Siena 14.2.2008 IL PROGRAMMA DI LIQUIDAZIONE E IL RIPARTO FALLIMENTARE Sommario: A-Il programma di liquidazione 1-Funzione dell’istituto; 2-Termine per la presentazione del programma; 3-L’approvazione del programma e il ruolo del g.d.; 4-Il contenuto del programma; 5-Gli effetti del programma; 6-La retrocessione dei beni non alienabili B-La ripartizione dell’attivo 1-I termini per i riparti parziali; 2-Le masse attive, le somme disponibili e le somme da ripartire; 3-L’iter processuale; 4-Gli atti successivi alla dichiarazione di esecutività A-Il programma di liquidazione 1-Funzione dell’istituto Il programma di liquidazione, già noto nella procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 54, comma 4 D.lgs. 270/99), costituisce una novità nel panorama del fallimento. Il curatore fallimentare, nel vigore della legge del ’42, ancorchè tutti i provvedimenti di liquidazione dell’attivo fossero di competenza del giudice delegato (tranne, in alcuni casi, l’esercizio provvisorio), era libero di fissare i tempi della liquidazione dei beni, di decidere l’ordine da seguire nella vendita dei vari cespiti, di valutare l’opportunità di vendite particellizzate o in blocco; in sostanza era il curatore che dettava i tempi ed i modi della liquidazione sottoponendo di volta in volta al giudice delegato la richiesta delle necessarie autorizzazioni o dei necessari provvedimenti, fermo restando che il giudice, in forza dei suoi poteri direttivi, poteva in ogni momento intervenire su tali scelte. Questa libertà del curatore è stata in qualche modo, più che limitata, incanalata in tempi predefiniti e in schemi predeterminati dall’art. 104 ter, perchè ora il curatore deve predisporre un programma, teso a razionalizzare la fase di liquidazione dell’attivo, che definisca le modalità e i termini della liquidazione dell’attivo al quale deve attenersi, deve, cioè, predisporre un piano di azione e deve indicare tanto le scelte strategiche quanto le scelte operative, prefigurando i risultati ottenibili dalle operazioni di gestione del patrimonio fallimentare. Che questa sia la funzione del programma di liquidazione non sono mai sorti dubbi, per cui la definizione data nel decreto correttivo, secondo cui “il programma costituisce l’atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo”, nulla aggiunge a quanto si era ritenuto fin dalla introduzione della norma nel tessuto normativo relativo alla liquidazione, se non accentuare, come è stato ben detto (Esposito) “la valenza di indirizzo generale del programma onde esaltarne la funzione centrale in seno alla procedura fallimentare al fine di evidenziare come, di per sé, la pianificazione sia elemento di ottimizzazione delle risorse, dato che il processo di trasformazione, dell’attivo in denaro, è ottimizzato laddove sia realizzato non più con operazioni diversificate, non coordinate, occasionali e non rientranti in una strategia unitaria, bensì nel quadro di un razionale programma di liquidazione predisposto dal curatore”. Questa accentuazione della valenza pianificatoria e di indirizzo del programma non esclude affatto il mantenimento del criterio della analiticità nella redazione, sia perché questo è concetto immanente ad ogni pianificazione, sia perché è lo stesso legislatore che, nell’elencare il contenuto minimo del programma, fa capire, come si vedrà, che questo non può esaurirsi in una generica esposizione di ciò che il curatore intende fare, ma deve contenere un piano articolato e specifico, sia, infine, perché, dovendo i singoli atti essere soggetti ad autorizzazione del giudice, secondo la novità introdotta con il decreto correttivo, è chiaro che la richiesta da autorizzare deve presentare quel tasso di analiticità tale da consentire cosa possa essere e cosa sia stato effettivamente autorizzato. In ogni caso la specificazione del legislatore del correttivo è utile per meglio differenziare la funzione del programma di cui si sta parlando dalla relazione ex art. 33, con la quale vi una qualche sovrapposizione di contenuti. In realtà la relazione ha una funzione meramente informativa alla luce della quale il giudice delegato e il P.M. possono valutare le azioni da intraprendere a tutela del patrimonio e di perseguire i responsabili del dissesto in sede civile e penale; il programma ha invece una funzione più strettamente operativa in quanto è l’atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini secondo i quali il curatore intende procedere alla liquidazione. 2-Termine per la presentazione del programma Il documento di cui trattasi deve essere predisposto entro sessanta giorni dalla chiusura dell’inventario (che può essere anche negativo). Questo termine, per quanto flessibile in ragione del fatto che il dies a quo è parametrato alla conclusione delle operazioni di inventario, che possono richiedere poco o molto tempo, sembra essere comunque troppo breve e insufficiente ad acquisire tutti gli elementi utili sulla composizione, sul valore (gli stimatori dovranno operare molto in fretta per fornire in tempo utile le stime), sulle possibilità di realizzazione del patrimonio e quant’altro necessario per redigere un programma serio e attuabile, tanto più che in quello stesso periodo anche altre incombenze impegnano il curatore, tra cui la predisposizione del progetto di stato passivo. Proprio la previsione del termine indicato fa capire che la liquidazione è svincolata dalla dichiarazione di esecutività dello stato passivo, cui la vecchia legge subordinava l’inizio dell’attività liquidatoria, salve le urgenze, tuttavia, lì dove è indispensabile conoscere l’entità e la composizione del passivo per valutare se alienare tutto l’attivo inventariato, se svolgere azioni risarcitorie e recuperatorie, anch’esse da specificare nel programma, è utile comunque predisporre il programma nei termini prevedendo soluzioni alternative nell’ipotesi che l’entità del passivo non giustifichi più determinate operazioni. Nulla è detto circa la perentorietà o meno del termine nè circa eventuali proroghe, per cui, presumibilmente, anche per le obbiettive ragioni indicate, il termine sarà adattato alle singole procedure, se si vogliono evitare piani generici e di nessuna utilità; fermo restando che, pur in mancanza di una disposizione analoga a quella di cui all’art. 54 comma 4 D.lgs. 270/99 per l’amministrazione straordinaria, ove la mancata osservanza comporta la revoca del commissario straordinario, l’eventuale inerzia del curatore può essere valutata allo stesso fine, con la possibilità per il tribunale di giudicare il comportamento del curatore alla luce della situazione concreta in cui si è trovato ad operare. 3-L’approvazione del programma e il ruolo del g.d. Il programma, nel testo originario dell’art. 104 ter, andava sottoposto all’approvazione del giudice delegato, “acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori”, sicchè il parere favorevole del comitato dei creditori si poneva come condizione necessaria per l’approvazione da parte del giudice; rimanevano seri dubbi, invece, sui limiti del sindacato da parte dell’organo giudiziario. La formula utilizzata dalla norma, complice la Relazione accompagnatoria in cui si parlava di vincolatività del parere favorevole, aveva indotto parte della dottrina a ritenere che l’approvazione del g.d. fosse un atto dovuto, tanto più che soltanto il comitato dei creditori poteva “proporre al curatore modifiche al programma presentato” (prima parte comma 4° art. 104 ter). Di contro, si riteneva che il giudice delegato avesse quanto meno il potere di respingere il programma quando lo avesse ritenuto non conforme alla legge, ad esempio perché incompleto, escluso comunque qualsiasi forma di sindacato sulle scelte del curatore, fatti forse salvi i casi in cui queste apparissero manifestamente illogiche oppure le operazioni proposte non sembrassero giuridicamente fattibili (ad esempio perché si prevede di revocare atti di per sé non revocabili). Infine si rilevava che l’ampiezza di poteri del curatore nella fase liquidatoria e la mancanza di qualsiasi controllo sull’attuazione del piano comportavano che l’approvazione iniziale fosse qualcosa di più di una formale atto dovuto, qualcosa che implicasse, cioè, non solo un controllo di legittimità, per cui il giudice delegato poteva respingere il programma ritenuto non conforme a legge (ad es. perchè incompleto) ma pure di merito, per cui poteva respingerlo anche quando non condivideva le scelte effettuate dal curatore. Di conseguenza, l’approvazione del piano, esautorato il giudice dalla gestione, dalla successiva liquidazione e dal riparto, diventava il momento principale ed unico in cui poter estrinsecare i suoi poteri di vigilanza sull’operato del curatore. Quest’ultima, a mio parere, era la interpretazione più appropriata perché, a parte le accennate convincenti argomentazioni, il legislatore delegato, modificando sul punto la dizione della legge delega n. 80/2005 che, al comma 6° dell’art. 1 parlava di autorizzazione da parte del giudice delegato, aveva sostituito l’autorizzazione con l’approvazione da parte di questi, attribuendo, come è stato ben detto (Sandulli), al giudice un forte potere di condivisione, ulteriore rispetto a quello generale di controllo sulla regolarità della procedura, che importava una valutazione di opportunità e di convenienza, non solo di mera legittimità formale e sostanziale. A questo equivoco ha cercato di porre rimedio il decreto correttivo che ha sostituito l’approvazione del giudice delegato con quella del comitato dei creditori, senza alcuna partecipazione del giudice, al quale, come precisa il nuovo ult. comma, il programma approvato va soltanto comunicato. Il programma, cioè, una volta approvato dal comitato dei creditori, non tiene più luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie per l’attuazione, essendo stato abrogato la seconda parte del quarto comma che conteneva questa disposizione, sostituito con il nuovo ult. comma che attribuisce al giudice delegato il potere di autorizzare l’esecuzione degli atti a esso conformi. In questo modo, da un lato, è stato ulteriormente accentuata la rilevanza del comitato dei creditori, che è diventato il vero ed unico dominus di questa fase della procedura ed è stato resa ancor più chiara la totale emarginazione del giudice dal programma in questione, creando una frattura con la legge delega che, come già accennato, richiedeva che il curatore predisponesse “un programma di liquidazione da sottoporre, previa approvazione del comitato dei creditori, all'autorizzazione del giudice delegato”. Al di là della differenza tra approvazione e autorizzazione, è chiaro che il legislatore delegante voleva che il programma, approvato dal comitato dei creditori (ossia, ottenuto il parare favorevole di tale organo) fosse sottoposto al controllo del giudice delegato che avrebbe, da ultimo, dovuto esercitare, quanto meno, un controllo di legalità teso a rimuovere il limite all’esercizio del diritto/dovere del curatore di procedere alla liquidazione, che è il meccanismo in cui si sostanzia l’autorizzazione. E’ pacifico, comunque, che ora il programma va approvato soltanto dal comitato dei creditori e che il giudice delegato non interviene più su di esso, né per approvarlo né per autorizzarlo, essendo il suo compito limitato ad autorizzare l’esecuzione di ogni operazione (non soltanto gli atti di liquidazione) contenuta nel programma stesso; e qui si riapre, sotto altro aspetto, il dibattito già sorto nella precedente formulazione della norma, circa i limiti del potere autorizzativo del giudice. Vi è chi sostiene che, anche dopo l’accennata modifica dell’art. 104 ter, il giudice continua ad esercitare un “controllo di legalità attraverso l’esame del merito degli atti che autorizza” (Esposito) nel senso che egli non ha il mero compito di certificazione che il singolo atto sottoposto alla sua autorizzazione sia conforme a quanto programmato dal curatore e approvato dal comitato dei creditori ma, attraverso questo controllo di conformità dell’atto al programma, il giudice può effettuare una valutazione di conformità del programma alla legge, rifiutando l’autorizzazione nel caso l’atto, pur previsto nel programma approvato, non sia conforme alla legge. Questa tesi, poggia su alcune considerazioni che, in sintesi, possono così riassumersi: a-è implicito nel concetto di autorizzazione il vaglio di legittimità; b-è implicito nei potere di vigilanza del giudice delegato un controllo di legalità dell’attività compiuta dal curatore; c-per soddisfare esigenze di efficienza e celerità il legislatore ha anticipato al momento in cui l’atto deve essere compiuto quel controllo ex post che la informativa di cui all’art. 107 consente. Le considerazioni sopra esposte non mi sembrano molto convincenti, anche se rimane uno spazio di valutazione del programma da parte del giudice nei limiti che si diranno. Invero, non vi è dubbio che l’autorizzazione implichi un controllo di legalità al fine di rimuovere un limite all’esercizio di un diritto o di un potere già attribuito dalla legge ad un soggetto, ma nell’ult. comma dell’art. 104 ter l’oggetto dell’autorizzazione non è il programma- come richiedeva la legge delega- ma sono i singoli atti esecutivi programmati; non solo, ma la verifica dei parametri cui l’autorizzante deve nella specie ispirarsi per rimuovere l’ostacolo è chiaramente indicato nella conformità del singolo atto al programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori. Evidentemente il legislatore ha diviso i compiti tra questi due organi: il comitato dei creditori approva il programma, che sia o non conforme alla legge (e si vedranno quali sono i rimedi posti nel caso di illegalità) facendo le sue valutazioni di merito e il giudice delegato vaglia che il curatore non ponga in essere atti non contenuti nel programma approvato. Altrettanto pacifico è che sia residuato al giudice delegato il potere di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura e che questo potere si estrinsechi in una verifica della legittimità sulla regolarità degli atti compiuti, ma permane il dubbio se il potere di cui parlano gli artt. 25 e 31 si estenda preventivamente a tutti gli atti del curatore o sia incanalato nei limiti in cui la legge lo preveda nelle singole fattispecie. Sembra preferibile la seconda linea interpretativa, altrimenti si riproporrebbe quella struttura piramidale e quel dominio gerarchico che il legislatore ha inteso superare nel rapporto tra organi eliminando il potere direttivo che in passato era attribuito al giudice delegato. Del resto, ritornando al caso in esame, non può essere privo di significato il fatto che prima era previsto che il piano fosse approvato dal giudice delegato ed ora tale potere sia passato al comitato dei creditori, attribuendo un residuo potere di autorizzazione dei singoli atti previo controllo di conformità degli stessi al programma; se il legislatore avesse inteso estendere il controllo del giudice alla legalità del programma avrebbe potuto richiedere soltanto l’autorizzazione per i singoli atti, senza altra precisazione, che avrebbe incluso un vaglio di legittimità esteso fino alla conformità alla legge del programma approvato, nel mentre ha preferito specificare che la conformità deve essere esaminata con riferimento proprio al programma, escludendo evidentemente altre valutazioni. Ed, infatti, nel sesto comma dell’art. 104 ter il legislatore, nel prevedere la possibilità di procedere alla liquidazione di beni prima dell’approvazione del programma quando dal ritardo possa derivare pregiudizio all’interesse dei creditori, richiede l’autorizzazione del giudice, senza altra specificazione, perché qui, mancando ogni preventiva valutazione del comitato dei creditori che non ha ancora approvato il piano, è attribuita all’organo giudiziario la maggiore libertà di verificare se l’atto è conforme alla legge; verifica che dà per presupposta quando l’approvazione è intervenuta, a meno che il piano approvato non consenta la verifica di conformità. E’ chiaro, infatti, che la valutazione di conformità al programma richiede un programma che consenta di effettuare tale verifica, sicché il giudice può rifiutare l’autorizzazione, non solo nel caso in cui l’atto da autorizzare non sia incluso nel piano, ma anche se questo non consenta, per la sua genericità o incompletezza, di esercitare il raffronto da cui dovrebbe scaturire l’autorizzazione. Ed in questo senso, e solo entro questi limiti, può dirsi che il giudice abbia conservato un potere di controllo di legalità sul programma. Lo stesso problema si era posto in sede di riparto, ove il legislatore del 2006, eliminando il potere del giudice di apportare al progetto di riparto presentato dal curatore le variazioni che riteneva convenienti, aveva fatto nascere il dubbio se residuava in capo al giudice, in considerazione dei suoi poteri di vigilanza e controllo, la possibilità di esercitare ugualmente un controllo di legalità sul progetto; la questione, come si vedrà trattando del riparto, è stata risolta dal decreto correttivo che ha escluso, come si legge anche nella relazione, in modo netto questa possibilità. Questo meccanismo di totale esautoramento del giudice delegato dal programma di liquidazione ben si inquadra, peraltro, nel sistema. In primo luogo, infatti viene incontro all’esigenza di eliminare ogni dubbio sugli atti che il curatore può porre in essere che, in precedenza, non erano sempre agevolmente identificabili in quanto, una volta approvato il piano, il curatore vi dava esecuzione, senza alcun ulteriore controllo al momento del compimento dei singoli atti; di conseguenza l’approvazione di un programma non sufficientemente dettagliato- cosa possibile dati i tempi di presentazionelasciava al curatore margini amplissimi di autonomia, e, comunque, un curatore poteva eseguire una operazione non contemplata nel piano, sicchè, si rendeva opportuno, anzi necessario, un controllo di conformità del singolo atto al programma nel momento in cui si voleva dare a questo esecuzione, con la possibilità, come detto, per il giudice di rifiutare l’autorizzazione anche quando la carenza di elementi di dettaglio del piano non consentivano di dire se il singolo atto rientrasse o meno nel programma. L’esigenza che ricorreva, pertanto, non era quella di sottoporre il programma ad una verifica di legalità da parte del giudice delegato, ma di sottoporre a controllo di conformità col programma i singoli attui di esecuzione dello stesso, salvo poi a riservare ex post al giudice il potere di sospendere le operazioni di vendita già effettuate per gravi e giustificati motivi, come prevede l’art. 108; l’anticipazione di una verifica di legalità del programma al momento dell’autorizzazione dei singoli atti avrebbe un senso ove fosse stata eliminata o modificata la norma di cui all’art. 108, ma il fatto che questa sia rimasta immutata nella parte che qui interessa, evidenzia che il legislatore ha inteso lasciare la verifica sulla regolarità, come sul merito, al momento successivo, evitando di attribuire al giudice quel potere di iniziativa che l’art. 108 riserva al fallito, al comitato dei creditori o ad altri interessati. Tutto ciò rientra nella diversa ottica in cui si è mosso il nuovo legislatore che ha preferito lasciare agli interessati la tutela dei propri diritti per cui il giudice delegato, come non ha più poteri di ufficio per correggere un piano di riparto errato se nona seguito di reclamo ex art. 36, così con riferimento al piano di liquidazione non può più intervenire sua sponte per eliminare la violazione di legge, ma devono essere altri a sollecitare i suoi poteri, al momento in cui il curatore ha compiuto un atto liquidatorio; fermo restando che il programma deve essere approvato dal comitato dei creditori. E qui emerge ancor più che non in passato la carenza del limite posto dall’art. 36 al reclamo al giudice delegato contro i dinieghi del comitato dei creditori; invero, ammesso che legittimato a proporlo sia anche il curatore, questi potrebbe appellarsi soltanto alla violazione di legge contro l’eventuale rifiuto di approvazione, che nasconde chiaramente (o, almeno, il più delle volte) un contrasto di merito sulle scelte tra il curatore ed il comitato dei creditori. A questo punto, o il curatore si adegua alle indicazioni del comitato, ovvero, permanendo il contrasto, si prospetta una ipotesi di revoca del curatore ( a meno che non vi sia un conflitto di interesse per i componenti del comitato), il che fa capire a quali condizionamenti è esposto il curatore. E’ comunque da ritenere che anche nella fattispecie sia applicabile il quarto comma dell’art. 41 che, nella attuale formulazione, prevede che, in caso di inerzia del comitato dei creditori, di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il giudice delegato; di talchè è questi che, in mancanza del comitato dei creditori, provvede all’approvazione del programma. 4-Il contenuto del programma Il secondo comma dell’art. 104 ter elenca il contenuto minimo del programma di liquidazione richiedendo, in una espressione di carattere generale, la necessità che questo contenga (anche se nel nuovo testo sono mutate le parole è rimesto identico il concetto) le “modalità e i termini previsti per la realizzazione dell’attivo”, anche se il piano ha un contenuto più ampio rispetto alle sole operazioni di liquidazione. Invero, la norma richiede che sia prevista: a-“l’opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ai sensi dell’art. 104, ovvero l’opportunità di autorizzare l'affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell'articolo 104 bis”. Sia l’esercizio provvisorio che l’affitto d’azienda possono essere disposti anche al di fuori del programma di liquidazione, come espressamente prevede la legge, ma, anche se realizzati prima della predisposizione del programma dovranno essere in questo inclusi, non fossa’altro per precisare quale sorte avranno un esercizio provvisorio o un affitto già avviati. b-la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto. Ovviamente il concordato non si avvia con il programma e il curatore deve soltanto evidenziare se sono state presentate proposte di concordato (e, nonostante la lettera della legge può dare conto anche di eventuali ipotesi concordatarie in via di perfezionamento) e qual è il loro contenuto, il che è compatibile con i tempi di formazione del programma dal momento che l’art. 124 non richiede più come condizione per la presentazione di proposte concordatarie la chiusura dello stato passivo. Le modifiche apportate dal decreto correttivo in materia di concordato- che hanno escluso la legittimazione del curatore (che si desumeva dall’art. 129) a proporre la proposta di concordato e ampliato ad un anno dalla dichiarazione di fallimento il termine prima del quale la proposta non può essere presentata dal fallito, fanno capire che le uniche proposte che possono essere indicate nel programma sono quelle che pervengono dai creditori o da un terzo; il che fa perdere alla norma in esame parte della sua valenza limitandola a mera informazione, nel mentre, vigendo la legittimazione del curatore di proporre la proposta di concordato l’indicazione nel programma era, oltre che informativa, anche propositiva e orientativa. C’è da chiedersi se in presenza di una proposta concordataria il curatore debba egualmente fornire le ulteriori indicazioni in ordine alla liquidazione fallimentare; credo di si, anche se ovviamente tale liquidazione sarà prospettata in forma alternativa e subordinata, sia perché la proposta di concordato va inclusa nello stesso programma nel quale debbono essere fornite le altre indicazioni, e la norma non esclude che queste non debbano essere date ove sia stata presentata una domanda di concordato, sia perché comunque un lavoro del genere il curatore deve compierlo per esprimere il parare di cui all’art. 125 circa i presumibili risultati della liquidazione, sia, infine, perché la proposta non significa sicurezza che poi il concordato venga ammesso, approvato e omologato. c)-le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare ed il loro possibile esito (quest’ultima precisazione è stata introdotta dal decreto correttivo), in modo tale da consentire una previsione in ordine ai tempi di definizione della procedura concorsuale e alle possibilità di realizzo che ne derivano, non senza nascondere la pericolosità della indicazione di questi dati che potrebbero mettere in allerta gli interessati destinatari di dette azioni, che potrebbero far parte dello stesso comitato dei creditori (del resto anche l’art. 33 richiede che il curatore indichi gli atti del fallito che egli intende impugnare). d)-le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco e le condizioni della vendita dei singoli cespiti. La norma pone le condizioni della vendita dei singoli cespiti in una apposita lettera, separata da quella precedente, ma le fattispecie vanno unitariamente considerate in quanto la possibilità di cessione unitaria dell’azienda o di suoi rami o di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco sono preferibili alla vendita dei singoli beni, che costituisce l’ipotesi residuale, giusto il disposto dell’art. 105. Il legislatore del 2006 ha espressamente regolato la vendita di azienda, dei singoli rami nell’art. 105, ove ha anche accennato alla cessione dei rapporti giuridici individuabili in blocco, espressione quest’ultima che è mutuata dalla legge bancaria, laddove con riferimento alla liquidazione coatta delle banche, si prevede la possibilità di cessione di rapporti giuridici individuabili in blocco, che non costituiscono dei veri e propri rami di azienda, ma che sono per esempio l’insieme di rapporti riferibili a una filiale. Come si è già accennato, questo è il contenuto minimo del programma della procedura, ma esso deve riguardare l’intero patrimonio acquisito all’attivo e da trasformare in danaro, ossia tutti i diritti e i beni, materiali o immateriali che possono formare oggetto di diritti, appartenenti al fallito i beni strumentali, azioni, facoltà, pretese, rapporti giuridici considerati in se stessi o come strumento per l’acquisto di altri beni nonché, ecc., sicchè pur se non espressamente indicati, anche i rapporti giuridici pendenti, in quanto facenti parte del patrimonio del debitore, vanno inclusi nella programmazione. Invero, la regolamentazione dei contratti in corso, comunque venga realizzata, si pone come indispensabile nella disciplina del fallimento, la cui funzione liquidatoria si realizza non solo attraverso la conversione in danaro dei beni materiali e immateriali, ma anche attraverso la definizione dei rapporti giuridici patrimoniali derivanti dai contratti ancora pendenti, che si ricollega, come gli altri effetti patrimoniali, allo spossessamento del fallito. Il patrimonio del fallito comprende, infatti, oltre ai beni materiali e immateriali, quelle “entità patrimoniali non ancora acquisite”, come le definisce Pajardi, quali sono i rapporti giuridici contrattuali pendenti. E la dichiarazione di fallimento, come si riflette sui residui giuridici dei rapporti già cristallizzati e, cioè, sulla posizione sostanziale e processuale del fallito, sulla posizione dei creditori, sugli atti pregiudizievoli, così refluisce sulle situazioni dinamiche, incidendo, con la normativa contenuta negli artt. 72 e segg., non sul contratto in sé, quale atto espressione della autonomia negoziale, ma sui rapporti giuridici dallo stesso derivanti, ossia sul complesso degli effetti giuridici conseguenti da quella espressione di autonomia negoziale, che, alla luce delle mutata condizione di una delle parti dichiarata fallita, non possono più essere mantenuti ed eseguiti come se nulla fosse successo. Il programma non attiene, quindi, soltanto alla elencazione dei tempi e delle modalità di liquidazione dei cespiti e dei crediti, in quanto coinvolge l’intera modalità operativa del curatore, ma, poiché ha la funzione di pianificare la liquidazione, si spiega la espressa previsione che il programma deve contenere anche l’indicazione delle “modalità” e dei “termini” della realizzazione, che costituiscono le due coordinate minime indispensabili che caratterizzano un programma ossia, con quali “modalità” si intende dare corso alla liquidazione dell’attivo ed in quali “termini” compierlo, ove l’uso del plurale trova giustificazione nella necessità di indicare un termine iniziale entro il quale prenderanno avvio le operazioni di liquidazione, uno entro il quale dare corso alle singole attività liquidatorie, e un termine entro il quale la realizzazione programmata deve essere compiuta. Quanto alle modalità è chiaro il riferimento all’art. 107, a norma del quale “le vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di operatori esperti, assicurando con adeguate forme di pubblicità la massima informazione e partecipazione degli interessati”. Di conseguenza, la competitività e la predeterminazione del valore sulla base di una stima sono due elementi che devono caratterizzare qualsivoglia atto di liquidazione e devono essere riprodotti nel piano, così come deve essere specificato il tipo di procedura di vendita, avuto riguardo della natura del bene e delle possibilità offerte dalla legge, tenendo conto che il nuovo secondo comma dell’art. 107, introdotto dal decreto correttivo, consente al curatore di prevedere, nel programma di liquidazione, che determinate vendite vengano effettuate direttamente dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di rito (vendita con o senza incanto), facoltà che precedentemente era dubbia. Oltre alla indicazione del prezzo, è opportuna anche la predeterminazione del prezzo minimo, al di sotto del quale non si potrà scendere, così come è utile prevedere modalità alternative per le ipotesi in cui la modalità, presentata come principale, non venga a realizzarsi, in modo da poter adeguare il programma alle mutate circostanze o far fronte ad eventuali errori di valutazione sulla commerciabilità. In conclusione, il programma di liquidazione non può esaurirsi in una generica esposizione di ciò che il curatore intende fare, ma deve contenere un piano articolato e specifico, perché, oltre allo scopo di programmazione è utile anche ai fini della rendicontazione, dato che al momento del conto gestione diventa inevitabile il controllo di eventuali scostamenti rispetto al quadro prognostico delineato nel programma, in modo da consentire un effettivo esercizio dell’attività di controllo sulla gestione del curatore, stante la rilevante autonomia di cui egli gode nel nuovo sistema normativo. 5-Gli effetti del programma Stabiliva il quarto comma dell’art. 104-ter che l’approvazione del programma di liquidazione teneva “luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie ai sensi della legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di operazioni incluse nel programma”. Ne derivava che non occorreva l’autorizzazione del comitato dei creditori per il compimento degli atti previsti dall’art. 35 ove inclusi nel programma di liquidazione e si spiegava perché per la liquidazione dei beni non era richiesta l’autorizzazione del comitato dei creditori o l’intervento del giudice delegato, trattandosi di attività propria del curatore che presupponeva l’esistenza e l’approvazione del programma di liquidazione. Questa parte della norma, come detto, è stata abrogata e sostituita dal controllo del giudice della conformità del singolo atto al programma, di cui si è già trattato. Rimane da chiedersi quale sia la sorte degli atti non inclusi nel programma e il problema si è posto particolarmente per le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie, per le quali è stata adombrata una sorta di decadenza dalla possibilità di esercitarle ove non siano state incluse nel programma. Condivido l’opinione del Guglielmucci che non è nemmeno lontanamente ipotizzabile una preclusione conseguente al mancato inserimento di determinate azioni nel programma; la conseguenza della mancata inclusione è solo quella che il curatore non potrà esercitarle se non previa predisposizione di un supplemento di programma, seguendo l’iter previsto per il programma originario, ossia predisponendo un supplemento che deve essere approvato dal comitato dei creditori. Il programma, per la verità, non può essere modificato a piacimento, ma soltanto “per sopravvenute esigenze”, ma questa espressione deve essere intesa nel senso più ampio, tale da includere non solo le nuove circostanze di fatto ma anche le dimenticanze, le valutazioni sopravvenute in modo da rendere praticabile la liquidazione nel modo migliore per i creditori. Prima della approvazione del programma, invece, il curatore può, procedere alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare pregiudizio all’interesse dei creditori, dizione questa che comprende non solo la classica ipotesi del deterioramento, ma, come già la giurisprudenza aveva indicato nell’interpretazione del vecchio art.104 con riferimento alle vendite anteriormente alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo, anche la possibilità di cogliere quelle occasioni di liquidazioni favorevoli che potrebbero essere pregiudicate dal ritardo. 6-La retrocessione dei beni non alienabili A norma del settimo comma dell’art. 104 ter, il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori e non del giudice (la cui estraneità al procedimento trova la sua ragione nella attribuzione al curatore e al comitato dei creditori di ogni valutazione di merito circa la sorte dei beni), può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni acquisiti ed eventualmente anche inclusi nel programma, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente antieconomica. In questo caso, il curatore ne dovrà dare comunicazione ai creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell’art. 51, potranno iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore. L’intento di questa norma è evidente: evitare l’acquisizione e la liquidazione di un bene non conveniente perché fonte di costi superiori all’utilità dell’acquisizione o della vendita, e ha il sapore di una beffa la previsione (anche superflua) della possibilità per i creditori di agire in via esecutiva individuale visto che si tratta di attività che il curatore e il comitato dei creditori hanno ritenuto non conveniente liquidare. La tutela dei creditori è qui nettamente prevalente sugli interessi del fallito, perché in tal modo si scarica su questi tutto ciò che non conviene liquidare e si trattiene la c.d. polpa, di talchè il curatore può abbandonare un impianto che deve essere, ad esempio, messo a norma con un costo superiore al valore di realizzo verrà abbandonato, un immobile che deve essere disinquinato, ove ricorrono anche interessi pubblicistici di tutela della pubblica salute, e così via. Nella norma si parla di beni e non di diritti, per cui rimane dubbio se nella sua previsione rientrino anche i crediti irrecuperabili. Riterrei di si trattandosi comunque di entità che fanno parte dell’attivo fallimentare il cui realizzo potrebbe risultare non conveniente, tuttavia la questione è di scarso rilievo perché i diritti obbligatori sono rinunciabili; di conseguenza non sarà più necessario ripulire l’attivo con la rinuncia ai crediti irrecuperabili e potrebbe essere preferibile ritrasferirli nel patrimonio del fallito, che potrebbe un giorno anche avvantaggiarsene. B-La ripartizione dell’attivo 1-I termini per i riparti parziali La nuova disciplina sul riparto presenta due aspetti: uno di carattere sostanziale condivisibile e apprezzabile, ed un altro, di carattere processuale, insoddisfacente e criticabile. Quest’ultimo trovava e trova la sede normativa principalmente nell’art. 110 l.f. che è stato sottoposto a profonda revisione, ad eccezione del primo comma. Il nuovo legislatore ha, infatti, riprodotto nel primo comma dell’art. 110 il corrispondente comma della precedente norma, con la sola modifica della frequenza temporale con cui procedere alle ripartizioni parziali, passata da due a quattro mesi. E’ rimasto quindi, il sistema della pluralità di riparti nel corso della procedura, che, costituisce uno dei motivi per i quali il legislatore ha predisposto un procedimento di accertamento del passivo all’interno del procedimento esecutivo collettivo fallimentare in una fase cronologicamente anteposta a quella della ripartizione del ricavato dalla liquidazione dell’attivo, con una netta separazione temporale delle questioni attinenti ai crediti rispetto a quelle relative alla distribuzione, a differenza di quanto avviene nell’esecuzione individuale; in tal modo, infatti, si consente, da un lato, a ciascuno creditore di interferire sulle posizioni altrui concorrenti e, dall’altro, la pluralità di riparti (evento eccezionale nell’esecuzione individuale), senza che all’atto di ognuno di questi possano riprodursi questioni che porterebbero alla sospensione, e quindi al prolungamento, dell'esecuzione. La cadenza temporale dettata dal legislatore per la presentazione delle ripartizione ha la funzione di accelerare al massimo la distribuzione in modo da limitare il danno che tutti i creditori subiscono a causa della sospensione del decorso degli interessi; in modo completo i chirografari, per i quali la sospensione opera dalla data della dichiarazione del fallimento, e in modo più ridotto i creditori preferenziali, i quali hanno diritto agli interessi post fallimentari fino alla data della vendita dei beni oggetto della prelazione. Il termine indicato- sia il vecchio che quello nuovo- ha, tuttavia, carattere ordinatorio, stante l’espressa salvezza di diverso termine stabilito dal giudice delegato; e non potrebbe essere diversamente perchè, essendo finalizzato il riparto a distribuire qualcosa ai creditori ed avendo dei costi, è impossibile o antieconomico presentare riparti in mancanza di disponibilità liquide da distribuire o di disponibilità insufficienti a soddisfare una categoria di creditori o in modo apprezzabile un certo numero di creditori. Credo si sia persa un buona occasione per meglio regolamentare questo aspetto, nel senso di ancorare la presentazione del progetto di riparto piuttosto che ad un termine fisso- destinato, come è finora accaduto e continuerà ad accadere, a restare inosservato- alla presenza di liquidità tali da rendere utile ed economica una distribuzione tra i creditori. 2-Le masse attive, le somme disponibili e le somme da ripartire In ogni caso nel termine indicato il curatore deve presentare al giudice delegato “un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione delle medesime Il prospetto delle somme disponibili non è altro che la rappresentazione del complessivo ammontare delle somme entrate, della provenienza delle stesse, di quelle erogate per spese della procedura, di pagamenti fatti, del saldo attivo del conto bancario, la somma che si intende ripartire, ecc., da cui bisogna partire per individuare qual’è il netto distribuibile ai creditori. Questo aspetto era completamente trascurato nella vecchia legge fallimentare che, a parte l’indicazione della presentazione del progetto delle somme disponibili, null’altro diceva in proposito. Al contrario la nuova disciplina ha dedicato particolare attenzione alla determinazione del netto distribuibile, dettando una serie di regole che, si distinguono, nel mediocre panorama dell’insieme che caratterizza la riforma, per la loro completezza e tecnicità. La prima disposizione significativa in tal senso è quella contenuta nei primi due commi dell’art. 111 ter, che individuano la massa liquida immobiliare (“costituita dalle somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come definiti dall’articolo 812 c.c., e dei loro frutti e pertinenze, nonché dalla quota proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme”) e quella mobiliare (“costituita da tutte le altre entrate”). Si tratta di una distinzione chiarificatrice e fondamentale nel sistema distributivo data la presenza di prelazioni che operano soltanto sul ricavato immobiliare (ipoteche e privilegi immobiliari) e di altre che operano soltanto sul ricavato mobiliare (pegni e privilegi mobiliari), di altre ancora che operano prima su una massa e in via sostitutiva sull’altra (i privilegi mobiliari con garanzia sussidiaria sugli immobili), per cui, alla fin fine, la distinzione viene meno soltanto quando si coinvolgono i creditori chirografari, tali fin dall’inizio o divenuti tali a seguito di incapienza sul bene oggetto della garanzia speciale. Nel disinteresse della pregressa disciplina fallimentare circa la distribuzione delle spese della procedura tra le stesse e, scendendo più nei particolari, delle spese da attribuire ai beni oggetto di una garanzia specifica, si era arrivati, dopo varie oscillazioni, alla conclusione di dover distinguere tra spese specifiche (quelle resesi necessarie per l'acquisizione, per l'amministrazione o per la liquidazione di un determinato bene) e spese generali, che riguardano, invece, l'intera procedura fallimentare (come quelle per la formazione del passivo, per l'eventuale giudizio di opposizione al fallimento, per la chiusura della procedura, per il compenso al curatore ecc.); con la conseguenza che dal ricavato di ogni singolo bene andavano detratte tutte le spese specifiche relative a quel bene ed una aliquota proporzionale delle spese generali. Questo criterio, frutto di una ricostruzione consolidatasi negli anni, è stato ripreso nella nuova disciplina, attraverso una rivalutazione e rivitalizzazione dei conti speciali. Questi, come è noto, erano previsti anche nella previgente legge fallimentare nell'ultimo comma dell'art. 107, ma si trattava di una disposizione poco conosciuta, e poco studiata, probabilmente perché inopportunamente collocata in una norma che trattava del subingresso del curatore al creditore che aveva promosso l'esecuzione individuale immobiliare ancora in corso alla data del fallimento, tanto che era nato originariamente il dubbio che la tenuta dei conti speciali fosse richiesta solo nel caso della sostituzione del curatore al creditore procedente. Questa carenza è stata ben colta dal legislatore della riforma, i quale ha espressamente previsto, nel terzo comma dell’art. 111 ter, che “il curatore deve tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili oggetto di privilegio speciale e di ipoteca e dei singoli beni mobili o gruppo di mobili oggetto di pegno e privilegio speciale, con analitica indicazione delle entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale”. In questo modo viene inequivocamente e definitivamente chiarito, in primo luogo, l’utilità dei conti speciali per tutti i beni gravati da una prelazione di carattere speciale perchè, dovendo essere queste soddisfatte esclusivamente col ricavo del bene gravato, diventa indispensabile individuare il netto distribuibile di detti beni, nel mentre la stessa esigenza non ricorre per gli altri beni che indistintamente formano la massa su cui si soddisfano i restanti creditori. Viene altresì recepita la distinzione tra spese specifiche e generali e chiarito che il criterio di imputazione delle spese generali è quello proporzionale sopravanzando, sul punto la giurisprudenza che poneva in primo piano il criterio della utilità, secondo il quale sui beni oggetto di garanzie reali speciali, potevano gravare soltanto gli oneri correlati all'amministrazione e alla liquidazione di tali beni, ovvero attinenti ad attività di amministrazione direttamente rivolte alla conservazione o all'incremento dei beni stessi o comunque destinate a realizzare una specifica utilità a beneficio dei creditori garantiti. E’ evidente che l’applicazione del criterio dell’utilità (molto opportuno se fosse realizzabile) restringe il campo di imputazione delle spese generali ai beni gravati da garanzia specifica rispetto a quello della proporzionalità, tuttavia anche questo è comunque riferito alle spese in senso tecnico del processo concorsuale- per le quali è agevole distinguere tra quelle che attengono all’amministrazione, conservazione e liquidazione di beni determinati e quelle necessarie per la procedura, sostenute nell’interesse collettivo della massa- e non a tutti i crediti che vanno pagati in prededuzione (tra cui, nell’attuale sistema, vanno comprese le spese per l’esercizio provvisorio e quelle contratte nel corso dell’amministrazione controllata, cui sia seguito il fallimento). In questo modo viene determinato il netto disponibile per il riparto, in quanto, individuate le masse mobiliari e immobiliari, all’interno di queste vi sono i beni gravati da prelazioni specifiche- che entrando nei conti speciali, sono soggetti ad una analitica ed individuale contabilità con l’imputazione delle spese specifiche e parte di quelle generali- e i beni non gravati da garanzie specifiche, che possono essere considerati come una un’unica submassa che assorbe complessivamente le altre spese. Per passare dall’attivo disponibile così determinato all’attivo distribuibile nel singolo riparto, bisogna individuare, salvo che non si tratti del riparto finale, l’entità della somma complessiva da distribuire. A questo fine, in primo luogo, va accantonare una quota dell’attivo disponibile giacchè l’attuale art. 113 stabilisce che le ripartizioni parziali non possono superare l’80% delle somme da ripartire, in tal senso modificando il testo della precedente norma che fissava lo stesso limite nel 90%. Si è finora ritenuto, e non vi è motivo di mutare opinione, che la percentuale imposta indichi l’accantonamento minimo, vincolante per gli organi fallimentari, i quali nel fissare la somma da distribuire possono, quindi, prudentemente accantonare una quota maggiore ma non possono scendere al di sotto della stessa. La funzione di questo accantonamento è stata sempre incerta nel vigore della precedente disciplina perchè, calcolandosi sulle somme già depurate delle spese necessarie per la procedura e per l’amministrazione, l’accantonamento non poteva aver lo scopo di garantire il pagamento delle spese già incontrate, ma non poteva avere neanche lo scopo di garantire le spese future dato che il n. 4 dell’art. 113 prevedeva espressamente un accantonamento a tale scopo; sicchè si diceva che si trattava di un fondo riservato, privo di destinazione specifica che costituisce una generica cautela per consentire eventuali rettifiche del progetto presentate dal curatore, specie quando siano in corso opposizioni allo stato passivo o quando sia in corso una domanda di insinuazione tardiva. Questi dubbi sono stati fugati dal nuovo intervento legislativo perchè dal novellato secondo comma dell’art. 113 (“Le somme ritenute necessarie per spese future, per soddisfare il compenso al curatore e ogni altro debito prededucibile devono essere trattenute; in questo caso, l’ammontare della quota da ripartire indicata nel primo comma del presente articolo deve essere ridotta se la misura dell’ottanta per cento appare insufficiente”) si capisce che l’accantonamento in questione è destinato a far fronte alle spese future (ed infatti è stata eliminata l’ipotesi di accantonamento di cui all’attuale n. 4) in relazione alle quali la indicata percentuale di distribuzione può essere ulteriormente abbassata. Anche sul punto il legislatore ha recepito la prassi che raramente fa ricorso all’accantonamento specifico per spese future, tutelandosi gli organi fallimentari proprio riducendo l’entità della somma ripartibile. Non vanno altresì distribuite le “somme ricevute dalla procedura per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato”, che vanno trattenute, dispone l’ult. comma dell’art. 113, nei modi stabiliti dal giudice delegato. E’ evidente l’intento del legislatore di evitare la ripartizione di somme della cui disponibilità non vi è certezza in quanto acquisite in forza di un provvedimento provvisoriamente esecutivo, che può essere modificato. A questo punto il curatore può esporre il suo progetto di ripartizione delle somme così determinate. Si legge nella relazione accompagnatoria che “è stato, fra l’altro, stabilito che, già nel primo progetto di riparto parziale, il curatore è tenuto a specificare le somme che spetterebbero a quattro precise categorie di creditori, i cui diritti nell’ambito del concorso non siano stati ancora definitivamente accertati a causa di ammissioni con riserva o di opposizioni o di impugnazioni o di revocazioni in corso”; sin tratta dei creditori per i quali l’art. 113 prevede siano fatti accantonamenti. Non si capisce da dove il relatore abbia tratto questo giudizio che, fortunatamente, non trova alcun riscontro nella legge; sarebbe, infatti, illogico accantonare, fin dal primo riparto, le somme (probabilmente secondo gli importi risultanti dallo stato passivo o dalla domanda nel caso di opposizione) spettanti a creditori elencati, dato che la funzione dell’accantonamento è quella di garantire, in attesa della definizione della posizione, quel pagamento cui il creditore avrebbe diritto in sede fallimentare, sicchè la necessità dell’accantonamento alle categorie sopra indicate sorge quando si procede ad un riparto in cui quella categoria è contemplata e nei limiti della soddisfazione che il riparto consente. Questi accantonamenti, invero, non riducono la somma distribuibile se non in senso letterale perchè i creditori beneficiari sono compresi nel riparto, solo che invece dell’assegnazione della somma in pagamento che loro spetterebbe, viene fatto l’accantonamento per l’importo corrispondente; a sua volta, nella prassi, l’accantonamento viene realizzato soltanto in modo contabile, nel senso che l’importo da pagare non viene versato su un libretto in favore dei beneficiari (come sarebbe corretto fare), ma rimane sul conto corrente intestato al fallimento e non distribuito, in modo che comunque i creditori interessati siano cautelati. Il decreto correttivo ha ritenuto di dover aggiungere al primo comma la precisazione che “nel progetto sono collocati anche i crediti per i quali non si applica il divieto di azioni esecutive e cautelari di cui all’articolo 51”. Si tratta di una precisazione sostanzialmente inutile dal momento che contestualmente è stato aggiunto un terzo comma all’art. 52, in forza del quale sono soggetti all’accertamento del passivo “anche ai crediti esentati dal divieto di cui all’articolo 51”; una volta stabilito che anche questa tipologia di crediti è soggetta all’accertamento del passivo, diventa conseguenziale che questi crediti partecipino ai riparti fallimentari. E’ stato, in tal modo, definitivamente chiarito che i crediti esentati dal divieto di azioni esecutive e cautelari fruiscono di un privilegio puramente processuale (il potere di iniziare o proseguire l’espropriazione pur in pendenza del fallimento del debitore), ma non sono esentati dal “concorso sostanziale”: come tutti gli altri crediti devono essere ammessi al passivo (“concorso formale”) e poi devono essere collocati nei riparti (“concorso sostanziale”), per poter trattenere in via definitiva quanto è stato ricavato dall’espropriazione singolare da loro compiuta, effettuando, appunto, il conguaglio tra quanto ricavato e trattenuto in sede di esecuzione ordinaria (anche se è intervenuto ivi il curatore) e quanto gli competerebbe in sede fallimentare. 3-L’iter processuale L’iter processuale del riparto è stato integralmente riscritto dalla riforma del 2006 e ulteriormente modificato con il decreto correttivo. Secondo la originaria formulazione della norma, il giudice delegato, prima di ordinare il deposito in cancelleria del riparto presentato dal curatore, poteva, sentito il comitato dei creditori (l’omissione dell’audizione determinava, secondo la prevalente giurisprudenza, una nullità relativa o, anche, un vizio ininfluente sulla validità, entrambi rilevabili solo su eccezione della parte interessata mediante impugnazione del decreto di esecutività del riparto ex art. 26 l.f., con la conseguenza che detto provvedimento, in mancanza di impugnazione, rimane definitivamente valido), intervenire sullo stesso apportando “le variazioni che ravvisa convenienti”. Era pacifico che le variazioni che il giudice delegato poteva introdurre erano sia formali che sostanziali, o, per meglio dire, sia di carattere giuridico che di opportunità, con l’unico limite della immodificabilità dello stato passivo, nel senso che egli doveva limitarsi a risolvere le questioni concernenti la graduazione e la collocazione dei vari crediti, l'ammontare della somma distribuita, l'opportunità stessa di una ripartizione, mentre non poteva esaminare quelle concernenti l'esistenza o l'ammontare dei crediti ammessi e l'esistenza di cause di prelazione, stante l'intangibilità dello stato passivo non impugnato nei termini e nelle forme previsti dalla legge fallimentare. Il progetto di ripartizione elaborato e presentato dal curatore, integrato dalle eventuali variazioni apportate dal giudice delegato, andava depositato in cancelleria, e l’avvenuto deposito andava comunicato, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento (in analogia a quanto stabilito dagli artt. 92 e 97 data l’identità della ragione), a tutti i creditori, in modo da consentire a ciascuno di essi di controllare la propria posizione ed instaurare un contraddittorio. Costoro, infatti, nel termine di dieci giorni dal ricevimento dell’avviso di deposito, potevano proporre osservazioni- che non avevano natura di impugnazione, nè costituivano condizione per il successivo reclamo e potevano essere presentate personalmente dai creditori senza l’assistenza di un legale- che venivano valutate dal giudice delegato. Questi, tenuto conto delle osservazioni mosse e sempre nel limite già indicato per le variazioni della immodificabilità dello stato passivo, “stabilisce con decreto il riparto, rendendolo esecutivo”; questa era l’appropriata dizione del terzo comma dell’art. 110 ante riforma, per cui era chiaro che il riparto presentato dal curatore diveniva atto del giudice delegato, il quale, prima con le variazioni e poi con la decisione sulle osservazioni mosse dai creditori, “stabiliva” la distribuzione, fissava, cioè, le somme spettanti a ciascun creditore con quel reparto e ne disponeva l’esecuzione dichiarandolo esecutivo. Nulla diceva la vecchia norma circa l’impugnazione del decreto di esecutività del riparto, ma è noto che la giurisprudenza aveva sopperito a tale carenza facendo ricorso al reclamo ex art. 26, la cui costituzionalizzazione è iniziata con la famosa sentenza n. 42 del 1981 che ritenne essere in contrasto con l’art. 24 Cost. l’art. 26 l.f. nella parte in cui non assoggettava al reclamo al tribunale i provvedimenti decisori del giudice delegato proprio in tema di approvazione dei piani di riparto dell’attivo fallimentare, senza assicurare alle parti adeguate garanzie di difesa. Dopo le iniziali oscillazioni giurisprudenziali, ormai pacificamente si riteneva che la Corte costituzionale non aveva espunto dall'ordinamento il reclamo al tribunale previsto dall'art. 26 contro provvedimenti decisori del giudice delegato in tema di riparto dell'attivo, ma aveva piuttosto caducato alcuni aspetti della disciplina positiva dell'istituto, per quanto concerneva la misura e la decorrenza del termine per il reclamo e la mancata previsione del contraddittorio e della motivazione; onde si ammetteva il reclamo avverso il decreto di esecutività del riparto entro dieci giorni (di cui all'art. 739 comma 2 prima parte c.p.c.e non tre di cui all'art. 26 l.f.) dal deposito del decreto stesso (e non dalla data del decreto del giudice delegato), che dava inizio ad un procedimento che si doveva svolgere nell’osservanza del principio del contraddittorio garantito dall'art. 739 c.p.c. e concludersi con un provvedimento motivato del tribunale, come dispone l’art. 737 c.p.c., a sua volta ricorribile in Cassazione soltanto per violazione di legge ai sensi dell'art. 111 cost.. Nel nuovo secondo comma dell’art. 110 l.f. il legislatore del 2006 aveva soppressa la previsione secondo cui il giudice delegato poteva apportare al progetto di distribuzione le variazioni che reputava convenienti, per cui la norma aveva assunto la seguente formulazione: “Il giudice, sentito il comitato dei creditori, ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’articolo 98, ne siano avvisati con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altra modalità telematica…”. L’unica nota positiva di questo nuovo assetto era data dalla specificazione che l’avviso del deposito del riparto in cancelleria doveva essere dato con raccomandata con ricevuta di ritorto, a tutti i creditori “compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’art. 98” (ossia, secondo la nuova previsione di quest’ultima norma, i giudizi di opposizione allo stato passivo, di impugnazione e di revocazione di crediti ammessi, in passato rientranti nelle previsioni degli artt. 100 e 102 l.f.), così risolvendo legislativamente il punto dubbio se l’avviso (finalizzato al potere di fare osservazioni) dovesse essere fatto anche ai creditori esclusi dal passivo nella fase sommaria ma opponenti. Per il resto, si era aperto immediatamente un dibattito circa i limiti del potere di intervento del giudice sul riparto ed io ero tra coloro che avevano ritenuto che il giudice non potesse apportare alcuna forma di correzione al progetto, neanche quelle di diritto al fine di correggere eventuali errori giuridici, tanto da parlare di umiliazione del ruolo del giudice delegato, limitato al semplice ordine di deposito in cancelleria, compito che, peraltro non poteva neanche esercitare direttamente dovendo sentire prima il comitato dei creditori. Di contro, pur escludendo la possibilità di apportare variazioni di opportunità (entità degli accantonamenti, la partecipazione di alcune categorie di creditori al riparto, ecc.), si riconosceva al giudice il potere di effettuare variazioni di carattere giuridico (rispetto delle preferenze, ecc.), rientrante nei poteri di vigilanza e controllo riservati al giudice Fu facile obiettare che, come già detto parlando del programma di liquidazione, tale potere non era assoluto, ma andava inquadrato nei limiti di volta in volta definiti dal legislatore, per cui, poiché il nuovo secondo comma dell’art. 110 riproduceva il vecchio testo, da cui era stato espunto l’inciso che attribuiva al giudice di apportare le variazioni che riteneva convenienti, ed era, invece, rimasto l’ordine del deposito, si doveva dedurre che il legislatore aveva inteso eliminare quel controllo giudiziario che la legge prevedeva e, non avendo previsto altri motivi che potessero impedire il deposito, voleva dire che questo diventa un atto dovuto, che prescindeva da ogni valutazione, di legittimità o di merito, da parte del giudice. Nè era pensabile che il giudice avesse un potere di non disporre il deposito in cancelleria del progetto qualora non lo condividesse perchè, sarebbe illogico eliminare il potere del giudice di apportare variazioni al riparto per poi lasciagli lo stesso potere, in forma più brutale, di rifiutare il deposito se il progetto conteneva una qualche previsione che ora non poteva variare, ma che avrebbe potuto in passato modificare; in questo modo, si sarebbe ampliato il potere del giudice in netto contrasto con le rimodellate attribuzioni degli organi della procedura fallimentare. Il legislatore del decreto correttivo ha accolto questa tesi in quanto nella nuova formulazione del secondo comma dell’art. 110 ha eliminato anche l’inciso “sentito il comitato dei creditori”, soppressione che viene spiegata nella Relazione con il fatto che “limitandosi il giudice delegato ad ordinare il deposito del progetto di ripartizione, non vi è un provvedimento per l’emanazione del quale occorra sentire preventivamente il comitato dei creditori, i cui membri, come tutti i creditori, possono prendere visione del progetto di ripartizione in cancelleria ed, eventualmente proporre reclamo”. Si tratta di un chiarimento quanto mai opportuno perché evidenzia che il progetto di riparto è atto del curatore dato che il giudice non può apportare allo stesso alcuna modifica e deve limitarsi, quale atto dovuto, a disporne il deposito in cancelleria. L’aver ricondotto il progetto di riparto al curatore e non al giudice ha permesso al legislatore del correttivo di eliminare un’altra stortura in cui era incorso il riformatore del 2006, lì dove aveva previsto, nel terzo comma dell’art. 110, che “i creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla comunicazione dell’avvenuto deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, possono proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme del procedimento camerale ex articolo 26”. Era sparita, come si vede, la possibilità per i creditori di presentare avverso il progetto di riparto osservazioni al giudice delegato, evidentemente ritenuto non idoneo a risolvere una controversia nata tra le parti, e lo strumento di difesa era costituito dalla possibilità di proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme del procedimento camerale ex art. 26. Ossia la preoccupazione di impedire al giudice delegato di mettere mano al riparto era giunta al punto da scavalcarlo completamente, attuando, con il reclamo al tribunale, un meccanismo che snaturava il sistema impugnativo endofallimentare del reclamo al tribunale, previsto contro gli atti del giudice e non del curatore, quale era il nuovo progetto di riparto, dato che su di esso l’organo giudiziario non aveva potuto apportare alcuna variazione. Nè era pensabile che l’oggetto della impugnazione fosse il provvedimento di deposito del progetto di ripartizione in cancelleria perchè la norma diceva chiaramente che i creditori “possono proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme ....” e non contro il provvedimento del giudice cha ha disposto il deposito in cancelleria. Ossia la nuova norma era strutturata in modo tale da far capire in modo inequivoco che oggetto dell’impugnazione era il progetto di riparto, del quale il giudice delegato aveva dovuto ordinare il deposito in cancelleria, anche se non lo condivideva. In sostanza non risalendo la paternità del progetto al giudice, non era configurabile un reclamo avverso un suo atto, sia esso il progetto sia esso il provvedimento di deposito. Di quest’ultima considerazione- che la dottrina aveva evidenziato- i correttori si sono resi conto e, con la modifica del terzo comma della norma in esame, hanno precisato che il reclamo contro il progetto di ripartizione si propone davanti al giudice delegato ai sensi dell’art. 36; e tale modifica viene spiegata nella Relazione col fatto che “il progetto è, infatti, atto del curatore e il giudice delegato si limita, in prima battuta, ad ordinarne il deposito in cancelleria”. Questo utile chiarimento non riporta, tuttavia, la situazione a quella che era prima della riforma; invero: a-anche secondo l’ultima disciplina, il giudice delegato, se riscontra un errore di diritto nel progetto, non può intervenire per correggerlo e deve limitarsi a disporre il deposito dello stesso in cancelleria. Cancellato ogni potere di intervento d’ufficio del giudice delegato nella fase del riparto, la tutela di diritti dei crediti è, quindi, affidata esclusivamente alla iniziativa dei creditori attraverso la proposizione di reclami, cui vi faranno presumibilmente ricorso soltanto i creditori più attrezzati data la difficoltà della materia. Ciò è tanto più preoccupante in questa materia in quanto vige il principio dell'immutabilità delle ripartizioni effettuate in favore dei creditori che sono, infatti, tenuti alla restituzione di quanto distribuito in precedenza, sia pure in violazione della "par condicio", solo nel caso revocazione del credito ammesso. Questo principio, finora desumibile dall’art. 114 l.f. è stato affermato, in modo quanto mai inequivoco, nella riformulazione della norma, per la quale, infatti, ”I pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto non possono essere ripetuti, salvo il caso dell’accoglimento di domande di revocazione”. Ed è stato anche aggiunto che “I creditori che hanno percepito pagamenti non dovuti, devono restituire le somme riscosse, oltre agli interessi legali dal momento del pagamento effettuato a loro favore”, in tal senso risolvendo definitivamente il contrasto dottrinario tra chi sosteneva questa tesi e chi riteneva che gli interessi decorressero dalla data della domanda di revocazione, la cui sentenza è la fonte del dovere di restituzione o addirittura dalla messa in mora con una formale richiesta. b-La modifica del terzo comma chiarisce che il reclamo è proposto ai sensi dell’art. 36 e questa norma mantiene il reclamo da parte del fallito e di ogni interessato al giudice delegato contro gli atti di amministrazione del curatore (ed introduce il reclamo contro “le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei creditori”) ma chiarisce in modo netto che tale reclamo è consentito soltanto “per violazione di legge”, per cui è esclusa ogni indagine e decisone sul merito. c-Contro il decreto del giudice delegato che pronuncia sul reclamo sarà poi proponibile reclamo al tribunale, giusta la previsione dell’art. 36. Il tribunale a detta di questa norma decide con decreto non impugnabile, ma trattandosi di tutela di diritti deve ritenersi che contro il decreto del tribunale sia ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. d-L’ultimo comma dell’art. 110 è rimasto immutato, creando problemi di coordinamento. Questa disposizione stabilisce che, una volta decorso il termine per il reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara esecutivo il progetto di ripartizione, ovvero che, nell’ipotesi inversa di presentazione di reclamo, il giudice delegato dichiara egualmente esecutivo il progetto di distribuzione previo accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione. Il meccanismo dell’accantonamento, pur con molte riserve, poteva avere un senso nel sistema previsto dalla riforma del 2006 secondo il quale, proposto reclamo al tribunale, il giudice poteva, anzi doveva dichiarare esecutivo il riparto, disponendo “l’accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione”, prescindendo da ogni valutazione sommaria di merito al fine di accertare il fumus della fondatezza del reclamo; ossia la presenza di un reclamo all’organo collegiale giustificava egualmente la dichiarazione di esecutività del riparto prima della decisione, con l’unica accortezza dell’accantonamento a tutela del creditore interessato. Una volta ammesso il reclamo allo stesso giudice delegato diventa incomprensibile procedere obbligatoriamente all’accantonamento per dichiarare l’esecutività. Giusta la scissione tra la decisione sul reclamo e quella sulla esecutività, ma essendo le due decisioni rimesse allo stesso organo, sarebbe stato più logico lasciare la libertà al giudice delegato di orientarsi caso per caso; è chiaro, infatti, che soltanto nel caso in cui la decisione sul reclamo richieda del tempo, sorge la necessità di non danneggiare gli altri creditori di dare esecuzione al riparto e, di conseguenza di disporre l’accantonamento. Bisogna dare comunque atto al legislatore del correttivo di aver in qualche modo recuperato una certa organicità di sistema, dando, pur con molte limitazioni, un senso ed una dignità alla partecipazione del giudice delegato al procedimento di ripartizione, che era, in precedenza completamente svilito dato che il suo compito si riduceva al compimento di atti obbligati, privi di autonomia decisionale, quali il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, l’ordine di avvertire i creditori, e poi la dichiarazione, su richiesta del curatore, di esecutività del riparto cui non aveva minimamente partecipato, con accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione. 4-Gli atti successivi alla dichiarazione di esecutività Dichiarato esecutivo il riparto, il curatore- a norma del primo comma dell’art. 115- “provvede al pagamento delle somme assegnate ai creditori nel piano di ripartizione nei modi stabiliti dal giudice delegato, purché tali da assicurare la prova del pagamento stesso”. Il precedente art. 115 non conteneva quest’ultimo inciso ed è sempre stato pacifico che si trattava di una norma sostanzialmente in bianco che il giudice delegato riempiva con le sue statuizioni avendo la libertà di disporre modi di pagamento diversi da quello in danaro contante fatto direttamente al domicilio del creditore (art. 1182, 1277 c.c.) con efficacia liberatoria per il fallimento (es. rilascio di assegni circolari, consegna di libretti di banca) potendo essi servire a facilitare il compito della curatela. Nel nuovo sistema, l’esautoramento del giudice da ogni forma di controllo sul riparto, così come da ogni attività di controllo sull’attività gestoria del curatore, rende inspiegabile il mantenimento in capo a lui del potere di disporre le modalità dei pagamenti, in distonia con i residui poteri gestori che si riducono all’emissione dei mandati, a norma dell’ult. comma dell’art. 34 l.f., con perdita di poteri autorizzativi. In ogni caso è inspiegabile l’aggiunta contenuta nel novellato articolo, perchè non serve a evitare il pericolo di ruberie da parte di curatori disonesti, se questo era l’intento dei riformatori e, qualunque sia il mezzo di pagamento scelto dal giudice, rientra comunque nel potere di chi adempie, ossia del curatore, ottenere la quietanza del pagamento a norma dell’art. 1199 c.c.. Il legislatore ha ritenuto, in sostanza, di dover ricordare al giudice di scegliere una modalità di pagamento che consenta di provare che esso è avvenuto, come a dire di stare attento a che il curatore si faccia rilasciare la quietanza del pagamento effettuato. In ogni caso, il curatore, qualora rilevi che le modalità di pagamento disposte dal giudice delegato siano tali da non assicurare la prova del pagamento stesso e ritenga di non poter sopperire di propria iniziativa a tale carenza, deve, presumibilmente, proporre reclamo al tribunale avverso il provvedimento del giudice. Le somme destinate ai creditori che non si presentano o che sono irreperibili vanno nuovamente depositate presso l'ufficio postale o la banca già indicati ai sensi dell'articolo 34, dispone il nuovo penultimo comma dell’art. 117, che riprende con aggiustamenti (dovuti al diverso sistema di scelta della banca tra le due discipline) l’ult. comma del precedente art. 117. Nel vigore di questo si era ritenuto che, trascorsi cinque anni dalla chiusura del fallimento senza che le somme depositate fossero state reclamate, la cancelleria, presso cui normalmente veniva depositato il libretto di deposito nominativo in favore del creditore, facesse un mandato in favore della Cassa Depositi e Prestiti; la nuova norma stabilisce, invece, che le somme non riscosse dopo cinque anni dal deposito e i relativi interessi, “se non richieste da altri creditori, rimasti insoddisfatti, sono versate a cura del depositario all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia”. I beneficiari principali delle somme non riscosse sono, quindi, gli altri creditori che ne facciano richiesta, tra i quali soltanto, secondo la nuova disposizione dell’ult. comma dell’art. 117, questa residua liquidità va distribuita, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel rispetto delle cause di prelazione; rispetto che opera, pertanto, solo tra i partecipanti richiedenti e non tra tutti i creditori rimasti insoddisfatti, rimanendo estranei alla distribuzione coloro che non hanno fatto richiesta di concorrere a questo riparto suppletivo. Poichè non è previsto alcun avviso ai creditori dell’esistenza di residui da distribuire, onde evitare che siano soltanto i creditori amichevolmente avvertiti dal curatore o comunque i soliti ben attrezzati ad usufruire del beneficio del riparto supplementare, sarà opportuno che i creditori, già nella domanda di insinuazione, dichiarino la loro volontà di partecipare a detti eventuali riparti. In via subordinata, in mancanza di richieste da parte dei creditori, le somme residue non riscosse vanno allo Stato per essere riassegnate ad una apposita “unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia”, non meglio specificata. Forse sarebbe stato meglio lasciare in questo caso confluire le somme in questione su un fondo da istituire presso ciascun tribunale con cui soddisfare i curatori dei fallimenti inattivi, che continueranno ad esserci. La norma si riferisce ai riparti finali, per cui rimane il dubbio se sia applicabile anche ai riparti parziali. A mio parere la risposta deve essere negativa nel senso che, decorsi cinque anni da un riparto parziale, se il fallimento è ancora aperto le somme accantonate rientrano nell’attivo da distribuire con i successivi riparti, includendo negli stessi ancora i creditori irreperibili, che non sono stati soddisfatti, fino ad arrivare al riparto finale. Opportunamente l’ult. comma dell’art. 115 chiarisce che “se prima della ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, il curatore attribuisce le quote di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l'intervenuta cessione. In questo caso, il curatore provvede alla rettifica formale dello stato passivo”. Disposizione resasi necessaria per superare l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte risalente al 1991 (Cass. 4 dicembre 1991, n. 12999; Cass. 9 dicembre 1991, n. 13221) secondo il quale la cessione di un credito già ammesso al passivo fallimentare, notificata al fallimento dopo la formazione dello stato passivo e prima della redazione del piano di riparto, può essere fatta valere nei confronti del fallimento stesso solo attraverso l'insinuazione tardiva, ai sensi dell'art. 101 del r.d. 16 febbraio 1942 n. 267, non essendo sufficiente la mera notificazione e dovendosi provvedere al controllo, da parte del giudice fallimentare, dell'effettività (non della validità) della cessione e dell'insussistenza di cause preclusive del credito, rispetto al fallimento, in relazione al suo nuovo titolare. Questo principio era stato ritenuto applicabile non soltanto alle ipotesi di surrogazione convenzionale ma anche a quelle di surrogazione legale (ed i casi più frequenti sono proprio questi, in particolare la surrogazione prevista dall'art. 2 comma 7, della l. 29 maggio 1982 n. 297 a favore del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto istituito presso l'INPS); pertanto- si diceva- “la disposizione di cui all'art. 1203 c.c., in base alla quale la surrogazione legale ha luogo di diritto, va intesa nel senso che essa opera anche senza il consenso del creditore originario e del debitore, e non invece nel senso che la sua concreta attuazione possa prescindere dalla rituale domanda del terzo che ha pagato di volersi surrogare al creditore soddisfatto” (Cass. 22 febbraio 1995, n. 1997). Benchè la nuova disposizione facesse riferimento alla sola cessione convenzionale (richiede una attestazione, con atto recante le sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, dell'intervenuta cessione), la dottrina non aveva avuto dubbi, per le stesse simmetriche ragioni, a ritenerla applicabile anche alle surrogazioni, siano esse convenzionali che legali. Nel decreto correttivo si è ritenuto opportuno introdurre una apposita disposizione per estendere la disciplina dettata per il caso di cessione dei crediti ammessi anche ai casi di surrogazione previsti dal codice civile o da leggi speciali, non essendovi ragioni per una differenza di trattamento. Questo, peraltro, è il caso più diffuso in considerazione della surroga legale dell’INPS che anticipa il TFR o gli ultimi tre mesi di retribuzione ai lavoratori ammessi al passivo. Giuseppe Bozza