamericano folle e spietato, sentendosi
preso in trappola a causa di un equivoco,
massacra un’intera famiglia. La tragedia è
resa ancora più sinistra dalla presenza di
Tina, una giovane donna incinta trascinata suo malgrado in questa vicenda allucinante dalla follia paterna. Charlie,
complice e genero di Gennaro, si rende
perfettamente conto della pazzia del suocero ma non può che assistere impotente
al precipitare degli eventi verso il tragico
finale. Scerbanenco ha sempre prestato
particolare attenzione alla psicologia dei
personaggi, anche quando si tratta di criminali, descrivendoli con acume e partecipazione in tutti i loro risvolti, dai più
umani ai più efferati.
Il tempo
Il racconto è costruito mediante il montaggio di due tempi diffe-
A un tempo di “dentro” e un
tempo di “fuori” corrispondono altrettante dimensioni spaziali. Benché la storia
sia ambientata presso Napoli, “fuori” fa
freddo e tira vento. “Dentro”, nel chiuso
di una fatiscente villa settecentesca in attesa di restauri, il luogo appare oscuro e
minaccioso, e man mano si trasformerà in
uno spazio claustrofobico e ossessivo, un
teatro di morte.
Le tecniche
narrative
Prevale il dialogo diretto, insistito e martellante, fatto per lo più di domande seccamente perentorie e risposte ossequienti
o imbarazzate. Il ritmo incalzante e dinamico della narrazione contrasta con l’atmosfera del racconto, sostanzialmente
“nera” e immobile. L’unico svolgimento
riguarda il lettore, al quale Scerbanenco,
con un sapiente uso della dilazione, somministra la realtà dei fatti a piccole dosi,
poco per volta.
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DOMANDE DI VERIFICA
1
Dalle azioni compiute nel corso del racconto, ritieni che il ragazzo napoletano messo dagli ‘amici’ a disposizione dei boss newyorkesi sia:
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2
incapace di eseguire i compiti che gli sono stati affidati
troppo emotivo per mantenere la calma in una situazione di pericolo
troppo innamorato per essere obiettivo nelle decisioni
succube senza capacità di reazione rispetto ai gangster
Servendoti di tutto quanto puoi ricavare dal testo nel suo complesso, che cosa rivela del personaggio l’affermazione che “Gennaro risolveva tutto sparando. Anche quando parlava senza puntare la rivoltella era
implicito che se qualcuno non fosse stato del suo parere, avrebbe sparato”?
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3
Nel corso della narrazione uno degli episodi più drammatici e violenti è quello della morte di Tina. Quali
aspetti la rendono particolarmente cruda, sia a livello descrittivo, sia di significato?
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L’ambientazione della villa risulta così fatiscente perché:
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5
intende conferire al racconto un’atmosfera di paura
costituisce uno spazio chiuso e separato rispetto all’esterno in cui si trova la minaccia della polizia
fa intendere che altrettanto traballante è l’agire dei gangster, solo apparentemente minacciosi
diventa uno spazio simbolico della rovina che incombe su tutti i personaggi del racconto
Nella fiducia data e tradita risiede uno degli aspetti fondamentali del racconto. Facendo riferimento a tutti
gli elementi che ritieni necessari, prova a descrivere in quale modo viene vissuto questo legame dai personaggi della storia.
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6
Provando a riflettere sul racconto nel suo complesso, trovi che la conclusione sia significativa e adeguata
a esplicitare il senso della vicenda narrata? Giustifica, argomentandola, la tua risposta.
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