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4
Migrazioni
Novembre 2011
Argilli / Casacchia / Chieffo / Chiodi / Colucci / Costa / Crisci /
De Clementi / De Luca / De Martino / Di Rocco / Di Stasi / Faonte /
Izzo / N. Lombardi / T. Lombardi / Marinaro / Martelli / Massa /
Massullo / Melone / Palmieri / Pazzagli / Pesaresi / Piccoli / Pittau /
Presutti / Ruggieri / Scaroina / Spina / Tarozzi / Verazzo
In copertina:
Berga, Gli emigranti, tecnica mista, tela, 110 x 140 cm, 2012
© 2013 Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali, Edizioni Il Bene Comune
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/ 4 / 2011
Indice
9
Migrazioni, dal secondo dopoguerra ad oggi
FACCIAMO IL PUNTO
17
L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
di Andreina De Clementi
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
37
I limiti della riforma agraria
Forme e tempi dell’esodo
Il sorpasso meridionale
I quartieri italiani
Il polo europeo
L’inarrestabile cataclisma
Ruoli e percorsi di genere
L’impiego dei risparmi e delle rimesse
Il futuro nel passato
Governi, partiti, sindacati: le politiche dell’emigrazione
di Michele Colucci
1. Le posizioni dei partiti e dei sindacati all’indomani della guerra
2. Le sinistre
3. La Democrazia cristiana
IN MOLISE
51
I molisani tra vocazioni transoceaniche e richiami continentali
di Norberto Lombardi
1.
2.
3.
4.
5.
Cade lo steccato del Molise «ruralissimo»
Esodo e spopolamento
Vecchie traiettorie transoceaniche
Nuovi approdi transoceanici
La scoperta dell’Europa
5
/ 4 / 2011
6. La svolta europea
7. Molisani nel mondo
8. Le reti associative
9. Le leggi e le Conferenze regionali
10. Studi e rappresentazioni dell’emigrazione dei molisani
11. Conclusioni: quasi un inizio
107
Appendice: Le associazioni di Molisani in Italia e nel mondo
a cura di Costanza Travaglini
117
L’esodo dal Molise tra il 1952 e il 1980. Nuove destinazioni e riflessi
socio-economici
di Cristiano Pesaresi
1. Il quadro d’insieme
2. Le principali destinazioni nell’intervallo 1962-68 e le condizioni socioeconomiche del Molise
3. Le tendenze degli anni 1972-80 e le condizioni socio-economiche del Molise
131
La mobilità silente: i molisani nei percorsi globali
di Oliviero Casacchia e Massimiliano Crisci
1.
2.
3.
4.
151
La mobilità residenziale dagli anni novanta ad oggi
Concetto e fonti della mobilità temporanea di lavoro
I flussi temporanei per lavoro
Alcune conclusioni
L’immigrazione nel Molise: presenze, aspetti sociali e occupazionali
di Renato Marinaro e Franco Pittau
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
165
Il Molise nell’attuale quadro nazionale dell’immigrazione
I dati principali sulle presenze
Gli indicatori sociali
Le statistiche occupazionali
Immigrazione e integrazione
L’emergenza del 2011: l’accoglienza dei flussi in provenienza dal Nord Africa
Conclusioni: potenziare le politiche migratorie e la sensibilizzazione
Letteratura come autobiografia: la scrittura di Rimanelli tra le due
sponde dell’oceano
di Sebastiano Martelli
6
Indice
INTERVISTE
185
Testimonianze d’altrove: domande per alcuni giovani diplomati e
laureati che hanno lasciato il Molise negli ultimi anni
a cura di Norberto Lombardi
IERI, OGGI E DOMANI
205
Risorse umane
Tavola rotonda a cura di Antonio Ruggieri
RIFLESSIONI
247
Dal globale al locale. Riflessioni sul progetto territorialista
di Rossano Pazzagli
1.
2.
3.
4.
253
Ritorno al territorio
Il territorio come bene comune
Urbano e rurale
Nuovi sentieri nell’orizzonte della crisi
Territorialità, glocalità e storiografia
di Gino Massullo
1. Comparazione e contestualizzazione
2. Territorialità e glocalità
WORK IN PROGRESS
261
Identità, emigrazione e positivismo antropologico
di Paola Melone
1.
2.
3.
4.
Introduzione
Considerazioni concettuali
La corrente del positivismo antropologico
L’emigrazione italiana negli Stati Uniti: la classificazione etnica e gli
stereotipi culturali
5. Conclusioni
275
Donne e corporazioni nell’Italia medievale
di Jacopo Maria Argilli
7
/ 4 / 2011
DIDATTICA
289
Tra “buona pratica” e teoria efficace. Quando la Storia aiuta la persona,
stimola il gruppo, sostiene un popolo
di Clara Chiodi e Paola De Luca
1. Primi giorni di scuola
2. Cognizione e metacognizione
3. Dal bisogno educativo all’azione didattica
STORIOGRAFIA
297
Fra storiografia e bibliografia. Note sui “libri dei libri”
di Giorgio Palmieri
1. Un “libro dei libri”
2. Altri “libri dei libri”
3. I “libri dei libri”
MOLISANA
307
Almanacco del Molise 2011
Recensione di Antonella Presutti
313
Salvatore Mantegna, Giacinta Manzo, Bagnoli del Trigno. Ricerche
per la tutela di un centro molisano
Recensione di Clara Verazzo
316
I di Capua in Molise e il controllo del territorio. Note a margine della
presentazione del volume curato da Daniele Ferrara, Il castello di Capua
e Gambatesa. Mito, Storia e Paesaggio
di Gabriella Di Rocco
321
Abstracts
327
Gli autori di questo numero
8
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
FACCIAMO IL PUNTO
L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
di Andreina De Clementi
Al termine della seconda guerra mondiale, le già provate condizioni materiali
degli italiani non trassero alcun sollievo dalla politica economica della nuova
classe dirigente. Il concatenarsi della stretta creditizia con la chiusura delle imprese meno competitive deflagrò in una disoccupazione di inusitata ampiezza.
Il Mezzogiorno ne subì le conseguenze più pesanti e l’unica possibilità di
sopravvivenza apparve ancora una volta l’espatrio. Sulle orme dei nonni, che
l’avevano sperimentato oltre mezzo secolo prima.
Lo stato italiano, che al tempo della grande emigrazione postunitaria era
rimasto pressoché inerte limitandosi a incamerare e mettere a frutto la valanga di rimesse piovuta da altri mondi, in questa difficile congiuntura se ne fece invece promotore, sollecitò paesi a corto di mano d’opera alla stipula di
trattati bilaterali – regolarmente inapplicati specie in fatto di tutela degli emigranti – e si prodigò nell’incoraggiare le partenze, onde smaltire altrove le
schiere di disoccupati e le turbolenze politiche di quegli anni. Senza preoccuparsi troppo degli arrivi.
Di questo nuova ondata si possono distinguere quanto meno due fasi: il decennio della ricostruzione, in cui si riannodarono vecchi fili, specie con i maggiori paesi dell’America latina, e quello successivo che vide il declino delle rotte transoceaniche, l’alterno protagonismo dei paesi europei e la prepotente irruzione degli epicentri del “miracolo” italiano. Il consolidamento si può far risalire alla metà degli anni sessanta, quando emergono «le caratteristiche di una vera e propria emigrazione di massa, di un fenomeno netto e permanente»1.
1. I limiti della riforma agraria
Dopo che, dapprima nel 1947 poi con la sconfitta elettorale dell’anno successivo, il Partito comunista venne definitivamente estromesso dal governo,
la classe dirigente democristiana si trovò a dover fronteggiare le esasperate
1
Fortunata Piselli, Parentela e emigrazione, Einaudi, Torino 1981, p. 326.
17
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
lotte per la terra ingaggiate dalle masse contadine meridionali. E lo fece tanto a colpi di fucile, quanto con tentativi assai guardinghi di riforma agraria,
che nel decennio 1948-59 segnarono un notevole incremento della piccola
proprietà contadina2. Quegli interventi rimasero tuttavia sporadici e frammentari: nel maggio 1950, entrò in vigore la legge Sila che assegnò alla Calabria oltre 4 mila ettari di terra e subito dopo, in ottobre, la legge stralcio,
allargata alle zone tradizionali del latifondo contadino (Puglia, Basilicata,
Sicilia e Sardegna) e comprensiva del bacino del Fucino, situato nel territorio abruzzese-molisano3 e considerato «una delle zone di riforma più importanti, in cui praticamente ogni comune aveva partecipato alla turbolenta lotta
per la terra»4.
La distinzione tra poderi (o lotti) e quote, prevista dal legislatore, stava a
indicare ampiezze e destinazioni disparate; i poderi designavano piccoli appezzamenti da ripartire tra i braccianti senza terra, mentre le quote servivano
a integrare le microaziende. Nei fatti, le quote furono usate «per lo più indiscriminatamente per distribuire la terra al maggior numero possibile di contadini»5. In modo da ampliare l’area del consenso politico, e a costo di far
proliferare, al tempo stesso, all’infinito la parcellizzazione fondiaria. Del resto, ogni podere superava di poco l’ettaro, vale a dire che era quanto di più
lontano dall’autosufficienza.
Non erano trascorsi neanche dieci anni che la gran parte delle speranze riposte in questo che era apparso il coronamento di aspirazioni secolari si rivelarono illusorie. Non è questa la sede per tracciare un bilancio della politica
governativa nel Mezzogiorno – sulla quale i giudizi sono andati sempre più
raffreddandosi –, il fatto si è che la gran parte delle aree coinvolte vennero
via via abbandonate.
In una zona del catanzarese, ad esempio, l’Ente Sila aveva elargito quote distanti fino a 20 chilometri dall’abitato, e perciò in breve disertate da assegnatari
2
La riforma distribuì nel complesso 279.880 ha tra poderi e quote: nella zona del Fucino
13.495 ha divisi in quote da 1,50 ha assegnate a 9.026 famiglie; in Campania 14.914 ha per
3.529 famiglie con poderi di 7,40 ha e quote di 1,53; in Puglia, Basilicata e Molise 174.098 per
31.534 famiglie con poderi da 8,46 ha e quote da 2,40; in Calabria 77.373 ha per 18.902 famiglie, poderi da 5,72 ha e quote da 2,97. Nel Molise, in particolare, vennero sottoposti a riforma
4.700 ha nei comuni della fascia litoranea adriatica di Campomarino, Guglionesi, Larino, Mafalda, Montecifone, Montenero di Bisaccia, Petacciano, Portocannone, Rotello, Termoli, San Giacomo degli Schiavoni, San Martino in Pensilis e Santa Croce di Magliano. Gino Massullo, Dalla
periferia alla periferia. L’economia del Novecento, in Id. (a cura di), Storia del Molise, Donzelli
Editore, Roma 2006, p. 490. Crebbero anche le piccole proprietà contadine per un totale di
212.148 per 263.048 ha, di cui 46.759 per 49.128 ha in Abruzzo e Molise. Francesco Barbagallo,
Lavoro e esodo nel sud, 1861-1971, Guida, Napoli 1973, p. 202.
3
Il banchiere romano Alessandro Torlonia ne era entrato in possesso verso la metà dell’Ottocento e ne aveva realizzato la bonifica.
4
Sidney Tarrow, Partito Comunista e contadini nel mezzogiorno, Einaudi, Torino 1972, p. 323.
5
Ivi, p. 325.
18
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
carichi di debiti6. Un esito analogo a Gaudiano, uno dei baricentri della legge
stralcio in Lucania, dove le 400 famiglie che si erano trasferite in case costruite
dall’ente riforma erano state abbandonate a se stesse7. E a Minervino Murge,
dove le campagne erano state lasciate senza energia elettrica né acqua8.
Secondo il meridionalista più autorevole della seconda metà del secolo scorso, Manlio Rossi-Doria, proprio nel regno del «latifondo contadino», e della
«più acuta miseria contadina», si era avuto il 50% degli espropri per un totale
di 350 mila ettari, ma tutto era avvenuto «in modo capriccioso e disordinato, a
seconda della casuale distribuzione delle grandi proprietà espropriate»9.
Neppure i fondi erogati dalla Cassa del mezzogiorno, istituita il 10 agosto
1950, dettero risultati sensibili. Tra i tanti, l’industriale biellese Rivetti aveva
impiantato a Maratea una fabbrica tessile, ma, discriminazioni a parte, i salari della mano d’opera locale erano risultati dimezzati rispetto a quelli corrisposti al nord10. E se ciò non fosse bastato, le fonti di occupazione locale non
fecero che assottigliarsi. Durante e dopo la guerra una parte cospicua del patrimonio boschivo silano era andata distrutta, le grandi segherie erano state
costrette a chiudere e lasciare senza lavoro migliaia di operai11. Le antiche
forme di industria agricola, esercitate dalle donne nel chiuso dell’ambito
domestico e votate alla perpetuazione di un’economia di sussistenza, avevano anch’esse i giorni contati. L’artigianato di tessuti e canestri tipico delle
campagne sarde era in via di estinzione12.
Il 19 aprile del 1960 il quotidiano “Il Tempo” pubblicò una lettera inviata
dal sindaco democristiano del paese lucano di Sant’Arcangelo che non aveva
trovato altro modo di rivolgersi alle autorità per fare presente che le frane
causate dall’ultimo inverno molto piovoso avevano interrotto in più punti
l’unica strada che collegava ad altri centri i settemila abitanti del paese, senza contare che le periodiche piene del fiume Agri avevano travolto circa mille ettari di un fertile territorio, «coltivato ad orti-giardini che costituivano la
vera ricchezza agricola della popolazione»13. I toni esasperati della denuncia
del sindaco scivolavano nel sarcasmo:
L’unico vantaggio che si è avuto in un secolo è stata l’acqua in paese […] e
la luce elettrica che consentendo l’uso della radio e della televisione, rendo6
Giuseppe Pace, Lo spopolamento della Calabria, «Cronache meridionali», 1960, 9, p. 566.
Donato Scutari, L’emigrazione dalla provincia di Potenza, ivi, p. 572.
8
Svimez, Ricerca sull’emigrazione interna nel Mezzogiorno. Indagine su Minervino Murge, Roma 1963, p. 11.
9
Manlio Rossi-Doria, La riforma agraria sei anni dopo (1957), in Augusto Graziani (a cura
di), L’economia italiana 1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972, p. 253.
10
D. Scutari, L’emigrazione, cit., p. 566.
11
G. Pace, Lo spopolamento, cit., p. 567.
12
Svimez, Ricerca sull’emigrazione, Indagine su Lodè, Roma 1963, pp. 6 e 65.
13
D. Scutari, L’emigrazione, cit., p. 573.
7
19
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
no consapevoli i cittadini che esistono altrove nel vasto mondo, e anche in Italia, aeroporti, aerei a reazione, ultrasonici, elicotteri, strade ferrate, autostrade bellissime, lussuose e costosissime, che li inducono a paragoni e contrasti col biblico somarello cui devono essere ora relegati dopo tanto decantato progresso!14.
La televisione era arrivata fino in Sicilia quattro anni prima e che il suo sguardo sul mondo fosse un potente stimolo a cambiar vita sarebbe difficile negare.
2. Forme e tempi dell’esodo
Stando così le cose, non c’è di che meravigliarsi se una parte consistente
della popolazione meridionale si ingegnò a cercare altrove le proprie fonti di
sussistenza. Tocca a noi ricostruirne le strategie migratorie con una approssimazione non troppo lontana dal vero.
Cerchiamo anzitutto di fissare alcuni punti fermi:
1. L’abbandono dell’agricoltura precedette nel tempo l’abbandono della
residenza
2. e la migrazione estera precedette quella interna
3. con meta prevalente nei paesi europei e carattere temporaneo, spesso
stagionale;
4. il declino dell’emigrazione estera venne compensato dall’ascesa dell’emigrazione interna
5. che determinò il trasferimento definitivo di interi nuclei familiari e lo
spopolamento delle campagne.
Nel ventennio cinquanta-settanta, l’agricoltura si ritrovò depauperata di
circa due milioni di addetti. Ma attribuire questa perdita al salvacondotto di
un’emigrazione immediata sarebbe fuorviante. Secondo le analisi più avvedute, infatti, il distacco dalla terra si consumava col passaggio alle attività
extra-agricole, cioè con un trasferimento tra settori; l’emigrazione subentrava solo in un secondo momento.
I nuovi insediamenti industriali del meridione avevano suscitato aspettative
molto superiori alle loro potenzialità, la loro capacità di assorbire occupazione aveva soddisfatto la sola offerta dei comuni capoluogo, mentre a chi veniva dall’entroterra erano rimaste le briciole, ingaggi brevi, precari e saltuari.
Poiché inoltre il tessuto produttivo locale e i posti di lavoro preesistenti ne
erano stati distrutti, si era passati «da situazioni di disoccupazione o sottoc14
20
Ibid., corsivo mio.
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
cupazione occulta a situazioni di disoccupazione aperta, e quindi il ricorso
all’emigrazione»15.
Una parte importante avevano svolto in questa dinamica i cantieri aperti
dal 1955-56 dalla Cassa del mezzogiorno: la loro naturale temporaneità non
aveva affatto facilitato il ritorno all’agricoltura. Una volta terminati i lavori,
si pensava piuttosto a cercarsene altri16.
Tuttavia, per quanto prevalente, questo modello non era universale. Secondo
il suo stesso autore «il trasferimento intersettoriale, per lo più in posti di lavoro
precario, precede in due casi su tre quello interregionale, cioè la vera e propria
emigrazione»17. Come sembrava tipico del foggiano, dove questa era stata la
sola forma di esodo dall’agricoltura, «non opere pubbliche o altro»18.
Secondo Barbagallo, lo sfollamento dell’eccesso di popolazione provocò,
tra il 1956 e il 1964, una notevole espansione dell’agricoltura e un mutamento significativo nell’occupazione, che vide scemare quella maschile e guadagnare parecchi punti quella femminile tra i coadiuvanti e tra i lavoratori in
proprio19. Ma questa valutazione ottimistica collide con le considerazioni
conclusive dell’Inchiesta Svimez secondo cui la minore pressione demografica sortì soltanto l’abbandono dei terreni meno produttivi20 e tendeva a occultare situazioni locali tutt’altro che rassicuranti: l’assenza di investimenti
registrata nel Chietino, ad esempio21, lo scarseggiare della mano d’opera e la
sempiterna bassa produttività del Tavoliere22, l’abbandono dell’agricoltura
nelle zone interne della Sardegna per un pascolo reso sempre più stentato
dalla frammentazione fondiaria23, o impedito del tutto, per questo stesso motivo, in ampie aree del Molise24.
Dagli anni sessanta in poi, l’emigrazione di lunga distanza – specie la definitiva – avrebbe conosciuto un declino irreversibile.
Nella mappa migratoria transoceanica alcuni vecchi sentieri erano ormai impraticabili, primo fra tutti quello verso gli Stati Uniti, altri erano tornati invitanti fino alla lusinga: il Brasile, ma soprattutto l’Argentina, millantata dalla
15
Guido Cella, Industrializzazione ed emigrazione: il caso del Mezzogiorno nel decennio
1961-1971, «Rassegna economica», 1974, 4, pp. 1067-1088. Che l’abbandono dell’agricoltura
abbia preceduto nel tempo quello delle residenze è stato sostenuto anche da Salvatore Cafiero e
Giovanni Enrico Marciani, L’emigrazione dalle zone povere, in: A. Graziani, L’economia italiana, cit., p. 275.
16
Svimez, Ricerca sull’emigrazione, cit., Rapporto generale, p. 15.
17
G. Cella, Industrializzazione, cit., corsivo mio.
18
Svimez, Indagine su Biccari, cit., p. 16.
19
1951-6: dipendenti da 726.814 maschi a 581.593 e da 362.201 femmine a 405.572; tra gli
autonomi le donne da 75.170 a 90.289. F. Barbagallo, Lavoro e esodo, cit., p. 206.
20
Svimez, Ricerca, Rapporto generale, cit., p. 36.
21
Svimez, Ricerca, Indagine su Guardiagrele, cit., p. 21.
22
Ivi, Indagine su Minervino Murge, cit., p. 38.
23
Ivi, Indagine su Lodè, Roma 1963, p. 5.
24
William A. Douglass, Emigration in a South Italian Town. An Anthropological History,
Rutgers Univ. Press, New Brunswick 1984, p. 179.
21
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
demagogia del nuovo caudillo Juan Peròn. Erano poi apparsi nuovi soggetti:
l’Australia, la cui ascesa dissimulava molte fragilità e che coltivava abissali
distanze culturali, e il Canada, cui si sarebbe aggiunto più tardi il Venezuela.
Seppellita una volta per tutte la mitopoietica del paese della cuccagna, le
destinazioni transoceaniche si ridussero in breve a poca cosa, schiacciate da
politiche restrizioniste, tracolli finanziari, delusioni di ogni tipo25.
3. Il sorpasso meridionale
Fin dagli esordi del nuovo ciclo migratorio il Mezzogiorno fece la parte del
leone; l’esodo settentrionale, Veneto escluso, era acqua passata. Quali che
fossero le mete, ovunque si verificò il sorpasso: i nuovi arrivati in Argentina
«provenivano soprattutto dall’Italia nord orientale e dal meridione»26. Dei
500 mila emigrati in Canada fino al 1975, il 70% veniva dal sud (Calabria,
Sicilia, Abruzzo, Molise, Lazio, Veneto e Campania)27: tra il 1959 e il 1979,
«il 56% degli emigrati italiani in Australia è arrivato dall’Italia meridionale e
il 25,5% dall’Italia insulare, con Calabria e Sicilia tra le regioni con le percentuali più alte»28. Sud e Sicilia erano andati ad affollare il Venezuela29.
La mano d’opera migrante venne in prevalenza assorbita nell’edilizia urbana e
nelle infrastrutture – cuore degli ambiziosi progetti dell’Argentina peronista –
nella più tardiva modernizzazione venezuelana, nella ricostruzione europea dalle
rovine della guerra e nella crescita delle città. Anche laddove era decollato un
imponente sviluppo industriale, come nella Rft e nello stesso nord Italia, l’ingresso in fabbrica era una conquista faticosa e remota, a causa dell’alterità professionale di tutta una popolazione dedita al precariato agricolo.
La ripresa dell’emigrazione transoceanica ebbe inizio nell’immediato dopoguerra in parziale continuità con l’esperienza di fine Ottocento: Stati Uniti
a parte, che tuttavia per un breve periodo non smisero di accogliere nuovi
arrivi, Argentina e Brasile tornarono ad aprire le loro frontiere. Col governo
argentino, e grazie a buoni auspici politici, vennero siglati allo scopo due accordi30, che sembravano dischiudere un promettente avvenire. Errore. Le
25
Per l’architettura complessiva del presente saggio, rinvio a Andreina De Clementi, Il
prezzo della ricostruzione, Laterza, Roma 2010.
26
Fernando Devoto, In Argentina, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio
Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Donzelli Editore, Roma 2002.
27
Gabriele Scardellato, A Century and More of Toronto Italia in College Street Little Italy,
«Studi Emigrazione», 2007, 166, pp. 273-294.
28
Adriano Boncompagni, In Australia, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione, cit., p. 116.
29
Vittorio Cappelli, In Venezuela, ivi, p. 108.
30
«Al successo dell’accordo giovava anche la promozione della destinazione argentina da parte del mondo cattolico italiano, in primis il Vaticano e la Democrazia cristiana e in generale della
destra, che vedeva l’Argentina peronista più adatta a conservare i “valori” degli italiani piuttosto
che la Francia (preferita invece dalla sinistra)», in F. Devoto, In Argentina, cit., p. 51.
22
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
smargiassate del pur popolarissimo dittatore ebbero, per così dire, le gambe
corte. Il paese sprofondò in una gravissima crisi economica e pesanti ripercussioni si riversarono sull’immigrazione: disoccupazione, drastiche sforbiciate all’invio di rimesse, una crisi degli alloggi senza precedenti e l’addio
alla possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia 31. A farla breve, le cattive
notizie rimbalzarono attraverso l’oceano e gli arrivi presero a rarefarsi fino ai
10.000 l’anno dal 1955 per scomparire quasi del tutto dal 1959. Il Brasile
non fece una migliore riuscita. E non poteva farla, dal momento che già nel
1902 il governo italiano ne aveva bloccato l’afflusso a seguito di allarmanti
resoconti. Nessun mutamento sostanziale era da allora intercorso che potesse
far sperare in un’inversione di rotta.
Ad ogni modo, pur avendo perso parecchio terreno, l’emigrazione di lunga
distanza aveva guadagnato i nuovi spazi dei paesi emergenti. Offrivano i lavori più faticosi e peggio pagati, baracche e alloggi di fortuna, il disprezzo
dei nativi e discriminazioni a ogni piè sospinto. In aggiunta agli stereotipi
razzisti che volevano gli italiani fannulloni, concorrenti sleali nel lavoro e
“sciupa femmine”, gli si imputavano anche il passato fascista e la guerra
perduta. In Australia e in Canada, dove si approdava da soli, le donne giravano al largo e i giorni di riposo annegavano nell’inerzia e nella noia 32. E
perciò i rimpatri fioccavano33 e i censimenti recavano avarissime tracce di
passaggi viceversa molto più numerosi.
La comunità italiana in Australia si era formata tra il 1941 e il 1961 alimentata dai richiami, ma l’internamento di 4.727 dei suoi durante la guerra
l’aveva precipitata in uno stato di profonda prostrazione. La fragile economia australiana si era rivelata meno prospera delle previsioni, nei lunghi periodi di ozio forzato l’unica scappatoia era il taglio della canna nel Queensland, dove finivano anche i più specializzati34.
In Canada, invece, giocavano a sfavore l’ansia di lasciare la campagna per
le città e il rimpianto dei nativi per i belgi, stimati agricoltori provetti e gran
lavoratori. Specie nel biennio 1952-54, il Belgio fu spesso la tappa intermedia, o in attesa della traversata o in fuga dalle miniere35.
Rimesse, lettere, giornali, nuovi arrivi e nuove partenze, era tutto un viavai di
gente e di notizie che tenevano in vita rapporti a rischio di spezzarsi. Chi aveva
31
Andreina De Clementi, Il prezzo della ricostruzione. L’emigrazione italiana nel secondo
dopoguerra, Laterza, Roma 2010, pp. 15-18.
32
Ivi, pp. 73-89.
33
Nel periodo 1960-69, furono dell’ordine del 33,5%, scesi al 25,8% sul lungo periodo
1947-80. I rimpatri più numerosi in Venezia Giulia (77,5%) e in Veneto (71,3); all’altro estremo la Calabria col 14,1%, il Molise col 14%. In Stefano Luconi, I paradigmi recenti
dell’emigrazione italiana e il caso australiano, «Studi emigrazione», 2009, 46, pp. 793-816.
34
Francesco Cavallaro, Italians in Australia: Migration and Profile, «Altreitalie», 2003, 26,
pp. 65-87.
35
Maccari-Clayton, From ´Watchdog´ to ´Salesmen´: Italian re-emigration from Belgium to
Canada after the II World War, «Studi emigrazione», apr.-giu. 2007, pp. 327-336.
23
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
attraversato l’oceano, o anche soltanto valicato le Alpi, doveva vedersela con
parenti e compaesani rimasti in patria e con le società ospiti. Con i primi era un
canale sempre aperto, fatto di reiterate conferme affettive e di altrettanto reiterate
richieste di denaro – la festa, l’ospedale, l’asilo infantile, le vittime di epidemie,
di terremoti, della guerra – che non restavano mai lettera morta36. Dall’altra occorreva difendersi, e affidarsi a solidarietà trascorse o ritrovate.
4. I quartieri italiani
Un’istituzione tipica dell’emigrazione transoceanica era stato il quartiere
italiano, sbrigativamente denominato ovunque Little Italy, locuzione vigente
in realtà nei soli Stati Uniti. Vero è che, da una meta all’altra, differenze ce
n’erano, ma il modello statunitense aveva dalla sua la linearità e la riproducibilità. Garroni ne riassume la definizione elaborata negli anni trenta dalla
scuola di Chicago in questi termini: una «formazione sociale con una propria
forma di organizzazione interna legata ad una dimensione spaziale, geografica […] che svolge un ruolo autonomo, caratterizzante l’intero gruppo ad essa
collegata»37. Si potrebbe aggiungere che la Little Italy era in grado di soddisfare una gamma molto estesa di bisogni, dall’assistenza ai nuovi arrivati alla disponibilità di servizi, alle esigenze affettive, alle molte forme di reciprocità. Va da sé che tutto ciò non poteva certo esorcizzare tensioni e conflitti.
Anzitutto intergenerazionali. Italiani erano certo i nuovi arrivati, ma portavano con sé un bagaglio culturale – provenienza, vissuto storico (il fascismo
e la guerra) e contesto sociale – spesso tale da estraniarli dai connazionali di
lunga residenza. I contrasti erano ovunque all’ordine del giorno; gli ultimi
erano sempre meno poveri e più evoluti, e tendevano a non riconoscersi nei
traguardi raggiunti dai primi.
I requisiti primari della comunità etnica risiedevano in un’immigrazione di
genere – famiglio-centrica – e in un’appartenenza geografica di tipo molecolare, fondata su reti parentali e paesane. In forza di ciò, le recentissime istituzioni regionali italiane di età repubblicana avrebbero avuto buon gioco a
stringere legami con l’associazionismo d’oltre oceano e a promuovere un
gran numero di federazioni gemelle. Un’importanza a sé spettava alle feste
dei santi patroni, tali e quali – almeno nell’immaginario dei partecipanti – a
quelle celebrate in patria, coagulo di una forte esigenza identitaria.
La vitalità di queste micro-società autosufficienti venne messa a dura prova
nel secondo dopoguerra, quando la sopraggiunta prosperità dei tardi anni 50
36
Douglass riferisce con tutti i particolari del caso della generosità degli agnonesi all’estero.
Emigration in a South Italian village, cit., pp. 120 e passim.
37
Maria Susanna Garroni, Little Italies, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione, cit., p. 212.
24
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
trasformò da cima a fondo le città, modernizzò i trasporti, creò nuovi quartieri e infoltì la varietà dei servizi, e gli italiani si sparpagliarono a loro volta
nelle zone residenziali suburbane. Le fortune delle Little Italy nordamericane
si palesarono così inversamente proporzionali al progressivo grado di integrazione e di riuscita sociale dei loro abitanti.
Ma politiche migratorie disomogenee potevano sortire esiti altrettanto diversi. Come sembrerebbe dimostrare il parallelismo USA-Canada analizzato
da Bruno Ramirez38.
La chiusura delle frontiere statunitensi era stata in parte compensata
dall’alternativa canadese, e ne aveva fatto scattare i 152 mila arrivi a 750 mila, concentrati a Toronto e Montreal. Gli USA accoglievano ormai soltanto
25 mila italiani l’anno, una goccia nel mare dei 6-7 milioni di vecchi immigrati – ormai parecchie generazioni – affatto americanizzati durante la guerra
e nel corso della guerra fredda; gli ultimi arrivati venivano introdotti all’american way of life senza mettere mai piede nei vecchi quartieri. I quali,
già attanagliati dalla crisi, erano stati resi anche più pericolanti dalla vicinanza con gli insediamenti afro-americani sorti da quella recente, imponente,
immigrazione – tre milioni e mezzo tra il 1940 e il 1966 –, teatro di frequenti
conflitti interrazziali. Situazione che aveva persuaso gli antichi abitanti ad
abbandonare il campo e inflitto così alle Little Italy il colpo di grazia.
A fronte di questa débacle del melting-pot, il multiculturalismo canadese
sembrava aver fornito un’attrezzatura più adatta alle prove di sopravvivenza
assecondando il reintegro dei vecchi quartieri nella loro vocazione di comitato di accoglienza. Al punto che la Little Italy di Toronto aveva dovuto ampliare i suoi confini39.
La forza del modello venne dimostrata dal suo riproporsi nelle nuove destinazioni post-belliche. Nuclei abitativi su base territoriale erano sorti in
Australia, dove tra gli altri il ceppo siciliano, disarticolato nelle sue diramazioni di Messina, Naso e Vizzini, si era disseminato in zone e città diverse40.
Sul fatto che comunque la disponibilità di un network di riferimento potesse spianare la strada al successo sociale c’era poco da dubitare, e non ne
mancavano esempi di indubbia efficacia. Fernando Devoto riprende da uno
studio apparso nel 1992 il caso di due gruppi approdati nel secondo dopoguerra nella città argentina di Rosario, rispettivamente dal Molise e dalla Basilicata. Nel volgere di pochi anni, le loro sorti si erano divaricate: il primo,
forte dell’appoggio di parenti e compaesani da tempo inseriti nel commercio
della panificazione, aveva risalito i ranghi della classe media; l’altro invece,
38
Bruno Ramirez, Decline, Death and Revival of Little Italies: the Canadian and U.S. Experience Compared, «Studi Emigrazione», 2007,166, pp. 337-354.
39
G. Scardellato, A century and More, cit.
40
F. Cavallaro, Italians, cit.
25
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affatto privo di contatti, era rimasto abbarbicato al primo impiego in una
fabbrica siderurgica ubicata nella periferia cittadina41.
Le Little Italy, o comunque li si chiamassero i quartieri italiani, erano un’esclusiva dei paesi transoceanici, e per ragioni facilmente intuibili: nell’emigrazione
europea regnavano temporaneità e mascolinità e in molti casi gli alloggiamenti
erano predisposti dagli stessi datori di lavoro per ammucchiare insieme intere
squadre operaie; nei bacini minerari belgi e, più tardi, nella Germania Federale
gli uomini venivano stipati nei campi costruiti dall’occupazione nazista per i
prigionieri russi. Se a sistemazioni così infelici andavano a sommarsi gli intralci
ai ricongiungimenti familiari, va da sé che l’idea del “mordi-e-fuggi” tendeva a
soffocare qualsiasi programma di lungo respiro.
Dove viceversa, come in Francia, si era in presenza di un’emigrazione consolidata e di una domanda agricola soverchiante, che aveva finito con
l’aprire agli italiani anche la esclusiva coltivazione delle barbabietole, questi
avevano mano libera e potevano, a seconda delle esigenze, tanto disperdersi
nelle campagne quanto rifugiarsi nelle enclaves urbane.
5. Il polo europeo
Il trattato di Roma stipulato nel 1958, che liberalizzava la circolazione intercontinentale, aveva irrobustito la capacità di attrazione dei paesi europei. Con i
quali – e a differenza dai connazionali del nord -, gli emigrati meridionali non
avevano mai avuto gran dimestichezza. Una comunità pioniera come la molisana Agnone si era diretta fin dai primordi in Argentina e lì aveva intessuto le
proprie fortune: l’Europa era stata una scoperta del nuovo dopoguerra42.
Nel primo decennio postbellico richiesero mano d’opera aggiuntiva la
Svizzera e la regione dei grandi giacimenti carboniferi franco-belgi. La
Francia continuò ad accogliere italiani a qualsiasi titolo (assistiti, liberi e
clandestini), fedele al doppio regime lasciava convivere indisturbate durezza
legislativa e sfacciata tolleranza della clandestinità.
Bruciante l’esperienza del Belgio, che scambiava carbone con uomini. Il
carbone era ormai una fonte energetica obsoleta ed era in procinto di cedere
al petrolio; i due grandi monopoli che controllavano le miniere cercavano di
sfruttarle fino allo spasimo rifuggendo da qualsiasi investimento: venivano
riaperti vecchi pozzi già abbandonati e gli incidenti spesso mortali si susseguivano senza tregua. I vantaggi salariali avevano nondimeno la meglio su
quelle avvilenti condizioni di vita e di lavoro, ma erano in molti a girare i
tacchi alla prima discesa nei pozzi o prima ancora di calarvisi. Fino alla tragedia di Marcinelle nella quale morirono 262 lavoratori, di cui 132 italiani, e
che segnò la fine di quell’emigrazione italiana.
41
42
26
F. Devoto, In Argentina, cit, p. 52.
W. A. Douglass, Emigration in a South Italian village, cit., p. 198.
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
Sorprendente l’ostracismo britannico. Un patto di ferro stretto tra il governo laburista e le potenti Trade Unions aveva consentito di scaricare sulla
classe operaia il fardello della ricostruzione in cambio del blocco delle frontiere a tutela della piena occupazione. E sì che nel volgere di qualche anno,
un ormai incolmabile deficit di mano d’opera avrebbe fatto perdere al Regno
Unito lo scettro di massimo esportatore di carbone. La capacità di far rispettare il patto dipendeva dal potere di ciascun sindacato, in specie delle agguerrite “logge” locali che non intendevano minimizzare le contropartite ricevute dal governo. Per contro, i settori meno protetti dell’occupazione
femminile aprirono le porte alle straniere. Di operaie tessili, domestiche, inservienti ospedaliere c’era grande richiesta e, per la prima volta nella storia
dell’emigrazione italiana, frotte di giovani donne sole attraversarono la Manica sopravanzando il contingente maschile43.
Non prima di aver portato a termine una ricostruzione di imprevedibile
successo, la Repubblica Federale Tedesca balzò in vetta alla graduatoria dei
paesi importatori di mano d’opera e nei primi anni sessanta assorbì il 40%
del totale transalpino. Alla fine del decennio strappò il primato alla Francia.
La sconfitta bellica aveva interrotto i rapporti di lavoro italo-tedeschi, dapprima assai intensi. Ma la memoria di quei trascorsi era rimasta viva se nel
settembre del 1961 il direttore generale della Volkswagen ebbe a dichiarare
che il bisogno di mano d’opera straniera andava coperto da soli italiani, i
quali avevano già lavorato lì nel 1938-39, alla costruzione della fabbrica e
della stessa città di Wolfsburg. A rafforzare questa preferenza, la difficile
convivenza con altri gruppi nazionali e la intermediazione del Vaticano con i
parroci e le ACLI, garanti della docilità dei soggetti selezionati. I quali lavoravano a più non posso per guadagnare il massimo e affrettare il rientro44,
superando di parecchie lunghezze la spiccata tendenza al turn-over tanto caratteristica di questo ciclo migratorio.
In effetti, un vero record: «In nessun caso – scrive Enrico Pugliese – la differenza tra quanti hanno vissuto l’esperienza migratoria e quanti sono rimasti
nei paesi d’arrivo è stata così modesta, né così alto è stato mai il numero dei
rientri». Infatti, tra il 1955 e il 1999, erano approdati in Germania quasi quattro milioni di italiani, e vi erano rimasti in 466.370, pari al 12% del totale45.
Con grande soddisfazione delle autorità tedesche, che, fino a tempi recentissimi, hanno ostinatamente rifiutato la definizione di paese di immigrazione,
insistendo sulla formula dell’ospitalità temporanea in spregio ad ogni evidenza e, in forza di ciò, escogitando svariati stratagemmi intimidatori, dagli
ostacoli al ricongiungimento familiare alla emarginazione scolastica.
43
Nel censimento britannico del 1951, su 34.000 italiani, le donne erano 21.000 (60%). Lucio
Sponza, Gli italiani in Gran Bretagna. Profilo storico, «Altreitalie», genn.-giu. 2005, pp. 4-23.
44
Katiuscia Cutrone, Italiani nella Germania degli anni ’60. Immagine e integrazione dei
“Gastarbeiter”. Wolfsburg 1962-73, «Altreitalie», 2006, 33, pp. 19-44.
45
E. Pugliese, In Germania, in Storia dell’emigrazione, II, cit., p. 124.
27
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
E quando il nord Italia irruppe sulla scena, a contendersi la mano d’opera
con Germania ovest e Svizzera, la cultura migratoria meridionale colse al
volo questa nuova occasione.
6. L’inarrestabile cataclisma
Durante quello che Augusto Graziani ha definito «il periodo dell’espansione
più brillante dell’economia italiana»46, e cioè il 1950-1963, la carta demografica nazionale venne investita da una sorta di cataclisma inarrestabile, che abbatté barriere, rimodellò il paesaggio urbano, rimescolò dialetti, travolse gusti e
abitudini, risvegliò speranze e paure; tutto avvenne come se una grande mano
sbucata dal nulla si fosse divertita a mettere a soqquadro l’ordine esistente: vere e proprie fiumane di uomini e donne lasciarono per sempre i villaggi natii
per approdare in centri meno angusti, città piccole e grandi che sembravano
promettere un futuro migliore. Una vertiginosa industrializzazione fece da
traino a quella mobilità febbrile; come è noto, non fu solo il sud a svuotarsi, e
non solo le capitali del triangolo industriale a riempirsi.
Secondo le rilevazioni statistiche disponibili, nel ventennio 1951-1971 il
Mezzogiorno subì la perdita di quattro milioni di individui causata dal saldo
migratorio. Più colpite le province molisane e calabresi, seguite da Basilicata
e Abruzzi, di contro a una crescita complessiva di Campania e Puglia. Ma
solo nelle prime due gli ammanchi erano grosso modo omogenei; in Basilicata, il ritrovamento del metano rivitalizzò Matera, mentre gli abbandoni abruzzesi erano in parte defluiti su Pescara. Infine, neppure le due regioni rimaste a galla risultavano indenni: in Campania si erano svuotate le zone interne dell’Irpinia e del Sannio, e in Puglia la provincia di Foggia.
A complicare il quadro, un processo di inurbamento aveva investito Pescara, Salerno, Bari, Taranto, Potenza e Cosenza47.
Di fatto, l’intero assetto demografico dell’area venne nel ventennio modificato da cima a fondo, complice anche la migliore viabilità. L’inchiesta Svimez rilevava come la generale tendenza a spostarsi verso centri maggiori e
meno isolati scaturisse dalle ragioni più disparate, scambi matrimoniali tra
comunità limitrofe, domanda di addetti all’edilizia insorta dalle città in espansione, e di domestiche che attirava le giovani contadine, desiderio di
maggiori servizi, ad esempio di scuole, ricerca di occupazioni meno faticose
e precarie, quali i portierati48.
La stessa fonte gettava luce su una sorta di emigrazione di risulta, osservata a
Lucera, dove gli abitanti del comune foggiano di Biccari andavano ad occupa46
A. Graziani, Introduzione, in L’economia italiana 1945-1970, cit., p. 13.
F. Barbagallo, Lavoro e esodo, cit., p. 187.
48
Svimez, Ricerca su le migrazioni interne nel Mezzogiorno. Rapporto generale sulla ricerca, cit., pp. 19-20.
47
28
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
re servizi e terreni di luceresi partiti per il nord49, e sul calo dei centri più poveri e il progressivo abbandono delle case sparse denunciato dal chietino50.
Il ventaglio delle opportunità migratorie era di dominio pubblico, al punto
che in ogni paese erano pressoché tutte rappresentate51. Quindi le strategie
sottostanti dovevano riflettere calcoli ben precisi e valutazioni complesse.
Con un progetto a due uscite: partenza solo maschile con rientro embedded,
oppure a famiglia intera, a poco più di cinquecento chilometri di distanza.
Quale fosse, caso per caso, l’argomento decisivo è difficile dire. Certo è
che il legame con la terra rendeva i piccoli proprietari restii alle rotture definitive, e quindi meno inclini a tagliare i ponti dietro di sé; mentre nessuna
remora tratteneva il ceto bracciantile. Quando poi, nel 1958, l’imponibile di
mano d’opera fu dichiarato incostituzionale, e i grandi proprietari si affrettarono a sradicare le colture intensive, non rimase altro che andarsene.
A imprimere una svolta alla propria vita concorrevano anche le forme di
emulazione e di rassicurazione reciproca che trasformavano le aspettative
individuali in comportamenti collettivi. Le mete più chiacchierate venivano
di colpo tralasciate per altre assai promettenti ma ancora da sperimentare. Le
informazioni correvano di bocca in bocca e, nel contesto dato, nessuna decisione veniva mai presa alla cieca.
E tra il salto nel buio verso il triangolo industriale e il pendolarismo stagionale oltr’Alpe, se veniva preferito quest’ultimo era perché offriva salari più
alti e costi di mobilitazione assai contenuti, ma soprattutto la certezza del
rientro, un rapporto ininterrotto con la terra e un immediato miglioramento
del tenore di vita. Sull’altro piatto della bilancia pesava la quotidianità malinconica di chi consumava in solitudine la gran parte dell’anno e tirava la
cinghia per risparmiare il più possibile. E poiché condizioni del genere erano
tagliate su misura per un soggetto maschile di un nucleo familiare stabile ed
efficiente, in ultima analisi «il successo dell’emigrazione dipendeva dalla
moglie»52.
L’alternativa Torino o Milano appariva più temeraria: si risparmiava di
meno, l’inserimento – in primis una casa – era di gran lunga più oneroso e
preceduto da partenze solitarie con riunioni tardive, oppure si bruciavano le
tappe con richiami affrettati e patimenti condivisi. Ma era sul lungo periodo,
49
Id., Indagine su Biccari, Roma 1963, p. 15. Nel centro cosentino di Altopiano, i contadini
affluivano in paese «a sostituire gli abitanti dei rioni vecchi». F. Piselli, Parentela e emigrazione, cit., p. 322.
50
Svimez, Ricerca … Indagine su Guardiagrele, cit., p. 4.
51
Degli 11.035 abitanti del centro chietino di Guardiagrele, tremila, tra il 1951 e il 1961, si
erano recati per 9-10 mesi in Svizzera, in Germania o in Francia, ed erano rientrati a casa per
Natale, secondo «un flusso stagionale tipico di molte regioni del sud». Ivi, p. 11. E ad Agnone, nel 1946-1972, 708 tra maschi e femmine si erano distribuiti tra Francia, Germania, Svizzera, Belgio e Inghilterra. W. A. Douglass, Emigration, cit., p. 197.
52
Amalia Signorelli, Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio Editore, Palermo 2006, p. 139.
29
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
e superate le prove più ardue, che i conti potevano tornare e la nuova vita
mantenere le sue promesse; i rientri in paese si facevano sempre più rari e i
ricordi tendevano a sbiadire. E comunque, come è prassi nel fenomeno migratorio, i ripensamenti non si contavano.
Oltrepassata la linea gotica, il primo impatto era da shock. Un giovane maschio, celibe o coniugato che fosse, partiva in avanscoperta per valutare la
realizzabilità del progetto e precostituire il necessario per l’arrivo di moglie e
figli o di altri congiunti. Ma ad aspettarlo non c’era nessuna Little Italy, nessuna congrega di compaesani pronta a guidarne i primi passi in quel mondo
sconosciuto; mancava un retroterra migratorio. C’erano invece i tuguri, le
baracche di lamiera delle “coree” e i meccanismi di esclusione e di rigetto
attivati dalla società ospite e dallo stato.
Il più grave in assoluto, il perdurare fino al 1961 della legge fascista contro
l’inurbamento. Vale a dire che per quasi tutto il quadriennio 1958-62 – il periodo più critico –, l’afflusso nelle grandi città industriali avvenne in tutta
clandestinità: niente residenza = niente libretto di lavoro, con quel che ne
conseguiva: lavoro nero e sottopagato, negate le cure mediche e le case popolari. Vero è che l’on.Terracini aveva presentato un progetto di legge abrogativo approvato dal Senato all’unanimità il 17 febbraio 196053, ma la Camera lo aveva recepito un anno dopo, a cose fatte.
Questa condizione di marginalità coatta non faceva che incrudelire la istintiva ostilità dei primi per gli ultimi arrivati; gli stereotipi si fecero pietre difficili da rimuovere: «Noi siamo della bassa Italia – ragionava Alessandro,
facchino ventiquattrenne di Poggio Reale, rispondendo alle domande di
Franco Alasia – ci chiamano terroni che siamo sporchi e non abbiamo voglia
di lavorare […]. Uno mi dice: sei terrone, non hai voglia di lavorare […] venite qui a levare il pane ai milanesi». E lui di rimando: «Vedrai chi si stanca
prima. Perché sono abituati tutti al lavoro negli stabilimenti, hanno il loro
lavoro pulito, sono specializzati, sono andati a scuola e non fanno niente»54.
La mobilità traduceva in gerarchia etnica le differenze: «Non sono ancora
riuscito a convincermi che un meridionale possa diventare una persona onesta e leale come gli altri […] Al momento di agire fanno anche presto a passare alle coltellate […] Le ragazze guardano alla cultura di una persona e noi
dell’Alta Italia sappiamo più parlare», così il polesano Siro, venticinque anni, fissava i termini della sua superiorità stracciona55.
53
Alvo Fontani, L’emigrazione meridionale. Un bilancio negativo, «Cronache meridionali», 1960, 9, p. 557.
54
Franco Alasia e Danilo Montaldi, Milano Corea, Donzelli Editore, Roma 2010 (Feltrinelli 1960), p. 199.
55
Ivi, p. 225.
30
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
7. Ruoli e percorsi di genere
L’assenza maschile rovesciò sulle donne le incombenze più disparate, dalla
cura dei microfondi alla gestione familiare e all’impiego delle rimesse. E
vennero loro spalancate le porte di luoghi – banche, uffici postali, studi notarili – fino a ieri interdetti, ricadevano su di loro anche i ruoli più esclusivi: il
villaggio lucano di Satriano celebrava con una processione la ricorrenza di
Sant’Antonio che cadeva il 13 giugno, cioè in un periodo di assenza di uomini validi talmente assoluta che la statua veniva portata a spalla da mogli,
figlie, sorelle56.
Su di loro si riversò la parte maggioritaria dell’occupazione agricola. Nel
1960, a fronte di una media nazionale di genere pressoché paritaria – il 31%
ai maschi e il 30,6% alle femmine – bastava allungare lo sguardo per leggere, nel nord, un rapporto del 19% a 12,3%, e una sua decisa inversione nelle
regioni meridionali57.
L’occupazione extradomestica di genere mostrava del resto dati sconfortanti; la quota maschile raggiungeva in tutta la penisola oltre il 50% del totale con punte del 65% nel triangolo industriale, mentre quella femminile si
aggirava tra il 10 e il 20%. I dislivelli crescevano di molto separando l’agricoltura dall’industria, nella quale le lavoratrici erano il 48,6%, pari al doppio
delle meridionali58.
Questa forbice era a sua volta causa ed effetto di una ripartizione sperequata dei prodotti più rappresentativi della esordiente società dei consumi, gli
elettrodomestici. Non che il loro ingresso tra le pareti domestiche si fosse arrestato alle soglie dell’area più disagiata, dove anzi l’afflusso delle rimesse
era più che sufficiente allo scopo, ma difforme ne era la distribuzione tipologica, stando alla quale nelle regioni del sud scarseggiavano lavatrici e lavastoviglie, superate di parecchie lunghezze dagli apparecchi televisivi.
Secondo una curiosa indagine dell’epoca59, tra le cause più ovvie occorreva
annoverare in primo luogo i deficit della rete distributiva di energia elettrica,
che sacrificavano di molto gli usi diversi dall’illuminazione, e non trascurare
una diffidenza tutta contadina per l’innovazione. Ma l’autore azzardava anche l’ipotesi che la rarità di elettrodomestici sostitutivi di lavoro umano (=
56
D. Scutari, Emigrazione, cit., p. 571.
Campania m. 31%, f. 52,3%; Abruzzo-Molise m. 46,7%, f. 61,6%; Puglia Basilicata Calabria m. 44%; f. 59,8%; Sicilia m. 40,9%, f. 29,5%; Sardegna m. 46,6%, f. 19,5%. Per un
totale di 41,8% e 44,5%. Rispetto poi alla popolazione attiva, la media nazionale del 37% saliva al 42,9% nel triangolo e scendeva al 31,4% in tutto il meridione. I dati sono tratti da una
ricerca pubblicata da Nora Federici sulla rivista «Statistica», ampiamente riportati in: Antonio
Gerace, Gli elettrodomestici nella società meridionale, «Nord e Sud», luglio 1961, p. 98.
58
E più in dettaglio: in Campania il 19,0%; in Abruzzo e Molise 14,8%; in Puglia, Basilicata e Calabria 18,7%; in Sicilia 21,4%; in Sardegna 14,6%. Media nazionale: 19,7%.
59
A. Gerace, Gli elettrodomestici, cit., passim.
57
31
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femminile) fosse dovuta altresì alla mediocre occupazione extradomestica
delle donne, che rendeva quella mano d’opera esuberante, e superflua l’esigenza di labour-saving, avvertita soprattutto nelle città.
Cambiando punto di osservazione si può aggiungere che, come aveva ben
chiaro il già citato sindaco di Sant’Arcangelo, la diffusione del messaggio
televisivo poteva ridestare la voglia di altre vite e di altri mondi. Peraltro, a
ben vedere, anche l’emigrazione ottocentesca era lievitata sulla narrazione
delle esperienze altrui – i giramondo delle arti e dei mestieri, al loro rientro,
lasciavano sbalorditi i compaesani favoleggiando di luoghi lontani e ricchezze inenarrabili, tarli che scavavano nelle menti degli astanti fino a farli passare all’azione60. Rispetto a quel passato era cambiato il mezzo, ma non il
messaggio, e l’oralità la faceva ancora da padrona.
La disoccupazione femminile del sud non fece che peggiorare. In uno studio promosso dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno si legge:
La situazione attuale è particolarmente grave per la popolazione femminile, il
cui tasso di attività è bassissimo, specie nel Mezzogiorno, dove soltanto il
15% delle donne svolge attività retribuita extra domiciliare. I tassi di attività
femminile hanno risentito dell’esuberante offerta di lavoro maschile e della
scarsissima preparazione professionale che, quando anche le condizioni del
mercato del lavoro lo consentissero, impedisce a molte lavoratrici uscite
dall’agricoltura e a molte casalinghe di inserirsi in processi produttivi. Ci sono però alcuni indizi […] che lasciano intendere come in ogni caso la partecipazione al lavoro delle donne nell’area meridionale sarebbe ben più intensa
se maggiori e più adeguate fossero le opportunità di lavoro»61.
E gli indizi consistevano in «una percentuale crescente di donne sul totale
degli espatri per motivi di lavoro, una rilevante quota di ingressi nelle forze
di lavoro all’estero di donne emigrate in condizione non professionale e, soprattutto, un aumento delle donne in cerca di prima occupazione»62.
Al tempo della grande emigrazione le donne non erano certo rimaste immote, ma la regola le voleva viaggiatrici al seguito o al richiamo di padri,
mariti e figli, il che non impediva loro l’ingresso nei mercati del lavoro esteri
appena messo piede oltre frontiera. In altre parole, partivano imbozzolate in
un ruolo familiare e arrivavano pronte a rivestirsi di un ruolo sociale. Ma di
donne sole se ne erano viste poche.
La novità rimarcata dal Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno era balzata
agli occhi degli osservatori più attenti prima ancora che apparisse nelle rilevazioni ufficiali: la «cospicua partecipazione di donne e ragazze all’emigrazione
60
Andreina De Clementi, Di qua e di là dall’oceano. Emigrazione e mercati nel meridione
(1860-1930). Carocci Editore, Roma 1999, pp. 26-33.
61
A. Fontani, L’emigrazione meridionale, cit., p. 563.
62
Ibidem.
32
De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
– si leggeva nella breve inchiesta sull’Irpinia del 1960 – si è verificata per la
prima volta in provincia di Avellino solo in questo dopoguerra. Mai ciò si era
verificato per il passato, sebbene vi siano stati anche antecedentemente alla
prima guerra mondiale periodi di intensa emigrazione»63. Bastava un’occhiata
alle cifre: dal 1948 al 23 aprile del 1957, dal comune di Scampitello in Alta
Irpinia su 1.860 abitanti erano emigrati in mille, di cui 450 uomini e 550 donne, disseminati tra varie mete, interne ed estere. Nel 1953, continuava l’autore,
l’Ufficio del Lavoro aveva ingaggiato 2.360 emigrati, 1.584 erano compresi
tra i 14 e il 30 anni, 1.081 maschi, di cui 729 celibi, e 503 donne, di cui 382
nubili. Su un altro scaglione di 5.771 individui, 1.500 erano donne, tutte classificate casalinghe. Le ragazze si dirigevano per lo più in Svizzera, dove le attendevano lavori domestici. E il deflusso andava ad aumentare: nel 1960, nei
soli marzo e aprile, la Svizzera aveva accolto 2.000 giovani lavoratori e lavoratrici, altri 1.500 si erano diretti in Germania nei mesi estivi, quando cioè fervevano i lavori agricoli: «[…] ne deriva per conseguenza che, pur dopo un così incisivo dissanguamento di energie umane, l’Irpinia resta tuttavia un inesauribile serbatoio di forze produttive inutilizzate».
Al tempo del taglio del canale di Suez, dalla provincia di Catanzaro erano
partite molte donne, che «facevano da balie ai bimbi delle ricche straniere, di
sede in Alessandria, con uno stipendio di cento lire mensili circa, mentre ai
loro paesi ne guadagnavano in media dieci»64. Si parlava di cento anni prima, e di un episodio abbastanza eccezionale se, tra i fatti nuovi dell’ultimo
triennio, si sottolineava che «decine di giovinette dai diciotto anni in su si
spostano, da sole, nel nord Italia per trovare una qualche occupazione negli
opifici»65. E, nel Molise, Agnone non era da meno: sui 708 emigrati in Europa nel 1946-1972, 316 erano donne66.
8. L’impiego dei risparmi e delle rimesse
In un saggio del 1967, Pasquale Saraceno affermava: «Per la prima volta
nella sua storia, il Mezzogiorno appare partecipe del generale processo di
espansione del paese a un ritmo non minore di quello pur molto intenso di
cui hanno beneficiato le regioni più progredite»67. A comprovarlo, l’aumento
del reddito pro capite, cresciuto al saggio medio del 5,1% nel quindicennio.
63
Enrico Vuotto, L’esodo dai comuni irpini, «Cronache meridionali», 1960, 9, pp. 575-581,
in part. p. 575.
64
G. Pace, Lo spopolamento, cit., p. 567.
65
Ibidem.
66
W. A. Douglass, Emigration, cit., p. 197.
67
Pasquale Saraceno, Il Mezzogiorno quindici anni dopo, in: A Graziani, L’economia italiana, cit., p. 265.
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E poiché questo aumento era stato destinato in toto alla massa dei consumi,
era logico imputarlo alle sole risorse esterne, vale a dire la spesa pubblica,
gli investimenti privati e le rimesse degli emigranti.
Secondo calcoli attendibili, queste ultime ammontavano in media a mezzo
milione di lire l’anno, pari al doppio del reddito individuale realizzabile in
patria68. Lo scarto era di molto superiore nelle zone più povere, la provincia
di Avellino, ad esempio, dove, nel 1958, il reddito procapite si aggirava intorno alle 106.473 lire69.
Sulle rimesse, molto ci dice un capitolo della ricerca promossa dal Formez nel 1975 su Progetto di studio operativo sull’emigrazione meridionale
nelle zone di esodo, effettuata dall’Isvi di Catania sulla base di 594 interviste con altrettante famiglie coinvolte a vario titolo nell’emigrazione, raccolte nella Sicilia interna, e precisamente in quindici comuni delle due province di Enna e di Caltanissetta che «presentano tra i più elevati tassi di
emigrazione e sono forse l’aggregato territoriale meno sviluppato dell’intero Mezzogiorno»70.
L’inchiesta si sofferma in sostanza su due temi capitali: la capacità di risparmio dei soggetti migranti e l’impiego delle rimesse, attorno alle quali
l’emigrazione ruota.
La prima si diramava in due direzioni, il massimo accumulo di denaro a
scapito dei consumi, proprio dell’emigrazione temporanea maschile, e le ingenti spese di integrazione necessaria al trasferimento di un intero nucleo
familiare che poco o nulla permettevano di accantonare; anche a voler dilazionare i ricongiungimenti, occorreva comunque essere già in possesso di
«un posto di lavoro molto remunerato». Insomma, spostarsi in Italia o spostarsi all’estero faceva parecchia differenza. Dicendo “estero”, del resto, si
era ben lungi dal menzionare, anche a questo proposito, una realtà omogenea. A fronte, infatti, di invii di denaro costanti nel tempo e perfino in crescita
da Svizzera e Germania, «in Francia, Belgio, Gran Bretagna, le rimesse sono
in complesso in diminuzione, segno che la situazione per gli immigrati diventa sempre più difficile, sia dal punto di vista occupazionale sia per gli
aumenti che ha subito il costo della vita».
Quanto all’impiego, quel denaro se ne andava per metà nei consumi correnti (alimenti, vestiti, ecc.), l’altra metà poteva servire:
- a ripagare i debiti, contratti per la costruzione della casa, per il sostentamento della famiglia, ad es. nei periodi di disoccupazione forzata, ecc.;
68
S. Cafiero e G. E. Marciani, L’emigrazione dalle zone povere, cit., p. 277.
E. Vuotto, L’esodo dai comuni irpini, cit., p. 578.
70
Nanda D’Amore, Emanuela D’Andrea, Maria Scuderi, Bilanci familiari e rimesse degli
emigrati meridionali, «Studi emigrazione», 1977, 45, pp. 3-37.
69
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De Clementi, L’emigrazione meridionale nel secondo dopoguerra
- all’acquisto di beni durevoli: in cima a tutti, l’automobile, che «rappresenta per molti emigrati […] una prova concreta della condizione economica raggiunta in emigrazione», uno status symbol, insomma. Tanto più
ostentato quando a partire era stato uno scapolo, a riprova della «forte
spinta consumistica che caratterizza l’emigrazione più giovane». E in cui
erano compresi anche l’arredamento dell’abitazione e gli elettrodomestici, di cui si è detto.
Una voce a sé era poi riservata al matrimonio, non solo e non tanto per via
della dotazione, che poteva indurre padri all’espatrio, ma non era più
d’obbligo, quanto «per le spese che comportano i soli festeggiamenti nuziali
[che] rendono necessario un risparmio di parecchi anni». E ad Altopiano di
rimando: «C’è chi profonde nel matrimonio di una figlia, in un solo giorno, i
risparmi di dieci anni di emigrazione»71.
Quanto infine agli investimenti immobiliari, vi primeggiava la casa, che ne
assorbiva tra il 60 e l’80%, si trattasse di un acquisto ex novo, o di un restauro o dell’ampliamento di una vecchia costruzione, oppure di un congegno
“fai-da-te” con l’aiuto di qualche familiare. La terra aveva perso tutto il suo
valore reale e simbolico, monetizzato nella destinazione di area edificabile.
Tirando le somme, «L’obbiettivo fondamentale degli emigrati resta la casa,
che costituisce il principale investimento, e non si è soddisfatti se non si riesce a raccogliere i risparmi necessari ad acquistarla o costruirla»72.
E in linea di massima c’erano riusciti. Infatti, al termine dell’inchiesta, la
stragrande maggioranza degli intervistati (l’84,4%) si era dichiarata soddisfatta della propria scelta e dei risultati ottenuti. Con grande sconcerto delle
autrici:
Sembra che solo pochissimi si rendano conto che i propri risparmi, frutto dei
sacrifici in emigrazione, sono riusciti solo a migliorare un poco e transitoriamente le proprie condizioni di vita, ma non hanno modificato in nulla
l’ambiente di origine né hanno innescato alcun processo per cui sia più facile
trovare un lavoro senza dover emigrare73.
9. Il futuro nel passato
Un terremoto come questo non ingenerò nelle aree di partenza la palingenesi che in molti si erano aspettati. I risultati indiscutibilmente più vistosi furono l’ondata di benessere scaturita da una affatto inusitata capacità di spesa
71
F. Piselli, Parentela, cit., p. 269.
D’Amore, D’Andrea, Scuderi, Bilanci familiari, cit., p. 30.
73
Ibidem.
72
35
/ 4 / 2011 / Facciamo il punto
e un colossale drenaggio demografico che allontanò in forma sistematica o
definitiva le energie migliori.
E tuttavia, la società meridionale rimase in sostanza uguale a se stessa,
l’agricoltura saldamente ancorata alla sussistenza. Tra il 1948 e il 1959, altre
212.148 unità andarono ad aggiungersi alla miriade di micro-fondi, per un
totale di 263.048 ettari, che quindi non superavano di molto la media di un
ettaro ciascuno74. La parcellizzazione sembrava non avere mai fine75, e il
reddito agricolo incideva sempre meno sul totale delle risorse, «la compresenza di molteplici fonti di reddito – concludeva l’inchiesta Svimez76 – produce un alto livello del tenore di vita, ma al tempo stesso una situazione di
equilibrio statico, a causa del quale non si attua una radicale trasformazione
delle strutture economiche, sociali e culturali»77.
I pochi ritocchi alterarono la gerarchia comunitaria: crebbe «in molte zone
di fuga, il peso relativo del piccolo proprietario contadino»78, emerso dal
precariato agricolo, i notabili divennero l’ombra di se stessi, soverchiati, per
denaro e prestigio, dagli emigrati più intraprendenti, e sulla stessa china finirono gli artigiani, il secondo pilastro dell’economia locale. Poiché ad andarsene erano sempre i più istruiti e i più ambiziosi, «la gente del posto è adesso
una specie di categoria residuale, che mette insieme a casaccio gli anziani,
gli handicappati e i meno creativi»79. Un giudizio impietoso, e alquanto eccessivo, che, oltre agli attuali abitanti, non risparmiava nemmeno la città di
Agnone, che aveva conosciuto una brillante stagione al tempo della prima
emigrazione e che era ormai ripiombata nell’insignificanza.
74
Con la seguente ripartizione: Campania: 77.851 unità per 64.213 ettari; Abruzzo e Molise: 47.759 per ha. 49.128; Puglia: 58.325 per ha. 98.952; Basilicata: 17.461 per ha. 36.220;
Calabria: 10.732 per ha. 14.535. F. Barbagallo, Esodo, cit., p. 220.
75
Douglass calcola che in Agnone esistevano nel 1816 7838 terreni individuali, che nel
1950 erano diventati 41.753. W. A. Douglass, Emigration, cit., p. 176.
76
Svimez, Indagine su Guardiagrele, cit., p. 28.
77
Una diagnosi per nulla obsoleta, come dimostra il recentissimo: Bruno Amoroso, a cura
di, Il “Mezzogiorno” d’Europa, ed. Diabasis, Reggio Emilia 2011.
78
Svimez, Le migrazioni interne, Rapporto generale sulla ricerca, cit., p. 31.
79
W. A. Douglass, Emigration, cit., p. 204.
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Finito di stampare
nel mese di gennaio 2013
da Arti Grafiche Solimene s.r.l.
Via Indipendenza, 23 - Casoria
per conto
delle Edizioni Il Bene Comune
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