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Alessandro Bassi - Andrea Friggeri
MI FIDAVO DI TE
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Copertina originale di Eleonora Musoni
www.eleonoramusoni.com
www.mifidavodite.com
COPYRIGHT © 2010 Alessandro Bassi, Andrea Friggeri
ISBN: 978-1-4457-0846-1
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A Gilda… ovunque tu sia
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PROLOGO
Le mani. Le mani di Milva. Bianche e forti, sotto il getto d’acqua.
Sono mani che hanno vissuto, si vede, lo vede anche lei. Prende un
limone e lo appoggia sul piano d’acciaio del bancone. Inizia a farne
piccole fette da mettere nel cocktail che sta preparando. Sono solo le
due e trequarti, la serata è ancora lunga. È sempre stata una
nottambula, le piace tenere aperto fin quasi all’alba, le piace vedere il
suo bar diventare l’ombelico di Reggio, lo scarico di un lavabo che
lentamente finisce con l’inghiottire tutti i rifiuti umani della città. Milva
adora quest’aria surreale e notturna. Non la chiamerebbe così, direbbe
solo che le piacciono tutti questi pazzi, queste facce senza terra.
Direbbe che le piace questa gente, la sua gente. Direbbe che si sente
una di loro.
Lui è appena salito in auto. Abbassa il finestrino, si accende una
paglia e allunga una mano fuori per salutare. Ha ancora sulle labbra
l’ultima battuta - “…e vai un po’ a figa!” - che ha dispensato a Fedele
come pensierino della notte, e si sorprende a sorridere amaro nello
specchietto retrovisore. Aspira una boccata di fumo, guarda la punta
rossa accesa della sigaretta, dice: “cazzo” e infila la chiave nel quadro
della sua Golf GTI.
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Accende il motore, si sfila il cappellino Ducati e lo appoggia sul sedile
del passeggero. Come un abito di scena, come i capelli di Sansone. La
sua forza appoggiata sul velluto di un sedile. Accende lo stereo, e
immediatamente bassi potenti e ritmica ipnotica riempiono l’abitacolo.
No, non ha più il cappellino. Adesso questa roba può fargli schifo.
Estrae il CD mentre rilascia la frizione e si avvia lento nella periferia
della notte reggiana. A fatica toglie da sotto il sedile un porta-cd e,
tenendo il volante con le ginocchia, ne consulta un attimo il contenuto
prima di scegliere. Lo infila nella fessura dello stereo e sbanda un po’
alle prime note, suonate al volume pazzesco di poco prima. Abbassa,
non è ora da casino questa. Non è più il momento. Anima melodica, il
Lupo. Quasi gli si inumidiscono gli occhi a sentire la voce tenorile di Al
Bano dare fiato ai suoi pensieri. Quando il sole nascerà / e nel sole io verrò da
te / amore corri incontro a me / e la notte non verrà mai più
«Cos’è successo là?»
L’uomo accenna con il capo alla vetrata del locale, di fronte al banco.
Ha la barba ispida e lunga, gli occhi velati. Milva gli ha appena servito
un generoso bicchiere di tequila. Almeno il quinto, stasera. Ma resta
abbastanza lucido da cogliere la stranezza di un foro grande quanto un
pugno nella parte alta del vetro, a una trentina di centimetri dal soffitto.
«Mah, non so. Ragazzini, forse. Se era mio figlio a fare un lavoro così
era l’ultima volta che lo faceva, garantito. Non lo so che cazzo di
famiglie ci sono in giro oggi…»
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L’uomo ha già smesso di ascoltare, se mai aveva cominciato. Gli
occhi sono di nuovo immersi nella tequila, Milva può interrompere la
recita.
Nessun ragazzino. Magari. Non bastava essere il bersaglio preferito di
polizia e carabinieri. Non bastavano l’ispezione della finanza, gli agenti
in borghese, le risse fra gli albanesi e i tunisini davanti al locale, le
continue proteste degli abitanti del quartiere. Lei non molla, non ha mai
mollato. È il suo bar, cazzo. Non esiste.
Questo, però, rischia di essere un grosso casino. Il sasso era un
avvertimento. Ricevuto, forte e chiaro. Ma lei non molla.
Vorrebbe un aiuto, però. O solo qualcuno a cui raccontare questo
nuovo casino. Si guarda riflessa nell’acciaio del lavabo. Chiude gli occhi.
Non sa cosa vorrebbe.
Gli piace guidare di notte. Lo rilassa. Lo fa sentire parte di qualcosa.
Non sta andando verso casa. Ha deciso di allungare un po’ il tragitto,
percorre via Martiri di Piazza Tien An Men. Vuole andare a salutare
un’amica che si prostituisce tutte le sere davanti all’autolavaggio del
distributore. Ha voglia di parlare, questa notte.
Sasha non c’è. Sarà con un cliente. Peccato. Sasha è la sua consulente.
Lui vorrebbe dichiararsi, lei gli suggerisce: “Aspetta”. Lui si vergogna, lei
allora lo coccola e gli dice: “Quella ragazza è la più fortunata del mondo”.
Lui allora si inorgoglisce e continua a parlarle di lei. Lei gli accarezza i
capelli e lui si addormenta. Peccato davvero che Sasha stia lavorando.
La strada è un deserto.
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Sono quasi le quattro, ormai. Milva si attarda ancora un attimo a
sistemare i menù su ogni tavolo. Ci va molto orgogliosa, dei nuovi
menù. Fatti stampare apposta da una copisteria di Cavriago, vicino a
dove abita, una decina di chilometri da Reggio Emilia. È davvero tardi
e, quel che è peggio, stavolta non sa davvero a chi rivolgersi. Gli
avvertimenti sono già stati due e sa – perché lo sa – che il terzo le farà
visita presto. Molto presto. Si gratta in testa, Milva, mentre con la
mente vorrebbe essere da tutt’altra parte.
Il Lupo senza neanche accorgersene si ritrova nel parcheggio del suo
bar. C’è ancora qualcuno. Quasi le quattro del mattino. C’è ancora
qualcuno. Si ferma nel solito posto, a due passi dal locale. Le luci del
bar Milva, l’insegna con il cielo stellato e la grande M rossa. Basta
questo a dissipare la nebbia che è calata anche stasera nell’abitacolo
della sua macchina. Quel senso di debolezza, quella cappa pesante di
silenzio. La chiamano solitudine. Forse è solo la fatica di essere sempre
il Lupo, nonostante tutto, costi quel che costi. Sorrisi, battutacce,
cinismo. Non sa essere nient’altro, è l’unica lingua che conosce. Ma lui
non è tutto lì, e lo scopre ogni sera, quando si leva il cappellino.
Quando arranca alla ricerca di un sorso d’aria. Quando lo ritrova,
puntuale, nel sorriso di Milva.
Lascia il cappellino sul sedile, mentre apre la portiera. Lo guarda,
accarezza con l’indice il profilo della scritta Ducati.
Resta lì, Lupo, aspettami solo un attimo. Vado a farmi l’ultima birra,
poi andiamo a dormire.
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CAPITOLO PRIMO
Dove si verifica la formulazione di un teorema
Data: mercoledì 10 maggio 2000
Da: dr. Fedele ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
Cc: Ciambellano ([email protected])
Oggetto: Convivio Hdemico Sperimentale
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA
Ordinario: dr. Fedele Della Passera
Pregiati colleghi,
vengo immantinente ad elencare le ragioni di questo mio comporre,
sed non postea aver come si conviene invitato le S.V. a prenderla
cum gaudio in orifitia varia.
Ci è dato finalmente di proporre al Senato Hdemico tutto lo
svolgimento formale del Convivio di cui all’oggetto.
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Lo scopo scientifico dell’incontro risiede nella verifica sperimentale
dell’assioma
enunciato
con
la
consueta
illuminata
arguzia
dall’illustrissimo Padre dr. Teenvagina: “Data una buzzicona, la
probabilità che essa ne attiri altre è direttamente proporzionale alla
pinguedine
della
buzzicona
stessa.”.
Il
teorema,
voglio
rammentarVelo, era stato fregiato di un sagace brocardo dal
pregiato Dr. Lupompino, il quale ne aveva dedotto: “Le brutte fighe
non vengono mai sole”. Purtuttavia, accogliendo l’osservazione del
Libero Ricercatope “Non tutte le buzzicone vengono per nuocere”, ci
si è trovati in un empasse dottrinario, che avremo presto l’occasione
di sciogliere sperimentalmente.
Vengo pertanto (gemendo come si conviene) a formalizzare lo
svolgimento del convivio sperimentale nel giorno di Venerdì 12
Maggio c.m. presso l’ “Osteria della Capra”, Cavriago. Il ritrovo è
fissato per le ore 20 in prima convocazione e per le ore 21 in
seconda e definitiva convocazione nel parcheggio di Piazza Zanti.
Certo di farVi cosa gradita, nel porgere i migliori saluti mando come
si conviene cordialmente affanculo i pregiatissimi colleghi.
in Vulva Veritas
Fedele dr. Della Passera - figosofo
p.s.
sentiremo fortemente la mancanza dell’arguzia e dell’esperienza del
Gran Cià’n’bell’ano. Sarà anche in suo onore che cercheremo con
più forza et determinazione la compagnia ma soprattutto il sollazzo
delle fanciulle
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mercoledì 10 maggio 2000
Fedele rilesse rapidamente la mail, poi con un sorriso compiaciuto
fece click su “Invia e Ricevi”.
Si appoggiò allo schienale della sedia girevole in tessuto scuro e lasciò
scorrere lo sguardo sulle pareti della stanza, indugiando sui dorsi dei
numerosi testi di diritto che si alternavano ai romanzi dalle copertine
variopinte. Con la mano destra sfiorò la copertina del volume che
giaceva a fianco della tastiera, sul piano della piccola scrivania. Le
garanzie delle obbligazioni. Monografia di Diritto Civile. Scritto con amore
dal prof. Capitoni in persona. Stampato dalle “Edizioni Casavecchia”,
storica libreria universitaria che da sempre faceva i miliardi con i libri
dei prof. locali. Un migliaio di copie sicure all’anno, a prezzi spaventosi.
Libri costruiti con scientifica precisione, per durare giusto il tempo
della preparazione dell’esame prima di autodistruggersi. Impossibile
prestarli, impossibile fotocopiarli senza vederseli disfare fra le mani.
Evitò con cura di guardare il foglio con il programma di preparazione
dell’esame, che indicava un impietoso ritardo di almeno una settimana.
Represse un conato di vomito e un fiotto ribelle di senso di colpa. Poi
lasciò che il pensiero tornasse a questioni più soddisfacenti.
Venerdì sera, dunque. Il risultato finale di una frequentazione online
durata alcune settimane. Era stata lei, Manuela, a presentarsi sotto il
nick “^ManuB” sulla finestra di ICQ. Reggiana, laureanda in economia,
simpatica. Approccio sospetto, però, perché in rete il vaginocentrismo
era anche più amplificato rispetto alla realtà. Sotto la protezione
rassicurante del monitor i meccanismi darwiniani dettavano legge in
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maniera ancor più cristallina. Prolungare la propria discendenza,
innanzitutto. Quindi: per l’uomo, distribuire i suoi milioni di
spermatozoi su quanti più ovuli possibile. Per la donna, come sempre,
scegliere. Lo spermatozoo migliore, come la battuta più spiritosa, la frase
più sorprendente, la fotografia più promettente. Restarsene sulla riva
del fiume di bit ad aspettare che la corrente virtuale facesse emergere il
totano migliore. Era una teoria che Fedele sosteneva da tempo anche in
sede Hdemica. Quando una donna ti approcciava per prima, quindi, il
rischio di brutte sorprese era alto. Brutte sorprese poteva voler dire
tante cose, in quel mondo, ma lui pensava di poter riconoscere senza
troppi sforzi eventuali dita maschili intente a digitare dietro un nick
femminile. E ^ManuB era una ragazza, indubbiamente.
Aprì il file in cui aveva salvato una delle loro prime conversazioni.
Aveva scoperto quasi subito che Manuela, così si chiamava, non era
esattamente una modella. Era bastato mandarle una foto, quella
“magica”, fatta in vacanza l’anno precedente. C’era una probabilità su
un milione che riuscisse così in una foto. Una su un milione, ma era
successo. Un’arma micidiale in chat, soprattutto per chi, come lui, non
era seriamente intenzionato a dare alcun seguito al corteggiamento
virtuale, con il rischio di non rivelarsi all’altezza della foto. Lui era
Fedele. Appunto. Però il suo ego si beava in questo gioco pericoloso.
La foto funzionava sempre, e lei non aveva fatto niente per nascondere
l’apprezzamento, sentendosi obbligata a ricambiare.
^ManuB(4:42 PM) : hai gli occhi bellissimi!
Robinhood76 (4:43 PM) : grazie... per guardarti meglio :-)
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^ManuB(4:43 PM) : me li regali?
Robinhood76 (4:43 PM) : prima voglio vedere i tuoi
^ManuB(4:44 PM) : ok... però ti mando la foto di quando ero
secchetta....
Robinhood76 (4:44 PM) : perché, sei ingrassata ultimamente?
^ManuB(4:44 PM) : ...diciamo un pò
Robinhood76 (4:51 PM) : carina.... perché ti tiri giù?
^ManuB(4:51 PM) : perché... ora ho 20kg di più!!!
Robinhood76 (4:52 PM) : opperò...
^ManuB(4:53 PM) : sono una palla
Robinhood76 (4:53 PM) : non voglio farti parlare di cose che non
gradisci
^ManuB(4:54 PM) : no dai davvero... voglio che tu sappia
esattamente come sono ora prima di continuare a parlare.....
Robinhood76 (4:54 PM) : ma scusa, dobbiamo parlare, mi sembra,
mica giocare alla cavallina! Il peso non è così vitale, no?
^ManuB(4:55 PM) : vabbè.... però.... peso 83 kg adesso...
Robinhood76 (5:01 PM) : è bello che parli con tanta semplicità di
questo, che in genere soprattutto per le ragazze è un grosso nodo in
gola...
^ManuB(5:02 PM) : anche per me lo è... da morire... solo che non
mi ci sento perché sono sempre stata massiccia ma carina... è solo
un periodo di passaggio per me questo... che spero passi presto...
Robinhood76 (5:03 PM) : passerà, devi solo volerlo... in genere
bisogna che il disagio superi quello della fatica di dimagrire
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^ManuB(5:03 PM) : già... e lo ha fatto!
Robinhood76 (5:04 PM) : ok, allora tirati su le maniche! sei mesi di
fatica, poi starai molto meglio
Forse era stato un po’stronzo. Forse. Sì. Decisamente stronzo.
Soprattutto per il seguito, dove aveva letteralmente giocato al gatto col
topo. Come i gatti, non aveva alcuna intenzione di mangiarsi il topo.
Una volta ucciso, l’avrebbe lasciato in un angolo. Ma prima era
divertente vederlo sgambettare e piazzargli qualche sadica zampata.
^ManuB(5:08 PM) : secondo te... perché mi piaci fisicamente, mi
stai simpatico e mi trovo benissimo a parlare con te?
Robinhood76 (5:09 PM) : nessuna fregatura, giuro che esisto
^ManuB(5:09 PM) : dov'è la fr
^ManuB(5:09 PM) : mi hai tolto le parole di bocca... mi hai
risposto mentre stavo dgt
^ManuB(5:10 PM) : mi spaventi
Robinhood76 (5:11 PM) : perché?
^ManuB(5:11 PM) : mi togli le parole di bocca...
Robinhood76 (5:17 PM) : Manuela, una cosa
^ManuB(5:17 PM) : dimmi
Robinhood76 (5:17 PM) : sei brillante, vivace. Anche a me piace
parlare con te
^ManuB(5:18 PM) : non dirmelo con quegli occhi che mi fai
svenire!!!!
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Robinhood76 (5:18 PM) : Non è frequente. Spesso le ragazze in rete
se ne stanno come dei bambolotti in attesa degli eventi
^ManuB(5:18 PM) : cioè? sai mi incuriosisce questa cosa....
Robinhood76 (5:19 PM) : Bisogna reggere dei monologhi più che
delle conversazioni… Non è semplice... Credo dipenda dal fatto che
se ti colleghi con un nick femminile vieni bombardata...
^ManuB(5:20 PM) : in che senso?
Robinhood76 (5:21 PM) : Ho una mia teoria. Se tu nutri un animale,
lui non avrà mai BISOGNO di cacciare per procurarsi il cibo.
Diventerà pigro, indolente, e tutto gli sarà dovuto. Così accade per il
cervello delle donne! Dai, scherzo, un po' di sano maschilismo da
caserma…
^ManuB(5:22 PM) : non parlarmi MAI più di caserme ok....?
promesso?
Robinhood76 (5:22 PM) : ohi ohi, tasto dolente. Era un militare?
^ManuB(5:23 PM) : carabiniere..
Robinhood76 (5:23 PM) : nei secoli fedele....
^ManuB(5:24 PM) : sì all'arma purtroppo... non alle loro donne e
alla loro vita...
Robinhood76 (5:24 PM) : ferita fresca?
^ManuB(5:24 PM) : issima
Ecco, avrebbe dovuto fermarsi qui. Situazione classica. Delusione
fresca, poco attraente, bisognosa di autostima e comprensione più che
dell’aria da respirare. E invece… le aveva mandato una poesia. Senza
pietà.
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^ManuB(5:42 PM) : le hai scritte tu queste cose?
Robinhood76 (5:42 PM) : sì
^ManuB(5:42 PM) : sei uno stronzo!
Robinhood76 (5:42 PM) : :-) lo sapevo... però tu sei adorabile ;-)
^ManuB(5:43 PM) : sei uno stronzo perché sei arrivato un pò
troppo tardi.... avevo bisogno di un rimpiazzo sufficientemente
all'altezza della situazione per il 10 marzo... e invece ti presenti
qui con quasi due mesi di ritardo e fai finta di niente...
Robinhood76 (5:45 PM) : mi spiace, ho perso il treno. Giuro che ho
fatto di tutto per esserci, ma proprio non potevo… che è successo il
10 marzo?
^ManuB(5:46 PM) : la data del mio matrimonio...
Robinhood76 (5:47 PM) : occazzo...
Non solo delusione fresca: matrimonio saltato a pochi mesi dalla
data. Roba da lamette. E questa aveva ancora voglia di cercare in rete il
principeazzurro. E lui, - Fedele! – ad amoreggiare ancora, a suon di
citazioni e metafore.
Robinhood76 (5:52 PM) : “Che cos'è l'amor? È l’indirizzo sul comò
di un posto d'oltremare che è lontano solo prima d'arrivare”
^ManuB(5:53 PM) : bella
^ManuB(5:54 PM) : mi fai paura...
^ManuB(5:55 PM) : davvero...
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^ManuB(5:55 PM) : mi è venuta un'immensa paura di perdere
tutte le cose belle che mi passano accanto....
^ManuB(5:56 PM) : è come se avessi paura di scoprire chi sei...
per non doverti poi veder andare via...
Robinhood76 (5:57 PM) : vivi la bellezza di ciò che hai. Non farti
tarpare le ali da quello che potresti non avere...
Robinhood76 (6:01 PM) : però stai attenta a non idealizzarmi troppo,
ok?
Robinhood76 (6:01 PM) : adesso sei molto vulnerabile, e io non
voglio farti del male
^ManuB(6:02 PM) : grazie!
^ManuB(6:02 PM) : ma se tu sei quello che sto imparando a
conoscere...
Robinhood76 (6:03 PM) : è facile mostrare solo il profilo migliore in
chat...
Aveva sperato di cavarsela così. Una volta capito che il topo stava per
esalare l’ultimo respiro aveva provato ad avvertirla: “Ehi, topino,
attenta ai gatti!”. Un blando anestetico per la coscienza, a cui era
seguito nei giorni successivi un paziente lavoro di ridimensionamento
delle attese.
Alla fine aveva scoperto che la Manubuzzi (l’aveva battezzata così il
tenero Teenva pochi giorni prima, mentre ne parlavano da Milva) aveva
un gruppo di amiche di Parma. Compagne di università, tutte “single”.
Il gattone aveva iniziato a leccarsi i baffi. Si profilava la possibilità di
dare un seguito alla cosa coinvolgendo l’intera Hdemia, e salvando il
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titolo di “Fedele”. La riunione Hdemica era stata organizzata in tutta
fretta, con le relative discussioni sulla probabilità che le amiche non
fossero meno buzzicone della Manubuzzi. Alla fine si era deciso di
provare, e la velocità con cui anche la Manubuzzi era riuscita a
convincere le amiche non faceva che alimentare i sospetti.
Il filo dei pensieri autocompiaciuti di Fedele fu interrotto dal
richiamo di sua madre. Sì mamma, sì. Più tardi ci vado. Sì, lo so che la
Coop chiude alle sette, ho capito. No, tranquilla, non mi dimentico. Sì,
ci vado con Sara, lo so che ti fidi più di lei.
Sara. Non sarebbe stato un problema. Era abituata alle sue uscite con
l’Hdemia, quello era una sorta di porto franco dalle sue scenate di
gelosia. Certo, meglio per tutti se non avesse saputo della compagnia
“allargata” per l’occasione. Meglio soprattutto che non leggesse mai
certi files. Per lei, più che altro, perché lui era sereno. Sapeva che Sara
non correva alcun rischio reale. Lui era Fedele. Ma sapeva anche che lei
avrebbe sofferto del modo brillante in cui gestiva i pochi spazi da
single. Dio, quanto era assurdamente gelosa. Se non lo fosse stata, ne
era certo, lui non avrebbe avuto bisogno di alcuna valvola di sfogo.
Forse non avrebbe mai iniziato a frequentare nessuna chat. Forse
l’Hdemia stessa, come tale, non sarebbe mai esistita.
Forse, a pensarci bene, era quasi meglio così…
Diede uno sguardo all’orologio nell’angolo in basso a destra del PC.
Le 17.30. Gli restava al massimo un’ora prima di passare a prenderla.
Riaprì Le garanzie delle obbligazioni, a caccia del brandello di motivazione
indispensabile per terminare il capitolo.
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Alle 20.55 Fedele arrivò nel parcheggio di Piazza Zanti, dove già da
una decina di minuti lo aspettavano i suoi amici. Teenva splendido nella
sua giacca Pal Zileri blue royal e jeans Armani, il Libero Ricercatope
solare con il suo maglione di cotone leggero color cachi e il Lupo
inarrivabile in camicia bianca aperta sul petto villoso e cappellino
“Ducati” d’ordinanza.
«Salute, Colleghi. Siete soli?»
«Illustřissimo Collega, ben ařřivato třa noi in questa řidente e
řinomata contřada che da lustři e lustři denominata si convien
Cavřiago…»
«Esimio Ricercatope, mi compiaccio con Ella del řiverito saluto
řivolto al chiařissimo Padře Fondatoře Dottoř Fedele, inveřocchè
confořme al přotocollo hdemico.»
Guardò per alcuni secondi i suoi amici: saputa la provenienza delle
ragazze, avevano iniziato a parlare utilizzando la erre moscia alla
parmigiana. Fedele si adeguò velocemente.
«Non sono ancořa ařřivate le puledřine?»
«Eh, bella domanda, Fedele. Che cavolo ne sappiamo noi?»
«Non hai tutti i tořti neanche tu, Teenva… noto con vivo piaceře che
hai fatto lavaře la belva…»
«Eh, sì esimio: staseřa seřata impořtante, belva lucida lucida e
gommone přonto!»
Il Lupo pensò bene a quel punto di intervenire per puntualizzare al
meglio il suo pensiero:
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«Staseřa si chiava, gařantito che me ne sbřano almeno due. Siamo,
anzi sono qui apposta, cazzo!»
L’attesa non si protrasse a lungo, giusto il tempo di tarare al meglio
l’utilizzo della erre moscia che il cellulare di Fedele si mise a suonare:
erano le ragazze, pronte a scendere dalle loro automobili. La serata era
magnifica, una di quelle notti di maggio da annusarci tutti i profumi di
una vita. Se qualcuno fosse transitato per Piazza Zanti, proprio in quel
preciso momento, avrebbe potuto percepire con esattezza tutte le
aspettative di quattro ragazzi alle soglie di un’età adulta che non
perdevano occasione di ricacciare più in là, ogni venerdì sera, almeno
per un’altra notte.
Dalla Lancia Y bianca scese la Manubuzzi in tutto lo splendore dei
suoi almeno centoventi chili e con lei… un’altra Manubuzzi, in
fotocopia! Al Lupo scappò un “cazzo” tra i denti, mentre il più divertito
sembrava Fedele, al riparo da ogni tentazione nella sua corazza, nel suo
titolo hdemico. Nella sua quotidianità.
Fedele era Fedele. Certo. Da almeno un anno era Fedele, di nome e
di fatto, da quando Sara era entrata nella sua vita. I problemi erano
iniziati l’estate precedente, quando assieme ai suoi amici aveva deciso di
prendere l’aereo e andarsene tra Praga, Budapest e il Lago Balaton per
un mese. Quando l’aveva detto a Sara lei era andata su tutte le furie.
«A Praga? Ho capito bene?»
«…»
«Con quei coglioni dei tuoi amici, magari?»
«…»
«Non se ne parla neanche, amore mio.»
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«…»
«Tu andrai a Formentera, con me»
«…»
Fedele aveva rischiato di non salire sull’aereo per Praga ma alla fine,
dopo estenuanti trattative diplomatiche, era riuscito ad ottenere un
salvacondotto (che il Senatus Hdemicus provvide a sequestrare e ad
archiviare agli atti) che gli aveva permesso di imbarcarsi sull’aereo e di
soggiornare per ben 15 giorni a Praga e Budapest; in cambio egli
avrebbe dovuto telefonare due volte al giorno a Sara e tenere il cellulare
sempre acceso. Ovviamente del Lago Balaton non si era neanche
discusso. Era stata comunque una notevole vittoria diplomatica.
Fedele ritornò a concentrarsi sul presente quando la Manubuzzi gli si
avvicinò stampandogli un bacio con lo schiocco sulla guancia, un po’
troppo vicino alle labbra, notò Teenva con il Libero Ricercatope.
Intanto le ragazze da due erano poi diventate quattro: le due
parmigiane infatti si erano decise ad uscire dalla loro Clio raggiungendo
il gruppetto. Ciao Manuela ciao Cesaře ciao řobby Alfio ciao io sono
Claudia Francesca piacere piaceře Pieř, Gloria ciao bacibaci entřiamo?
Entriamo sì.
L’osteria della Capra è un angolo di mondo come dovrebbe essere,
con le fondamenta ben piantate nella tradizione contadina. Vera
trattoria, emiliana dalle gambe dei tavolacci fino al profumo
ineguagliabile dello gnocco fritto. Ogni volta che ci tornava, Fedele non
poteva che ri-innamorarsi di questo posto dall’apparente stile
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trascurato, che celava una cura maniacale per i dettagli. Le quattro
ragazze si guardarono intorno con aria prima perplessa poi ammirata,
indicando le tante suppellettili di vita contadina disseminate lungo le
pareti e tra il mobilio, che sembrava appena uscito dal magazzino di
qualche rigattiere. Caos minuziosamente organizzato. E un senso
indefinibile di calore e familiarità. Con uno stile radicalmente opposto,
ricordava tanto il modo in cui ci si poteva sentire da Milva.
L’anziana proprietaria, avvolta dall’eternità in un grembiule
immacolato, accolse il gruppo con un sorriso benevolo e li fece
accomodare al piano di sopra. Inerpicandosi lungo la stretta scala
sfiorarono il corrimano in legno e il grossolano intonaco bianco,
sorridendo ai clienti incastonati fra i tavoli e gli oggetti appesi alle
pareti, come fossero anch’essi parte di questa piccola oasi antica. La
stazza delle ospiti non rese semplice la collocazione nella saletta,
intorno al tavolo stretto e basso. Il nudo legno del tavolo, vissuto nei
suoi innumerevoli graffi, era apparecchiato con bicchieri di vetro
spesso e piccole tovagliette di carta giallognola.
I primi attimi attorno al tavolo furono impiegati nella consultazione
del menù. Quattro paginette scritte a mano, pochi piatti rigorosamente
tradizionali. Non si poteva cenare alla Capra senza cominciare con
gnocco e tigelle, accompagnati da salumi, formaggi e numerose salse. E
lambrusco, of course. Grasparossa di Castelvetro, ordinò Fedele, che in
questo tipo di cena aveva sempre carta bianca nella scelta del succo
d’uva. Teenva approvò la scelta annuendo profondamente con il capo,
come se ne capisse qualcosa. In realtà il suo pane erano i cocktail e gli
aperitivi, ma c’era da reggere il gioco di fronte alle pingui commensali.
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Una volta ordinato, la Manubuzzi prese immediatamente il comando
delle operazioni con le classiche domande, create apposta alle origini
del mondo per rompere il ghiaccio e preparare degnamente il terreno
della conversazione. Il Lupo aveva appoggiato da subito i suoi occhi
famelici sul seno ben più che prosperoso della seconda Manubuzzi e si
produsse per tutta la serata in un notevole sforzo finalizzato ad un
degno dopo cena. Tra un přosit e l’altro, Fedele sfarfalleggiò leggero tra
gli artigli della Manubuzzi e le attenzioni discrete di Gloria, una
cavallona allampanata che gli ricordava in maniera impressionante
Pippo. Poi la domanda arrivò, perché le ragazze erano sì bruttine, ma
certamente non stupide, anzi, si rivelarono brillanti e divertenti. Fu la
seconda Manubuzzi ad attivare il meccanismo, rivolgendosi al Lupo:
«Ma tu porti sempre il cappellino o solo stasera?»
«Eh, mia cařa, io e questo cappellino siamo una cosa sola, è pařte di
me, come un břaccio, un ořecchio… impossibile sepařařmene!»
«Vedi, mia cařa»
si inserì Teenva
«il Lupo è il cappellino e il
cappellino è il Lupo. Mi sono spiegato, madamigella?»
La Manubuzzi ascoltava attenta e divertita. Aveva capito di essere,
insieme alle sue amiche, la vittima sacrificale di un gioco, ma ci si
trovava assolutamente a proprio agio. Fedele se ne accorse subito.
«Siete davvero dei bei tipi, voialtri: parlate sempre con la erre moscia
o solo stasera?» La domanda era servita solo come scusa per sfiorare la
mano di Fedele che, per la prima volta, vacillò leggermente. Fu Libero
a rispondere.
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«Bè, mia cařa, ceřto che no! Staseřa è tutto in Vostřo onore…
ovviamente noi, in quanto Padři Fondatoři della Nobilissima Hdemia,
sappiamo espřimeřci in ogni vulgata.»
«Ma prima che la serata si concluda sarà possibile sapere qualcosa in
più di questa Accademia?»
«L’alba è ancořa lontana dal Řaggiungeřci, ma se la dolce cameřieřa ci
pořteřà un’altra bottiglia di nettaře, chissà, magaři qualcosa in più ne
sapřete.»
Squillò un cellulare. Quello di Fedele. Era Sara. Controllo di routine
delle ore 22.30. Come tutti i venerdì sera che i due trascorrevano
separati. Che Fedele trascorreva con quelli dell’Hdemia.
«Scusate un attimo.»
Robby uscì fuori dal ristorante per parlare con calma e senza essere
sentito, approfittando della serata tiepida.
«Pronto amore, come stai?»
«Ciao Robby. Dove sei?»
«A cena con l’Hdemia, e tu?»
«Sono con i ragazzi, alla Bottega dei Briganti a bere qualcosa. Ma mi sa
che tra un po’ me ne vado a letto.»
«Mi manchi, lo sai?»
«Anche tu, e non far tardi.»
Fedele chiuse il suo cellulare e lo ripose in tasca. Guardò il
parcheggio, le auto che transitavano e la fermata della corriera. Già, la
fermata dell’autobus. Era davanti ad una fermata simile che a Praga era
nato tutto. I Dottori, il Senato, l’Hdemia. L’ultima notte a Praga in
attesa dell’autobus per piazza Venceslao, cena e Casinò, poche ore
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prima di precipitarsi nelle tentazioni di Budapest, nell’ultima estate del
millennio. Contenti, tra le Skoda arrugginite e le impalcature della
nuova borghesia, tra le camicie sdrucite dei praghesi e le giacche
eleganti dei suoi amici. C’era Alfio che ripeteva ogni venti secondi che
vestiti così come minimo li avrebbero pestati e rapinati, lui ad
inventarsi la contromisura:
«Sentite qua: e se dicessimo che siamo dei docenti universitari?»
«Scusa e cosa c’entra con il fatto che adesso qualcuno ci ammazzerà
per rapinarci?»
«Alfio, ma non capisci? Robby ha ragione! Siamo professori e se
siamo professori per qualche convegno del menga è del tutto normale
che siamo vestiti bene.»
Robby aveva capito che stava per nascere qualcosa di importante, e
aveva tentato di spiegare meglio l’idea
«Sì, dài: siamo professori. Cazzo i prof sono tutti in giacca e cravatta!»
«…»
«…»
«Professori di storia, che ne dite? Pier dì qualcosa.»
«Medievale?»
«Ma sì, sì, va bene qualsiasi cosa.» Robby era raggiante.
«Potremmo essere i quattro nuovi doctores di Bologna…» aveva
azzardato Alfio.
«Bulgarus os aureum… Jacobus… no, Ugo… non me lo ricordo
tanto bene…»
«Siamo… siamo… siamo l’Accademia delle Scienze Erotiche, che ne
dite raga?»
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Tutti a quel punto si erano messi a ridere, ma si erano anche fermati
un istante a guardare Robby. Era nata un’etichetta destinata a sfidare il
tempo: Accademia delle Scienze Erotiche. Bello!
«Sentite come suona bene: Dottor Lupompino, esperto in
Pompinologia comparata!»
A quel punto tutti erano stati contagiati dall’idea. Cesare, in risposta,
aveva coniato il nuovo nome di Pier:
«E tu Pier, visto i tuoi gusti in fatto di donne… potresti essere
Teenvagina, chiarissimo esperto in Passerologia adolescenziale!»
Le risate si erano sprecate, Robby aveva quasi le lacrime agli occhi.
«Spettacolo! Però per me non potete trovare nulla: lo sapete, io sono
fedele…»
«Sì, Fedele della Passera! Illustre docente in… Sessuologia
Monogamica! Che ne dici?»
«Siamo i migliori, cazzo!» Cesare-Lupo aveva iniziato ad urlare con le
braccia al cielo, mentre alcune ragazze vicino a loro in attesa del tram si
erano spostate, terrorizzate dallo sguardo animalesco del neonato
Lupo.
«Rimane Alfio.»
«No raga, io non voglio entrarci… non mi si addice il rango di
professore, non vorrei mai sembrarvi così arrogante dal pormi al vostro
livello…»
«Sì, questo è vero» acconsentì Robby. «Fammi pensare: potresti
essere un libero ricercatore, di rango senz’altro inferiore».
«Certo, Robby ha ragione: Alfio potrebbe essere il Libero
Ricercatore…»
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«…semmai faccio il Libero Ricerca-tope…»
E adesso erano lì, ancora insieme, a far risorgere il mito ogni venerdì
sera, inventandosi sempre nuove cazzate hdemiche, per impedire che
quell’intuizione di un attimo, quel senso mai provato di unione e di
vitalità si disperdesse in mezzo alle fotografie della vacanza. Aveva
aiutato molto Internet: le mail permettevano di trasferire il gergo
hdemico nella forma scritta, quella che più gli si addiceva, e
consentivano di raggiungere tutti in un istante, creando una sorta di
sede virtuale in cui ritrovarsi. Poi c’era la sede fisica. Milva era diventata
il cuore del Senato Hdemico, il crocevia atipico delle loro vite di
giovani convenzionali, la loro riserva protetta di diversità.
Pensava cose di questo genere, Fedele, con il telefonino ancora in
mano mentre i due fanali di una punto bianca si spegnevano pochi
metri di fronte a lui. Ne scese sorridente il Discipulo, in tutto lo
splendore dei suoi riccioli biondi e corti, i jeans e la camicia immacolati,
il volto imberbe che non rendeva giustizia ai suoi 21 anni, facendolo
sembrare un adolescente.
«I miei omaggi, o Discipulo! Che lieta novella, non contavamo sulla
tua presenza.»
«L’allenamento è saltato all’ultimo minuto, piuttosto che stare a
telefonare sono venuto direttamente… come sono le tizie?»
«Mmh… diciamo… simpatiche.»
Un’eloquente alzata di sopracciglia fu il discreto commento del
Discipulo. Non osava criticare apertamente le scelte dell’Hdemia, ma
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aveva timidamente sostenuto dall’inizio il Teorema di Teenva. Non
poteva essere diversamente, d’altronde.
«Ma Teenva c’è, vero?»
Era quella la cosa veramente importante. Teenva era il suo mentore,
fin dall’infanzia. Più grande di tre anni, aveva sempre esercitato un
fascino notevole sul piccolo Emanuele grazie al suo modo scanzonato
e un po’ cinico di affrontare le cose. Le tante vacanze in cui le loro
famiglie, amiche da sempre, li avevano portati in giro per i più bei posti
del mondo avevano consolidato questa dipendenza, ma anche generato
una sorta di strano cameratismo gerarchico, in cui Teenva si divertiva a
giocare il ruolo del fratello maggiore: affettuoso e crudele nello stesso
tempo, protettivo ma spietato quando si trattava di approfittare della
sua influenza. Naturale, quindi, che il giovane Emanuele finisse travolto
dal suo bisogno di consenso nel vortice hdemico, dove si trovò a
vestire – ed accettare – senza nemmeno accorgersene il ruolo del
Discipulo.
Rientrarono insieme, e il sorriso timido del Discipulo fu accolto da
un coro di saluti entusiasti.
«Signore care» disse Teenva facendosi carico, come sempre, di
introdurre il suo protetto nel cuore della serata «avete l’inusitata fortuna
di conoscere codesto prestante rampollo. Egli non è stato elevato al
titolo di dottore, si trova ancora nel Noviziato. Per questo è noto
semplicemente con il nomen di Discipulo. Si tratta pertanto del Membro
più giovane della Nobilissima Hdemia.»
«Più giovane ma pur sempre Membro» chiosò maliziosamente Gloria,
il Pippo in gonnella, caricando l’ultima parola in un modo che non
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poteva passare inosservato. Sveglia, la ragazza. Si era adeguata
rapidamente allo stile hdemico. Andava premiata, pensò Fedele mentre
il Discipulo arrossiva fra gli ululati e veniva caldamente invitato a
sedersi proprio di fronte a Gloria. Fedele prese una penna dall’interno
della giacca, strappò un angolo della tovaglietta e scarabocchiò alcune
parole, passandole al Libero Ricercatope. Lui sorrise abbondantemente,
lanciò un’occhiata al Discipulo e passò il biglietto a Teenva. Teenva a
sua volta lesse, e incrociò lo sguardo di Fedele con un ghigno diabolico
d’intesa. Tirocinio sul campo. Infrattarsi con la cavallona? Era una buona idea,
e da vedere così nemmeno troppo impegnativa. Gloria infatti stava già
dedicando premurose attenzioni al Discipulo, che evidentemente le
andava proprio a genio. Lui era così impegnato a difendersi dal fuoco
incrociato di battute e domande da perdersi il rapido consiglio del
Senato che si era svolto proprio di fronte ai suoi occhi. La Manubuzzi
invece aveva seguito il tutto con attenzione – non si perdeva una sola
mossa di Fedele, in effetti – e quando Teenva convocò il Discipulo
fuori dal locale per una “comunicazione ufficiale” ebbe l’intelligenza di
non rovinare tutto facendo domande ad alta voce. D’altronde
l’occasione era buona per accostare il viso a quello di Fedele e
sussurrargli una domanda all’orecchio. Lui, arretrando di qualche
lunghissimo ed eloquente centimetro, si limitò ad ammiccare malizioso.
Lei, sempre sussurrando:
«Certo che siete proprio stronzi… poverino…»
«Dici?»
«Sì che lo siete. Proprio bastardi… Però secondo me lei ci sta…
magari alla fine funziona sul serio!» Si stava divertendo anche lei,
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reggeva il gioco. Brava Manubuzzi, pensava Fedele strizzando l’occhio,
sapevo che non mi avresti deluso. Cala trenta chili e se ne riparla, ok?
Il Lupo era rimasto tagliato un po’ fuori dalla macchinazione ai danni
del Discipulo. Aveva il cappellino girato, gli occhi affondati nella
scollatura della seconda Manubuzzi e la sigaretta nella mano destra. Lei
non sembrava apprezzare particolarmente le sue attenzioni ma si sa, il
lupo non è animale che molli facilmente la preda. Ha resistenza, non
soffre i climi rigidi né la pervicace resistenza di una cicciona. Fedele era
dall’altra parte del tavolo, coglieva solo a sprazzi ritagli di battute su
motociclette e luoghi di villeggiatura. Tentativi come sempre goffi, che
ben di rado coglievano nel segno nonostante
l’abnegazione
ammirevole. Fortunatamente il lupo sa anche resistere bene a periodi di
magra… questa sera, come tante altre, sarebbe tornato digiuno alla sua
tana.
A Teenva bastò qualche minuto per catechizzare adeguatamente il
Discipulo. Tornando al tavolo Teenva sfoggiava un arco di denti
smagliante, mentre il minuto tirocinante lanciava di sottecchi qualche
intimorita occhiata verso l’equide commensale. Le schermaglie
continuarono
ancora
per
un
po’,
allorachecosafainellavita,
chemusicascolti, chepostifrequenti… poi Teenva diede leggermente di
gomito al Discipulo. Il muto invito lo fece rabbuiare. Gli toccava.
Doveva decidersi. Il suo sguardo si spostò su Gloria, lei incrociò
rapidissima i suoi occhi. Doveva trovare una scusa per invitarla fuori, o
l’Hdemia gliel’avrebbe fatta pagare, non sarebbe mai stato trattato
come uno di loro. Ma cosa dirle? Che cosa inventare? Pensava questo
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genere di cose mentre guardava Gloria negli occhi, alla disperata ricerca
del coraggio necessario a creare un’impossibile intimità, in quel tavolo
affollato da tigelle e sensi di inferiorità. Teenva guardava Fedele. Lui
cercava disperatamente di non ridere. Libero scuoteva benevolo la
testa, mormorando un “non ce la può fare” fra i denti, in modo che
solo Fedele lo sentisse.
Sì, forse il Discipulo non poteva farcela, ma Gloria era decisamente
intraprendente. Il Lupo aveva chiuso la seconda Manubuzzi alle corde,
isolandola dal branco. Loro tre fingevano di ascoltare la Manubuzzi,
che stava raccontando l’ennesimo aneddoto, anche se il vero spettacolo
era il muto scambio di sguardi tra l’equina e il neofita.
Fedele vide il viso del Discipulo mutare d’un tratto, in un’espressione
sorpresa che lo fece avvampare per l’ennesima volta. L’occhiata con
Teenva e Libero fu automatica e rapidissima, la Manubuzzi non se ne
rese quasi conto e continuò imperterrita a parlare. Cosa stava
succedendo? Adesso il Discipulo aveva iniziato a sudare, visibilmente.
Gloria non diceva niente, continuava a fissarlo, ma non poteva essere
solo quello a scatenare la visibile reazione metabolica del Discipulo.
Fedele non capiva, perché non aveva né la vista a raggi X né la fantasia
sufficiente per immaginare il lungo piede di Gloria che risaliva fra le
tibie del Discipulo, innalzandone la temperatura corporea in virtù del
forte attrito prodotto.
Non ebbero bisogno di parlarsi. Semplicemente, a un certo punto la
cavallona si alzò, annunciando:
«Fa caldo qui dentro. Vado a prendere una boccata d’aria.»
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Il Discipulo inizialmente esitò. Giusto i secondi necessari a
riprendere fiato dopo la perentoria gomitata alle reni di Teenva. Poi,
mesto e accaldato, la seguì.
Nel piccolo locale c’erano i soliti pochi avventori delle tre del sabato
mattina. La luce blu delle lampade al neon illuminava il volto stanco di
Milva intenta a lavare alcuni bicchieri, mentre in un tavolo alla destra
della porta d’ingresso era in corso una silenziosa e serrata partita a
poker. Fedele si diresse veloce al bancone dove, dopo aver baciato
leggermente Milva sulla guancia, ordinò un ultimo bicchiere di vino,
per concludere come più piaceva a lui le serate hdemiche.
«La Compagnia si è già sciolta per questa sera?»
Milva, senza distogliere lo sguardo dai bicchieri che stava asciugando,
si era rivolta a Fedele con il tono materno e confortevole che usava
soltanto con pochi eletti.
«Eh sì, è stata un gran bella serata. Divertente al punto giusto.»
«Qualcuno è andato in buca?»
«Il Discipulo. S’è dileguato con una delle ragazze… molto simile a
Pippo, non so se hai presente il tipo.»
A Fedele scappò da ridere più volte nel raccontare a Milva tutto
quello che era accaduto all’Osteria della Capra e dopo, quando si era
deciso di proseguire la serata all’Adrenaline, con biglietti omaggio fatti
magicamente comparire da Teenva. In discoteca Fedele aveva dovuto
affrontare un paio di assalti della Manubuzzi, ma alla fine si era salvato
e ne era uscito indenne, se si eccettua il sapore davvero sgradevole di
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un gin tonic bevuto per forza, in un meritato brindisi alla coppia della
serata Discipulo-Pippo.
«Si rivedranno?» aveva chiesto quasi con noncuranza Milva.
«Mah, chi può dirlo… comunque no, non credo proprio.»
«E tu?»
I due avevano parlato senza guardarsi in faccia, lei intenta alle sue
stoviglie, lui concentrato sul suo bicchiere di vino, ma quando Fedele
alzò gli occhi Milva lo stava fissando con un bel sorriso malizioso.
«Io? Cosa c’entro io?»
«Manuela, dico. La rivedrai?»
«No, no: puoi esserne certa. La ragazza è sveglia abbastanza per
sapere che a questa serata non ci sarà un seguito.»
«E Sara come sta?»
«Eh? Ah bene, bene… lo sai che lo faccio per l’Hdemia. Per il
gruppo.»
I due rimasero in silenzio per un po’. La musica caraibica riempiva il
locale. Al tavolo alla destra dell’ingresso un uomo si alzò, andò verso il
bancone, salutò distrattamente Fedele e baciò Milva accarezzandole i
capelli. Quando l’uomo fu fuori dal locale Fedele si rivolse a Milva.
«Quando è uscito?»
«Questa mattina. Dormirà da me per un po’. Poi si vedrà.»
«…»
«…»
«Non mi dire che ci stai insieme…»
«No, ma è un amico. E non ha un posto dove andare.»
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Fedele non disse nulla. La guardò mentre, voltata verso lo scaffale,
sistemava i bicchieri.
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CAPITOLO SECONDO
Dove Fedele si divide fra bottiglie di vino e ovetti Kinder
Data: lunedì 15 maggio 2000
DA: Gran Cia’n’bell’ano ([email protected])
A: dr. Fedele ([email protected]); dr.Teenva ([email protected]); dr.
Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
CC: Discipulo ([email protected])
Oggetto: spunti di riflessione
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
Illustrissimi,
vogliate concederci di iniziare questa nostra complimentandoci
vivamente con il giovane et audace Discipulo, fautore di nobili gesta
Hdemiche nella scorsa adunata del conSesso (alla quale non
abbiamo preso parte ma che, come di consueto, ci ha visti presenti e
uniti nello spirito hdemico).
Nel nostro ambìto e onorato ruolo di Gran Cia’n’bell’ano ci sentiamo
in dovere di sancire formalmente, dopo l’opportuna verifica
sperimentale, la bontà del Teorema del dottor Teenvagina, d’ora in
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poi eternato e tramandato alla scienza come Teorema di Teenva
sull’Aggregazione Delle Buzzicone. A Lui quindi imperituro onore e
infiniti Sollazzi.
Purtuttavia, la vicenda porta con sé ulteriori e fecondi spunti di
riflessione. Uno di codesti trae l’abbrivio da una considerazione
come sempre acuta e ficcante nel suo stile essenziale, che il dottor
Lupompino ha recentemente avuto modo di elaborare. Dixit Lupus:
“Ma è possibile che si debba sempre fare tutta ‘sta fatica per una
chiavata? Tanto lo sanno benissimo che alla fine vogliamo solo
trombare. E lo vogliono anche loro, le troie.”
Senza cessare di sperticarci in ammirate lodi per l’auctoritas che
promana da ogni parola del Dottor Lupompino, vogliamo sottoporre
al Senato Hdemico una formulazione più estesa del quesito.
Miglialia d’anni di civiltà hanno prodotto rituali di corteggiamento
codificati – e a nostro avviso in gran parte superati – in virtù dei
quali, pur essendo ambo i sessi fortemente orientati alla reciproca
stimolazione genitale, sembra inevitabile un faticoso e progressivo
percorso di avvicinamento, spesso fonte di spiacevoli malintesi e
cocenti delusioni, nonché di costante spreco di tempo e denaro.
Ma l’evoluzione della specie non dovrebbe rendere l’uomo libero da
siffatti, immateriali vincoli? Non dovrebbe l’Hdemia per questa
ragione farsi carico, nella sua illuminata funzione di avanguardia
sociale, di un cambiamento dei costumi che induca più frequenti,
immediate et spontanee copulationes?
Qualche
vetusto
reazionario
sostiene
che
la
manfrina
del
corteggiamento sia condizione necessaria – di più, addirittura parte
costituente del processo che conduce al Beato Intingolo. Eppure, è
nostra convinzione che la Patata Moderna stia oltrepassando questa
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visione retrograda. Il teorema che vogliamo formulare e proporre al
Senatus è pertanto il seguente: a fronte di un’interrogazione
semplice e diretta sulla disponibilità a copulare, riteniamo che una
parte significativa delle pulzellae prenderebbe perlomeno in
considerazione l’autore del quesito, benché sconosciuto, e in larga
parte a prescindere dalla sua avvenenza. Resta da sperimentare sul
campo – e qui ci rivolgiamo alla sapienza Hdemica – in che
proporzione possa essersi diffusa tale sapiente forma di Tubero
Evoluto.
Concludiamo qui la nostra dissertazione, augurandoci di avere
sollevato un quesito capace di scaldare le menti delle S.V., almeno
quanto le palme delle mani vostre sono use fare con i rispettivi
augelli. Di più, ci auguriamo di avere aperto un confronto che possa
concludersi in degne attività Hdemiche volte a verificare et
eventualmente validare quanto discusso in sede teorica.
Invitando una volta di più lorsignori a farsi protagonisti di memorabili
atti di lascivia, cordialmente porgiamo i nostri più rispettosi saluti.
in Vulva Veritas
Il Gran Cià’n’bell’ano
lunedì 15 maggio 2000
Dopo aver parcheggiato rimase immobile in auto con il motore
spento per un po’. La mattina era davvero gradevole, ma lei non prestò
attenzione alle condizioni atmosferiche e a nulla di ciò che la
circondava, talmente era concentrata su quello che avrebbe dovuto
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dire. Rovistò nervosamente nella borsetta appoggiata sul sedile del
passeggero, trasse un respiro sofferto e si concesse ancora qualche
secondo per guardarsi nello specchietto retrovisore. Il parcheggio
Zucchi era mezzo vuoto, ma un flusso continuo di auto di lì a poco
avrebbe esaurito la disponibilità di posti.
Erano le 8.27 di lunedì 15 maggio. Fuori c’erano 19 gradi, ma le sue
mani erano gelate.
Prese la borsetta, aprì la portiera e scese dall’automobile. Si sistemò la
gonna, chiuse a chiave e solo allora guardò distrattamente il cielo,
realizzando di essere in anticipo di una mezzora sull’orario
dell’appuntamento. Si incamminò decisa verso il budello che separava il
parcheggio, l’ingresso della discoteca Adrenaline e viale Allegri.
Percorse piazza della Vittoria e dopo pochi metri si infilò nel Caffè
Cavour sotto l’Isolato S.Rocco.
Erano le 8.34. Nel bar c’erano due avventori che leggevano la
Gazzetta dello Sport e discutevano di come la Juventus, il giorno prima,
avesse perso lo scudetto sotto il diluvio di Perugia.
Ordinò un caffè e un bicchier d’acqua; si accese una sigaretta e cercò
di concentrarsi sulla conversazione dei due uomini. Le mani le
tremavano un po’. Aspirò una lunga boccata di fumo e strinse
lievemente gli occhi, nascosti dietro un vecchio modello di Persol scuri.
Erano le 8.52 quando si decise. Pagò, ispezionò nervosamente la
borsetta e uscì dal bar.
Di fronte all’austera porta blindata della Banca Commerciale Italiana
si fermò. Il nero della struttura l’invase con prepotenza e un senso di
vertigine la colse un attimo, ma si aggrappò con tutta la forza che aveva
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alla sua borsetta e mosse un passo, poi un altro, un altro ancora. Fino a
quando il freddo della maniglia non fu un tutt’uno con le sue dita di
ghiaccio.
Erano le 8.56 quando fu all’interno della banca. Le casse 1 e 3 erano
in funzione, con la solita fila agli sportelli. Si stupì a increspare le labbra
in un sorriso storto, ripensando a quante volte si era trovata –
impaziente – a subire quella stessa fila poi, sfilati gli occhiali, si diresse
verso l’ufficio del Direttore.
La porta era chiusa. In fondo alla sala. Passò davanti alle postazioni
dei consulenti e a uno di questi disse che aveva un appuntamento. Le
risposero di entrare pure e di accomodarsi che il direttore era nei pressi.
Si avviò, spinse la porta e, una volta dentro, si sedette su una delle due
poltrone in finta pelle davanti al tavolo di cristallo che fungeva da
scrivania. Attese qualche minuto, frugò velocemente nella borsetta e
cercò di convincersi che tutto sarebbe andato bene.
Erano le 8.59 quando la voce del Direttore la salutò cordialmente,
facendo svanire in un colpo la poca sicurezza che era riuscita ad
iniettarsi.
«Buongiorno, Milva.»
«Ciao, Giorgio.»
Lui le strinse le mani, abbracciando il sorriso di lei con la fragranza di
D&G, rimanendo per un attimo di troppo in silenzio.
«Ho sentito dire che ieri avete perso lo scudetto…» disse Milva
cercando di prenderla molto alla lontana.
«Ahh guarda, non ne parliamo! Un furto! Un vero e proprio furto!»
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Il sorriso di Giorgio Castaldi era quello di una persona buona. Milva
se ne era accorta subito, la prima volta che aveva messo piede in quella
banca per aprire il proprio conto corrente.
«Milva: non credo che tu sia venuta qui per sfottermi sulla Juve. O
sbaglio?»
Era il momento. L’orologio a muro segnava le 8.42. In ritardo o
fermo. Toccava a lei, adesso.
«Vedi…davvero non so come spiegartelo».
Silenzio. Castaldi si era posizionato sul sorriso d’attesa. Bancario
navigato, il direttore.
«Beh, avrei bisogno di un prestito. Voi siete una banca. Le banche
fanno prestiti. Voi siete la mia banca. Direi che tutto quadra, no?»
Il sorriso di Castaldi parve vacillare. Trasse un respiro, premette un
paio di tasti sulla tastiera del suo computer. Per alcuni lunghi secondi
fissò il monitor, concentrato.
«Vedi Milva, vorrei tanto poterti aiutare…»
Vorrei.
Non stava andando bene. Per niente. Castaldi continuava a parlare,
ma lei era ferma su quel condizionale del cazzo. Vorrei. Che non vuol
dire assolutamente voglio. Inutile stare a girarci intorno: era un no. Senza
speranze. Il sorriso le si incenerì in un attimo. In altri momenti avrebbe
salutato e tolto il disturbo. Ma questa volta non poteva. Non avrebbe
potuto sopravvivere senza speranza.
«Giorgio lo so» lo interruppe bruscamente. «Lo so che non potete
farmi un prestito. Ma te lo chiedo per l’amicizia che ci lega.»
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Erano le 9.13 quando il sorriso del direttore Castaldi si spense del
tutto.
«Di quanto hai bisogno?»
«Quaranta milioni. Lira più, lira meno.»
«…»
«…»
«Quaranta milioni. È troppo, Milva.»
«Lo so, Giorgio: è per questo che sono venuta da te.»
«Ma io per te ho già fatto i miracoli! Ti abbiamo fatto un mutuo
praticamente senza garanzie!»
«Non ti supplicherei se non fossi nella merda. Mi conosci: non prego
mai.» Fu un sibilo. Gli occhi a fessura, come un gatto messo in un
angolo. Lui stette immobile, occhi negli occhi, molto vicini l’uno
all’altra. Poi d’un tratto Castaldi si lasciò cadere all’indietro contro lo
schienale della poltrona, sbattendo le mani sui braccioli.
«…non posso aiutarti, credimi» sospirò Castaldi, improvvisamente
stanco.
«Quarantamilioni: cosa diavolo sono per la tua banca?»
«Ma non penserai che io possa decidere tutto quello che voglio! Se
dipendesse da me…»
«Quaranta milioni: te li restituisco uno ad uno. Se avessi tempo non
verrei ad elemosinare, ma di tempo non ne ho: mi servono subito.»
Erano le 9.21 quando Milva uscì dalla banca. Il cielo era sgombro. Il
prestito non l’avrebbe avuto. C’era da avvertire Barbara. Pensò:
“cazzo” e si diresse alla macchina.
43
Aveva un problema.
***
Guidò con la fame che gli stringeva lo stomaco, ma non aveva
pensato neanche un istante di fermarsi in mensa o in qualche bar per
un panino veloce. Guidò piano nel flusso della tangenziale, gustandosi
il cd che aveva comprato la domenica pomeriggio al centro
commerciale Grand’Emilia – l’ultimo di Gigi D’Alessio – e una volta
arrivato parcheggiò la sua Golf GTI proprio davanti all’ingresso del Bar
Milva. Spense il motore, tolse la mascherina dell’impianto cd e non
senza qualche difficoltà si allungò per prendere sul sedile posteriore
una cartellina colorata. “La penna la trovo da Milva” pensò mentre
azionava l’antifurto e contemporaneamente si frugava nelle tasche per
prendere un piccolo mazzo di chiavi.
Arrivato davanti alla porta d’ingresso del locale fece qualche passo in
più verso una porticina laterale, si mise la cartellina tra le gambe e inserì
una chiave nella toppa. Contemporaneamente con l’altra mano tirò
lievemente a sé la porta, che si aprì. Con la mano sinistra fece scattare
l’interruttore della luce, chiudendosi la porta alle spalle. Era dentro.
Era bello il bar vuoto, senza luci, senza voci, senza musica. Era vivo
lo stesso, con il riflesso del sole che penetrava dalle vetrate e si andava
a posare sui tavoli neri e sul bancone del bar, sulle slots machines e
sulla parete tutta piena di liquori e wiskey vari. Sempre così, il Lupo:
entrava e stava alcuni secondi in contemplazione di un posto che
conosceva a menadito, ma che nel giorno di chiusura gli si presentava
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in un modo diverso, se possibile ancora più accogliente. Era il Bar
Milva, ma al lunedì, quando smetteva di lavorare, era il suo bar. Si
diresse verso un piccolo tavolo vicino al televisore, appoggiò la
cartellina, la mascherina dell’impianto stereo della sua Golf, le chiavi e
tornò verso il bancone. Aveva fame. Dopo 8 ore in fabbrica aveva
proprio voglia di uno di quei panini mega farciti che alla sera gli
preparava Milva, prima di dedicare la giusta attenzione alla sua
“creatura”. Dal frigo prese due lattine di birra, tolse il panino dalla
piastra e appoggiò il tutto sul tavolo; con una piccola chiavetta aprì la
cassa e fece scivolare al suo interno i soldi del pranzo. Prese alcuni
tovaglioli di carta e tornò al tavolo.
Milva era unica. Alcuni mesi prima, durante una delle tante partite a
poker che concludevano le serate hdemiche, si era avvicinata al tavolo e
aveva seguito per un po’ di tempo l’andamento della sfida. Il Lupo
stava, come sempre, levando le mutande a Teenva, Fedele e al Libero
Ricercatope quando, digrignando i denti e grattandosi i capelli da sotto
il cappellino, aveva chiesto a Milva se fosse possibile avere libero
accesso al locale.
«Scusa Lupo, ma ormai noi siamo parte dell’arredamento di ‘sto bar
qui» aveva obiettato Fedele.
«Oh, io sono un lupo: ho bisogno di una tana sicura e protetta… e
soprattutto tranquilla per portarci le mie prede.»
«Beh, per essere sicuro e protetto questo bar lo è, ma in quanto a
tranquillità ho i miei seri dubbi: è un esercizio pubblico, Lupo.»
Sarcastico come sempre, il Libero Ricercatope aveva liquidato la
richiesta del Padre Fondatore ed era ritornato a concentrarsi sulle sue
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carte. Milva non aveva fatto una piega. Aveva lasciato che il gioco
proseguisse poi, mentre il Lupo calava l’ennesimo full di donne della
serata, aveva detto «Tieni» e contemporaneamente aveva appoggiato sul
tavolino un piccolo mazzo di chiavi. L’Hdemia tutta era rimasta
interdetta un attimo, ma subito il Lupo, afferrate le chiavi, aveva
chiesto:
«Ma sono le chiavi del bar?»
«Sì. Non ho tempo di seguire tutte le tue gesta. Tu le conquisti e le
porti qui quando ti pare.»
«Cazzo Milva, se non fossi un Lupo ti sposerei!»
Lei non disse nulla, si limitò a dargli un bacio sulla guancia
«Ti dovrò insegnare come funziona la macchina del caffè. Quando
avete finito vieni al bancone.»
Era stato così che il Lupo era entrato in possesso delle chiavi del Bar
Milva. Ovviamente non ci aveva portato mai nessuna preda ma il
lunedì, giorno di chiusura, prima o dopo il suo turno di lavoro in
fabbrica, veniva al bar e, nella più completa solitudine, dedicava tutte le
attenzioni alla sua “creatura”.
La passione era nata improvvisa e magica, come un amore per una
donna che non c’è, alcuni anni prima, di ritorno da una scatenata
vacanza a Malta, dal desiderio di fermare sulla carta tutte le emozioni
che aveva vissuto nella piccola e cosmopolita isola. In realtà il Lupo –
che all’epoca ancora era da tutti conosciuto con il suo nome, Cesare –
voleva raccontare l’intensa e veloce storia d’amore che aveva vissuto
con una ragazza di Mosca. Ci si era messo davvero d’impegno. Ogni
momento era buono per continuare quello che, piano piano, nel tempo,
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si era poi trasformato in un vero e proprio romanzo d’amore, con tanto
di titolo per il quale andava davvero molto fiero: “Tra la terra e il
cielo”.
Stava scrivendo ormai da una buona oretta, quando avvertì aprirsi la
porta esterna del piccolo magazzino. Dopo alcuni minuti entrò
Barbara, l’aiutante di Milva, che lo salutò per poi scomparire ancora nel
piccolo magazzino. Ormai era diventato normale per lei trovare il Lupo
nel bar, era diventato un po’ come un pezzo d’arredamento. Dal fondo
del piccolo magazzino la voce della ragazza raggiunse il Lupo.
«Se vuoi leggere il giornale è sul bancone.»
«Grazie Barbara! Stavo giusto pensando di fare una pausa.»
Appoggiò la penna sul tavolo, rilesse i due fogli A4 che aveva scritto
da quando era arrivato al bar e si alzò. Si diresse al bancone, prese una
bottiglietta di tè alla pesca e il giornale. Ritornò al suo tavolino, bevve
due belle sorsate e iniziò a sfogliare il quotidiano.
Poco dopo arrivò anche Milva. Dopo aver scambiato due battute con
il Lupo si fermò al bancone, dove Barbara era intenta a fare dei conti.
«C’è un problema.»
Milva fu diretta e veloce.
Barbara capì subito.
«Non ci aiuterà?»
«No, non può. O non vuole.»
«Ma Milva! Abbiamo poco tempo…»
«Lo so benissimo, ma dobbiamo provarci lo stesso! Dobbiamo
trovare una stramaledetta soluzione. Altrimenti non ci sarà speranza.»
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Le due donne stavano parlando a bassa voce. Il Lupo percepì solo
poche parole, ma sufficienti per calamitare la sua attenzione.
«Siamo ancora una volta sole?»
La voce di Barbara era diventata un lieve lamento. Le due donne si
guardarono a lungo negli occhi, senza dire nulla. Non c’era bisogno di
parole, lo sapevano entrambe che erano sole, a combattere contro un
nemico più forte di loro. In fin dei conti il loro piccolo bar era un’oasi
avvolta nella tormenta: sempre così, da quando l’avevano aperto.
«Non ci faranno chiudere. Vedrai che una soluzione la troveremo.»
«…»
«Non ci faranno chiudere.»
Il Lupo non aveva avuto il coraggio di alzare lo sguardo dal giornale,
ma aveva incanalato tutta la sua concentrazione nel seguire il dialogo,
del quale aveva carpito mezze frasi, qualche parola a fatica e - questo
l’aveva capito benissimo, invece – molta agitazione e preoccupazione.
Le due donne avevano smesso di parlare e la curiosità lo aveva vinto:
piano piano alzò gli occhi dalla pagina dello sport e guardò dritto verso
il bancone. Fu un attimo. Fece in tempo a vedere Milva sbattere il
pugno contro il bancone con un volto tirato e arrabbiato, e subito
ritornò a fissare la pagina del giornale. Non capì molto, ma le ultime
parole di Milva le comprese perfettamente, e lo riempirono di tristezza.
«Non glielo permetteremo. È il nostro bar, questo.»
***
48
«Guarda, c’è un posto libero. Come “dove”? Non vedi? Lì, ce l’hai
davanti. Ecco. Attento, è stretto. Sterza. Robby, sterza!»
«Oh capito! L’ho visto! Santo Dio, quando fai così non ti reggo.»
L’ingresso nel garage sotterraneo del grosso centro commerciale
segnava anche stavolta il passaggio da un pomeriggio luminoso al tetro
prospettarsi del canonico shopping settimanale. Inevitabile e puntuale
come i rimproveri di Sara sulla sua guida distratta. Lui diventava scuro
e nervoso. Lei e i suoi sorrisi sicuri quasi fastidiosi.
No, non era cominciata tanto bene.
Giusto il tempo di mettere cinquecento lire nel carrello e farsi
abbracciare dalle luci delle vetrine, e Sara aveva già superato la tensione
di un secondo prima. Fedele pensò che le invidiava questa capacità di
non portare rancore, di farsela passare in pochi minuti. In un angolo
remoto della coscienza pensò anche che questi piccoli scazzi erano
ormai talmente frequenti che anche il programma di rimozione girava
in automatico. Come a dire che ormai non gliene importava gran che.
Ma fu soltanto un’idea fugace, quasi inconsapevole.
Davanti a lui si parava in tutta la sua maestà l’Ipercoop, un mostro da
cinquemila metri quadri brulicante di massaie, volantini del 3X2,
giovani commesse sui pattini e promoter in camice bianco e sorrisi
plastificati. Un bel respiro, e uno sforzo per non scollegare
completamente il cervello. Almeno per i primi venti minuti doveva
stare sul pezzo e fare la parte del bravo moroso. E magari ascoltarla.
Pure? Pure.
«Ah, non ti ho detto. Domenica prossima in parrocchia c’è la raccolta
della carta. Ci andiamo vero? Ci sarebbe bisogno anche di andare là il
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sabato pomeriggio, per suddividere le zone. Magari ci dai una mano
anche tu? Che ne dici?»
Eh, magari. Magari anche no.
«Adesso vedo, forse devo studiare. Sono un po’corto con Civile…»
«Studi, di domenica? Tu? E da quando?»
La risata cristallina, il braccio intorno alla vita e il bacio sonoro sulla
guancia sancirono la resa incondizionata, senza possibili repliche.
«Che bastarda che sei… alla fine da me ottieni sempre tutto. Lo sai, e
te ne approfitti. Però ti adoro…»
Lo disse abbracciandola con foga e affondando il viso nel profumo
dello shampoo, la mano destra pericolosamente bassa sul girovita di lei.
Quando le labbra di Fedele si spostarono nei pressi dell’orecchio, Sara
decise che poteva bastare così, per oggi.
«Dai, smettila. Siamo in mezzo alla gente, non sta bene-»
Quelle tre piccole parole. Non sta bene. Come una manciata di cubetti
di ghiaccio nelle mutande. Il replay infinito di infinite discussioni.
Sull’ipocrisia perbenista. Sul significato della sessualità. Sul corpo come
dimora dello Spirito Santo. Controversie estenuanti consumate negli
intervalli di un petting tragicamente consapevole e controllato. Da lei,
of course. Fedele aveva scoperto Guccini da poco, e quasi si
commuoveva ogni volta: “Anche se adesso hai al vento quello che / io per
vederlo c’ho impiegato tanto / filosofando pure sui perché.”
«Oh, guarda! C’è lo Svelto in offerta. Tua madre non ce l’ha messo
nella lista, però glielo prendo lo stesso, che dici? Eh? Oh, Robby, ci
sei?»
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«Cosa? Ah… sì, sì scusa, prendilo, prendilo. Senti, che dici se ti
aspetto nella corsia dei vini?»
Nei riflessi porpora e dorati dei neon sulle bottiglie - due file fitte,
lunghe e rassicuranti - Fedele finiva quasi sempre col trovare un ristoro
dalle fatiche della spesa. Gli spigoli della vita di coppia, i sensi di colpa
universitari, la realtà compressa dei suoi ventiquattro anni vissuti, gli
sembrava, con il freno a mano tirato… tutto pareva perdere gravità e
consistenza nel susseguirsi delle etichette che gli portavano nomi
affascinanti e spesso sconosciuti. Millantava competenza, Fedele, ma la
sua era una passione quasi adolescenziale: intensa e sottile, attraente più
per se stessa che per il suo oggetto. Eppure gli piaceva da impazzire
confrontare prezzi e nomi, regioni e diciture. Stava contemplando con
esotico interesse un Sauvignon altoatesino quando sentì vibrare il
cellulare nella tasca della giacca.
Messaggio. Un nome sul display, “Valerio”. Un tuffo, rapidissimo, al
cuore. Non se l’aspettava. Meglio, non ci sperava più. Fedele non potè
fare a meno di guardare rapidamente su e giù per la corsia dei vini.
L’anziano pensionato che scrutava da sotto gli occhiali l’etichetta di un
Lambrusco di Sorbara pensò che quel giovane avesse qualcosa da
nascondere. Per fortuna di Fedele, Sara era completamente immersa
nella comparazione dei prezzi degli yogurt, e non potè vedere né
l’espressione allarmata di Fedele né quella vagamene divertita del
pensionato.
“Ciao Robinhood, scusa se sono sparita così. Se non ce l’hai con me stasera ti
spiego. Mi connetto alle 9. Vale.”
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Valentina, alias Valerio nella sua prudente rubrica telefonica. Quanto
era passato? Un mese? In mezzo c’era stata tutta la storia della
Manubuzzi, un buon ripiego per allontanare la mente e tenersi lontani
da quel contatto virtuale che rischiava di destabilizzarlo sul serio. A
giocare col fuoco… Fedele, quello fedele, aveva in cuor suo ringraziato
per l’improvviso e inatteso silenzio. Ma la parte meno fedele di Fedele
non aveva mai smesso di pensarci. Sotto mentite spoglie, certo: “Cosa
avrò scritto di sbagliato?” “Una così non esiste, stava solo recitando”
“Forse si era fatta prendere troppo”. Lei. Come no. E intanto era lei a
essersi improvvisamente zittita, e lui a scriverle altre due o tre mail.
Aveva quasi smesso di pensarci. Quasi. E adesso…
«Robby, ci sei? Hai trovato qualcosa di buono? Dai, andiamo,
cialtrone! Finisce sempre che la spesa la faccio da sola.»
La voce squillante di Sara lo fece sobbalzare un po’. Si costrinse a
muoversi lentamente, infilando con disinvoltura il cellulare in tasca.
Girandosi, incrociò l’arco sfavillante del suo sorriso. Era bella. Sì.
Cazzo se era bella.
Alla cassa Sara estrasse dal carrello una confezione di ovetti Kinder. Li
aveva presi per lui, che ne andava matto. Non esistevano in nessuna
lista della spesa di questo mondo. Li aveva presi pensando a lui, come
faceva sempre. Così attenta, così adorabile ogni volta che voleva
diventarlo.
In macchina, sulla via del ritorno, il sole al tramonto dipingeva di
giallo l’asfalto e l’interno scuro della sua utilitaria. I capelli a caschetto
di Sara, neri come la notte, si spargevano sui suoi jeans. Quando era
stanca e serena faceva così. Stava in silenzio e si stendeva su di lui, che
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guidava immobile, accettando volentieri la fatica nel raggiungere la leva
del cambio.
A volte, in quei momenti, era convinto di amarla. Questa sera gli
veniva quasi da piangere.
***
Il monitor davanti, posta elettronica e programma di chat già aperti.
Per i genitori, l’ennesima serata passata in casa da questo bravoragzzo,
chiuso nel suo studio a fare chissacosa fra i suoi libri e quel computer.
Per Sara, un’altra sera da passare separati, lui a poltrire sul divano e lei
in parrocchia, a stringere relazioni vitali per una studentessa fuori sede.
Per lui, una serata leggermente tachicardica, iniziata fra le bottiglie di
vino e destinata a compiersi sulla schermata di una chat.
Un’occhiata all’orologio: le 20.45. Ancora presto. Non si era mai
connessa prima delle 21. Si costrinse a temporeggiare, rileggendo brani
della corrispondenza breve e intensa iniziata solo qualche settimana
prima.
Ciao,
io sono Robby, e qualcosa di più di me lo puoi vedere dal profilo.
Se ti dicessi che la tua foto mi ha ricordato Nancy Brilli forse
potrei sembrarti eccessivo, quindi non te lo dirò ;-)
Ti dirò invece che trovo interessanti la determinazione e la
chiarezza di idee che traspaiono dal tuo profilo. Insieme ad alcune
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espressioni brillanti, che sembrano raccontare di una bella
padronanza dei pensieri e della lingua. "Amo tutto ciò che è vita e
a volte piango anche di gioia" è una sintesi potente e suggestiva, e
anche quel "non te lo dico" capriccioso e smaliziato... m i
sbaglierò, ma non sembri una che litiga con le parole.
La cosa che ho apprezzato di più, però, è la conclusione. “Amicizia,
comincia tutto da lì”. Mi trovi perfettamente in linea: non credo
sia utile preoccuparsi di raggiungere qualche "obiettivo". Ciò che
conta è fare un pezzo di strada assieme… per essere persone
migliori e meno sole, soprattutto di fronte a noi stesse.
Se ti va, puoi scrivermi a [email protected]
Sì, era stato lui a contattarla per primo. Si era imbattuto in quel
profilo così diverso dai soliti “sono una ragazza dolce e carina che ama
la musica e il mare”. Si era incuriosito, anche perché la fotografia era
decisamente gradevole. E aveva sfoderato questa piccola mail della
serie “parlo di te per parlarti di me”. Senza calcare troppo la mano, non
era ancora il momento di fare la ruota come i pavoni. Lo scopo, come
sempre, era quello di stuzzicare la curiosità. Se riuscivi a farle pensare
anche solo per un attimo “questo forse è diverso dai soliti” eri già a
metà dell’opera.
La risposta di Valentina era stata rapida e convincente.
Robby occhichiari!
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Devo dire che neanche tu hai mai fatto una bella litigata con le
parole, o semplicemente preso a cazzotti una pagina prima di
riempirla di pensieri.
Robby occhichiari, hai stoffa da vendere perché sai guardare o
meglio sai leggere. Non sai quanto è difficile di questi tempi
cercare di rimanere femminili e, contemporaneamente, dare
l'impressione che anche tu sai il fatto tuo senza cadere nella solita
trappola della donna con le palle.
Lo ammetto, mi piace giocare
a fare la gatta capricciosa e
smaliziata, ma sono in pochi quelli che se ne accorgono, perché lo
faccio sempre in sordina e fra le righe.
Robby occhichiari m i ha colto in flagrante mentre cercavo di
rubare un briciolo di attenzione.
Robby occhichiari, mi è piaciuto leggere dei tuoi occhi chiari, non
chiedermi il perché, non saprei r isponderti, o meglio, non saprei
esprimere quello che è balenato nella mia riccioluta testolina.
Ciao Robby occhichiari, buona notte e che i tuoi sogni siano
spettacolari!
Dimenticavo, il m io nome è Valentina.
E a quel punto Robby Occhichiari aveva capito che si stava infilando
in un brutto guaio. Il Narciso ingordo che viveva fra i tasti del suo PC
era stato adeguatamente sfamato, e questo era già un buon inizio. Il
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problema era che il boccone sembrava roba di prima scelta. Colpito nel
segno. Quel “sai leggere” era il suo piatto preferito. Accompagnato da
un contorno di “come scrivi bene” ed espresso con brio e originalità…
ce n’era di che farsi ingolosire. Se ne era accorto subito, e gliel’aveva
pure scritto.
Valentina, riccioli biondi,
che piacere leggerti, e vedere confermata la sensazione di pericolo
avvertita scorrendo il tuo profilo. Pericolo, sì. Attento a questi
riccioli m io caro robinhood, perché siamo di fronte a una testolina
che pensa collocata fra le spalle di una donna che sente!
Combinazione alla nitroglicerina, micidiale anche per un ottimo
principe dei ladri...
Ma che ci vuoi fare, noi eroi siamo così orgogliosi da non dare
retta nemmeno ai nostri stessi avvertimenti, quindi correrò il
rischio di farmi mettere nel sacco da questa cascata di ricciol i
luminosi e consapevoli.
In una rapida escalation di email e chat, in pochi giorni la conoscenza
tra Robby e Valentina si era fatta approfondita in quel modo strano che
solo la conversazione a distanza consente. Non sapevano quasi niente
del reciproco quotidiano, ma sarebbero stati in grado di muoversi
agevolmente per i sentieri più nascosti delle rispettive anime.
Un’intimità che aveva permesso a Robby di andare proprio al cuore di
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questi giorni difficili. Senza parlare troppo di Sara, ma anche senza
nasconderne l’esistenza. Il punto non era lei. Non era solo lei. Era ciò
che lei rappresentava.
Sai Vale, a volte mi guardo allo specchio, e mi trovo davanti un
ragazzo che fa ogni giorno a pugni con l'idea del tempo che passa e
di tutti i se stesso che non ritroverà più. Un ragazzo che vive un
periodo di forte smarrimento interiore e non riesce a capire bene
dove lo stia portando la sua vita. Ecco, questo vedo: una persona
che annaspa nelle rapide dell’esistenza, che ha l'impressione di
essere trascinato da una corrente contro la quale ha poca
possibilità di ribellarsi. Chissà se capita mai anche a te di sentire
la forza di questa corrente... quando sei bambino la vita è un
oceano di possibilità, una mir iade di fantasie luccicanti. Po i
diventi ragazzo, e cominci a sentire il potere scorrere fra le mani,
ti sembra di poter solcare quel mare con la sola forza della tua
volontà e della tua giovinezza. Un ragazzo sa perfettamente - con la
miopia e l'arroganza della gioventù - che cosa è giusto e che cosa è
sbagliato... e, naturalmente lui è giusto fino al midollo delle ossa.
Non esistono le sfumature, le debolezze, i dubbi. E con queste tinte
forti dipinge il suo presente e la proiezione del suo futuro.
Poi cresci, e ci pensa la vita a farti notare le sfumature. Una
persona di media intelligenza non può che iniziare a stare stretta
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nelle sue certezze, a sorridere di loro e di se stesso. Una persona
di media intelligenza comincia a scontrarsi con la realtà pesante
dei suoi errori, dei suoi lim iti, della sua meschinità... e se è
fortunato impara a guardare anche queste con pazienza e
benevolenza. Ma alla fine, una persona di media intelligenza
facilmente inizia a sentisi un po' smarrita. E se a questo aggiung i
che vivere è un po' come salire su un gigantesco albero, in cui ogni
scelta significa arrampicarsi su un ramo piuttosto che su quello
accanto, una persona di media intelligenza si accorge presto che ad
ogni metro rimangono dietro le spalle mir iadi di strade non
percorse... e sempre meno di queste strade, di queste scelte, ci
separano dal cielo sopra di noi. Ecco, il povero ragazzo di cui sopra
inizia a sentire che la vita gli si stringe un po' addosso, che le
certezze sono sempre meno, che non sa più di preciso né da dove
viene né dove sta andando... e in tutto questo continua ad andare,
andare, andare...
Era stata l’ultima mail che le aveva mandato. Rileggendola subito
dopo averla scritta, aveva provato a raccontarsi che si trattava di un
autentico capolavoro, la Ruota del Pavone più intimista, assoluta e
perfetta. Malinconica, profonda e matura. Una perla, capace di
affascinare sia il cuore che la mente. Quello che non voleva o non
sapeva dirsi era che, suo malgrado, era anche spaventosamente sincera.
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Che il corteggiamento virtuale c’entrava poco. Che in quelle righe c’era
tutto lui. E c’era anche tanta, troppa Sara.
Si era aspettato che Valentina a quel punto rispondesse perlomeno a
tono. E un po’ sperava un po’ temeva che non le bastasse più
raccontarsi via email: si erano scambiati il numero di cellulare giusto il
giorno prima, ma nessuno dei due aveva ancora trovato il coraggio di
servirsene. Nella sua rubrica c’era già “Valerio”, ma fino a quel
momento era stato solo un monito simbolico nella lunga lista dei suoi
contatti. Forse, dopo quella mail, avrebbe deciso di telefonargli. Lei per
prima, certo. Ne aveva il carattere e la capacità. Lui no, lui non poteva.
Lui era Fedele, cazzo. Le avrebbe volentieri risposto, ma fare la prima
telefonata sarebbe stato un passo troppo deciso al di fuori del cerchio
di sicurezza entro il quale aveva confinato la propria coscienza. Aveva
imparato a perdonarsi le mail e le chat. Per l’Hdemia, perfino i contatti
diretti e le serate in compagnia delle sue “prede virtuali”. Ma questa era
un’altra cosa. Però, se avesse chiamato lei… non avrebbe potuto non
risponderle, e in fondo sarebbe andato bene così. In fondo non
facevano niente di male a parlare, no?
Invece, silenzio. Per quasi un mese, silenzio assoluto. Un paio di
brevi e composte email di sollecito (mai insistere troppo, l’aveva
imparato già da tempo) senza alcuna risposta gli avevano fatto pensare
di essersi spinto troppo oltre. Di averla spaventata. Di averla
sopravvalutata, in definitiva. E meno male, in fondo. Meno male.
Fino a quel pomeriggio.
21.05. Doppio click. Lei era online, puntuale.
Un imbarazzo strano, nuovo, nel fissare la finestra sul PC
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Motovale (21.05 PM) Ciao Robinhood occhichiari 
Robinhood76 (21.05 PM) Ciao Vale ricciolibiondi 
Motovale(21.06) Allora non sei arrabbiato con me…
Robinhood76 (21.06) Arrabbiato? E perché?
Motovale(21.07) Dài… ho visto la tua mail. Bellissima. E io sono
sparita, chissà cosa hai pensato.
Robinhood76 (21,07) …beh, mi è dispiaciuto, certo. Ma tu sei
libera, non mi devi niente. Davvero. Ci ero rimasto un po’ male, ma
arrabbiato no…
Motovale(21.08) E che cosa hai pensato?
Robinhood76 (21.09) Onestamente? Credevo di averti spaventata.
Di avere esagerato.
Motovale(21.09) Spaventata? No, perché?
Robinhood76 (21.10) Quella mail. Era molto… intima. Ho pensato
di averti “caricata” troppo, che non fossi pronta per… beh dai, hai
capito
Motovale(21.11) Hey, Robinhood… Non ho paura della tua anima,
piccolo eroe… è troppo bella. Gazie di avermela mostrata.
A Fedele servì qualche secondo per calmare le formiche che avevano
preso a camminargli dentro lo stomaco. Fece un lungo respiro, scacciò
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il pensiero di Sara che ronzava nella stanza come una mosca fastidiosa.
Poi decise di allontanarsi dal fuoco.
Robinhood76 (21.12) Ma allora… perché sei sparita?
Motovale(21.13) Ah, allora lo vuoi sapere! Cominciavo a pensare
che non ti interessasse ;-)
Robinhood76 (21.13) Dài… che gatta capricciosa che sei!
Motovale(21.14) Gatta? Io? Ma che dici? MIAO… 
Robinhood76 (21.15) Cosa devo fare, implorare?
Motovale(21.17) No, dài, hai sofferto abbastanza  Sono partita
con un gruppo di scatenate in moto per un giro della Sicilia. 25
giorni. Non hai nessuna colpa per il mio silenzio. Anzi, sono io che
mi devo scusare immensamente con te, non ti ho nemmeno scritto
due righe prima di partire. È che la tua mail non si poteva
liquidare in due parole… ti ho cercato in chat ma non c’eri, e… beh,
ancora non mi attentavo a usare il telefono.
Valentina era una centaura, come diceva anche il suo nickname. Era
stato anche questo a incuriosire Fedele, che poi aveva scoperto una
serie di passioni in comune con questa eclettica ragazza marchigiana. La
musica italiana. Il vino. Le idee politiche. L’amore per la parola.
Cucita su misura.
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Robinhood76 (21.18) Fantastico! Chissà come vi siete divertite!
Non ti devi scusare, te l’ho detto. Sono felice di averti ritrovata.
Giuro.
Anche troppo felice, caro il mio Fedele, diceva la solita mosca
fastidiosa.
Motovale(21.19) Sì è stato bello, ma…
Robinhood76 (21.19) Ma?
Motovale(21.20)
Robby,
ti
ho
pensato
parecchio
mentre
scorrazzavo sulla mia moto. Mi sei mancato.
Robinhood76 (21.21) Anche tu, Vale. Anche tu mi sei mancata.
62
CAPITOLO TERZO
Dove si visita la città degli angeli
Data: mercoledì 17 maggio 2000
DA: dr.Teenva ([email protected])
A: dr. Fedele ([email protected]); dr.Teenva ([email protected]); dr.
Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
CC: Discipulo ( [email protected]); Gran Cia’n’bell’ano
([email protected])
Oggetto: Los Angeles!
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
ISTITUTO DI PASSEROLOGIA ADOLESCENZIALE
Ordinario: Prof. Dr. Teenvagina
Gentili et pregiatissimi Colleghi,
mi rivolgo a Voi – non prima di averVi onorato con il consumato
cerimoniale hdemico -
nel raccogliere con vivo et adolescentiale
entusiasmo l’invito alla giornata di lavori e studio che si profila per
venerdì p.v.
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In particolare infatti, con la presente, sono ufficialmente a proporre di
testare e verificare le tesi avanzate dal sempre munifico Gran
Cia’n’bell’ano già tra due giorni, urgendo infatti - proprio per quella
data – l’inaugurazione della stagione estiva della gloriosa discoteca
Los Angeles, in quel di Bergonzano.
Là quindi, il Nobilissimo ConSesso Nostro potrà espletare quelle
funzioni di studio e di ricerca sul campo che tanto sono precipue del
Nostro agire e vivere quotidiano, agevolati dall’altissima percentuale
di patata presente in loco.
Soltanto a notte molto inoltrata, una volta esaurita la spinta
ricercatrice ci si ritroverà da Milva per un primo confronto sui dati
raccolti e per incominciare a lavorare su nuove e -
si spera –
stimolanti idee.
Signori, è con una punta di commozione che Vi esorto sulla assoluta
importanza dell’esperimento che Ci vedrà protagonisti sulle auliche
colline. L’Hdemia si accinge a compiere un nuovo e decisivo passo
nell’evoluzione delle relazioni tra i sessi!
Vorrei che anche il giovine Discipulo fosse della partita, per dargli
agio di poter crescere et maturare con nuove esperienze, ma so per
certo che proprio lui sarà il primo a non volersi tirare indietro davanti
alle proprie responsabilità di diligente e stimabile novizio.
in Vulva Veritas
Dr. Teenva
mercoledì 17 maggio 2000
Una volta cliccato su “Invia e Ricevi” Teenva spense il computer, si
infilò la giacca e scese le scale. Andò in garage, salì sulla sua Z3 canna
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di fucile e rombando uscì dal giardino di Villa Zoboli, direzione Parma,
Università. Alle 9 era in programma l’appello di Diritto Penale, che
vedeva il nostro eroe al terzo tentativo, dopo due segate prese nei
denti.
Una nuvola di fumo investì Teenva in pieno volto.
«Se ne vada.»
La docente di Diritto Penale, continuando a fumare come una
ciminiera, gli allungò il libretto senza mai degnarlo di uno sguardo, con
gli occhi rivolti verso sinistra, alla porta di ingresso.
Dopo neanche tre minuti il suo esame era già terminato.
Una domanda, nessuna risposta. Finito.
Teenva si alzò, prese il libretto e, girati i tacchi, si fece largo tra la
folla di studenti assiepata alle sue spalle, a pochi centimetri dalla
cattedra. Sibilò un “puttana” e, appena arrivato al proprio posto, sbatté
sul banco il libretto, chiuse il manuale di Diritto Penale e mandò a quel
paese ancora una volta la prof.
Uscito velocemente dall’aula, si lasciò alle spalle l’Università e a
larghe falcate si diresse verso il vicino parcheggio. Pagò, raggiunse il
livello dove aveva lasciato l’auto, azionò l’antifurto, aprì la portiera e
appoggiò sul sedile la borsa. Salì a bordo, mise in moto la sua Z3 e
rombando si immise nel flusso del traffico cittadino, lungo il torrente
Parma, direzione autostrada verso Reggio Emilia. Accese lo stereo e
inserì la compilation che un suo amico dj del Pineta di Milano Marittima
gli aveva regalato il giorno prima. Alzò il volume, prese il cellulare,
compose un numero e pigiò sull’acceleratore. Suonava libero. Al terzo
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squillo si spazientì e riattaccò. Passò sotto il sensore del Telepass ed
entrò in autostrada, si piazzò in terza corsia e azionò il meccanismo per
aprire la capote dell’auto. Dopo alcuni chilometri gli squillò il cellulare:
guardò il numero sul display, era lo stesso che aveva provato a
chiamare alcuni minuti prima. Lasciò che il telefono si stancasse di
suonare a vuoto, mentre la pianura padana gli sfrecciava attorno. Erano
le 13 passate e aveva fame. Arrivato a Reggio, davanti al Centro
commerciale L’Ariosto, telefonò a casa
«Mamma, sto arrivando. Dieci minuti.»
«Ciao, com’è andata? Festeggiamo?»
«É andata da culo. Preparami da mangiare, che c’ho una fame boia.»
«Ma… ti sei fatto bocciare ancora?»
«Senti mamma, ne possiamo parlare a casa, cazzo!?»
E riattaccò. Ormai era in circonvallazione. Imbottigliato nel traffico.
Gli arrivò un sms.
“Ciao amore. Non sono riuscita a rispondere, poi ho provato a chiamarti.
Stasera andiamo a festeggiare? Ti amo da morire.”
Lesse frettolosamente il messaggio di Maria, sbuffò un “’fanculo
anche te” e si attaccò al clacson, pochi metri prima di svoltare nel
cortile di casa.
«Allora Pier? Mi vuoi spiegare?»
«Mamma che diavolo c’è da spiegare? Mi ha fatto delle domande e mi
ha segato.»
«Tu non studi abbastanza, te lo dico sempre. È la terza volta che ti fai
bocciare a questo esame.»
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«Ma ho risposto a tutte le domande! Non so neanch’io cos’è
successo.»
«…»
«…»
«Guarda che se uno risponde mica lo bocciano. Io non ho fatto
l’università ma…»
«Ecco, appunto: tu non hai fatto l’università. Quindi taci, fammi
mangiare in pace e non rompermi l’anima, che c’ho i maroni girati già
di mio.»
I due non si rivolsero più la parola, per un po’ di tempo.
«Mio padre come sempre non pranza con noi, vedo» riprese Teenva,
con il suo atteggiamento da schiaffi dei tempi migliori.
«Pier non usare quel tono! Tuo padre sgobba per poterti dare tutto
quello che vuoi.»
Teenva afferrò il bicchiere, bevve una bella sorsata d’acqua, deglutì e
con calma appoggiò il bicchiere sul tavolo. Poi di scatto alzò gli occhi e
li rivolse alla madre.»
«E che vuoi anche tu. Mantiene anche te, non scordartelo.»
La conversazione era terminata. Quello che Teenva aveva detto era
l’esatta verità: l’Avvocato Zoboli manteneva sia il figlio Pier che la
moglie. Non solo. Manteneva anche Rebecca, l’amante venticinquenne
di Parma, e Julia, una diciottenne di un piccolo villaggio vicino a
Varadero, a Cuba, dove viveva nella casa intestata al famoso
professionista reggiano con i genitori e altri due fratelli. E dove
l’avvocato Zoboli trascorreva le vacanze ogni sei mesi, a novembre e a
maggio. Era irreprensibile l’avvocato: nel suo Studio legale, dove quasi
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la totalità dei suoi colleghi teneva il crocefisso, lui aveva il ritratto di
Che Guevara, non perdeva occasione per ostentare le proprie idee
comuniste e faceva affari d’oro difendendo la comunità cinese della
città e numerosi altri imputati extracomunitari del nord Italia.
Teenva non lo sopportava.
La moglie aveva capito di non poterne fare a meno, di lui e dei suoi
soldi. Soprattutto aveva capito che non poteva più fare a meno
dell’assenza di suo marito, dei week-end lontano da casa, delle vacanze
a Cuba, dei convegni sempre più frequenti. Sapeva di Rebecca e di
Julia. Sapeva dei tradimenti di suo marito e sapeva anche sopportare.
Lei era una donna bella e intrigante, anche alla sua età, e non aveva
dovuto faticare troppo per trovare una degna consolazione.
Teenva – questo – non lo sapeva.
Lui aveva i soldi, una bella automobile, gli amici e Maria. Sì, c’era
anche Maria nella sua vita, e quel pranzo gli aveva fatto venire voglia di
lei. Salì velocemente in mansarda, dove c’era la sua camera, il suo
studio. Il suo rifugio. Dove era proibito l’ingresso a tutti, donne delle
pulizie comprese. Compose il numero di Maria ma subito realizzò che,
vista l’ora, la ragazza non avrebbe risposto, perché già impegnata
nell’ufficio in cui faceva la segretaria. Accese il computer per
controllare se non fosse arrivata qualche e-mail dall’Hdemia, poi rivolse
tutta la concentrazione a ICQ e alla sua lunga lista di contatti sparsi un
po’ in tutta Europa. Dopo un’ora si stancò, salutò i suoi amici virtuali,
spense il computer e si lasciò cadere sul divano, allungò un braccio
verso il telecomando dello stereo e si addormentò sulle note di un cd di
musica latino-americana acquistato l’estate precedente a Gran Canaria.
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La cena, in casa Zoboli, era il momento più importante e solenne
della giornata: la famiglia si ritrovava attorno al comune desco dopo un
giorno di intenso e proficuo lavoro. L’avvocato Zoboli veniva reso
edotto del buon andamento della casa, la moglie poteva prendere
conoscenza delle mirabolanti imprese del marito, principe del Foro, e
Teenva poteva nutrirsi nella più beata indifferenza da parte dei genitori.
Ma quella sera – lui lo sapeva – non sarebbe andata precisamente in
quel modo. Pier, quella mattina, aveva avuto un esame, all’università.
Diritto Penale. L’avvocato Zoboli voleva sapere tutto.
E seppe tutto, fin troppo presto.
«Pier. È mai possibile che tu ti diverta a farmi questo?»
Eh già, la metteva da subito sul piano personale, il grande avvocato.
«Pà, non ti ho fatto niente. Mi hanno segato: mica l’ho fatto apposta.»
«E’ la terza volta che ti fai bocciare ad un esame da scuole medie: io
alla tua età ero già laureato.»
«…»
«Diritto Penale, poi!»
Il grande avvocato era pronto per la sua filippica. Quindi, sempre
continuando a parlare, distolse lo sguardo dal figlio e lo rivolse alla
moglie, cercando negli occhi della donna il consenso e l’ammirazione
che non trovava in quelli di Pier.
«30. Al primo appello. E il mio professore non era quella
mammoletta che ha lui. Ai miei tempi l’Università di Parma sì che era
dura.»
Pausa. Silenzio teatrale.
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«Lui, invece. Si fa bocciare, il signorino. Tre volte.»
«…»
«…»
«E non dice nulla, ovviamente.»
«Ma papà, cosa vuoi che dica: stai parlando con mia madre!»
«E fa pure lo spiritoso: bravo! Avremo un avvocato clown!» sempre
rivolto alla moglie.
«…»
«E io avrei aperto uno Studio Legale per chi, secondo lui?»
«Non lo capisce. Non capisce quanti sacrifici stai facendo per lui»
La moglie, appoggiando la mano su quella del marito, aveva
benedetto le parole del grande avvocato, ponendo la parola “fine” al
sermone post-esame. Si chiudeva il sipario.
La cena continuò come sempre, con Pier sistematicamente ignorato e
con la signora Zoboli che fingeva di essere interessata a quanto il
marito si sforzava di dirle per mantenere l’apparenza della brava
famigliola. Infine, dopo il caffè, finalmente tutti e tre furono liberi di
dedicarsi ai propri interessi: l’avvocato Zoboli si rinchiuse nello studio,
la moglie in sala davanti alla tv e Pier in mansarda, al telefono con
Maria.
«Sì, lo so, non ti ho cagato per tutto il giorno… dai usciamo.»
«Guarda che sono arrabbiata con te.»
«Su, su non rompere le balle: ti ho chiesto scusa.»
«Non mi hai chiesto scusa.»
«Non l’ho fatto?»
«No!»
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«Ma sei sicura? A me sembrava di averlo fatto… comunque non
stiamo a perdere tempo. Senti cosa facciamo.»
«…»
«Mi vesto, ti vengo a prendere e poi ce ne andiamo a bere qualcosa,
ok?»
«No… non puoi sempre trattarmi così…»
«Mezz’ora e sono da te.»
«Pier, voglio stare sola.»
«…»
«…»
«Come vuoi.»
Teenva lanciò il cordless sul divano e andò a farsi una doccia. Uscito,
prese il cellulare e mandò un sms a Fedele. Attese solo pochi istanti per
la risposta. Si sarebbero visti alle 22, ovviamente da Milva.
***
«E’ stata una grandissima puttana.»
Erano nel loro bar, Teenva e Fedele. Solo loro, appollaiati al bancone
con due birre ghiacciate davanti. Milva stava shakerando qualcosa per
alcuni avventori e Barbara era impegnata in un dialogo serrato con un
cliente abituale.
«Ma tu quando hai intenzione di metterti a studiare davvero quel
benedetto esame?»
«Eh, bello lui. Cosa credi? Ci provo, sai?»
«Ma?»
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«Ma non me ne frega un cazzo, tutto qui.»
«Comunque prima o poi dovrai passarlo, se ti vuoi laureare.»
«Sì, sì, come no. Credi non lo sappia? I miei me lo ripetono tutti i
giorni.»
«Cosa?»
«Che mi devo laureare e che devo prendere il posto di mio padre.»
«Non mi sembri particolarmente entusiasta dell’idea… o sbaglio?»
«E’ che vorrei decidere io della mia vita! È come se qualcuno stesse
decidendo per me, sempre.» Teenva aveva abbassato il tono della voce
e fissava il suo boccale di birra. Fedele aveva riflettuto alcuni secondi
senza dire nulla. Tra i due i silenzi erano stati sempre molto importanti.
«…»
«Perché siamo al mondo? Sempre e solo per obbedire a qualcuno?»
«E tu ti senti un soldatino ubbidiente?»
«Sempre più spesso, Robby. Sempre più spesso c’è qualcuno che ti
dice quello che devi fare, quello che devi dire e pensare e come ti devi
comportare.»
«…»
«E ormai sono stanco. Stanco di dover essere sempre qualcuno che
non mi sento di essere.»
«Ti riferisci ai tuoi genitori?»
«Non solo. C’è Maria, anche.»
Fedele si irrigidì impercettibilmente ma Teenva, attento solo al suo
personale sfogo, non si accorse di nulla. Così come non si accorse della
mutata inflessione di voce dell’amico, molto più timorosa.
«Qualcosa non va con lei?».
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«È che con me si diverte a fare la mamma. Ne ho già una.»
Fedele sapeva molto bene di cosa stesse parlando l’amico. Lo sapeva
talmente bene che ci mise davvero poco a cambiare indirizzo alla
conversazione, virando decisamene verso terreni meno insidiosi e,
soprattutto, meno dolorosi.
Non quella sera. Aveva anche lui troppe tempeste da dover
fronteggiare. E rimorsi.
«Venerdì allora si va al Los Angeles?»
«Non vedo l’ora. Sarà un’altra serata memorabile, lo sento.»
«Il Libero Ricercatope è tutto bello carico. E poi l’inaugurazione del
Los non la si può perdere.»
«…»
«Assolutamente.»
«Già. Non possiamo mancare.»
«Però dobbiamo organizzare bene la ricerca.»
«Il Gran Cià’n’bell’ano sarà dei nostri?»
«Ma và, non ci credo neanche se lo vedo.»
«Oh, dobbiamo inventarci qualcosa per il Discipulo. Figurati che oggi
in ICQ non faceva altro che chiedermi per venerdì.»
«Bè se gli va come l'ultima volta non può lamentarsi.»
***
Il cappellino Ducati si calò deciso sulla testa scura e ovale del Lupo,
aprendo gli orizzonti di una notte famelica. Camicia variopinta ben
aperta sul petto villoso. Catena d’oro in bella evidenza. Jeans neri e
73
Adidas ai piedi. Si guardò un attimo allo specchio, con un ghigno
soddisfatto. Una belva. Stasera non ce n’era per nessuno. Stasera
fanculo anche a Milva e alle mille domande che avevano affollato le
lunghe ore in catena di montaggio per tutta la settimana. Stasera si
chiava, cazzo.
Chiuse rapidamente dietro di sé la porta del minuscolo appartamento.
Chiamò l’ascensore al sesto. Aspettandolo, ascoltò come in sogno il
familiare sottofondo di fonemi arabi e slavi salire lungo la tromba della
scala buia, costante colonna sonora del vecchio formicaio anni settanta
in cui aveva trovato rifugio da quando aveva deciso di trasferirsi al
nord. Il padre di Fedele, cugino di suo padre, gli aveva offerto un
appoggio, un riparo e un paio di indirizzi a cui bussare per trovare un
impiego. Il Lupo era laborioso, serio e orgoglioso. Non era rimasto a
casa dei parenti per un minuto oltre il necessario. Aveva trovato subito
un posto da operaio in una grossa azienda metalmeccanica. Faceva
costantemente turni di notte e straordinari, e presto era stato in grado
di pagarsi l’affitto e di iniziare a risparmiare. Non mandava una lira a
casa. Non voleva saperne più niente della Sicilia e dei siciliani,
nemmeno della sua famiglia. Per lui erano morti, sepolti assieme al
fatalismo e ai baciamano. Lupo orgoglioso, sì. Dopo meno di tre anni
di duro lavoro e pasti frugali, aveva risparmiato abbastanza da coronare
un sogno che adesso brillava lucido nel consueto angolo del
parcheggio, ben al riparo da grandine e portierate. Golf GTI 1.8, bianca
con interni in pelle rossa, impianto stereo Blaupunkt con woofer
preamplificato da 80W, cerchi in lega e adesivo O’Neill da 60 cm sul
lunotto posteriore. Un pezzo di cuore, che pulsò obbediente in
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arancione quando il dito del Lupo premette il telecomando. Chiave nel
cruscotto, 150 cavalli che nitrirono alla pressione del piede
sull’acceleratore. Vai, Silver. Portami al Los Angeles.
***
Mentre la Golf GTI del Lupo divorava l’asfalto ai piedi delle colline
matildiche, diretta verso i tornanti che da Quattro Castella portavano al
leggendario Los Angeles, la Z3 scura di Pier Andrea Zoboli si fermava
in una strada della periferia sud di Reggio, di fronte a un bel
condominio immerso nel verde, di recente costruzione. Teenva non si
prese la briga di scendere dall’auto. Fece scattare lo sportelletto
dell’Ericssonn T39. Elegantissimo e compatto, sul mercato da pochi
giorni. Una figata. Non aveva potuto fare a meno di premiarsi per la
bella prova che sicuramente avrebbe regalato al prossimo appello di
Penale. Un regalino anticipato, comprato giusto poche ore prima.
«Dài finocchio, sono qua sotto.»
Fedele comparve non più di 60 secondi dopo, puntuale come
sempre. Aprendo la portiera fu investito dal martellante unz unz che
identificava da sempre la presenza di Teenva. Meglio così, non aveva
tanta voglia di parlare. Sfortunatamente Teenva abbassò rapido il
volume.
«Allora, sei carico?»
«Quanto basta» mentì Fedele.
«Eddai, stasera sarà una grande serata. Basta seghe mentali, c’è da
divertirsi! Stasera tocca all’Hdemia!»
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Fedele trascinò un sorriso sulle labbra. Teenva. Il suo amico. Da
quanto tempo, non avrebbe saputo dirlo. A pensarci bene non avrebbe
nemmeno saputo dire perché gli volesse così bene, né perché fosse così
a proprio agio con questo maledetto figlio di papà, tanto diverso da lui.
Così lontano dalle sue umili origini, dai suoi interessi, dai suoi gusti.
«Tanto per saperlo: per Sara, dove siamo?»
«Al Los Angeles, punto. Mi sono un po’ rotto di raccontare balle. Se
non ci sono in mezzo delle donne, preferisco sorbirmi qualche muso
storto subito, ma poi andare tranquillo.»
«Hai dovuto litigarci?»
«Ma no… a lei non piacciono le discoteche ‘per principio’, quindi
non è contenta se ci vado. Ma sa che il venerdì con l’Hdemia è sacro…
brontola un po’, ma poi si adegua. Le basta essere tranquilla sul fatto
che non farò il cretino con le ragazze…»
Sorriso eloquente sul volto di Teenva.
«E stasera può stare tranquilla, vero?»
«Ovvio. Mica faccio il cretino. Questa è scienza, cazzo! Mi immolo
per il progresso!»
«Bravo Fedele! Tu sì che sei saggio!» approvò Teenva sghignazzando.
«Tu, piuttosto. Maria è al corrente?»
«Chi? Ma va’, figurati. Dove vado con l’Hdemia sono cazzi miei, non
deve neanche provarci a chidermelo. Al venerdì sera si sta in casa a
guardare un bel film, e soprattutto non si rompono i coglioni.»
Fedele si astenne prudentemente da qualsiasi commento.
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Giunti al parcheggio del Los Angeles non tardarono a individuare il
gruppetto raccolto attorno alla Golf del Lupo. C’erano sia il Discipulo
che il libero Ricercatope. Il Gran Cià’n’bell’ano, come di consueto, no.
Aveva accampato qualche scusa, non importava nemmeno più quale.
Come tante altre volte, aveva gettato lui il sasso dal quale era nata la
serata Hdemica, e sarebbe stato pronto a fare propri i resoconti
dell’indomani, ma niente di più. Gli piaceva stare sullo sfondo, sentirsi
una specie di grande vecchio.
«Illustri colleghi, siete pronti a immolarvi per la scienza?» esordì
salutando Fedele.
Il lupo assestò leggermente il cappellino Ducati sulla fronte, con un
ghigno promettente.
«Stasera faccio una strage! Grande idea ragazzi, si va diretti alla gola!»
Il Discipulo tentò di distogliere lo sguardo di fronte all’occhiata
interrogativa di Teenva, che tuttavia non gli lasciò scampo.
«Discipulo, sarai testimone di una serata storica. Ma che dico
tesimone? Sarai protagonista! E non è escluso che una buona prova
anche stasera ti cosenta di ambire a titoli più alti…»
«Stavo giusto per suggerirlo, nobile Padre» interloquì il Ricercatope.
«Codesto giovine ha dato mirabili prove di perizia et maturità. Mi
domandavo se il consiglio non potesse vagliare una proposta di
avanzamento al titolo di Accolitus.»
«Potrebbe darsi… ma se ne discuterà nelle sedi opportune, dopo
questa importante prova. Stasera non conviene distrarsi…» chiosò
Fedele, indicando con un cenno eloquente del capo un trittico di culi
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ancheggianti che stava poprio in quel momento superando il gruppetto,
in direzione del locale.
«Oh, quanta figa…» ringhiò il Lupo. «Che cazzo stiamo aspettando?»
«Nobile Lupo, frena i tuoi appetiti! » lo bloccò Teenva. «Adesso
andiamo, e ne potrai sbranare quante ne vorrai. Ma prima dobbiamo
riassumere lo scopo della serata, affinchè tutti – e sottolineò la parola
cercando ancora una volta lo sguardo timido del Discipulo –
contribuiscano alla buona riuscita dell’impresa.»
«Concordo con il Dottor Teenvagina» intervenne Fedele. «Questa
serata sarà dedicata alla sperimentazione sul campo dell’inutilità del
corteggiamento, come il nobile Lupo ha più volte teorizzato, sostenuto
dal Gran Cià’n’bell’ano. Pertanto, gli approcci di questa sera dovranno
essere il più possibile diretti, e volti a verificare immediatamente la
disponibilità della fanciulle a concedere il Pregiato Tubero, senza tanti
giri di parole. Vi invito pertanto ad attenervi, ciascuno secondo il
proprio stile, a questo protocollo. A fine serata, o al più tardi domani,
ciascuno relazionerà sull’andamento dei lavori.»
«Amen!» conluse Teenva, passando un braccio attorno alle spalle del
Discipulo e avviandosi risoluto verso l’ingresso del Los Angeles.
Era una serata splendida. L’aria ancora piuttosto fresca, il cielo
punteggiato di stelle e le luci della pianura sotto di loro. A Fedele sfuggì
un pensiero – e tu chissà cosa stai facendo – che scacciò rapido con un
gesto nervoso della mano. In una sera così non ci si poteva far
prendere dalla malinconia. E neanche dal romanticismo. Basta seghe
mentali, aveva ragione Teenva. Il quale, peraltro, sembrava faticare
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poco in questo, baldanzoso e sorridente alla guida del gruppetto.
Fedele, in coda, per qualche istante lo invidiò. Poi allungò il passo e
affiancò il Lupo, giusto in tempo per cogliere l’ennesimo commento
animalesco sulla scollaltura di una prosperosa bionda.
Un senso di ebbrezza e risate facili accompagnò il gruppo oltre
l’ingresso del locale. Come per un tacito accordo, giunti ai bordi della
piscina, si diressero verso il bancone del primo bar e lì si divisero, gli
occhi già tuffati nell’ondeggiare di pelli abbronzate e minigonne sotto il
grande telone della prima pista. Fedele osservava il lampeggiare
ipnotico delle luci sul corpo di una splendida mora fasciata in un abito
beige, che risaltava sulla pelle scura mentre le braccia si alzavano e
abbassavano al ritmo della musica. Le ascelle avevano sempre rivestito
un ruolo importante nel suo immaginario erotico. Gli piaceva pensare
di solcare quelle ombre depilate e il loro profumo pungente, al confine
della pelle delicata che piano si alzava per diventare prima seno poi
capezzolo e ventre e cosce e sesso. Tutto partiva da lì, dal pensiero di
affondare il naso e le labbra in quell’antro denso di ormoni, preludio
alle praterie aperte e generose della sensualità.
«L’ho vista anch’io. Granfiga.»
Il lupo non aggiunse altro. Finì in un fiato il Cuba Libre che gli
avevano appena servito e avanzò deciso verso la mora, che nel
frattempo, ballando, si era allontanata di qualche metro. Fedele non
aveva buone sensazioni. Troppo bella, troppo consapevole di esserlo.
Ballava da sola, nel senso stretto del termine: tutta concentrata su se
stessa e sull’effetto psicotropo della sua fisicità. Le braccia unite si
alzavano sopra il capo, ruotando alternativamente alle anche, con il viso
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rovesciato all’indietro e gli occhi socchiusi. Poi si abbassavano e il capo
si chinava in avanti, fino a portare la fronte al livello delle spalle.
Durante questo movimento le palpebre si aprivano, ma lo sguardo
evitava con cura di posarsi su qualsivoglia essere umano, compiendo
un’altalena costante fra il pavimento e le luci sulla volta del tendone.
Fedele succhiava svogliato il suo Mojito mentre osservava la pancia
fiduciosa del Lupo ondeggiare approssimativamente a tempo, nel
percorso di avvicinamento alla tipa. Faticosamente, nei varchi tra spalle
e capelli della massa danzante, riuscì ad inquadrarlo nel momento in cui
si avvicinava alla preda. Era troppo lontano per cogliere il dialogo, ma
intuì che lui stava cercando di dirle qualcosa. Improvvisamente gli
occhi dell’amazzone recuperarono il contatto con la realtà e si
sgranarono in un istante di sorpresa, prima che la mano destra
abbandonasse il piacevole compito di disegnare armoniose forme
nell’aria, per posarsi con inaudita violenza sulla guancia sinistra del
canide. Fedele non ne poteva essere certo, ma sotto il volume
incalzante della techno la brezza sembrò portargli un “Ma vaffanculo,
troia” perfettamente intonato con l’espressione del Lupo. Il quale,
subito dopo, voltò le spalle alla ragazza e si incamminò leggermente
barcollante, diretto verso nuovi terreni di caccia.
Fedele sorrise di gusto, divertito e ogni volta sorpreso dalla facilità
con la quale il Lupo continuava a buttarsi in avventure quasi sempre
fuori della sua portata. L’approccio doveva essere stato perfettamente
in linea con la missione della serata, a giudicare dalla reazione della tipa.
Però, Lupo, anche tu… si vedeva lontano un miglio che questa non
aveva lo spirito per apprezzare. Con la figa è così – rifletteva Fedele – ti
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fai appannare dall’ormone, da un bel paio di cosce, e perdi la capacità
di leggere i segnali. Lo schiaffone era già scritto nel modo in cui non si
guardava intorno.
Quella là appoggiata al bancone, invece, prometteva decisamente
meglio. Al massimo vent’anni, forme rotondette ma non eccessive,
carina ma senza pretese. Qui l’asticella era più bassa, lo vedevi
soprattutto dagli sguardi attenti, dalle guance rosse e dai larghi sorrisi,
spesso maliziosi, che scambiava commentando con l’amica-scorfano
quello che accadeva intorno a loro. Anche il look, piacevole ma poco
panteroso, ispirava simpatia. Avrebbe dovuto muoversi anche lui, in
fondo erano lì per sperimentare. Però non ne aveva una gran voglia.
Nonostante tutto l’impegno, era sintonizzato su altri canali. E poi
stasera rischiava parecchio. Le probabilità che Sara venisse a
conoscenza dello scopo della serata erano indubbiamente remote, ma il
Los Angeles era un vero must delle notti estive reggiane. Aveva incrociato
già parecchi volti noti, e Sara cominciava a conoscere molta gente. Una
percentuale di rischio c’era di sicuro.
Pensava queste cose, convivendo con il solito retrogusto fastidioso di
colpevolezza, mentre continuava a guardare la fresca ragazzotta e le
goccioline sull’etichetta della sua Corona, con un’insistenza involontaria
che l’attenta puledrina non mancò di notare. Fedele se ne accorse quasi
subito dai sorrisini concitati che scambiò con l’amica, la quale in modo
piuttosto plateale si girò per lanciargli un’occhiata da sopra la spalla.
Cazzo, se me la metti davanti alla linea di porta…
Si trascinò senza troppa convinzione giù dallo sgabello, e finse
goffamente un’improbabile casualità nei movimenti per guadagnare
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venti centimetri di bancone libero proprio accanto all’obiettivo. Da
vicino, brillava di normalità. Capelli lisci castani appena sopra le spalle,
maglietta attillatamanontroppo, rosa con D&G scritto a brillantini,
Short scuri su gambe segnate da una lieve cellulite che non prometteva
un futuro da indossatrice. Per quanto eroticamente poco coinvolto e
attento a mantenere l’approccio scientifico utile a dargli il necessario
distacco, un attimo prima di parlare Fedele era discretamente
preoccupato. Lo comprese percependo una fastidiosa tachicardia, e
temette per un attimo di essere effettivamente nervoso. Si fece forza,
pronto a incassare anche lui il suo schiaffone. Lo doveva all’Hdemia,
non poteva presentarsi da Milva senza nemmeno un tentativo.
«Ciao.»
Lei si voltò, dissimulando malamente l’entusiasmo che le guance
subito arrossate tradirono. Fedele la guardò solo un istante negli occhi,
registrò il naso largo e gli occhi luminosi, e si affidò al suo stile.
«Scusami, ti stavo osservando. Trovo che tu sia decisamente
gradevole. Mi domandavo se poteva interessarti l’idea di fare sesso con
me, stasera.»
Lo stupore si dipinse negli occhi della ragazzina, la bocca
graziosamente immobilizzata in un muto “oh”. Fedele vedeva la scena
al rallentatore, gli sembrava di percepire i muscoli della spalla di lei
tendersi per armare il ceffone. Invece toccò a lui stupirsi, vedendo le
labbra stirarsi e aprirsi in quella che inequivocabilmente era una grassa
risata.
«Ma come? Me lo chiedi così?!» disse sinceramente divertita.
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«E come devo chiedertelo? Purtroppo sono a corto di rose e violini,
stasera.»
«Ma che fenomeno! Beh, però sei forte… come ti chiami?»
«Sono Robby, piacere. Tu?»
«Francesca. E lei è Simona.»
I convenevoli proseguirono per qualche minuto, ma Fedele realizzò
presto che Francesca non era molto per la quale, come avrebbe detto il
Libero Ricercatope. Il fidanzatino era in arrivo assieme agli amici, lei lo
stava aspettando, e lui non voleva certo rovinare la serata Hdemica con
una rissa fuori programma. Si salutarono con un bacio sulla guancia e
gli auguri per una bella serata.
Fedele, un po’ frastornato, si allontanò dalla pista diretto al bordo
della piscina, domandandosi che cosa avrebbe fatto se gli avesse
risposto di sì. Aveva dato per scontato un rifiuto violento, perché, al di
là del formale entusiasmo per le teorie del Gran Cià’n’bell’ano, non
aveva troppa fiducia nell’evoluzione della specie. Soprattutto di quella
femminile. Di Valentine non ce ne erano molte in giro, si sorprese a
considerare con un compiaciuto sorriso misogino.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal saluto di Teenva, proprio
alle sue spalle.
«Allora cucador, quanta passera hai impallinato?»
«Guarda, ho appena incassato il mio personalissimo duedipicche.»
Teenva alzò i sopracigli e si posizionò nel suo sorriso strafottente,
senza dire nulla. Fu Fedele a continuare.
«…ma con classe, of course.»
«Mhh, sì, come no.»
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«E tu?»
«Devo ancora scendere in pista. Lo sai che mi piace farmi un bel giro
per la disco, appena arrivo.»
«…»
«Eppoi sono stato impegnato con il Discipulo.»
«Come è andata?»
«Mmh, non mi sembrava particolarmente concentrato e allora gli ho
fatto un po’ di tutoraggio… non so se intendi…»
I due si guardarono con i loro sorrisi perfidi migliori.
«Posso solo immaginare…»
«Alessia, un’ amica lap-dancer di una mia amica: possibilità di riuscita
sottozero.»
«Ceffone?»
«Un calcio che per poco non gli spaccava il ginocchio. L’ho portato
via giusto in tempo…»
«Sei il solito figlio di puttana… tutto nella norma.»
«Comunque il gin tonic l’ho finito, ho salutato chi dovevo salutare e
ora mi metto a lavorare.»
Davanti a loro il Lupo ballava goffamente ai bordi della pista sudata,
lanciando occhiate grondanti ormoni in ogni direzione.
«Guardalo: ha perso la bussola.»
Fedele si mise a ridere.
«Povero Lupo.»
Teenva scese dallo sgabello, appoggiò il bicchiere vuoto e si diresse
verso la pista. Si mise subito a ballare seguendo il ritmo. Sembrava non
guardare nessuno, tutto concentrato unicamente su se stesso e la
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musica, ma non era così. Aveva adocchiato una ragazzina, al massimo
ventenne, con mini nera e body bianco attillato a disegnare curve
pericolose. Capelli neri con velature blu elettrico completavano un
quadro che a Teenva parve degno di essere contemplato. Ballava quindi
con una studiata indifferenza per ciò che gli stava attorno, quando sentì
il fiato pieno di birra del Lupo dirgli qualcosa.
«Oh, ma quanta ce n’è?»
«Tanta Lupo, tanta…»
«Quali sono le prossime prede?»
Teenva rallentò il ritmo e si avvicinò all’orecchio dell’amico.
«Nobilissimo Dottore, sa che in discoteca quando si è in due uno è di
troppo, quindi stia a guardare. La vede quella ragazzina?»
«Ma… ha i capelli blu!»
«No, neri con riflessi blu. Una figata. Dammi cinque minuti e la
vedrai venire a ballare da me.»
Teenva si allontanò un poco dal Lupo, regalandogli una pacca sulle
spalle senza dargli il tempo di una replica. Ricominciò a ballare,
seguendo traiettorie note soltanto a lui. Ballava e il Lupo guardava.
Non succedeva nient’altro. Eppure, dopo un po’ di tempo, la ragazza
incominciò a volteggiare verso Teenva, come se una misteriosa forza li
attraesse l’una verso l’altro, e così, senza che si fossero mai guardati
esplicitamente, si ritrovarono vicini, sempre più vicini. Teenva guardava
i suoi amici al bar e rideva: sapeva che lei era lì, alle sue spalle. Si
concentrò sulla musica, muovendosi fluido finché con una studiata
piroetta gettò i suoi occhi in quelli della ragazza.
E ci annegò.
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Teenva vacillò, andò fuori tempo e inciampò in se stesso. Lei rise
coprendosi la bocca con le mani ed entrambi si fermarono, incerti. Poi
il tempo accelerò vorticosamente, lui fu più rapido a riprendersi, le si
avvicinò prendendole le mani tra le sue.
«Sei la mia regina… ti va di fare l’amore con me, qui e adesso?»
Quello di Teenva fu un sussurro, con una lieve incrinatura della voce,
sorprendendosi intimorito ed emozionato.
«Sì, ne dubiti forse? Vieni.»
Teenva continuava ad annegare. Cercava appigli, ma la corrente era
troppo forte.
Fedele e il Lupo rimasero di pietra, osservandoli lasciare la pista
mano nella mano.
«Figa! Robby ce l’ha fatta! È un dio!»
«Aspetta Lupo, potrebbe essere uno dei trucchi di Teenva.»
Fedele buttò giù una bella sorsata di birra, nel tentativo di ricacciare
indietro una sgradevole sensazione di invidia.
«Cioè?»
«Magari sta recitando. E noi siamo, come sempre, il suo pubblico.»
Fedele non rideva più, sorpreso a sperare che fosse davvero uno
scherzo.
«Certo che sei proprio un bel tipo.»
«Grazie… anche tu non scherzi.»
«Prima mi chiedi se voglio fare l’amore con te e poi mi lasci a bocca
asciutta!»
«E’ che non vorrei lasciare a piedi i miei amici.»
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«Uhm, di scuse me ne hanno rifilate di più convincenti. Almeno ti va
di baciarmi o rischi di lasciare a piedi qualcuno?»
Teenva era disorientato. Quella ragazza era completamente fuori
dagli schemi che conosceva. A guardarla bene, così da vicino, non le
avrebbe dato più di diciassette anni. Il naso piccolo, lievemente alla
francese e poche lentiggini a disegnare arazzi sul volto perfetto.
«Ehi! Ma quella non doveva essere la mia battuta?»
Cercava di recuperare terreno, il giovane.
«Sono già le due passate, se devo aspettare te forse facciamo prima ad
andare a fare colazione.»
«Ma tu fai così con tutti quelli che incontri?»
«No, solo con te. Baciami adesso.»
Le labbra di Pamela erano vellutate, il seno era marmo sotto le dita
incerte di Teenva.
Si lasciarono dopo un tempo che parve infinito.
«Ehi, non fare che poi perdi il mio numero, ok?»
«Non succederà. Prometto» disse Teenva facendosi una croce sul
cuore.
«Sono la tua regina, ricordalo. E ricorda anche che sei il primo ad
avere quel numero.»
«…»
«Bene. Adesso chiamo le mie amiche.»
«Ahh, non sei sola.»
«Certo che no. Ma appena ti ho visto le ho pregate di lasciarmi
lavorare in pace…»
87
Si guardarono sfidandosi con gli occhi per un po', poi Teenva
scoppiò a ridere.
«Ti chiamo.»
«Tranqui.»
Teenva la guardò alzarsi e dirigersi verso alcune ragazzine, uscendo
dalla sua visuale. Soltanto dopo alcuni minuti cercò di realizzare quanto
era accaduto.
Si alzò anche lui dal divanetto e cercò i suoi amici.
Non pensava ad altro che a lei.
***
Quando Fedele, il Lupo e uno smarrito Discipulo varcarono la soglia
del bar Milva erano passate da poco le 3. Il Libero Ricercatope era
uscito insieme a loro, ma era andato direttamente a casa. Un impegno
non meglio precisato per il mattino seguente gli aveva imposto un
rientro precoce. Aveva comunque fatto in tempo a relazionare
sull’andamento della serata, stimando in un apprezzabile 30-40% le
ragazze che, con differenti gradi di divertimento, avevano mostrato di
non disprezzare l’approccio diretto, pur senza arrivare a concedersi. In
linea con quanto anche gli altri avevano potuto rilevare, con l’eccezione
del Lupo.
«Quarantapercento un cazzo! Quattro schiaffoni e due vaffanculo, ho
preso. Solo una mi ha leggermente cagato. Un troione, quarant’anni
come minimo. Fortuna che non ci stava sul serio, se no mi toccava
anche chiavarla.»
88
I tavoli neri erano addobbati della consueta fauna, ma non era serata
di grande pieno. Qualche faccia disperata, il solito travestito del venerdì
sera e un tavolo di amiche trentenni, visibilmente fumate. La musica era
più bassa del solito, una sorta di funk contaminato da deviazioni jazz.
Dove andasse Milva a scovare quei CD, rimaneva un mistero.
Si appollaiarono intorno a uno dei due tavoli rotondi e alti, sugli
sgabelli dai quali potevano dominare tutto il locale. Era il loro angolo,
quello della tarda serata. Pochi minuti dopo, Barbara e il suo taglio di
capelli a spazzola portarono due birre e un calice di rosso fermo per
Fedele. Non avevano nemmeno ordinato, era una sorta di rituale che
ormai la giovane aiutante di Milva conosceva a memoria.
«Ciao ragazzi. Siete in pochi, stasera.»
«Già. Il Ricercatope è scappato a nanna, e Teenva… beh, Teenva ha
di meglio da fare, sembra» rispose Fedele con un sorriso più che
eloquente.
«Ma dai. Non ditemi che ha rimorchiato! Adesso che ci penso: era
stasera che dovevate fare quell’esperimento?»
«Esatto.»
«Voi siete fuori… Ma avete fatto proprio come dicevate?»
«Al cento per cento. A noi non è andata benissimo, come vedi. Però
Teenva ha avuto successo.»
«E lei com’era?»
«Mah… giovane. Almeno così sembrava, ma nessuno l’ha vista molto
da vicino. Poi, a un certo punto sono spariti.»
Il Discipulo sorrideva soddisfatto nel sentire narrare le gesta di
Teenva, e ancor più nell’osservare la faccia divertita di Barbara, che
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sembrava dire ‘però, chi l’avrebbe mai detto!’. Nonostante l’ennesima
vessazione subita, era fiero di Teenva. Lui non ne sarebbe mai stato
capace.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, Fedele gli stampò una fragorosa
pacca sulla spalla.
«Grande il tuo Teenva, eh Discipulo?! Ma vedrai che la prossima
volta andrà bene anche a noi. E poi tu venerdì scorso hai dato a tutti
una bella lezione, non puoi lamentarti!»
Mentre il Discipulo cercava di sottrarsi all’attenzione affondando il
naso nel bicchiere, il Lupo gettò uno sguardo dietro il bancone. Milva
preparava un cocktail con il viso serio e teso. Portava pantaloni scuri e
un body senza maniche tigrato. Onde di capelli rossi guizzavano con i
movimenti delle spalle muscolose. Shackerava con una forza strana,
anche per lei. Quasi rabbiosa. Non era nemmeno venuta a salutarli.
Strano.
Bastò questo a far dimenticare del tutto al Lupo l’allegria Hdemica,
precipitandolo di nuovo nei pensieri che lo avevano assillato per tutta la
settimana. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non ne aveva il coraggio.
Vedendo il profilo magrissimo di Barbara muoversi con un vassoio
dall’altra parte del locale, decise di cogliere la palla al balzo. Si alzò e la
raggiunse. Barbara stava liberando un tavolo dai bicchieri vuoti.
Quando lo vide, sorrise con gli intensi occhi a mandorla, ma capì
subito dall’espressione seria del Lupo che qualcosa non andava.
«Tutto bene?»
«Veramente… non so. L’altro giorno, ricordi? Lunedì. Quando è
tornata Milva. Scusa, ho sentito qualcosa. Non ho capito bene, però mi
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sono preoccupato. Eravate molto serie. E Milva… è tutta la settimana
che sembra incazzata. Volevo solo sapere se... insomma, se posso
aiutarvi in qualche modo.»
Mentre il Lupo parlava, il viso delicato di Barbara era passato dalla
sorpresa all’imbarazzo, fino a un’evidente preoccupazione. I suoi occhi
scrutavano quelli del Lupo con intensità.
«Cosa hai sentito, esattamente?»
«Mah, non sono sicuro. Qualcosa su chiudere il bar, credo. È vero?»
«Ma no… no, Lupo. Stai tranquillo. È tutto ok. Casini normali,
quando si gestisce un bar. Roba di permessi… burocrazia. Adesso
scusami, devo andare.»
Il pallore del viso e il tremolio della voce, però, dicevano qualcosa di
molto diverso. Il Lupo guardò una volta ancora verso il banco, e
stavolta incrociò gli occhi scuri di Milva. Fu sufficiente a fargli passare
la voglia di fare altre domande. Appoggiò una banconota sul tavolo
degli amici e mormorò una rapida scusa. Poi se ne andò a dormire,
senza nemmeno salutare.
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CAPITOLO QUARTO
Dove si disserta di chiome e rasoi
Data: martedì 23 maggio 2000
DA: dr. Fedele ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
CC: Ciambellano ( [email protected])
Oggetto: Collatio Hdemica
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA
Ordinario: dr. Fedele Della Passera
Eccellentissimi,
onore e vanto a tutti voi! La serata sperimentale, che ha visto le
Illustrissime Signorie Vostre tenere alte le insegne dell’Hdemico
Spritus in quel di Bergonzano, può a buon diritto fregiarsi del titolo di
Serata Maxima, per il contributo mirabile che essa ha fornito
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all’espandersi della Scientia Nostra. Un plauso particolare va poi al
Magnfico dottor Teenva, il quale pare abbia assai profondamente
affondato il proprio Ingegno – e non solo quello – nell’Hdemica
Quaestio – e non solo in quella –.
Dopo le ultime, feconde sessioni sperimentali del Nostro ConSesso,
pare giunto il momento di ristorar le membra e i membri, meditando
come si conviene sull’accaduto onde trarne subitamente nuovi et
corroboranti spunti per il futuro. Propongo pertanto al Consiglio Tutto
di riunirsi, in seduta plenaria, presso la Sede Hdemica il prossimo
Venerdì 25 maggio, ove potremo mettere a fattor comune riflessioni
e proposte, godendo dell’illuminata ispirazione che la nostra musa
Milva saprà come sempre regalarci.
in Vulva Veritas
Fedele Dr. Della Passera - figosofo
martedì 23 maggio 2000
La solita serata da Milva insomma, pensò il Lupo spegnendo il pc e
agguantando il lungo camice verde, fresco di lavatrice. Pochi minuti
dopo era al lavoro, dopo aver parcheggiato con cura la Golf GTI nel
“suo” posto, un angolo ombreggiato e lontano dall’ingresso della
fabbrica, dove nessuna operaia imbranata avrebbe rischiato di
ammaccarla con qualche goffa manovra. Gli piaceva l’idea di un
venerdì tranquillo, gli ultimi due erano stati una delusione. Prima quelle
ciccione, poi le fighette del Los Angeles, buone solo a bere dei Mojito e
a fartela annusare. Gli andava di starsene un po’ tra uomini a sparare
cazzate. C’era di buono che poi, di persona, Fedele e Teenva e gli altri
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la smettevano subito di usare tutti ‘sti paroloni. Il Lupo si divertiva con
le mail e la farsa dell’Hdemia, ma non era a suo agio con quel modo di
parlare. Aveva anche il sospetto che lo prendessero un po’ per il culo.
Anzi, ne era quasi certo. Ma erano amici, gli volevano bene, e lui ne
voleva a loro. Non se la prendeva, no. Se non fosse stato per loro
sarebbe stato solo un terrone senza radici. Lo avevano accettato subito,
così com’era, l’avevano fatto entrare nel loro gruppo, lo avevano
sempre rispettato. Sì, gli volevano bene.
«Ciao Lupo! Oh, l’hai vista quella nuova?»
Il saluto del Rosso veniva dal solito crocchio di sfigati alla
macchinetta del caffè. Il Lupo stava al gioco, sempre.
«No, c’è una nuova? Chi è, quella là? Minchia che topa… Se non sta
attenta ce la mangio cruda!»
Lo scoppio di risate che salutò la battuta lupesca era quello tipico di
chi ha ricevuto esattamente quanto si aspettava. Li aveva accontentati.
Sorridendo famelico, strizzò l’occhio e si diresse rapido verso la sua
posizione lungo la linea di assemblaggio.
«Che personaggio, quello lì!» disse soddisfatto il Rosso, osservando il
passo ciondolante del Lupo.
«Già, fa morir dal ridere. Però non è solo un buffone, dicono che
lavora bene.»
«Puoi dirlo forte. Io ci sono spesso di fianco. È una macchina.
Quando comincia a lavorare diventa un altro. Serio, veloce. Non si
ferma un attimo, e non sbaglia mai. Se tutti i terroni fossero così…»
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Al Lupo piaceva il suo lavoro. Non era un lavoro di cervello, ma
bisognava stare attenti e concentrati. Ogni tanto, fra un turno e l’altro,
si faceva un giro in magazzino, a guardare i motori finiti. E si sentiva
bene, perché sapeva che lì c’era anche la sua fatica. Era rimasto
qualcosa. Si vedeva e si toccava, il suo lavoro. Non gli piacevano quelli
che si impegnavano poco, che facevano il meno possibile. Lui ce la
metteva sempre tutta, era bravo e gli altri lo sapevano. Questo lo
sentiva. Anche se poi dietro lo chiamavano terrone e lo prendevano per
il culo, lui sapeva che si era guadagnato il rispetto di tutti.
Di solito, mentre lavorava, il Lupo riusciva a stare molto concentrato.
Nelle ultime due settimane, però, il pensiero di Milva lo assillava più del
solito. Non al punto di farlo rallentare o sbagliare, ma troppo spesso si
era accorto di pensare a quello che aveva sentito, e alla faccia di
Barbara mentre cercava di negare. Non era convinto, per niente. Il
giorno prima non era nemmeno andato a scrivere da Milva, come ogni
lunedì, quando smontava dal turno di notte. Non ce la faceva a
concentrarsi sul suo libro, e l’idea di trovarsi solo nel locale, per
qualche strana ragione, invece di attirarlo lo spaventava. Però aveva
voglia di vederla. Sempre. Avrebbe voluto averla lì vicino anche in
questo momento. Solo per guardarla, senza bisogno di dire niente. Solo
per vederla muoversi e lavorare.
Decise che avrebbe passato la serata da Milva. Da solo, con una birra
e i giornali. Stare a casa a guardare la televisione era una rottura.
Preferiva rintanarsi là. Magari gli sarebbe anche venuta qualche buona
idea per continuare il romanzo. Stava quasi pensando che Rosalba, la
protagonista, avrebbe potuto tradire Goffredo con Luigi, lo stalliere.
95
Che poi si sarebbe scoperto essere il fratello, dal quale era stata seprata
alla nascita. Ma era complicato, doveva pensarci bene. E da Milva si
pensava meglio.
Poche ore dopo la sigaretta del Lupo bruciava lenta, brace rossa fra
gli arredi in nero e i neon azzurri, riflessa nello specchio dietro al
bancone. Era seduto in un angolo piuttosto lontano dall’ingresso,
girato verso l’interno del locale. Nel piatto che aveva contenuto la sua
piadina preferita – speck, fontina e salsa ai funghi – restavano ormai
poche briciole. Anche la birra scura era quasi terminata, e il Lupo si
stava interrogando su alcuni importanti quesiti. Il primo e di più
urgente soluzione consisteva nel decidere se a questo punto sarebbe
stato meglio un wisky o una grappa. Il secondo riguardava Rosalba e la
scena di sesso con lo stalliere. In particolare, si chiedeva se un pompino
ben fatto sarebbe stato consono alla delicata anima della sua eroina. Il
dilemma era duro da sciogliere, anche ripensando ai suoi modelli di
riferimento. Non ricordava niente di simile né in Silenzio e onore di
Danielle Steel, né in Le bianche dune della Cornovaglia di Rosamunde
Pilcher. D'altronde il suo lavoro doveva avere personalità, essere
originale, non poteva soltanto imitare i romanzi più grandi. Doveva
pensarci ancora.
Il terzo quesito riguardava Milva, naturalmente. O meglio, la sua
assenza. Di solito al martedì, serata fiacca, Barbara si prendeva un
turno di riposo, c’era solo Milva. Stasera, invece, i capelli a spazzola e la
figura magrissima della giovane aiutante monopolizzavano la scena.
96
L’ennesimo fatto insolito, un altro segnale che agli attenti occhi del
Lupo non poteva passare inosservato.
Proprio quando aveva finalmente deciso di optare per una grappa e
un caffè, la sua neonata intenzione di ordinare fu spazzata via
dall’immagine devastante di Milva che entrava nel locale, gli occhi seri e
il passo deciso. Devastante perché la folta chioma rossa era diventata
una criniera lucente, intorno al volto della più splendida leonessa che il
Lupo avesse mai sognato di poter vedere. Ne rimase letteralmente
folgorato. Non l’aveva mai vista così, pesantemente truccata e avvolta
in un abitino attillato e cortissimo, rosso scarlatto sopra stivali neri e
calze a rete. Qualcuno avrebbe potuto definirla volgare, ma al Lupo
non erano rimasti sufficienti vocaboli a disposizione per esprimere il
turbamento che tanta sensualità gli stava scatenando dentro. Solo dopo
qualche minuto di contemplazione estatica realizzò che si trattava
dell’ennesima stranezza, acuita dal fatto che di lì a poco Milva era
sparita nella piccola cucina dietro al banco, senza degnare di un saluto
né lui né Barbara. Giusto il tempo di registrare l’anomalia che un tizio
magro, in giubbotto di pelle e capelli brizzolati, si avvicinò al bancone e
fece un cenno a Barbara. Un istante dopo Milva comparve dietro al
bancone. Scambiò qualche parola sottovoce con il tizio, che il Lupo
non poté afferrare. Vide però con chiarezza che lui le stava allungando
qualcosa, forse un biglietto.
Quando il Lupo vide Milva leggere il biglietto e avviarsi di nuovo in
cucina, per uscirne un attimo dopo con una piccola borsetta rossa e le
chiavi della macchina in mano, agì d’istinto. Lasciò i soldi della
consumazione sul tavolo, salutò Barbara con un cenno, e con studiata
97
indifferenza uscì dal locale, appena in tempo per vedere Milva infilarsi
nella sua Ford Fiesta nera e avviare il motore.
***
Le cifre rosse della radiosveglia sul comodino illuminavano di un
tenue bagliore rosso il viso addormentato di Fedele. Le 03.12. Nel
sentire lo squillo del cellulare, a pochi centimetri dall’orecchio, aprì
rapidamente gli occhi. Aveva l’abitudine di lasciarlo acceso anche la
notte, soprattutto da qualche settimana. Talvolta arrivavano messaggi
alle ore più improbabili, anche brevi pensieri. Cose come “Sto
ascoltando il silenzio della mia stanza. E’ così bello”. E niente di più.
Valentina sapeva che lui avrebbe letto anche le parole non scritte. Non
si aspettava però una vera e propria telefonata. Ancora confuso e
semiaddormentato scrutò il display del telefonino. “Lupo”. Lupo? Ma
cosa…?
«Lupo. Che succede?»
«Ciao Fedele. Senti, sono qua sotto. Mi fai salire?»
«Cosa? Sì… sì, certo, ma… cazzo Lupo, sono le 3… i miei dormono.
Meglio se scendo io. Dammi cinque minuti.»
Fedele si vestì il più silenziosamente possibile e scivolò fino alla
porta, sicuro di riuscire a non svegliare i genitori.
«Robby? Sei tu? Dove stai andando?»
Cazzo. Niente mamma, dormi. C’è il Lupo che ha bisogno di una
cosa, faccio in un attimo. Sì lo so che sono le tre. Non preoccuparti
torno subito.
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In strada il Lupo fumava nervosamente dal finestrino della Golf.
Fedele salì dal lato del passeggero. Sopprimendo uno sbadiglio, guardò
il Lupo. Aveva la faccia seria e tesa. Ma non parlava. Fedele attese,
paziente.
«Milva.»
«…?»
«C’è qualcosa che non va, Robby. Qualcosa di strano.»
Il Lupo raccontò a Fedele dello strano dialogo tra Barbara e Milva,
della reticenza di Barbara, e soprattutto di quella sera.
«L’ho seguita fino in centro. Con la macchina, prima. Poi a piedi,
cercando di tenermi lontano. È andata in via Emilia, ha suonato a un
portone ed è sparita. Sono stato ad aspettarla lì fuori fino a poco fa.
Quando è uscita per poco non mi vedeva. È tornata alla macchina, poi
è andata casa. È rimasta là dentro per più di quattro ore.»
«Aspetta Lupo… fammi capire. Forse sono ancora addormentato,
faccio un po’ fatica. Mi stai dicendo che hai pedinato Milva e sei stato
quattro ore ad aspettarla fuori da un portone in via Emilia?»
«…»
«E questo perché ti sembra di avere sentito qualcosa di un discorso fra
lei e Barbara… qualcosa su cui poi Barbara ti ha tranquillizzato, no?»
«Tranquillizzato un cazzo. Te l’ho detto, aveva la voce che tremava.
Raccontava balle. E poi dovevi vedere come era vestita Milva stasera.
Minchia Robby. Era bellissima, ma non era lei. Non era lei.»
« … Lupo… io capisco, ma… cioè, no, in realtà non capisco. Perché
sei così preoccupato?»
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«Ma come? Non vedi? C’è qualcosa che non quadra, per forza.
Secondo te perché fa così?»
Fedele rimase un attimo in silenzio. Era piuttosto seccato per quella
sveglia inaspettata. Dal suo punto di vista non c’era alcun legame tra il
dialogo con Barbara e l’uscita di Milva. Quest’ultima, poi, ai suoi occhi
era la cosa più normale del mondo. Milva era una donna bella e
indipendente, ci sarebbe stato da stupirsi se non avesse avuto delle
storie. Ma il Lupo era molto turbato, come a Fedele non era mai
successo di vederlo. Doveva andarci piano.
«Lupo… ascolta… non è detto che Barbara ti abbia mentito per
forza. Quanto a stasera, beh… ci sta che Milva possa essersi fatta bella
per… per qualcuno, no?»
Silenzio stupito del Lupo. Non ci aveva ancora pensato.
«Vuoi dire… un uomo?»
«Eh…»
Al Lupo servirono almeno altri dieci secondi di riflessione per
scacciare l’idea.
«No, impossibile. Troppo strano, tutto. Perché è partita dal Bar e non
da casa sua? Cos’era quel biglietto? Chi era il tizio con il giubbotto? E
poi non ha incontrato nessuno, non aveva l’aria di un appuntamento.
Voglio dire, niente aperitivo, niente cenetta, niente cinema o cazzi del
genere. È solo andata in quel portone, c’è stata quattro ore, poi è uscita.
Troppo strano. Più ci penso più mi convinco che c’è sotto qualcosa.»
100
Mercoledì, 24 maggio 2000
Quando Teenva e Maria uscirono dal cinema era molto tardi.
Mercoledì, cinema. Da bravi fidanzatini.
Lui durante il film non aveva fatto altro che pensare a Pamela,
conosciuta soltanto il venerdì prima. Per tutto il sabato si era costretto
a non chiamarla, ma per ore aveva bighellonato nella sua mansarda con
il numero della ragazza in mano.
Poi, poco prima dell’ora di cena, aveva ricevuto un sms.
“Domani pomeriggio andiamo al cinema? Scegli tu cosa andare a vedere. Mi
manchi da morire. T.V.T.B. Pam.”
Aveva letto e riletto quel messaggio almeno venti volte, con il cuore
che batteva e gli occhi che luccicavano. Poi era sceso, aveva preso
l’auto ed era andato da Milva, a fare orario prima di andare a prendere
Maria, per il consueto sabato sera.
La domenica con Pamela, invece, aveva trascorso ore molto
piacevoli. Prima al cinema, in ultima fila e poi in macchina, appartati in
una stradina di periferia, vicino a Rivalta. Lì, tra le cosce della giovane,
aveva capito cosa avrebbe dovuto fare con Maria. Doveva farlo. Il
mercoledì sera sarebbero andati al cinema e poi l’avrebbe scaricata,
senza pensarci troppo. Magari sarebbero andati a vedere proprio il film
che aveva visto con Pamela. Gli era piaciuta subito l’idea.
«Vuoi andare a bere qualcosa?» chiese Teenva a Maria, senza troppo
entusiasmo, davanti all’uscita del cinema.
«Non saprei, tu ne hai voglia?»
«Ti riporto a casa» chiosò deciso.
101
Teenva si cacciò le mani in tasca e non disse più nulla. Passarono
davanti al Lord Nelson, con la strada stipata di ragazzi appollaiati sugli
scooter con boccali di birra in mano, e arrivarono al parcheggio.
Lui azionò l’apertura elettrica del suo Z3, accese il motore e uscì dal
parcheggio. Solita strada del ritorno per Teenva: una calma passeggiata
in automobile per le vie del centro storico della città, prima di
riaccompagnare Maria a casa. Non parlarono per tutto il tragitto.
«Ci sentiamo domani pomeriggio?»
Maria aveva appoggiato la testa sulla spalla di Teenva, lui aveva
spento il motore. Era una notte stellata, silenziosa, nell’immediata
periferia della città. Restarono in silenzio per un bel po’.
«Devo dirti una cosa.»
Teenva si stupì di sentire la sua voce, roca. Aveva la gola secca. Maria
alzò la testa e lo guardò, senza dire nulla.
«Credo di non amarti più.»
Un soffio, ma quanta fatica. Lei subito non capì. Fu il suo stomaco a
capire tutto. Avvertì una contrazione fortissima e sentì la sua voce,
come se non appartenesse a lei.
«Ma… non mi stai lasciando…vero?»
Lui non capiva bene cosa stesse provando. Per la prima volta si
sentiva insicuro, incerto. Scacciò via il pensiero di ritornare sulle
proprie decisioni, si ripeté mentalmente che ormai non poteva
rimangiarsi tutto: doveva andare avanti. Doveva lasciarla. Ma non disse
nulla.
«Pier…?»
102
Teenva pensò a Pamela, alle sue labbra, ai suoi capezzoli. Si sollevò
un poco dallo schienale.
«Dai Maria, scendi. Cos’altro vuoi da me?»
«Come cosa voglio?»
«No, ti prego non metterti a frignare, okkey?»
«Ma… almeno parliamone. Se ho sbagliato…»
«E’ finita Mary, cazzo c’è da dire? Dai, forza. Scendi.»
Teenva si allungò e aprì la portiera a lato di Maria. Lei lo guardò
incredula. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Teenva tamburellò
nervosamente con le dita sul volante dell’auto.
«Sei uno stronzo, Pier» disse lei mentre scendeva dall’auto.
«Sì, va bene. Ora vai a letto» sibilò lui richiudendo la portiera e
sgommando via per sempre dalla sua vita.
Guidò per tanto. Non aveva nessuna voglia di andare a casa. Era
come se qualcosa non gli tornasse. Con Maria era finita, davvero. Ora
poteva pensare soltanto a Pamela. Ma c’era sempre qualcosa che non
andava, come una punta di inquietudine. Mandò un sms a Pamela:
“Ti voglio”
Voleva spingere sull’acceleratore con lei. Sentiva che quella poteva
essere la strada giusta. Si meravigliò due minuti più tardi quando il suo
cellulare lo avvertì dell’arrivo di un sms. Era lei:
“E allora vieni a prendermi”
Rise dando un pugno al volante. Anche lei era ai suoi piedi. Venne
invaso da un profondo benessere.
***
103
«… insomma, il Lupo è preoccupato, parecchio. Non l'avevo mai
visto così. Dice che Milva si è messa in un brutto casino, ne è
convinto.»
Fedele parlava passeggiando fra i libri di diritto e i fumetti accatastati
sulle mensole del suo piccolo studio. Era il momento più importante
della giornata, quello in cui aveva ormai imparato a stordire con
efficacia la propria coscienza. Non era stato così difficile, il più era stato
rispondere la prima volta al telefono. Mandare giù quel sapore
metallico che qualcuno avrebbe potuto anche chiamare paura. A tutto il
resto aveva pensato il timbro allegro e fresco della voce di Valentina.
Gli argomenti in comune erano passati con naturalezza dalla tastiera
alla conversazione, arricchiti da sorrisi, vibrazioni e qualche silenzio,
imbarazzato ma eccitante. Non aveva tardato a diventare quotidianità.
Sugo rosso, sapore intenso e proibito, nella sua correttezza. Innocuo,
ma pericoloso.
«E tu che ne pensi?»
«Mah… non saprei. Stando a quello che ha detto il Lupo, ci sarebbe
di che preoccuparsi. Ma bisogna fargli la tara… insomma, quando si
tratta di Milva il Lupo perde obiettività. Non che di suo ne abbia
moltissima, ma quando c'è di mezzo lei…»
«Ah perché… gli piace Milva?»
«”Gli piace” è un po' poco. Lui crede che nessuno se ne sia accorto,
ma quando la guarda non sembra nemmeno più lui. È proprio perso.
Irriconoscibile… un po' hai capito che tipo è il Lupo, no?»
104
«Direi di sì. Da come ne parli è quasi una macchietta. Però simpatico,
mette tenerezza.»
«Sì, hai ragione. A suo modo è tenero. Ma il suo modo è tutto
spavalderia, smargiassate, sai della serie 'non temo niente e nessuno, io
sono il Lupo'. Ecco. Con Milva diventa un cucciolo intimorito. Balbetta
quasi, fatica ad alzare gli occhi. Roba da scuola media».
«Povero Lupo… ma questa Milva è così straordinaria?»
«Puoi dirlo forte… difficile da raccontare. È una roccia, Milva. Una
donna forte, dura. Bella, anche, ma di una bellezza aspra, vissuta.
Eppure sa essere anche dolcissima. E fragile, in un certo senso. È
capace di strapparsi il cuore per te. Poi, un minuto dopo, ti caccia dal
bar a calci in culo perché le gira così.»
«Interessante, sì. Ti sento coinvolto, Robby…»
«Cosa? No, no… cioè, non in quel senso… è solo che a Milva non si
può restare indifferenti. Vorrei che la conoscessi, capiresti cosa
intendo.»
«…»
«Vorrei che conoscessi lei ma anche il Lupo, e Teenva, e tutto il
resto. Vorrei che potessi vederlo con i tuoi occhi, questo mondo che ti
racconto al telefono.»
«…»
«…»
«Anche io lo vorrei, Robby, tanto. E vorrei che anche tu vedessi il
mio, di mondo… ma più di tutto vorrei vedere te, negli occhi, mentre
mi parli.»
105
Venerdì 26 maggio 2000
Il venerdì sera Hdemico era sacro. Sara qualche volta ci provava, ma
senza convinzione. Anche questa volta aveva buttato lì, con finta
noncuranza:
«Robby, Venerdì con i ragazzi si pensava di andare a mangiare una
pizza. Ti va?»
«I ragazzi? Vuoi dire i chiesaioli?»
«Dai, smettila! Lo sai che non sono dei bigotti. Non hai mai
nemmeno voluto conoscerli, sono sicura che ti piacerebbero.»
«Sì, certo, non c’è dubbio… però è venerdì, lo sai che…»
«Che al venerdì esci con i tuoi amici. Sì, sì, lo so. Lo so.»
«Non fare quella faccia. Lo sai che…»
«Che per te è importante. Come no. Me l’avrai detto cento volte. Lo
so. So tutto.»
«Sara…»
Lei aveva addolcito l’espressione.
«Scusa. È che mi dispiace. Quando mi sono trasferita qui non
conoscevo quasi nessuno. È dura stare lontano da casa. Sì, ci sei tu, ma
per come sono fatta io ho bisogno di avere persone intorno. I ragazzi
sono stati fantastici, mi hanno accolta subito. Vorrei tanto che anche tu
facessi un po’ parte di questo. Ma non voglio obbligarti.»
«Hai ragione…» un sospiro. «Ma non è il mio ambiente…» altro
sospiro. «Sono contento che tu abbia trovato un gruppo. Dico davvero.
Forse mi serve solo un po’ di tempo.»
L’abbraccio che ne era seguito aveva consolidato una distanza forse
troppo difficile da colmare.
106
Fedele era davvero dispiaciuto di non riuscire a dare alla sua storia
con Sara una quotidianità più intensa, che andasse al di là del loro
semplice essere coppia. Era davvero dispiaciuto di non condividere
amici, esperienze, ma soprattutto idee. Trovava che Sara fosse una
ragazza straordinariamente viva e interessante, era affascinato dalla sua
personalità non meno che dalla sua profonda umanità. Ma faceva anche
molta fatica, con lei. Era un continuo stridere di ingranaggi, come a
voler costruire un muro con pezzetti di Lego presi da scatole diverse, e
trovarsi ogni volta a danneggiarli un po’, per riuscire ad incastrarli. Alla
fine il muro stava in piedi, ed era anche bello. Ma che fatica, dentro, per
tirarlo su.
Con questo stato d’animo, Fedele si allacciò gli ultimi bottoni della
camicia blu e partì alla volta del Bar Milva.
Si trovavano sempre piuttosto presto, in quei venerdì interlocutori tra
una goliardata e l’altra. La normalità aveva bisogno di ritmi diversi, e
per loro andare da Milva era più normale che restare sul divano delle
proprie case. A pensarci bene, molto più normale, molto più semplice.
Senza
genitori
ingombranti
con
cui
inventare
brandelli
di
conversazione, senza faticose fidanzate, senza inutili programmi
televisivi. Soltanto Milva, e i suoi sorrisi caldi e vissuti. Soltanto quei
tavoli neri e la cortina di fumo, il profumo della birra e delle patatine
fritte, gli sguardi complici e le battute facili, quelle universali, dei maschi
rintanati a parlarsi addosso.
«Ciao Fedele, serata tranquilla oggi?»
«Ciao bellissima. Sì, serata in casa. Perché è questa la nostra vera casa,
lo sai.»
107
Milva gli regalò uno sguardo materno e molto sexy.
«Già, mi sa di sì. Vuoi che ti porti le pantofole?» aggiunse con un
sorriso e una strizzata d’occhio.
«Mah… facciamo che per oggi può bastare una birra.»
Per salutare Milva, Fedele si era appollaiato sullo sgabello di fronte al
balcone. In fondo al locale, nel loro solito tavolo, erano già arrivati il
Lupo e il Libero Ricercatope. Questi, vedendolo, si era alzato, e ora si
dirigeva verso il bancone. Il Lupo invece era rimasto al tavolo,
rivolgendogli un cenno di saluto da lontano, senza l’ombra di un
sorriso.
«Ciao Libero, siete qua da molto?»
«No, dieci minuti. Però sono stati dieci minuti lunghi. Il Lupo è
strano. Parla poco, e soprattutto spara poche cazzate. Sai se ha
qualcosa?»
Fedele rifletté un istante su cosa rispondere. Milva si era spostata
all’altro angolo del bancone, e sembrava molto concentrata nella
preparazione di un cocktail, ma era ancora a portata di orecchio.
«Mmh. Sì, ultimamente ha dei pensieri in testa. Si è fatto delle idee
strane.»
«Sarebbe a dire?»
«Vabè, lasciamo stare. Andiamo a tirarlo un po’ su, dài.»
Il Libero Ricercatope lo guardò con aria perplessa, poi inarcò verso il
basso gli angoli della bocca, scrollò le spalle e lo seguì.
«Ciao Lupastro! Cosa fai, un solitario? Non ti bastano quelli che ti fai
tutti i giorni in bagno?»
Il Lupo staccò per un attimo gli occhi dalle carte allineate sul tavolo.
108
«Ogni tanto ci vuole. Non posso sempre mangiare della topa, troppa
carne fa male.»
Era un buon segno. Battuta mediocre, ma indubbiamente lupesca. Il
Libero Ricercatope lo provocò ancora, per saggiarne la reazione.
«Allora, hai meditato sulla serata di Venerdì? Cosa hai sbagliato,
Lupo? Com’è che Teenva ha preso della passera, e te solo dei gran
ceffoni?»
«Teenva è un finocchio. Sono buono anch’io con le bambine. Al
Lupo piace la topa vera, se la caccia è facile non c’è gusto. Ma quelle lì
erano delle fighe di legno. Un posto del cazzo il Los Angeles. Si
sapeva.»
«In effetti è stato Teenva a volerci andare » rincarò Fedele strizzando
l’occhio al Libero Ricercatope. «Voleva giocare in casa.»
«Però di patata ce n’era parecchia...»
Era stato il Discipulo a parlare, comparso improvvisamente alle spalle
di Fedele.
«Oh, guarda chi c’è, il Discipulo! Strano che cerchi di difendere
Teenva. Dài, prendi una sedia.»
«Discipulo, sei venuto solo? Dov’è il tuo mentore?»
«Teenva arriva più tardi, ha detto.»
«Avrà qualche bambina da stuprare, quel finocchio.»
Il Lupo si stava riprendendo, decisamente. Fedele decise di pomparlo
un altro po’, quando vide entrare un gruppo di ragazze, capeggiate da
una bionda appariscente e truccatissima.
«Oh, Lupo, guarda là. Quella sì che è una figa.»
109
Il Lupo si girò platealmente e sottopose la bionda a una scansione
accurata, poi sentenziò.
«Io quella lì la schianto. Tenetemi se no la schianto. Deve avere una
patata così, bella pelosa. Un cespuglio biondo, porca troia. Prima la
pettino, poi la sfondo!»
Erano abituati alle uscite del Lupo, ma non potevano fare a meno di
piegarsi dalle risate, ogni volta. Asciugandosi le lacrime, il Libero
Ricercatope si concesse un’osservazione.
«Nobile Lupo, le tue analisi sono sempre meravigliose. Però
consentimi di dissentire. A mio modesto avviso, quella lì la patata ce
l’ha perfettamente depilata. Non un pelo fuori posto».
«Ma che cazzo dici? Non la vedi? Quella lì è una porca di prima riga.
Quando sono così porche c’hanno il cespuglio, sempre! Più sono
porche più sono pelose.»
«No, Lupo, ti sbagli. Più sono porche più se la curano. Credi a me.»
«Ma che cazzo vuoi sapere tu, che non sei neanche un Dottore.
Fedele, tu che ne dici?»
«Mah… la questione è difficile. Voi dite che c’è relazione tra la
porcaggine e il pelo? Può essere, ma…»
La frase morì in bocca a Fedele, che occupava il posto rivolto verso
l’ingresso. L’improvviso mutismo attirò l’attenzione degli altri tre, che
si voltarono all’unisono.
Sulla porta era apparso Teenva tirato a lucido, in jeans Armani scuri,
camicia Ralph Loren bianca sulla pelle lievemente abbronzata e muscoli
tonificati da una seduta in palestra seguita da bagno turco. Ma non era
solo: abbracciata a lui c’era Pamela, con una minigonna leggera bianca e
110
una maglietta aderente senza maniche verde che lasciava scoperto un
piccolo cuore tatuato vicino all’ombelico.
I due si fermarono un attimo al bancone a salutare Milva che stava
shakerando, seguendo un grunge un po’ datato che usciva dallo stereo.
«Ciao Milva, come stai?»
«Ciao Teenva».
«Posso presentarti Pamela? Lei è Milva, la numero uno» disse rivolto
alla giovane lolita.
Milva fece un cenno, poi, senza smettere di agitare lo shaker, lanciò
un’occhiata un po’ sospetta al tavolo degli amici di Teenva.
«Gli altri sono già arrivati tutti» si limitò a dire.
«Sì, sì, ora li raggiungiamo. A dopo.»
Milva seguì con gli occhi la coppia avvicinarsi al tavolo dove Fedele,
il Lupo e il Libero Ricercatope li stavano squadrando con aria
incredula.
«Esimi colleghi, vorrei presentarvi Pamela.»
Un coro di ciao senza entusiasmo accompagnò i due mentre si
sedevano al tavolo. Se soltanto Teenva avesse prestato più attenzione
avrebbe potuto facilmente notare le occhiate che i suoi amici si
scambiarono. Ma Teenva era, appunto, Teenva, e non ci fece caso.
La serata hdemica era sacra. Era una regola chiara: da Milva non si
potevano portare ragazze. Teenva l’aveva violata. Non gliel’avrebbero
fatta passare liscia tanto facilmente. Ma lui, tutto questo, non lo notò
affatto.
«Allora, di che stavate parlando?» chiese Teenva.
«Di figa, chiaro no?»
111
Ci aveva pensato il Lupo a recapitare il concetto al destinatario
tramite posta prioritaria, senza tanti giri di parole.
«Per meglio estrinsecare il concetto testé espresso dal Nobile Padre.
Quesito: meglio il pelo allo stato brado o la patata glabra?» puntualizzò
con sottile sarcasmo Fedele, puntando i suoi occhi in quelli di Pamela.
Teenva si agitò sulla sedia. Rise, ma si vedeva che era una risata
nervosa.
«La vede, Dottor Teenvagina, quella maiala laggiù?» chiese Fedele.
«All’interno del nostro Consesso si è aperta una disputa circa lo stato
della patata: ce l’avrà glabra o pelosa?»
Pamela non sembrava particolarmente interessata alla disputa. Aveva
capito che sarebbe stata una noiosissima serata tra maschi sfigati e
aveva iniziato da subito a ignorare quello che veniva detto. Si guardava
in giro giudicando di pessimo gusto quel buco dove l’aveva portata
Pier, finchè non buttò l’occhio sul cellulare del Libero Ricercatope.
«Ehi, ma quello non è mica il nuovo Nokia?»
Fu come se il tempo si fosse fermato. Fedele e il Lupo sgranarono gli
occhi e si girarono lentamente verso la ragazza; il Libero Ricercatope
alzò di scatto il sopracciglio destro e dipinse il volto di un sorriso
sarcastico. Il Discipulo, invece, guardava Teenva e Pamela, non
potendo fare a meno di constatare che pezzo di gnocca avesse trovato
il suo preferito. Il suo mentore.
«No. Questo non è un cellulare, piccola. È un rasoio…» ribatté il
Libero Ricercatope.
Ci fu una grassa risata, il Lupo piantò una pacca sulle spalle a Fedele
che quasi scivolò dalla sedia.
112
«Un rasoio… oddio muoio… dai, ne hai mai visto uno?» Fedele non
riusciva a trattenersi.
«Dobbiamo quindi arguire, esimi Colleghi, che la giovin pulzella
faccia parte della prima categoria?»
Teenva rimase pietrificato per un attimo. Non sapeva cosa dire. Fu
Fedele ad affondare il coltello.
«Bè, il qui presente Dottor Teenvagina potrà senz’altro trarci d’impaccio
e renderci edotti…»
E ancora giù risate.
«Dai, non prendertela Teenva. Si fa per dire.»
Il Libero Ricercatope era ritornato perfettamente in sé, aveva smesso
di ridere a crepapelle adottando il suo solito sorriso malizioso. Poi,
rivolto a Pamela, aveva continuato:
«Anche tu Pamela – ti chiami Pamela, giusto? – non farci caso. Che
fai di bello nella vita?»
«Studio» rispose a denti stretti. Ma si accorse troppo tardi di aver
sbagliato risposta.
«Anche noi!» era esploso il Lupo, e ancora tutti a ridere come matti.
Pamela capì allora che non aveva sbagliato risposta. Aveva sbagliato a
rispondere.
«Ehi, ho capito che stasera l’avete buttata a puttane.»
Teenva cercava di salvare il salvabile. Ma era troppo tardi.
«Pier, mi puoi riaccompagnare a casa?»
«Ma Pam... è presto» tentò una timida protesta Teenva.
«Domani è sabato, io devo andare a scuola.»
«Okkey, andiamo.»
113
Una volta che i due furono usciti dal locale, Fedele sbottò rivolto al
Discipulo.
«Bella faccia da culo, il tuo tutor.»
«Eddai Fedele, si vede che è innamorato!» ribattè il Lupo, sempre
pronto con una parola di comprensione verso tutti.
«Io propongo che il Senatus proceda con un richiamo ufficiale nei
confronti del Padre Dottor Teenvagina per il contegno mostrato,
profondamente lesivo del decoro e dell’onore dell’Istituzione hdemica»
continuò Fedele «Chi vota a favore?»
***
In auto Teenva e Pamela non parlarono molto. Allontanatosi dal Bar
Milva lui accese lo stereo e si immise nel traffico tranquillo del prediscoteca.
«Ehi, dove stai andando?»
Ad un tratto Pamela si rese conto che Teenva aveva imboccato una
strada diversa da quella di casa sua.
«Bè, Pam non è tardi…» e intanto le aveva appoggiato la mano sul
ginocchio e aveva incominciato a risalire verso la gonna, alzata fin quasi
all’altezza dell’inguine.
«Invece è tardissimo. Riportami a casa. Subito.»
Non c’era spazio di trattativa nella voce di lei. Contemporaneamente,
scostò la mano di Teenva. Lui la guardò con un’espressione sorpresa e
delusa.
114
«Dai Pier, domani i miei non ci sono che vanno a trovare dei parenti
fuori città: ti aspetto alle 3» continuò lei con voce addolcita.
«Davvero vuoi che venga?» chiese timoroso.
«Certo piccolo, lo voglio eccome.»
Sabato, 27 maggio 2000
Teenva si svegliò molto tardi l’indomani mattina. Mezzogiorno era
passato da un po’ quando la madre bussò, prima timidamente poi con
sempre maggiore convinzione, alla porta della camera del figlio.
«Pier vuoi deciderti ad alzarti?»
«…»
«Guarda che noi mangiamo, che tu ci sia o no. Forza, muoviti.»
Dall’altra parte della porta, Teenva tirò fuori la testa dalle lenzuola, si
alzò e aprì le persiane constatando come il sole fosse già molto alto in
cielo. Dalle finestre aperte il caldo di fine maggio lo investì
inebriandolo di pensieri dolci. Fece una veloce doccia, si vestì e scese
nel salone, dove i genitori stavano già pranzando.
«Grazie per avermi aspettato…» disse lui addentando un pezzo di
pane.
«Pier ti sono venuta a chiamare un’ora fa. Lo sai che in questa casa ci
teniamo alla puntualità. Non puoi pensare di vivere qui come se fossi in
un albergo.»
«Uff mamma…la vuoi piantare?»
«Ehi giovanotto! Non rivolgerti così a tua madre, capito?»
115
Come sempre il grande avvocato si era rivolto al figlio senza degnarlo
di uno sguardo, ma continuando a leggere il giornale e mangiando
contemporaneamente.
«Sì papà. Scusa mamma. Io vado» disse monotono avviandosi verso
la porta d’ingresso.
«Pier non mangi nulla?» chiese apprensiva la madre.
«Mangerà quando avrà fame, lascia, lascia che vada…»
Fottiti stronzo, pensò Teenva sbattendo il portone d’ingresso e
correndo verso il suo Z3. Fece scendere la capote, accese a palla lo
stereo, ingranò la prima e sgommò fuori dal parco di Villa Zoboli per
andare a mangiare un panino da Milva.
Alle tre meno un quarto era già davanti a casa di Pamela. Aveva
parcheggiato un po’ distante e aveva abbassato lo stereo, deciso ad
aspettare le tre precise per suonare il campanello. Il quartiere era
residenziale, poche le auto parcheggiate lungo la via e un silenzio che
invogliava al riposo pomeridiano. Da lontano il lieve ronzio di una
falciatrice riempiva l’aria piena del primo caldo.
‘fanculo, andiamo. Teenva scese dall’auto, azionò l’allarme e si diresse
verso la casa dove viveva Pamela. Erano le tre meno dieci quando
suonò il campanello.
«Sono io.»
«Sì, sali.»
Teenva entrò nel piccolo condominio, di nuova costruzione, aspettò
l’ascensore e salì al terzo piano, all’attico dove viveva la ragazza con i
genitori.
116
La porta era socchiusa e lui entrò.
«Finalmente. Non ce la facevo più ad aspettarti.»
A Teenva mancò il fiato. Sapeva che Pamela era bella, ma lì, in quel
preciso istante, era uno schianto.
«Pamela…» non riuscì a dire nient’altro, poteva soltanto guardarla.
Addosso aveva soltanto un reggiseno della Arimo con cuccioli di gatto
e un paio di slip rosa. Lei chiuse la porta a chiave e gli si gettò al collo
coprendolo di baci
«Pier…»
«Pam…ti voglio…»
«Anch’io» lei incominciò a sbottonargli i pantaloni e la camicia, lui la
lasciò fare aiutandola a sfilare i jeans e solo quando anche lui armeggiò
cercando di farle scivolare le spalline del reggiseno lei si scostò di
scatto, spingendolo sul divano.
«Pier guardami.»
Lui subito non capì, aveva il profumo di lei addosso e Pamela di
fronte. Deglutì.
«Eh?»
«Ti ho detto di guardarmi.»
«Lo sto facendo tesoro…».
«Bene. Cosa vedi? Dimmelo.»
Cosa vedeva Teenva? Eh, vedeva la sua ragazza, ecco cosa vedeva.
Sedici anni, alta più o meno come lui, capelli neri con striature appena
pronunciate di blu elettrico. Un seno adolescente di marmo e gambe
affusolate che terminavano in un fondo schiena alto e sodo. Una
117
sedicenne che dimostrava almeno cinque anni di più con un viso
luminoso acqua e sapone.
«Vedo la regina dei miei sogni…»
«E saresti pronto a fare tutto per la tua regina?»
«Sì, tutto…tutto quello che vuole, mia regina.»
Tentò di alzarsi ma lei lo spinse sul divano e si sganciò il reggiseno
rimanendo soltanto con gli slip.
«Ieri sera non mi sono divertita.»
«…»
«Io sono al primo al secondo e al terzo posto.»
«…»
«Voglio andare al mare il prossimo fine settimana. Dai ci andiamo?
Dai dai promettimi che mi ci porti.»
«Quello che vuoi tu amore mio.»
«Fammi divertire.»
Lanciò un gridolino e si tuffò sul divano. Teenva annegò nel
profumo della pelle di Pamela. Non pensava più ai genitori, agli amici.
All’Hdemia.
118
CAPITOLO QUINTO
Dove l'amicizia trionfa
Data: lunedì 29 maggio 2000
DA: dr. Fedele ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
CC: Ciambellano ( [email protected])
Oggetto: Tricotica Quaestio
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA
Ordinario: dr. Fedele Della Passera
Pregiati colleghi,
scrivo questa Mia con un duplice intento.
Il primo et doloroso consiste nella comunicazione formale, urbi et
orbi, di quanto deliberato in occasione del recente Raduno del
119
Senato Hdemico. È con vivo dispiacere che vado a trascrivere il
testo della deliberazione.
Bar Milva, Reggio Emilia, addì 26 maggio 2000
Codesto
Senato
Hdemico,
riunito
in
sessione
strordinaria alla presenza dei Sommi Patres dott.
Fedele
e
dott.
Lupompino,
del
Nobile
et
Libero
Ricercatope, del Semper Valente Discipulo,
delibera
formale nota di biasimo
nei
confronti
dell’illustre
Padre
ecc.mo
dott.
Teenvagina, per il grave comportamento tenuto nel
corso dell’odierna riunione Hdemica.
Egli si è infatti reso responsabile di una grave
violazione
della
nell’alveo
del
relazione
alcuna
elemento
Pax
Senatus,
esterno
con
di
Hdemica,
senza
autorizzazione
l’attività
sesso
introducendo
nostra,
femminile,
che
né
un
il
Senatus ha inoltre unanimemente giudicato indegno
di
cotanto
riprese
onore,
avendo
indifferenza
e
esso
mostrato
incomprensione
a
per
più
la
Scientia Nostra.
Il
Senatus
ammonisce
pertanto
il
Nobile
Padre,
certo ch’Egli saprà prontamente rinsavire e fare
ammenda,
Hdemica.
120
godendo
così
prontamente
della
Pietas
Codesto
Senatus
ti
biasima
ma
non
ti
Condanna,
Nobile Padre, e attende con paterno affetto il Tuo
ritorno.
Adempiuto il gravoso compito, vorrei passare a più amene questioni.
Vi prego di esaminare attentamente i due esemplari di passeraceo
ritratti nel dettaglio qui sotto, e dal sottoscritto rintracciati dopo
lunghe e attente ricerche nell'universo telematico
Topapelosa.jpeg - Topaglabra.jpeg
La ragione che ci conduce a sottoporvi detti esemplari risiede nel
nobile intento di avviare con Voi una ci auguriamo proficua analisi
interdisciplinare volta a dare risposta al quesito che ha arrovellato i
Nostri Ingegni nella recente riunione del Senato Hdemico.
L’assenza del venereo vello è sinonimo di maggior propensione alla
copula?
O, all’opposto, come sostiene il Nobile Lupo, v’è una correlazione
diretta fra tricotica fluenza e suina disposizione d’animo?
Al fine di sciogliere una volta per tutte il difficile quesito, codesto
Istituto convoca un
CONCILIO HDEMICO
presso la consueta Sede, per il prossimo Venerdì 02 giugno 2000
al quale le S.V. sono pregate di giungere debitamente fornite di
documentazione – fotografica, bibliografica et memorialistica – al
fine di sostenere al meglio le proprie posizioni, e giungere così alla
121
ricomposizione
dell’Unità
di
Pensiero
che
da
sempre
ci
contraddistingue.
in Vulva Veritas
Fedele Dr. Della Passera - figosofo
lunedì 29 maggio
Fedele sorrise amaro dopo aver cliccato su ‘Invia’. Scrivere questa
mail gli era costato più del previsto. La faccenda del pelo, che gli
sembrava peraltro una buona idea, l’aveva aggiunta soprattutto per dare
a Teenva la possibilità di andare subito oltre, di mettere lo scazzo nel
dimenticatoio. Ma temeva che la questione non si sarebbe risolta così
semplicemente. Tanto per cominciare, Teenva non l’avrebbe presa
bene. Quando voleva, sapeva essere molto permaloso. D’altronde non
si poteva nemmeno fargliela passare liscia. L’aveva combinata grossa,
stavolta. Ma anche questo, in un certo senso, era un problema da poco.
Il problema serio era il modo in cui guardava quella ragazzina. E il
modo in cui lei lo aveva portato al guinzaglio, fuori dal bar. Teenva, più
che cotto, sembrava del tutto brasato. Questo apriva scenari
imprevedibili. Anzi, proprio il contrario: tragicamente prevedibili. Per
Maria, per l’Hdemia, ma anche per lui. Per la prima volta Fedele si
trovò a dubitare della loro amicizia. Erano cresciuti insieme, il loro
legame aveva resistito alle tempeste dell’adolescenza, alle differenze di
carattere e di interessi, persino alle rispettive morose. Ma quella che
aveva visto negli occhi dell’amico era una luce che non prometteva
122
niente di buono. Sperava sinceramente che Teenva avrebbe risposto
bene alla mail, ma ne dubitava.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dall’icona lampeggiante di
ICQ. Improvvisamente il pensiero di Teenva e dell’Hdemia fu spazzato
via. Fece doppio click.
Motovale (21.16 PM) Ciao Robinhood!
Robinhood76 (21.17 PM) Vale… ciao. Che strano leggerti… vuoi che
ti chiami?
Motovale (21.18 PM) Sì… cioè, no. Mi piace scriverti, e leggerti.
Mi piace immaginare la tua voce.
Robinhood76 (21.19 PM) :-) Ok, scriviamo.
Motovale (21.19 PM) Anche perché…
Robinhood76 (21.20 PM) Sì?
Motovale (21.21 PM) Beh, ho un po' paura di dirti una cosa
La mente di Fedele fu attraversata da un folgorante momento di
panico. Come minimo stava per dirgli che si era innamorata di
qualcuno. Che non avrebbero più dovuto sentirsi. Che tutta questa sua
indecisione, questo doppiogiochismo l'aveva delusa. Che sarebbe stato
meglio troncare prima di farsi male. Respirò profondamente e deglutì,
lui stesso sorpreso del nodo che gli aveva improvvisamente serrato lo
stomaco.
123
Robinhood76 (21.22 PM) Dimm i. T i ascolto.
Motovale (21.23 PM) Non so come dirtelo… te lo dico come mi
viene. Ho due biglietti per il concerto di Vasco ad Ancona, venerdì
10. Ti va di andarci con me?
Fedele sgranò gli occhi. Poi bestemmiò, sottovoce.
Venti minuti dopo, guidava pensieroso verso casa di Sara. Lunedì
sera, videocassetta da lei. Un classico. Stasera, però, difficilmente si
sarebbe addormentato prima della fine del film.
Parcheggiò di fronte al vecchio condominio alla periferia est di
Reggio, dove Sara aveva affittato un grazioso bilocale di 50 mq. Poteva
permettersi un intero appartamento, non una semplice stanza, grazie al
generoso assegno che ogni mese il padre, commercialista friulano,
versava sul suo conto. Ogni volta, nel farlo, si domandava cosa avesse
spinto la figlia maggiore, luce dei suoi occhi, a trasferirsi in quella
piccola città emiliana. Non aveva nemmeno capito che cazzo di facoltà
fosse “Scienze della Comunicazione”, e soprattutto cosa cazzo avrebbe
fatto una volta laureata. Ma si fidava di sua figlia, e si sforzava di capire
quei discorsi nebulosi sul bisogno di indipendenza, sull’ importante
esperienza di vita, sulla voglia di conoscere nuovi posti e nuova gente.
Come sua abitudine, Fedele usò la sua copia delle chiavi per aprire il
portone, prese l’ascensore e suonò soltanto quando fu davanti alla
porta di ingresso, al quarto piano.
124
« Ciao amore!»
Anche quando stavano in casa, Sara era sempre impeccabile. Non
elegante, ma splendida. Pantaloni della tuta Adidas bianchi, aderenti.
Maglioncino scollato a V carta da zucchero. E un sorriso bianchissimo
e luminoso. Fedele l’abbracciò, cercando di mettere ordine nel caos
spaventoso che sentiva montare dentro. Sentì la vita sottile di lei sotto i
polpastrelli, il seno generoso premere sul suo stomaco. Profumava di
sapone e tenerezza. Era così bella. Iniziò a baciarle il collo, stringendola
più forte a sé.
«Ehi, Robby! Che fai?» protestò Sara, ridendo.
«Mmmh, secondo te?»
«Ma dai… » disse, spostando con poca convinzione la mano sinistra
di Robby che si infilava sotto il maglione « Dobbiamo guardare il film»
tentò ancora, sospirando al contatto delle dita con i capezzoli. «Lo sai
che non dovremmo…»
«Ah no? Dai, dopo ci pentiamo.»
Il letto di Sara era sempre bianco e profumato. Detestava qualsiasi
colore diverso dal bianco, per la sua camera. Fedele aveva dovuto
attendere svariati mesi prima di avervi accesso. Anche adesso, accadeva
sempre molto di rado, e sempre come sistematica, inevitabile
eccezione. Il sesso senza la colpa non era contemplato. E la colpa
doveva essere sua, ogni volta. Ogni volta era come una gentile
concessione, un cedimento alle sue smanie di maschio, incapace di
contenersi. Però farlo le piaceva, eccome. Sara era un’amante
passionale e fantasiosa, capace di andare oltre le sue inibizioni e vivere
125
l’amplesso con gioia e furore. Dopo, il suo calore si scioglieva in
tenerezza, e regalava a Fedele i momenti più belli e distesi della loro
storia.
Ora stava con il viso sul suo petto, giocherellando con i folti riccioli
castani. Stavano in silenzio, e ogni tanto lei gli baciava il petto e lo
stringeva forte.
«Amore, volevo chiederti una cosa» iniziò lui, prudente.
Lei alzò il collo e gli rivolse un sorriso insopportabilmente dolce.
«Dimm.i»
«Ti ricordi che mi avevi chiesto di fare un giro al Grand’Emilia,
sabato?»
«Sì… volevo comprare alcune cose. Ma era più che altro per fare un
giro, tu e io. Dicono che sia molto grande, con un sacco di negozi. Ma
non questo sabato, c’è la festa dei giovani in parrocchia. Quello dopo,
l’undici.»
«Ecco… oggi ho sentito Teenva… cioè, Pier.»
« …e?» lo incoraggiò, sospettosa.
«Suo cugino gli ha regalato due biglietti per il concerto di Vasco, ad
Ancona, venerdì 10. Mi ha chiesto se vado con lui. Mi piacerebbe.»
« Mmh.»
«Solo che Ancona non è proprio dietro l’angolo. Dovremo fermarci a
dormire. Pensavamo di stare là anche il sabato, e tornare prima di sera.
Poi magari ti vengo a prendere e andiamo a mangiare fuori, solo tu e io.
Che ne dici?»
«Ma… Vasco? Da quando ti piace così tanto? Con me non l’hai mai
sentito…»
126
«Chi, Vasco? Ma scherzi? È un grandissimo! In macchina non lo
metto mai perché so che a te non piace tanto…»
«Vabè… e con chi hai detto che ci vai? Pier? Solo voi due?»
«Certo. E chi altro?»
Il mattino
dopo
Fedele
si
svegliò
piuttosto
tardi,
come
tendenzialmente gli accadeva le rare volte in cui faceva sesso con Sara.
Erano soltanto le 10.30, ma c’era già piuttosto caldo. Si preannunciava
un giugno afoso. Si trascinò fuori dal letto, dirigendosi così com’era –
slip e t-shirt bianca – verso la cucina.
«Robby, quante volte devo dirti che non mi piace che giri per casa in
mutande!»
Sì mamma hai ragione, scusa mi metto subito i pantaloncini, dove
sono finiti i biscotti?, ha chiamato Sara va bene, adesso le telefono, sì lo
so che se non studio poi mi bocciano, sì lo so che non è da me dormire
così tanto, no mamma non preoccuparti sto benissimo.
Aveva ancora in bocca il sapore di Sara. Acre, intenso. Spaventoso. Il
pensiero di quello che aveva fatto gli piombò tutto insieme in mezzo
alla mente. Cazzo. Valentina, il concerto. Cazzo. Sara. Le aveva
mentito. Spudoratamente. Cazzo. E adesso?
Si chiuse nel suo piccolo studio e cominciò a misurare il perimetro
della stanza a larghi passi. Dunque, calma. Ok, la frittata è fatta, non si
torna indietro. Mi dispiace Fedele, non si torna indietro. Ma poi ti
dispiace davvero? Sii sincero con te stesso, per una volta. Ti è
dispiaciuto così tanto? Sentire Valentina, desiderarla. E amare Sara,
ingannarla, tradirla. Sì, Fedele. L’hai già tradita. Tradita? No, non
127
esageriamo. Le ho mentito, ma il tradimento è un’altra cosa. Sono
ancora fedele, e posso decidere di rimanerlo, se solo lo voglio. Ma lo
voglio?
Con questo casino in testa, in mutande e maglietta, Fedele accese il
PC e distolse lo sguardo dal testo di Diritto Civile. Aprì la posta
elettronica. Tre nuovi messaggi, tutti in risposta alla sua mail della sera
precedente. Strano, insolito.
Aprì prima quella di Teenva, con il cuore che aveva preso a battere
più veloce.
Data: mercoledì 30 maggio 2000
DA: dr.Teenva ([email protected])
A: dr. Fedele ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected])
CC: Discipulo ( [email protected]); Gran Cia’n’bell’ano
([email protected])
Oggetto: Re: Tricotica Quaestio
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
In Vulva Veritas
ISTITUTO DI PASSEROLOGIA ADOLESCENZIALE
Ordinario: Prof. Dr. Teenvagina
Colleghi, prendo atto di ciò che è stato ordito alle mie spalle e vi dico
che potete anche andare a fanculo tutti. Detto questo, caro Robby,
128
mi chiedo francamente chi cazzo tu sia per permetterti di dirmi chi
devo o non devo portare con me fuori la sera. Davvero mi faresti un
grosso favore se potessi spiegarmi. Forse che devo telefonarti prima
per chiederti il permesso o l’approvazione? Davvero, sono curioso,
anzi no, già che ci siamo: lascia stare. Facciamo in altro modo: voi
venerdì vi vedete tra voialtri e io vado per i cazzi miei con chi cazzo
mi tira, okkey?
Mi sono un po’ rotto il cazzo del tuo atteggiamento da saputello che
giudica tutto e tutti senza mettersi in gioco DAVVERO mai una volta.
Venerdì vi ho portato Pamela e voi l’avete presa sistematicamente
per il culo, senza neanche pensare per un solo momento che ha 16
anni, che potevate ferirla, umiliarla e, così facendo, umiliare me.
Allora, amico mio, ti lascio queste poche righe affinché tu possa
utilmente riflettere, ben conscio però del fatto che non tollererò MAI
PIU’ intromissioni di chicchessia nella mia vita privata.
Sarebbero gradite anche le scuse a Pamela, ma conoscendoti so di
non potermi spingere così in là nelle richieste.
Amico, spero ancora, ti saluto.
Dr. Teenvagina
129
Data: martedì 30 maggio 2000
DA: Libero Ricercatope ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Dr. Fedele ( [email protected]);
Discipulo ([email protected])
CC: Ciambellano ([email protected])
Oggetto: Re: re: Tricotica Quaestio
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
Libero Ricercatope Associato
expertus in clitologia
Amici,
mi rivolgo a voi con il cuore – ho detto il cuore – in mano. In
particolare, è al pregiato dott. Teenvagina che va il mio accorato
appello: plachiamo gli animi!
Credo di poter parlare a nome dell’Hdemia tutta porgendo le nostre
sentite scuse alla dolce pulzella, il cui giovane ardore pare aver fatto
breccia nel nobile cuore del sommo dottore. Se mancammo di
delicatezza e di rispetto fu solo per eccessivo zelo Hdemico, nel dar
seguito all’accalorata discussione che poc’anzi avea infiammato gli
animi.
Purtuttavia, eccellentissimo dottor Teenvagina, mi sia consentito di
obiettare almeno in parte alle argomentazioni addotte, poiché la
ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che
ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro, disse il poeta.
130
Se infatti è giusto riconoscere che il Nobile dott. Fedele abbia forse
calcato eccessivamente la mano nella deliberazione del Senatus,
sarebbe sbagliato non rilevare come il comportamento ivi censurato
fosse parso a tutti gli astanti fortemente atipico, in un modo poco
piacevole che certamente la SV aveva modo di prevedere.
Invitando nuovamente tutti a prodigarsi affinchè i toni vengano
smorzati e la Pax Hdemica ristabilita, porgo come si conviene un
sentito vaffanculo
in Vulva Veritas
Libero Ricercatope
Ps
Onore e merito al nobile dott. Fedele per la formalizzazione del
quesito Hdemico che andremo a discutere nel prossimo Concilio.
Sarà nostra cura applicarci in approfondite ricerche per giungere
preparati all’ importante appuntamento.
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Data: martedì 30 maggio 2000
DA: dr. Lupo ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected]); Dr. Fedele ([email protected]); Discipulo
([email protected])
CC: Ciambellano ( [email protected])
Oggetto: Re: re: Tricotica Quaestio
Ragazzi, che cazzo fate! Non litigate! Non è successo niente, in
fondo. Fedele stava solo scherzando! Teenva ha solo portato
un’amica a conoscere l’Hdemia!
Siete veri amici, vi volete bene. Smettetela, non ne vale la pena.
Il Lupo
Fedele rilesse tutto più volte. Era turbato. Forse avevano ragione,
forse aveva esagerato. Ma anche Teenva era andato troppo in là. Le
parole del Lupo più delle altre, lo avevano inquietato. Il Lupo aveva
parlato con il cuore, per lui era davvero importante l’Hdemia e tutto il
resto. Spense il computer, prese le chiavi e uscì di casa. Sarebbe andato
da Teenva e avrebbero parlato. Si sarebbero chiariti. Non voleva
perdere Pier.
Guidò nervoso e parcheggiò alcuni metri distante da Villa Zoboli, nei
parcheggi che contornavano i viali della circonvallazione. Proseguì a
piedi e davanti al cancello stette per qualche istante fermo a guardare
l’imponente edificio immerso nel verde. Poi suonò.
132
«Chi è?»
La voce della madre di Teenva gracchiò ostile dal citofono. Ostile.
Questo lo dici tu, Fedele. Non farti suggestionare.
«Sono Robby, signora. C’è Pier?»
«Ti apro».
Fedele percorse a passo svelto il vialetto di ghiaia che attraversava il
grande parco. La signora Zoboli lo attendeva dietro il grande portone,
con un sorriso che gli parve triste.
«Ciao Roberto, come stai?»
«Bene, grazie» rispose Fedele forse troppo sbrigativamente. Gettò
solo uno sguardo sul vasto salone. I quadri austeri, i tendaggi
damascati, i preziosi tappeti su cui tante volte aveva giocato da
bambino. Era quasi una seconda casa, per lui. Mai come oggi gli era
sembrata tanto lontana e fredda.
«Pier? È di sopra?»
«Sì ma… ha detto che non vuole vederti. Cosa è successo, Roberto.
Avete litigato?»
«No, no, è solo che…». Si interruppe, abbassò il capo. «Beh, sì. Sì,
abbiamo litigato.»
«Non mi stupisce… Pier da qualche tempo è così… così… non so.
Ma non è cattivo, lo sai. Siete sempre andati d’accordo, voi due. Dài,
sali, e fate la pace.»
«Che cosa vuoi?»
Teenva era sdraiato sul letto, leggeva un numero di Quattroruote. Non
lo guardava nemmeno.
133
Era pronto alla battaglia.
«Senti Pier, hai visto che casino che è scoppiato? Per cosa poi?»
Teenva non rispose. Continuava a non guardarlo.
«Dài Pier stavamo scherzando. Comunque anche tu un po’ te la sei
cercata. Cos’è sta novità? Da quando si portano le fighe in Hdemia?»
«Oh, attento a come parli. “Le fighe” saranno quelle che ti fai tu. Lei
ha un nome. Si chiama Pamela.»
Fedele vacillò. Arretrò di un passo, sorpreso. Non pensava che le
cose fossero già a questo punto. Lo smarrimento servì a fargli smorzare
il tono. Abbassò la voce, addolcendo il tono e lo sguardo.
«Pier… l’hai conosciuta una settimana fa.»
«E allora?»
«Non è che ti stai facendo prendere troppo? Non sai niente di lei.»
«So che sono innamorato, ecco cosa so. So che è fantastica, e che voi
l’avete trattata come una merda. Ecco quello che so.»
Le parole erano dure, ma adesso alla rabbia si era sovrapposto un
velo di tristezza.
«Ma perché non vuoi ragionare?!»
Fedele iniziava a scaldarsi. Era venuto con l’idea di buttare acqua sul
fuoco, convinto di riuscire a far ragionare l’amico, ma non si aspettava
tanta aggressività. La sua risposta era stata più rigida di quanto non
volesse.
«Io ragiono benissimo! Ti sto solo dicendo che non puoi essere tu a
dirmi quello che posso o non posso fare.»
134
Fedele aveva ancora la lucidità necessaria a capire che in questo
modo non sarebbero andati da nessuna parte. Tentò di cambiare
strategia, di mettere un punto fermo.
«Ochei ochei, scusa! Ti chiedo scusa per l’altra sera, e anche per la
mail. Contento? Ti ho chiesto scusa. Però cazzo, adesso torna in te! È
una bambina! Non puoi mandare tutto a puttane per una ragazzina! E
non parlo solo dell’Hdemia, quella è il meno…»
«Di che cazzo parli?»
«Parlo di Maria! A lei non pensi? È la tua ragazza, Pier, vive per te.
State insieme da tre anni, se fosse per lei ti sposerebbe domani!»
«Allora trova qualcosa di più convincente, Fedele. Maria non esiste
più.»
«Cosa vuol dire?»
«Vuol dire che l’ho scaricata. Finito. Mi aveva rotto i maroni. Adesso
ho Pamela.»
Fedele sbattè più volte le palpebre. Era sconvolto. Ma chi era questo
che aveva davanti? Che razza di mostro era uno capace di ragionare
così?
«Pier. Cosa stai dicendo, Pier? Cazzo, ma ti senti? Che discorsi fai?
Ma ti rendi conto?»
«Mi rendo conto che comincio a rompermi i coglioni delle tue tirate.
Scendi fra noi, signor perfettino. Chi ti credi di essere per giudicare
tutti, Dio? Chi sei tu per giudicare me?»
«Pier, a me non me ne frega niente se stai con Maria, con Pamela o
chi diavolo vuoi, ma devi anche cominciare a capire che non puoi fare
sempre come ti pare e usare tutti e tutto come se esistessi solo tu!»
135
«Da che pulpito! Guarda che quello sei tu! Sei tu l’ipocrita che non ha
le palle di fare quello che vuole veramente! Sei tu quello che usa gli altri,
che pensa solo a se stesso!»
Teenva adesso stava urlando, aveva il viso rosso d’ira, e si era
avvicinato a meno di un metro da Fedele. Lui, invece, era diventato una
statua di ghiaccio. All’improvviso scese un silenzio di cemento, rotto
solo dall’ansimare di Teenva. L’ultimo a parlare fu Fedele.
«No, Pier, ti sbagli. Io posso avere tanti difetti, ma almeno il rispetto
per le persone a cui voglio bene ce l’ho. Io ero venuto qui da amico, ma
vedo che della nostra amicizia non te ne frega un cazzo. Come vuoi,
finiamola qui.»
Girò le spalle a Teenva e infilò le scale. Prima di uscire, incrociò la
Signora Zoboli.
«Allora Roberto, com’è andata? Avete fatto la pace?»
***
Mercoledì 31 maggio 2008
La stanza di Pamela era molto ampia, come tutto l’attico in cui
viveva, figlia dell’alta borghesia della città. Nello stereo il cd con la
compilation griffata “Veline” stava facendo compagnia alla ragazza,
intenta a prepararsi per l’appuntamento settimanale con il catechismo.
Una fissa di sua madre, una grande rottura di scatole. Non capiva
perché dovesse perdere del tempo in maniera così inutile, ma almeno di
buono c’era che ci andava sempre con Francesca, la sua amica del
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cuore, con la quale confidarsi, piangere, ridere, bere e fare tutto quello
che era proibito.
Francesca la conosceva da una vita, dal primo giorno del Liceo. Si
erano piaciute subito, ed erano diventate amiche inseparabili. Che belli i
pomeriggi d’inverno a ballare all’Adrenaline, tre ore di sola musica e
ragazzi da guardare, stuzzicare e poi rituffarsi in pista fino a che il papà
non arrivava a riportarle a casa.
«Pam, sbrigati: la Francy è già qui!»
«Sì mamma. Dille che sto arrivando.»
Pamela uscì dalla cabina-armadio, e dopo essersi infilata un paio di
Nike si fermò davanti allo specchio. Si guardò: jeans chiari, maglietta
polo leggermente larga rosa pastello e in cintura un pullover verde
smeraldo. Poteva andare, decisamente.
«Mi raccomando ragazze: fate le brave!»
«Non si preoccupi signora, arrivederci.»
In un attimo le due ragazze furono in sella ai loro scooter, direzione
parrocchia, per il settimanale appuntamento con il catechismo. Poco
prima di arrivare si fermarono, come d’abitudine, al bar lì vicino per
bere una Coca solo loro due, senza nessuno che potesse ascoltarle
«Allora Pam, dai dimmi le news con Pier.»
«Che vuoi che ti dica, ci sto da dio…mi fa sentire così importante…»
«…eppoi è così figo!»
Risero entrambe attirando l’attenzione di altri avventori.
«Oh Fra, mi raccomando: io sabato sera dormo da te, ok?» chiese
sottovoce Pamela prendendo le mani dell’amica.
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«Tranqui. È confermato che i miei saranno al mare e avrò la casa solo
per me. Quindi zero controlli. Ma voi dove vi vedrete?»
«Mi ha detto che mi porta al mare.»
«Uao!»
«Sì, uao. È tutto così… elettrizzante. Sono innamorata, Fra.»
«Si vede Pam, si vede.»
Continuarono a chiacchierare ancora un po’, finchè le Coca-Cola non
furono terminate. Uscite si diressero rapidamente nel cortile della
canonica, dove erano già arrivati tutti gli altri.
«Voi due arrivate sempre all’ultimo eh?» Era la voce della catechista.
«Ciao Sara, lo sai che siamo perse e innamorate» rispose Francesca
sorridendo.
«Dai, dai innamorate che vi rimetto in riga io» scherzò Sara. «Non mi
dirai che anche tu hai il ragazzo?» rivolta a Pamela.
«Certo che ce l’ha» intervenne Francesca.
«Ma nooo, è solo un amico, dai Fra» cercò di sminuire Pamela, ma
Francesca proprio non ci pensava, e continuò come se niente fosse.
«Ed è anche mooolto carino…»
«Ah, e brava Pam. È della tua scuola?» chiese Sara.
«Ma no, non è il mio fidanzato. È un amico. Tu invece, non ci hai
mai detto se ce l’hai un ragazzo.»
Pamela tentava di togliere l’attenzione da sé: non le piaceva Sara e
non voleva che lei sapesse di Pier e dei suoi segreti. Soltanto Francesca
era a conoscenza della sua storia con Pier. Voleva viverla ancora così,
come una cosa proibita, le sembrava davvero di essere in una favola,
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con un principe azzurro meraviglioso che cadeva ai suoi piedi,
trattandola come una regina.
«Io? Mah, forse…»
«Uhmm, secondo me ce l’hai e non ce lo vuoi dire» disse Francesca.
«Ma sì, c’è, c’è.»
«E com’è, com’è?» chiese avidamente Francesca.
«E’ molto intelligente, dolce e anche carino. Molto carino.»
«Mhhh, carino?»
«Certo pettegolina, cosa credi?»
«Ce l’hai una foto?»
«Dai, che dobbiamo andare dentro.»
Sara tentava di chiudere la questione, ma Francesca non mollava la
presa e, complice anche l’insistenza di Pamela e di altre ragazzine che
nel frattempo le avevano raggiunte, fu costretta a mostrare una piccola
foto che la ritraeva in compagnia di un ragazzo, alto e atletico.
«Questo è il tuo fidanzato? Carinissimo!»
Pamela lanciò solo un’occhiata distratta, ma quando mise bene a
fuoco sgranò gli occhi. Era quell’amico coglione di Pier! Come si aveva
detto di chiamarsi… Felice, no, Fedele… bho, sì, forse Fedele. Bè,
poca importanza: era un coglione e stava giustamente con una stronza.
Una coppia perfetta.
Giovedì 1 giugno 2000
Il Lupo stava cominciando a domandarsi se avesse fatto bene a
chiedere il cambio di turno in fabbrica per quella settimana. Lo aveva
fatto in modo tale da avere tutte le sere libere da dedicare a quello che
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ormai era diventato per lui un vero e proprio enigma. Anche quella sera
la stava trascorrendo alla solita maniera: il tempo di una birra al bar e
poi via veloce a seguire un fantasma, un fantasma dalla criniera lucente
avvolto in vestiti sempre più succinti e provocanti.
Milva camminava con passo nervoso, ma quella sera era subentrato
un sentimento nuovo, un sempre più marcato senso di impotenza, di
rassegnazione. Come se, per quanti sforzi avesse fatto e stesse ancora
facendo, non ci fosse modo di liberarsi da quel passato troppo
ingombrante, che da chissà dove era rispuntato fuori in tutta la sua
malvagità. Lei da subito aveva reagito alla sua maniera, come una belva.
Ne aveva parlato con Barbara ed era stato il momento più difficile.
Spiegarle tutto d'un fiato la sua vita precedente, dirle chi era stata Milva
prima di aprire il bar. Barbara aveva capito e aveva continuato a starle
vicina, offrendole il proprio aiuto. Ma il problema restava. Un primo
avvertimento, l'insegna “Bar Milva” presa a sassate. Barbara aveva
chiesto ad amici e parenti una mano, ma la somma che Milva doveva
pagare era ancora troppo alta. Il secondo avvertimento pochi giorni
dopo, una vetrata in frantumi e la decisione di andare in banca a
chiedere un secondo prestito. Non aveva più tempo, la scadenza del
pagamento era sempre più vicina, doveva trovare quei soldi in fretta,
senza pensare troppo al “come”. Le persone con le quali aveva a che
fare non erano dei pivellini, sapeva bene quello che le avrebbero fatto
se non avesse saldato tutto il suo debito.
140
Via Emilia S.Pietro, angolo con viale Monte Grappa, stesso portone,
stessa ora. Il Lupo ormai conosceva a memoria quello che Milva
avrebbe fatto non appena svoltato l'angolo: avrebbe aperto la borsetta,
estratto un piccolo mazzo di chiavi – due in tutto – si sarebbe guardata
in giro nervosa e poi sarebbe entrata dentro, scomparendo per ore. Lui
sapeva che quella non era casa di Milva, lei abitava fuori città. Eppoi
non c'era nessuna logica nel comportamento della donna: perché
avrebbe dovuto lasciare il bar tutte le sere a Barbara?
Rallentò il passo. Si era accorto di essersi distratto con tutti quei
pensieri che gli affollavano la mente e stava correndo il rischio di farsi
scoprire. Si fermò davanti alla vetrina del negozio di articoli sportivi
fingendo di essere interessato ad un paio di scarpe della Nike, ma così
facendo non si accorse di quello che – nello stesso momento – stava
facendo Milva.
Finalmente poteva vederlo bene. La sera prima non c'era riuscita, ma
non aveva avuto dubbi: quell'uomo era lì per lei, la stava seguendo.
Adesso invece, adesso lo vedeva bene, alla luce della vetrina di quel
negozio di articoli sportivi. Non era possibile. Lui era... no, come
poteva essere stata tanto stupida da non capirlo! Eppure sì, non c'era
altra spiegazione. Le aveva chiesto anche le chiavi del bar e lei – cretina
– gliele aveva pure date! E difatti da quel momento erano iniziati gli
avvertimenti. Altroché se quel bastardo non era una spia. Il Lupo una
spia, o peggio un sicario. O comunque uno messo lì apposta per poter
riferire tutte le sue mosse. E chissà da quanto tempo la stava seguendo.
La faccenda era seria, molto seria. Ed era anche tardi, a quell'ora
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avrebbe già dovuto trovarsi dentro all'appartamento a ricevere i primi
clienti. Ci mancava solo che la cercassero sul cellulare! Milva lo stava
fissando da lontano, indecisa sul da farsi. Poi, senza neanche
accorgersene, iniziò ad andare verso il Lupo.
Lui guardò distratto l'orologio, era mezzanotte passata. Alzò veloce
lo sguardo verso il portone e non vide più Milva: evidentemente era
entrata senza che lui se ne fosse accorto. Ma quando ritornò con lo
sguardo verso la vetrina, sobbalzò.
Lei aveva fatto pochi passi e adesso era alle spalle del Lupo. Indecisa.
Immobile. Lui si sarebbe voltato e a quel punto cosa sarebbe accaduto?
«Milva!»
«Cosa vuoi da me?»
La donna aveva i pugni serrati, mentre il Lupo non si era ancora
ripreso dallo spavento di essersela trovata alle spalle.
«Milva... ciao.»
«Mi stai controllando, vero? Non ti basta avermi distrutto il locale?»
«No cosa dici... no, no, Milva io non…»
«E allora perché mi segui tutte le sere?»
Al Lupo batteva forte il cuore e un lieve tremolio aveva iniziato a
tormentargli le gambe, ma cercò con tutte le sue forze di concentrarsi e
di capire.
«No, non ti sto seguendo è solo che…»
«Che vuoi sapere se sto lavorando bene?»
142
«Eh? No, davvero Milva non capisco. L'altra sera ti ho vista così... bè,
così diversa, ecco e…»
«... e hai pensato di seguirmi?»
«Sì! Sì, sì, ecco tutto. Cioè no, pensavo che poteva esserti successo
qualcosa che non andava e se avevi bisogno di aiuto...»
«Aiuto?» Milva era ancora sospettosa, ma il Lupo sembrava sincero,
accidenti a lui.
«Ho detto aiuto? Bé non so eri così diversa e così incazzata, si capiva
che c'era qualcosa che non andava.»
Milva non disse nulla, limitandosi a fissarlo negli occhi. Il Lupo
sudava abbondantemente, e deglutiva, cercando di bagnarsi la gola
arida. Poteva credergli? Se quel ragazzo non c'entrava niente con il suo
casino – pensava Milva – allora tanto valeva finirla lì e non dire
nient'altro che potesse comprometterla. Ma se invece le stava
mentendo?
Si vedeva che era spaventata anche lei, quasi quanto lui, cazzo. Ma
che diavolo stava capitando? Il Lupo non ci stava capendo niente. E
adesso perché lei stava sorridendo?
«Va bene Lupo. Ti credo.» Fu un soffio. «Però adesso devo andare.
Se davvero non c'entri un cazzo non chiedermi niente e vattene. E non
seguirmi mai più!»
Non era riuscito neanche a salutarla, porca miseria. Era tanto
spaventato che se ne era andato come un pivello. Vagava nella notte e
mentre guidava non faceva altro che pensare a quanto era accaduto.
143
Quasi non si accorse di essersi diretto verso il distributore dove ogni
sera lavorava Sasha, la sua amica. Sì, forse Sasha era la persona migliore
da incontrare, in quel momento. Aveva provato a parlarne con Fedele
ma neanche lui ci aveva capito niente. Dio che casino. Da lontano
riconobbe le forme perfette della ragazza e decise che sì, decisamente
quella sera aveva bisogno di confidarsi con qualcuno. Azionò
l'indicazione di direzione, decelerò leggermente ed entrò nell'area di
servizio, dando un veloce colpo di lampeggianti in direzione di Sasha.
Venerdì 2 giugno 2008
Aveva ancora in bocca il sapore della stracciatella, frammenti di
cioccolato fondente tra i denti, un senso di euforico benessere sotto la
lingua. Camminavano lenti nella notte tiepida, senza altro da fare che
godere della reciproca presenza. Il gusto del branco, quello che le
mancava così tanto. Robby forse non avrebbe capito questo suo
bisogno di sentirsi parte. Robby non avrebbe sentito quanto fosse
accogliente il fruscio sincronizzato di tante paia di jeans, passeggiando
dalla gelateria fino al cortile della parrocchia. Non stava in disparte, ma
stava in silenzio. Ascoltava il cicaleccio delle chiacchiere, le battute e le
risate, osservava i volti di questi giovani puliti, di queste ragazze
fresche. Sospirò profondamente, sollevando il volto verso cielo scuro,
gli occhi chiusi. Annusò il profumo dell’estate in arrivo e sorrise fra sé,
stringendosi nelle spalle. Stava bene. Anche senza di lui.
«Com’è che si dice…? Un soldo per i tuoi pensieri.»
144
Sara trasalì. Aveva una voce profonda e timida, folti capelli castani e
uno sguardo triste. L’aveva notato fin dall’inizio, fin dai primi giorni. E
lui aveva notato lei.
«Pensavo che la felicità è una cosa piccola. Che sta nelle cose
piccole.»
«Come un gelato fra amici e una passeggiata in città, ad esempio?»
Sarà spalancò i grandi occhi scuri, sorpresa.
«…come hai fatto? Max, sei un mago…»
Lui le rivolse un sorriso diretto e imbarazzato insieme.
«Forse sì. Forse c’è un po’ di magia quando riconosci in faccia a un
altro i tuoi stessi pensieri. Si vedeva che stavi ascoltando questa…
questa armonia.»
Sara sentì una contrazione leggera attraversarle lo stomaco. Era
esattamente quella la parola che stava cercando. Armonia.
«E’ incredibile… sì, stavo pensando proprio a questo. L’armonia, e la
semplicità. Voglio dire, non stiamo facendo niente di niente, tanti
troverebbero questa serata noiosissima. Invece… sto proprio bene.»
«Sì, anche io ci penso spesso. Penso che tante volte non siamo capaci
di ascoltarla, l’armonia. Ci facciamo riempire le orecchie dai nostri
casini, da tutte le cose che non vanno. Ma la bellezza non grida, se non
fai un po’ di silenzio è difficile ascoltarla.»
Sara contrasse le labbra in un’espressione pensierosa. Aveva ragione.
Che sensibilità, questo ragazzo. Non poteva definirsi brutto, ma era
troppo basso e magro per i suoi gusti, con quel grande naso aquilino.
Eppure, quando parlava diventava improvvisamente bello. Bello… no,
145
dai. Facciamo affascinante. Facciamo attraente. Facciamo che la pianti
subito di zoccoleggiare, ok?
«Una volta ho letto una frase da qualche parte – continuò lui – forse
la conosci. “Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza
lasciare traccia”. Credo che c’entri qualcosa con questo discorso. La
delicatezza, l’armonia. Forse, non so… forse non può esserci amore se
non sai ascoltarle.»
Sara si sentì avvampare, suo malgrado. La conversazione stava
prendendo una brutta piega. Max ci stava provando, evidentemente. Il
problema era che le stava facendo molto piacere. Non era la prima
volta, già da alcune settimane aveva iniziato un pressing blando,
graduale, di fronte al quale Sara era arretrata con poca convinzione. Più
volte aveva incrociato i suoi occhi fra le risate in cerchio nel cortile
della parrocchia, nella fila alla biglietteria del cinema, nel tintinnare delle
posate in pizzeria. Più volte si era sorpresa a cercarlo fra gli altri, a
respirare meglio vedendolo scendere dall’auto e avviarsi verso di loro
con quel suo passo leggero. L’aveva anche accompagnata a casa,
qualche sera prima. Avevano parlato a lungo, come due amici. Due
semplici amici. Lui non aveva fatto il minimo tentativo, il minimo
approccio. Ma i suoi occhi, mentre la guardava, dicevano tante cose che
Sara preferiva fingere di non capire.
Erano arrivati nel cortile della parrocchia, intanto. Sara e Max erano
rimasti un po’ indietro, e senza quasi rendersene conto si erano fermati
accanto al vecchio platano, un po’ distanziati dagli altri, che erano
andati a sistemarsi sui gradini davanti al grande portone, come sempre.
Luca stava raccontando una barzelletta, tutti ascoltavano divertiti o
146
facevano le solite stupide battute. Francesca però se ne stava in
disparte. Era una graziosa ragazza castana, con due luminosi occhi
chiari e un bel carattere, sempre allegro. Stasera però non aveva fatto
un solo sorriso, muovendosi solo perché trainata dal gruppo, come un
peso morto. Simona, l’amica di sempre, non tardò a prenderla
sottobraccio, guidandola pazientemente in mezzo agli altri.
Sarà approfittò della scena per deviare la conversazione.
«Max, tu lo sai cos’è che ha Francesca? Deve essere successo
qualcosa, non sembra lei.»
«Non lo sapevi? Fabio l’ha mollata.»
«Cosa? Veramente? Ma… quando?»
Francesca e Fabio erano una delle coppie più longeve del grupo.
Stavano insieme da anni, e tutti li consideravano praticamente sposati.
« Qualche giorno fa. Lei è uno straccio.»
« …?»
«Ufficialmente, è stata una decisione consensuale… sai, non andiamo
più d’accordo, non so più perché stiamo insieme, ti voglio bene ma è
meglio se restiamo amici…»
«Mh. E ufficiosamente?»
«Ufficiosamente, beh… tienilo per te ma… il problema è molto più
semplice.»
«…?»
Max era in visibile difficoltà. Si schiarì la voce, distolse lo sguardo da
Sara e lo fissò su Francesca.
«Francesca è una ragazza meravigliosa, ma è molto… ortodossa,
ecco.»
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«Scusa Max, continuo a non capire.»
Lui si agitò, con un sorriso nervoso.
«Dài Sara… Insomma, è un fatto di sesso. Quello che non hanno mai
fatto, più per volontà di Francesca che di Fabio.»
Sara inarcò le sopracciglia, stupita più dell’imbarazzo di Max che della
notizia in sé, peraltro inattesa.
«Mi stai dicendo che Fabio l’ha lasciata perché lei non voleva fare
sesso? Ma… stanno insieme da anni, se ne è accorto solo adesso?»
Max la guardò, a sua volta sorpreso da questa obiezione. Difficile
capirsi davvero, anche quando ci si sente così affini.
«Beh Sara, devi capire che… insomma, sono cresciuti insieme. Stesso
ambiente, stessi valori. Solo che Fabio ha… come dire… modificato
alcune convinzioni, con il tempo. Lei invece è sempre stata molto
rigida, molto ligia alle regole.»
Sara era diventata improvvisamente molto seria. Max non riusciva a
capire cosa stesse pensando, stavolta. Proprio per niente. In fondo
sapeva pochissimo di questa splendida ragazza friulana. Anche se
avevano parlato tanto, si muoveva ancora su un terreno minato.
Lei lo sorprese chiedendogli a bruciapelo:
«E tu, cosa ne pensi? Ha fatto bene, Fabio?»
Domanda chiusa, terrificante. Lanciare la monetina. Testa o croce.
Rosso o nero. Vincere o perdere, in due sole lettere. Sì, o no? Max
prese qualche secondo per riflettere, percorrendo con l’indice la curva
del naso.
«Non lo so, Sara. Non lo so. Dipende. Non credo che ci sia un solo
modo giusto. Quello che conta è l’armonia, fra loro. Qui c’era un attrito,
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c’era un conflitto sul senso della sessualità. Non credo che il problema
sia solo se fare o no l’amore. Da un certo punto di vista è quasi
irrilevante, secondo me.»
«Spiegati meglio.» Lo sguardo di Sara celava una luce furbetta,
maliziosa, che Max non aveva mai visto. Sentì un’eccitazione imprevista
al basso ventre.
«Voglio dire che quello che conta secondo me è il modo in cui si vive
l’unione sessuale, il significato che le si dà. Sara, rischierò di sembrarti
eretico, ma io non sono così convinto di quello che ci dicono i vari don.
Non sono convinto che fare l’amore sia peccato di per sé. Non credo
che Dio soffra se un ragazzo e una ragazza si amano con il corpo, oltre
che nell’anima, anche se non sono sposati. Credo che la cosa
importante sia il modo in cui si amano, che cosa trovano e che cosa
mettono nel sesso. In questo caso, credo che sì, che Fabio abbia fatto
bene a lasciare Francesca, perché i casi sono due: o non hanno mai
fatto l’amore e lui ne ha sofferto per anni, oppure l’hanno fatto
sentendosi in colpa. Magari Francesca correva subito a confessarsi,
magari ogni volta che la toccava lui sentiva che gli veniva concesso
qualcosa. Magari lo faceva sentire volgare o fragile, magari lei si sentiva
sporca e sbagliata. Ma quando due persone sentono nel sesso un dono
totale e generoso, una bellezza senza paragoni… quando anche il
piacere è un dono di Dio, che si accoglie insieme con gioia… beh Sara,
credo che sia sbagliato non farlo».
Restarono in silenzio per alcuni lunghissimi secondi, durante i quali
Sara cercò invano di domare l’esplosione di pensieri e di emozioni che
quelle parole avevano scatenato al centro del suo stomaco. Poi,
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dimentica degli amici, di Fedele, delle parole dei preti, delle sue paure,
delle sue convinzioni, fece un passo avanti. E lo baciò.
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CAPITOLO SESTO
Dove accadono eventi importanti vicino al pirografo
Data: Giovedì 8 giugno 2000
DA: dr. Fedele ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected]); Discipulo ([email protected])
CC: Ciambellano ([email protected])
Oggetto: complimentationes
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA
Ordinario: dr. Fedele Della Passera
Pregiati colleghi,
complimentationes a Voi tutti!
Codesto Istituto che mi pregio di dirigere è immensamente grato a
tutti Voi della fervida e feconda attività prestata nella passata
sessione di studi tenutasi durante il Concilio in Sede Hdemica. Il
materiale da Tutti prodotto – permettetemi una veloce digressione
riassuntiva – ha impegnato il Senatus in una lunga e a volte
151
contrapposta discussione: notevoli di interesse gli spunti sagaci
prodotti dal semper munificus Libero Ricercatope, il quale come
costumanza si è distinto per la cristallina arguzia. Ma non me ne
vorrete, augusti Colleghi, se oggi spendo un encomio per l'opera
invero mirabile prodotta dal giovin virgulto che tanto virtuosamente
cresce in seno al conSesso Nostro. Non è mistero che queste sono
ore tristi per il Senatus Hdemico, la violenta e ingiustificata presa di
posizione di uno dei Patres ha prodotto un'insana lacerazione che
forse – in Vulva Veritas – forse soltanto il tempo e il Nobile Tubero
potranno risanare. Ma l'amorevole e ammirevole impegno del Nostro
amato Discipulo, orfano del proprio tutor di riferimento, ha colmato i
nostri cuori, facendoci sperare e credere che il Verbo Hdemico,
anche in questo momento di tempesta, non si perderà mai.
Vi lascio alla consumata maniera del cerimoniale Hdemico, non
prima di aver reso edotte le SS.VV. del fatto che al ConSesso di
domani Noi non saremo purtroppo presenti: difatti saremo al di fuori
del Sacro Confino Regiense impegnati a trascorrere un intero
weekend al mare con la morosa, sed pronti di spirito a dissetarci
leggendo delle mirabolanti gesta che – ne siamo certi – Voi saprete
perpetrare alla prossima occasione.
in Vulva Veritas
Fedele Dr. Della Passera - figosofo
Giovedì 8 giugno 2000
Sulla parete di fronte a Pamela campeggiava in formato gigante la
sigla “ACR”. Azione Cattolica Ragazzi. Tre lettere colorate disegnate in
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tre dimensioni, al centro di un oceanico foglio di cartone bianco.
Intorno, decine e decine di piccole mani sporche di vernice avevano
lasciato la loro impronta. Sotto ciascuna di esse, scritti con l’incerta
grafia dell’infanzia, i nomi dei bambini. Marco, Veronica, Maicol,
Melanie… Bel nome, Melanie. Come Melanie B, delle Spice. Se avesse
avuto una bambina forse l’avrebbe chiamata Melanie. A patto che non
gli diventasse come quei mocciosi dell’ACR, insopportabili con le loro
canzoncine e i loro cartelloni colorati. Come quelli che aveva tutto
intorno a sé. Il ragazzo sorridente con la scritta “Il mio amico Gesù”.
L’aquilotto con la chitarra “Canta insieme a noi”. I bambini stilizzati a
comporre la scritta A-M-I-C-I-Z-I-A. Il manifesto dei “Campi Scuola
2000”. Pamela li detestava, letteralmente. Sua madre insisteva tanto
perché frequentasse la parrocchia, ma dall’anno prossimo non aveva
nessuna intenzione di tornarci. Anche Francesca la pensava come lei,
era ora di liberarsi da quella palla micidiale. Delle sue compagne di
scuola ormai non ci andava quasi più nessuna, e anche quelle poche lo
facevano solo per far stare buoni i genitori, o perché andavano dietro a
qualche educatore. Era assurdo continuare a farsi trattare come una
bambina, stare a sentire gente vecchia già a vent’anni, capace solo di
ripeterle che doveva dire le preghiere e non fare sesso con i ragazzi. E
poi, adesso che aveva Pier, un ragazzo di ventiquattro anni con la
macchina e un sacco di cose da fare… Ma dove era andata a cacciarsi
Francesca? Oggi non era passata a prenderla, le aveva mandato uno
strano messaggino, in cui diceva solo che si sarebbero viste a
catechismo. Con Francesca non esistevano segreti, se avesse avuto
qualche problema lo avrebbe senz’altro saputo. Però nelle ultime
153
settimane, da quando aveva conosciuto Pier, le era sembrata un po’
strana. Chissà, forse era invidiosa. O forse non poteva capirla, lei che
andava ancora dietro a quel cretino della terza B. Un bamboccio,
gliel’aveva detto tante volte. Ma fino a quando non conosci un uomo
per davvero non te ne puoi rendere conto, riflettè Pamela sorridendo
fra sè, mentre le si materializzava davanti il viso di Pier con la sua barba
di tre giorni, così sexy.
Intanto la sala dell’oratorio in cui si tenevano questi ultimi incontri
prima delle vacanza estive aveva iniziato a riempirsi di sedicenni in
maniche corte. Sara era arrivata da pochi minuti e scherzava con alcuni
ragazzi, già seduta nel cerchio di sedie. Pamela di solito si andava a
mettere proprio all’estremità opposta, non proprio di fronte per evitare
di incrociare troppo spesso il suo sguardo, ma sempre abbastanza
lontana. La sua presenza le dava sui nervi. Forse perché era bella, per il
modo incantato in cui la guardavano quegli sfigati dei maschi suoi
coetanei. Ma c’era qualcosa di più, non era solo invidia, anzi non era
sicuramente questo. Perché Pamela sapeva di non avere nulla da
invidiarle. A partire proprio dal moroso. Lei aveva Pier. Bello,
fighissimo, simpatico e sempre vestito da dio. Lei invece stava con
quello straccione, un vero sfigato, come il resto di quella compagnia.
Aveva chiesto a Pier come facesse a girare con gente simile, ma lui era
stato evasivo. Tra le righe aveva capito che era successo qualcosa, dopo
la serata in cui erano usciti insieme. Doveva aver litigato, o qualcosa del
genere. In particolare con quel Fedele – che nome ridicolo. Dalle
parole di Pier si era capito che erano stati piuttosto amici, vai a capire
154
come e soprattutto perché. Ma adesso c’era soltanto lei, come era
giusto che fosse.
Con un piccolo sforzo Pamela riprese il filo dei suoi pensieri,
guardando il caschetto nerissimo e lucente di Sara scuotersi al ritmo
della sua risata cristallina. Anche oggi, con il caldo che faceva, portava
jeans lunghi leggermente sbiaditi e un’impeccabile camicetta azzurra
ben abbottonata, che metteva in risalto il seno senza la minima
volgarità. Era l’immagine ideale della ragazza da oratorio. Solare,
sorridente, con una risposta sempre pronta per tutte le domande. Una
così sembrava completamente inattaccabile, del tutto priva di punti
deboli. Ecco, forse era questo che le dava così fastidio. Questo suo
essere sempre così perfettina, allegra e determinata. Sempre pronta a
correggerti con un sorriso falso. Piuttosto che fidarsi di una così
Pamela avrebbe preferito morire. Bigotta di merda.
Innervosita, si alzò con il cellulare in mano, decisa a scoprire dove
fosse andata a cacciarsi Francesca. Varcò la soglia della grande sala
dell’oratorio e scese le scale. Il catechismo stava ormai per iniziare,
probabilmente sarebbe rientrata in ritardo, ma non gliene importava
gran che. Anzi, era quasi meglio, tanto per far capire a quella che non
temeva di certo i suoi rimproveri. Passò qualche minuto in cortile nel
tentativo di chiamare Francesca, ma il telefono risultava sempre non
raggiungibile. Se avesse scoperto che era in giro con il tizio di terza B ci
sarebbe rimasta male. Non per la cosa in sé, a lei avrebbe fatto piacere
se anche Francesca si fosse trovata un ragazzo, anche se avrebbe
preferito fosse qualcuno di più maturo. Magari non al livello di Pier, ma
qualcuno con cui poter uscire in quattro. Ci sarebbe rimasta male se
155
l’avesse fatto senza dirle niente, senza permetterle neanche di coprirla
con i suoi genitori, se per caso ce ne fosse stato bisogno. Lei di Pier le
aveva detto tutto, fin dall’inizio. Le aveva raccontato di come l’aveva
conquistato, di quando avevano fatto l’amore per la prima volta, di
quanto era stato dolce. Le aveva anche detto di come lui aveva lasciato
Maria, la sua ex, della gita al mare, della sua macchina fantastica e del
modo incredibile in cui la guardava. Francesca era stata subito
entusiasta, una vera amica. Come se anche lei avesse vissuto tutto
questo, la sua gioia e quella di Pamela erano una cosa sola. Questo
all’inizio. Ma nell’ultima settimana… Pamela compose rapida un
messaggio “Dve 6? Xke nn 6 a catec? Nn sarai con quello? T asp qui alle 4”.
Infilò il cellulare in tasca e risalì le scale, verso la sala dell’oratorio.
Nel corridoio sul quale si aprivano le porte delle varie stanze non
c’era più nessuno. Come previsto, avevano già iniziato. Pamela sostò
ancora qualche secondo, lottando contro la tentazione fortissima di
girare i tacchi, salire sul suo scooter e tornarsene nella sua camera. In
quel preciso istante la porta si aprì e ne uscì Sara, con il cellulare
all’orecchio e un sorriso strano sul volto. Si guardava intorno in un
modo che a Pamela parve molto inquieto. Anzi, sospettoso. Il tipico
sguardo di chi non vuole farsi sorprendere. Quando Sara la vide stirò
ulteriormente il sorriso e si girò velocemente, in modo da nasconderle
il volto. Non bastò tuttavia a impedire a Pamela di notare il rossore che
ne aveva istantaneamente inondato la pelle chiara. Sara infilò la porta
della stanza del pirografo, accanto a quella in cui si svolgeva l’incontro
di catechismo. Stavolta Pamela non potè resistere alla tentazione.
156
Attese un paio di secondi poi si avvicinò alla porta. Come tutte le porte
di tutti gli oratori del mondo, era molto sottile.
«…no, tranquillo, avevamo appena cominciato. E poi se anche
l’incontro dura dieci minuti in meno non piango. ‘Sti sedicenni… sono
teneri quando vogliono, però… che età ignorante!»
Pamela lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Tutti quei sorrisi, quel fare
da amicona complice. Ecco quello che pensava davvero di loro. Falsa,
come tutti i bigotti. Represse l’istinto di mandarla affanculo e
andarsene. Voleva capire chi c’era dall’altra parte. Forse quel coglione
dell’amico di Pier.
«Senti, volevo chiederti una cosa…» la voce si era abbassata ancora.
Era quasi un sussurro, Pamela faticava a distinguere le parole.
«…Tu… era… sa fai?»
Pausa. Risata cretina, imbarazzata. Voce che si alza un po’,
fintamente arrabbiata.
«Dài, scemo! Dico davvero, cosa fai domani sera?... no, tu prima
dimmi se hai altri impegni… ok. Perché… beh, domani Robby non c’è.
Sì, lo so che di venerdì non c’è mai, ma domani sta proprio via a
dormire. Parte per Ancona, va al concerto di Vasco con il suo amico
Pier…»
Pamela trattenne il respiro, gli occhi sbarrati. Cosa? Chi? Pier?
Domani? Impossibile, domani doveva portarla al cinema, poi a ballare,
poi… Quel bastardo, vuoi vedere che aveva organizzato senza dirle
niente? Magari aveva fatto la pace con quel Fedele… cioè Robby, la
stronza l’aveva chiamato Robby… Pamela fece un profondo respiro.
Doveva restare calma, ascoltare bene e non farsi beccare.
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«…hè non vieni cena da me? Non sono una gran cuoca, però… che
ne dici?»
Hai capito la catechista? Tante belle parole… la castità, la fiducia, il
progetto di vita, e poi… Bè, a pensarci bene era inevitabile che uno
sfigato come quello alla fine si ritrovasse con un bel paio di corna.
Chissà chi era l’altro, magari un bigotto come lei…
A tutti questi pensieri Pamela non dedicò più di un microsecondo. In
realtà non gliene importava proprio niente di Sara, nè della sua
ipocrisia, né di quello che faceva. Però questa storia del concerto
andava chiarita, e subito.
Ritornò veloce sui propri passi, uscì fuori e chiamò Pier.
«Ciao Pam!»
«Dov’è che vai tu domani?»
«Cosa?»
«Non fare finta di non aver capito. Avevi promesso di portarmi al
cinema, ti ricordi? E invece scopro che te ne vai a sentire Vasco con
quello sfigato del tuo amico. Sei uno stronzo.»
«Cosa? Dove? Aspetta, aspetta, Pam… non ci capisco niente. Cos’è
che hai detto, che vado a sentire Vasco?»
«Sì, con quel Fedele, ho sentito la sua morosa che lo diceva al
telefono.»
A Teenva servirono almeno cinque minuti di accurate spiegazioni per
tranquillizzare Pamela, che alla fine rientrò nel gruppo di catechismo
con un buon quarto d’ora di ritardo. Mentre osservava Sara leggere un
passo dell’ultima enciclica del papa e iniziare la discussione con quel
suo sorriso di plastica, Pamela annuiva soddisfatta. Le avrebbe fatto
158
alcune interessanti domande sulla fedeltà, era curiosa di ascoltare come
avrebbe risposto.
Teenva aveva chiuso la comunicazione con Pamela già da venti
minuti, ma ancora non riusciva a smettere di pensare a quello che gli
aveva detto. Tra accuse, risposte e rassicurazioni, era riuscito a
ricostruire quanto era accaduto, o almeno così gli era sembrato. La
prima notizia importante era che Sara, la morosa di Fedele, era anche la
catechista di Pamela. La seconda, che aveva accolto con una certa
soddisfazione, era che Fedele sarà stato anche fedele, ma la sua morosa
non lo era altrettanto. Il giusto premio per la sua codardaggine. In
fondo Teenva lo aveva sempre sospettato: il suo stesso soprannome, e
il modo in cui andava a cercarsi, deliberatamente, mille occasioni per
tradire la fidanzata, uscendone sempre per un pelo. Lui non era fedele a
Sara. Lui era fedele solo a se stesso, all’immagine ineccepibile di sé che
si era creato. Dal suo punto di vista l’infedeltà era un fallimento, una
debolezza. Sara non c’entrava niente. Era fedele per orgoglio, non per
amore. Una donna queste cose le sente, e questo era il risultato. Giusto,
più che giusto. Una grande lezione, per quel professorino di merda.
C’era però un terzo elemento, che Teenva aveva impiegato qualche
minuto per ricostruire. La storia del concerto. Se non aveva capito
male, Fedele aveva detto a Sara che l’indomani sarebbe andato al
concerto di Vasco, ad Ancona. Con lui. Una balla clamorosa. Perché?
La mail che aveva mandato quella mattina, a rileggerla adesso, era molto
interessante. Alla morosa aveva detto di essere al concerto di Vasco
con Teenva. All’Hdemia aveva detto di essere al mare con la morosa,
159
anche questa una grossa balla. Una sorta di doppia copertura, contando
sul fatto che Sara e gli amici non si conoscevano, quindi non avrebbero
potuto in alcun modo sputtanarlo parlandosi. Ma aveva fatto i conti
senza Pamela…
Evidentemente anche Fedele nascondeva qualcosa, e quel qualcosa
sarebbe accaduto l’indomani. L’indomani notte, probabilmente, perché
tutta quella messinscena aveva una particolarità: copriva due intere
giornate, dal venerdì mattina al sabato sera. Perché Fedele avrebbe
dovuto passare la notte fuori, e di nascosto? Cosa poteva esserci di così
segreto da non volerne parlare né alla fidanzata né agli amici più cari?
Che cosa poteva andare contro sia all’Hdemia che a Sara?
La consapevolezza dell’unica risposta possibile si fece strada
gradualmente nella coscienza di Teenva. Si sorprese a fissare un punto
all’orizzonte di fronte a sé, oltre la parete, con la bocca aperta e un
ghigno a metà fra l’incredulo e il diabolico. Gli era venuta un’idea. Se
conosceva bene Fedele e il suo modo malato di ragionare, questa era
un’occasione irripetibile. Gli avrebbe ricacciato in gola tutte le sue
prediche del cazzo. E poi sarebbe stato a guardarlo soffrire.
Gli serviva solo un piccolo aiuto. Prese il cellulare e compose un
SMS.
“Pam, ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Poi ti spiego, giuro.
Ma devi farla subito. Portami il telefonino di Sara”
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CAPITOLO SETTIMO
Dove si comprende la potenza dei desideri
Data: giovedì 08 giugno 2000
DA: Libero Ricercatope ([email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Dr. Fedele ( [email protected]);
Discipulo ([email protected])
CC: Ciambellano ( [email protected])
Oggetto: Accolitus Hdemicus
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
Libero Ricercatope Associato
expertus in clitoridologia
Colleghi,
mi accodo volentieri all’encomio che il nobile padre dr. Fedele ha
testè sagacemente espresso in favore del valente Discipulo. Seppur
venati di una innegabile dose di ingenuità, i contributi che il giovin
virgulto ha saputo portare al recente Convivio sulla Tricotica
Quaestio hanno colpito favorevolmente il ConSesso intero. Se a
161
questo aggiungiamo le pregevolissime prestazioni sfoderate in
occasione delle recenti serate sperimentali, riteniamo che i tempi
siano ormai maturi affinchè l’Hdemia tutta riconosca anche
formalmente al Discipulo i progressi compiuti.
Formuliamo pertanto al Senatus Hdemico
formale proposta
di elevazione del valente Discipulo al rango di Accolitus Hdemicus,
passo che precede di poco la solenne nomina a Doctor, per la quale
riteniamo necessario un ulteriore periodo di preparazione.
In attesa di conoscere il Vostro parere in merito, cordialmente
salutiamo levando come sempre il calice alla salute del Pregiato
Tubero
in Vulva Veritas
Libero Ricercatope
giovedì 8 giugno 2000
Fedele, leggendo la mail del Libero Ricercatope, pensò con amarezza
che la guerra si era spostata sulla pelle del Discipulo. Dopo lo scazzo
della settimana precedente non si era più saputo niente di Teenva. Per
quanto continuassero a mettere il suo indirizzo nelle mail, come un
blando segno di pace, lui continuava ad opporre un silenzio che sapeva
tanto di definitivo. Fedele non aveva dubbi sul fatto che Teenva
162
continuasse comunque a leggere le mail e a seguire le vicende
dell’Hdemia. Non avrebbe quindi mancato di notare l’offensiva che
questa, con un accordo tacito ma unanime, stava sferrando sul povero
Discipulo – anzi, Accolitus - per sottrarlo alla potestà di Teenva. Solo
pochi giorni prima Fedele non avrebbe ritenuto possibile che chiunque
– Hdemia, sport o ragazze – potesse sostituirsi a Teenva nella gerarchia
di influenze sul giovane Manuele, ma evidentemente si sbagliava. Il
Discipulo sembrava aver fatto la sua scelta, se non altro per il modo in
cui si era comportato recentemente. Sempre presente, più che mai
attivo, senza una sola parola su Teenva e su quanto era successo. Forse
anche lui si era sentito in qualche modo tradito dal suo mentore, che
non lo aveva più degnato della minima attenzione dopo la serata al Los
Angeles. O forse era davvero cresciuto, acquisendo progressivamente
maggiore autonomia. Forse, semplicemente, si era accorto che senza
Teenva non si stava poi così male, che c’era più spazio per lui, per la
sua individualità. Autostima, forse. Ipotesi affascinanti, sostenute da un
fatto inconfutabile: il neo-Accolitus si muoveva ormai in modo del
tutto indipendente da Teenva, il quale aveva incassato la cosa senza
opporre la minima resistenza. Quella ragazzina l’aveva completamente
accecato. Chissà, forse sarebbe rinsavito vedendo la terra bruciata che
si stava espandendo intorno a lui. Fedele ci sperava sul serio. Gli
mancavano Teenva, la sua complicità, il suo sorriso beffardo. Gli
equilibri fragili e complessi della loro amicizia erano il motore
dell’Hdemia, il carburante necessario a far progredire quel gruppo
improbabile. Fedele dovette ammettere con se stesso, amaramente, che
senza Teenva l’Hdemia difficilmente sarebbe sopravvissuta a lungo.
163
Scosse lentamente il capo, rivedendo di fronte a sé lo sguardo
ciecamente determinato dell’amico, la sua rabbia assoluta, priva di ogni
proporzione. Si era mosso qualcosa, in Teenva. Quanto c’entrasse
Pamela in tutto questo, Fedele non avrebbe saputo dirlo. C’era di più,
c’era qualcosa che scricchiolava da tempo, qualcosa che chiedeva
soltanto l’occasione giusta per crollare. Lui non aveva saputo ascoltare,
non aveva colto i segni di quanto stava per accadere, finchè non era
accaduto. Bell’amico. Nel momento più importante era andato là con la
sua verità in bocca, e aveva fatto esattamente quello che ci si sarebbe
aspettati da lui. Una bella predica. Bravo Fedele. Fedele. A chi sei fedele,
Fedele? Di chi ti importa? Di Teenva, del tuo amico? O anche lui deve
oscillare entro i confini precisi delle tue convinzioni? E quando ne esce,
Fedele, cos’è che conta? E cosa succede quando sei tu che ne esci?
Strinse forte gli occhi, alzò una diga silenziosa dentro di sé. Non
avrebbe permesso alla sua paura di tracimare. Non ora, non oggi.
Controllò l’orologio. Le 7.05. Treno alle 8.02, tre ore abbondanti per
arrivare ad Ancona. Doveva muoversi. Spense il PC e la coscienza,
diretto verso la doccia. In corridoio incrociò la madre, ancora in
camicia da notte.
«Dài Robby, se non ti sbrighi perdete il treno.»
Sì mamma tranquilla ce la faccio, sì Sara la passo a prendere io, sì ho
preso la crema solare, lo so che poi mi scotto, non preoccuparti ti
chiamo appena arriviamo.
Passò almeno tre minuti in contemplazione davanti al cassetto delle tshirt. Non ricordava una sola volta in cui avesse impiegato più di trenta
secondi per decidere cosa mettersi. Aprì, scartò e ripiegò alla meno
164
peggio almeno quattro magliette prima di optare per quella azzurra con
fascia orizzontale blu della Reebok. Con sincero stupore sorprese un
pensiero attraversargli la fronte “si intona con i miei occhi”. Se ne vergognò
e si sentì improvvisamente molto debole. Ma era una bella sensazione.
Per una volta, non si sarebbe identificato soltanto nelle parole e nelle
idee. Adesso si gioca a soldi veri, Fedele. Sguardi, odori. E movimenti,
proporzioni, ombre. Un altro sport.
Jeans leggeri, pullover di cotone blu per la sera, il vecchio Jolly
Invicta viola con la copertura balneare, che sarebbe rimasto nel baule
della macchina: telo da mare, costume, creme abbronzanti e ben
nascosto in fondo un altro zainetto, più piccolo, che avrebbe viaggiato
fino ad Ancona. Portafogli, occhiali scuri, lettore CD, cellulare. Una
copia de La storia Infinita con dedica per Valentina. E un pacchetto di
preservativi. Scatole cinesi, una dentro l’altra, fino alla verità.
Dall’innocuo involucro liceale al contenuto del bravo moroso, fino allo
zainetto nascosto del seduttore telematico e infine, nel profondo di
quello, l’ultima scatola e la sua realtà inoppugnabile. L’essenza di tutto.
Si ri-vergognò, sorridendo compiaciuto.
Alle 7.45 l’utilitaria di Fedele era parcheggiata in una piccola laterale
di via Turri, a pochi metri dalla stazione. Estrasse lo zainetto blu dal
Jolly e ripose quest’ultimo nel baule. Chiuse a chiave l’auto. Inspirò a
fondo e guardò il cielo azzurrissimo, che prometteva una fantastica
giornata. Sì, una fantastica giornata. Con passo inaspettatamente
leggero si avviò a testa alta verso l’ingresso della stazione, guardandosi
intorno come se vedesse Reggio per la prima volta. Il viavai di
macchine, il volo dei passeri tra gli alberi del viale. I volti indaffarati
165
degli uomini in giacca e cravatta, l’espressione stanca e indecifrabile del
nordafricano appoggiato al muro. Tutto aveva colori nuovi, note
squillanti, urgenti. L’aria frizzante del mattino solleticava le guance e i
bronchi come la carezza eccessiva di un bambino. Fedele non aveva
mai
provato
una
simile
eccitazione,
gli
effetti
inebrianti
dell’avventatezza.
Il treno arrivò puntuale sul binario quattro. Prese posto accanto a una
donna che parlava al cellulare in tono concitato, tra i bottoni del tailleur
e
un’acconciatura
inappuntabile
che
concedeva
qualcosa
alla
femminilità ma niente all’emozione. Non potè impedirsi di controllare
a sua volta il cellulare, per l’ennesima volta. Ancora nessun messaggio
di Sara, né chiamate. Non la sentiva dalla mattina precedente. Strano,
stranissimo. Doveva avere fatto uno sforzo enorme per non fargli mille
domande su quella trasferta, per non tempestarlo con la gelosia glaciale
dei suoi messaggini e delle telefonate “di saluto”. Con tutti i suoi difetti,
Sara era una ragazza eccezionale. Era stata capace di mettere a tacere
quello che Fedele sapeva essere un forte istinto possessivo, per
concedergli la fiducia che tante volte lui aveva invocato come
indispensabile per far crescere il loro rapporto. Aveva capito che
allentare le redini era l’unico modo per consentirgli di avvicinarsi di più
a lei, per fargli superare il solco che ancora manteneva le loro vite su
piani sostanzialmente così distanti. Lei aveva fatto il suo pezzo di
strada, e lui… Interruppe brutalmente il flusso dei pensieri sull’orlo
della diga, un attimo prima che tracimassero. Avrebbe retto. Non si
sarebbe fermato. Contemplò per un attimo la possibilità di chiamarla,
ma la sola idea lo fece sentire a disagio. Fece per scriverle un
166
messaggio, ma improvvisamente si trovò a corto di menzogne. Scorse i
messaggi ricevuti e aprì l’ultimo di “Valerio”, arrivato alle 2.30 di quella
mattina: E’ quasi domani. Giurami che questa notte prima o poi finirà. Se Sara
non si faceva sentire, poco male. Fin che la barca va, lasciala andare.
Alle 11.12 il treno uscì dalla stazione di Falconara Marittima. Dieci
minuti all’arrivo. Una buona metà dei passeggeri era scesa a Bologna,
compresa la donna manager. Fedele aveva dovuto detestare lei e il suo
tono assertivo soltanto per quarantacinque minuti. Poi il treno aveva
continuato a seminare viaggiatori lungo tutta la riviera romagnola,
Pollicino meccanico dispensatore di nonne apprensive e bambini
grassocci. Rimini, Rimini Miramare, Riccione, Cattolica, Gabicce, in un
tripudio di saporite vocali romagnole mischiate con la quasi totalità
delle parlate italiche. Solo dopo Senigallia aveva iniziato a regnare il
silenzio, e Fedele aveva potuto finalmente sfilarsi le cuffie e spegnere il
lettore CD. Il timbro profondo di De Andrè aveva ammorbidito la
cacofonia di quel viaggio per oltre due ore, offrendogli come sempre
tonnellate di pensieri su cui dirottare prudentemente la propria
attenzione. All’inizio aveva persino provato ad ascoltare Rewind,
l’ultimo live di Vasco che aveva acquistato controvoglia proprio il
giorno prima. Evidentemente a Valentina piaceva molto, era necessario
mostrarsi preparati. La cosa lo aveva sorpreso, perché in chat avevano
parlato spesso di musica ma Vasco non era mai uscito, né in bene né in
male. Sapeva della sua passione per De Andrè e Fossati, si erano
accapigliati su De Gregori e l’ultimo Baglioni, avevano condiviso un
amore viscerale per la chitarra di Mark Knopfler. Ma non gli sembrava
167
tipo da Vasco Rossi. Dopo quindici minuti di ascolto aveva rinunciato.
Non faceva per lui. Bravo, per l’amor di Dio, ma un po’ troppo
casinista per i suoi gusti. Aveva estratto dal porta CD “Non al denaro,
non all’amore né al cielo”, poi aveva chiuso gli occhi.
La scritta “Ancona” bianca su fondo blu attraversò più volte il
finestrino, sempre più lentamente, accompagnata dal familiare cigolio
dei freni. Fedele raccolse il suo zainetto, fece un respiro profondo e si
avviò lungo il binario, poi nel sottopassaggio, infine nell’ingresso della
stazione di fronte alle biglietterie. Cercava fra i volti dei viaggiatori il
profilo digitale di Valentina, con un senso curioso di irrealtà, come se
stesse osservando la scena di un film, come se non fosse lui quel
ragazzo alto in jeans chiari e maglietta azzurra che si guardava intorno
con aria smarrita. Finchè la vide. A una decina di metri da lui, fece
capolino fra il gigantesco zaino di un biondo turista straniero e il
profilo incravattato di un uomo d’affari. Incrociò il suo ampio sorriso,
e tutta la scena gli si inchiodò nella mente con una forza inaudita.
Registrò la voce dello speaker – Ancona, stazione di Ancona – la corrente
d’aria fra la porta d‘ingresso e quella di accesso al primo binario, il
riflesso della luce sul pavimento di piastrelle grigie, l’azzurro del cielo
incastonato in una fascia di orizzonte, attraverso i vetri a scacchi delle
porte della stazione. L’immagine di Valentina crebbe progressivamente,
mano a mano che i suoi piedi si muovevano automaticamente verso di
lei, mentre un sorriso da perfetto idiota, dotato di vita propria,
prendeva possesso delle sue labbra. Restarono uno di fronte all’altra
168
senza dirsi niente, per alcuni interminabili secondi, durante i quali la
stazione continuava insensibile a vorticare intorno a loro.
«Allora, sei tu» disse lei.
Lui non disse niente. Lei era bassa, più di quanto avesse immaginato.
Ed era bella, più o meno come aveva immaginato. Aveva pensato di
abbracciarla, magari di baciarla con trasporto. Aveva pensato che il solo
vederla avrebbe innescato una reazione nucleare, che Ancona sarebbe
stata spazzata via in un istante dalla potenza di quell’incontro. Invece,
c’era mezzo metro di paura compressa fra loro due. Mezzo metro che
irrigidiva i legamenti.
«Beh… ciao.»
«Ciao Robinhood. Hai fatto buon viaggio?»
Si allungò verso di lui, che dovette ingobbirsi un po’ per ricevere un
bacio sulla guancia e il sentore leggero di un profumo fresco. Lo prese
per mano, riversando energia e luce nella voce. Ecco Valentina, pensò
Fedele. Eccola che arriva.
«Dài, principe dei ladri! Vieni, che ti faccio vedere la mia città. È una
bellissima giornata, siamo stati fortunati.»
***
Teenva rigirò fra le mani il piccolo Nokia 3310. Pamela era stata
eccezionale, come borseggiatrice. Poco più di un’ora dopo la loro
telefonata si era presentata in scooter sotto casa sua, con il cellulare di
Sara infilato nella tasca posteriore degli short. Per prenderlo, Teenva
aveva dovuto necessariamente abbracciarla e passare le mani su quelle
169
natiche di marmo, mentre lei gli infilava ridacchiando la punta della
lingua nell’orecchio destro. Dopo – almeno una piacevole mezz’ora
dopo – aveva dovuto spiegarle con estremo dettaglio i suoi sospetti e i
suoi piani. Lei aveva sgranato gli occhi, poi si era fatta una bella risata.
“Certo che come amico sei proprio uno stronzo!” aveva concluso
divertita. Quindi si era messa a cavalcioni su di lui, ed era passata
un’altra mezz’ora prima che tornasse a casa. A quel punto Teenva
aveva quasi dimenticato il cellulare di Sara. Svuotato e felice, si era fatto
una bella dormita e aveva passato la serata davanti alla tv, fantasticando
durante le pubblicità sulle imminenti vacanze estive, che avrebbe
trovato il modo di passare in barca con Pamela.
Oggi, invece, il suo caro amico Fedele occupava gran parte della sua
attenzione, sicuramente più di quanto riuscisse a fare il testo di Diritto
Penale. Aveva studiato con cura il cellulare di Sara, soprattutto nella
sezione dei messaggi. Alcuni in particolare, arrivati proprio quella
mattina da un numero non presente in rubrica, confermavano il
contenuto della telefonata intercettata da Pamela. “Allora è confermato?
Sono da te per le 20.30. Ti bacio. Ovunque.” “Non rispondi, devo preoccuparmi?
Guarda che mi ero già fatto parecchie idee…”, “Non riesco a contattarti. Se non mi
richiami passo da casa tua per sicurezza nel pomeriggio. A dopo.”
Teenva era decisamente sddisfatto, in un modo perfido su cui non
perse tempo a farsi troppe domande. Doveva pensare bene a come
muoversi,
dosare attentamente le parole ma soprattutto i tempi.
Osservò l’orologio: le 11.30. Assolutamente troppo presto. Posò il
cellulare e si concentrò di nuovo, faticosamente, sulle aggravanti
generiche.
170
***
Uscendo nel sole abbacinante del mezzogiorno anconetano, Fedele
riacquistò un minimo di presenza di spirito. Valentina lo trascinava per
la mano destra, con lo sguardo acceso e un senso di euforia palpabile e
fanciullesco. Portava pantaloni leggeri ma lunghi, e stivaletti bassi. Una
giacca corta di pelle bordeaux le fasciava la vita sottile, lasciando
scoperti i fianchi piccoli e tondeggianti. Era magra, ma non secca. Un
metro e sessantatrè, stimò Fedele, di buona sostanza.
«Eccoci qua. Che dici, ci facciamo un giro?»
Si era fermata di fronte a una moto. Cioè. Non semplicemente una
moto. La scritta sinuosa Sportster in bianco sul piccolo serbatoio
sormontava tre cifre: 883. E, più sotto, il marchio. Harley Davidson.
A Fedele sfuggì un’imprecazione fra i denti.
«E’ tua, questa?»
«Sì. La mia bambina. Ti piace?» Valentina grondava fierezza da ogni
ricciolo. C’era autentico affetto nel modo in cui passava la mano sulle
cromature, beandosi dello sguardo stupito di Fedele.
«Non me ne avevi mai parlato…»
«Come no? Lo sai benissimo che adoro le moto.»
«Sì ma… cioè, questa non è una moto… è…» Fedele annaspò in
cerca della parola giusta, che non trovò. Scosse la testa, guardando il
castano luminoso degli occhi di Valentina.
«Mi avevi detto solo che hai una ‘vecchia moto da strada’…»
171
«Era la verità. E’ un modello del ’57, ha 43 anni. Però li porta bene,
vero?»
Strizzò l’occhio e porse a Fedele un casco integrale blu. Con un gesto
rapido del collo fece roteare indietro la lunga chioma e infilò rapida il
suo casco, verde scuro come la moto. Fedele rimase inebetito a
guardarla montare in sella, così minuta e sicura su quel bestione da 250
kg.
«Dai Robinhood, cosa aspetti?»
Si arrampicò goffamente sulla sella, un po’ impacciato. Non sapeva
bene dove mettere le mani. Alla fine decise di appoggiare poco più dei
polpastrelli sui fianchi di Valentina, timidamente. Il bicilindrico
americano fece sentire la sua voce profonda con una vibrazione che
attraversò la colonna vertebrale di Fedele come un brivido di piacere.
Pochi istanti dopo il porto scivolava sulla loro destra, con il grande arco
di Traiano in primo piano sullo sfondo del cielo, velato di impalpabili
nuvole bianche all’orizzonte. Fedele aumentò impercettibilmente la
superficie dei palmi a contatto con i fianchi di Valentina, che rispose
immediatamente staccando la mano sinistra dal manubrio. Prese la
mano destra di Fedele e l’accompagnò fino all’altezza del proprio
ombelico, senza lasciarla. L’aria salmastra penetrava nel casco di Fedele,
insieme a immagini sfumate e luminose, chiazze verdi e blu e luce e
ombra e vento e sole e voglia e pelle e sangue caldo. Avanzò anche la
mano sinistra, premendo il proprio petto, dolcemente, sulla schiena di
lei.
La moto accelerò progressivamente, volteggiando sulla strada
tortuosa
172
a
picco
sul
mare,
mentre
Fedele
riguadagnava
progressivamente la lucidità necessaria a rendersi conto di quanto fosse,
in quel preciso momento, pieno e vivo e presente. Felice, forse.
Quando si fermarono, pochi minuti dopo, erano nello spiazzo di
fronte al Duomo, sulla collina che sovrasta la città. La facciata
romanica si stagliava bianca e rossiccia sull’azzurro del cielo. Regnava
un silenzio severo, che intimava rispetto. Nessun turista nella calura del
mezzogiorno. Si avvicinarono ai grandi leoni che sorreggevano da
secoli sulla schiena il peso delle colonne.
«Allora, ti piace?»
«Sono imbarazzato per la mia ignoranza. Pensavo che Ancona fosse
una città triste e squallida… E’ splendida, tutta arrampicata sulle
colline, con il mare sotto. E questo Duomo… adoro il romanico. È
così essenziale, concreto. Si sente il peso del tempo. Mi fa sentire
fragile.»
«E ti piace sentirti fragile?» sorrise maliziosa Valentina.
«Non ci avevo mai pensato… ma sì, credo che mi piaccia. Potermi
permettere di essere fragile, qualche volta. Voglio dire, guardi questi
mattoni, pensi che stanno lì da quasi duemila anni… e tu sei una canna
al vento. Puoi lasciare a loro l’eternità, l’obbligo di essere indistruttibili.
È riposante.»
Valentina lo guardò in un modo strano, difficile da decifrare, con i
riccioli biondi incendiati dal sole. Poi scosse il capo in una risata
sommessa e divertita. Fedele, che pensava di avere detto qualcosa di
molto serio e profondo, ne fu sorpreso.
«Robby… tu pensi troppo. Sei così buffo, e non te ne accorgi
nemmeno. Cosa ne dici se andiamo a mettere qualcosa sotto i denti?»
173
L’Harley 883 di Valentina riempì del suo rombo ancora quindici
minuti di curve e dolci saliscendi nella campagna prima di fermarsi in
un piccolo borgo medievale, di fronte all’entrata di una trattoria. Si
sfilarono i caschi e varcarono la soglia, nella penombra. Da fuori Fedele
non avrebbe mai immaginato tanta ricercata eleganza rurale. Mattoni e
travi a vista si intonavano perfettamente con gli arredi in arte povera, in
cui ogni pezzo era stato evidentemente cercato e collocato con estrema
cura. Tavoli di solido legno scuro apparecchiati con raffinate tovaglie
color avorio e ampi calici di cristallo, vetrinette colme di bottiglie
preziose, e un po’ ovunque utensili di antico artigianato contadino.
Fedele si sentiva leggermente in soggezione. Non era il posto alla
buona che si era aspettato. Niente tovagliette di carta e menu
plastificati, nessun televisore sintonizzato su qualche emittente locale.
Quello era un posto di assoluto livello.
Valentina si muoveva con disinvoltura e familiarità. Salutò
cordialmente il cameriere, che li fece accomodare con discrezione e
professionalità in un angolo appartato della sala, dove soltanto un altro
tavolo era occupato da due turisti dai tratti orientali. Al momento di
ordinare il vino, il cameriere si rivolse a lei con la deferenza e il rispetto
che si riservano a chi sa bene di cosa sta parlando.
«Per il vino, avete già scelto?»
Valentina non ebbe nemmeno bisogno di aprire la carta dei vini.
Educatamente guardò Fedele per un istante con aria interrogativa,
giusto per assicurarsi di non ledere eccessivamente il suo orgoglio virile,
poi si rivolse al cameriere.
174
«Passo del Lupo, ce l’hai? Se ci fosse del ‘97…»
«Certamente. Ottima scelta.»
Fedele era sinceramente stupito. Non tanto per il fatto che Valentina
avesse ordinato il vino, quanto per la disinvoltura con cui l’aveva fatto.
Era qualcosa di più di semplice passione o conoscenza. Era abitudine.
Pochi istanti dopo il cameriere tornò con la bottiglia e il tavolino di
servizio, e la stappò secondo tutti i crismi del perfetto sommelier.
Versò l’assaggio a Valentina, che si limitò ad accostare il naso al calice.
Annusò un istante con gli occhi socchiusi, poi annuì profondamente e
congedò il cameriere senza nemmeno portare il liquido alle labbra.
Fedele assaggiò a sua volta, e fu rapito dal corpo e dalla complessità
del vino, che rivelava eleganza e carattere fuori del comune.
«Meraviglioso. Cos’è?»
Valentina alzò le sopracciglia in uno sguardo candidamente sorpreso,
che fece avvampare Fedele.
«Beh… è un Conero. Il mio preferito. Passo del Lupo, riserva 1997.
Fazi Battaglia lo conosci, no?»
«Ah, Fazi Battaglia. Conoscevo solo il Verdicchio… quello con la
bottiglia a forma di anfora.»
Si interruppe, per evitare ulteriori danni alla sua immagine di
conoscitore di vino, così faticosamente e artificiosamente amplificata in
chat.
«Sì, quella bottiglia è stata una grande idea commerciale. Adesso il
verdicchio lo conoscono tutti. Il rosso Conero invece è meno diffuso,
ma noi ne andiamo anche più fieri.»
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Fedele la ascoltò ancora per qualche minuto parlare dei vini della sua
terra, con una competenza che lo lasciò a bocca aperta. C’era qualcosa
che non gli tornava. Decise di affrontare la questione in modo diretto,
immediatamente.
«Evidentemente qui ad Ancona le impiegate guadagnano bene…»
Valentina si interruppe di colpo, come una bambina sorpresa con le
mani nella marmellata.
«…come?»
«Beh, in chat mi hai detto che sei impiegata in una ditta di
abbigliamento, giusto? A Reggio le impiegate difficilmente girano in
Harley Davidson e pranzano in posti così.»
Lei abbassò lo sguardo, forse per la prima volta da quando Fedele era
sceso dal treno. Non era stata mai arrogante o presuntuosa, in alcun
modo, ma si era mossa con grande sicurezza. Abbassò la voce, e
quando rialzò il capo i suoi zigomi avevano preso colore.
«Neanche ad Ancona. A meno che si tratti della figlia del titolare.»
Valentina non gli aveva mentito, si era limitata a nascondere una
parte della verità. Tecnicamente, era davvero impiegata in una ditta di
abbigliamento. L’azienda però apparteneva a suo padre, e lei era la
stilista. Producevano linee di abbigliamento professionale. Camici, abiti
da lavoro, divise di vario genere.
«Ma perché non me l’hai mai detto?»
«Me lo sono chiesta anche io… la verità è che non lo so. Forse
temevo il tuo giudizio, forse non volevo darti l’impressione della
capricciosa figlia di papà. Mi perdoni?»
176
«Certo che ti perdono. A patto che adesso tu non mi dica che sei
anche berlusconiana!»
«No! No, giuro, quello no, mai!»
Risero insieme di gusto, come tante volte avevano fatto in chat,
sparlando dell’ex-presidente del consiglio. Fedele provava un senso di
ammirazione crescente per Valentina, perché essere di sinistra facendo
l’impiegata era un conto, ma da figlia di imprenditore era tutt’altra cosa.
Circa due ore e una bottiglia più tardi, dopo molte risate e alcuni
impegnativi silenzi, si alzarono e iniziarono una lunga passeggiata nella
campagna circostante. Fedele non dovette sforzarsi particolarmente per
dare il meglio di sè. Complici il vino e la freschezza di Valentina, si
sentiva spontaneo e leggero. La conversazione fluì con naturalezza.
Non c’erano parti da recitare o risultati da ottenere. Era semplicemente
bello stare insieme, e gustare con tutti i sensi quell’equilibrio
miracoloso.
Poi, verso le sei del pomeriggio, Valentina propose a Fedele di
visitare la sua casa. Salirono sulla moto, e questa volta Fedele non si
fece pregare. Con una disinvoltura che aveva in sé qualcosa di
enologico, avvolse la figura minuta di Valentina in un abbraccio stretto,
gustando fino in fondo il contatto fra il suo torace e la schiena di lei.
Ad ogni curva percepiva con forza la sua vicinanza, la sua presenza
sulle braccia, nello stomaco, nell’interno delle cosce. Era eccitato, e
dovette faticare non poco per evitare contatti ulteriori, che lo
avrebbero messo in profondo imbarazzo.
177
Dopo un tempo imprecisato fatto di respiri profondi e totale
alterazione sensoriale, Fedele sentì la moto rallentare e infilarsi in un
vialetto ghiaioso. Si scosse dal torpore estatico in cui era caduto,
guardandosi intorno. Erano ancora fuori città, e procedevano
lentamente tra filari di vite e campi coltivati, sollevando una nuvola di
fumo bianco. Qualche minuto dopo si fermarono nel cortile di una
vecchia casa colonica. Anzi, di un vecchio granaio, osservò Fedele
notando la tipica forma allungata, il piano rialzato e la struttura ad archi
che originariamente doveva presentare larghe aperture, ora chiuse dalla
ristrutturazione. Sulla destra della facciata un grande portone
sgangherato faceva intuire l’autorimessa, mentre l’unica piccola porta si
raggiungeva tramite una scala esterna addossata alla parete. Ben strano
posto per la famiglia di un imprenditore, pensò Fedele. Poi le sue
considerazioni furono interrotte dall’arrivo festante di un cane dal
manto dorato, che lo ignorò del tutto per ricevere le carezze di
Valentina.
«Lui è Birillo, il mio uomo ideale.»
Fedele improvvisò un’educata cinofilia grattando la testa del cane,
che lo degnò solo di un breve sguardo prima di riprendere ad ignorarlo.
«Dai Birillo, cerca di essere educato! È un amico!» lo rimproverò
ridendo Valentina. «Non farci caso, è un po’ duro da conquistare ma è
adorabile. Entriamo?»
Fedele seguì Valentina lungo i pochi gradini della scala esterna, che
conducevano al piano rialzato. Valentina armeggiò con le chiavi sulla
porta. Dentro, la scala continuava nel buio dopo un piccolo
pianerottolo.
178
« ‘petta, accendo la luce.»
Improvvisamente una luce calda riempì gradualmente uno spazio
enorme, sormontato dalle vecchie travi scure lungo gli spioventi del
tetto, almeno dieci metri più in alto. Fedele salì i pochi gradini che
ancora gli impedivano di vedere l’ampio locale, e si guardò intorno
incuriosito.
«Wow. Che spettacolo.»
«Ti piace? Ci sto ancora lavorando, ma sono a buon punto.»
La casa si sviluppava in un unico immenso locale. Sulla sinistra la
cucina in stile rustico, separata dal resto della stanza da un ampio
bancone in muratura. Il resto dello spazio era occupato da un grande
soggiorno, in cui ogni particolare era stato studiato con ricercata
noncuranza. Pezzi di antiquariato in arte povera si accostavano senza
stridere con un grande tavolo in cristallo e cromature. Due lunghi
divani in tessuto chiaro isolavano un angolo riscaldato da un tappeto
variopinto sui toni dell’arancio e del giallo. Un po’ ovunque oggetti
etnici africani o centroamericani sbucavano tra pile di libri e CD. Era
tutto assurdamente cacofonico, eppure trasmetteva un insospettabile
senso di equilibrio. Anche lo spazio, quel volume d’aria enorme, era
stato mosso abilmente da un vasto soppalco che ospitava la camera da
letto. Fedele si sforzò di non guardare troppo a lungo in quella
direzione.
«Ci sono venuta a stare un anno e mezzo fa. Non c’era praticamente
niente.»
«Beh, Vale. Mentirei se dicessi che non sono stupito. È fantastico, hai
avuto un gusto incredibile.»
179
«Grazie. Mettiti comodo, vado a cambiarmi.»
Valentina salì la scalinata che portava al soppalco, mentre Fedele si
metteva timidamente a sedere su uno dei divani. Il tavolino in legno
scuro che aveva di fronte era ingombro di riviste di arredamento e
motociclette. Notò anche una copia de “Il Senso di Smilla per la neve”.
Ne avevano parlato da poco in chat. Entrambi l’avevano trovato
eccezionale. Fedele lo sfogliò distrattamente, notando che la
microscopica televisione era relegata in un angolo, in posizione
decisamente defilata. Più spazio aveva il PC, che occupava una bella
scrivania ottocentesca appoggiata alla parete. Fedele osservò lo
schermo spento, immaginando Valentina intenta a pigiare sui tasti. Lui
era già stato in questa casa. C’era stato attraverso il sommesso ronzio di
un monitor, le sue parole e i suoi pensieri avevano solcato il silenzio di
questa stessa stanza. Provò un brivido di consapevolezza. Era tutto
vero, tutto concreto, tangibile. Quel mondo disegnato da miriadi di
pixel era uscito dal campo delle sue emozioni e si era fatto vista, tatto,
olfatto. E improvvisamente tutto ciò che fino a poche ore prima era
stato reale e quotidiano, ora gli sembrava assurdamente astratto e
lontano. Casa, amici, università, fidanzata. Su tutto era scesa una patina
di irrealtà, del tutto simile a quella che fino a quel momento aveva reso
così virtuale ed innocua l’idea di Valentina. Distolse i pensieri e cercò di
concentrarsi sul sapore di quel momento.
***
180
Teenva non riusciva a concentrarsi sul libro. Erano passate le 18,
doveva decidersi ad agire. Fece rapidamente i calcoli. Ancona – se poi
era veramente ad Ancona – distava almeno 3 ore di treno. E lui adesso
chissà dov’era, cosa stava facendo, e soprattutto con chi. Doveva
tenere un margine di sicurezza, se Fedele avesse perso l’ultimo treno
tutto sarebbe stato inutile. A pensarci bene, rischiava che anche un
arrivo in nottata servisse a poco. Non poteva essere certo che il tizio di
Sara passasse tutta la notte da lei. Anzi, era perfino poco probabile per
una simile chiesaiola. Probabilmente dopo la scopata l’avrebbe cacciato
via di nascosto. Fedele doveva essere di ritorno al massimo per
mezzanotte. Ruppe gli indugi e prese il cellulare di Sara. Avrebbe
scoperto presto se le sue previsioni erano azzeccate. Iniziò a comporre
il messaggio. Un testo breve, su cui aveva meditato a lungo. Se
conosceva anche solo un po’ quel codardo di Fedele, l’effetto sarebbe
stato devastante.
***
Fedele aveva iniziato ad armeggiare fra i CD, quando riapparve
Valentina. Infradito, short rossi e t-shirt bianca attillata, con la scritta
“Harley Davidson” incurvata lungo la linea dei seni. Riccioli biondi
sparsi sulle spalle e sorriso al tritolo. Si sedette di fianco a lui e lo
guardò, senza dire niente. Fedele deglutì. Cercò disperatamente
qualcosa da dire. Non gli veniva niente. Abbassò gli occhi su Curve nella
memoria, la raccolta di De Gregori.
181
«Bella raccolta questa. Se non fosse che lui è così insopportabile…
ma com’è che non vedo neanche un CD di Vasco? A proposito, a che
ora inizia il concerto?»
Valentina distolse lo sguardo un istante, poi tornò a guardarlo dritto
negli occhi, con un’espressione maliziosa che azzerò la saliva nel cavo
orale di Fedele.
«Robinhood… devo confessarti una cosa. Non ho nessun biglietto.
Per nessun concerto.»
Fedele sgranò gli occhi, stupito. Lei vacillò un attimo, abbassando lo
sguardo. Sembrava intimorita. Fedele la guardò serissimo per qualche
secondo ancora.
«Vale, anche io devo confessarti una cosa. Vasco mi fa proprio
schifo» aggiunse sorridendo.
Stavolta la sorpresa fu tutta di Valentina, che prima lo guardò a bocca
aperta, poi scoppiò a ridere insieme a lui. Risero di gusto e a lungo, gli
occhi negli occhi, fra lacrime di complicità. Si ritrovarono
improvvisamente molto vicini, le spalle appoggiate allo schienale
morbido del divano, i visi a pochi centimetri uno dall’altro. Si fecero
improvvisamente seri.
«Non sapevo come fare. Volevo che venissi. Avevo bisogno di una
scusa. Volevo vederti» sussurrò lei.
«No. Ero io che avevo bisogno di una scusa, e tu lo sapevi.»
Fedele sentì il proprio battito accelerare, un istante prima che la
consapevolezza di quanto stava per succedere giungesse a livello
razionale. Sentì tutto il peso dello sguardo di Valentina. Sentì il suo
profumo, il calore del suo corpo. Sentì l’ansito leggero del suo respiro,
182
la forza del suo desiderio, il richiamo insostenibile delle sue labbra.
Sentì i propri muscoli addominali contrarsi, la distanza fra loro
diminuire ancora, le proprie labbra schiudersi, il volto di lei inclinarsi
leggermente.
Poi, sentì lo squillo del cellulare.
Ancora una volta, il suo corpo reagì prima che la mente potesse dire
la sua. Si bloccò, gli occhi immobilizzati su un punto imprecisato oltre
il cranio di Valentina. La mano sinistra corse autonomamente fino alla
tasca dei jeans. Solo a quel punto i neuroni avevano districato la
matassa emotiva a sufficienza per indirizzare fino alle labbra un
mormorio.
«Scusa…»
Estrasse con qualche difficoltà il cellulare dalla tasca. Sul display il
simbolo della busta. 1 nuovo messaggio. Pollice sul pulsante centrale,
leggero tremolio della prima falange. “Leggi”. Lettere scure sullo
sfondo verde retroilluminato.
183
Il sistema simpatico di Fedele contrasse istantaneamente i vasi
sanguigni periferici. Divenne terreo, le mani e i piedi gelidi. La fronte
gli si imperlò di sudore. Socchiuse gli occhi, e vacillò leggermente.
«Robby? Robby, ti senti bene? Ehi…»
La voce preoccupata di Valentina lo riscosse leggermente. Strinse più
volte le palpebre, passandosi una mano sul viso. Si guardò intorno,
confuso. Cosa stava facendo qui? Cosa stava facendo qui? Cosa diavolo
stava facendo qui? No, non era possibile. Non era possibile. Non
poteva essere vero. Nei suoi occhi si dipinse il panico. Inspirò
avidamente e si alzò di scatto. Iniziò a camminare su e giù per la stanza,
in preda all’agitazione. Scuoteva la testa e mormorava fra sé, rivolgendo
gli occhi ora al pavimento ora al soffitto. Valentina, immobilizzata sul
divano, lo guardava incredula.
«Robby…»
Fedele finalmente registrò la presenza di Valentina. Con uno sforzo
notevole recuperò un minimo di contegno e la guardò con aria
colpevole.
«Cosa è successo, Robby? Cosa c’era scritto nel messaggio?»
184
Lui non rispose. Si sedette e affondò il viso fra le mani.
«E’ lei, vero? La tua fidanzata. Ti ha beccato.»
Lui annuì impercettibilmente.
«Capisco.» La sua voce si era fatta glaciale. Era tutto chiaro.
Terribilmente chiaro.
Restarono in silenzio per un tempo interminabile. Poi Fedele alzò il
viso. I suoi occhi erano arrossati.
«Mi dispiace Vale. Mi dispiace.»
Lei era una maschera immobile. Nessuna traccia di emozione. Non
c’era molto altro da dire. Lui aveva già fatto la sua scelta.
«E adesso cosa vuoi fare?»
«Ti prego, portami alla stazione.»
***
Di ritorno dalla stazione, Valentina guidava con il riflesso del sole
ormai basso sugli occhiali scuri. Non aveva detto una sola parola, per
tutto il tempo. Aveva semplicemente tirato fuori il Pajero dalla rimessa,
guidando lentamente e in silenzio. Aveva accostato di fronte
all’ingresso della stazione, aspettando che lui scendesse senza mai
guardarlo, tenendo il motore accesso. Quando finalmente aveva sentito
chiudersi la portiera era ripartita senza salutarlo.
Valentina era delusa e arrabbiata, soprattutto con se stessa. Per queste
lacrime stupide che ora scendevano in modo del tutto indipendente
dalla sua volontà, offuscandole la vista. Per l’intensa e ottusa felicità che
si era permessa di provare oggi. Per quell’irragionevole speranza che le
185
si era intrufolata dentro, esponendola a tutto questo inutile dolore. Ma
soprattutto, Valentina non poteva perdonarsi di avere messo la testa
sotto la sabbia per tanto tempo. Sapeva di Sara, ma aveva
deliberatamente evitato di porsi il problema. Non era stata eccessiva
fiducia in se stessa, no. Era stata paura. Paura che affrontare
quell’argomento potesse far evaporare l’armonia magica che si era
creata fra loro. Paura che volere troppo potesse significare perdere
tutto. E così era rimasta a galleggiare sopra quel gigantesco silenzio,
aspettando come una scema l’onda che l’aveva spazzata via in un
istante. Era bastato un messaggio. Cancellata da 160 caratteri. Questo
valeva, per lui. Meno di 160 caratteri.
Fermò la macchina nel cortile di fronte a casa. Era esausta. Voleva
solo farsi una doccia, dormire e dimenticare. Si sfilò gli occhiali da sole
e li ripose davanti alla leva del cambio. Nel farlo, posò gli occhi sulla
copertina del volume che lui aveva lasciato sul sedile del passeggero. La
storia infinita. L’aveva fatto quasi di nascosto, prima di scendere,
mormorando qualcosa come “L’avevo preso per te”. Lei non l’aveva
quasi sentito.
Lo prese in mano e lo guardò. La copertina rigida color rubino cupo,
con i due serpenti che si mordono vicendevolmente la coda. Nel
formato originale, che ormai non si trovava più da nessuna parte.
Chissà dove era andato a scovarlo.
Valentina non resistette alla tentazione di aprirlo. Nella prima pagina
c’era una dedica, scritta con la sua grafia nervosa. Una citazione del
testo.
186
“Ma i desideri non si possono evocare, né soffocare a piacimento.
Essi nascono dalle profondità più remote del nostro animo, più
nascosti di ogni altra intenzione, siano essi buoni o cattivi. E a
nostra insaputa.”
Grazie, per avermi fatto desiderare.
Roberto
Gli occhi le si riempirono ancora di lacrime. Scosse la testa e sorrise
amara. Poi scese dalla macchina e gettò il libro nel bidone dei rifiuti.
***
Il treno fermò nella stazione di Reggio Emilia alle 23.57, puntuale.
Una notte tiepida accolse Fedele nel silenzio tombale del quarto
binario. Camminò lentamente accanto al treno che ripartì quasi subito,
accompagnandolo per qualche secondo prima di sparire tra le luci
distanti della periferia cittadina. Infilò la scalinata del sottopassaggio e
riemerse all’altezza del primo binario. Due occhi scuri si soffermarono
sul suo zainetto in un modo che, in altri momenti, avrebbe potuto
preoccuparlo. Non stasera. Infilò la porta della stazione e si diresse
verso la macchina.
In treno aveva avuto modo di riprendersi e di riflettere. C’era voluta
almeno un’ora di agonia sul sedile prima che il suo cervello riprendesse
a funzionare normalmente, ma nelle rimanenti due ore di viaggio c’era
stato tutto il tempo di andare oltre il devastante senso di colpa e la
187
disperazione per il messaggio di Sara. C’era stato il tempo di fermarsi a
riflettere su cause, effetti e meccanismi. Adesso, oltre all’esorbitante
quantità di elaborate autodiagnosi a sfondo vagamente psicologico, a
Fedele rimanevano due domande fondamentali.
La prima riguardava la sua reazione al messaggio. Cosa diavolo gli era
successo? D’accordo, era stato sorpreso con le mani nella marmellata,
ma in definitiva niente giustificava una reazione tanto istintiva e
precipitosa. Si era scoperto molto più fragile del previsto. Aveva perso
ogni barlume di razionalità, e per un tempo incredibilmente lungo la
sua mente era stata occupata da un solo pensiero: devo andare da lei,
devo spiegarle tutto. Aveva sentito con una forza insostenibile il
bisogno di scaricare su Sara la responsabilità della scelta, di farsi
uccidere da lei piuttosto che sopportarsi così, completamente sbagliato.
Non aveva saputo reggere nemmeno per un istante il peso del suo
tradimento. Di quale tradimento, poi? Alla fine, nei fatti, lui era ancora
fedele. Non per merito suo, forse, ma lo era ancora. E i processi alle
intenzioni, nel codice penale della sua coscienza, portavano a condanne
più blande. Era sempre stato così. E allora perché reagire in modo
tanto spropositato?
La seconda era di ordine molto più pratico. Dove aveva sbagliato?
Come aveva fatto Sara a scoprire la verità? Era convinto di avere fatto
tutto il necessario per coprirsi nel migliore dei modi. Nessuno al
mondo sapeva di Valentina. Le uniche tracce erano nel suo computer, e
Sara non aveva né l’opportunità né le competenze necessarie a entrare
nel suo PC e aprire certi files accuratamente protetti da password.
Certo, lei era tragicamente gelosa… probabilmente aveva scoperto che
188
quella di Vasco era solo una copertura, ed era saltata alle conclusioni.
Un attimo, però. Quali conclusioni? Lei non aveva scritto niente a
proposito di tradimenti o altre donne. Lei aveva parlato solo di fiducia.
Mi fidavo di te. Sì, doveva essere andata così. Sara aveva scoperto che lui
le aveva mentito, ma non aveva nessuna prova del fatto che la stesse
tradendo. Probabilmente lo immaginava, o non avrebbe scritto un
simile messaggio, ma non lo sapeva, non poteva saperlo. Se era così,
aveva ancora una possibilità. Si trattava di trovare una scusa credibile,
qualcosa che non fosse la verità ma giustificasse l’esigenza di mentirle.
Qualcosa che lei non avrebbe mai approvato. Tipo passare la notte in
discoteca sulla riviera romagnola. Ecco, qualcosa del genere. Una notte
brava fra amici, troppo lontana dai suoi schemi di brava ragazza di
parrocchia per poter essere spiegata. Però doveva fare molta, molta
attenzione a non tradirsi... Il problema era che lui non aveva idea di
cosa avesse esattamente scoperto Sara, e soprattutto come. Poteva
avere parlato con Teenva o qualcuno dell’Hdemia? No, era da
escludere, li conosceva solo per nome, non li aveva mai incontrati. E
allora chi altro poteva averlo tradito? Nessun altro sapeva di quel
viaggio, a parte i suoi amici e la sua famiglia, non c’era altra possibilità.
Si fermò in mezzo al marciapiede, come fulminato. La sua famiglia.
Sua madre. Aveva usato due scuse diverse per la madre e per Sara. A lei
aveva detto di essere andato con Teenva, a sua madre di essere andato
con Sara. Un errore imperdonabile, assolutamente imperdonabile. Si
erano parlate. Doveva essere andata così. Avrebbe voluto prendersi a
schiaffi, per quanto era stato idiota.
189
A pensarci bene, però, in questo modo non si era bruciato la carta
dell’uscita in gruppo… quindi restava ancora aperta la porta della notte
brava con l’Hdemia. Avrebbe potuto dire a Sara di essere andato con
Teenva e gli altri… facciamo a Rimini. A Rimini, sì, all’inaugurazione di
qualche discoteca! Si sarebbe sperticato in scuse, ma non avrebbe
mancato di sollevare qualche timida obiezione. Se lei si fosse veramente
fidata di lui non l’avrebbe messo in condizione di dover mentire. Certo,
lui aveva sbagliato, non si sarebbe mai più ripetuto, le chiedeva
perdono. Ma forse, in futuro, avrebbero davvero dovuto imparare a
fidarsi fino in fondo l’uno dell’altra.
Fedele inspirò a fondo la notte stellata di via Turri. C’era ancora un
barlume di speranza, c’era ancora qualche carta da giocare. Poteva
ancora salvarsi. Certo, bisognava barare fino in fondo, aggiungere
menzogna a menzogna, e farlo anche bene. Ma il gioco valeva la
candela. E poi lui si chiamava Fedele… non Sincero…
***
Sara osservava il profilo spigoloso del naso di Max. Lui era disteso
supino, la nuca affondata nel soffice cuscino bianco, le palpebre
socchiuse. Lei era sul fianco destro, i seni premuti sul braccio sinistro di
lui, le labbra appoggiate sulla sua spalla in una serie interminabile di
piccoli baci. Sara percorreva lentamente i tratti del suo viso con l’indice
della mano sinistra. Nel farlo, ascoltava la meraviglia di questo silenzio.
Silenzio dentro. Nessun senso di colpa, nessuna tensione. Era tutto
come avrebbe dovuto essere. Naturale, intimo, profondo. Dal punto di
190
vista strettamente erotico, non era stato un rapporto fuori
dell’ordinario. Ciò che lo aveva reso così intenso, lei lo comprendeva
bene, era stata l’intesa spirituale, che aveva amplificato il suo piacere
fino a vette mai sperimentate prima. Adesso, in questo spazio dove
nessuna parola avrebbe potuto trovare la minima adeguatezza, Sara si
sentiva inspiegabilmente e dolcemente giusta.
Il pensiero sfiorò solo per un istante, con un senso di remoto disagio,
l’immagine di Fedele. Questo non era stato un tradimento, ma la
fioritura spontanea di un bocciolo tenuto per troppo tempo al buio.
Soltanto l’ordine degli eventi era stato invertito. Avrebbe voluto
potergli parlare già nel pomeriggio, ma il furto del cellulare e la sua
partenza per il concerto gliel’avevano impedito. Poco male. Dentro di
sé, l’aveva già lasciato.
***
All’interno della sua Z3 parcheggiata in doppia fila di fronte alla
stazione, Teenva strinse il pugno in un silenzioso gesto di esultanza
quando vide Fedele uscire a passo svelto. Tutti i suoi calcoli erano stati
esatti, dunque.
Subito dopo aver inviato l’sms, Teenva era stato colto da mille dubbi.
Si era reso conto di avere dato retta al proprio istinto in maniera forse
eccessiva. Aveva dato per scontato che Fedele fosse con una ragazza, e
di questo era quasi certo. Ma aveva anche dato per scontato che quella
strana destinazione – Ancona – fosse quella in cui effettivamente si
sarebbe recato. Conoscendo Fedele, era chiaro che sarebbe andato in
191
treno. Non amava guidare, e Ancona era piuttosto lontana. Ma se
invece quella mèta fosse stata solo un’altra bugia? Se l’avventura fosse
stata a Reggio o poco distante, e avesse voluto soltanto garantirsi la
possibilità di passare la notte fuori? In quel caso tutti i suoi calcoli
sarebbero stati sbagliati, e il messaggio ricevuto poco dopo le 18
avrebbe potuto indurlo a correre da Sara prima che arrivasse il suo
manzo. Perché su questo non c’erano dubbi: Fedele si sarebbe cagato
nelle braghe e sarebbe corso immediatamente a chiedere perdono al
suo amore. Ma se questa corsa fosse stata solo una passeggiata di pochi
minuti? C’era solo un modo per scoprirlo: Teenva aveva telefonato in
stazione e si era fatto dare gli orari di tutti i treni in arrivo da Ancona.
Aveva atteso alcune ore, poi era andato ad appostarsi di fronte alla
stazione.
Adesso, vedendo Fedele percorrere via Turri con il viso tirato e
pensieroso, Teenva provava una sensazione dolceamara di trionfo. Se
Fedele fosse andato direttamente a casa di Sara il piano sarebbe
perfettamente riuscito, e quel figlio di puttana avrebbe avuto quello che
si meritava.
Girò la chiavetta e accese il motore. Quando l’utilitaria di Fedele si
mosse, iniziò a seguirla mantenendosi a prudente distanza.
***
Fedele parcheggiò di fronte alla palazzina in cui abitava Sara pochi
minuti dopo la mezzanotte. La possibilità di andare a dormire e
affrontare la questione il giorno dopo – l’ultima preoccupazione di
192
Teenva – non lo aveva sfiorato nemmeno per un istante. Doveva
risolvere la cosa subito, dimostrarle che per lei era stato pronto a
mollare tutto, cosa peraltro vera. Sara era la cosa più importante. Lui e
lei, insieme. Solo con lei era Fedele, nonostante tutto. Solo con lei tutto
tornava in ordine, ogni cosa al proprio posto.
Aprì la porta esterna con le sue chiavi, come faceva sempre, e salì
velocemente i gradini fino al terzo piano, ripassando mentalmente
quello che le avrebbe detto. Indossò una maschera di profonda
contrizione, sostenuta però da un robusto sottofondo di dignità. Ti
chiedo perdono amore, ma andiamo oltre questo episodio. Non
fermiamoci al dito, guardiamo la luna. Ciò che conta siamo noi due, la
fiducia fra noi, il progetto che vogliamo realizzare insieme. Cogliamo
questa opportunità perché sia un nuovo inizio, su nuove basi.
Suonò il campanello. Silenzio. Probabilmente stava dormendo.
Rumore di passi oltre la porta.
«Chi è?»
«Sono io, Sara. Per favore, fammi entrare.»
Ancora silenzio. A lungo. Se lo aspettava, visto il tenore del
messaggio. Probabilmente non voleva vederlo, era troppo arrabbiata.
Non importava. Avrebbe dormito sul pianerottolo, se fosse stato
necessario.
Stava per suonare di nuovo, quando sentì la chiave girare nella
serratura. La porta si aprì. Sara era di fronte a lui, in una camicia da
notte baby doll bianca. Se Fedele fosse stato abbastanza lucido avrebbe
notato che si trattava di un capo nuovo, insolitamente sexy.
193
«Grazie di avermi fatto entrare… Sara, io… io non so cosa dire…
come chiederti perdono…»
Si interruppe, guardandola in viso. Fino a quel momento era stato
così concentrato sul proprio ruolo da non cogliere l’espressione
angosciata di lei. Era pallida, con il viso tirato e uno sguardo che non
aveva niente del furore o del disprezzo che si era aspettato. Quella che
vedeva nei suoi occhi era inequivocabilmente paura. Fedele lo registrò a
livello inconscio, con il risultato di trovarsi improvvisamente confuso e
a corto di parole. Restò in silenzio a guardarla per alcuni istanti, fino a
quando un movimento sullo sfondo attirò la sua attenzione.
Dalla camera da letto vide uscire la sagoma di un uomo. Basso, naso
aquilino, jeans e maglietta. Giovane. Mai visto prima. Si era andato a
piazzare lentamente proprio di fianco a Sara, e ora guardava Fedele
dritto negli occhi, con un’espressione che era insieme di colpa e di
sfida. Fedele lasciò cadere la mandibola di un paio di centimetri.
Guardò Sara. Poi lui. Poi li guardò insieme.
«E questo chi cazzo è?»
***
Teenva vide Fedele uscire dalla palazzina. Controllò l’orologio. Era
stato dentro meno di quindici minuti. Aveva il viso sconvolto, lo
sguardo sbarrato. Sembrava in trance. Splendido.
Girò la chiavetta e portò la Z3 sul ciglio della strada. Quando Fedele
gli passò accanto, abbassò il finestrino.
194
«Ciao, Fedele.» Fece una breve pausa, vedendo il dolore dipinto sul
viso di quello che era stato il suo migliore amico. «Spero che tu abbia
passato una bella serata. La mia è stata ottima.»
Mantenendo il sorriso sulle labbra, ingranò la prima e partì
sgommando.
195
CAPITOLO OTTAVO
Dove il Lupo capisce alcune cose
Data: lunedì 12 giugno 2000
DA: Discipulo ( [email protected])
A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo
([email protected]); Libero Ricercatope
([email protected]); dr. Fedele ([email protected])
CC: Ciambellano ( [email protected])
Oggetto: Accorato appello
Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens
in Vulva Veritas
Stimatissimi e reverendissimi Patres,
per la prima volta mi accingo a vergare l'etere Hdemico di mio
pugno. Confesso che è una sensazione invero strana, sono quasi le
20 e ancora nessuno ha pensato di scrivere la consueta mail d'inizio
settimana: bè, lo faccio io. È un periodo difficile, la crisi in atto al
nostro interno si sta prolungando davvero troppo e un segnale
sconfortante e preoccupante si è avuto venerdì scorso, quando per
la prima volta non si è potuta perpetrare la consumata consuetudine
della Sacra Serata Hdemica per la contemporanea assenza di ben
196
due Patres. Non so, magari mi sbaglio, ma lo leggo come un
segnale. Un brutto segnale, Signori miei. Gli scricchiolii del tempo –
vorrei poterli chiamare così – stanno scuotendo le fondamenta
stesse della Nobile Hdemia e sembra che a nessuno importi
davvero. Ecco, l'ho detto.
Dr. Fedele, dr. Teenva. In fondo è a Voi che umilmente mi rivolgo in
prima istanza. C'è bisogno di Voi e – ne sono sicuro – anche Voi
avete bisogno di Noi. Dell'Hdemia.
Ma mi rivolgo anche al Dr. Lupo e al reverendissimo Libero
Ricercatope: è in questi frangenti che si vede cos'è l'amicizia, è in
questi giorni di tempesta che si deve restare uniti e scansare il
proprio orgoglio e le proprie rivendicazioni per il bene comune,
agendo e aiutando chi è in difficoltà.
Chissà, magari alla prossima riunione – perché sono SICURO che
venerdì ci sarà – ne rideremo e saremo “belli carichi” per nuove
mirabolanti Imprese Hdemiche, e allora questa mia mail potrà
essere dimenticata o messa agli atti o... quello che Vorrete Voi,
augusti Padri!
Vorrete scusare il mio ardire e il tono poco consono, ma il cuore è
pesante in queste ore e volevo che lo sapeste, tutto qui.
in Vulva Veritas
Accolitus
Lunedì 12 giugno 2000
Aveva mangiato la pizza controllando la posta elettronica e adesso
era davanti al monitor del suo computer, a leggere e rileggere la mail del
Discipulo. Se lo ricordava bene il Lupo lo scorso venerdì: piatto e
197
“moscio” come pochi altri, un tavolino defilato vicino al cesso, Lui, il
Libero Ricercatope e il Discipulo appunto. Attorno, un locale con
pochi clienti, Barbara a servire ai tavoli e uno dei tanti loschi amici di
Milva dietro al bancone, a spillare birre e a preparare caffè. Milva no.
Neanche quella sera era al bar. Il Lupo se lo ricordava bene quel
venerdì storto, senza Teenva, senza Fedele e senza Milva. Quella era
stata la prima volta che aveva messo piede al bar dalla sera dello
scontro con Milva. Il Discipulo pareva essersene accorto, mentre
Libero non gli aveva fatto cenno di nulla. Libero. Bravo ragazzo, ma
così... così distante da tutto e da tutti. Come se non gli importasse
davvero di niente.
Il Lupo spense il computer e stette fermo a fissare il monitor nero,
con il cartone della pizza aperto sulla tastiera. Era ad un punto morto.
Non aveva capito niente di quello che Milva gli aveva detto, se non di
starsene lontano. E lui aveva obbedito. Lo aveva chiesto lei. Aveva
provato a non pensarci più, tuffandosi nel lavoro, ma le ore davanti a
quella macchina erano lunghe da far passare, e il viso di lei, le sue mani,
i suoi occhi e la sua voce a poco a poco avevano ripreso possesso della
sua mente. E allora aveva ricominciato a pensarci, eccome se aveva
ricominciato. Ma non era mai ritornato a seguirla e non era più andato
al bar. Eppure avvertiva come se ci fosse un errore, come se non avesse
messo a fuoco correttamente tutta la situazione. Non aveva neanche
capito tanto bene cosa fosse capitato tra Teenva e Fedele, ma anche
con loro non aveva fatto nulla: si era limitato a guardare, lasciando che
l'Hdemia gli scivolasse via tra le mani.
198
Scostò le tende della sala, il sole di giugno batteva forte nel primo
dopo pranzo della periferia, in cortile una schiera di bambini giocava e
urlava. E lui stava lì, a guardarli. Guardare. No, Lupo, così non va bene.
Anche il Discipulo l'ha scritto: bisogna agire, per rimediare a quello che
sta accadendo. Perché quello che sta succedendo mica è normale,
Lupo: Teenva e Fedele che litigano di brutto, l'Hdemia ridotta
all'impotenza, e Milva? Cosa sta accadendo a Milva?
Eppure nessuno ha chiesto il tuo aiuto, vero Lupo? Forse è giusto
così, che ognuno segua in solitaria i propri sogni. O i propri fantasmi.
Il Lupo si allontanò dalla finestra, prese il cartone della pizza e lo
cacciò nel pattume insieme alla bottiglia di birra vuota. Non sapeva
cosa fare. Sasha glielo aveva detto tante volte.
Segui i tuoi sogni.
Ma era diventato tremendamente complicato per il Lupo seguire i
propri sogni. Milva gli aveva detto di ignorarlo, di lasciare che svanisse
via.
Si sfregò vigorosamente il viso con le mani e chiuse gli occhi per
qualche istante.
Segui i tuoi sogni, amore mio.
Si allungò verso la credenza, sulla quale aveva appoggiato, assieme ad
altri fogli, anche la cartellina con tutto il suo romanzo: la prese, si andò
a sedere alla scrivania e cominciò a sfogliarla leggendo qua e là alcuni
brani. Gli era venuto in mente così, all'improvviso: era passato tanto
tempo dall'ultima volta che aveva lavorato al suo romanzo. Tutta quella
storia di Milva lo aveva distratto e non aveva più avuto tempo. Ma
forse Sasha aveva ragione: dopo tutto, Sasha aveva sempre ragione. Lui
199
doveva seguire i suoi sogni e uno di questi – forse il più importante –
era quello di trovare un editore e far leggere a tutti le sue storie. Stette a
pensarci un bel po'. Provò a scrivere qualche riga, ma l'ispirazione non
arrivava.
Certo, scrivere al bar era tutt'altra cosa.
Ma dai Lupo, non starai pensando di andare al bar adesso, vero?
In fondo non era una cattiva idea, in fondo le chiavi le aveva ancora
lui.
Ma è giorno di chiusura. Potrebbe esserci anche Milva.
Probabile. In tal caso gli chiederai se puoi rimanere lì a scrivere, vero
Lupo?
E se ti dice di no?
Il Lupo si cacciò sotto la doccia, tirò fuori un paio di jeans scuri, una
camicia a fiori e il suo cappellino Ducati. Se lo infilò in testa con cura, si
fermò un attimo davanti al piccolo specchio in corridoio e corse fuori
con le chiavi del bar. Aveva deciso. Lui ci sarebbe andato a scrivere, e
se là avesse trovato anche Milva bé, allora avrebbe pensato cosa fare e
cosa dire. Salì sulla Golf GTI, inforcò i suoi occhiali da sole, e guidò
veloce fino al parcheggio del bar Milva. Spense il motore e stette
fermo. Si sorprese nel guardare la sua mano tremare lievemente.
Adesso lì, a pochi passi dal bar, si stava chiedendo se avesse fatto la
cosa giusta, o non fosse meglio tornarsene a casa. Si accese una
sigaretta e cercò di concentrarsi unicamente sul riverbero del sole e
sulle grida in lontananza di alcuni ragazzini che giocavano nel parco lì
vicino. Dio com'era tremendamente complicata la vita! Gli sembrava di
essere un personaggio del suo romanzo, un personaggio sferzato da
200
sentimenti contrastanti, paure e desideri, ma adesso queste sensazioni le
stava vivendo lui. Nessun altro con cui parlare. Solo se stesso e la sua
sigaretta e la sua auto.
Sospirò forte
un “cazzo” prendendo la cartellina sul sedile
posteriore, scese dall'auto e iniziò ad incamminarsi verso il bar,
lentamente.
Dopo soli pochi passi si fermò, come se ancora qualcosa stonasse
con il resto. Ritornò indietro, indeciso. Soltanto quando si vide riflesso
sul parabrezza dell’auto capì. Non era giornata da Lupo, quella. Azionò
l’antifurto, aprì la portiera, si sfilò dolcemente il cappellino e lo
appoggiò con cura sul sedile posteriore. Si guardò ancora un po’ nello
specchietto retrovisore, quindi si decise ad andare.
Adesso era pronto a fare il suo ritorno al bar. Niente Lupo, niente
Hdemia quel giorno. C’erano soltanto Cesare e il suo romanzo.
Attraversò il parcheggio posteriore e sbucò davanti alle vetrate del
bar: vide le luci accese e subito il cuore iniziò a galoppare.
Evidentemente c'era qualcuno. Sperò non fosse Milva. Se possibile
rallentò ulteriormente l'andatura e cercò di ragionare.
Se è lei, tanto meglio. Vi parlerete e vi spiegherete con calma. Tu
Lupo sei lì per scrivere, di altro non te ne frega niente giusto?
Giusto. Ma lei ci crederà?
Ma tanto non può essere lei. Sarà Barbara che chiude un po' di conti.
O magari ci sono tutte e due.
Meglio. Sì, molto meglio se ci sono tutte e due: sarà più facile
spiegarsi.
201
Intanto era arrivato proprio davanti alla porta d'ingresso. Rimise in
tasca le chiavi del magazzino: inutile entrare da là visto che nel bar c'era
già qualcuno. Tanto valeva passare dalla porta principale.
Il Lupo sentì una voce. Non capì bene, ma distinse chiaramente a chi
apparteneva: a Milva. Dunque lei c'era. E non era sola. Restò fermo
qualche secondo, il tempo necessario per riprendere il coraggio di
entrare, ora che aveva la certezza che si sarebbe ritrovato davanti a lei.
Proprio mentre stava per appoggiare la mano sulla maniglia, venne
sferzato da una voce maschile dall’accento meridionale. Percepì
nettamente ogni singola parola e restò paralizzato.
«Due giorni. Poi ti ammazzo.»
Il Lupo era bloccato dal terrore. Sentiva il sangue battergli con
violenza nelle tempie e il cuore che cominciava a correre come un
pazzo. Fece un passo indietro.
«...soldi... mi... tempo.»
Era la voce di Milva. Sembrava sussurrare, sembrava piangere.
Checazzofacciochecazzofaccio? Il Lupo alzò gli occhi verso l'alto, vide
il buco in una delle vetrate: ragazzi, aveva minimizzato Milva.
Checazzofacciochecazzofaccio? Ora era tutto chiaro. Fu un lampo. Un
velo dietro agli occhi. Sentì la propria mano afferrare la maniglia e vide
la porta del bar spalancarsi. Udì distante la sua voce arrampicarsi in un
urlo, mentre i suoi occhi non riuscirono a vedere se stesso prendere
una sedia e farla precipitare con tutta la violenza di cui era capace sulla
testa dell'uomo.
Due secondi. O tre. Nessuno ebbe il tempo di capire quello che stava
accadendo. Non lo capì l'uomo, che venne abbattuto con il coltello a
202
serramanico in pugno. Non lo capì Milva, ancora concentrata sul
freddo della lama che fino a pochi istanti prima aveva puntata alla gola.
E non lo capì il Lupo, che si credeva ancora all'esterno del locale,
indeciso se entrare o portare il suo romanzo a morire in qualche
cassetto della sua scrivania.
«Lupo...cosa hai fatto?»
Si ridestò. Riconobbe la voce di Milva. Vide l'uomo disteso sul
pavimento e si accorse di avere ancora in mano la sedia del tavolino di
fianco all'ingresso.
«Dio santo Lupo cosa hai combinato?»
Milva era terrorizzata. Solo allora il Lupo capì quello che aveva fatto.
La
donna
continuava
nella
sua
litania
isterica
cosahaicombinatocosahaicombinatocosahaicombinato, lui cercava di
ragionare veloce.
«Adesso smettila per Dio!»
Finalmente silenzio. Milva si era zittita e lo fissava. Il Lupo
camminava nervosamente nel poco spazio tra la porta d'ingresso e il
bancone del bar. Stavano, ognuno a modo proprio, pensando a cosa
fare.
«Dai svelta. Muoviti.»
«…»
«Dobbiamo andarcene da qui. E anche in fretta.»
«…»
«Milva mi hai capito?»
Lei continuava a fissarlo.
«Io non vado da nessuna parte.»
203
«Non possiamo stare qui. Quando si riprenderà ci ammazzerà a tutti
e due.»
«Si può sapere chi cazzo sei?»
«Milva sono un amico. Sono il Lupo.»
La donna non disse nulla. Allora il Lupo capì che doveva essere lui a
decidere cosa fare. Solo che non ne aveva la minima idea. Sapeva
soltanto che dovevano andarsene, e anche di corsa. Sospirò.
«Dai forza, dammi una mano.»
«Cosa vuoi fare?»
«Portarlo fuori da qui, è chiaro.»
«…»
«Senti Milva. Questo tra un po' si sveglierà. Non possiamo lasciarlo
qui. Noi ora lo portiamo fuori, chiudiamo il bar e ce ne andiamo via.»
Milva rise. Una risata isterica. Il Lupo non ci fece caso, e spinse la
donna verso il corpo a terra.
«Al mio tre lo solleviamo e lo portiamo fuori, sul retro.»
Con grande fatica riuscirono a portare l'uomo fuori dal locale e da lì
lo trascinarono sul retro. Poi corsero a chiudere il bar.
«E adesso?»
«E adesso vieni via con me.»
«Ma tu scherzi!»
«No, non scherzo.» Il Lupo afferrò Milva per il polso e la trascinò
verso la macchina. «Andremo da me. Nessuno ti troverà.»
Sgommò nel deserto del parcheggio, i bambini nel parco lì vicino non
si erano accorti di nulla. La strada era vuota. Guidò rapido e non
scambiarono una parola.
204
Il Lupo stava ricostruendo tutto quello che era accaduto negli ultimi
minuti. Aveva aiutato Milva, l'aveva salvata. Protetta. E adesso era lì, al
suo fianco. Lui che guidava e lei con la testa appoggiata al finestrino.
Insieme. Quante volte aveva sognato questo momento! Subito non
sapeva bene cosa voleva, ma ora, con la città che sonnecchiava nel
caldo di metà giugno e Milva nella sua auto, bé sì, d'improvviso aveva
capito tutto.
Sì amore mio: ti proteggerò io.
Lo sapeva che sarebbe andata a finire male. Se ne era convinta, sin da
subito. Da quel maledetto giorno in cui, arrivata al bar, aveva trovato
una delle vetrate in frantumi. Lei non era stupida, per niente. Aveva
capito cosa significava quel vetro rotto. E adesso era lì, in un’auto che
non era la sua, con qualcuno al volante che - ora ne era certa – proprio
non conosceva. O meglio. Conosceva quel ragazzo come “il Lupo”, ma
chi era davvero? Non riusciva a trovare ancora il coraggio di guardarlo.
Lui non parlava, guidava nervoso verso una meta che conosceva
soltanto lui. E lei si stava fidando. Non aveva altra scelta. Fino a pochi
minuti prima aveva un coltello puntato alla gola e trenta milioni che
non era riuscita a trovare. I soldi erano il meno. Anche il coltello. Non
era la prima volta che le capitava. Anzi, forse aveva attraversato
momenti ancor più difficili. O forse no. Bè, adesso lì, seduta con la
testa appoggiata al finestrino di quell’auto, non le venivano in mente
altre situazioni simili, ma sapeva di averle già vissute, nel suo passato. E
in fondo, in un modo o nell’altro, ne era uscita fuori viva. No, quello
che più la spaventava era qualcos’altro. Era la certezza di aver perso il
205
bar. Era stupido, lo sapeva, ma quel bar era casa sua. Quel bar era tutta
la sua vita. La sua nuova vita che con fatica si era ricostruita pezzo per
pezzo. E quel bastardo terrone con un paio di sassi e un coltello l’aveva
distrutta, cancellata.
Ormai erano arrivati dall’altra parte della città. L’auto continuava a
correre. Milva con la coda dell’occhio riusciva a vedere il Lupo ancora
scosso, sembrava avere più paura di lei. Ma chi era “il Lupo”? Chi
accidenti era questo tizio che era entrato nella sua vita? L’aveva seguita,
l’aveva pedinata e si era pure fatto beccare. E anche oggi lui era lì.
Dopo tanti giorni, era ricomparso. Proprio quel giorno, proprio in quel
momento. Come faceva a sapere?
Attenta Milva, non c’è da fidarsi. Lui sa. Lui è coinvolto, anche se a
guardarlo sembra più spaventato di te.
Eppure c’era qualcosa che – si potrebbe dire – le dava sicurezza.
Sentiva di poterlo controllare. Non aveva paura. Paura l’aveva avuta
prima, quando il freddo della lama le aveva stuzzicato la carotide. Lì si
che aveva avuto paura. Adesso no. Adesso, a bordo di quell’auto, era
più incertezza, era quasi curiosità: dove stavano andando? E cosa
sarebbe accaduto, dopo?
Milva si ridestò dai suoi pensieri quando si accorse che il Lupo stava
entrando nel parcheggio di un complesso condominiale: evidentemente
la corsa era finita.
«Eccoci arrivati.»
Non disse nient’altro, smontò dall’auto e si allungò sul sedile
posteriore per prendere il suo cappellino. Lei lo seguì, sempre in
206
silenzio. Entrarono dal portone a vetri in un condominio costruito
negli anni’70, un palazzo alto e marrone chiaro. Ascensore, sesto piano,
chiavi, porta che si apre e finalmente dentro, nell’appartamento. Milva
si guardò intorno notando come l’arredamento rispecchiasse l’inquilino
che ci viveva. Niente di ricercato, ma nemmeno sciatto. Quasi tutto il
mobilio era Ikea, i pochi quadri appesi coprivano il bianco delle pareti,
un imponente impianto stereo era evidentemente il fulcro della sala e
molti cd erano sparsi sul tavolo. Tutto molto anonimo, impersonale.
«Prendi.»
Il Lupo era tornato con due bicchieri e una bottiglia di vodka di
quelle che si trovano negli hard discount. Non sapeva cosa dire, da
dove cominciare. Non riusciva ancora a crederci di avere Milva seduta
sul suo divano, a casa sua. Quasi non pensava più a quello che era
accaduto soltanto pochi minuti prima, al bar.
«Come ti senti?»
La donna avvertì il disagio del ragazzo, la sua voce era lievemente
rotta dall’imbarazzo. Ci pensò bene prima di rispondere: c’era qualcosa
che non quadrava in tutta la faccenda e ancora non era riuscita a capire
cosa fosse.
«Confusa».
«Beh lo immagino».
Si guardarono per un bel po’ senza aggiungere nulla. Il Lupo non
riuscì a sostenere lo sguardo per tanto. Bevve un sorso di vodka
spostando gli occhi sul bicchiere. E adesso cosa le dico?
207
Milva invece continuava ad osservarlo. Adesso era perfettamente
lucida. L’alcool l’aveva fatta ritornare vigile e attenta. Ancora non
sapeva chi fosse quest’uomo, e non aveva deciso se poteva fidarsi.
Erano entrambi spaventati. Entrambi avevano domande senza
risposte come barriere, recinzioni che non sapevano come scavalcare.
Fu lei, alla fine di interminabili minuti di silenzio, a decidere per tutti e
due, a decidere che quello era il momento giusto per la domanda che
l’aveva assillata per tutto il tragitto.
Milva si sforzò di distendere i muscoli del viso in un sorriso almeno
decente, tentò di affrontare il Lupo come se non fosse pericoloso,
perché questo le diceva il suo istinto: quel ragazzo non era pericoloso.
Ma erano troppe le coincidenze. E anche troppe le volte che nella sua
vita si era fidata. Sbagliando. Ma lei era fatta così. Il male lo conosceva,
magari non riusciva a sfuggirgli, ma lo conosceva bene. E il Lupo non
gli assomigliava.
«Lupo, ho una domanda da farti» sospirò forte Milva, cercando di
mantenere uno sguardo deciso ma non aggressivo.
«Sì, dimmi.» Lui fece per appoggiare il bicchiere sul tavolo, ma poi
preferì tenerlo in mano.
«Come facevi a sapere che ero al bar?»
Il Lupo deglutì e si rallegrò di avere il bicchiere tra le mani. Altrimenti
non avrebbe saputo dove metterle, tanto era teso e imbarazzato.
«Non lo sapevo.»
Milva alzò impercettibilmente il sopraciglio. Stava pensando. Veloce.
«Ero venuto al bar per scrivere.»
«Per scrivere?» chiese lei, sospettosa.
208
«Sì, sì per scrivere. Il mio romanzo.»
«Ma tu chi sei?» Non riuscì a non fargli quella domanda, in quel
modo così diretto.
«Sono un tuo amico». Prese il coraggio a due mani e continuò. «Senti
Milva. So che c’è qualcosa che non va. Giorni fa ti ho sentita con
Barbara. Subito mi son detto che non erano affari miei, ma poi ti ho
vista vestita… strana, ecco, e allora una sera ti ho seguita e poi anche la
sera dopo e così fino a quando non mi hai beccato. Mi hai detto di
starti lontana e anche se mi costa l’ho fatto.»
Aveva parlato tutto d’un fiato, senza pause, senza vergogna. Milva
stava analizzando quello che aveva appena sentito. Lui non sapeva
niente. Lui non c’entrava niente.
Non sapeva cosa dire.
«E’ un periodo di merda. Teenva e Fedele hanno avuto uno scazzo,
tu che mi hai detto di starti lontana… mi rimaneva solo il romanzo e
allora avevo deciso di ritornare al bar per scrivere.»
«E tu non ti sei fatto vedere solo perché te l’avevo detto io?»
«Beh, sì.»
Voleva credergli. Sembrava davvero sincero.
«C’ho sofferto, Milva. Ma ho anche capito che era quello che volevi.
E me ne sono fatto una ragione.»
Doveva credergli. Era sincero.
«Anche se, scusa, ma non capisco quello che ti sta accadendo. O
meglio adesso l’ho capito, ma tu devi lasciarti aiutare. Io voglio
aiutarti.»
«Perché?»
209
«Come: perché?»
«Perché vuoi aiutare proprio me?»
«Perché so che sei speciale.» Poi, in un sussurro, «Almeno per me.»
Milva lo fissò a lungo, ma lui distolse lo sguardo da subito. Avrebbe
voluto piangere, ma non ci riusciva. Si maledisse in silenzio, ma proprio
non ci riusciva più da anni a piangere.
«Io non sono speciale.» Quasi con disprezzo.
«Fai decidere me.» Con gentilezza.
«Mi vuoi psicanalizzare?»
Sorrisero, entrambi. Quel recinto che li intrappolava stava cedendo.
Fu lui a dare la spallata decisiva.
«No. Vorrei soltanto conoscerti. Vorrei sapere chi sei.»
Milva distolse lo sguardo, fissando un punto oltre la parete, di fronte
a sé.
«Va bene.»
Prese il pacchetto delle sigarette che lui aveva appoggiato sul tavolo.
Se ne accese una e inspirò alcune profonde boccate.
«Vuoi davvero sapere chi sono, Lupo?» Parlava senza guardarlo in
faccia, dispersa in una nuvola di fumo. «D’accordo. Ormai non ho più
niente da perdere. D’accordo.»
Il Lupo attese in silenzio, concentrato sul suo bicchiere, in bilico tra il
desiderio e il timore di guardarla in faccia. Alla fine fu lei a piantare gli
occhi nei suoi, scuri e improvvisamente freddi.
«Mia madre era un’alcolizzata. Mio padre non so neanche chi fosse.
Vivevamo in una casa popolare, lei tirava avanti come poteva. Faceva le
pulizie, ma spesso la licenziavano perché era sempre sbronza. Avrò
210
avuto dieci anni quando si è messa con un uomo. Era un figlio di
puttana, ma almeno ci dava qualcosa per tirare avanti. Non voglio fare
la vittima, c’è anche chi sta peggio. Ma non era facile per una bambina.
Non era facile.»
Una luce grigia filtra dalla piccola finestra, sul verde oliva delle pareti scrostate.
Lei è seduta sul letto, tra le mani un Topolino sgualcito. Si sforza di leggere, cerca
di non ascoltare. Ha imparato che tapparsi le orecchie non serve, in quel silenzio
ovattato le cose arrivano lo stesso. Invece, se tiene la mente occupata, qualche volta
riesce a non sentire. E se non sente, allora non c’è niente. Se non le sente non ci sono
le urla, non ci sono le parolacce. Se non la sente, non c’è sua madre. Se non lo sente
lui non c’è, non c’è mai stato.
Ma oggi è difficile non sentirli. Gridano molto, oggi. Si alza e comincia a girare
per la stanza, leggendo a voce alta. Si ferma alla piccola scrivania, prende una biro e
il bloc-notes, prova a disegnare qualcosa. Niente da fare. Oggi è impossibile. Torna
sul letto, si infila sotto le coperte, mette la testa sotto il cuscino. Ecco, forse funziona.
Non gridano più. Il cuscino funziona. O forse hanno solo smesso. Sì, hanno smesso.
Allenta un po’ la pressione del cuscino, sente di nuovo l’aria fredda sulle orecchie.
Silenzio. Finalmente.
Poi, passi. Pesanti. La mano sulla maniglia. No, ti prego. Sì, invece. Non ha
chiuso a chiave, non c’è nessuna chiave. La porta si apre. Le solite parole
mormorate, il peso sul letto, la mano che toglie il cuscino. Le parole più vicine,
l’odore di vino. Lui la gira sulla schiena. Lei chiude gli occhi, riempie la mente.
Non sentirà niente. E se non sente, allora non c’è niente.
211
«A un certo punto non ce la facevo più. Ero abbastanza grande, avrò
avuto quindici o sedici anni. Sono scappata di casa. Da allora non ci
sono più tornata. Mia madre non so neanche se è ancora viva, e
sinceramente non me ne frega un cazzo. Non ce l’ho con lei, non è
colpa sua se la vita fa schifo. Però sono contenta di non essere mai
tornata indietro, di non avere mai mollato. Per me lei è morta quel
giorno.»
Fa una pausa, succhia nervosa un’altra sorsata di fumo. Al Lupo
sembra di vedere un luccichio negli occhi scuri, ma non ne è sicuro.
Forse è solo la sua immaginazione.
«E comunque non è stata una passeggiata. Non sapevo dove andare.
Non avevo nessuno, né parenti né amici. Cioè, qualche amico sì, ma
non era gente a posto. Frequentavo brutti giri, mi spiego? Non mi
fidavo. Sono andata in un posto, un bar. Conoscevo bene il gestore. Mi
ha dato una mano… o forse no. Sicuramente no. Si è solo approfittato
della situazione. Ma in quel momento ero disperata, ho accettato la sua
offerta.»
E’ notte fonda, quando la ragazza entra nel bar. Fuori piove, lei è fradicia,
trema per il freddo. Dentro le luci sono basse, nuvole di fumo si alzano fra i tavoli.
C’è la solita gente, umanità disfatta. La musica avvolge tutto, bassi potenti e
chitarre elettriche. Lei si siede al banco, nasconde gli occhi dentro ai palmi delle
mani. I capelli neri, bagnati, si incollano al viso. Gocce di pioggia miste a lacrime
scendono sulle guance. L’uomo dietro al banco la vede, si avvicina, la saluta. Le
prende il mento fra le dita, le scosta i capelli dal viso. Lei lo guarda, non deve
spiegare molto. Lui sa, capisce. Conosce queste cose.
212
«Come farò adesso?»
«Sei così bella. Lasciati aiutare.»
«Ero giovane, fresca. Roba da ricchi, e lui l’aveva capito. Non andavo
per la strada, per questo devo ringraziarlo. Forse senza di lui ci sarei
finita. Stavo in appartamento, clienti di un certo tipo. Guadagnavo
bene. Una vita facile. E se devo dirla tutta, non mi pesava neanche
tanto andare con quei vecchi. Avevo imparato a non sentire, se solo
volevo. E quando ero a letto ero io che comandavo. Anche se facevo
tutto quello che volevano loro, anche le porcherie più schifose. Alla
fine comandavo io.»
L’uomo si annoda la cravatta intorno al collo flaccido. È davanti al grande
specchio ovale con la cornice dorata. Riflessa, alle sue spalle, lei è ancora nuda sul
letto, a pancia sotto. Sulla schiena e sulle natiche spiccano nitidi i segni rossi delle
cinghiate. Forse stavolta ci è andato giù un po’ pesante. Ma è stata fantastica, come
sempre. Forse anche più del solito.
Lui si infila la giacca, dal portafoglio sfila alcune banconote e le posa sul
comodino. Poi ne prende altre e gliele getta sulla schiena. « Queste sono un extra,
per te. Oggi sei stata eccezionale.» Lei è girata dall’altra parte, non dice niente.
Potrebbe dormire, per quanto è immobile. Ma lui sa che è sveglia. Fa per uscire,
mette la mano sulla maniglia della porta, la apre. Poi ci ripensa. Si gira ancora
verso di lei. « Tu sei diversa da tutte. Ci ho pensato tante volte, e forse oggi ho capito
perché. Tu scopi meglio perché scopi con rabbia».
Non aggiunge altro. Apre la porta e se ne va. Lei continua a stare immobile,
girata dall’altra parte.
213
«E’ andata avanti così per anni. Non sono stati anni belli, ero una
schiava. Ma i soldi arrivavano, avevo un tetto sulla testa, andava bene
così. E poi non avrei saputo che altro fare. Poi un giorno è arrivato lui.»
Quando lui entra, la prima volta, lei lo aspetta con addosso solo la biancheria
intima. Nera, sexy. Quasi nuda. «Vestiti, per favore.» Lei lo guarda strana,
sospettosa. «Non temere, faremo l’amore. Ma non così. Anche se pago, resti una
donna. Non sei un pezzo di carne, per fortuna. Sarebbe un problema. Sai, io sono
vegetariano.» E sorride. È come se una luce calda le si accendesse dentro. È
spiazzata, non sa cosa dire. Anche lui è in imbarazzo, si vede. Lei si riveste. Si
siedono. Parlano, a lungo.
«Per sei mesi, è venuto due volte la settimana. Parlavamo, a volte mi
leggeva libri. E ascoltavamo musica. Facevamo spesso l’amore, ma lui
non sempre ci riusciva. Negli ultimi tempi non poteva più venire da
me, allora andavo a casa sua. Ormai non mi facevo più pagare da
tempo. Mi ero innamorata, Lupo. Ma gli restava poco da vivere. Aveva
il cancro.»
Sono nel suo letto. Lei ha il viso sul suo petto, e occhi tristi. Non era mai successo
prima. Forse non lo eccita più, forse si è stancato di lei. Proprio ora, che pensava di
essersi innamorata. Lui sembra leggerle nel pensiero. «Non è colpa tua. Tu sei più
bella di sempre. Sono io. È la malattia». È un secchio d’acqua gelata sulla schiena.
Cosa sta dicendo? Quale malattia? « Sono un maledetto egoista. Non dovevo
permettere che accadesse, dovevo tenerti lontana. Non sono stato abbastanza forte
214
per tutti e due. Perdonami, ti prego». Lui adesso piange. E lei sente frantumarsi
qualcosa, dentro. Si rannicchia contro di lui, come un feto. Ha paura, ora. Più di
quanta ne abbia mai avuta prima.
«E così sono scappata, un’altra volta. Non volevo che stesse con una
puttana, lui meritava molto di più. E poi ormai andare con i clienti era
troppo duro, non era più come prima. Siamo venuti a Reggio, di
nascosto, dove lui conosceva un po’ di gente. Siamo spariti, da un
giorno all’altro, finché lui stava ancora abbastanza bene. Ho trovato
lavoro da operaia. Lui aveva qualche soldo da parte, siamo andati avanti
così per un po’, finché ha cominciato a stare male davvero. Poi è
morto.»
Lei è in ginocchio di fianco al letto. I singhiozzi la scuotono, mentre stringe forte
nei pugni la coperta. Lui ha il viso sereno. È stato lucido fino alla fine, l’ha lasciata
guardandola negli occhi. Lo stereo continua a suonare, la voce potente di Milva
tampona le sue lacrime come ha lenito il dolore fisico di questa lunga agonia. Lui ha
voluto ascoltarla in continuazione, giorno e notte. «Senti che carattere, che
sensualità. Tu devi essere sempre come lei, promettimelo. Forte e sensuale.
Meravigliosamente donna, come ti ho amato. Ti prego, promettimelo.»
Lei non c’è più, adesso. Non c’è più un nome, né un passato. C’è solo la sua
promessa. Si tingerà i capelli di rosso, per sempre. E, per sempre, sarà soltanto
Milva.
«Uscire dal giro non è facile. Non basta cambiare città, devi proprio
sparire. Lui mi aveva lasciato tutto quello che aveva. Non era tanto, ma
215
bastava per aprire il bar. Il mio bar, Lupo. Quanti sacrifici, quante notti
a lavorarci dentro. Da allora c’è stata solo Milva, nient’altro. La sua
Milva.»
Fece una pausa. Si accese un’altra sigaretta.
«E adesso quei figli di puttana stanno rovinando tutto. Mi hanno
trovata. Ci ho pensato tanto, dev’essere stato un vecchio cliente. Una
volta è venuto uno di passaggio, al bar. Non l’ho riconosciuto subito,
ma lui mi ha guardata tanto… Non l’ho più rivisto, ma poco dopo
sono cominciati gli avvertimenti. Fino ad oggi.»
Il Lupo aveva ascoltato incredulo, senza aprire bocca. Stavolta non
era un’impressione. Milva stava piangendo. Non aveva immaginato
niente di simile, nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate. Ma non era
sicuro di avere capito fino in fondo. Da qualche parte trovò il coraggio
di chiedere.
«… vogliono ammazzarti?»
Milva lo guardò sorpresa per un istante. Poi sorrise.
«Macché… se volevano ammazzarmi non eravamo qua a parlare. È
sempre una questione di soldi, Lupo. Contano solo quelli.»
«Ma… allora… non capisco, ti hanno chiesto il pizzo?»
Milva scosse la testa, disperata. Andiamo bene. E questo dovrebbe
aiutarmi?
«No, Lupo, non è pizzo. Quelli che chiedono il pizzo non hanno
nessun interesse a farti chiudere il locale. Se chiude il locale loro hanno
finito di guadagnare. Questi sono gli sgherri del mio padrone, quello
che mi dava da lavorare. Una puttana non può smettere così, da oggi a
216
domani. Se vuole uscire deve pagare. Io non ho pagato, e adesso che
mi hanno ritrovato vogliono i soldi. Tutto qua.»
«Quanto?»
«Trenta.»
«E' una bella cifra.»
«Che non ho. E non voglio finire dagli strozzini, non ne uscirei mai.»
«Ma se non riesci a trovarli, come pensi di venirne fuori?»
«C'è una cosa che so fare bene.»
«...»
«E ho ricominciato a farla. Quel bar è mio e non permetterò a
nessuno di portarmelo via.»
Il Lupo stette in silenzio a riflettere. Non avrebbe mai potuto
immaginare tutta questa storia.
«E Barbara?» chiese senza neanche sapere bene il perché di quella
domanda.
«Sa tutto. Con il tempo ho imparato a fidarmi di lei. E le ho detto chi
ero.»
«Anche che hai ricominciato a…» si interruppe, imbarazzato.
«A fare la puttana? Sì.»
Il ragazzo si versò da bere, aveva tutta la gola secca. Milva continuò.
«Allora, ora che sai tutto, hai ancora voglia di aiutarmi?»
Lo chiese così, come aveva fatto per tutti quegli ultimi giorni. Con la
grinta di chi non vuole elemosinare nulla. Il Lupo a quel repentino
cambio di tono si ridestò e la fissò; una scarica di adrenalina lo percorse
quando si rese conto che per la prima volta in vita sua stava riuscendo a
sostenere lo sguardo profondo di Milva.
217
«Sì. E so anche quello che devo fare.»
«Tu? Cosa vuoi fare? Spaccare la schiena a tutti i miei nemici?»
Lui non si accorse del tono ironico. Forse neanche la stava più
ascoltando. Aveva un piano in testa e lo voleva portare a termine.
«Prendi.» Porgendole il suo cellulare. «Chiama Barbara e dille di
venire qui. Così non stai da sola. Io ho da fare prima che sia troppo
tardi.»
«Qui? E perché dovrei restare qui, secondo te?»
«Perché qui nessuno penserà di venirti a cercare. È un posto sicuro.
Dai, chiamala.»
«Voglio lasciarla fuori da questo casino» protestò decisa.
«Ma lei c'è dentro come te! Se non le dici nulla domani andrà al bar e
non sarà più al sicuro.»
Milva rifletté su quelle parole. Era vero. Forse ancora per quella
giornata non le avrebbero cercate, ma domani sì. Domani le avrebbero
cercate al bar. Tutte e due.
«Ma tu che cosa vuoi fare?»
«Non ti preoccupare. Tu la chiami e le dici di venire qui. Al resto
penso io.»
Subito dopo si era chiuso in auto per pensare meglio. Avrebbe voluto
più di ogni cosa poter passare la notte con lei, ma prima bisognava
salvarla. Perché era ancora in pericolo. Trenta milioni non erano uno
scherzo. Erano davvero tanti soldi. Lui non li aveva. Ma aveva degli
amici. Insieme, sforzandosi, avrebbero anche potuto farcela a
racimolare quella cifra. Era per Milva. Dovevano almeno provarci. Lei
218
con loro era sempre stata fantastica. Li passò mentalmente in rassegna
tutti: Teenva, Fedele, Libero, il Grancia’n’bell’ano e il Discipulo.
Avrebbe provato prima con Teenva: era il più ricco. Aspettò in auto,
nel parcheggio, che Barbara arrivasse. Quando la vide entrare nel
portone e salire, si decise a mettere in atto il suo piano.
Si infilò il cappellino e prese il cellulare, scorse la rubrica, selezionò
'TEENVA' e pigiò la cornetta verde. Al terzo squillo Teenva rifiutò la
chiamata, ma il Lupo non si diede per vinto e riprovò. Questa volta al
secondo squillo l'amico spense proprio il cellulare.
«Eddai!» urlò il Lupo frustrato dal comportamento di Teenva, ma
ancora non domo. Aprì la cartella 'Messaggi' e ne scrisse uno. Poche
parole:
“oh teenva sono io. emergenza. ho bisogno di parlarti. e’ molto importante. lupo”
Passò
poi
alla
seconda
telefonata.
Decise
di
evitare
il
Grancia’n’bell’ano: in fondo tra loro due non c'era un rapporto
profondo come con gli altri, lui non partecipava mai alle serate
dell'Hdemia. Senza indugi chiamò Fedele. Dopo quasi un minuto di
squilli, dall'altro capo del telefono lo raggiunse una voce atona e
impastata.
«Cosa c'è?»
«Emergenza!»
Fedele non lo fece neanche finire «Senti Lupo, non è proprio
giornata…»
«No, Fedele 'spetta, fammi dire.»
«Non è proprio giornata» ripeté senza spessore Fedele. Poi spense il
cellulare.
219
«No, no cazzo! No!»
Diede un pugno al volante e lanciò il telefono sul sedile dove poche
ore prima era stata seduta Milva. Non era possibile che nessuno volesse
ascoltarlo. Era importante. Aveva una storia assurda da raccontare e
un'amica – più di un'amica, per lui – da aiutare, ma sembrava che a loro
non importasse niente. Restò a guardare il parcheggio dall'abitacolo
della sua auto per un bel pezzo. Ogni tanto si sporgeva e guardava in
su, verso la sua finestra.
Improvvisamente il telefono lo avvertì dell'arrivo di un sms. Era
Teenva. Il Lupo lo aprì subito, ma era formato da una sola parola:
“vaffanculo”
Appoggiò la fronte al volante per riflettere con calma, ma non gli
veniva in mente più niente. Si sentiva in un angolo, senza più risorse.
Non poteva tornare a casa e dire a Milva che non sarebbe stato in
grado di aiutarla. Non poteva dirle che non era capace di proteggerla.
Non voleva arrendersi, ma proprio non sapeva cosa fare. I suoi amici
l'avevano abbandonato. Non era questa l'amicizia che intendeva lui.
Guardò ancora una volta verso casa sua, le luci erano accese. Avviò il
motore e uscì dal parcheggio. Qualcosa si sarebbe inventato. Dovevano
ascoltarlo, almeno.
***
Come sempre gli accadeva in quelle notti troppo ingombranti per
lasciare spazio al Lupo, al cappellino, all'Hdemia, Cesare si ritrovò
220
ramingo per le vie della città che l'aveva adottato. Scivolava lento come
le ore, con la brezza leggera della notte che entrando dal finestrino
aperto gli confondeva ancor più i pensieri, senza nessuna idea, senza
più fiducia.
Aveva provato ad andare da Fedele di persona, ma non era riuscito a
farsi aprire. Quando poi era arrivato davanti al cancello della villa di
Teenva, tutta la determinazione di poche ore prima era svanita.
Non aveva trovato neanche il coraggio di provare a suonare. Adesso si
sentiva davvero solo.
E così, consapevole o no, si trovò a sperare di trovare
Sasha. Quando, all'altezza del distributore, vide la figura snella
dell'amica, fece un sospiro di sollievo ed entrò.
Aveva lasciato che Sasha lo coccolasse fino al termine della notte. Le
aveva raccontato tutto, come sempre. E lei aveva ascoltato, paziente.
C'era voluto del tempo perché il Lupo potesse farsene una ragione,
ma Sasha aveva ragione: se voleva davvero aiutare il suo amore, se
davvero voleva aiutare Milva, doveva sacrificare qualcosa di sé.
Lo faceva per Milva. Per nessun altro. Lo avrebbe fatto per lei e per il
bar. E chissà, magari anche per una vita insieme. Per scacciare i
fantasmi del passato una volta per tutte.
Una volta salutata Sasha il Lupo continuò a ripetersi tutto questo per
tanto tempo. E più lo faceva più si convinceva a compiere quel passo,
diventando sempre più consapevole che avrebbe dovuto rinunciare a
ciò che aveva di più caro al mondo. Ma ne valeva la pena. Eccome se
ne valeva la pena. Era per Milva. Era per loro due.
221
Quando si sentì finalmente pronto accarezzò dolcemente il volante,
guardò l'orologio e prese il cellulare.
«Ciao sono Cesare. Il Lupo.»
«Ehilà mangiagnocca che combini? Non hai sonno?» La voce
dall'altro capo del telefono era gioviale già alle 7 del mattino.
«E' un'emergenza. Sto venendo da te.»
«Ehi bello ma io mi sono appena svegliato. Facciamo che ci vediamo
tra un paio d'ore, dai»
«No, è troppo tardi... Senti se ci vediamo al bar e facciamo colazione
insieme? Tipo tra un'ora?»
«Uhmm va bene dai. Tra un'ora al bar.»
«A dopo.»
Il Lupo si sistemò ben bene il cappellino e inforcò gli occhialini: il
sole era già caldo anche alle 7 del mattino. Si concesse ancora alcuni
secondi per lasciare che il suo sguardo si posasse sull'interno della sua
auto, poi finalmente mise in moto, accese lo stereo, lasciò andare la
frizione e partì.
Non pensò a niente in particolare durante il tragitto. Non pensò a
quello che stava facendo, perché aveva già deciso di farlo. Pochi minuti
dopo arrivò davanti alla concessionaria, entrò, parcheggiò la sua auto e
spense il motore. Tirò un lungo sospiro e scese. Fece un giro intorno
alla sua Golf e andò dritto verso il bar dove aveva appuntamento con il
suo amico concessionario. Dovette aspettare un bel po' cercando di
non pensare e leggendo senza interesse i giornali. Poi finalmente lo vide
entrare.
«Ho davvero bisogno di aiuto.» Non lo aveva neanche salutato.
222
«Che posso fare?»
«Vendermi la mia macchina.»
L'amico concessionario scoppiò a ridere.
«Sei sempre il solito figlio di puttana! E io che c'ero pure cascato.»
«No. Sono serio. Quanto può valere? Trentadue? Trentatré milioni?»
«Ma... senti se hai bisogno di un prestito... dai cazzo…»
«Non chiedermi niente. Non sono per me. A quanto la puoi
vendere?»
Il concessionario era interdetto. Non aveva mai visto il Lupo in
quello stato.
«Beh, sì, alla cifra che hai detto te la posso vendere quando vuoi.
Una, due settimane...»
«No Giulio, non ci siamo capiti. Quanto ci posso fare vendendola
adesso?»
«Eeeh?» strabuzzò gli occhi: non riusciva a credere alle proprie
orecchie. Il Lupo non solo voleva davvero vendere la sua auto, ma
addirittura voleva venderla subito.
«Senti bello mica è così semplice... posso avere chi è interessato
all'oggetto ma come vedi anche volendo... sono le otto del mattino!»
«Cazzo. E non puoi fare delle telefonate?»
«Mah... sì, certo che sì... ma non la venderai mai adesso.»
Il Lupo ci ragionò sopra. A questo non aveva pensato. Certo, vado,
vendo e torno con i soldi. Tutto fatto. Fatto un cazzo, invece. No,
quella era la sua ultima possibilità. Non gli veniva in mente più niente.
«E se me la compri tu? Poi la rivendi quando ti pare...»
«Scusa...?»
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«C'è una persona che ha bisogno di trenta milioni entro un’ora.
Dammi trenta milioni e la mia golf è tua. Giuro.»
«Per me sarebbe un affare... ma per te?»
«Tu fammi l'assegno e poi l'unica cosa che dovrai fare sarà riportarmi
a casa.»
Il viaggio di ritornò fu breve e silenzioso. Il Lupo si fece scaricare
davanti all'ingresso del parcheggio del condominio.
Aveva i soldi. Tutti. Più tardi sarebbe andato in banca, avrebbe
prelevato il contante e l'avrebbe portato a quei bastardi. Ma questo
dopo. Adesso c'era da festeggiare. Si sentiva pronto a stare con Milva.
L'aveva salvata. Aveva seguito i suoi sogni. Gonfio di gioia salì veloce
le scale ed entrò nell'appartamento.
«Milva! Barbara! Grandi novità per...» ma non riuscì a terminare la
frase.
La porta della camera da letto era aperta e le vide. Milva e Barbara.
Insieme. Abbracciate. Nel suo letto. E questa proprio non se la sarebbe
mai aspettata. Proprio no.
Quando le due donne lo videro, dopo un breve momento di
imbarazzo sorrisero entrambe, scivolarono fuori dalle lenzuola e gli
andarono incontro.
Quelle due nudità così diverse tra loro lo stordirono. Il Lupo sentì
qualcosa sulla guancia, di caldo.
«Ma...»
No, dài, non può essere vero.
«Grazie Lupo. Davvero. Sai quanto ci tengo a Milva.»
«Eeeh? Beh... no... a dire... cioè, sì. Sì, credo di sì.»
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Eh sì, Lupo: Barbara ci tiene davvero a Milva. Eccome.
«Ma voi due...»
«Ehi... ma davvero non te ne sei mai accorto?» continuò Barbara.
«...»
Accorto? Eh no, proprio no.
«...noi due stiamo insieme.»
Solo dopo quelle parole il Lupo capì cos'era quella cosa calda sulle
guance.
Lacrime. Stava finalmente ricominciando a piangere. Era la prima
volta che ci riusciva, dopo aver lasciato la Sicilia.
«No, no, no Lupo non fare così, dai. Cosa sono quelle lacrime?»
«...»
Lacrime? Lacrime? Quali lacrime? Queste. Ah! Vedi un po'.
Il Lupo a fatica frugò in tasca e appoggiò l'assegno da trenta milioni
sul letto. Non riusciva proprio a dire nulla.
«Dio santo Lupo! Ma è per me?» Milva si portò le mani ai capelli.
Non riusciva a crederci. Aveva i soldi. A quello che sarebbe accaduto
dopo non voleva pensare. Aveva i soldi.
Le due ragazze lo avvolsero in un abbraccio. Lui non parlava. Ancora
non capiva bene.
Barbara e Milva, invece, capivano benissimo.
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EPILOGO
Cinque anni dopo
Una pioggia leggera e insistente appesantisce l’aria della periferia. C’è
odore d’inverno, e una cappa umida che penetra sotto gli impermeabili
e le buone intenzioni. Il grosso edificio in stile industriale, due piani di
cemento lunghi ottanta metri e larghi trenta, presenta a Cesare il conto
salato della città anni zero, il retrobottega del benessere. Insegne
luminose circondate da vaste aureole di sporco grigio sormontano tristi
occhi di bottega. La filiale di un credito rurale. Un negozio di
computer. Una mensa aziendale. Vetrate non proprio brillanti in cui si
riflettono il cielo grigio e gli schizzi delle auto lanciate lungo la grande
via del quartiere industriale.
D’istinto, Cesare mette la freccia ed entra nel vialetto asfaltato che
gira intorno allo stabile, striato dalle righe bianche dei parcheggi.
Percorre lentamente tutta la fiancata e arriva all’angolo. Gira a sinistra,
e parcheggia circa a metà del lato corto. Il suo parcheggio, appena
distante dall’entrata.
Apre la portiera, pianta la solida scarpa antinfortunistica dentro una
pozzanghera, non se ne accorge nemmeno. Cammina ancora qualche
metro, sotto la pioggia. Non ha niente in testa, solo i capelli scuri e una
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calvizie sempre più decisa. Si accende una sigaretta e sosta silenzioso di
fronte alla vetrata.
È tutto spento, naturalmente. Non è cambiato niente dall’ultima volta
che è venuto qui, tre anni fa. Solo il cartello sulla porta – “Chiuso per
malattia”, scritto a mano con il pennarello nero - non c’è più. Era
successo così, da oggi a domani. La sera prima Milva e Barbara erano
dietro al bancone a spillare birre, il giorno dopo il locale era chiuso.
Nessuno sapeva cosa fosse accaduto. Con i trenta milioni il problema
era stato risolto, Milva non aveva più ricevuto minacce, e il bar era
rimasto aperto per altri due anni. Lui ci era andato ogni tanto, ma non
più così spesso. Poi, improvvisamente, quel cartello. E Milva era
letteralmente sparita.
Cesare aspira una lunga boccata, chiude gli occhi, poi li riapre e si
avvicina ancora di più al vetro. Cerca di guardare dentro. È tutto vuoto.
Nessun bancone, nessun tavolo nero, nessuno sgabello. Hanno portato
via tutto. Il Bar Milva non c’è più. Non c’è più nemmeno il Lupo, è
rimasto solo Cesare, il caporeparto. Ha fatto un po’ di strada, in
fabbrica, da quando l’Hdemia ha smesso di esistere. Anche la chiusura
del bar, in fondo, è stata una naturale conseguenza di quella fine. Come
se Dio avesse capito che quel posto esisteva solo per permettere al
Lupo di ululare alla solitudine, con il suo piccolo branco. Ma forse a
quel punto non aveva più importanza. Forse, a quel punto, niente
aveva più importanza.
Cesare volta le spalle al vetro e fa per risalire in auto, poi ci ripensa.
Appoggia la schiena alla porta e si accende un’altra sigaretta. Ha voglia
di essere il Lupo ancora per un po’, prima di tornare in fabbrica. Si
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passa una mano fra i capelli bagnati, e per un attimo si sorprende di
non trovare il suo cappellino Ducati.
Sposta lo sguardo sulla sua auto. Ci ha messo cinque anni, ma alla
fine se l’è ricomprata, la Golf GTI. Però guidarla non è più la stessa
cosa. Il profumo dei sedili nuovi non è più lo stesso, e adesso non gli
sembra più la miglior macchina del mondo. Sorride, ripensando a quei
momenti in cui la guardava come un figlio, pensando che la Z3 di
Teenva, sì, non era male, ma aveva meno personalità. Teenva. Non l’ha
più visto né sentito. In compenso ha visto il suo nome sui giornali,
molte volte. Avvocato anche lui, nello studio del padre. Sui giornali
però c’era andato più per la coca e le puttane che per i successi in
tribunale. Aveva passato qualche momento difficile, ma l’avvocato
Zoboli l’aveva sempre tirato fuori. Fedele era stato meno fortunato.
L’ultima volta l’aveva visto in un bar del centro. Aveva provato a dirgli
qualcosa ma lui non l’aveva quasi riconosciuto, tanto era sbronzo. Gli
aveva fatto un sorriso assente, farfugliando qualcosa fra sè, poi era
tornato a bere, da solo. A Cesare era dispiaciuto vederlo così, ma non
aveva saputo fare di meglio che uscire dal bar e andare via. Degli altri
non aveva più saputo nulla, né visti né sentiti. Erano spariti così,
cancellati insieme a tutte le mail Hdemiche e le belle parole
sull’amicizia.
Cesare tira l’ultima boccata e getta il mozzicone in una pozzanghera.
Torna alla macchina e apre la portiera. Guarda ancora la vetrata nera e
per un attimo gli sembra di vedere la sagoma di Milva armeggiare dietro
al bancone. Bestemmia sottovoce. “Ma cosa ci faccio qui?”.
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Accende il motore, mette la prima e parte. Lo scheletro del Bar Milva
affonda lentamente nella pioggia, dietro le sue spalle.
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Alessandro Bassi Mi fidavo di te