Siena 14.2.2008
IL PROGRAMMA DI LIQUIDAZIONE E IL RIPARTO FALLIMENTARE
Sommario:
A-Il programma di liquidazione
1-Funzione dell’istituto; 2-Termine per la presentazione del programma; 3-L’approvazione
del programma e il ruolo del g.d.; 4-Il contenuto del programma; 5-Gli effetti del
programma; 6-La retrocessione dei beni non alienabili
B-La ripartizione dell’attivo
1-I termini per i riparti parziali; 2-Le masse attive, le somme disponibili e le somme da
ripartire; 3-L’iter processuale; 4-Gli atti successivi alla dichiarazione di esecutività
A-Il programma di liquidazione
1-Funzione dell’istituto
Il programma di liquidazione, già noto nella procedura di amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 54, comma 4 D.lgs. 270/99),
costituisce una novità nel panorama del fallimento.
Il curatore fallimentare, nel vigore della legge del ’42, ancorchè tutti i
provvedimenti di liquidazione dell’attivo fossero di competenza del giudice
delegato (tranne, in alcuni casi, l’esercizio provvisorio), era libero di fissare i
tempi della liquidazione dei beni, di decidere l’ordine da seguire nella vendita
dei vari cespiti, di valutare l’opportunità di vendite particellizzate o in blocco;
in sostanza era il curatore che dettava i tempi ed i modi della liquidazione
sottoponendo di volta in volta al giudice delegato la richiesta delle necessarie
autorizzazioni o dei necessari provvedimenti, fermo restando che il giudice, in
forza dei suoi poteri direttivi, poteva in ogni momento intervenire su tali scelte.
Questa libertà del curatore è stata in qualche modo, più che limitata,
incanalata in tempi predefiniti e in schemi predeterminati dall’art. 104 ter,
perchè ora il curatore deve predisporre un programma, teso a razionalizzare
la fase di liquidazione dell’attivo, che definisca le modalità e i termini della
liquidazione dell’attivo al quale deve attenersi, deve, cioè, predisporre un
piano di azione e deve indicare tanto le scelte strategiche quanto le scelte
operative, prefigurando i risultati ottenibili dalle operazioni di gestione del
patrimonio fallimentare.
Che questa sia la funzione del programma di liquidazione non sono mai sorti
dubbi, per cui la definizione data nel decreto correttivo, secondo cui “il
programma costituisce l’atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle
modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo”, nulla aggiunge a
quanto si era ritenuto fin dalla introduzione della norma nel tessuto normativo
relativo alla liquidazione, se non accentuare, come è stato ben detto
(Esposito) “la valenza di indirizzo generale del programma onde esaltarne la
funzione centrale in seno alla procedura fallimentare al fine di evidenziare
come, di per sé, la pianificazione sia elemento di ottimizzazione delle risorse,
dato che il processo di trasformazione, dell’attivo in denaro, è ottimizzato
laddove sia realizzato non più con operazioni diversificate, non coordinate,
occasionali e non rientranti in una strategia unitaria, bensì nel quadro di un
razionale programma di liquidazione predisposto dal curatore”.
Questa accentuazione della valenza pianificatoria e di indirizzo del
programma non esclude affatto il mantenimento del criterio della analiticità
nella redazione, sia perché questo è concetto immanente ad ogni
pianificazione, sia perché è lo stesso legislatore che, nell’elencare il
contenuto minimo del programma, fa capire, come si vedrà, che questo non
può esaurirsi in una generica esposizione di ciò che il curatore intende fare,
ma deve contenere un piano articolato e specifico, sia, infine, perché,
dovendo i singoli atti essere soggetti ad autorizzazione del giudice, secondo
la novità introdotta con il decreto correttivo, è chiaro che la richiesta da
autorizzare deve presentare quel tasso di analiticità tale da consentire cosa
possa essere e cosa sia stato effettivamente autorizzato.
In ogni caso la specificazione del legislatore del correttivo è utile per meglio
differenziare la funzione del programma di cui si sta parlando dalla relazione
ex art. 33, con la quale vi una qualche sovrapposizione di contenuti. In realtà
la relazione ha una funzione meramente informativa alla luce della quale il
giudice delegato e il P.M. possono valutare le azioni da intraprendere a tutela
del patrimonio e di perseguire i responsabili del dissesto in sede civile e
penale; il programma ha invece una funzione più strettamente operativa in
quanto è l’atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai
termini secondo i quali il curatore intende procedere alla liquidazione.
2-Termine per la presentazione del programma
Il documento di cui trattasi deve essere predisposto entro sessanta giorni
dalla chiusura dell’inventario (che può essere anche negativo).
Questo termine, per quanto flessibile in ragione del fatto che il dies a quo è
parametrato alla conclusione delle operazioni di inventario, che possono
richiedere poco o molto tempo, sembra essere comunque troppo breve e
insufficiente ad acquisire tutti gli elementi utili sulla composizione, sul valore
(gli stimatori dovranno operare molto in fretta per fornire in tempo utile le
stime), sulle possibilità di realizzazione del patrimonio e quant’altro
necessario per redigere un programma serio e attuabile, tanto più che in
quello stesso periodo anche altre incombenze impegnano il curatore, tra cui
la predisposizione del progetto di stato passivo. Proprio la previsione del
termine indicato fa capire che la liquidazione è svincolata dalla dichiarazione
di esecutività dello stato passivo, cui la vecchia legge subordinava l’inizio
dell’attività liquidatoria, salve le urgenze, tuttavia, lì dove è indispensabile
conoscere l’entità e la composizione del passivo per valutare se alienare tutto
l’attivo inventariato, se svolgere azioni risarcitorie e recuperatorie, anch’esse
da specificare nel programma, è utile comunque predisporre il programma nei
termini prevedendo soluzioni alternative nell’ipotesi che l’entità del passivo
non giustifichi più determinate operazioni.
Nulla è detto circa la perentorietà o meno del termine nè circa eventuali
proroghe, per cui, presumibilmente, anche per le obbiettive ragioni indicate, il
termine sarà adattato alle singole procedure, se si vogliono evitare piani
generici e di nessuna utilità; fermo restando che, pur in mancanza di una
disposizione analoga a quella di cui all’art. 54 comma 4 D.lgs. 270/99 per
l’amministrazione straordinaria, ove la mancata osservanza comporta la
revoca del commissario straordinario, l’eventuale inerzia del curatore può
essere valutata allo stesso fine, con la possibilità per il tribunale di giudicare il
comportamento del curatore alla luce della situazione concreta in cui si è
trovato ad operare.
3-L’approvazione del programma e il ruolo del g.d.
Il programma, nel testo originario dell’art. 104 ter, andava sottoposto
all’approvazione del giudice delegato, “acquisito il parere favorevole del
comitato dei creditori”, sicchè il parere favorevole del comitato dei creditori si
poneva come condizione necessaria per l’approvazione da parte del giudice;
rimanevano seri dubbi, invece, sui limiti del sindacato da parte dell’organo
giudiziario.
La formula utilizzata dalla norma, complice la Relazione accompagnatoria in
cui si parlava di vincolatività del parere favorevole, aveva indotto parte della
dottrina a ritenere che l’approvazione del g.d. fosse un atto dovuto, tanto più
che soltanto il comitato dei creditori poteva “proporre al curatore modifiche al
programma presentato” (prima parte comma 4° art. 104 ter).
Di contro, si riteneva che il giudice delegato avesse quanto meno il potere di
respingere il programma quando lo avesse ritenuto non conforme alla legge,
ad esempio perché incompleto, escluso comunque qualsiasi forma di
sindacato sulle scelte del curatore, fatti forse salvi i casi in cui queste
apparissero manifestamente illogiche oppure le operazioni proposte non
sembrassero giuridicamente fattibili (ad esempio perché si prevede di
revocare atti di per sé non revocabili).
Infine si rilevava che l’ampiezza di poteri del curatore nella fase liquidatoria e
la mancanza di qualsiasi controllo sull’attuazione del piano comportavano che
l’approvazione iniziale fosse qualcosa di più di una formale atto dovuto,
qualcosa che implicasse, cioè, non solo un controllo di legittimità, per cui il
giudice delegato poteva respingere il programma ritenuto non conforme a
legge (ad es. perchè incompleto) ma pure di merito, per cui poteva
respingerlo anche quando non condivideva le scelte effettuate dal curatore.
Di conseguenza, l’approvazione del piano, esautorato il giudice dalla
gestione, dalla successiva liquidazione e dal riparto, diventava il momento
principale ed unico in cui poter estrinsecare i suoi poteri di vigilanza
sull’operato del curatore.
Quest’ultima, a mio parere, era la interpretazione più appropriata perché, a
parte le accennate convincenti argomentazioni, il legislatore delegato,
modificando sul punto la dizione della legge delega n. 80/2005 che, al comma
6° dell’art. 1 parlava di autorizzazione da parte del giudice delegato, aveva
sostituito l’autorizzazione con l’approvazione da parte di questi, attribuendo,
come è stato ben detto (Sandulli), al giudice un forte potere di condivisione,
ulteriore rispetto a quello generale di controllo sulla regolarità della
procedura, che importava una valutazione di opportunità e di convenienza,
non solo di mera legittimità formale e sostanziale.
A questo equivoco ha cercato di porre rimedio il decreto correttivo che ha
sostituito l’approvazione del giudice delegato con quella del comitato dei
creditori, senza alcuna partecipazione del giudice, al quale, come precisa il
nuovo ult. comma, il programma approvato va soltanto comunicato. Il
programma, cioè, una volta approvato dal comitato dei creditori, non tiene più
luogo delle singole autorizzazioni eventualmente necessarie per l’attuazione,
essendo stato abrogato la seconda parte del quarto comma che conteneva
questa disposizione, sostituito con il nuovo ult. comma che attribuisce al
giudice delegato il potere di autorizzare l’esecuzione degli atti a esso
conformi.
In questo modo, da un lato, è stato ulteriormente accentuata la rilevanza del
comitato dei creditori, che è diventato il vero ed unico dominus di questa fase
della procedura ed è stato resa ancor più chiara la totale emarginazione del
giudice dal programma in questione, creando una frattura con la legge delega
che, come già accennato, richiedeva che il curatore predisponesse “un
programma di liquidazione da sottoporre, previa approvazione del comitato
dei creditori, all'autorizzazione del giudice delegato”. Al di là della differenza
tra approvazione e autorizzazione, è chiaro che il legislatore delegante voleva
che il programma, approvato dal comitato dei creditori (ossia, ottenuto il
parare favorevole di tale organo) fosse sottoposto al controllo del giudice
delegato che avrebbe, da ultimo, dovuto esercitare, quanto meno, un
controllo di legalità teso a rimuovere il limite all’esercizio del diritto/dovere del
curatore di procedere alla liquidazione, che è il meccanismo in cui si
sostanzia l’autorizzazione.
E’ pacifico, comunque, che ora il programma va approvato soltanto dal
comitato dei creditori e che il giudice delegato non interviene più su di esso,
né per approvarlo né per autorizzarlo, essendo il suo compito limitato ad
autorizzare l’esecuzione di ogni operazione (non soltanto gli atti di
liquidazione) contenuta nel programma stesso; e qui si riapre, sotto altro
aspetto, il dibattito già sorto nella precedente formulazione della norma, circa
i limiti del potere autorizzativo del giudice.
Vi è chi sostiene che, anche dopo l’accennata modifica dell’art. 104 ter, il
giudice continua ad esercitare un “controllo di legalità attraverso l’esame del
merito degli atti che autorizza” (Esposito) nel senso che egli non ha il mero
compito di certificazione che il singolo atto sottoposto alla sua autorizzazione
sia conforme a quanto programmato dal curatore e approvato dal comitato
dei creditori ma, attraverso questo controllo di conformità dell’atto al
programma, il giudice può effettuare una valutazione di conformità del
programma alla legge, rifiutando l’autorizzazione nel caso l’atto, pur previsto
nel programma approvato, non sia conforme alla legge.
Questa tesi, poggia su alcune considerazioni che, in sintesi, possono così
riassumersi:
a-è implicito nel concetto di autorizzazione il vaglio di legittimità;
b-è implicito nei potere di vigilanza del giudice delegato un controllo di legalità
dell’attività compiuta dal curatore;
c-per soddisfare esigenze di efficienza e celerità il legislatore ha anticipato al
momento in cui l’atto deve essere compiuto quel controllo ex post che la
informativa di cui all’art. 107 consente.
Le considerazioni sopra esposte non mi sembrano molto convincenti, anche
se rimane uno spazio di valutazione del programma da parte del giudice nei
limiti che si diranno.
Invero, non vi è dubbio che l’autorizzazione implichi un controllo di legalità al
fine di rimuovere un limite all’esercizio di un diritto o di un potere già attribuito
dalla legge ad un soggetto, ma nell’ult. comma dell’art. 104 ter l’oggetto
dell’autorizzazione non è il programma- come richiedeva la legge delega- ma
sono i singoli atti esecutivi programmati; non solo, ma la verifica dei parametri
cui l’autorizzante deve nella specie ispirarsi per rimuovere l’ostacolo è
chiaramente indicato nella conformità del singolo atto al programma di
liquidazione approvato dal comitato dei creditori. Evidentemente il legislatore
ha diviso i compiti tra questi due organi: il comitato dei creditori approva il
programma, che sia o non conforme alla legge (e si vedranno quali sono i
rimedi posti nel caso di illegalità) facendo le sue valutazioni di merito e il
giudice delegato vaglia che il curatore non ponga in essere atti non contenuti
nel programma approvato.
Altrettanto pacifico è che sia residuato al giudice delegato il potere di
vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura e che questo potere si
estrinsechi in una verifica della legittimità sulla regolarità degli atti compiuti,
ma permane il dubbio se il potere di cui parlano gli artt. 25 e 31 si estenda
preventivamente a tutti gli atti del curatore o sia incanalato nei limiti in cui la
legge lo preveda nelle singole fattispecie.
Sembra preferibile la seconda linea interpretativa, altrimenti si riproporrebbe
quella struttura piramidale e quel dominio gerarchico che il legislatore ha
inteso superare nel rapporto tra organi eliminando il potere direttivo che in
passato era attribuito al giudice delegato.
Del resto, ritornando al caso in esame, non può essere privo di significato il
fatto che prima era previsto che il piano fosse approvato dal giudice delegato
ed ora tale potere sia passato al comitato dei creditori, attribuendo un residuo
potere di autorizzazione dei singoli atti previo controllo di conformità degli
stessi al programma; se il legislatore avesse inteso estendere il controllo del
giudice alla legalità del programma avrebbe potuto richiedere soltanto
l’autorizzazione per i singoli atti, senza altra precisazione, che avrebbe
incluso un vaglio di legittimità esteso fino alla conformità alla legge del
programma approvato, nel mentre ha preferito specificare che la conformità
deve essere esaminata con riferimento proprio al programma, escludendo
evidentemente altre valutazioni.
Ed, infatti, nel sesto comma dell’art. 104 ter il legislatore, nel prevedere la
possibilità di procedere alla liquidazione di beni prima dell’approvazione del
programma quando dal ritardo possa derivare pregiudizio all’interesse dei
creditori, richiede l’autorizzazione del giudice, senza altra specificazione,
perché qui, mancando ogni preventiva valutazione del comitato dei creditori
che non ha ancora approvato il piano, è attribuita all’organo giudiziario la
maggiore libertà di verificare se l’atto è conforme alla legge; verifica che dà
per presupposta quando l’approvazione è intervenuta, a meno che il piano
approvato non consenta la verifica di conformità.
E’ chiaro, infatti, che la valutazione di conformità al programma richiede un
programma che consenta di effettuare tale verifica, sicché il giudice può
rifiutare l’autorizzazione, non solo nel caso in cui l’atto da autorizzare non sia
incluso nel piano, ma anche se questo non consenta, per la sua genericità o
incompletezza, di esercitare il raffronto da cui dovrebbe scaturire
l’autorizzazione. Ed in questo senso, e solo entro questi limiti, può dirsi che il
giudice abbia conservato un potere di controllo di legalità sul programma.
Lo stesso problema si era posto in sede di riparto, ove il legislatore del 2006,
eliminando il potere del giudice di apportare al progetto di riparto presentato
dal curatore le variazioni che riteneva convenienti, aveva fatto nascere il
dubbio se residuava in capo al giudice, in considerazione dei suoi poteri di
vigilanza e controllo, la possibilità di esercitare ugualmente un controllo di
legalità sul progetto; la questione, come si vedrà trattando del riparto, è stata
risolta dal decreto correttivo che ha escluso, come si legge anche nella
relazione, in modo netto questa possibilità.
Questo meccanismo di totale esautoramento del giudice delegato dal
programma di liquidazione ben si inquadra, peraltro, nel sistema.
In primo luogo, infatti viene incontro all’esigenza di eliminare ogni dubbio
sugli atti che il curatore può porre in essere che, in precedenza, non erano
sempre agevolmente identificabili in quanto, una volta approvato il piano, il
curatore vi dava esecuzione, senza alcun ulteriore controllo al momento del
compimento dei singoli atti; di conseguenza l’approvazione di un programma
non sufficientemente dettagliato- cosa possibile dati i tempi di presentazionelasciava al curatore margini amplissimi di autonomia, e, comunque, un
curatore poteva eseguire una operazione non contemplata nel piano, sicchè,
si rendeva opportuno, anzi necessario, un controllo di conformità del singolo
atto al programma nel momento in cui si voleva dare a questo esecuzione,
con la possibilità, come detto, per il giudice di rifiutare l’autorizzazione anche
quando la carenza di elementi di dettaglio del piano non consentivano di dire
se il singolo atto rientrasse o meno nel programma.
L’esigenza che ricorreva, pertanto, non era quella di sottoporre il programma
ad una verifica di legalità da parte del giudice delegato, ma di sottoporre a
controllo di conformità col programma i singoli attui di esecuzione dello
stesso, salvo poi a riservare ex post al giudice il potere di sospendere le
operazioni di vendita già effettuate per gravi e giustificati motivi, come
prevede l’art. 108; l’anticipazione di una verifica di legalità del programma al
momento dell’autorizzazione dei singoli atti avrebbe un senso ove fosse stata
eliminata o modificata la norma di cui all’art. 108, ma il fatto che questa sia
rimasta immutata nella parte che qui interessa, evidenzia che il legislatore ha
inteso lasciare la verifica sulla regolarità, come sul merito, al momento
successivo, evitando di attribuire al giudice quel potere di iniziativa che l’art.
108 riserva al fallito, al comitato dei creditori o ad altri interessati.
Tutto ciò rientra nella diversa ottica in cui si è mosso il nuovo legislatore che
ha preferito lasciare agli interessati la tutela dei propri diritti per cui il giudice
delegato, come non ha più poteri di ufficio per correggere un piano di riparto
errato se nona seguito di reclamo ex art. 36, così con riferimento al piano di
liquidazione non può più intervenire sua sponte per eliminare la violazione di
legge, ma devono essere altri a sollecitare i suoi poteri, al momento in cui il
curatore ha compiuto un atto liquidatorio; fermo restando che il programma
deve essere approvato dal comitato dei creditori.
E qui emerge ancor più che non in passato la carenza del limite posto dall’art.
36 al reclamo al giudice delegato contro i dinieghi del comitato dei creditori;
invero, ammesso che legittimato a proporlo sia anche il curatore, questi
potrebbe appellarsi soltanto alla violazione di legge contro l’eventuale rifiuto
di approvazione, che nasconde chiaramente (o, almeno, il più delle volte) un
contrasto di merito sulle scelte tra il curatore ed il comitato dei creditori. A
questo punto, o il curatore si adegua alle indicazioni del comitato, ovvero,
permanendo il contrasto, si prospetta una ipotesi di revoca del curatore ( a
meno che non vi sia un conflitto di interesse per i componenti del comitato), il
che fa capire a quali condizionamenti è esposto il curatore.
E’ comunque da ritenere che anche nella fattispecie sia applicabile il quarto
comma dell’art. 41 che, nella attuale formulazione, prevede che, in caso di
inerzia del comitato dei creditori, di impossibilità di costituzione per
insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del
comitato o di urgenza, provvede il giudice delegato; di talchè è questi che, in
mancanza del comitato dei creditori, provvede all’approvazione del
programma.
4-Il contenuto del programma
Il secondo comma dell’art. 104 ter elenca il contenuto minimo del programma
di liquidazione richiedendo, in una espressione di carattere generale, la
necessità che questo contenga (anche se nel nuovo testo sono mutate le
parole è rimesto identico il concetto) le “modalità e i termini previsti per la
realizzazione dell’attivo”, anche se il piano ha un contenuto più ampio rispetto
alle sole operazioni di liquidazione.
Invero, la norma richiede che sia prevista:
a-“l’opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli
rami di azienda, ai sensi dell’art. 104, ovvero l’opportunità di autorizzare
l'affitto dell’azienda, o di rami, a terzi ai sensi dell'articolo 104 bis”. Sia
l’esercizio provvisorio che l’affitto d’azienda possono essere disposti anche al
di fuori del programma di liquidazione, come espressamente prevede la
legge, ma, anche se realizzati prima della predisposizione del programma
dovranno essere in questo inclusi, non fossa’altro per precisare quale sorte
avranno un esercizio provvisorio o un affitto già avviati.
b-la sussistenza di proposte di concordato ed il loro contenuto. Ovviamente il
concordato non si avvia con il programma e il curatore deve soltanto
evidenziare se sono state presentate proposte di concordato (e, nonostante
la lettera della legge può dare conto anche di eventuali ipotesi concordatarie
in via di perfezionamento) e qual è il loro contenuto, il che è compatibile con i
tempi di formazione del programma dal momento che l’art. 124 non richiede
più come condizione per la presentazione di proposte concordatarie la
chiusura dello stato passivo.
Le modifiche apportate dal decreto correttivo in materia di concordato- che
hanno escluso la legittimazione del curatore (che si desumeva dall’art. 129) a
proporre la proposta di concordato e ampliato ad un anno dalla dichiarazione
di fallimento il termine prima del quale la proposta non può essere presentata
dal fallito, fanno capire che le uniche proposte che possono essere indicate
nel programma sono quelle che pervengono dai creditori o da un terzo; il che
fa perdere alla norma in esame parte della sua valenza limitandola a mera
informazione, nel mentre, vigendo la legittimazione del curatore di proporre la
proposta di concordato l’indicazione nel programma era, oltre che
informativa, anche propositiva e orientativa.
C’è da chiedersi se in presenza di una proposta concordataria il curatore
debba egualmente fornire le ulteriori indicazioni in ordine alla liquidazione
fallimentare; credo di si, anche se ovviamente tale liquidazione sarà
prospettata in forma alternativa e subordinata, sia perché la proposta di
concordato va inclusa nello stesso programma nel quale debbono essere
fornite le altre indicazioni, e la norma non esclude che queste non debbano
essere date ove sia stata presentata una domanda di concordato, sia perché
comunque un lavoro del genere il curatore deve compierlo per esprimere il
parare di cui all’art. 125 circa i presumibili risultati della liquidazione, sia,
infine, perché la proposta non significa sicurezza che poi il concordato venga
ammesso, approvato e omologato.
c)-le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare ed il loro
possibile esito (quest’ultima precisazione è stata introdotta dal decreto
correttivo), in modo tale da consentire una previsione in ordine ai tempi di
definizione della procedura concorsuale e alle possibilità di realizzo che ne
derivano, non senza nascondere la pericolosità della indicazione di questi
dati che potrebbero mettere in allerta gli interessati destinatari di dette azioni,
che potrebbero far parte dello stesso comitato dei creditori (del resto anche
l’art. 33 richiede che il curatore indichi gli atti del fallito che egli intende
impugnare).
d)-le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di
rapporti giuridici individuabili in blocco e le condizioni della vendita dei singoli
cespiti.
La norma pone le condizioni della vendita dei singoli cespiti in una apposita
lettera, separata da quella precedente, ma le fattispecie vanno unitariamente
considerate in quanto la possibilità di cessione unitaria dell’azienda o di suoi
rami o di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco sono preferibili alla
vendita dei singoli beni, che costituisce l’ipotesi residuale, giusto il disposto
dell’art. 105.
Il legislatore del 2006 ha espressamente regolato la vendita di azienda, dei
singoli rami nell’art. 105, ove ha anche accennato alla cessione dei rapporti
giuridici individuabili in blocco, espressione quest’ultima che è mutuata dalla
legge bancaria, laddove con riferimento alla liquidazione coatta delle banche,
si prevede la possibilità di cessione di rapporti giuridici individuabili in blocco,
che non costituiscono dei veri e propri rami di azienda, ma che sono per
esempio l’insieme di rapporti riferibili a una filiale.
Come si è già accennato, questo è il contenuto minimo del programma della
procedura, ma esso deve riguardare l’intero patrimonio acquisito all’attivo e
da trasformare in danaro, ossia tutti i diritti e i beni, materiali o immateriali che
possono formare oggetto di diritti, appartenenti al fallito i beni strumentali,
azioni, facoltà, pretese, rapporti giuridici considerati in se stessi o come
strumento per l’acquisto di altri beni nonché, ecc., sicchè pur se non
espressamente indicati, anche i rapporti giuridici pendenti, in quanto facenti
parte del patrimonio del debitore, vanno inclusi nella programmazione.
Invero, la regolamentazione dei contratti in corso, comunque venga
realizzata, si pone come indispensabile nella disciplina del fallimento, la cui
funzione liquidatoria si realizza non solo attraverso la conversione in danaro
dei beni materiali e immateriali, ma anche attraverso la definizione dei
rapporti giuridici patrimoniali derivanti dai contratti ancora pendenti, che si
ricollega, come gli altri effetti patrimoniali, allo spossessamento del fallito. Il
patrimonio del fallito comprende, infatti, oltre ai beni materiali e immateriali,
quelle “entità patrimoniali non ancora acquisite”, come le definisce Pajardi,
quali sono i rapporti giuridici contrattuali pendenti. E la dichiarazione di
fallimento, come si riflette sui residui giuridici dei rapporti già cristallizzati e,
cioè, sulla posizione sostanziale e processuale del fallito, sulla posizione dei
creditori, sugli atti pregiudizievoli, così refluisce sulle situazioni dinamiche,
incidendo, con la normativa contenuta negli artt. 72 e segg., non sul contratto
in sé, quale atto espressione della autonomia negoziale, ma sui rapporti
giuridici dallo stesso derivanti, ossia sul complesso degli effetti giuridici
conseguenti da quella espressione di autonomia negoziale, che, alla luce
delle mutata condizione di una delle parti dichiarata fallita, non possono più
essere mantenuti ed eseguiti come se nulla fosse successo.
Il programma non attiene, quindi, soltanto alla elencazione dei tempi e delle
modalità di liquidazione dei cespiti e dei crediti, in quanto coinvolge l’intera
modalità operativa del curatore, ma, poiché ha la funzione di pianificare la
liquidazione, si spiega la espressa previsione che il programma deve
contenere anche l’indicazione delle “modalità” e dei “termini” della
realizzazione, che costituiscono le due coordinate minime indispensabili che
caratterizzano un programma ossia, con quali “modalità” si intende dare
corso alla liquidazione dell’attivo ed in quali “termini” compierlo, ove l’uso del
plurale trova giustificazione nella necessità di indicare un termine iniziale
entro il quale prenderanno avvio le operazioni di liquidazione, uno entro il
quale dare corso alle singole attività liquidatorie, e un termine entro il quale la
realizzazione programmata deve essere compiuta.
Quanto alle modalità è chiaro il riferimento all’art. 107, a norma del quale “le
vendite e gli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore tramite
procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base
di stime effettuate salvo il caso di beni di modesto valore, da parte di
operatori esperti, assicurando con adeguate forme di pubblicità la massima
informazione e partecipazione degli interessati”. Di conseguenza, la
competitività e la predeterminazione del valore sulla base di una stima sono
due elementi che devono caratterizzare qualsivoglia atto di liquidazione e
devono essere riprodotti nel piano, così come deve essere specificato il tipo
di procedura di vendita, avuto riguardo della natura del bene e delle
possibilità offerte dalla legge, tenendo conto che il nuovo secondo comma
dell’art. 107, introdotto dal decreto correttivo, consente al curatore di
prevedere, nel programma di liquidazione, che determinate vendite vengano
effettuate direttamente dal giudice delegato secondo le disposizioni del
codice di rito (vendita con o senza incanto), facoltà che precedentemente era
dubbia.
Oltre alla indicazione del prezzo, è opportuna anche la predeterminazione del
prezzo minimo, al di sotto del quale non si potrà scendere, così come è utile
prevedere modalità alternative per le ipotesi in cui la modalità, presentata
come principale, non venga a realizzarsi, in modo da poter adeguare il
programma alle mutate circostanze o far fronte ad eventuali errori di
valutazione sulla commerciabilità.
In conclusione, il programma di liquidazione non può esaurirsi in una
generica esposizione di ciò che il curatore intende fare, ma deve contenere
un piano articolato e specifico, perché, oltre allo scopo di programmazione è
utile anche ai fini della rendicontazione, dato che al momento del conto
gestione diventa inevitabile il controllo di eventuali scostamenti rispetto al
quadro prognostico delineato nel programma, in modo da consentire un
effettivo esercizio dell’attività di controllo sulla gestione del curatore, stante la
rilevante autonomia di cui egli gode nel nuovo sistema normativo.
5-Gli effetti del programma
Stabiliva il quarto comma dell’art. 104-ter che l’approvazione del programma
di liquidazione teneva “luogo delle singole autorizzazioni eventualmente
necessarie ai sensi della legge per l’adozione di atti o l’effettuazione di
operazioni incluse nel programma”.
Ne derivava che non occorreva l’autorizzazione del comitato dei creditori per
il compimento degli atti previsti dall’art. 35 ove inclusi nel programma di
liquidazione e si spiegava perché per la liquidazione dei beni non era
richiesta l’autorizzazione del comitato dei creditori o l’intervento del giudice
delegato, trattandosi di attività propria del curatore che presupponeva
l’esistenza e l’approvazione del programma di liquidazione.
Questa parte della norma, come detto, è stata abrogata e sostituita dal
controllo del giudice della conformità del singolo atto al programma, di cui si è
già trattato.
Rimane da chiedersi quale sia la sorte degli atti non inclusi nel programma e
il problema si è posto particolarmente per le azioni risarcitorie, recuperatorie
o revocatorie, per le quali è stata adombrata una sorta di decadenza dalla
possibilità di esercitarle ove non siano state incluse nel programma.
Condivido l’opinione del Guglielmucci che non è nemmeno lontanamente
ipotizzabile una preclusione conseguente al mancato inserimento di
determinate azioni nel programma; la conseguenza della mancata inclusione
è solo quella che il curatore non potrà esercitarle se non previa
predisposizione di un supplemento di programma, seguendo l’iter previsto per
il programma originario, ossia predisponendo un supplemento che deve
essere approvato dal comitato dei creditori. Il programma, per la verità, non
può essere modificato a piacimento, ma soltanto “per sopravvenute
esigenze”, ma questa espressione deve essere intesa nel senso più ampio,
tale da includere non solo le nuove circostanze di fatto ma anche le
dimenticanze, le valutazioni sopravvenute in modo da rendere praticabile la
liquidazione nel modo migliore per i creditori.
Prima della approvazione del programma, invece, il curatore può, procedere
alla liquidazione di beni, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il
comitato dei creditori se già nominato, solo quando dal ritardo può derivare
pregiudizio all’interesse dei creditori, dizione questa che comprende non solo
la classica ipotesi del deterioramento, ma, come già la giurisprudenza aveva
indicato nell’interpretazione del vecchio art.104 con riferimento alle vendite
anteriormente alla dichiarazione di esecutività dello stato passivo, anche la
possibilità di cogliere quelle occasioni di liquidazioni favorevoli che
potrebbero essere pregiudicate dal ritardo.
6-La retrocessione dei beni non alienabili
A norma del settimo comma dell’art. 104 ter, il curatore, previa autorizzazione
del comitato dei creditori e non del giudice (la cui estraneità al procedimento
trova la sua ragione nella attribuzione al curatore e al comitato dei creditori di
ogni valutazione di merito circa la sorte dei beni), può non acquisire all’attivo
o rinunciare a liquidare uno o più beni acquisiti ed eventualmente anche
inclusi nel programma, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente
antieconomica. In questo caso, il curatore ne dovrà dare comunicazione ai
creditori i quali, in deroga a quanto previsto nell’art. 51, potranno iniziare
azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore.
L’intento di questa norma è evidente: evitare l’acquisizione e la liquidazione di
un bene non conveniente perché fonte di costi superiori all’utilità
dell’acquisizione o della vendita, e ha il sapore di una beffa la previsione
(anche superflua) della possibilità per i creditori di agire in via esecutiva
individuale visto che si tratta di attività che il curatore e il comitato dei creditori
hanno ritenuto non conveniente liquidare.
La tutela dei creditori è qui nettamente prevalente sugli interessi del fallito,
perché in tal modo si scarica su questi tutto ciò che non conviene liquidare e
si trattiene la c.d. polpa, di talchè il curatore può abbandonare un impianto
che deve essere, ad esempio, messo a norma con un costo superiore al
valore di realizzo verrà abbandonato, un immobile che deve essere
disinquinato, ove ricorrono anche interessi pubblicistici di tutela della pubblica
salute, e così via.
Nella norma si parla di beni e non di diritti, per cui rimane dubbio se nella sua
previsione rientrino anche i crediti irrecuperabili. Riterrei di si trattandosi
comunque di entità che fanno parte dell’attivo fallimentare il cui realizzo
potrebbe risultare non conveniente, tuttavia la questione è di scarso rilievo
perché i diritti obbligatori sono rinunciabili; di conseguenza non sarà più
necessario ripulire l’attivo con la rinuncia ai crediti irrecuperabili e potrebbe
essere preferibile ritrasferirli nel patrimonio del fallito, che potrebbe un giorno
anche avvantaggiarsene.
B-La ripartizione dell’attivo
1-I termini per i riparti parziali
La nuova disciplina sul riparto presenta due aspetti: uno di carattere
sostanziale condivisibile e apprezzabile, ed un altro, di carattere processuale,
insoddisfacente e criticabile. Quest’ultimo trovava e trova la sede normativa
principalmente nell’art. 110 l.f. che è stato sottoposto a profonda revisione, ad
eccezione del primo comma.
Il nuovo legislatore ha, infatti, riprodotto nel primo comma dell’art. 110 il
corrispondente comma della precedente norma, con la sola modifica della
frequenza temporale con cui procedere alle ripartizioni parziali, passata da
due a quattro mesi.
E’ rimasto quindi, il sistema della pluralità di riparti nel corso della procedura,
che, costituisce uno dei motivi per i quali il legislatore ha predisposto un
procedimento di accertamento del passivo all’interno del procedimento
esecutivo collettivo fallimentare in una fase cronologicamente anteposta a
quella della ripartizione del ricavato dalla liquidazione dell’attivo, con una
netta separazione temporale delle questioni attinenti ai crediti rispetto a
quelle relative alla distribuzione, a differenza di quanto avviene
nell’esecuzione individuale; in tal modo, infatti, si consente, da un lato, a
ciascuno creditore di interferire sulle posizioni altrui concorrenti e, dall’altro, la
pluralità di riparti (evento eccezionale nell’esecuzione individuale), senza che
all’atto di ognuno di questi possano riprodursi questioni che porterebbero alla
sospensione, e quindi al prolungamento, dell'esecuzione.
La cadenza temporale dettata dal legislatore per la presentazione delle
ripartizione ha la funzione di accelerare al massimo la distribuzione in modo
da limitare il danno che tutti i creditori subiscono a causa della sospensione
del decorso degli interessi; in modo completo i chirografari, per i quali la
sospensione opera dalla data della dichiarazione del fallimento, e in modo più
ridotto i creditori preferenziali, i quali hanno diritto agli interessi post
fallimentari fino alla data della vendita dei beni oggetto della prelazione.
Il termine indicato- sia il vecchio che quello nuovo- ha, tuttavia, carattere
ordinatorio, stante l’espressa salvezza di diverso termine stabilito dal giudice
delegato; e non potrebbe essere diversamente perchè, essendo finalizzato il
riparto a distribuire qualcosa ai creditori ed avendo dei costi, è impossibile o
antieconomico presentare riparti in mancanza di disponibilità liquide da
distribuire o di disponibilità insufficienti a soddisfare una categoria di creditori
o in modo apprezzabile un certo numero di creditori.
Credo si sia persa un buona occasione per meglio regolamentare questo
aspetto, nel senso di ancorare la presentazione del progetto di riparto
piuttosto che ad un termine fisso- destinato, come è finora accaduto e
continuerà ad accadere, a restare inosservato- alla presenza di liquidità tali
da rendere utile ed economica una distribuzione tra i creditori.
2-Le masse attive, le somme disponibili e le somme da ripartire
In ogni caso nel termine indicato il curatore deve presentare al giudice
delegato “un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione
delle medesime
Il prospetto delle somme disponibili non è altro che la rappresentazione del
complessivo ammontare delle somme entrate, della provenienza delle stesse,
di quelle erogate per spese della procedura, di pagamenti fatti, del saldo
attivo del conto bancario, la somma che si intende ripartire, ecc., da cui
bisogna partire per individuare qual’è il netto distribuibile ai creditori.
Questo aspetto era completamente trascurato nella vecchia legge
fallimentare che, a parte l’indicazione della presentazione del progetto delle
somme disponibili, null’altro diceva in proposito. Al contrario la nuova
disciplina ha dedicato particolare attenzione alla determinazione del netto
distribuibile, dettando una serie di regole che, si distinguono, nel mediocre
panorama dell’insieme che caratterizza la riforma, per la loro completezza e
tecnicità.
La prima disposizione significativa in tal senso è quella contenuta nei primi
due commi dell’art. 111 ter, che individuano la massa liquida immobiliare
(“costituita dalle somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come
definiti dall’articolo 812 c.c., e dei loro frutti e pertinenze, nonché dalla quota
proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme”) e
quella mobiliare (“costituita da tutte le altre entrate”). Si tratta di una
distinzione chiarificatrice e fondamentale nel sistema distributivo data la
presenza di prelazioni che operano soltanto sul ricavato immobiliare
(ipoteche e privilegi immobiliari) e di altre che operano soltanto sul ricavato
mobiliare (pegni e privilegi mobiliari), di altre ancora che operano prima su
una massa e in via sostitutiva sull’altra (i privilegi mobiliari con garanzia
sussidiaria sugli immobili), per cui, alla fin fine, la distinzione viene meno
soltanto quando si coinvolgono i creditori chirografari, tali fin dall’inizio o
divenuti tali a seguito di incapienza sul bene oggetto della garanzia speciale.
Nel disinteresse della pregressa disciplina fallimentare circa la distribuzione
delle spese della procedura tra le stesse e, scendendo più nei particolari,
delle spese da attribuire ai beni oggetto di una garanzia specifica, si era
arrivati, dopo varie oscillazioni, alla conclusione di dover distinguere tra spese
specifiche (quelle resesi necessarie per l'acquisizione, per l'amministrazione
o per la liquidazione di un determinato bene) e spese generali, che
riguardano, invece, l'intera procedura fallimentare (come quelle per la
formazione del passivo, per l'eventuale giudizio di opposizione al fallimento,
per la chiusura della procedura, per il compenso al curatore ecc.); con la
conseguenza che dal ricavato di ogni singolo bene andavano detratte tutte le
spese specifiche relative a quel bene ed una aliquota proporzionale delle
spese generali.
Questo criterio, frutto di una ricostruzione consolidatasi negli anni, è stato
ripreso nella nuova disciplina, attraverso una rivalutazione e rivitalizzazione
dei conti speciali.
Questi, come è noto, erano previsti anche nella previgente legge fallimentare
nell'ultimo comma dell'art. 107, ma si trattava di una disposizione poco
conosciuta, e poco studiata, probabilmente perché inopportunamente
collocata in una norma che trattava del subingresso del curatore al creditore
che aveva promosso l'esecuzione individuale immobiliare ancora in corso alla
data del fallimento, tanto che era nato originariamente il dubbio che la tenuta
dei conti speciali fosse richiesta solo nel caso della sostituzione del curatore
al creditore procedente.
Questa carenza è stata ben colta dal legislatore della riforma, i quale ha
espressamente previsto, nel terzo comma dell’art. 111 ter, che “il curatore
deve tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili
oggetto di privilegio speciale e di ipoteca e dei singoli beni mobili o gruppo di
mobili oggetto di pegno e privilegio speciale, con analitica indicazione delle
entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere
generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio
proporzionale”.
In questo modo viene inequivocamente e definitivamente chiarito, in primo
luogo, l’utilità dei conti speciali per tutti i beni gravati da una prelazione di
carattere speciale perchè, dovendo essere queste soddisfatte
esclusivamente col ricavo del bene gravato, diventa indispensabile
individuare il netto distribuibile di detti beni, nel mentre la stessa esigenza
non ricorre per gli altri beni che indistintamente formano la massa su cui si
soddisfano i restanti creditori.
Viene altresì recepita la distinzione tra spese specifiche e generali e chiarito
che il criterio di imputazione delle spese generali è quello proporzionale
sopravanzando, sul punto la giurisprudenza che poneva in primo piano il
criterio della utilità, secondo il quale sui beni oggetto di garanzie reali speciali,
potevano gravare soltanto gli oneri correlati all'amministrazione e alla
liquidazione di tali beni, ovvero attinenti ad attività di amministrazione
direttamente rivolte alla conservazione o all'incremento dei beni stessi o
comunque destinate a realizzare una specifica utilità a beneficio dei creditori
garantiti.
E’ evidente che l’applicazione del criterio dell’utilità (molto opportuno se fosse
realizzabile) restringe il campo di imputazione delle spese generali ai beni
gravati da garanzia specifica rispetto a quello della proporzionalità, tuttavia
anche questo è comunque riferito alle spese in senso tecnico del processo
concorsuale- per le quali è agevole distinguere tra quelle che attengono
all’amministrazione, conservazione e liquidazione di beni determinati e quelle
necessarie per la procedura, sostenute nell’interesse collettivo della massa- e
non a tutti i crediti che vanno pagati in prededuzione (tra cui, nell’attuale
sistema, vanno comprese le spese per l’esercizio provvisorio e quelle
contratte nel corso dell’amministrazione controllata, cui sia seguito il
fallimento).
In questo modo viene determinato il netto disponibile per il riparto, in quanto,
individuate le masse mobiliari e immobiliari, all’interno di queste vi sono i beni
gravati da prelazioni specifiche- che entrando nei conti speciali, sono soggetti
ad una analitica ed individuale contabilità con l’imputazione delle spese
specifiche e parte di quelle generali- e i beni non gravati da garanzie
specifiche, che possono essere considerati come una un’unica submassa
che assorbe complessivamente le altre spese.
Per passare dall’attivo disponibile così determinato all’attivo distribuibile nel
singolo riparto, bisogna individuare, salvo che non si tratti del riparto finale,
l’entità della somma complessiva da distribuire.
A questo fine, in primo luogo, va accantonare una quota dell’attivo disponibile
giacchè l’attuale art. 113 stabilisce che le ripartizioni parziali non possono
superare l’80% delle somme da ripartire, in tal senso modificando il testo
della precedente norma che fissava lo stesso limite nel 90%. Si è finora
ritenuto, e non vi è motivo di mutare opinione, che la percentuale imposta
indichi l’accantonamento minimo, vincolante per gli organi fallimentari, i quali
nel fissare la somma da distribuire possono, quindi, prudentemente
accantonare una quota maggiore ma non possono scendere al di sotto della
stessa.
La funzione di questo accantonamento è stata sempre incerta nel vigore della
precedente disciplina perchè, calcolandosi sulle somme già depurate delle
spese necessarie per la procedura e per l’amministrazione, l’accantonamento
non poteva aver lo scopo di garantire il pagamento delle spese già incontrate,
ma non poteva avere neanche lo scopo di garantire le spese future dato che
il n. 4 dell’art. 113 prevedeva espressamente un accantonamento a tale
scopo; sicchè si diceva che si trattava di un fondo riservato, privo di
destinazione specifica che costituisce una generica cautela per consentire
eventuali rettifiche del progetto presentate dal curatore, specie quando siano
in corso opposizioni allo stato passivo o quando sia in corso una domanda di
insinuazione tardiva.
Questi dubbi sono stati fugati dal nuovo intervento legislativo perchè dal
novellato secondo comma dell’art. 113 (“Le somme ritenute necessarie per
spese future, per soddisfare il compenso al curatore e ogni altro debito
prededucibile devono essere trattenute; in questo caso, l’ammontare della
quota da ripartire indicata nel primo comma del presente articolo deve essere
ridotta se la misura dell’ottanta per cento appare insufficiente”) si capisce che
l’accantonamento in questione è destinato a far fronte alle spese future (ed
infatti è stata eliminata l’ipotesi di accantonamento di cui all’attuale n. 4) in
relazione alle quali la indicata percentuale di distribuzione può essere
ulteriormente abbassata.
Anche sul punto il legislatore ha recepito la prassi che raramente fa ricorso
all’accantonamento specifico per spese future, tutelandosi gli organi
fallimentari proprio riducendo l’entità della somma ripartibile.
Non vanno altresì distribuite le “somme ricevute dalla procedura per effetto di
provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato”,
che vanno trattenute, dispone l’ult. comma dell’art. 113, nei modi stabiliti dal
giudice delegato. E’ evidente l’intento del legislatore di evitare la ripartizione
di somme della cui disponibilità non vi è certezza in quanto acquisite in forza
di un provvedimento provvisoriamente esecutivo, che può essere modificato.
A questo punto il curatore può esporre il suo progetto di ripartizione delle
somme così determinate.
Si legge nella relazione accompagnatoria che “è stato, fra l’altro, stabilito che,
già nel primo progetto di riparto parziale, il curatore è tenuto a specificare le
somme che spetterebbero a quattro precise categorie di creditori, i cui diritti
nell’ambito del concorso non siano stati ancora definitivamente accertati a
causa di ammissioni con riserva o di opposizioni o di impugnazioni o di
revocazioni in corso”; sin tratta dei creditori per i quali l’art. 113 prevede siano
fatti accantonamenti.
Non si capisce da dove il relatore abbia tratto questo giudizio che,
fortunatamente, non trova alcun riscontro nella legge; sarebbe, infatti, illogico
accantonare, fin dal primo riparto, le somme (probabilmente secondo gli
importi risultanti dallo stato passivo o dalla domanda nel caso di opposizione)
spettanti a creditori elencati, dato che la funzione dell’accantonamento è
quella di garantire, in attesa della definizione della posizione, quel pagamento
cui il creditore avrebbe diritto in sede fallimentare, sicchè la necessità
dell’accantonamento alle categorie sopra indicate sorge quando si procede
ad un riparto in cui quella categoria è contemplata e nei limiti della
soddisfazione che il riparto consente.
Questi accantonamenti, invero, non riducono la somma distribuibile se non in
senso letterale perchè i creditori beneficiari sono compresi nel riparto, solo
che invece dell’assegnazione della somma in pagamento che loro
spetterebbe, viene fatto l’accantonamento per l’importo corrispondente; a sua
volta, nella prassi, l’accantonamento viene realizzato soltanto in modo
contabile, nel senso che l’importo da pagare non viene versato su un libretto
in favore dei beneficiari (come sarebbe corretto fare), ma rimane sul conto
corrente intestato al fallimento e non distribuito, in modo che comunque i
creditori interessati siano cautelati.
Il decreto correttivo ha ritenuto di dover aggiungere al primo comma la
precisazione che “nel progetto sono collocati anche i crediti per i quali non si
applica il divieto di azioni esecutive e cautelari di cui all’articolo 51”.
Si tratta di una precisazione sostanzialmente inutile dal momento che
contestualmente è stato aggiunto un terzo comma all’art. 52, in forza del
quale sono soggetti all’accertamento del passivo “anche ai crediti esentati dal
divieto di cui all’articolo 51”; una volta stabilito che anche questa tipologia di
crediti è soggetta all’accertamento del passivo, diventa conseguenziale che
questi crediti partecipino ai riparti fallimentari.
E’ stato, in tal modo, definitivamente chiarito che i crediti esentati dal divieto
di azioni esecutive e cautelari fruiscono di un privilegio puramente
processuale (il potere di iniziare o proseguire l’espropriazione pur in
pendenza del fallimento del debitore), ma non sono esentati dal “concorso
sostanziale”: come tutti gli altri crediti devono essere ammessi al passivo
(“concorso formale”) e poi devono essere collocati nei riparti (“concorso
sostanziale”), per poter trattenere in via definitiva quanto è stato ricavato
dall’espropriazione singolare da loro compiuta, effettuando, appunto, il
conguaglio tra quanto ricavato e trattenuto in sede di esecuzione ordinaria
(anche se è intervenuto ivi il curatore) e quanto gli competerebbe in sede
fallimentare.
3-L’iter processuale
L’iter processuale del riparto è stato integralmente riscritto dalla riforma del
2006 e ulteriormente modificato con il decreto correttivo.
Secondo la originaria formulazione della norma, il giudice delegato, prima di
ordinare il deposito in cancelleria del riparto presentato dal curatore, poteva,
sentito il comitato dei creditori (l’omissione dell’audizione determinava,
secondo la prevalente giurisprudenza, una nullità relativa o, anche, un vizio
ininfluente sulla validità, entrambi rilevabili solo su eccezione della parte
interessata mediante impugnazione del decreto di esecutività del riparto ex
art. 26 l.f., con la conseguenza che detto provvedimento, in mancanza di
impugnazione, rimane definitivamente valido), intervenire sullo stesso
apportando “le variazioni che ravvisa convenienti”.
Era pacifico che le variazioni che il giudice delegato poteva introdurre erano
sia formali che sostanziali, o, per meglio dire, sia di carattere giuridico che di
opportunità, con l’unico limite della immodificabilità dello stato passivo, nel
senso che egli doveva limitarsi a risolvere le questioni concernenti la
graduazione e la collocazione dei vari crediti, l'ammontare della somma
distribuita, l'opportunità stessa di una ripartizione, mentre non poteva
esaminare quelle concernenti l'esistenza o l'ammontare dei crediti ammessi e
l'esistenza di cause di prelazione, stante l'intangibilità dello stato passivo non
impugnato nei termini e nelle forme previsti dalla legge fallimentare.
Il progetto di ripartizione elaborato e presentato dal curatore, integrato dalle
eventuali variazioni apportate dal giudice delegato, andava depositato in
cancelleria, e l’avvenuto deposito andava comunicato, a mezzo
raccomandata con avviso di ricevimento (in analogia a quanto stabilito dagli
artt. 92 e 97 data l’identità della ragione), a tutti i creditori, in modo da
consentire a ciascuno di essi di controllare la propria posizione ed instaurare
un contraddittorio. Costoro, infatti, nel termine di dieci giorni dal ricevimento
dell’avviso di deposito, potevano proporre osservazioni- che non avevano
natura di impugnazione, nè costituivano condizione per il successivo reclamo
e potevano essere presentate personalmente dai creditori senza l’assistenza
di un legale- che venivano valutate dal giudice delegato.
Questi, tenuto conto delle osservazioni mosse e sempre nel limite già indicato
per le variazioni della immodificabilità dello stato passivo, “stabilisce con
decreto il riparto, rendendolo esecutivo”; questa era l’appropriata dizione del
terzo comma dell’art. 110 ante riforma, per cui era chiaro che il riparto
presentato dal curatore diveniva atto del giudice delegato, il quale, prima con
le variazioni e poi con la decisione sulle osservazioni mosse dai creditori,
“stabiliva” la distribuzione, fissava, cioè, le somme spettanti a ciascun
creditore con quel reparto e ne disponeva l’esecuzione dichiarandolo
esecutivo.
Nulla diceva la vecchia norma circa l’impugnazione del decreto di esecutività
del riparto, ma è noto che la giurisprudenza aveva sopperito a tale carenza
facendo ricorso al reclamo ex art. 26, la cui costituzionalizzazione è iniziata
con la famosa sentenza n. 42 del 1981 che ritenne essere in contrasto con
l’art. 24 Cost. l’art. 26 l.f. nella parte in cui non assoggettava al reclamo al
tribunale i provvedimenti decisori del giudice delegato proprio in tema di
approvazione dei piani di riparto dell’attivo fallimentare, senza assicurare alle
parti adeguate garanzie di difesa.
Dopo le iniziali oscillazioni giurisprudenziali, ormai pacificamente si riteneva
che la Corte costituzionale non aveva espunto dall'ordinamento il reclamo al
tribunale previsto dall'art. 26 contro provvedimenti decisori del giudice
delegato in tema di riparto dell'attivo, ma aveva piuttosto caducato alcuni
aspetti della disciplina positiva dell'istituto, per quanto concerneva la misura e
la decorrenza del termine per il reclamo e la mancata previsione del
contraddittorio e della motivazione; onde si ammetteva il reclamo avverso il
decreto di esecutività del riparto entro dieci giorni (di cui all'art. 739 comma 2
prima parte c.p.c.e non tre di cui all'art. 26 l.f.) dal deposito del decreto stesso
(e non dalla data del decreto del giudice delegato), che dava inizio ad un
procedimento che si doveva svolgere nell’osservanza del principio del
contraddittorio garantito dall'art. 739 c.p.c. e concludersi con un
provvedimento motivato del tribunale, come dispone l’art. 737 c.p.c., a sua
volta ricorribile in Cassazione soltanto per violazione di legge ai sensi dell'art.
111 cost..
Nel nuovo secondo comma dell’art. 110 l.f. il legislatore del 2006 aveva
soppressa la previsione secondo cui il giudice delegato poteva apportare al
progetto di distribuzione le variazioni che reputava convenienti, per cui la
norma aveva assunto la seguente formulazione: “Il giudice, sentito il comitato
dei creditori, ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria,
disponendo che tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei
giudizi di cui all’articolo 98, ne siano avvisati con lettera raccomandata con
avviso di ricevimento o altra modalità telematica…”.
L’unica nota positiva di questo nuovo assetto era data dalla specificazione
che l’avviso del deposito del riparto in cancelleria doveva essere dato con
raccomandata con ricevuta di ritorto, a tutti i creditori “compresi quelli per i
quali è in corso uno dei giudizi di cui all’art. 98” (ossia, secondo la nuova
previsione di quest’ultima norma, i giudizi di opposizione allo stato passivo,
di impugnazione e di revocazione di crediti ammessi, in passato rientranti
nelle previsioni degli artt. 100 e 102 l.f.), così risolvendo legislativamente il
punto dubbio se l’avviso (finalizzato al potere di fare osservazioni) dovesse
essere fatto anche ai creditori esclusi dal passivo nella fase sommaria ma
opponenti.
Per il resto, si era aperto immediatamente un dibattito circa i limiti del potere
di intervento del giudice sul riparto ed io ero tra coloro che avevano ritenuto
che il giudice non potesse apportare alcuna forma di correzione al progetto,
neanche quelle di diritto al fine di correggere eventuali errori giuridici, tanto da
parlare di umiliazione del ruolo del giudice delegato, limitato al semplice
ordine di deposito in cancelleria, compito che, peraltro non poteva neanche
esercitare direttamente dovendo sentire prima il comitato dei creditori.
Di contro, pur escludendo la possibilità di apportare variazioni di opportunità
(entità degli accantonamenti, la partecipazione di alcune categorie di creditori
al riparto, ecc.), si riconosceva al giudice il potere di effettuare variazioni di
carattere giuridico (rispetto delle preferenze, ecc.), rientrante nei poteri di
vigilanza e controllo riservati al giudice
Fu facile obiettare che, come già detto parlando del programma di
liquidazione, tale potere non era assoluto, ma andava inquadrato nei limiti di
volta in volta definiti dal legislatore, per cui, poiché il nuovo secondo comma
dell’art. 110 riproduceva il vecchio testo, da cui era stato espunto l’inciso che
attribuiva al giudice di apportare le variazioni che riteneva convenienti, ed
era, invece, rimasto l’ordine del deposito, si doveva dedurre che il legislatore
aveva inteso eliminare quel controllo giudiziario che la legge prevedeva e,
non avendo previsto altri motivi che potessero impedire il deposito, voleva
dire che questo diventa un atto dovuto, che prescindeva da ogni valutazione,
di legittimità o di merito, da parte del giudice.
Nè era pensabile che il giudice avesse un potere di non disporre il deposito in
cancelleria del progetto qualora non lo condividesse perchè, sarebbe illogico
eliminare il potere del giudice di apportare variazioni al riparto per poi lasciagli
lo stesso potere, in forma più brutale, di rifiutare il deposito se il progetto
conteneva una qualche previsione che ora non poteva variare, ma che
avrebbe potuto in passato modificare; in questo modo, si sarebbe ampliato il
potere del giudice in netto contrasto con le rimodellate attribuzioni degli
organi della procedura fallimentare.
Il legislatore del decreto correttivo ha accolto questa tesi in quanto nella
nuova formulazione del secondo comma dell’art. 110 ha eliminato anche
l’inciso “sentito il comitato dei creditori”, soppressione che viene spiegata
nella Relazione con il fatto che “limitandosi il giudice delegato ad ordinare il
deposito del progetto di ripartizione, non vi è un provvedimento per
l’emanazione del quale occorra sentire preventivamente il comitato dei
creditori, i cui membri, come tutti i creditori, possono prendere visione del
progetto di ripartizione in cancelleria ed, eventualmente proporre reclamo”. Si
tratta di un chiarimento quanto mai opportuno perché evidenzia che il
progetto di riparto è atto del curatore dato che il giudice non può apportare
allo stesso alcuna modifica e deve limitarsi, quale atto dovuto, a disporne il
deposito in cancelleria.
L’aver ricondotto il progetto di riparto al curatore e non al giudice ha
permesso al legislatore del correttivo di eliminare un’altra stortura in cui era
incorso il riformatore del 2006, lì dove aveva previsto, nel terzo comma
dell’art. 110, che “i creditori, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla
comunicazione dell’avvenuto deposito del progetto di ripartizione in
cancelleria, possono proporre reclamo contro il progetto di riparto nelle forme
del procedimento camerale ex articolo 26”.
Era sparita, come si vede, la possibilità per i creditori di presentare avverso il
progetto di riparto osservazioni al giudice delegato, evidentemente ritenuto
non idoneo a risolvere una controversia nata tra le parti, e lo strumento di
difesa era costituito dalla possibilità di proporre reclamo contro il progetto di
riparto nelle forme del procedimento camerale ex art. 26. Ossia la
preoccupazione di impedire al giudice delegato di mettere mano al riparto era
giunta al punto da scavalcarlo completamente, attuando, con il reclamo al
tribunale, un meccanismo che snaturava il sistema impugnativo
endofallimentare del reclamo al tribunale, previsto contro gli atti del giudice e
non del curatore, quale era il nuovo progetto di riparto, dato che su di esso
l’organo giudiziario non aveva potuto apportare alcuna variazione.
Nè era pensabile che l’oggetto della impugnazione fosse il provvedimento di
deposito del progetto di ripartizione in cancelleria perchè la norma diceva
chiaramente che i creditori “possono proporre reclamo contro il progetto di
riparto nelle forme ....” e non contro il provvedimento del giudice cha ha
disposto il deposito in cancelleria. Ossia la nuova norma era strutturata in
modo tale da far capire in modo inequivoco che oggetto dell’impugnazione
era il progetto di riparto, del quale il giudice delegato aveva dovuto ordinare il
deposito in cancelleria, anche se non lo condivideva.
In sostanza non risalendo la paternità del progetto al giudice, non era
configurabile un reclamo avverso un suo atto, sia esso il progetto sia esso il
provvedimento di deposito.
Di quest’ultima considerazione- che la dottrina aveva evidenziato- i correttori
si sono resi conto e, con la modifica del terzo comma della norma in esame,
hanno precisato che il reclamo contro il progetto di ripartizione si propone
davanti al giudice delegato ai sensi dell’art. 36; e tale modifica viene spiegata
nella Relazione col fatto che “il progetto è, infatti, atto del curatore e il giudice
delegato si limita, in prima battuta, ad ordinarne il deposito in cancelleria”.
Questo utile chiarimento non riporta, tuttavia, la situazione a quella che era
prima della riforma; invero:
a-anche secondo l’ultima disciplina, il giudice delegato, se riscontra un errore
di diritto nel progetto, non può intervenire per correggerlo e deve limitarsi a
disporre il deposito dello stesso in cancelleria. Cancellato ogni potere di
intervento d’ufficio del giudice delegato nella fase del riparto, la tutela di diritti
dei crediti è, quindi, affidata esclusivamente alla iniziativa dei creditori
attraverso la proposizione di reclami, cui vi faranno presumibilmente ricorso
soltanto i creditori più attrezzati data la difficoltà della materia.
Ciò è tanto più preoccupante in questa materia in quanto vige il principio
dell'immutabilità delle ripartizioni effettuate in favore dei creditori che sono,
infatti, tenuti alla restituzione di quanto distribuito in precedenza, sia pure in
violazione della "par condicio", solo nel caso revocazione del credito
ammesso. Questo principio, finora desumibile dall’art. 114 l.f. è stato
affermato, in modo quanto mai inequivoco, nella riformulazione della norma,
per la quale, infatti, ”I pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto
non possono essere ripetuti, salvo il caso dell’accoglimento di domande di
revocazione”. Ed è stato anche aggiunto che “I creditori che hanno percepito
pagamenti non dovuti, devono restituire le somme riscosse, oltre agli interessi
legali dal momento del pagamento effettuato a loro favore”, in tal senso
risolvendo definitivamente il contrasto dottrinario tra chi sosteneva questa tesi
e chi riteneva che gli interessi decorressero dalla data della domanda di
revocazione, la cui sentenza è la fonte del dovere di restituzione o addirittura
dalla messa in mora con una formale richiesta.
b-La modifica del terzo comma chiarisce che il reclamo è proposto ai sensi
dell’art. 36 e questa norma mantiene il reclamo da parte del fallito e di ogni
interessato al giudice delegato contro gli atti di amministrazione del curatore
(ed introduce il reclamo contro “le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei
creditori”) ma chiarisce in modo netto che tale reclamo è consentito soltanto
“per violazione di legge”, per cui è esclusa ogni indagine e decisone sul
merito.
c-Contro il decreto del giudice delegato che pronuncia sul reclamo sarà poi
proponibile reclamo al tribunale, giusta la previsione dell’art. 36. Il tribunale a
detta di questa norma decide con decreto non impugnabile, ma trattandosi di
tutela di diritti deve ritenersi che contro il decreto del tribunale sia ammissibile
il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.
d-L’ultimo comma dell’art. 110 è rimasto immutato, creando problemi di
coordinamento. Questa disposizione stabilisce che, una volta decorso il
termine per il reclamo, il giudice delegato, su richiesta del curatore, dichiara
esecutivo il progetto di ripartizione, ovvero che, nell’ipotesi inversa di
presentazione di reclamo, il giudice delegato dichiara egualmente esecutivo il
progetto di distribuzione previo accantonamento delle somme corrispondenti
ai crediti oggetto di contestazione.
Il meccanismo dell’accantonamento, pur con molte riserve, poteva avere un
senso nel sistema previsto dalla riforma del 2006 secondo il quale, proposto
reclamo al tribunale, il giudice poteva, anzi doveva dichiarare esecutivo il
riparto, disponendo “l’accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti
oggetto di contestazione”, prescindendo da ogni valutazione sommaria di
merito al fine di accertare il fumus della fondatezza del reclamo; ossia la
presenza di un reclamo all’organo collegiale giustificava egualmente la
dichiarazione di esecutività del riparto prima della decisione, con l’unica
accortezza dell’accantonamento a tutela del creditore interessato.
Una volta ammesso il reclamo allo stesso giudice delegato diventa
incomprensibile procedere obbligatoriamente all’accantonamento per
dichiarare l’esecutività. Giusta la scissione tra la decisione sul reclamo e
quella sulla esecutività, ma essendo le due decisioni rimesse allo stesso
organo, sarebbe stato più logico lasciare la libertà al giudice delegato di
orientarsi caso per caso; è chiaro, infatti, che soltanto nel caso in cui la
decisione sul reclamo richieda del tempo, sorge la necessità di non
danneggiare gli altri creditori di dare esecuzione al riparto e, di conseguenza
di disporre l’accantonamento.
Bisogna dare comunque atto al legislatore del correttivo di aver in qualche
modo recuperato una certa organicità di sistema, dando, pur con molte
limitazioni, un senso ed una dignità alla partecipazione del giudice delegato al
procedimento di ripartizione, che era, in precedenza completamente svilito
dato che il suo compito si riduceva al compimento di atti obbligati, privi di
autonomia decisionale, quali il deposito del progetto di ripartizione in
cancelleria, l’ordine di avvertire i creditori, e poi la dichiarazione, su richiesta
del curatore, di esecutività del riparto cui non aveva minimamente
partecipato, con accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti
oggetto di contestazione.
4-Gli atti successivi alla dichiarazione di esecutività
Dichiarato esecutivo il riparto, il curatore- a norma del primo comma dell’art.
115- “provvede al pagamento delle somme assegnate ai creditori nel piano di
ripartizione nei modi stabiliti dal giudice delegato, purché tali da assicurare la
prova del pagamento stesso”. Il precedente art. 115 non conteneva
quest’ultimo inciso ed è sempre stato pacifico che si trattava di una norma
sostanzialmente in bianco che il giudice delegato riempiva con le sue
statuizioni avendo la libertà di disporre modi di pagamento diversi da quello in
danaro contante fatto direttamente al domicilio del creditore (art. 1182, 1277
c.c.) con efficacia liberatoria per il fallimento (es. rilascio di assegni circolari,
consegna di libretti di banca) potendo essi servire a facilitare il compito della
curatela.
Nel nuovo sistema, l’esautoramento del giudice da ogni forma di controllo sul
riparto, così come da ogni attività di controllo sull’attività gestoria del curatore,
rende inspiegabile il mantenimento in capo a lui del potere di disporre le
modalità dei pagamenti, in distonia con i residui poteri gestori che si riducono
all’emissione dei mandati, a norma dell’ult. comma dell’art. 34 l.f., con perdita
di poteri autorizzativi. In ogni caso è inspiegabile l’aggiunta contenuta nel
novellato articolo, perchè non serve a evitare il pericolo di ruberie da parte di
curatori disonesti, se questo era l’intento dei riformatori e, qualunque sia il
mezzo di pagamento scelto dal giudice, rientra comunque nel potere di chi
adempie, ossia del curatore, ottenere la quietanza del pagamento a norma
dell’art. 1199 c.c.. Il legislatore ha ritenuto, in sostanza, di dover ricordare al
giudice di scegliere una modalità di pagamento che consenta di provare che
esso è avvenuto, come a dire di stare attento a che il curatore si faccia
rilasciare la quietanza del pagamento effettuato.
In ogni caso, il curatore, qualora rilevi che le modalità di pagamento disposte
dal giudice delegato siano tali da non assicurare la prova del pagamento
stesso e ritenga di non poter sopperire di propria iniziativa a tale carenza,
deve, presumibilmente, proporre reclamo al tribunale avverso il
provvedimento del giudice.
Le somme destinate ai creditori che non si presentano o che sono irreperibili
vanno nuovamente depositate presso l'ufficio postale o la banca già indicati
ai sensi dell'articolo 34, dispone il nuovo penultimo comma dell’art. 117, che
riprende con aggiustamenti (dovuti al diverso sistema di scelta della banca tra
le due discipline) l’ult. comma del precedente art. 117.
Nel vigore di questo si era ritenuto che, trascorsi cinque anni dalla chiusura
del fallimento senza che le somme depositate fossero state reclamate, la
cancelleria, presso cui normalmente veniva depositato il libretto di deposito
nominativo in favore del creditore, facesse un mandato in favore della Cassa
Depositi e Prestiti; la nuova norma stabilisce, invece, che le somme non
riscosse dopo cinque anni dal deposito e i relativi interessi, “se non richieste
da altri creditori, rimasti insoddisfatti, sono versate a cura del depositario
all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del
Ministro dell’economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base
dello stato di previsione del Ministero della giustizia”.
I beneficiari principali delle somme non riscosse sono, quindi, gli altri creditori
che ne facciano richiesta, tra i quali soltanto, secondo la nuova disposizione
dell’ult. comma dell’art. 117, questa residua liquidità va distribuita, omessa
ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel rispetto delle cause di
prelazione; rispetto che opera, pertanto, solo tra i partecipanti richiedenti e
non tra tutti i creditori rimasti insoddisfatti, rimanendo estranei alla
distribuzione coloro che non hanno fatto richiesta di concorrere a questo
riparto suppletivo. Poichè non è previsto alcun avviso ai creditori
dell’esistenza di residui da distribuire, onde evitare che siano soltanto i
creditori amichevolmente avvertiti dal curatore o comunque i soliti ben
attrezzati ad usufruire del beneficio del riparto supplementare, sarà opportuno
che i creditori, già nella domanda di insinuazione, dichiarino la loro volontà di
partecipare a detti eventuali riparti.
In via subordinata, in mancanza di richieste da parte dei creditori, le somme
residue non riscosse vanno allo Stato per essere riassegnate ad una
apposita “unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero
della giustizia”, non meglio specificata. Forse sarebbe stato meglio lasciare in
questo caso confluire le somme in questione su un fondo da istituire presso
ciascun tribunale con cui soddisfare i curatori dei fallimenti inattivi, che
continueranno ad esserci.
La norma si riferisce ai riparti finali, per cui rimane il dubbio se sia applicabile
anche ai riparti parziali. A mio parere la risposta deve essere negativa nel
senso che, decorsi cinque anni da un riparto parziale, se il fallimento è
ancora aperto le somme accantonate rientrano nell’attivo da distribuire con i
successivi riparti, includendo negli stessi ancora i creditori irreperibili, che non
sono stati soddisfatti, fino ad arrivare al riparto finale.
Opportunamente l’ult. comma dell’art. 115 chiarisce che “se prima della
ripartizione i crediti ammessi sono stati ceduti, il curatore attribuisce le quote
di riparto ai cessionari, qualora la cessione sia stata tempestivamente
comunicata, unitamente alla documentazione che attesti, con atto recante le
sottoscrizioni autenticate di cedente e cessionario, l'intervenuta cessione. In
questo caso, il curatore provvede alla rettifica formale dello stato passivo”.
Disposizione resasi necessaria per superare l’orientamento giurisprudenziale
della Suprema Corte risalente al 1991 (Cass. 4 dicembre 1991, n. 12999;
Cass. 9 dicembre 1991, n. 13221) secondo il quale la cessione di un credito
già ammesso al passivo fallimentare, notificata al fallimento dopo la
formazione dello stato passivo e prima della redazione del piano di riparto,
può essere fatta valere nei confronti del fallimento stesso solo attraverso
l'insinuazione tardiva, ai sensi dell'art. 101 del r.d. 16 febbraio 1942 n. 267,
non essendo sufficiente la mera notificazione e dovendosi provvedere al
controllo, da parte del giudice fallimentare, dell'effettività (non della validità)
della cessione e dell'insussistenza di cause preclusive del credito, rispetto al
fallimento, in relazione al suo nuovo titolare.
Questo principio era stato ritenuto applicabile non soltanto alle ipotesi di
surrogazione convenzionale ma anche a quelle di surrogazione legale (ed i
casi più frequenti sono proprio questi, in particolare la surrogazione prevista
dall'art. 2 comma 7, della l. 29 maggio 1982 n. 297 a favore del Fondo di
garanzia per il trattamento di fine rapporto istituito presso l'INPS); pertanto- si
diceva- “la disposizione di cui all'art. 1203 c.c., in base alla quale la
surrogazione legale ha luogo di diritto, va intesa nel senso che essa opera
anche senza il consenso del creditore originario e del debitore, e non invece
nel senso che la sua concreta attuazione possa prescindere dalla rituale
domanda del terzo che ha pagato di volersi surrogare al creditore soddisfatto”
(Cass. 22 febbraio 1995, n. 1997).
Benchè la nuova disposizione facesse riferimento alla sola cessione
convenzionale (richiede una attestazione, con atto recante le sottoscrizioni
autenticate di cedente e cessionario, dell'intervenuta cessione), la dottrina
non aveva avuto dubbi, per le stesse simmetriche ragioni, a ritenerla
applicabile anche alle surrogazioni, siano esse convenzionali che legali.
Nel decreto correttivo si è ritenuto opportuno introdurre una apposita
disposizione per estendere la disciplina dettata per il caso di cessione dei
crediti ammessi anche ai casi di surrogazione previsti dal codice civile o da
leggi speciali, non essendovi ragioni per una differenza di trattamento.
Questo, peraltro, è il caso più diffuso in considerazione della surroga legale
dell’INPS che anticipa il TFR o gli ultimi tre mesi di retribuzione ai lavoratori
ammessi al passivo.
Giuseppe Bozza
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Siena 14.2.2008 IL PROGRAMMA DI LIQUIDAZIONE E IL