2 Alessandro Bassi - Andrea Friggeri MI FIDAVO DI TE 3 Copertina originale di Eleonora Musoni www.eleonoramusoni.com www.mifidavodite.com COPYRIGHT © 2010 Alessandro Bassi, Andrea Friggeri ISBN: 978-1-4457-0846-1 4 A Gilda… ovunque tu sia 5 6 PROLOGO Le mani. Le mani di Milva. Bianche e forti, sotto il getto d’acqua. Sono mani che hanno vissuto, si vede, lo vede anche lei. Prende un limone e lo appoggia sul piano d’acciaio del bancone. Inizia a farne piccole fette da mettere nel cocktail che sta preparando. Sono solo le due e trequarti, la serata è ancora lunga. È sempre stata una nottambula, le piace tenere aperto fin quasi all’alba, le piace vedere il suo bar diventare l’ombelico di Reggio, lo scarico di un lavabo che lentamente finisce con l’inghiottire tutti i rifiuti umani della città. Milva adora quest’aria surreale e notturna. Non la chiamerebbe così, direbbe solo che le piacciono tutti questi pazzi, queste facce senza terra. Direbbe che le piace questa gente, la sua gente. Direbbe che si sente una di loro. Lui è appena salito in auto. Abbassa il finestrino, si accende una paglia e allunga una mano fuori per salutare. Ha ancora sulle labbra l’ultima battuta - “…e vai un po’ a figa!” - che ha dispensato a Fedele come pensierino della notte, e si sorprende a sorridere amaro nello specchietto retrovisore. Aspira una boccata di fumo, guarda la punta rossa accesa della sigaretta, dice: “cazzo” e infila la chiave nel quadro della sua Golf GTI. 7 Accende il motore, si sfila il cappellino Ducati e lo appoggia sul sedile del passeggero. Come un abito di scena, come i capelli di Sansone. La sua forza appoggiata sul velluto di un sedile. Accende lo stereo, e immediatamente bassi potenti e ritmica ipnotica riempiono l’abitacolo. No, non ha più il cappellino. Adesso questa roba può fargli schifo. Estrae il CD mentre rilascia la frizione e si avvia lento nella periferia della notte reggiana. A fatica toglie da sotto il sedile un porta-cd e, tenendo il volante con le ginocchia, ne consulta un attimo il contenuto prima di scegliere. Lo infila nella fessura dello stereo e sbanda un po’ alle prime note, suonate al volume pazzesco di poco prima. Abbassa, non è ora da casino questa. Non è più il momento. Anima melodica, il Lupo. Quasi gli si inumidiscono gli occhi a sentire la voce tenorile di Al Bano dare fiato ai suoi pensieri. Quando il sole nascerà / e nel sole io verrò da te / amore corri incontro a me / e la notte non verrà mai più «Cos’è successo là?» L’uomo accenna con il capo alla vetrata del locale, di fronte al banco. Ha la barba ispida e lunga, gli occhi velati. Milva gli ha appena servito un generoso bicchiere di tequila. Almeno il quinto, stasera. Ma resta abbastanza lucido da cogliere la stranezza di un foro grande quanto un pugno nella parte alta del vetro, a una trentina di centimetri dal soffitto. «Mah, non so. Ragazzini, forse. Se era mio figlio a fare un lavoro così era l’ultima volta che lo faceva, garantito. Non lo so che cazzo di famiglie ci sono in giro oggi…» 8 L’uomo ha già smesso di ascoltare, se mai aveva cominciato. Gli occhi sono di nuovo immersi nella tequila, Milva può interrompere la recita. Nessun ragazzino. Magari. Non bastava essere il bersaglio preferito di polizia e carabinieri. Non bastavano l’ispezione della finanza, gli agenti in borghese, le risse fra gli albanesi e i tunisini davanti al locale, le continue proteste degli abitanti del quartiere. Lei non molla, non ha mai mollato. È il suo bar, cazzo. Non esiste. Questo, però, rischia di essere un grosso casino. Il sasso era un avvertimento. Ricevuto, forte e chiaro. Ma lei non molla. Vorrebbe un aiuto, però. O solo qualcuno a cui raccontare questo nuovo casino. Si guarda riflessa nell’acciaio del lavabo. Chiude gli occhi. Non sa cosa vorrebbe. Gli piace guidare di notte. Lo rilassa. Lo fa sentire parte di qualcosa. Non sta andando verso casa. Ha deciso di allungare un po’ il tragitto, percorre via Martiri di Piazza Tien An Men. Vuole andare a salutare un’amica che si prostituisce tutte le sere davanti all’autolavaggio del distributore. Ha voglia di parlare, questa notte. Sasha non c’è. Sarà con un cliente. Peccato. Sasha è la sua consulente. Lui vorrebbe dichiararsi, lei gli suggerisce: “Aspetta”. Lui si vergogna, lei allora lo coccola e gli dice: “Quella ragazza è la più fortunata del mondo”. Lui allora si inorgoglisce e continua a parlarle di lei. Lei gli accarezza i capelli e lui si addormenta. Peccato davvero che Sasha stia lavorando. La strada è un deserto. 9 Sono quasi le quattro, ormai. Milva si attarda ancora un attimo a sistemare i menù su ogni tavolo. Ci va molto orgogliosa, dei nuovi menù. Fatti stampare apposta da una copisteria di Cavriago, vicino a dove abita, una decina di chilometri da Reggio Emilia. È davvero tardi e, quel che è peggio, stavolta non sa davvero a chi rivolgersi. Gli avvertimenti sono già stati due e sa – perché lo sa – che il terzo le farà visita presto. Molto presto. Si gratta in testa, Milva, mentre con la mente vorrebbe essere da tutt’altra parte. Il Lupo senza neanche accorgersene si ritrova nel parcheggio del suo bar. C’è ancora qualcuno. Quasi le quattro del mattino. C’è ancora qualcuno. Si ferma nel solito posto, a due passi dal locale. Le luci del bar Milva, l’insegna con il cielo stellato e la grande M rossa. Basta questo a dissipare la nebbia che è calata anche stasera nell’abitacolo della sua macchina. Quel senso di debolezza, quella cappa pesante di silenzio. La chiamano solitudine. Forse è solo la fatica di essere sempre il Lupo, nonostante tutto, costi quel che costi. Sorrisi, battutacce, cinismo. Non sa essere nient’altro, è l’unica lingua che conosce. Ma lui non è tutto lì, e lo scopre ogni sera, quando si leva il cappellino. Quando arranca alla ricerca di un sorso d’aria. Quando lo ritrova, puntuale, nel sorriso di Milva. Lascia il cappellino sul sedile, mentre apre la portiera. Lo guarda, accarezza con l’indice il profilo della scritta Ducati. Resta lì, Lupo, aspettami solo un attimo. Vado a farmi l’ultima birra, poi andiamo a dormire. 10 CAPITOLO PRIMO Dove si verifica la formulazione di un teorema Data: mercoledì 10 maggio 2000 Da: dr. Fedele ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) Cc: Ciambellano ([email protected]) Oggetto: Convivio Hdemico Sperimentale Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA Ordinario: dr. Fedele Della Passera Pregiati colleghi, vengo immantinente ad elencare le ragioni di questo mio comporre, sed non postea aver come si conviene invitato le S.V. a prenderla cum gaudio in orifitia varia. Ci è dato finalmente di proporre al Senato Hdemico tutto lo svolgimento formale del Convivio di cui all’oggetto. 11 Lo scopo scientifico dell’incontro risiede nella verifica sperimentale dell’assioma enunciato con la consueta illuminata arguzia dall’illustrissimo Padre dr. Teenvagina: “Data una buzzicona, la probabilità che essa ne attiri altre è direttamente proporzionale alla pinguedine della buzzicona stessa.”. Il teorema, voglio rammentarVelo, era stato fregiato di un sagace brocardo dal pregiato Dr. Lupompino, il quale ne aveva dedotto: “Le brutte fighe non vengono mai sole”. Purtuttavia, accogliendo l’osservazione del Libero Ricercatope “Non tutte le buzzicone vengono per nuocere”, ci si è trovati in un empasse dottrinario, che avremo presto l’occasione di sciogliere sperimentalmente. Vengo pertanto (gemendo come si conviene) a formalizzare lo svolgimento del convivio sperimentale nel giorno di Venerdì 12 Maggio c.m. presso l’ “Osteria della Capra”, Cavriago. Il ritrovo è fissato per le ore 20 in prima convocazione e per le ore 21 in seconda e definitiva convocazione nel parcheggio di Piazza Zanti. Certo di farVi cosa gradita, nel porgere i migliori saluti mando come si conviene cordialmente affanculo i pregiatissimi colleghi. in Vulva Veritas Fedele dr. Della Passera - figosofo p.s. sentiremo fortemente la mancanza dell’arguzia e dell’esperienza del Gran Cià’n’bell’ano. Sarà anche in suo onore che cercheremo con più forza et determinazione la compagnia ma soprattutto il sollazzo delle fanciulle 12 mercoledì 10 maggio 2000 Fedele rilesse rapidamente la mail, poi con un sorriso compiaciuto fece click su “Invia e Ricevi”. Si appoggiò allo schienale della sedia girevole in tessuto scuro e lasciò scorrere lo sguardo sulle pareti della stanza, indugiando sui dorsi dei numerosi testi di diritto che si alternavano ai romanzi dalle copertine variopinte. Con la mano destra sfiorò la copertina del volume che giaceva a fianco della tastiera, sul piano della piccola scrivania. Le garanzie delle obbligazioni. Monografia di Diritto Civile. Scritto con amore dal prof. Capitoni in persona. Stampato dalle “Edizioni Casavecchia”, storica libreria universitaria che da sempre faceva i miliardi con i libri dei prof. locali. Un migliaio di copie sicure all’anno, a prezzi spaventosi. Libri costruiti con scientifica precisione, per durare giusto il tempo della preparazione dell’esame prima di autodistruggersi. Impossibile prestarli, impossibile fotocopiarli senza vederseli disfare fra le mani. Evitò con cura di guardare il foglio con il programma di preparazione dell’esame, che indicava un impietoso ritardo di almeno una settimana. Represse un conato di vomito e un fiotto ribelle di senso di colpa. Poi lasciò che il pensiero tornasse a questioni più soddisfacenti. Venerdì sera, dunque. Il risultato finale di una frequentazione online durata alcune settimane. Era stata lei, Manuela, a presentarsi sotto il nick “^ManuB” sulla finestra di ICQ. Reggiana, laureanda in economia, simpatica. Approccio sospetto, però, perché in rete il vaginocentrismo era anche più amplificato rispetto alla realtà. Sotto la protezione rassicurante del monitor i meccanismi darwiniani dettavano legge in 13 maniera ancor più cristallina. Prolungare la propria discendenza, innanzitutto. Quindi: per l’uomo, distribuire i suoi milioni di spermatozoi su quanti più ovuli possibile. Per la donna, come sempre, scegliere. Lo spermatozoo migliore, come la battuta più spiritosa, la frase più sorprendente, la fotografia più promettente. Restarsene sulla riva del fiume di bit ad aspettare che la corrente virtuale facesse emergere il totano migliore. Era una teoria che Fedele sosteneva da tempo anche in sede Hdemica. Quando una donna ti approcciava per prima, quindi, il rischio di brutte sorprese era alto. Brutte sorprese poteva voler dire tante cose, in quel mondo, ma lui pensava di poter riconoscere senza troppi sforzi eventuali dita maschili intente a digitare dietro un nick femminile. E ^ManuB era una ragazza, indubbiamente. Aprì il file in cui aveva salvato una delle loro prime conversazioni. Aveva scoperto quasi subito che Manuela, così si chiamava, non era esattamente una modella. Era bastato mandarle una foto, quella “magica”, fatta in vacanza l’anno precedente. C’era una probabilità su un milione che riuscisse così in una foto. Una su un milione, ma era successo. Un’arma micidiale in chat, soprattutto per chi, come lui, non era seriamente intenzionato a dare alcun seguito al corteggiamento virtuale, con il rischio di non rivelarsi all’altezza della foto. Lui era Fedele. Appunto. Però il suo ego si beava in questo gioco pericoloso. La foto funzionava sempre, e lei non aveva fatto niente per nascondere l’apprezzamento, sentendosi obbligata a ricambiare. ^ManuB(4:42 PM) : hai gli occhi bellissimi! Robinhood76 (4:43 PM) : grazie... per guardarti meglio :-) 14 ^ManuB(4:43 PM) : me li regali? Robinhood76 (4:43 PM) : prima voglio vedere i tuoi ^ManuB(4:44 PM) : ok... però ti mando la foto di quando ero secchetta.... Robinhood76 (4:44 PM) : perché, sei ingrassata ultimamente? ^ManuB(4:44 PM) : ...diciamo un pò Robinhood76 (4:51 PM) : carina.... perché ti tiri giù? ^ManuB(4:51 PM) : perché... ora ho 20kg di più!!! Robinhood76 (4:52 PM) : opperò... ^ManuB(4:53 PM) : sono una palla Robinhood76 (4:53 PM) : non voglio farti parlare di cose che non gradisci ^ManuB(4:54 PM) : no dai davvero... voglio che tu sappia esattamente come sono ora prima di continuare a parlare..... Robinhood76 (4:54 PM) : ma scusa, dobbiamo parlare, mi sembra, mica giocare alla cavallina! Il peso non è così vitale, no? ^ManuB(4:55 PM) : vabbè.... però.... peso 83 kg adesso... Robinhood76 (5:01 PM) : è bello che parli con tanta semplicità di questo, che in genere soprattutto per le ragazze è un grosso nodo in gola... ^ManuB(5:02 PM) : anche per me lo è... da morire... solo che non mi ci sento perché sono sempre stata massiccia ma carina... è solo un periodo di passaggio per me questo... che spero passi presto... Robinhood76 (5:03 PM) : passerà, devi solo volerlo... in genere bisogna che il disagio superi quello della fatica di dimagrire 15 ^ManuB(5:03 PM) : già... e lo ha fatto! Robinhood76 (5:04 PM) : ok, allora tirati su le maniche! sei mesi di fatica, poi starai molto meglio Forse era stato un po’stronzo. Forse. Sì. Decisamente stronzo. Soprattutto per il seguito, dove aveva letteralmente giocato al gatto col topo. Come i gatti, non aveva alcuna intenzione di mangiarsi il topo. Una volta ucciso, l’avrebbe lasciato in un angolo. Ma prima era divertente vederlo sgambettare e piazzargli qualche sadica zampata. ^ManuB(5:08 PM) : secondo te... perché mi piaci fisicamente, mi stai simpatico e mi trovo benissimo a parlare con te? Robinhood76 (5:09 PM) : nessuna fregatura, giuro che esisto ^ManuB(5:09 PM) : dov'è la fr ^ManuB(5:09 PM) : mi hai tolto le parole di bocca... mi hai risposto mentre stavo dgt ^ManuB(5:10 PM) : mi spaventi Robinhood76 (5:11 PM) : perché? ^ManuB(5:11 PM) : mi togli le parole di bocca... Robinhood76 (5:17 PM) : Manuela, una cosa ^ManuB(5:17 PM) : dimmi Robinhood76 (5:17 PM) : sei brillante, vivace. Anche a me piace parlare con te ^ManuB(5:18 PM) : non dirmelo con quegli occhi che mi fai svenire!!!! 16 Robinhood76 (5:18 PM) : Non è frequente. Spesso le ragazze in rete se ne stanno come dei bambolotti in attesa degli eventi ^ManuB(5:18 PM) : cioè? sai mi incuriosisce questa cosa.... Robinhood76 (5:19 PM) : Bisogna reggere dei monologhi più che delle conversazioni… Non è semplice... Credo dipenda dal fatto che se ti colleghi con un nick femminile vieni bombardata... ^ManuB(5:20 PM) : in che senso? Robinhood76 (5:21 PM) : Ho una mia teoria. Se tu nutri un animale, lui non avrà mai BISOGNO di cacciare per procurarsi il cibo. Diventerà pigro, indolente, e tutto gli sarà dovuto. Così accade per il cervello delle donne! Dai, scherzo, un po' di sano maschilismo da caserma… ^ManuB(5:22 PM) : non parlarmi MAI più di caserme ok....? promesso? Robinhood76 (5:22 PM) : ohi ohi, tasto dolente. Era un militare? ^ManuB(5:23 PM) : carabiniere.. Robinhood76 (5:23 PM) : nei secoli fedele.... ^ManuB(5:24 PM) : sì all'arma purtroppo... non alle loro donne e alla loro vita... Robinhood76 (5:24 PM) : ferita fresca? ^ManuB(5:24 PM) : issima Ecco, avrebbe dovuto fermarsi qui. Situazione classica. Delusione fresca, poco attraente, bisognosa di autostima e comprensione più che dell’aria da respirare. E invece… le aveva mandato una poesia. Senza pietà. 17 ^ManuB(5:42 PM) : le hai scritte tu queste cose? Robinhood76 (5:42 PM) : sì ^ManuB(5:42 PM) : sei uno stronzo! Robinhood76 (5:42 PM) : :-) lo sapevo... però tu sei adorabile ;-) ^ManuB(5:43 PM) : sei uno stronzo perché sei arrivato un pò troppo tardi.... avevo bisogno di un rimpiazzo sufficientemente all'altezza della situazione per il 10 marzo... e invece ti presenti qui con quasi due mesi di ritardo e fai finta di niente... Robinhood76 (5:45 PM) : mi spiace, ho perso il treno. Giuro che ho fatto di tutto per esserci, ma proprio non potevo… che è successo il 10 marzo? ^ManuB(5:46 PM) : la data del mio matrimonio... Robinhood76 (5:47 PM) : occazzo... Non solo delusione fresca: matrimonio saltato a pochi mesi dalla data. Roba da lamette. E questa aveva ancora voglia di cercare in rete il principeazzurro. E lui, - Fedele! – ad amoreggiare ancora, a suon di citazioni e metafore. Robinhood76 (5:52 PM) : “Che cos'è l'amor? È l’indirizzo sul comò di un posto d'oltremare che è lontano solo prima d'arrivare” ^ManuB(5:53 PM) : bella ^ManuB(5:54 PM) : mi fai paura... ^ManuB(5:55 PM) : davvero... 18 ^ManuB(5:55 PM) : mi è venuta un'immensa paura di perdere tutte le cose belle che mi passano accanto.... ^ManuB(5:56 PM) : è come se avessi paura di scoprire chi sei... per non doverti poi veder andare via... Robinhood76 (5:57 PM) : vivi la bellezza di ciò che hai. Non farti tarpare le ali da quello che potresti non avere... Robinhood76 (6:01 PM) : però stai attenta a non idealizzarmi troppo, ok? Robinhood76 (6:01 PM) : adesso sei molto vulnerabile, e io non voglio farti del male ^ManuB(6:02 PM) : grazie! ^ManuB(6:02 PM) : ma se tu sei quello che sto imparando a conoscere... Robinhood76 (6:03 PM) : è facile mostrare solo il profilo migliore in chat... Aveva sperato di cavarsela così. Una volta capito che il topo stava per esalare l’ultimo respiro aveva provato ad avvertirla: “Ehi, topino, attenta ai gatti!”. Un blando anestetico per la coscienza, a cui era seguito nei giorni successivi un paziente lavoro di ridimensionamento delle attese. Alla fine aveva scoperto che la Manubuzzi (l’aveva battezzata così il tenero Teenva pochi giorni prima, mentre ne parlavano da Milva) aveva un gruppo di amiche di Parma. Compagne di università, tutte “single”. Il gattone aveva iniziato a leccarsi i baffi. Si profilava la possibilità di dare un seguito alla cosa coinvolgendo l’intera Hdemia, e salvando il 19 titolo di “Fedele”. La riunione Hdemica era stata organizzata in tutta fretta, con le relative discussioni sulla probabilità che le amiche non fossero meno buzzicone della Manubuzzi. Alla fine si era deciso di provare, e la velocità con cui anche la Manubuzzi era riuscita a convincere le amiche non faceva che alimentare i sospetti. Il filo dei pensieri autocompiaciuti di Fedele fu interrotto dal richiamo di sua madre. Sì mamma, sì. Più tardi ci vado. Sì, lo so che la Coop chiude alle sette, ho capito. No, tranquilla, non mi dimentico. Sì, ci vado con Sara, lo so che ti fidi più di lei. Sara. Non sarebbe stato un problema. Era abituata alle sue uscite con l’Hdemia, quello era una sorta di porto franco dalle sue scenate di gelosia. Certo, meglio per tutti se non avesse saputo della compagnia “allargata” per l’occasione. Meglio soprattutto che non leggesse mai certi files. Per lei, più che altro, perché lui era sereno. Sapeva che Sara non correva alcun rischio reale. Lui era Fedele. Ma sapeva anche che lei avrebbe sofferto del modo brillante in cui gestiva i pochi spazi da single. Dio, quanto era assurdamente gelosa. Se non lo fosse stata, ne era certo, lui non avrebbe avuto bisogno di alcuna valvola di sfogo. Forse non avrebbe mai iniziato a frequentare nessuna chat. Forse l’Hdemia stessa, come tale, non sarebbe mai esistita. Forse, a pensarci bene, era quasi meglio così… Diede uno sguardo all’orologio nell’angolo in basso a destra del PC. Le 17.30. Gli restava al massimo un’ora prima di passare a prenderla. Riaprì Le garanzie delle obbligazioni, a caccia del brandello di motivazione indispensabile per terminare il capitolo. 20 Alle 20.55 Fedele arrivò nel parcheggio di Piazza Zanti, dove già da una decina di minuti lo aspettavano i suoi amici. Teenva splendido nella sua giacca Pal Zileri blue royal e jeans Armani, il Libero Ricercatope solare con il suo maglione di cotone leggero color cachi e il Lupo inarrivabile in camicia bianca aperta sul petto villoso e cappellino “Ducati” d’ordinanza. «Salute, Colleghi. Siete soli?» «Illustřissimo Collega, ben ařřivato třa noi in questa řidente e řinomata contřada che da lustři e lustři denominata si convien Cavřiago…» «Esimio Ricercatope, mi compiaccio con Ella del řiverito saluto řivolto al chiařissimo Padře Fondatoře Dottoř Fedele, inveřocchè confořme al přotocollo hdemico.» Guardò per alcuni secondi i suoi amici: saputa la provenienza delle ragazze, avevano iniziato a parlare utilizzando la erre moscia alla parmigiana. Fedele si adeguò velocemente. «Non sono ancořa ařřivate le puledřine?» «Eh, bella domanda, Fedele. Che cavolo ne sappiamo noi?» «Non hai tutti i tořti neanche tu, Teenva… noto con vivo piaceře che hai fatto lavaře la belva…» «Eh, sì esimio: staseřa seřata impořtante, belva lucida lucida e gommone přonto!» Il Lupo pensò bene a quel punto di intervenire per puntualizzare al meglio il suo pensiero: 21 «Staseřa si chiava, gařantito che me ne sbřano almeno due. Siamo, anzi sono qui apposta, cazzo!» L’attesa non si protrasse a lungo, giusto il tempo di tarare al meglio l’utilizzo della erre moscia che il cellulare di Fedele si mise a suonare: erano le ragazze, pronte a scendere dalle loro automobili. La serata era magnifica, una di quelle notti di maggio da annusarci tutti i profumi di una vita. Se qualcuno fosse transitato per Piazza Zanti, proprio in quel preciso momento, avrebbe potuto percepire con esattezza tutte le aspettative di quattro ragazzi alle soglie di un’età adulta che non perdevano occasione di ricacciare più in là, ogni venerdì sera, almeno per un’altra notte. Dalla Lancia Y bianca scese la Manubuzzi in tutto lo splendore dei suoi almeno centoventi chili e con lei… un’altra Manubuzzi, in fotocopia! Al Lupo scappò un “cazzo” tra i denti, mentre il più divertito sembrava Fedele, al riparo da ogni tentazione nella sua corazza, nel suo titolo hdemico. Nella sua quotidianità. Fedele era Fedele. Certo. Da almeno un anno era Fedele, di nome e di fatto, da quando Sara era entrata nella sua vita. I problemi erano iniziati l’estate precedente, quando assieme ai suoi amici aveva deciso di prendere l’aereo e andarsene tra Praga, Budapest e il Lago Balaton per un mese. Quando l’aveva detto a Sara lei era andata su tutte le furie. «A Praga? Ho capito bene?» «…» «Con quei coglioni dei tuoi amici, magari?» «…» «Non se ne parla neanche, amore mio.» 22 «…» «Tu andrai a Formentera, con me» «…» Fedele aveva rischiato di non salire sull’aereo per Praga ma alla fine, dopo estenuanti trattative diplomatiche, era riuscito ad ottenere un salvacondotto (che il Senatus Hdemicus provvide a sequestrare e ad archiviare agli atti) che gli aveva permesso di imbarcarsi sull’aereo e di soggiornare per ben 15 giorni a Praga e Budapest; in cambio egli avrebbe dovuto telefonare due volte al giorno a Sara e tenere il cellulare sempre acceso. Ovviamente del Lago Balaton non si era neanche discusso. Era stata comunque una notevole vittoria diplomatica. Fedele ritornò a concentrarsi sul presente quando la Manubuzzi gli si avvicinò stampandogli un bacio con lo schiocco sulla guancia, un po’ troppo vicino alle labbra, notò Teenva con il Libero Ricercatope. Intanto le ragazze da due erano poi diventate quattro: le due parmigiane infatti si erano decise ad uscire dalla loro Clio raggiungendo il gruppetto. Ciao Manuela ciao Cesaře ciao řobby Alfio ciao io sono Claudia Francesca piacere piaceře Pieř, Gloria ciao bacibaci entřiamo? Entriamo sì. L’osteria della Capra è un angolo di mondo come dovrebbe essere, con le fondamenta ben piantate nella tradizione contadina. Vera trattoria, emiliana dalle gambe dei tavolacci fino al profumo ineguagliabile dello gnocco fritto. Ogni volta che ci tornava, Fedele non poteva che ri-innamorarsi di questo posto dall’apparente stile 23 trascurato, che celava una cura maniacale per i dettagli. Le quattro ragazze si guardarono intorno con aria prima perplessa poi ammirata, indicando le tante suppellettili di vita contadina disseminate lungo le pareti e tra il mobilio, che sembrava appena uscito dal magazzino di qualche rigattiere. Caos minuziosamente organizzato. E un senso indefinibile di calore e familiarità. Con uno stile radicalmente opposto, ricordava tanto il modo in cui ci si poteva sentire da Milva. L’anziana proprietaria, avvolta dall’eternità in un grembiule immacolato, accolse il gruppo con un sorriso benevolo e li fece accomodare al piano di sopra. Inerpicandosi lungo la stretta scala sfiorarono il corrimano in legno e il grossolano intonaco bianco, sorridendo ai clienti incastonati fra i tavoli e gli oggetti appesi alle pareti, come fossero anch’essi parte di questa piccola oasi antica. La stazza delle ospiti non rese semplice la collocazione nella saletta, intorno al tavolo stretto e basso. Il nudo legno del tavolo, vissuto nei suoi innumerevoli graffi, era apparecchiato con bicchieri di vetro spesso e piccole tovagliette di carta giallognola. I primi attimi attorno al tavolo furono impiegati nella consultazione del menù. Quattro paginette scritte a mano, pochi piatti rigorosamente tradizionali. Non si poteva cenare alla Capra senza cominciare con gnocco e tigelle, accompagnati da salumi, formaggi e numerose salse. E lambrusco, of course. Grasparossa di Castelvetro, ordinò Fedele, che in questo tipo di cena aveva sempre carta bianca nella scelta del succo d’uva. Teenva approvò la scelta annuendo profondamente con il capo, come se ne capisse qualcosa. In realtà il suo pane erano i cocktail e gli aperitivi, ma c’era da reggere il gioco di fronte alle pingui commensali. 24 Una volta ordinato, la Manubuzzi prese immediatamente il comando delle operazioni con le classiche domande, create apposta alle origini del mondo per rompere il ghiaccio e preparare degnamente il terreno della conversazione. Il Lupo aveva appoggiato da subito i suoi occhi famelici sul seno ben più che prosperoso della seconda Manubuzzi e si produsse per tutta la serata in un notevole sforzo finalizzato ad un degno dopo cena. Tra un přosit e l’altro, Fedele sfarfalleggiò leggero tra gli artigli della Manubuzzi e le attenzioni discrete di Gloria, una cavallona allampanata che gli ricordava in maniera impressionante Pippo. Poi la domanda arrivò, perché le ragazze erano sì bruttine, ma certamente non stupide, anzi, si rivelarono brillanti e divertenti. Fu la seconda Manubuzzi ad attivare il meccanismo, rivolgendosi al Lupo: «Ma tu porti sempre il cappellino o solo stasera?» «Eh, mia cařa, io e questo cappellino siamo una cosa sola, è pařte di me, come un břaccio, un ořecchio… impossibile sepařařmene!» «Vedi, mia cařa» si inserì Teenva «il Lupo è il cappellino e il cappellino è il Lupo. Mi sono spiegato, madamigella?» La Manubuzzi ascoltava attenta e divertita. Aveva capito di essere, insieme alle sue amiche, la vittima sacrificale di un gioco, ma ci si trovava assolutamente a proprio agio. Fedele se ne accorse subito. «Siete davvero dei bei tipi, voialtri: parlate sempre con la erre moscia o solo stasera?» La domanda era servita solo come scusa per sfiorare la mano di Fedele che, per la prima volta, vacillò leggermente. Fu Libero a rispondere. 25 «Bè, mia cařa, ceřto che no! Staseřa è tutto in Vostřo onore… ovviamente noi, in quanto Padři Fondatoři della Nobilissima Hdemia, sappiamo espřimeřci in ogni vulgata.» «Ma prima che la serata si concluda sarà possibile sapere qualcosa in più di questa Accademia?» «L’alba è ancořa lontana dal Řaggiungeřci, ma se la dolce cameřieřa ci pořteřà un’altra bottiglia di nettaře, chissà, magaři qualcosa in più ne sapřete.» Squillò un cellulare. Quello di Fedele. Era Sara. Controllo di routine delle ore 22.30. Come tutti i venerdì sera che i due trascorrevano separati. Che Fedele trascorreva con quelli dell’Hdemia. «Scusate un attimo.» Robby uscì fuori dal ristorante per parlare con calma e senza essere sentito, approfittando della serata tiepida. «Pronto amore, come stai?» «Ciao Robby. Dove sei?» «A cena con l’Hdemia, e tu?» «Sono con i ragazzi, alla Bottega dei Briganti a bere qualcosa. Ma mi sa che tra un po’ me ne vado a letto.» «Mi manchi, lo sai?» «Anche tu, e non far tardi.» Fedele chiuse il suo cellulare e lo ripose in tasca. Guardò il parcheggio, le auto che transitavano e la fermata della corriera. Già, la fermata dell’autobus. Era davanti ad una fermata simile che a Praga era nato tutto. I Dottori, il Senato, l’Hdemia. L’ultima notte a Praga in attesa dell’autobus per piazza Venceslao, cena e Casinò, poche ore 26 prima di precipitarsi nelle tentazioni di Budapest, nell’ultima estate del millennio. Contenti, tra le Skoda arrugginite e le impalcature della nuova borghesia, tra le camicie sdrucite dei praghesi e le giacche eleganti dei suoi amici. C’era Alfio che ripeteva ogni venti secondi che vestiti così come minimo li avrebbero pestati e rapinati, lui ad inventarsi la contromisura: «Sentite qua: e se dicessimo che siamo dei docenti universitari?» «Scusa e cosa c’entra con il fatto che adesso qualcuno ci ammazzerà per rapinarci?» «Alfio, ma non capisci? Robby ha ragione! Siamo professori e se siamo professori per qualche convegno del menga è del tutto normale che siamo vestiti bene.» Robby aveva capito che stava per nascere qualcosa di importante, e aveva tentato di spiegare meglio l’idea «Sì, dài: siamo professori. Cazzo i prof sono tutti in giacca e cravatta!» «…» «…» «Professori di storia, che ne dite? Pier dì qualcosa.» «Medievale?» «Ma sì, sì, va bene qualsiasi cosa.» Robby era raggiante. «Potremmo essere i quattro nuovi doctores di Bologna…» aveva azzardato Alfio. «Bulgarus os aureum… Jacobus… no, Ugo… non me lo ricordo tanto bene…» «Siamo… siamo… siamo l’Accademia delle Scienze Erotiche, che ne dite raga?» 27 Tutti a quel punto si erano messi a ridere, ma si erano anche fermati un istante a guardare Robby. Era nata un’etichetta destinata a sfidare il tempo: Accademia delle Scienze Erotiche. Bello! «Sentite come suona bene: Dottor Lupompino, esperto in Pompinologia comparata!» A quel punto tutti erano stati contagiati dall’idea. Cesare, in risposta, aveva coniato il nuovo nome di Pier: «E tu Pier, visto i tuoi gusti in fatto di donne… potresti essere Teenvagina, chiarissimo esperto in Passerologia adolescenziale!» Le risate si erano sprecate, Robby aveva quasi le lacrime agli occhi. «Spettacolo! Però per me non potete trovare nulla: lo sapete, io sono fedele…» «Sì, Fedele della Passera! Illustre docente in… Sessuologia Monogamica! Che ne dici?» «Siamo i migliori, cazzo!» Cesare-Lupo aveva iniziato ad urlare con le braccia al cielo, mentre alcune ragazze vicino a loro in attesa del tram si erano spostate, terrorizzate dallo sguardo animalesco del neonato Lupo. «Rimane Alfio.» «No raga, io non voglio entrarci… non mi si addice il rango di professore, non vorrei mai sembrarvi così arrogante dal pormi al vostro livello…» «Sì, questo è vero» acconsentì Robby. «Fammi pensare: potresti essere un libero ricercatore, di rango senz’altro inferiore». «Certo, Robby ha ragione: Alfio potrebbe essere il Libero Ricercatore…» 28 «…semmai faccio il Libero Ricerca-tope…» E adesso erano lì, ancora insieme, a far risorgere il mito ogni venerdì sera, inventandosi sempre nuove cazzate hdemiche, per impedire che quell’intuizione di un attimo, quel senso mai provato di unione e di vitalità si disperdesse in mezzo alle fotografie della vacanza. Aveva aiutato molto Internet: le mail permettevano di trasferire il gergo hdemico nella forma scritta, quella che più gli si addiceva, e consentivano di raggiungere tutti in un istante, creando una sorta di sede virtuale in cui ritrovarsi. Poi c’era la sede fisica. Milva era diventata il cuore del Senato Hdemico, il crocevia atipico delle loro vite di giovani convenzionali, la loro riserva protetta di diversità. Pensava cose di questo genere, Fedele, con il telefonino ancora in mano mentre i due fanali di una punto bianca si spegnevano pochi metri di fronte a lui. Ne scese sorridente il Discipulo, in tutto lo splendore dei suoi riccioli biondi e corti, i jeans e la camicia immacolati, il volto imberbe che non rendeva giustizia ai suoi 21 anni, facendolo sembrare un adolescente. «I miei omaggi, o Discipulo! Che lieta novella, non contavamo sulla tua presenza.» «L’allenamento è saltato all’ultimo minuto, piuttosto che stare a telefonare sono venuto direttamente… come sono le tizie?» «Mmh… diciamo… simpatiche.» Un’eloquente alzata di sopracciglia fu il discreto commento del Discipulo. Non osava criticare apertamente le scelte dell’Hdemia, ma 29 aveva timidamente sostenuto dall’inizio il Teorema di Teenva. Non poteva essere diversamente, d’altronde. «Ma Teenva c’è, vero?» Era quella la cosa veramente importante. Teenva era il suo mentore, fin dall’infanzia. Più grande di tre anni, aveva sempre esercitato un fascino notevole sul piccolo Emanuele grazie al suo modo scanzonato e un po’ cinico di affrontare le cose. Le tante vacanze in cui le loro famiglie, amiche da sempre, li avevano portati in giro per i più bei posti del mondo avevano consolidato questa dipendenza, ma anche generato una sorta di strano cameratismo gerarchico, in cui Teenva si divertiva a giocare il ruolo del fratello maggiore: affettuoso e crudele nello stesso tempo, protettivo ma spietato quando si trattava di approfittare della sua influenza. Naturale, quindi, che il giovane Emanuele finisse travolto dal suo bisogno di consenso nel vortice hdemico, dove si trovò a vestire – ed accettare – senza nemmeno accorgersene il ruolo del Discipulo. Rientrarono insieme, e il sorriso timido del Discipulo fu accolto da un coro di saluti entusiasti. «Signore care» disse Teenva facendosi carico, come sempre, di introdurre il suo protetto nel cuore della serata «avete l’inusitata fortuna di conoscere codesto prestante rampollo. Egli non è stato elevato al titolo di dottore, si trova ancora nel Noviziato. Per questo è noto semplicemente con il nomen di Discipulo. Si tratta pertanto del Membro più giovane della Nobilissima Hdemia.» «Più giovane ma pur sempre Membro» chiosò maliziosamente Gloria, il Pippo in gonnella, caricando l’ultima parola in un modo che non 30 poteva passare inosservato. Sveglia, la ragazza. Si era adeguata rapidamente allo stile hdemico. Andava premiata, pensò Fedele mentre il Discipulo arrossiva fra gli ululati e veniva caldamente invitato a sedersi proprio di fronte a Gloria. Fedele prese una penna dall’interno della giacca, strappò un angolo della tovaglietta e scarabocchiò alcune parole, passandole al Libero Ricercatope. Lui sorrise abbondantemente, lanciò un’occhiata al Discipulo e passò il biglietto a Teenva. Teenva a sua volta lesse, e incrociò lo sguardo di Fedele con un ghigno diabolico d’intesa. Tirocinio sul campo. Infrattarsi con la cavallona? Era una buona idea, e da vedere così nemmeno troppo impegnativa. Gloria infatti stava già dedicando premurose attenzioni al Discipulo, che evidentemente le andava proprio a genio. Lui era così impegnato a difendersi dal fuoco incrociato di battute e domande da perdersi il rapido consiglio del Senato che si era svolto proprio di fronte ai suoi occhi. La Manubuzzi invece aveva seguito il tutto con attenzione – non si perdeva una sola mossa di Fedele, in effetti – e quando Teenva convocò il Discipulo fuori dal locale per una “comunicazione ufficiale” ebbe l’intelligenza di non rovinare tutto facendo domande ad alta voce. D’altronde l’occasione era buona per accostare il viso a quello di Fedele e sussurrargli una domanda all’orecchio. Lui, arretrando di qualche lunghissimo ed eloquente centimetro, si limitò ad ammiccare malizioso. Lei, sempre sussurrando: «Certo che siete proprio stronzi… poverino…» «Dici?» «Sì che lo siete. Proprio bastardi… Però secondo me lei ci sta… magari alla fine funziona sul serio!» Si stava divertendo anche lei, 31 reggeva il gioco. Brava Manubuzzi, pensava Fedele strizzando l’occhio, sapevo che non mi avresti deluso. Cala trenta chili e se ne riparla, ok? Il Lupo era rimasto tagliato un po’ fuori dalla macchinazione ai danni del Discipulo. Aveva il cappellino girato, gli occhi affondati nella scollatura della seconda Manubuzzi e la sigaretta nella mano destra. Lei non sembrava apprezzare particolarmente le sue attenzioni ma si sa, il lupo non è animale che molli facilmente la preda. Ha resistenza, non soffre i climi rigidi né la pervicace resistenza di una cicciona. Fedele era dall’altra parte del tavolo, coglieva solo a sprazzi ritagli di battute su motociclette e luoghi di villeggiatura. Tentativi come sempre goffi, che ben di rado coglievano nel segno nonostante l’abnegazione ammirevole. Fortunatamente il lupo sa anche resistere bene a periodi di magra… questa sera, come tante altre, sarebbe tornato digiuno alla sua tana. A Teenva bastò qualche minuto per catechizzare adeguatamente il Discipulo. Tornando al tavolo Teenva sfoggiava un arco di denti smagliante, mentre il minuto tirocinante lanciava di sottecchi qualche intimorita occhiata verso l’equide commensale. Le schermaglie continuarono ancora per un po’, allorachecosafainellavita, chemusicascolti, chepostifrequenti… poi Teenva diede leggermente di gomito al Discipulo. Il muto invito lo fece rabbuiare. Gli toccava. Doveva decidersi. Il suo sguardo si spostò su Gloria, lei incrociò rapidissima i suoi occhi. Doveva trovare una scusa per invitarla fuori, o l’Hdemia gliel’avrebbe fatta pagare, non sarebbe mai stato trattato come uno di loro. Ma cosa dirle? Che cosa inventare? Pensava questo 32 genere di cose mentre guardava Gloria negli occhi, alla disperata ricerca del coraggio necessario a creare un’impossibile intimità, in quel tavolo affollato da tigelle e sensi di inferiorità. Teenva guardava Fedele. Lui cercava disperatamente di non ridere. Libero scuoteva benevolo la testa, mormorando un “non ce la può fare” fra i denti, in modo che solo Fedele lo sentisse. Sì, forse il Discipulo non poteva farcela, ma Gloria era decisamente intraprendente. Il Lupo aveva chiuso la seconda Manubuzzi alle corde, isolandola dal branco. Loro tre fingevano di ascoltare la Manubuzzi, che stava raccontando l’ennesimo aneddoto, anche se il vero spettacolo era il muto scambio di sguardi tra l’equina e il neofita. Fedele vide il viso del Discipulo mutare d’un tratto, in un’espressione sorpresa che lo fece avvampare per l’ennesima volta. L’occhiata con Teenva e Libero fu automatica e rapidissima, la Manubuzzi non se ne rese quasi conto e continuò imperterrita a parlare. Cosa stava succedendo? Adesso il Discipulo aveva iniziato a sudare, visibilmente. Gloria non diceva niente, continuava a fissarlo, ma non poteva essere solo quello a scatenare la visibile reazione metabolica del Discipulo. Fedele non capiva, perché non aveva né la vista a raggi X né la fantasia sufficiente per immaginare il lungo piede di Gloria che risaliva fra le tibie del Discipulo, innalzandone la temperatura corporea in virtù del forte attrito prodotto. Non ebbero bisogno di parlarsi. Semplicemente, a un certo punto la cavallona si alzò, annunciando: «Fa caldo qui dentro. Vado a prendere una boccata d’aria.» 33 Il Discipulo inizialmente esitò. Giusto i secondi necessari a riprendere fiato dopo la perentoria gomitata alle reni di Teenva. Poi, mesto e accaldato, la seguì. Nel piccolo locale c’erano i soliti pochi avventori delle tre del sabato mattina. La luce blu delle lampade al neon illuminava il volto stanco di Milva intenta a lavare alcuni bicchieri, mentre in un tavolo alla destra della porta d’ingresso era in corso una silenziosa e serrata partita a poker. Fedele si diresse veloce al bancone dove, dopo aver baciato leggermente Milva sulla guancia, ordinò un ultimo bicchiere di vino, per concludere come più piaceva a lui le serate hdemiche. «La Compagnia si è già sciolta per questa sera?» Milva, senza distogliere lo sguardo dai bicchieri che stava asciugando, si era rivolta a Fedele con il tono materno e confortevole che usava soltanto con pochi eletti. «Eh sì, è stata un gran bella serata. Divertente al punto giusto.» «Qualcuno è andato in buca?» «Il Discipulo. S’è dileguato con una delle ragazze… molto simile a Pippo, non so se hai presente il tipo.» A Fedele scappò da ridere più volte nel raccontare a Milva tutto quello che era accaduto all’Osteria della Capra e dopo, quando si era deciso di proseguire la serata all’Adrenaline, con biglietti omaggio fatti magicamente comparire da Teenva. In discoteca Fedele aveva dovuto affrontare un paio di assalti della Manubuzzi, ma alla fine si era salvato e ne era uscito indenne, se si eccettua il sapore davvero sgradevole di 34 un gin tonic bevuto per forza, in un meritato brindisi alla coppia della serata Discipulo-Pippo. «Si rivedranno?» aveva chiesto quasi con noncuranza Milva. «Mah, chi può dirlo… comunque no, non credo proprio.» «E tu?» I due avevano parlato senza guardarsi in faccia, lei intenta alle sue stoviglie, lui concentrato sul suo bicchiere di vino, ma quando Fedele alzò gli occhi Milva lo stava fissando con un bel sorriso malizioso. «Io? Cosa c’entro io?» «Manuela, dico. La rivedrai?» «No, no: puoi esserne certa. La ragazza è sveglia abbastanza per sapere che a questa serata non ci sarà un seguito.» «E Sara come sta?» «Eh? Ah bene, bene… lo sai che lo faccio per l’Hdemia. Per il gruppo.» I due rimasero in silenzio per un po’. La musica caraibica riempiva il locale. Al tavolo alla destra dell’ingresso un uomo si alzò, andò verso il bancone, salutò distrattamente Fedele e baciò Milva accarezzandole i capelli. Quando l’uomo fu fuori dal locale Fedele si rivolse a Milva. «Quando è uscito?» «Questa mattina. Dormirà da me per un po’. Poi si vedrà.» «…» «…» «Non mi dire che ci stai insieme…» «No, ma è un amico. E non ha un posto dove andare.» 35 Fedele non disse nulla. La guardò mentre, voltata verso lo scaffale, sistemava i bicchieri. 36 CAPITOLO SECONDO Dove Fedele si divide fra bottiglie di vino e ovetti Kinder Data: lunedì 15 maggio 2000 DA: Gran Cia’n’bell’ano ([email protected]) A: dr. Fedele ([email protected]); dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) CC: Discipulo ([email protected]) Oggetto: spunti di riflessione Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas Illustrissimi, vogliate concederci di iniziare questa nostra complimentandoci vivamente con il giovane et audace Discipulo, fautore di nobili gesta Hdemiche nella scorsa adunata del conSesso (alla quale non abbiamo preso parte ma che, come di consueto, ci ha visti presenti e uniti nello spirito hdemico). Nel nostro ambìto e onorato ruolo di Gran Cia’n’bell’ano ci sentiamo in dovere di sancire formalmente, dopo l’opportuna verifica sperimentale, la bontà del Teorema del dottor Teenvagina, d’ora in 37 poi eternato e tramandato alla scienza come Teorema di Teenva sull’Aggregazione Delle Buzzicone. A Lui quindi imperituro onore e infiniti Sollazzi. Purtuttavia, la vicenda porta con sé ulteriori e fecondi spunti di riflessione. Uno di codesti trae l’abbrivio da una considerazione come sempre acuta e ficcante nel suo stile essenziale, che il dottor Lupompino ha recentemente avuto modo di elaborare. Dixit Lupus: “Ma è possibile che si debba sempre fare tutta ‘sta fatica per una chiavata? Tanto lo sanno benissimo che alla fine vogliamo solo trombare. E lo vogliono anche loro, le troie.” Senza cessare di sperticarci in ammirate lodi per l’auctoritas che promana da ogni parola del Dottor Lupompino, vogliamo sottoporre al Senato Hdemico una formulazione più estesa del quesito. Miglialia d’anni di civiltà hanno prodotto rituali di corteggiamento codificati – e a nostro avviso in gran parte superati – in virtù dei quali, pur essendo ambo i sessi fortemente orientati alla reciproca stimolazione genitale, sembra inevitabile un faticoso e progressivo percorso di avvicinamento, spesso fonte di spiacevoli malintesi e cocenti delusioni, nonché di costante spreco di tempo e denaro. Ma l’evoluzione della specie non dovrebbe rendere l’uomo libero da siffatti, immateriali vincoli? Non dovrebbe l’Hdemia per questa ragione farsi carico, nella sua illuminata funzione di avanguardia sociale, di un cambiamento dei costumi che induca più frequenti, immediate et spontanee copulationes? Qualche vetusto reazionario sostiene che la manfrina del corteggiamento sia condizione necessaria – di più, addirittura parte costituente del processo che conduce al Beato Intingolo. Eppure, è nostra convinzione che la Patata Moderna stia oltrepassando questa 38 visione retrograda. Il teorema che vogliamo formulare e proporre al Senatus è pertanto il seguente: a fronte di un’interrogazione semplice e diretta sulla disponibilità a copulare, riteniamo che una parte significativa delle pulzellae prenderebbe perlomeno in considerazione l’autore del quesito, benché sconosciuto, e in larga parte a prescindere dalla sua avvenenza. Resta da sperimentare sul campo – e qui ci rivolgiamo alla sapienza Hdemica – in che proporzione possa essersi diffusa tale sapiente forma di Tubero Evoluto. Concludiamo qui la nostra dissertazione, augurandoci di avere sollevato un quesito capace di scaldare le menti delle S.V., almeno quanto le palme delle mani vostre sono use fare con i rispettivi augelli. Di più, ci auguriamo di avere aperto un confronto che possa concludersi in degne attività Hdemiche volte a verificare et eventualmente validare quanto discusso in sede teorica. Invitando una volta di più lorsignori a farsi protagonisti di memorabili atti di lascivia, cordialmente porgiamo i nostri più rispettosi saluti. in Vulva Veritas Il Gran Cià’n’bell’ano lunedì 15 maggio 2000 Dopo aver parcheggiato rimase immobile in auto con il motore spento per un po’. La mattina era davvero gradevole, ma lei non prestò attenzione alle condizioni atmosferiche e a nulla di ciò che la circondava, talmente era concentrata su quello che avrebbe dovuto 39 dire. Rovistò nervosamente nella borsetta appoggiata sul sedile del passeggero, trasse un respiro sofferto e si concesse ancora qualche secondo per guardarsi nello specchietto retrovisore. Il parcheggio Zucchi era mezzo vuoto, ma un flusso continuo di auto di lì a poco avrebbe esaurito la disponibilità di posti. Erano le 8.27 di lunedì 15 maggio. Fuori c’erano 19 gradi, ma le sue mani erano gelate. Prese la borsetta, aprì la portiera e scese dall’automobile. Si sistemò la gonna, chiuse a chiave e solo allora guardò distrattamente il cielo, realizzando di essere in anticipo di una mezzora sull’orario dell’appuntamento. Si incamminò decisa verso il budello che separava il parcheggio, l’ingresso della discoteca Adrenaline e viale Allegri. Percorse piazza della Vittoria e dopo pochi metri si infilò nel Caffè Cavour sotto l’Isolato S.Rocco. Erano le 8.34. Nel bar c’erano due avventori che leggevano la Gazzetta dello Sport e discutevano di come la Juventus, il giorno prima, avesse perso lo scudetto sotto il diluvio di Perugia. Ordinò un caffè e un bicchier d’acqua; si accese una sigaretta e cercò di concentrarsi sulla conversazione dei due uomini. Le mani le tremavano un po’. Aspirò una lunga boccata di fumo e strinse lievemente gli occhi, nascosti dietro un vecchio modello di Persol scuri. Erano le 8.52 quando si decise. Pagò, ispezionò nervosamente la borsetta e uscì dal bar. Di fronte all’austera porta blindata della Banca Commerciale Italiana si fermò. Il nero della struttura l’invase con prepotenza e un senso di vertigine la colse un attimo, ma si aggrappò con tutta la forza che aveva 40 alla sua borsetta e mosse un passo, poi un altro, un altro ancora. Fino a quando il freddo della maniglia non fu un tutt’uno con le sue dita di ghiaccio. Erano le 8.56 quando fu all’interno della banca. Le casse 1 e 3 erano in funzione, con la solita fila agli sportelli. Si stupì a increspare le labbra in un sorriso storto, ripensando a quante volte si era trovata – impaziente – a subire quella stessa fila poi, sfilati gli occhiali, si diresse verso l’ufficio del Direttore. La porta era chiusa. In fondo alla sala. Passò davanti alle postazioni dei consulenti e a uno di questi disse che aveva un appuntamento. Le risposero di entrare pure e di accomodarsi che il direttore era nei pressi. Si avviò, spinse la porta e, una volta dentro, si sedette su una delle due poltrone in finta pelle davanti al tavolo di cristallo che fungeva da scrivania. Attese qualche minuto, frugò velocemente nella borsetta e cercò di convincersi che tutto sarebbe andato bene. Erano le 8.59 quando la voce del Direttore la salutò cordialmente, facendo svanire in un colpo la poca sicurezza che era riuscita ad iniettarsi. «Buongiorno, Milva.» «Ciao, Giorgio.» Lui le strinse le mani, abbracciando il sorriso di lei con la fragranza di D&G, rimanendo per un attimo di troppo in silenzio. «Ho sentito dire che ieri avete perso lo scudetto…» disse Milva cercando di prenderla molto alla lontana. «Ahh guarda, non ne parliamo! Un furto! Un vero e proprio furto!» 41 Il sorriso di Giorgio Castaldi era quello di una persona buona. Milva se ne era accorta subito, la prima volta che aveva messo piede in quella banca per aprire il proprio conto corrente. «Milva: non credo che tu sia venuta qui per sfottermi sulla Juve. O sbaglio?» Era il momento. L’orologio a muro segnava le 8.42. In ritardo o fermo. Toccava a lei, adesso. «Vedi…davvero non so come spiegartelo». Silenzio. Castaldi si era posizionato sul sorriso d’attesa. Bancario navigato, il direttore. «Beh, avrei bisogno di un prestito. Voi siete una banca. Le banche fanno prestiti. Voi siete la mia banca. Direi che tutto quadra, no?» Il sorriso di Castaldi parve vacillare. Trasse un respiro, premette un paio di tasti sulla tastiera del suo computer. Per alcuni lunghi secondi fissò il monitor, concentrato. «Vedi Milva, vorrei tanto poterti aiutare…» Vorrei. Non stava andando bene. Per niente. Castaldi continuava a parlare, ma lei era ferma su quel condizionale del cazzo. Vorrei. Che non vuol dire assolutamente voglio. Inutile stare a girarci intorno: era un no. Senza speranze. Il sorriso le si incenerì in un attimo. In altri momenti avrebbe salutato e tolto il disturbo. Ma questa volta non poteva. Non avrebbe potuto sopravvivere senza speranza. «Giorgio lo so» lo interruppe bruscamente. «Lo so che non potete farmi un prestito. Ma te lo chiedo per l’amicizia che ci lega.» 42 Erano le 9.13 quando il sorriso del direttore Castaldi si spense del tutto. «Di quanto hai bisogno?» «Quaranta milioni. Lira più, lira meno.» «…» «…» «Quaranta milioni. È troppo, Milva.» «Lo so, Giorgio: è per questo che sono venuta da te.» «Ma io per te ho già fatto i miracoli! Ti abbiamo fatto un mutuo praticamente senza garanzie!» «Non ti supplicherei se non fossi nella merda. Mi conosci: non prego mai.» Fu un sibilo. Gli occhi a fessura, come un gatto messo in un angolo. Lui stette immobile, occhi negli occhi, molto vicini l’uno all’altra. Poi d’un tratto Castaldi si lasciò cadere all’indietro contro lo schienale della poltrona, sbattendo le mani sui braccioli. «…non posso aiutarti, credimi» sospirò Castaldi, improvvisamente stanco. «Quarantamilioni: cosa diavolo sono per la tua banca?» «Ma non penserai che io possa decidere tutto quello che voglio! Se dipendesse da me…» «Quaranta milioni: te li restituisco uno ad uno. Se avessi tempo non verrei ad elemosinare, ma di tempo non ne ho: mi servono subito.» Erano le 9.21 quando Milva uscì dalla banca. Il cielo era sgombro. Il prestito non l’avrebbe avuto. C’era da avvertire Barbara. Pensò: “cazzo” e si diresse alla macchina. 43 Aveva un problema. *** Guidò con la fame che gli stringeva lo stomaco, ma non aveva pensato neanche un istante di fermarsi in mensa o in qualche bar per un panino veloce. Guidò piano nel flusso della tangenziale, gustandosi il cd che aveva comprato la domenica pomeriggio al centro commerciale Grand’Emilia – l’ultimo di Gigi D’Alessio – e una volta arrivato parcheggiò la sua Golf GTI proprio davanti all’ingresso del Bar Milva. Spense il motore, tolse la mascherina dell’impianto cd e non senza qualche difficoltà si allungò per prendere sul sedile posteriore una cartellina colorata. “La penna la trovo da Milva” pensò mentre azionava l’antifurto e contemporaneamente si frugava nelle tasche per prendere un piccolo mazzo di chiavi. Arrivato davanti alla porta d’ingresso del locale fece qualche passo in più verso una porticina laterale, si mise la cartellina tra le gambe e inserì una chiave nella toppa. Contemporaneamente con l’altra mano tirò lievemente a sé la porta, che si aprì. Con la mano sinistra fece scattare l’interruttore della luce, chiudendosi la porta alle spalle. Era dentro. Era bello il bar vuoto, senza luci, senza voci, senza musica. Era vivo lo stesso, con il riflesso del sole che penetrava dalle vetrate e si andava a posare sui tavoli neri e sul bancone del bar, sulle slots machines e sulla parete tutta piena di liquori e wiskey vari. Sempre così, il Lupo: entrava e stava alcuni secondi in contemplazione di un posto che conosceva a menadito, ma che nel giorno di chiusura gli si presentava 44 in un modo diverso, se possibile ancora più accogliente. Era il Bar Milva, ma al lunedì, quando smetteva di lavorare, era il suo bar. Si diresse verso un piccolo tavolo vicino al televisore, appoggiò la cartellina, la mascherina dell’impianto stereo della sua Golf, le chiavi e tornò verso il bancone. Aveva fame. Dopo 8 ore in fabbrica aveva proprio voglia di uno di quei panini mega farciti che alla sera gli preparava Milva, prima di dedicare la giusta attenzione alla sua “creatura”. Dal frigo prese due lattine di birra, tolse il panino dalla piastra e appoggiò il tutto sul tavolo; con una piccola chiavetta aprì la cassa e fece scivolare al suo interno i soldi del pranzo. Prese alcuni tovaglioli di carta e tornò al tavolo. Milva era unica. Alcuni mesi prima, durante una delle tante partite a poker che concludevano le serate hdemiche, si era avvicinata al tavolo e aveva seguito per un po’ di tempo l’andamento della sfida. Il Lupo stava, come sempre, levando le mutande a Teenva, Fedele e al Libero Ricercatope quando, digrignando i denti e grattandosi i capelli da sotto il cappellino, aveva chiesto a Milva se fosse possibile avere libero accesso al locale. «Scusa Lupo, ma ormai noi siamo parte dell’arredamento di ‘sto bar qui» aveva obiettato Fedele. «Oh, io sono un lupo: ho bisogno di una tana sicura e protetta… e soprattutto tranquilla per portarci le mie prede.» «Beh, per essere sicuro e protetto questo bar lo è, ma in quanto a tranquillità ho i miei seri dubbi: è un esercizio pubblico, Lupo.» Sarcastico come sempre, il Libero Ricercatope aveva liquidato la richiesta del Padre Fondatore ed era ritornato a concentrarsi sulle sue 45 carte. Milva non aveva fatto una piega. Aveva lasciato che il gioco proseguisse poi, mentre il Lupo calava l’ennesimo full di donne della serata, aveva detto «Tieni» e contemporaneamente aveva appoggiato sul tavolino un piccolo mazzo di chiavi. L’Hdemia tutta era rimasta interdetta un attimo, ma subito il Lupo, afferrate le chiavi, aveva chiesto: «Ma sono le chiavi del bar?» «Sì. Non ho tempo di seguire tutte le tue gesta. Tu le conquisti e le porti qui quando ti pare.» «Cazzo Milva, se non fossi un Lupo ti sposerei!» Lei non disse nulla, si limitò a dargli un bacio sulla guancia «Ti dovrò insegnare come funziona la macchina del caffè. Quando avete finito vieni al bancone.» Era stato così che il Lupo era entrato in possesso delle chiavi del Bar Milva. Ovviamente non ci aveva portato mai nessuna preda ma il lunedì, giorno di chiusura, prima o dopo il suo turno di lavoro in fabbrica, veniva al bar e, nella più completa solitudine, dedicava tutte le attenzioni alla sua “creatura”. La passione era nata improvvisa e magica, come un amore per una donna che non c’è, alcuni anni prima, di ritorno da una scatenata vacanza a Malta, dal desiderio di fermare sulla carta tutte le emozioni che aveva vissuto nella piccola e cosmopolita isola. In realtà il Lupo – che all’epoca ancora era da tutti conosciuto con il suo nome, Cesare – voleva raccontare l’intensa e veloce storia d’amore che aveva vissuto con una ragazza di Mosca. Ci si era messo davvero d’impegno. Ogni momento era buono per continuare quello che, piano piano, nel tempo, 46 si era poi trasformato in un vero e proprio romanzo d’amore, con tanto di titolo per il quale andava davvero molto fiero: “Tra la terra e il cielo”. Stava scrivendo ormai da una buona oretta, quando avvertì aprirsi la porta esterna del piccolo magazzino. Dopo alcuni minuti entrò Barbara, l’aiutante di Milva, che lo salutò per poi scomparire ancora nel piccolo magazzino. Ormai era diventato normale per lei trovare il Lupo nel bar, era diventato un po’ come un pezzo d’arredamento. Dal fondo del piccolo magazzino la voce della ragazza raggiunse il Lupo. «Se vuoi leggere il giornale è sul bancone.» «Grazie Barbara! Stavo giusto pensando di fare una pausa.» Appoggiò la penna sul tavolo, rilesse i due fogli A4 che aveva scritto da quando era arrivato al bar e si alzò. Si diresse al bancone, prese una bottiglietta di tè alla pesca e il giornale. Ritornò al suo tavolino, bevve due belle sorsate e iniziò a sfogliare il quotidiano. Poco dopo arrivò anche Milva. Dopo aver scambiato due battute con il Lupo si fermò al bancone, dove Barbara era intenta a fare dei conti. «C’è un problema.» Milva fu diretta e veloce. Barbara capì subito. «Non ci aiuterà?» «No, non può. O non vuole.» «Ma Milva! Abbiamo poco tempo…» «Lo so benissimo, ma dobbiamo provarci lo stesso! Dobbiamo trovare una stramaledetta soluzione. Altrimenti non ci sarà speranza.» 47 Le due donne stavano parlando a bassa voce. Il Lupo percepì solo poche parole, ma sufficienti per calamitare la sua attenzione. «Siamo ancora una volta sole?» La voce di Barbara era diventata un lieve lamento. Le due donne si guardarono a lungo negli occhi, senza dire nulla. Non c’era bisogno di parole, lo sapevano entrambe che erano sole, a combattere contro un nemico più forte di loro. In fin dei conti il loro piccolo bar era un’oasi avvolta nella tormenta: sempre così, da quando l’avevano aperto. «Non ci faranno chiudere. Vedrai che una soluzione la troveremo.» «…» «Non ci faranno chiudere.» Il Lupo non aveva avuto il coraggio di alzare lo sguardo dal giornale, ma aveva incanalato tutta la sua concentrazione nel seguire il dialogo, del quale aveva carpito mezze frasi, qualche parola a fatica e - questo l’aveva capito benissimo, invece – molta agitazione e preoccupazione. Le due donne avevano smesso di parlare e la curiosità lo aveva vinto: piano piano alzò gli occhi dalla pagina dello sport e guardò dritto verso il bancone. Fu un attimo. Fece in tempo a vedere Milva sbattere il pugno contro il bancone con un volto tirato e arrabbiato, e subito ritornò a fissare la pagina del giornale. Non capì molto, ma le ultime parole di Milva le comprese perfettamente, e lo riempirono di tristezza. «Non glielo permetteremo. È il nostro bar, questo.» *** 48 «Guarda, c’è un posto libero. Come “dove”? Non vedi? Lì, ce l’hai davanti. Ecco. Attento, è stretto. Sterza. Robby, sterza!» «Oh capito! L’ho visto! Santo Dio, quando fai così non ti reggo.» L’ingresso nel garage sotterraneo del grosso centro commerciale segnava anche stavolta il passaggio da un pomeriggio luminoso al tetro prospettarsi del canonico shopping settimanale. Inevitabile e puntuale come i rimproveri di Sara sulla sua guida distratta. Lui diventava scuro e nervoso. Lei e i suoi sorrisi sicuri quasi fastidiosi. No, non era cominciata tanto bene. Giusto il tempo di mettere cinquecento lire nel carrello e farsi abbracciare dalle luci delle vetrine, e Sara aveva già superato la tensione di un secondo prima. Fedele pensò che le invidiava questa capacità di non portare rancore, di farsela passare in pochi minuti. In un angolo remoto della coscienza pensò anche che questi piccoli scazzi erano ormai talmente frequenti che anche il programma di rimozione girava in automatico. Come a dire che ormai non gliene importava gran che. Ma fu soltanto un’idea fugace, quasi inconsapevole. Davanti a lui si parava in tutta la sua maestà l’Ipercoop, un mostro da cinquemila metri quadri brulicante di massaie, volantini del 3X2, giovani commesse sui pattini e promoter in camice bianco e sorrisi plastificati. Un bel respiro, e uno sforzo per non scollegare completamente il cervello. Almeno per i primi venti minuti doveva stare sul pezzo e fare la parte del bravo moroso. E magari ascoltarla. Pure? Pure. «Ah, non ti ho detto. Domenica prossima in parrocchia c’è la raccolta della carta. Ci andiamo vero? Ci sarebbe bisogno anche di andare là il 49 sabato pomeriggio, per suddividere le zone. Magari ci dai una mano anche tu? Che ne dici?» Eh, magari. Magari anche no. «Adesso vedo, forse devo studiare. Sono un po’corto con Civile…» «Studi, di domenica? Tu? E da quando?» La risata cristallina, il braccio intorno alla vita e il bacio sonoro sulla guancia sancirono la resa incondizionata, senza possibili repliche. «Che bastarda che sei… alla fine da me ottieni sempre tutto. Lo sai, e te ne approfitti. Però ti adoro…» Lo disse abbracciandola con foga e affondando il viso nel profumo dello shampoo, la mano destra pericolosamente bassa sul girovita di lei. Quando le labbra di Fedele si spostarono nei pressi dell’orecchio, Sara decise che poteva bastare così, per oggi. «Dai, smettila. Siamo in mezzo alla gente, non sta bene-» Quelle tre piccole parole. Non sta bene. Come una manciata di cubetti di ghiaccio nelle mutande. Il replay infinito di infinite discussioni. Sull’ipocrisia perbenista. Sul significato della sessualità. Sul corpo come dimora dello Spirito Santo. Controversie estenuanti consumate negli intervalli di un petting tragicamente consapevole e controllato. Da lei, of course. Fedele aveva scoperto Guccini da poco, e quasi si commuoveva ogni volta: “Anche se adesso hai al vento quello che / io per vederlo c’ho impiegato tanto / filosofando pure sui perché.” «Oh, guarda! C’è lo Svelto in offerta. Tua madre non ce l’ha messo nella lista, però glielo prendo lo stesso, che dici? Eh? Oh, Robby, ci sei?» 50 «Cosa? Ah… sì, sì scusa, prendilo, prendilo. Senti, che dici se ti aspetto nella corsia dei vini?» Nei riflessi porpora e dorati dei neon sulle bottiglie - due file fitte, lunghe e rassicuranti - Fedele finiva quasi sempre col trovare un ristoro dalle fatiche della spesa. Gli spigoli della vita di coppia, i sensi di colpa universitari, la realtà compressa dei suoi ventiquattro anni vissuti, gli sembrava, con il freno a mano tirato… tutto pareva perdere gravità e consistenza nel susseguirsi delle etichette che gli portavano nomi affascinanti e spesso sconosciuti. Millantava competenza, Fedele, ma la sua era una passione quasi adolescenziale: intensa e sottile, attraente più per se stessa che per il suo oggetto. Eppure gli piaceva da impazzire confrontare prezzi e nomi, regioni e diciture. Stava contemplando con esotico interesse un Sauvignon altoatesino quando sentì vibrare il cellulare nella tasca della giacca. Messaggio. Un nome sul display, “Valerio”. Un tuffo, rapidissimo, al cuore. Non se l’aspettava. Meglio, non ci sperava più. Fedele non potè fare a meno di guardare rapidamente su e giù per la corsia dei vini. L’anziano pensionato che scrutava da sotto gli occhiali l’etichetta di un Lambrusco di Sorbara pensò che quel giovane avesse qualcosa da nascondere. Per fortuna di Fedele, Sara era completamente immersa nella comparazione dei prezzi degli yogurt, e non potè vedere né l’espressione allarmata di Fedele né quella vagamene divertita del pensionato. “Ciao Robinhood, scusa se sono sparita così. Se non ce l’hai con me stasera ti spiego. Mi connetto alle 9. Vale.” 51 Valentina, alias Valerio nella sua prudente rubrica telefonica. Quanto era passato? Un mese? In mezzo c’era stata tutta la storia della Manubuzzi, un buon ripiego per allontanare la mente e tenersi lontani da quel contatto virtuale che rischiava di destabilizzarlo sul serio. A giocare col fuoco… Fedele, quello fedele, aveva in cuor suo ringraziato per l’improvviso e inatteso silenzio. Ma la parte meno fedele di Fedele non aveva mai smesso di pensarci. Sotto mentite spoglie, certo: “Cosa avrò scritto di sbagliato?” “Una così non esiste, stava solo recitando” “Forse si era fatta prendere troppo”. Lei. Come no. E intanto era lei a essersi improvvisamente zittita, e lui a scriverle altre due o tre mail. Aveva quasi smesso di pensarci. Quasi. E adesso… «Robby, ci sei? Hai trovato qualcosa di buono? Dai, andiamo, cialtrone! Finisce sempre che la spesa la faccio da sola.» La voce squillante di Sara lo fece sobbalzare un po’. Si costrinse a muoversi lentamente, infilando con disinvoltura il cellulare in tasca. Girandosi, incrociò l’arco sfavillante del suo sorriso. Era bella. Sì. Cazzo se era bella. Alla cassa Sara estrasse dal carrello una confezione di ovetti Kinder. Li aveva presi per lui, che ne andava matto. Non esistevano in nessuna lista della spesa di questo mondo. Li aveva presi pensando a lui, come faceva sempre. Così attenta, così adorabile ogni volta che voleva diventarlo. In macchina, sulla via del ritorno, il sole al tramonto dipingeva di giallo l’asfalto e l’interno scuro della sua utilitaria. I capelli a caschetto di Sara, neri come la notte, si spargevano sui suoi jeans. Quando era stanca e serena faceva così. Stava in silenzio e si stendeva su di lui, che 52 guidava immobile, accettando volentieri la fatica nel raggiungere la leva del cambio. A volte, in quei momenti, era convinto di amarla. Questa sera gli veniva quasi da piangere. *** Il monitor davanti, posta elettronica e programma di chat già aperti. Per i genitori, l’ennesima serata passata in casa da questo bravoragzzo, chiuso nel suo studio a fare chissacosa fra i suoi libri e quel computer. Per Sara, un’altra sera da passare separati, lui a poltrire sul divano e lei in parrocchia, a stringere relazioni vitali per una studentessa fuori sede. Per lui, una serata leggermente tachicardica, iniziata fra le bottiglie di vino e destinata a compiersi sulla schermata di una chat. Un’occhiata all’orologio: le 20.45. Ancora presto. Non si era mai connessa prima delle 21. Si costrinse a temporeggiare, rileggendo brani della corrispondenza breve e intensa iniziata solo qualche settimana prima. Ciao, io sono Robby, e qualcosa di più di me lo puoi vedere dal profilo. Se ti dicessi che la tua foto mi ha ricordato Nancy Brilli forse potrei sembrarti eccessivo, quindi non te lo dirò ;-) Ti dirò invece che trovo interessanti la determinazione e la chiarezza di idee che traspaiono dal tuo profilo. Insieme ad alcune 53 espressioni brillanti, che sembrano raccontare di una bella padronanza dei pensieri e della lingua. "Amo tutto ciò che è vita e a volte piango anche di gioia" è una sintesi potente e suggestiva, e anche quel "non te lo dico" capriccioso e smaliziato... m i sbaglierò, ma non sembri una che litiga con le parole. La cosa che ho apprezzato di più, però, è la conclusione. “Amicizia, comincia tutto da lì”. Mi trovi perfettamente in linea: non credo sia utile preoccuparsi di raggiungere qualche "obiettivo". Ciò che conta è fare un pezzo di strada assieme… per essere persone migliori e meno sole, soprattutto di fronte a noi stesse. Se ti va, puoi scrivermi a [email protected] Sì, era stato lui a contattarla per primo. Si era imbattuto in quel profilo così diverso dai soliti “sono una ragazza dolce e carina che ama la musica e il mare”. Si era incuriosito, anche perché la fotografia era decisamente gradevole. E aveva sfoderato questa piccola mail della serie “parlo di te per parlarti di me”. Senza calcare troppo la mano, non era ancora il momento di fare la ruota come i pavoni. Lo scopo, come sempre, era quello di stuzzicare la curiosità. Se riuscivi a farle pensare anche solo per un attimo “questo forse è diverso dai soliti” eri già a metà dell’opera. La risposta di Valentina era stata rapida e convincente. Robby occhichiari! 54 Devo dire che neanche tu hai mai fatto una bella litigata con le parole, o semplicemente preso a cazzotti una pagina prima di riempirla di pensieri. Robby occhichiari, hai stoffa da vendere perché sai guardare o meglio sai leggere. Non sai quanto è difficile di questi tempi cercare di rimanere femminili e, contemporaneamente, dare l'impressione che anche tu sai il fatto tuo senza cadere nella solita trappola della donna con le palle. Lo ammetto, mi piace giocare a fare la gatta capricciosa e smaliziata, ma sono in pochi quelli che se ne accorgono, perché lo faccio sempre in sordina e fra le righe. Robby occhichiari m i ha colto in flagrante mentre cercavo di rubare un briciolo di attenzione. Robby occhichiari, mi è piaciuto leggere dei tuoi occhi chiari, non chiedermi il perché, non saprei r isponderti, o meglio, non saprei esprimere quello che è balenato nella mia riccioluta testolina. Ciao Robby occhichiari, buona notte e che i tuoi sogni siano spettacolari! Dimenticavo, il m io nome è Valentina. E a quel punto Robby Occhichiari aveva capito che si stava infilando in un brutto guaio. Il Narciso ingordo che viveva fra i tasti del suo PC era stato adeguatamente sfamato, e questo era già un buon inizio. Il 55 problema era che il boccone sembrava roba di prima scelta. Colpito nel segno. Quel “sai leggere” era il suo piatto preferito. Accompagnato da un contorno di “come scrivi bene” ed espresso con brio e originalità… ce n’era di che farsi ingolosire. Se ne era accorto subito, e gliel’aveva pure scritto. Valentina, riccioli biondi, che piacere leggerti, e vedere confermata la sensazione di pericolo avvertita scorrendo il tuo profilo. Pericolo, sì. Attento a questi riccioli m io caro robinhood, perché siamo di fronte a una testolina che pensa collocata fra le spalle di una donna che sente! Combinazione alla nitroglicerina, micidiale anche per un ottimo principe dei ladri... Ma che ci vuoi fare, noi eroi siamo così orgogliosi da non dare retta nemmeno ai nostri stessi avvertimenti, quindi correrò il rischio di farmi mettere nel sacco da questa cascata di ricciol i luminosi e consapevoli. In una rapida escalation di email e chat, in pochi giorni la conoscenza tra Robby e Valentina si era fatta approfondita in quel modo strano che solo la conversazione a distanza consente. Non sapevano quasi niente del reciproco quotidiano, ma sarebbero stati in grado di muoversi agevolmente per i sentieri più nascosti delle rispettive anime. Un’intimità che aveva permesso a Robby di andare proprio al cuore di 56 questi giorni difficili. Senza parlare troppo di Sara, ma anche senza nasconderne l’esistenza. Il punto non era lei. Non era solo lei. Era ciò che lei rappresentava. Sai Vale, a volte mi guardo allo specchio, e mi trovo davanti un ragazzo che fa ogni giorno a pugni con l'idea del tempo che passa e di tutti i se stesso che non ritroverà più. Un ragazzo che vive un periodo di forte smarrimento interiore e non riesce a capire bene dove lo stia portando la sua vita. Ecco, questo vedo: una persona che annaspa nelle rapide dell’esistenza, che ha l'impressione di essere trascinato da una corrente contro la quale ha poca possibilità di ribellarsi. Chissà se capita mai anche a te di sentire la forza di questa corrente... quando sei bambino la vita è un oceano di possibilità, una mir iade di fantasie luccicanti. Po i diventi ragazzo, e cominci a sentire il potere scorrere fra le mani, ti sembra di poter solcare quel mare con la sola forza della tua volontà e della tua giovinezza. Un ragazzo sa perfettamente - con la miopia e l'arroganza della gioventù - che cosa è giusto e che cosa è sbagliato... e, naturalmente lui è giusto fino al midollo delle ossa. Non esistono le sfumature, le debolezze, i dubbi. E con queste tinte forti dipinge il suo presente e la proiezione del suo futuro. Poi cresci, e ci pensa la vita a farti notare le sfumature. Una persona di media intelligenza non può che iniziare a stare stretta 57 nelle sue certezze, a sorridere di loro e di se stesso. Una persona di media intelligenza comincia a scontrarsi con la realtà pesante dei suoi errori, dei suoi lim iti, della sua meschinità... e se è fortunato impara a guardare anche queste con pazienza e benevolenza. Ma alla fine, una persona di media intelligenza facilmente inizia a sentisi un po' smarrita. E se a questo aggiung i che vivere è un po' come salire su un gigantesco albero, in cui ogni scelta significa arrampicarsi su un ramo piuttosto che su quello accanto, una persona di media intelligenza si accorge presto che ad ogni metro rimangono dietro le spalle mir iadi di strade non percorse... e sempre meno di queste strade, di queste scelte, ci separano dal cielo sopra di noi. Ecco, il povero ragazzo di cui sopra inizia a sentire che la vita gli si stringe un po' addosso, che le certezze sono sempre meno, che non sa più di preciso né da dove viene né dove sta andando... e in tutto questo continua ad andare, andare, andare... Era stata l’ultima mail che le aveva mandato. Rileggendola subito dopo averla scritta, aveva provato a raccontarsi che si trattava di un autentico capolavoro, la Ruota del Pavone più intimista, assoluta e perfetta. Malinconica, profonda e matura. Una perla, capace di affascinare sia il cuore che la mente. Quello che non voleva o non sapeva dirsi era che, suo malgrado, era anche spaventosamente sincera. 58 Che il corteggiamento virtuale c’entrava poco. Che in quelle righe c’era tutto lui. E c’era anche tanta, troppa Sara. Si era aspettato che Valentina a quel punto rispondesse perlomeno a tono. E un po’ sperava un po’ temeva che non le bastasse più raccontarsi via email: si erano scambiati il numero di cellulare giusto il giorno prima, ma nessuno dei due aveva ancora trovato il coraggio di servirsene. Nella sua rubrica c’era già “Valerio”, ma fino a quel momento era stato solo un monito simbolico nella lunga lista dei suoi contatti. Forse, dopo quella mail, avrebbe deciso di telefonargli. Lei per prima, certo. Ne aveva il carattere e la capacità. Lui no, lui non poteva. Lui era Fedele, cazzo. Le avrebbe volentieri risposto, ma fare la prima telefonata sarebbe stato un passo troppo deciso al di fuori del cerchio di sicurezza entro il quale aveva confinato la propria coscienza. Aveva imparato a perdonarsi le mail e le chat. Per l’Hdemia, perfino i contatti diretti e le serate in compagnia delle sue “prede virtuali”. Ma questa era un’altra cosa. Però, se avesse chiamato lei… non avrebbe potuto non risponderle, e in fondo sarebbe andato bene così. In fondo non facevano niente di male a parlare, no? Invece, silenzio. Per quasi un mese, silenzio assoluto. Un paio di brevi e composte email di sollecito (mai insistere troppo, l’aveva imparato già da tempo) senza alcuna risposta gli avevano fatto pensare di essersi spinto troppo oltre. Di averla spaventata. Di averla sopravvalutata, in definitiva. E meno male, in fondo. Meno male. Fino a quel pomeriggio. 21.05. Doppio click. Lei era online, puntuale. Un imbarazzo strano, nuovo, nel fissare la finestra sul PC 59 Motovale (21.05 PM) Ciao Robinhood occhichiari Robinhood76 (21.05 PM) Ciao Vale ricciolibiondi Motovale(21.06) Allora non sei arrabbiato con me… Robinhood76 (21.06) Arrabbiato? E perché? Motovale(21.07) Dài… ho visto la tua mail. Bellissima. E io sono sparita, chissà cosa hai pensato. Robinhood76 (21,07) …beh, mi è dispiaciuto, certo. Ma tu sei libera, non mi devi niente. Davvero. Ci ero rimasto un po’ male, ma arrabbiato no… Motovale(21.08) E che cosa hai pensato? Robinhood76 (21.09) Onestamente? Credevo di averti spaventata. Di avere esagerato. Motovale(21.09) Spaventata? No, perché? Robinhood76 (21.10) Quella mail. Era molto… intima. Ho pensato di averti “caricata” troppo, che non fossi pronta per… beh dai, hai capito Motovale(21.11) Hey, Robinhood… Non ho paura della tua anima, piccolo eroe… è troppo bella. Gazie di avermela mostrata. A Fedele servì qualche secondo per calmare le formiche che avevano preso a camminargli dentro lo stomaco. Fece un lungo respiro, scacciò 60 il pensiero di Sara che ronzava nella stanza come una mosca fastidiosa. Poi decise di allontanarsi dal fuoco. Robinhood76 (21.12) Ma allora… perché sei sparita? Motovale(21.13) Ah, allora lo vuoi sapere! Cominciavo a pensare che non ti interessasse ;-) Robinhood76 (21.13) Dài… che gatta capricciosa che sei! Motovale(21.14) Gatta? Io? Ma che dici? MIAO… Robinhood76 (21.15) Cosa devo fare, implorare? Motovale(21.17) No, dài, hai sofferto abbastanza Sono partita con un gruppo di scatenate in moto per un giro della Sicilia. 25 giorni. Non hai nessuna colpa per il mio silenzio. Anzi, sono io che mi devo scusare immensamente con te, non ti ho nemmeno scritto due righe prima di partire. È che la tua mail non si poteva liquidare in due parole… ti ho cercato in chat ma non c’eri, e… beh, ancora non mi attentavo a usare il telefono. Valentina era una centaura, come diceva anche il suo nickname. Era stato anche questo a incuriosire Fedele, che poi aveva scoperto una serie di passioni in comune con questa eclettica ragazza marchigiana. La musica italiana. Il vino. Le idee politiche. L’amore per la parola. Cucita su misura. 61 Robinhood76 (21.18) Fantastico! Chissà come vi siete divertite! Non ti devi scusare, te l’ho detto. Sono felice di averti ritrovata. Giuro. Anche troppo felice, caro il mio Fedele, diceva la solita mosca fastidiosa. Motovale(21.19) Sì è stato bello, ma… Robinhood76 (21.19) Ma? Motovale(21.20) Robby, ti ho pensato parecchio mentre scorrazzavo sulla mia moto. Mi sei mancato. Robinhood76 (21.21) Anche tu, Vale. Anche tu mi sei mancata. 62 CAPITOLO TERZO Dove si visita la città degli angeli Data: mercoledì 17 maggio 2000 DA: dr.Teenva ([email protected]) A: dr. Fedele ([email protected]); dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) CC: Discipulo ( [email protected]); Gran Cia’n’bell’ano ([email protected]) Oggetto: Los Angeles! Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas ISTITUTO DI PASSEROLOGIA ADOLESCENZIALE Ordinario: Prof. Dr. Teenvagina Gentili et pregiatissimi Colleghi, mi rivolgo a Voi – non prima di averVi onorato con il consumato cerimoniale hdemico - nel raccogliere con vivo et adolescentiale entusiasmo l’invito alla giornata di lavori e studio che si profila per venerdì p.v. 63 In particolare infatti, con la presente, sono ufficialmente a proporre di testare e verificare le tesi avanzate dal sempre munifico Gran Cia’n’bell’ano già tra due giorni, urgendo infatti - proprio per quella data – l’inaugurazione della stagione estiva della gloriosa discoteca Los Angeles, in quel di Bergonzano. Là quindi, il Nobilissimo ConSesso Nostro potrà espletare quelle funzioni di studio e di ricerca sul campo che tanto sono precipue del Nostro agire e vivere quotidiano, agevolati dall’altissima percentuale di patata presente in loco. Soltanto a notte molto inoltrata, una volta esaurita la spinta ricercatrice ci si ritroverà da Milva per un primo confronto sui dati raccolti e per incominciare a lavorare su nuove e - si spera – stimolanti idee. Signori, è con una punta di commozione che Vi esorto sulla assoluta importanza dell’esperimento che Ci vedrà protagonisti sulle auliche colline. L’Hdemia si accinge a compiere un nuovo e decisivo passo nell’evoluzione delle relazioni tra i sessi! Vorrei che anche il giovine Discipulo fosse della partita, per dargli agio di poter crescere et maturare con nuove esperienze, ma so per certo che proprio lui sarà il primo a non volersi tirare indietro davanti alle proprie responsabilità di diligente e stimabile novizio. in Vulva Veritas Dr. Teenva mercoledì 17 maggio 2000 Una volta cliccato su “Invia e Ricevi” Teenva spense il computer, si infilò la giacca e scese le scale. Andò in garage, salì sulla sua Z3 canna 64 di fucile e rombando uscì dal giardino di Villa Zoboli, direzione Parma, Università. Alle 9 era in programma l’appello di Diritto Penale, che vedeva il nostro eroe al terzo tentativo, dopo due segate prese nei denti. Una nuvola di fumo investì Teenva in pieno volto. «Se ne vada.» La docente di Diritto Penale, continuando a fumare come una ciminiera, gli allungò il libretto senza mai degnarlo di uno sguardo, con gli occhi rivolti verso sinistra, alla porta di ingresso. Dopo neanche tre minuti il suo esame era già terminato. Una domanda, nessuna risposta. Finito. Teenva si alzò, prese il libretto e, girati i tacchi, si fece largo tra la folla di studenti assiepata alle sue spalle, a pochi centimetri dalla cattedra. Sibilò un “puttana” e, appena arrivato al proprio posto, sbatté sul banco il libretto, chiuse il manuale di Diritto Penale e mandò a quel paese ancora una volta la prof. Uscito velocemente dall’aula, si lasciò alle spalle l’Università e a larghe falcate si diresse verso il vicino parcheggio. Pagò, raggiunse il livello dove aveva lasciato l’auto, azionò l’antifurto, aprì la portiera e appoggiò sul sedile la borsa. Salì a bordo, mise in moto la sua Z3 e rombando si immise nel flusso del traffico cittadino, lungo il torrente Parma, direzione autostrada verso Reggio Emilia. Accese lo stereo e inserì la compilation che un suo amico dj del Pineta di Milano Marittima gli aveva regalato il giorno prima. Alzò il volume, prese il cellulare, compose un numero e pigiò sull’acceleratore. Suonava libero. Al terzo 65 squillo si spazientì e riattaccò. Passò sotto il sensore del Telepass ed entrò in autostrada, si piazzò in terza corsia e azionò il meccanismo per aprire la capote dell’auto. Dopo alcuni chilometri gli squillò il cellulare: guardò il numero sul display, era lo stesso che aveva provato a chiamare alcuni minuti prima. Lasciò che il telefono si stancasse di suonare a vuoto, mentre la pianura padana gli sfrecciava attorno. Erano le 13 passate e aveva fame. Arrivato a Reggio, davanti al Centro commerciale L’Ariosto, telefonò a casa «Mamma, sto arrivando. Dieci minuti.» «Ciao, com’è andata? Festeggiamo?» «É andata da culo. Preparami da mangiare, che c’ho una fame boia.» «Ma… ti sei fatto bocciare ancora?» «Senti mamma, ne possiamo parlare a casa, cazzo!?» E riattaccò. Ormai era in circonvallazione. Imbottigliato nel traffico. Gli arrivò un sms. “Ciao amore. Non sono riuscita a rispondere, poi ho provato a chiamarti. Stasera andiamo a festeggiare? Ti amo da morire.” Lesse frettolosamente il messaggio di Maria, sbuffò un “’fanculo anche te” e si attaccò al clacson, pochi metri prima di svoltare nel cortile di casa. «Allora Pier? Mi vuoi spiegare?» «Mamma che diavolo c’è da spiegare? Mi ha fatto delle domande e mi ha segato.» «Tu non studi abbastanza, te lo dico sempre. È la terza volta che ti fai bocciare a questo esame.» 66 «Ma ho risposto a tutte le domande! Non so neanch’io cos’è successo.» «…» «…» «Guarda che se uno risponde mica lo bocciano. Io non ho fatto l’università ma…» «Ecco, appunto: tu non hai fatto l’università. Quindi taci, fammi mangiare in pace e non rompermi l’anima, che c’ho i maroni girati già di mio.» I due non si rivolsero più la parola, per un po’ di tempo. «Mio padre come sempre non pranza con noi, vedo» riprese Teenva, con il suo atteggiamento da schiaffi dei tempi migliori. «Pier non usare quel tono! Tuo padre sgobba per poterti dare tutto quello che vuoi.» Teenva afferrò il bicchiere, bevve una bella sorsata d’acqua, deglutì e con calma appoggiò il bicchiere sul tavolo. Poi di scatto alzò gli occhi e li rivolse alla madre.» «E che vuoi anche tu. Mantiene anche te, non scordartelo.» La conversazione era terminata. Quello che Teenva aveva detto era l’esatta verità: l’Avvocato Zoboli manteneva sia il figlio Pier che la moglie. Non solo. Manteneva anche Rebecca, l’amante venticinquenne di Parma, e Julia, una diciottenne di un piccolo villaggio vicino a Varadero, a Cuba, dove viveva nella casa intestata al famoso professionista reggiano con i genitori e altri due fratelli. E dove l’avvocato Zoboli trascorreva le vacanze ogni sei mesi, a novembre e a maggio. Era irreprensibile l’avvocato: nel suo Studio legale, dove quasi 67 la totalità dei suoi colleghi teneva il crocefisso, lui aveva il ritratto di Che Guevara, non perdeva occasione per ostentare le proprie idee comuniste e faceva affari d’oro difendendo la comunità cinese della città e numerosi altri imputati extracomunitari del nord Italia. Teenva non lo sopportava. La moglie aveva capito di non poterne fare a meno, di lui e dei suoi soldi. Soprattutto aveva capito che non poteva più fare a meno dell’assenza di suo marito, dei week-end lontano da casa, delle vacanze a Cuba, dei convegni sempre più frequenti. Sapeva di Rebecca e di Julia. Sapeva dei tradimenti di suo marito e sapeva anche sopportare. Lei era una donna bella e intrigante, anche alla sua età, e non aveva dovuto faticare troppo per trovare una degna consolazione. Teenva – questo – non lo sapeva. Lui aveva i soldi, una bella automobile, gli amici e Maria. Sì, c’era anche Maria nella sua vita, e quel pranzo gli aveva fatto venire voglia di lei. Salì velocemente in mansarda, dove c’era la sua camera, il suo studio. Il suo rifugio. Dove era proibito l’ingresso a tutti, donne delle pulizie comprese. Compose il numero di Maria ma subito realizzò che, vista l’ora, la ragazza non avrebbe risposto, perché già impegnata nell’ufficio in cui faceva la segretaria. Accese il computer per controllare se non fosse arrivata qualche e-mail dall’Hdemia, poi rivolse tutta la concentrazione a ICQ e alla sua lunga lista di contatti sparsi un po’ in tutta Europa. Dopo un’ora si stancò, salutò i suoi amici virtuali, spense il computer e si lasciò cadere sul divano, allungò un braccio verso il telecomando dello stereo e si addormentò sulle note di un cd di musica latino-americana acquistato l’estate precedente a Gran Canaria. 68 La cena, in casa Zoboli, era il momento più importante e solenne della giornata: la famiglia si ritrovava attorno al comune desco dopo un giorno di intenso e proficuo lavoro. L’avvocato Zoboli veniva reso edotto del buon andamento della casa, la moglie poteva prendere conoscenza delle mirabolanti imprese del marito, principe del Foro, e Teenva poteva nutrirsi nella più beata indifferenza da parte dei genitori. Ma quella sera – lui lo sapeva – non sarebbe andata precisamente in quel modo. Pier, quella mattina, aveva avuto un esame, all’università. Diritto Penale. L’avvocato Zoboli voleva sapere tutto. E seppe tutto, fin troppo presto. «Pier. È mai possibile che tu ti diverta a farmi questo?» Eh già, la metteva da subito sul piano personale, il grande avvocato. «Pà, non ti ho fatto niente. Mi hanno segato: mica l’ho fatto apposta.» «E’ la terza volta che ti fai bocciare ad un esame da scuole medie: io alla tua età ero già laureato.» «…» «Diritto Penale, poi!» Il grande avvocato era pronto per la sua filippica. Quindi, sempre continuando a parlare, distolse lo sguardo dal figlio e lo rivolse alla moglie, cercando negli occhi della donna il consenso e l’ammirazione che non trovava in quelli di Pier. «30. Al primo appello. E il mio professore non era quella mammoletta che ha lui. Ai miei tempi l’Università di Parma sì che era dura.» Pausa. Silenzio teatrale. 69 «Lui, invece. Si fa bocciare, il signorino. Tre volte.» «…» «…» «E non dice nulla, ovviamente.» «Ma papà, cosa vuoi che dica: stai parlando con mia madre!» «E fa pure lo spiritoso: bravo! Avremo un avvocato clown!» sempre rivolto alla moglie. «…» «E io avrei aperto uno Studio Legale per chi, secondo lui?» «Non lo capisce. Non capisce quanti sacrifici stai facendo per lui» La moglie, appoggiando la mano su quella del marito, aveva benedetto le parole del grande avvocato, ponendo la parola “fine” al sermone post-esame. Si chiudeva il sipario. La cena continuò come sempre, con Pier sistematicamente ignorato e con la signora Zoboli che fingeva di essere interessata a quanto il marito si sforzava di dirle per mantenere l’apparenza della brava famigliola. Infine, dopo il caffè, finalmente tutti e tre furono liberi di dedicarsi ai propri interessi: l’avvocato Zoboli si rinchiuse nello studio, la moglie in sala davanti alla tv e Pier in mansarda, al telefono con Maria. «Sì, lo so, non ti ho cagato per tutto il giorno… dai usciamo.» «Guarda che sono arrabbiata con te.» «Su, su non rompere le balle: ti ho chiesto scusa.» «Non mi hai chiesto scusa.» «Non l’ho fatto?» «No!» 70 «Ma sei sicura? A me sembrava di averlo fatto… comunque non stiamo a perdere tempo. Senti cosa facciamo.» «…» «Mi vesto, ti vengo a prendere e poi ce ne andiamo a bere qualcosa, ok?» «No… non puoi sempre trattarmi così…» «Mezz’ora e sono da te.» «Pier, voglio stare sola.» «…» «…» «Come vuoi.» Teenva lanciò il cordless sul divano e andò a farsi una doccia. Uscito, prese il cellulare e mandò un sms a Fedele. Attese solo pochi istanti per la risposta. Si sarebbero visti alle 22, ovviamente da Milva. *** «E’ stata una grandissima puttana.» Erano nel loro bar, Teenva e Fedele. Solo loro, appollaiati al bancone con due birre ghiacciate davanti. Milva stava shakerando qualcosa per alcuni avventori e Barbara era impegnata in un dialogo serrato con un cliente abituale. «Ma tu quando hai intenzione di metterti a studiare davvero quel benedetto esame?» «Eh, bello lui. Cosa credi? Ci provo, sai?» «Ma?» 71 «Ma non me ne frega un cazzo, tutto qui.» «Comunque prima o poi dovrai passarlo, se ti vuoi laureare.» «Sì, sì, come no. Credi non lo sappia? I miei me lo ripetono tutti i giorni.» «Cosa?» «Che mi devo laureare e che devo prendere il posto di mio padre.» «Non mi sembri particolarmente entusiasta dell’idea… o sbaglio?» «E’ che vorrei decidere io della mia vita! È come se qualcuno stesse decidendo per me, sempre.» Teenva aveva abbassato il tono della voce e fissava il suo boccale di birra. Fedele aveva riflettuto alcuni secondi senza dire nulla. Tra i due i silenzi erano stati sempre molto importanti. «…» «Perché siamo al mondo? Sempre e solo per obbedire a qualcuno?» «E tu ti senti un soldatino ubbidiente?» «Sempre più spesso, Robby. Sempre più spesso c’è qualcuno che ti dice quello che devi fare, quello che devi dire e pensare e come ti devi comportare.» «…» «E ormai sono stanco. Stanco di dover essere sempre qualcuno che non mi sento di essere.» «Ti riferisci ai tuoi genitori?» «Non solo. C’è Maria, anche.» Fedele si irrigidì impercettibilmente ma Teenva, attento solo al suo personale sfogo, non si accorse di nulla. Così come non si accorse della mutata inflessione di voce dell’amico, molto più timorosa. «Qualcosa non va con lei?». 72 «È che con me si diverte a fare la mamma. Ne ho già una.» Fedele sapeva molto bene di cosa stesse parlando l’amico. Lo sapeva talmente bene che ci mise davvero poco a cambiare indirizzo alla conversazione, virando decisamene verso terreni meno insidiosi e, soprattutto, meno dolorosi. Non quella sera. Aveva anche lui troppe tempeste da dover fronteggiare. E rimorsi. «Venerdì allora si va al Los Angeles?» «Non vedo l’ora. Sarà un’altra serata memorabile, lo sento.» «Il Libero Ricercatope è tutto bello carico. E poi l’inaugurazione del Los non la si può perdere.» «…» «Assolutamente.» «Già. Non possiamo mancare.» «Però dobbiamo organizzare bene la ricerca.» «Il Gran Cià’n’bell’ano sarà dei nostri?» «Ma và, non ci credo neanche se lo vedo.» «Oh, dobbiamo inventarci qualcosa per il Discipulo. Figurati che oggi in ICQ non faceva altro che chiedermi per venerdì.» «Bè se gli va come l'ultima volta non può lamentarsi.» *** Il cappellino Ducati si calò deciso sulla testa scura e ovale del Lupo, aprendo gli orizzonti di una notte famelica. Camicia variopinta ben aperta sul petto villoso. Catena d’oro in bella evidenza. Jeans neri e 73 Adidas ai piedi. Si guardò un attimo allo specchio, con un ghigno soddisfatto. Una belva. Stasera non ce n’era per nessuno. Stasera fanculo anche a Milva e alle mille domande che avevano affollato le lunghe ore in catena di montaggio per tutta la settimana. Stasera si chiava, cazzo. Chiuse rapidamente dietro di sé la porta del minuscolo appartamento. Chiamò l’ascensore al sesto. Aspettandolo, ascoltò come in sogno il familiare sottofondo di fonemi arabi e slavi salire lungo la tromba della scala buia, costante colonna sonora del vecchio formicaio anni settanta in cui aveva trovato rifugio da quando aveva deciso di trasferirsi al nord. Il padre di Fedele, cugino di suo padre, gli aveva offerto un appoggio, un riparo e un paio di indirizzi a cui bussare per trovare un impiego. Il Lupo era laborioso, serio e orgoglioso. Non era rimasto a casa dei parenti per un minuto oltre il necessario. Aveva trovato subito un posto da operaio in una grossa azienda metalmeccanica. Faceva costantemente turni di notte e straordinari, e presto era stato in grado di pagarsi l’affitto e di iniziare a risparmiare. Non mandava una lira a casa. Non voleva saperne più niente della Sicilia e dei siciliani, nemmeno della sua famiglia. Per lui erano morti, sepolti assieme al fatalismo e ai baciamano. Lupo orgoglioso, sì. Dopo meno di tre anni di duro lavoro e pasti frugali, aveva risparmiato abbastanza da coronare un sogno che adesso brillava lucido nel consueto angolo del parcheggio, ben al riparo da grandine e portierate. Golf GTI 1.8, bianca con interni in pelle rossa, impianto stereo Blaupunkt con woofer preamplificato da 80W, cerchi in lega e adesivo O’Neill da 60 cm sul lunotto posteriore. Un pezzo di cuore, che pulsò obbediente in 74 arancione quando il dito del Lupo premette il telecomando. Chiave nel cruscotto, 150 cavalli che nitrirono alla pressione del piede sull’acceleratore. Vai, Silver. Portami al Los Angeles. *** Mentre la Golf GTI del Lupo divorava l’asfalto ai piedi delle colline matildiche, diretta verso i tornanti che da Quattro Castella portavano al leggendario Los Angeles, la Z3 scura di Pier Andrea Zoboli si fermava in una strada della periferia sud di Reggio, di fronte a un bel condominio immerso nel verde, di recente costruzione. Teenva non si prese la briga di scendere dall’auto. Fece scattare lo sportelletto dell’Ericssonn T39. Elegantissimo e compatto, sul mercato da pochi giorni. Una figata. Non aveva potuto fare a meno di premiarsi per la bella prova che sicuramente avrebbe regalato al prossimo appello di Penale. Un regalino anticipato, comprato giusto poche ore prima. «Dài finocchio, sono qua sotto.» Fedele comparve non più di 60 secondi dopo, puntuale come sempre. Aprendo la portiera fu investito dal martellante unz unz che identificava da sempre la presenza di Teenva. Meglio così, non aveva tanta voglia di parlare. Sfortunatamente Teenva abbassò rapido il volume. «Allora, sei carico?» «Quanto basta» mentì Fedele. «Eddai, stasera sarà una grande serata. Basta seghe mentali, c’è da divertirsi! Stasera tocca all’Hdemia!» 75 Fedele trascinò un sorriso sulle labbra. Teenva. Il suo amico. Da quanto tempo, non avrebbe saputo dirlo. A pensarci bene non avrebbe nemmeno saputo dire perché gli volesse così bene, né perché fosse così a proprio agio con questo maledetto figlio di papà, tanto diverso da lui. Così lontano dalle sue umili origini, dai suoi interessi, dai suoi gusti. «Tanto per saperlo: per Sara, dove siamo?» «Al Los Angeles, punto. Mi sono un po’ rotto di raccontare balle. Se non ci sono in mezzo delle donne, preferisco sorbirmi qualche muso storto subito, ma poi andare tranquillo.» «Hai dovuto litigarci?» «Ma no… a lei non piacciono le discoteche ‘per principio’, quindi non è contenta se ci vado. Ma sa che il venerdì con l’Hdemia è sacro… brontola un po’, ma poi si adegua. Le basta essere tranquilla sul fatto che non farò il cretino con le ragazze…» Sorriso eloquente sul volto di Teenva. «E stasera può stare tranquilla, vero?» «Ovvio. Mica faccio il cretino. Questa è scienza, cazzo! Mi immolo per il progresso!» «Bravo Fedele! Tu sì che sei saggio!» approvò Teenva sghignazzando. «Tu, piuttosto. Maria è al corrente?» «Chi? Ma va’, figurati. Dove vado con l’Hdemia sono cazzi miei, non deve neanche provarci a chidermelo. Al venerdì sera si sta in casa a guardare un bel film, e soprattutto non si rompono i coglioni.» Fedele si astenne prudentemente da qualsiasi commento. 76 Giunti al parcheggio del Los Angeles non tardarono a individuare il gruppetto raccolto attorno alla Golf del Lupo. C’erano sia il Discipulo che il libero Ricercatope. Il Gran Cià’n’bell’ano, come di consueto, no. Aveva accampato qualche scusa, non importava nemmeno più quale. Come tante altre volte, aveva gettato lui il sasso dal quale era nata la serata Hdemica, e sarebbe stato pronto a fare propri i resoconti dell’indomani, ma niente di più. Gli piaceva stare sullo sfondo, sentirsi una specie di grande vecchio. «Illustri colleghi, siete pronti a immolarvi per la scienza?» esordì salutando Fedele. Il lupo assestò leggermente il cappellino Ducati sulla fronte, con un ghigno promettente. «Stasera faccio una strage! Grande idea ragazzi, si va diretti alla gola!» Il Discipulo tentò di distogliere lo sguardo di fronte all’occhiata interrogativa di Teenva, che tuttavia non gli lasciò scampo. «Discipulo, sarai testimone di una serata storica. Ma che dico tesimone? Sarai protagonista! E non è escluso che una buona prova anche stasera ti cosenta di ambire a titoli più alti…» «Stavo giusto per suggerirlo, nobile Padre» interloquì il Ricercatope. «Codesto giovine ha dato mirabili prove di perizia et maturità. Mi domandavo se il consiglio non potesse vagliare una proposta di avanzamento al titolo di Accolitus.» «Potrebbe darsi… ma se ne discuterà nelle sedi opportune, dopo questa importante prova. Stasera non conviene distrarsi…» chiosò Fedele, indicando con un cenno eloquente del capo un trittico di culi 77 ancheggianti che stava poprio in quel momento superando il gruppetto, in direzione del locale. «Oh, quanta figa…» ringhiò il Lupo. «Che cazzo stiamo aspettando?» «Nobile Lupo, frena i tuoi appetiti! » lo bloccò Teenva. «Adesso andiamo, e ne potrai sbranare quante ne vorrai. Ma prima dobbiamo riassumere lo scopo della serata, affinchè tutti – e sottolineò la parola cercando ancora una volta lo sguardo timido del Discipulo – contribuiscano alla buona riuscita dell’impresa.» «Concordo con il Dottor Teenvagina» intervenne Fedele. «Questa serata sarà dedicata alla sperimentazione sul campo dell’inutilità del corteggiamento, come il nobile Lupo ha più volte teorizzato, sostenuto dal Gran Cià’n’bell’ano. Pertanto, gli approcci di questa sera dovranno essere il più possibile diretti, e volti a verificare immediatamente la disponibilità della fanciulle a concedere il Pregiato Tubero, senza tanti giri di parole. Vi invito pertanto ad attenervi, ciascuno secondo il proprio stile, a questo protocollo. A fine serata, o al più tardi domani, ciascuno relazionerà sull’andamento dei lavori.» «Amen!» conluse Teenva, passando un braccio attorno alle spalle del Discipulo e avviandosi risoluto verso l’ingresso del Los Angeles. Era una serata splendida. L’aria ancora piuttosto fresca, il cielo punteggiato di stelle e le luci della pianura sotto di loro. A Fedele sfuggì un pensiero – e tu chissà cosa stai facendo – che scacciò rapido con un gesto nervoso della mano. In una sera così non ci si poteva far prendere dalla malinconia. E neanche dal romanticismo. Basta seghe mentali, aveva ragione Teenva. Il quale, peraltro, sembrava faticare 78 poco in questo, baldanzoso e sorridente alla guida del gruppetto. Fedele, in coda, per qualche istante lo invidiò. Poi allungò il passo e affiancò il Lupo, giusto in tempo per cogliere l’ennesimo commento animalesco sulla scollaltura di una prosperosa bionda. Un senso di ebbrezza e risate facili accompagnò il gruppo oltre l’ingresso del locale. Come per un tacito accordo, giunti ai bordi della piscina, si diressero verso il bancone del primo bar e lì si divisero, gli occhi già tuffati nell’ondeggiare di pelli abbronzate e minigonne sotto il grande telone della prima pista. Fedele osservava il lampeggiare ipnotico delle luci sul corpo di una splendida mora fasciata in un abito beige, che risaltava sulla pelle scura mentre le braccia si alzavano e abbassavano al ritmo della musica. Le ascelle avevano sempre rivestito un ruolo importante nel suo immaginario erotico. Gli piaceva pensare di solcare quelle ombre depilate e il loro profumo pungente, al confine della pelle delicata che piano si alzava per diventare prima seno poi capezzolo e ventre e cosce e sesso. Tutto partiva da lì, dal pensiero di affondare il naso e le labbra in quell’antro denso di ormoni, preludio alle praterie aperte e generose della sensualità. «L’ho vista anch’io. Granfiga.» Il lupo non aggiunse altro. Finì in un fiato il Cuba Libre che gli avevano appena servito e avanzò deciso verso la mora, che nel frattempo, ballando, si era allontanata di qualche metro. Fedele non aveva buone sensazioni. Troppo bella, troppo consapevole di esserlo. Ballava da sola, nel senso stretto del termine: tutta concentrata su se stessa e sull’effetto psicotropo della sua fisicità. Le braccia unite si alzavano sopra il capo, ruotando alternativamente alle anche, con il viso 79 rovesciato all’indietro e gli occhi socchiusi. Poi si abbassavano e il capo si chinava in avanti, fino a portare la fronte al livello delle spalle. Durante questo movimento le palpebre si aprivano, ma lo sguardo evitava con cura di posarsi su qualsivoglia essere umano, compiendo un’altalena costante fra il pavimento e le luci sulla volta del tendone. Fedele succhiava svogliato il suo Mojito mentre osservava la pancia fiduciosa del Lupo ondeggiare approssimativamente a tempo, nel percorso di avvicinamento alla tipa. Faticosamente, nei varchi tra spalle e capelli della massa danzante, riuscì ad inquadrarlo nel momento in cui si avvicinava alla preda. Era troppo lontano per cogliere il dialogo, ma intuì che lui stava cercando di dirle qualcosa. Improvvisamente gli occhi dell’amazzone recuperarono il contatto con la realtà e si sgranarono in un istante di sorpresa, prima che la mano destra abbandonasse il piacevole compito di disegnare armoniose forme nell’aria, per posarsi con inaudita violenza sulla guancia sinistra del canide. Fedele non ne poteva essere certo, ma sotto il volume incalzante della techno la brezza sembrò portargli un “Ma vaffanculo, troia” perfettamente intonato con l’espressione del Lupo. Il quale, subito dopo, voltò le spalle alla ragazza e si incamminò leggermente barcollante, diretto verso nuovi terreni di caccia. Fedele sorrise di gusto, divertito e ogni volta sorpreso dalla facilità con la quale il Lupo continuava a buttarsi in avventure quasi sempre fuori della sua portata. L’approccio doveva essere stato perfettamente in linea con la missione della serata, a giudicare dalla reazione della tipa. Però, Lupo, anche tu… si vedeva lontano un miglio che questa non aveva lo spirito per apprezzare. Con la figa è così – rifletteva Fedele – ti 80 fai appannare dall’ormone, da un bel paio di cosce, e perdi la capacità di leggere i segnali. Lo schiaffone era già scritto nel modo in cui non si guardava intorno. Quella là appoggiata al bancone, invece, prometteva decisamente meglio. Al massimo vent’anni, forme rotondette ma non eccessive, carina ma senza pretese. Qui l’asticella era più bassa, lo vedevi soprattutto dagli sguardi attenti, dalle guance rosse e dai larghi sorrisi, spesso maliziosi, che scambiava commentando con l’amica-scorfano quello che accadeva intorno a loro. Anche il look, piacevole ma poco panteroso, ispirava simpatia. Avrebbe dovuto muoversi anche lui, in fondo erano lì per sperimentare. Però non ne aveva una gran voglia. Nonostante tutto l’impegno, era sintonizzato su altri canali. E poi stasera rischiava parecchio. Le probabilità che Sara venisse a conoscenza dello scopo della serata erano indubbiamente remote, ma il Los Angeles era un vero must delle notti estive reggiane. Aveva incrociato già parecchi volti noti, e Sara cominciava a conoscere molta gente. Una percentuale di rischio c’era di sicuro. Pensava queste cose, convivendo con il solito retrogusto fastidioso di colpevolezza, mentre continuava a guardare la fresca ragazzotta e le goccioline sull’etichetta della sua Corona, con un’insistenza involontaria che l’attenta puledrina non mancò di notare. Fedele se ne accorse quasi subito dai sorrisini concitati che scambiò con l’amica, la quale in modo piuttosto plateale si girò per lanciargli un’occhiata da sopra la spalla. Cazzo, se me la metti davanti alla linea di porta… Si trascinò senza troppa convinzione giù dallo sgabello, e finse goffamente un’improbabile casualità nei movimenti per guadagnare 81 venti centimetri di bancone libero proprio accanto all’obiettivo. Da vicino, brillava di normalità. Capelli lisci castani appena sopra le spalle, maglietta attillatamanontroppo, rosa con D&G scritto a brillantini, Short scuri su gambe segnate da una lieve cellulite che non prometteva un futuro da indossatrice. Per quanto eroticamente poco coinvolto e attento a mantenere l’approccio scientifico utile a dargli il necessario distacco, un attimo prima di parlare Fedele era discretamente preoccupato. Lo comprese percependo una fastidiosa tachicardia, e temette per un attimo di essere effettivamente nervoso. Si fece forza, pronto a incassare anche lui il suo schiaffone. Lo doveva all’Hdemia, non poteva presentarsi da Milva senza nemmeno un tentativo. «Ciao.» Lei si voltò, dissimulando malamente l’entusiasmo che le guance subito arrossate tradirono. Fedele la guardò solo un istante negli occhi, registrò il naso largo e gli occhi luminosi, e si affidò al suo stile. «Scusami, ti stavo osservando. Trovo che tu sia decisamente gradevole. Mi domandavo se poteva interessarti l’idea di fare sesso con me, stasera.» Lo stupore si dipinse negli occhi della ragazzina, la bocca graziosamente immobilizzata in un muto “oh”. Fedele vedeva la scena al rallentatore, gli sembrava di percepire i muscoli della spalla di lei tendersi per armare il ceffone. Invece toccò a lui stupirsi, vedendo le labbra stirarsi e aprirsi in quella che inequivocabilmente era una grassa risata. «Ma come? Me lo chiedi così?!» disse sinceramente divertita. 82 «E come devo chiedertelo? Purtroppo sono a corto di rose e violini, stasera.» «Ma che fenomeno! Beh, però sei forte… come ti chiami?» «Sono Robby, piacere. Tu?» «Francesca. E lei è Simona.» I convenevoli proseguirono per qualche minuto, ma Fedele realizzò presto che Francesca non era molto per la quale, come avrebbe detto il Libero Ricercatope. Il fidanzatino era in arrivo assieme agli amici, lei lo stava aspettando, e lui non voleva certo rovinare la serata Hdemica con una rissa fuori programma. Si salutarono con un bacio sulla guancia e gli auguri per una bella serata. Fedele, un po’ frastornato, si allontanò dalla pista diretto al bordo della piscina, domandandosi che cosa avrebbe fatto se gli avesse risposto di sì. Aveva dato per scontato un rifiuto violento, perché, al di là del formale entusiasmo per le teorie del Gran Cià’n’bell’ano, non aveva troppa fiducia nell’evoluzione della specie. Soprattutto di quella femminile. Di Valentine non ce ne erano molte in giro, si sorprese a considerare con un compiaciuto sorriso misogino. Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal saluto di Teenva, proprio alle sue spalle. «Allora cucador, quanta passera hai impallinato?» «Guarda, ho appena incassato il mio personalissimo duedipicche.» Teenva alzò i sopracigli e si posizionò nel suo sorriso strafottente, senza dire nulla. Fu Fedele a continuare. «…ma con classe, of course.» «Mhh, sì, come no.» 83 «E tu?» «Devo ancora scendere in pista. Lo sai che mi piace farmi un bel giro per la disco, appena arrivo.» «…» «Eppoi sono stato impegnato con il Discipulo.» «Come è andata?» «Mmh, non mi sembrava particolarmente concentrato e allora gli ho fatto un po’ di tutoraggio… non so se intendi…» I due si guardarono con i loro sorrisi perfidi migliori. «Posso solo immaginare…» «Alessia, un’ amica lap-dancer di una mia amica: possibilità di riuscita sottozero.» «Ceffone?» «Un calcio che per poco non gli spaccava il ginocchio. L’ho portato via giusto in tempo…» «Sei il solito figlio di puttana… tutto nella norma.» «Comunque il gin tonic l’ho finito, ho salutato chi dovevo salutare e ora mi metto a lavorare.» Davanti a loro il Lupo ballava goffamente ai bordi della pista sudata, lanciando occhiate grondanti ormoni in ogni direzione. «Guardalo: ha perso la bussola.» Fedele si mise a ridere. «Povero Lupo.» Teenva scese dallo sgabello, appoggiò il bicchiere vuoto e si diresse verso la pista. Si mise subito a ballare seguendo il ritmo. Sembrava non guardare nessuno, tutto concentrato unicamente su se stesso e la 84 musica, ma non era così. Aveva adocchiato una ragazzina, al massimo ventenne, con mini nera e body bianco attillato a disegnare curve pericolose. Capelli neri con velature blu elettrico completavano un quadro che a Teenva parve degno di essere contemplato. Ballava quindi con una studiata indifferenza per ciò che gli stava attorno, quando sentì il fiato pieno di birra del Lupo dirgli qualcosa. «Oh, ma quanta ce n’è?» «Tanta Lupo, tanta…» «Quali sono le prossime prede?» Teenva rallentò il ritmo e si avvicinò all’orecchio dell’amico. «Nobilissimo Dottore, sa che in discoteca quando si è in due uno è di troppo, quindi stia a guardare. La vede quella ragazzina?» «Ma… ha i capelli blu!» «No, neri con riflessi blu. Una figata. Dammi cinque minuti e la vedrai venire a ballare da me.» Teenva si allontanò un poco dal Lupo, regalandogli una pacca sulle spalle senza dargli il tempo di una replica. Ricominciò a ballare, seguendo traiettorie note soltanto a lui. Ballava e il Lupo guardava. Non succedeva nient’altro. Eppure, dopo un po’ di tempo, la ragazza incominciò a volteggiare verso Teenva, come se una misteriosa forza li attraesse l’una verso l’altro, e così, senza che si fossero mai guardati esplicitamente, si ritrovarono vicini, sempre più vicini. Teenva guardava i suoi amici al bar e rideva: sapeva che lei era lì, alle sue spalle. Si concentrò sulla musica, muovendosi fluido finché con una studiata piroetta gettò i suoi occhi in quelli della ragazza. E ci annegò. 85 Teenva vacillò, andò fuori tempo e inciampò in se stesso. Lei rise coprendosi la bocca con le mani ed entrambi si fermarono, incerti. Poi il tempo accelerò vorticosamente, lui fu più rapido a riprendersi, le si avvicinò prendendole le mani tra le sue. «Sei la mia regina… ti va di fare l’amore con me, qui e adesso?» Quello di Teenva fu un sussurro, con una lieve incrinatura della voce, sorprendendosi intimorito ed emozionato. «Sì, ne dubiti forse? Vieni.» Teenva continuava ad annegare. Cercava appigli, ma la corrente era troppo forte. Fedele e il Lupo rimasero di pietra, osservandoli lasciare la pista mano nella mano. «Figa! Robby ce l’ha fatta! È un dio!» «Aspetta Lupo, potrebbe essere uno dei trucchi di Teenva.» Fedele buttò giù una bella sorsata di birra, nel tentativo di ricacciare indietro una sgradevole sensazione di invidia. «Cioè?» «Magari sta recitando. E noi siamo, come sempre, il suo pubblico.» Fedele non rideva più, sorpreso a sperare che fosse davvero uno scherzo. «Certo che sei proprio un bel tipo.» «Grazie… anche tu non scherzi.» «Prima mi chiedi se voglio fare l’amore con te e poi mi lasci a bocca asciutta!» «E’ che non vorrei lasciare a piedi i miei amici.» 86 «Uhm, di scuse me ne hanno rifilate di più convincenti. Almeno ti va di baciarmi o rischi di lasciare a piedi qualcuno?» Teenva era disorientato. Quella ragazza era completamente fuori dagli schemi che conosceva. A guardarla bene, così da vicino, non le avrebbe dato più di diciassette anni. Il naso piccolo, lievemente alla francese e poche lentiggini a disegnare arazzi sul volto perfetto. «Ehi! Ma quella non doveva essere la mia battuta?» Cercava di recuperare terreno, il giovane. «Sono già le due passate, se devo aspettare te forse facciamo prima ad andare a fare colazione.» «Ma tu fai così con tutti quelli che incontri?» «No, solo con te. Baciami adesso.» Le labbra di Pamela erano vellutate, il seno era marmo sotto le dita incerte di Teenva. Si lasciarono dopo un tempo che parve infinito. «Ehi, non fare che poi perdi il mio numero, ok?» «Non succederà. Prometto» disse Teenva facendosi una croce sul cuore. «Sono la tua regina, ricordalo. E ricorda anche che sei il primo ad avere quel numero.» «…» «Bene. Adesso chiamo le mie amiche.» «Ahh, non sei sola.» «Certo che no. Ma appena ti ho visto le ho pregate di lasciarmi lavorare in pace…» 87 Si guardarono sfidandosi con gli occhi per un po', poi Teenva scoppiò a ridere. «Ti chiamo.» «Tranqui.» Teenva la guardò alzarsi e dirigersi verso alcune ragazzine, uscendo dalla sua visuale. Soltanto dopo alcuni minuti cercò di realizzare quanto era accaduto. Si alzò anche lui dal divanetto e cercò i suoi amici. Non pensava ad altro che a lei. *** Quando Fedele, il Lupo e uno smarrito Discipulo varcarono la soglia del bar Milva erano passate da poco le 3. Il Libero Ricercatope era uscito insieme a loro, ma era andato direttamente a casa. Un impegno non meglio precisato per il mattino seguente gli aveva imposto un rientro precoce. Aveva comunque fatto in tempo a relazionare sull’andamento della serata, stimando in un apprezzabile 30-40% le ragazze che, con differenti gradi di divertimento, avevano mostrato di non disprezzare l’approccio diretto, pur senza arrivare a concedersi. In linea con quanto anche gli altri avevano potuto rilevare, con l’eccezione del Lupo. «Quarantapercento un cazzo! Quattro schiaffoni e due vaffanculo, ho preso. Solo una mi ha leggermente cagato. Un troione, quarant’anni come minimo. Fortuna che non ci stava sul serio, se no mi toccava anche chiavarla.» 88 I tavoli neri erano addobbati della consueta fauna, ma non era serata di grande pieno. Qualche faccia disperata, il solito travestito del venerdì sera e un tavolo di amiche trentenni, visibilmente fumate. La musica era più bassa del solito, una sorta di funk contaminato da deviazioni jazz. Dove andasse Milva a scovare quei CD, rimaneva un mistero. Si appollaiarono intorno a uno dei due tavoli rotondi e alti, sugli sgabelli dai quali potevano dominare tutto il locale. Era il loro angolo, quello della tarda serata. Pochi minuti dopo, Barbara e il suo taglio di capelli a spazzola portarono due birre e un calice di rosso fermo per Fedele. Non avevano nemmeno ordinato, era una sorta di rituale che ormai la giovane aiutante di Milva conosceva a memoria. «Ciao ragazzi. Siete in pochi, stasera.» «Già. Il Ricercatope è scappato a nanna, e Teenva… beh, Teenva ha di meglio da fare, sembra» rispose Fedele con un sorriso più che eloquente. «Ma dai. Non ditemi che ha rimorchiato! Adesso che ci penso: era stasera che dovevate fare quell’esperimento?» «Esatto.» «Voi siete fuori… Ma avete fatto proprio come dicevate?» «Al cento per cento. A noi non è andata benissimo, come vedi. Però Teenva ha avuto successo.» «E lei com’era?» «Mah… giovane. Almeno così sembrava, ma nessuno l’ha vista molto da vicino. Poi, a un certo punto sono spariti.» Il Discipulo sorrideva soddisfatto nel sentire narrare le gesta di Teenva, e ancor più nell’osservare la faccia divertita di Barbara, che 89 sembrava dire ‘però, chi l’avrebbe mai detto!’. Nonostante l’ennesima vessazione subita, era fiero di Teenva. Lui non ne sarebbe mai stato capace. Quasi gli avesse letto nel pensiero, Fedele gli stampò una fragorosa pacca sulla spalla. «Grande il tuo Teenva, eh Discipulo?! Ma vedrai che la prossima volta andrà bene anche a noi. E poi tu venerdì scorso hai dato a tutti una bella lezione, non puoi lamentarti!» Mentre il Discipulo cercava di sottrarsi all’attenzione affondando il naso nel bicchiere, il Lupo gettò uno sguardo dietro il bancone. Milva preparava un cocktail con il viso serio e teso. Portava pantaloni scuri e un body senza maniche tigrato. Onde di capelli rossi guizzavano con i movimenti delle spalle muscolose. Shackerava con una forza strana, anche per lei. Quasi rabbiosa. Non era nemmeno venuta a salutarli. Strano. Bastò questo a far dimenticare del tutto al Lupo l’allegria Hdemica, precipitandolo di nuovo nei pensieri che lo avevano assillato per tutta la settimana. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non ne aveva il coraggio. Vedendo il profilo magrissimo di Barbara muoversi con un vassoio dall’altra parte del locale, decise di cogliere la palla al balzo. Si alzò e la raggiunse. Barbara stava liberando un tavolo dai bicchieri vuoti. Quando lo vide, sorrise con gli intensi occhi a mandorla, ma capì subito dall’espressione seria del Lupo che qualcosa non andava. «Tutto bene?» «Veramente… non so. L’altro giorno, ricordi? Lunedì. Quando è tornata Milva. Scusa, ho sentito qualcosa. Non ho capito bene, però mi 90 sono preoccupato. Eravate molto serie. E Milva… è tutta la settimana che sembra incazzata. Volevo solo sapere se... insomma, se posso aiutarvi in qualche modo.» Mentre il Lupo parlava, il viso delicato di Barbara era passato dalla sorpresa all’imbarazzo, fino a un’evidente preoccupazione. I suoi occhi scrutavano quelli del Lupo con intensità. «Cosa hai sentito, esattamente?» «Mah, non sono sicuro. Qualcosa su chiudere il bar, credo. È vero?» «Ma no… no, Lupo. Stai tranquillo. È tutto ok. Casini normali, quando si gestisce un bar. Roba di permessi… burocrazia. Adesso scusami, devo andare.» Il pallore del viso e il tremolio della voce, però, dicevano qualcosa di molto diverso. Il Lupo guardò una volta ancora verso il banco, e stavolta incrociò gli occhi scuri di Milva. Fu sufficiente a fargli passare la voglia di fare altre domande. Appoggiò una banconota sul tavolo degli amici e mormorò una rapida scusa. Poi se ne andò a dormire, senza nemmeno salutare. 91 CAPITOLO QUARTO Dove si disserta di chiome e rasoi Data: martedì 23 maggio 2000 DA: dr. Fedele ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) CC: Ciambellano ( [email protected]) Oggetto: Collatio Hdemica Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA Ordinario: dr. Fedele Della Passera Eccellentissimi, onore e vanto a tutti voi! La serata sperimentale, che ha visto le Illustrissime Signorie Vostre tenere alte le insegne dell’Hdemico Spritus in quel di Bergonzano, può a buon diritto fregiarsi del titolo di Serata Maxima, per il contributo mirabile che essa ha fornito 92 all’espandersi della Scientia Nostra. Un plauso particolare va poi al Magnfico dottor Teenva, il quale pare abbia assai profondamente affondato il proprio Ingegno – e non solo quello – nell’Hdemica Quaestio – e non solo in quella –. Dopo le ultime, feconde sessioni sperimentali del Nostro ConSesso, pare giunto il momento di ristorar le membra e i membri, meditando come si conviene sull’accaduto onde trarne subitamente nuovi et corroboranti spunti per il futuro. Propongo pertanto al Consiglio Tutto di riunirsi, in seduta plenaria, presso la Sede Hdemica il prossimo Venerdì 25 maggio, ove potremo mettere a fattor comune riflessioni e proposte, godendo dell’illuminata ispirazione che la nostra musa Milva saprà come sempre regalarci. in Vulva Veritas Fedele Dr. Della Passera - figosofo martedì 23 maggio 2000 La solita serata da Milva insomma, pensò il Lupo spegnendo il pc e agguantando il lungo camice verde, fresco di lavatrice. Pochi minuti dopo era al lavoro, dopo aver parcheggiato con cura la Golf GTI nel “suo” posto, un angolo ombreggiato e lontano dall’ingresso della fabbrica, dove nessuna operaia imbranata avrebbe rischiato di ammaccarla con qualche goffa manovra. Gli piaceva l’idea di un venerdì tranquillo, gli ultimi due erano stati una delusione. Prima quelle ciccione, poi le fighette del Los Angeles, buone solo a bere dei Mojito e a fartela annusare. Gli andava di starsene un po’ tra uomini a sparare cazzate. C’era di buono che poi, di persona, Fedele e Teenva e gli altri 93 la smettevano subito di usare tutti ‘sti paroloni. Il Lupo si divertiva con le mail e la farsa dell’Hdemia, ma non era a suo agio con quel modo di parlare. Aveva anche il sospetto che lo prendessero un po’ per il culo. Anzi, ne era quasi certo. Ma erano amici, gli volevano bene, e lui ne voleva a loro. Non se la prendeva, no. Se non fosse stato per loro sarebbe stato solo un terrone senza radici. Lo avevano accettato subito, così com’era, l’avevano fatto entrare nel loro gruppo, lo avevano sempre rispettato. Sì, gli volevano bene. «Ciao Lupo! Oh, l’hai vista quella nuova?» Il saluto del Rosso veniva dal solito crocchio di sfigati alla macchinetta del caffè. Il Lupo stava al gioco, sempre. «No, c’è una nuova? Chi è, quella là? Minchia che topa… Se non sta attenta ce la mangio cruda!» Lo scoppio di risate che salutò la battuta lupesca era quello tipico di chi ha ricevuto esattamente quanto si aspettava. Li aveva accontentati. Sorridendo famelico, strizzò l’occhio e si diresse rapido verso la sua posizione lungo la linea di assemblaggio. «Che personaggio, quello lì!» disse soddisfatto il Rosso, osservando il passo ciondolante del Lupo. «Già, fa morir dal ridere. Però non è solo un buffone, dicono che lavora bene.» «Puoi dirlo forte. Io ci sono spesso di fianco. È una macchina. Quando comincia a lavorare diventa un altro. Serio, veloce. Non si ferma un attimo, e non sbaglia mai. Se tutti i terroni fossero così…» 94 Al Lupo piaceva il suo lavoro. Non era un lavoro di cervello, ma bisognava stare attenti e concentrati. Ogni tanto, fra un turno e l’altro, si faceva un giro in magazzino, a guardare i motori finiti. E si sentiva bene, perché sapeva che lì c’era anche la sua fatica. Era rimasto qualcosa. Si vedeva e si toccava, il suo lavoro. Non gli piacevano quelli che si impegnavano poco, che facevano il meno possibile. Lui ce la metteva sempre tutta, era bravo e gli altri lo sapevano. Questo lo sentiva. Anche se poi dietro lo chiamavano terrone e lo prendevano per il culo, lui sapeva che si era guadagnato il rispetto di tutti. Di solito, mentre lavorava, il Lupo riusciva a stare molto concentrato. Nelle ultime due settimane, però, il pensiero di Milva lo assillava più del solito. Non al punto di farlo rallentare o sbagliare, ma troppo spesso si era accorto di pensare a quello che aveva sentito, e alla faccia di Barbara mentre cercava di negare. Non era convinto, per niente. Il giorno prima non era nemmeno andato a scrivere da Milva, come ogni lunedì, quando smontava dal turno di notte. Non ce la faceva a concentrarsi sul suo libro, e l’idea di trovarsi solo nel locale, per qualche strana ragione, invece di attirarlo lo spaventava. Però aveva voglia di vederla. Sempre. Avrebbe voluto averla lì vicino anche in questo momento. Solo per guardarla, senza bisogno di dire niente. Solo per vederla muoversi e lavorare. Decise che avrebbe passato la serata da Milva. Da solo, con una birra e i giornali. Stare a casa a guardare la televisione era una rottura. Preferiva rintanarsi là. Magari gli sarebbe anche venuta qualche buona idea per continuare il romanzo. Stava quasi pensando che Rosalba, la protagonista, avrebbe potuto tradire Goffredo con Luigi, lo stalliere. 95 Che poi si sarebbe scoperto essere il fratello, dal quale era stata seprata alla nascita. Ma era complicato, doveva pensarci bene. E da Milva si pensava meglio. Poche ore dopo la sigaretta del Lupo bruciava lenta, brace rossa fra gli arredi in nero e i neon azzurri, riflessa nello specchio dietro al bancone. Era seduto in un angolo piuttosto lontano dall’ingresso, girato verso l’interno del locale. Nel piatto che aveva contenuto la sua piadina preferita – speck, fontina e salsa ai funghi – restavano ormai poche briciole. Anche la birra scura era quasi terminata, e il Lupo si stava interrogando su alcuni importanti quesiti. Il primo e di più urgente soluzione consisteva nel decidere se a questo punto sarebbe stato meglio un wisky o una grappa. Il secondo riguardava Rosalba e la scena di sesso con lo stalliere. In particolare, si chiedeva se un pompino ben fatto sarebbe stato consono alla delicata anima della sua eroina. Il dilemma era duro da sciogliere, anche ripensando ai suoi modelli di riferimento. Non ricordava niente di simile né in Silenzio e onore di Danielle Steel, né in Le bianche dune della Cornovaglia di Rosamunde Pilcher. D'altronde il suo lavoro doveva avere personalità, essere originale, non poteva soltanto imitare i romanzi più grandi. Doveva pensarci ancora. Il terzo quesito riguardava Milva, naturalmente. O meglio, la sua assenza. Di solito al martedì, serata fiacca, Barbara si prendeva un turno di riposo, c’era solo Milva. Stasera, invece, i capelli a spazzola e la figura magrissima della giovane aiutante monopolizzavano la scena. 96 L’ennesimo fatto insolito, un altro segnale che agli attenti occhi del Lupo non poteva passare inosservato. Proprio quando aveva finalmente deciso di optare per una grappa e un caffè, la sua neonata intenzione di ordinare fu spazzata via dall’immagine devastante di Milva che entrava nel locale, gli occhi seri e il passo deciso. Devastante perché la folta chioma rossa era diventata una criniera lucente, intorno al volto della più splendida leonessa che il Lupo avesse mai sognato di poter vedere. Ne rimase letteralmente folgorato. Non l’aveva mai vista così, pesantemente truccata e avvolta in un abitino attillato e cortissimo, rosso scarlatto sopra stivali neri e calze a rete. Qualcuno avrebbe potuto definirla volgare, ma al Lupo non erano rimasti sufficienti vocaboli a disposizione per esprimere il turbamento che tanta sensualità gli stava scatenando dentro. Solo dopo qualche minuto di contemplazione estatica realizzò che si trattava dell’ennesima stranezza, acuita dal fatto che di lì a poco Milva era sparita nella piccola cucina dietro al banco, senza degnare di un saluto né lui né Barbara. Giusto il tempo di registrare l’anomalia che un tizio magro, in giubbotto di pelle e capelli brizzolati, si avvicinò al bancone e fece un cenno a Barbara. Un istante dopo Milva comparve dietro al bancone. Scambiò qualche parola sottovoce con il tizio, che il Lupo non poté afferrare. Vide però con chiarezza che lui le stava allungando qualcosa, forse un biglietto. Quando il Lupo vide Milva leggere il biglietto e avviarsi di nuovo in cucina, per uscirne un attimo dopo con una piccola borsetta rossa e le chiavi della macchina in mano, agì d’istinto. Lasciò i soldi della consumazione sul tavolo, salutò Barbara con un cenno, e con studiata 97 indifferenza uscì dal locale, appena in tempo per vedere Milva infilarsi nella sua Ford Fiesta nera e avviare il motore. *** Le cifre rosse della radiosveglia sul comodino illuminavano di un tenue bagliore rosso il viso addormentato di Fedele. Le 03.12. Nel sentire lo squillo del cellulare, a pochi centimetri dall’orecchio, aprì rapidamente gli occhi. Aveva l’abitudine di lasciarlo acceso anche la notte, soprattutto da qualche settimana. Talvolta arrivavano messaggi alle ore più improbabili, anche brevi pensieri. Cose come “Sto ascoltando il silenzio della mia stanza. E’ così bello”. E niente di più. Valentina sapeva che lui avrebbe letto anche le parole non scritte. Non si aspettava però una vera e propria telefonata. Ancora confuso e semiaddormentato scrutò il display del telefonino. “Lupo”. Lupo? Ma cosa…? «Lupo. Che succede?» «Ciao Fedele. Senti, sono qua sotto. Mi fai salire?» «Cosa? Sì… sì, certo, ma… cazzo Lupo, sono le 3… i miei dormono. Meglio se scendo io. Dammi cinque minuti.» Fedele si vestì il più silenziosamente possibile e scivolò fino alla porta, sicuro di riuscire a non svegliare i genitori. «Robby? Sei tu? Dove stai andando?» Cazzo. Niente mamma, dormi. C’è il Lupo che ha bisogno di una cosa, faccio in un attimo. Sì lo so che sono le tre. Non preoccuparti torno subito. 98 In strada il Lupo fumava nervosamente dal finestrino della Golf. Fedele salì dal lato del passeggero. Sopprimendo uno sbadiglio, guardò il Lupo. Aveva la faccia seria e tesa. Ma non parlava. Fedele attese, paziente. «Milva.» «…?» «C’è qualcosa che non va, Robby. Qualcosa di strano.» Il Lupo raccontò a Fedele dello strano dialogo tra Barbara e Milva, della reticenza di Barbara, e soprattutto di quella sera. «L’ho seguita fino in centro. Con la macchina, prima. Poi a piedi, cercando di tenermi lontano. È andata in via Emilia, ha suonato a un portone ed è sparita. Sono stato ad aspettarla lì fuori fino a poco fa. Quando è uscita per poco non mi vedeva. È tornata alla macchina, poi è andata casa. È rimasta là dentro per più di quattro ore.» «Aspetta Lupo… fammi capire. Forse sono ancora addormentato, faccio un po’ fatica. Mi stai dicendo che hai pedinato Milva e sei stato quattro ore ad aspettarla fuori da un portone in via Emilia?» «…» «E questo perché ti sembra di avere sentito qualcosa di un discorso fra lei e Barbara… qualcosa su cui poi Barbara ti ha tranquillizzato, no?» «Tranquillizzato un cazzo. Te l’ho detto, aveva la voce che tremava. Raccontava balle. E poi dovevi vedere come era vestita Milva stasera. Minchia Robby. Era bellissima, ma non era lei. Non era lei.» « … Lupo… io capisco, ma… cioè, no, in realtà non capisco. Perché sei così preoccupato?» 99 «Ma come? Non vedi? C’è qualcosa che non quadra, per forza. Secondo te perché fa così?» Fedele rimase un attimo in silenzio. Era piuttosto seccato per quella sveglia inaspettata. Dal suo punto di vista non c’era alcun legame tra il dialogo con Barbara e l’uscita di Milva. Quest’ultima, poi, ai suoi occhi era la cosa più normale del mondo. Milva era una donna bella e indipendente, ci sarebbe stato da stupirsi se non avesse avuto delle storie. Ma il Lupo era molto turbato, come a Fedele non era mai successo di vederlo. Doveva andarci piano. «Lupo… ascolta… non è detto che Barbara ti abbia mentito per forza. Quanto a stasera, beh… ci sta che Milva possa essersi fatta bella per… per qualcuno, no?» Silenzio stupito del Lupo. Non ci aveva ancora pensato. «Vuoi dire… un uomo?» «Eh…» Al Lupo servirono almeno altri dieci secondi di riflessione per scacciare l’idea. «No, impossibile. Troppo strano, tutto. Perché è partita dal Bar e non da casa sua? Cos’era quel biglietto? Chi era il tizio con il giubbotto? E poi non ha incontrato nessuno, non aveva l’aria di un appuntamento. Voglio dire, niente aperitivo, niente cenetta, niente cinema o cazzi del genere. È solo andata in quel portone, c’è stata quattro ore, poi è uscita. Troppo strano. Più ci penso più mi convinco che c’è sotto qualcosa.» 100 Mercoledì, 24 maggio 2000 Quando Teenva e Maria uscirono dal cinema era molto tardi. Mercoledì, cinema. Da bravi fidanzatini. Lui durante il film non aveva fatto altro che pensare a Pamela, conosciuta soltanto il venerdì prima. Per tutto il sabato si era costretto a non chiamarla, ma per ore aveva bighellonato nella sua mansarda con il numero della ragazza in mano. Poi, poco prima dell’ora di cena, aveva ricevuto un sms. “Domani pomeriggio andiamo al cinema? Scegli tu cosa andare a vedere. Mi manchi da morire. T.V.T.B. Pam.” Aveva letto e riletto quel messaggio almeno venti volte, con il cuore che batteva e gli occhi che luccicavano. Poi era sceso, aveva preso l’auto ed era andato da Milva, a fare orario prima di andare a prendere Maria, per il consueto sabato sera. La domenica con Pamela, invece, aveva trascorso ore molto piacevoli. Prima al cinema, in ultima fila e poi in macchina, appartati in una stradina di periferia, vicino a Rivalta. Lì, tra le cosce della giovane, aveva capito cosa avrebbe dovuto fare con Maria. Doveva farlo. Il mercoledì sera sarebbero andati al cinema e poi l’avrebbe scaricata, senza pensarci troppo. Magari sarebbero andati a vedere proprio il film che aveva visto con Pamela. Gli era piaciuta subito l’idea. «Vuoi andare a bere qualcosa?» chiese Teenva a Maria, senza troppo entusiasmo, davanti all’uscita del cinema. «Non saprei, tu ne hai voglia?» «Ti riporto a casa» chiosò deciso. 101 Teenva si cacciò le mani in tasca e non disse più nulla. Passarono davanti al Lord Nelson, con la strada stipata di ragazzi appollaiati sugli scooter con boccali di birra in mano, e arrivarono al parcheggio. Lui azionò l’apertura elettrica del suo Z3, accese il motore e uscì dal parcheggio. Solita strada del ritorno per Teenva: una calma passeggiata in automobile per le vie del centro storico della città, prima di riaccompagnare Maria a casa. Non parlarono per tutto il tragitto. «Ci sentiamo domani pomeriggio?» Maria aveva appoggiato la testa sulla spalla di Teenva, lui aveva spento il motore. Era una notte stellata, silenziosa, nell’immediata periferia della città. Restarono in silenzio per un bel po’. «Devo dirti una cosa.» Teenva si stupì di sentire la sua voce, roca. Aveva la gola secca. Maria alzò la testa e lo guardò, senza dire nulla. «Credo di non amarti più.» Un soffio, ma quanta fatica. Lei subito non capì. Fu il suo stomaco a capire tutto. Avvertì una contrazione fortissima e sentì la sua voce, come se non appartenesse a lei. «Ma… non mi stai lasciando…vero?» Lui non capiva bene cosa stesse provando. Per la prima volta si sentiva insicuro, incerto. Scacciò via il pensiero di ritornare sulle proprie decisioni, si ripeté mentalmente che ormai non poteva rimangiarsi tutto: doveva andare avanti. Doveva lasciarla. Ma non disse nulla. «Pier…?» 102 Teenva pensò a Pamela, alle sue labbra, ai suoi capezzoli. Si sollevò un poco dallo schienale. «Dai Maria, scendi. Cos’altro vuoi da me?» «Come cosa voglio?» «No, ti prego non metterti a frignare, okkey?» «Ma… almeno parliamone. Se ho sbagliato…» «E’ finita Mary, cazzo c’è da dire? Dai, forza. Scendi.» Teenva si allungò e aprì la portiera a lato di Maria. Lei lo guardò incredula. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Teenva tamburellò nervosamente con le dita sul volante dell’auto. «Sei uno stronzo, Pier» disse lei mentre scendeva dall’auto. «Sì, va bene. Ora vai a letto» sibilò lui richiudendo la portiera e sgommando via per sempre dalla sua vita. Guidò per tanto. Non aveva nessuna voglia di andare a casa. Era come se qualcosa non gli tornasse. Con Maria era finita, davvero. Ora poteva pensare soltanto a Pamela. Ma c’era sempre qualcosa che non andava, come una punta di inquietudine. Mandò un sms a Pamela: “Ti voglio” Voleva spingere sull’acceleratore con lei. Sentiva che quella poteva essere la strada giusta. Si meravigliò due minuti più tardi quando il suo cellulare lo avvertì dell’arrivo di un sms. Era lei: “E allora vieni a prendermi” Rise dando un pugno al volante. Anche lei era ai suoi piedi. Venne invaso da un profondo benessere. *** 103 «… insomma, il Lupo è preoccupato, parecchio. Non l'avevo mai visto così. Dice che Milva si è messa in un brutto casino, ne è convinto.» Fedele parlava passeggiando fra i libri di diritto e i fumetti accatastati sulle mensole del suo piccolo studio. Era il momento più importante della giornata, quello in cui aveva ormai imparato a stordire con efficacia la propria coscienza. Non era stato così difficile, il più era stato rispondere la prima volta al telefono. Mandare giù quel sapore metallico che qualcuno avrebbe potuto anche chiamare paura. A tutto il resto aveva pensato il timbro allegro e fresco della voce di Valentina. Gli argomenti in comune erano passati con naturalezza dalla tastiera alla conversazione, arricchiti da sorrisi, vibrazioni e qualche silenzio, imbarazzato ma eccitante. Non aveva tardato a diventare quotidianità. Sugo rosso, sapore intenso e proibito, nella sua correttezza. Innocuo, ma pericoloso. «E tu che ne pensi?» «Mah… non saprei. Stando a quello che ha detto il Lupo, ci sarebbe di che preoccuparsi. Ma bisogna fargli la tara… insomma, quando si tratta di Milva il Lupo perde obiettività. Non che di suo ne abbia moltissima, ma quando c'è di mezzo lei…» «Ah perché… gli piace Milva?» «”Gli piace” è un po' poco. Lui crede che nessuno se ne sia accorto, ma quando la guarda non sembra nemmeno più lui. È proprio perso. Irriconoscibile… un po' hai capito che tipo è il Lupo, no?» 104 «Direi di sì. Da come ne parli è quasi una macchietta. Però simpatico, mette tenerezza.» «Sì, hai ragione. A suo modo è tenero. Ma il suo modo è tutto spavalderia, smargiassate, sai della serie 'non temo niente e nessuno, io sono il Lupo'. Ecco. Con Milva diventa un cucciolo intimorito. Balbetta quasi, fatica ad alzare gli occhi. Roba da scuola media». «Povero Lupo… ma questa Milva è così straordinaria?» «Puoi dirlo forte… difficile da raccontare. È una roccia, Milva. Una donna forte, dura. Bella, anche, ma di una bellezza aspra, vissuta. Eppure sa essere anche dolcissima. E fragile, in un certo senso. È capace di strapparsi il cuore per te. Poi, un minuto dopo, ti caccia dal bar a calci in culo perché le gira così.» «Interessante, sì. Ti sento coinvolto, Robby…» «Cosa? No, no… cioè, non in quel senso… è solo che a Milva non si può restare indifferenti. Vorrei che la conoscessi, capiresti cosa intendo.» «…» «Vorrei che conoscessi lei ma anche il Lupo, e Teenva, e tutto il resto. Vorrei che potessi vederlo con i tuoi occhi, questo mondo che ti racconto al telefono.» «…» «…» «Anche io lo vorrei, Robby, tanto. E vorrei che anche tu vedessi il mio, di mondo… ma più di tutto vorrei vedere te, negli occhi, mentre mi parli.» 105 Venerdì 26 maggio 2000 Il venerdì sera Hdemico era sacro. Sara qualche volta ci provava, ma senza convinzione. Anche questa volta aveva buttato lì, con finta noncuranza: «Robby, Venerdì con i ragazzi si pensava di andare a mangiare una pizza. Ti va?» «I ragazzi? Vuoi dire i chiesaioli?» «Dai, smettila! Lo sai che non sono dei bigotti. Non hai mai nemmeno voluto conoscerli, sono sicura che ti piacerebbero.» «Sì, certo, non c’è dubbio… però è venerdì, lo sai che…» «Che al venerdì esci con i tuoi amici. Sì, sì, lo so. Lo so.» «Non fare quella faccia. Lo sai che…» «Che per te è importante. Come no. Me l’avrai detto cento volte. Lo so. So tutto.» «Sara…» Lei aveva addolcito l’espressione. «Scusa. È che mi dispiace. Quando mi sono trasferita qui non conoscevo quasi nessuno. È dura stare lontano da casa. Sì, ci sei tu, ma per come sono fatta io ho bisogno di avere persone intorno. I ragazzi sono stati fantastici, mi hanno accolta subito. Vorrei tanto che anche tu facessi un po’ parte di questo. Ma non voglio obbligarti.» «Hai ragione…» un sospiro. «Ma non è il mio ambiente…» altro sospiro. «Sono contento che tu abbia trovato un gruppo. Dico davvero. Forse mi serve solo un po’ di tempo.» L’abbraccio che ne era seguito aveva consolidato una distanza forse troppo difficile da colmare. 106 Fedele era davvero dispiaciuto di non riuscire a dare alla sua storia con Sara una quotidianità più intensa, che andasse al di là del loro semplice essere coppia. Era davvero dispiaciuto di non condividere amici, esperienze, ma soprattutto idee. Trovava che Sara fosse una ragazza straordinariamente viva e interessante, era affascinato dalla sua personalità non meno che dalla sua profonda umanità. Ma faceva anche molta fatica, con lei. Era un continuo stridere di ingranaggi, come a voler costruire un muro con pezzetti di Lego presi da scatole diverse, e trovarsi ogni volta a danneggiarli un po’, per riuscire ad incastrarli. Alla fine il muro stava in piedi, ed era anche bello. Ma che fatica, dentro, per tirarlo su. Con questo stato d’animo, Fedele si allacciò gli ultimi bottoni della camicia blu e partì alla volta del Bar Milva. Si trovavano sempre piuttosto presto, in quei venerdì interlocutori tra una goliardata e l’altra. La normalità aveva bisogno di ritmi diversi, e per loro andare da Milva era più normale che restare sul divano delle proprie case. A pensarci bene, molto più normale, molto più semplice. Senza genitori ingombranti con cui inventare brandelli di conversazione, senza faticose fidanzate, senza inutili programmi televisivi. Soltanto Milva, e i suoi sorrisi caldi e vissuti. Soltanto quei tavoli neri e la cortina di fumo, il profumo della birra e delle patatine fritte, gli sguardi complici e le battute facili, quelle universali, dei maschi rintanati a parlarsi addosso. «Ciao Fedele, serata tranquilla oggi?» «Ciao bellissima. Sì, serata in casa. Perché è questa la nostra vera casa, lo sai.» 107 Milva gli regalò uno sguardo materno e molto sexy. «Già, mi sa di sì. Vuoi che ti porti le pantofole?» aggiunse con un sorriso e una strizzata d’occhio. «Mah… facciamo che per oggi può bastare una birra.» Per salutare Milva, Fedele si era appollaiato sullo sgabello di fronte al balcone. In fondo al locale, nel loro solito tavolo, erano già arrivati il Lupo e il Libero Ricercatope. Questi, vedendolo, si era alzato, e ora si dirigeva verso il bancone. Il Lupo invece era rimasto al tavolo, rivolgendogli un cenno di saluto da lontano, senza l’ombra di un sorriso. «Ciao Libero, siete qua da molto?» «No, dieci minuti. Però sono stati dieci minuti lunghi. Il Lupo è strano. Parla poco, e soprattutto spara poche cazzate. Sai se ha qualcosa?» Fedele rifletté un istante su cosa rispondere. Milva si era spostata all’altro angolo del bancone, e sembrava molto concentrata nella preparazione di un cocktail, ma era ancora a portata di orecchio. «Mmh. Sì, ultimamente ha dei pensieri in testa. Si è fatto delle idee strane.» «Sarebbe a dire?» «Vabè, lasciamo stare. Andiamo a tirarlo un po’ su, dài.» Il Libero Ricercatope lo guardò con aria perplessa, poi inarcò verso il basso gli angoli della bocca, scrollò le spalle e lo seguì. «Ciao Lupastro! Cosa fai, un solitario? Non ti bastano quelli che ti fai tutti i giorni in bagno?» Il Lupo staccò per un attimo gli occhi dalle carte allineate sul tavolo. 108 «Ogni tanto ci vuole. Non posso sempre mangiare della topa, troppa carne fa male.» Era un buon segno. Battuta mediocre, ma indubbiamente lupesca. Il Libero Ricercatope lo provocò ancora, per saggiarne la reazione. «Allora, hai meditato sulla serata di Venerdì? Cosa hai sbagliato, Lupo? Com’è che Teenva ha preso della passera, e te solo dei gran ceffoni?» «Teenva è un finocchio. Sono buono anch’io con le bambine. Al Lupo piace la topa vera, se la caccia è facile non c’è gusto. Ma quelle lì erano delle fighe di legno. Un posto del cazzo il Los Angeles. Si sapeva.» «In effetti è stato Teenva a volerci andare » rincarò Fedele strizzando l’occhio al Libero Ricercatope. «Voleva giocare in casa.» «Però di patata ce n’era parecchia...» Era stato il Discipulo a parlare, comparso improvvisamente alle spalle di Fedele. «Oh, guarda chi c’è, il Discipulo! Strano che cerchi di difendere Teenva. Dài, prendi una sedia.» «Discipulo, sei venuto solo? Dov’è il tuo mentore?» «Teenva arriva più tardi, ha detto.» «Avrà qualche bambina da stuprare, quel finocchio.» Il Lupo si stava riprendendo, decisamente. Fedele decise di pomparlo un altro po’, quando vide entrare un gruppo di ragazze, capeggiate da una bionda appariscente e truccatissima. «Oh, Lupo, guarda là. Quella sì che è una figa.» 109 Il Lupo si girò platealmente e sottopose la bionda a una scansione accurata, poi sentenziò. «Io quella lì la schianto. Tenetemi se no la schianto. Deve avere una patata così, bella pelosa. Un cespuglio biondo, porca troia. Prima la pettino, poi la sfondo!» Erano abituati alle uscite del Lupo, ma non potevano fare a meno di piegarsi dalle risate, ogni volta. Asciugandosi le lacrime, il Libero Ricercatope si concesse un’osservazione. «Nobile Lupo, le tue analisi sono sempre meravigliose. Però consentimi di dissentire. A mio modesto avviso, quella lì la patata ce l’ha perfettamente depilata. Non un pelo fuori posto». «Ma che cazzo dici? Non la vedi? Quella lì è una porca di prima riga. Quando sono così porche c’hanno il cespuglio, sempre! Più sono porche più sono pelose.» «No, Lupo, ti sbagli. Più sono porche più se la curano. Credi a me.» «Ma che cazzo vuoi sapere tu, che non sei neanche un Dottore. Fedele, tu che ne dici?» «Mah… la questione è difficile. Voi dite che c’è relazione tra la porcaggine e il pelo? Può essere, ma…» La frase morì in bocca a Fedele, che occupava il posto rivolto verso l’ingresso. L’improvviso mutismo attirò l’attenzione degli altri tre, che si voltarono all’unisono. Sulla porta era apparso Teenva tirato a lucido, in jeans Armani scuri, camicia Ralph Loren bianca sulla pelle lievemente abbronzata e muscoli tonificati da una seduta in palestra seguita da bagno turco. Ma non era solo: abbracciata a lui c’era Pamela, con una minigonna leggera bianca e 110 una maglietta aderente senza maniche verde che lasciava scoperto un piccolo cuore tatuato vicino all’ombelico. I due si fermarono un attimo al bancone a salutare Milva che stava shakerando, seguendo un grunge un po’ datato che usciva dallo stereo. «Ciao Milva, come stai?» «Ciao Teenva». «Posso presentarti Pamela? Lei è Milva, la numero uno» disse rivolto alla giovane lolita. Milva fece un cenno, poi, senza smettere di agitare lo shaker, lanciò un’occhiata un po’ sospetta al tavolo degli amici di Teenva. «Gli altri sono già arrivati tutti» si limitò a dire. «Sì, sì, ora li raggiungiamo. A dopo.» Milva seguì con gli occhi la coppia avvicinarsi al tavolo dove Fedele, il Lupo e il Libero Ricercatope li stavano squadrando con aria incredula. «Esimi colleghi, vorrei presentarvi Pamela.» Un coro di ciao senza entusiasmo accompagnò i due mentre si sedevano al tavolo. Se soltanto Teenva avesse prestato più attenzione avrebbe potuto facilmente notare le occhiate che i suoi amici si scambiarono. Ma Teenva era, appunto, Teenva, e non ci fece caso. La serata hdemica era sacra. Era una regola chiara: da Milva non si potevano portare ragazze. Teenva l’aveva violata. Non gliel’avrebbero fatta passare liscia tanto facilmente. Ma lui, tutto questo, non lo notò affatto. «Allora, di che stavate parlando?» chiese Teenva. «Di figa, chiaro no?» 111 Ci aveva pensato il Lupo a recapitare il concetto al destinatario tramite posta prioritaria, senza tanti giri di parole. «Per meglio estrinsecare il concetto testé espresso dal Nobile Padre. Quesito: meglio il pelo allo stato brado o la patata glabra?» puntualizzò con sottile sarcasmo Fedele, puntando i suoi occhi in quelli di Pamela. Teenva si agitò sulla sedia. Rise, ma si vedeva che era una risata nervosa. «La vede, Dottor Teenvagina, quella maiala laggiù?» chiese Fedele. «All’interno del nostro Consesso si è aperta una disputa circa lo stato della patata: ce l’avrà glabra o pelosa?» Pamela non sembrava particolarmente interessata alla disputa. Aveva capito che sarebbe stata una noiosissima serata tra maschi sfigati e aveva iniziato da subito a ignorare quello che veniva detto. Si guardava in giro giudicando di pessimo gusto quel buco dove l’aveva portata Pier, finchè non buttò l’occhio sul cellulare del Libero Ricercatope. «Ehi, ma quello non è mica il nuovo Nokia?» Fu come se il tempo si fosse fermato. Fedele e il Lupo sgranarono gli occhi e si girarono lentamente verso la ragazza; il Libero Ricercatope alzò di scatto il sopracciglio destro e dipinse il volto di un sorriso sarcastico. Il Discipulo, invece, guardava Teenva e Pamela, non potendo fare a meno di constatare che pezzo di gnocca avesse trovato il suo preferito. Il suo mentore. «No. Questo non è un cellulare, piccola. È un rasoio…» ribatté il Libero Ricercatope. Ci fu una grassa risata, il Lupo piantò una pacca sulle spalle a Fedele che quasi scivolò dalla sedia. 112 «Un rasoio… oddio muoio… dai, ne hai mai visto uno?» Fedele non riusciva a trattenersi. «Dobbiamo quindi arguire, esimi Colleghi, che la giovin pulzella faccia parte della prima categoria?» Teenva rimase pietrificato per un attimo. Non sapeva cosa dire. Fu Fedele ad affondare il coltello. «Bè, il qui presente Dottor Teenvagina potrà senz’altro trarci d’impaccio e renderci edotti…» E ancora giù risate. «Dai, non prendertela Teenva. Si fa per dire.» Il Libero Ricercatope era ritornato perfettamente in sé, aveva smesso di ridere a crepapelle adottando il suo solito sorriso malizioso. Poi, rivolto a Pamela, aveva continuato: «Anche tu Pamela – ti chiami Pamela, giusto? – non farci caso. Che fai di bello nella vita?» «Studio» rispose a denti stretti. Ma si accorse troppo tardi di aver sbagliato risposta. «Anche noi!» era esploso il Lupo, e ancora tutti a ridere come matti. Pamela capì allora che non aveva sbagliato risposta. Aveva sbagliato a rispondere. «Ehi, ho capito che stasera l’avete buttata a puttane.» Teenva cercava di salvare il salvabile. Ma era troppo tardi. «Pier, mi puoi riaccompagnare a casa?» «Ma Pam... è presto» tentò una timida protesta Teenva. «Domani è sabato, io devo andare a scuola.» «Okkey, andiamo.» 113 Una volta che i due furono usciti dal locale, Fedele sbottò rivolto al Discipulo. «Bella faccia da culo, il tuo tutor.» «Eddai Fedele, si vede che è innamorato!» ribattè il Lupo, sempre pronto con una parola di comprensione verso tutti. «Io propongo che il Senatus proceda con un richiamo ufficiale nei confronti del Padre Dottor Teenvagina per il contegno mostrato, profondamente lesivo del decoro e dell’onore dell’Istituzione hdemica» continuò Fedele «Chi vota a favore?» *** In auto Teenva e Pamela non parlarono molto. Allontanatosi dal Bar Milva lui accese lo stereo e si immise nel traffico tranquillo del prediscoteca. «Ehi, dove stai andando?» Ad un tratto Pamela si rese conto che Teenva aveva imboccato una strada diversa da quella di casa sua. «Bè, Pam non è tardi…» e intanto le aveva appoggiato la mano sul ginocchio e aveva incominciato a risalire verso la gonna, alzata fin quasi all’altezza dell’inguine. «Invece è tardissimo. Riportami a casa. Subito.» Non c’era spazio di trattativa nella voce di lei. Contemporaneamente, scostò la mano di Teenva. Lui la guardò con un’espressione sorpresa e delusa. 114 «Dai Pier, domani i miei non ci sono che vanno a trovare dei parenti fuori città: ti aspetto alle 3» continuò lei con voce addolcita. «Davvero vuoi che venga?» chiese timoroso. «Certo piccolo, lo voglio eccome.» Sabato, 27 maggio 2000 Teenva si svegliò molto tardi l’indomani mattina. Mezzogiorno era passato da un po’ quando la madre bussò, prima timidamente poi con sempre maggiore convinzione, alla porta della camera del figlio. «Pier vuoi deciderti ad alzarti?» «…» «Guarda che noi mangiamo, che tu ci sia o no. Forza, muoviti.» Dall’altra parte della porta, Teenva tirò fuori la testa dalle lenzuola, si alzò e aprì le persiane constatando come il sole fosse già molto alto in cielo. Dalle finestre aperte il caldo di fine maggio lo investì inebriandolo di pensieri dolci. Fece una veloce doccia, si vestì e scese nel salone, dove i genitori stavano già pranzando. «Grazie per avermi aspettato…» disse lui addentando un pezzo di pane. «Pier ti sono venuta a chiamare un’ora fa. Lo sai che in questa casa ci teniamo alla puntualità. Non puoi pensare di vivere qui come se fossi in un albergo.» «Uff mamma…la vuoi piantare?» «Ehi giovanotto! Non rivolgerti così a tua madre, capito?» 115 Come sempre il grande avvocato si era rivolto al figlio senza degnarlo di uno sguardo, ma continuando a leggere il giornale e mangiando contemporaneamente. «Sì papà. Scusa mamma. Io vado» disse monotono avviandosi verso la porta d’ingresso. «Pier non mangi nulla?» chiese apprensiva la madre. «Mangerà quando avrà fame, lascia, lascia che vada…» Fottiti stronzo, pensò Teenva sbattendo il portone d’ingresso e correndo verso il suo Z3. Fece scendere la capote, accese a palla lo stereo, ingranò la prima e sgommò fuori dal parco di Villa Zoboli per andare a mangiare un panino da Milva. Alle tre meno un quarto era già davanti a casa di Pamela. Aveva parcheggiato un po’ distante e aveva abbassato lo stereo, deciso ad aspettare le tre precise per suonare il campanello. Il quartiere era residenziale, poche le auto parcheggiate lungo la via e un silenzio che invogliava al riposo pomeridiano. Da lontano il lieve ronzio di una falciatrice riempiva l’aria piena del primo caldo. ‘fanculo, andiamo. Teenva scese dall’auto, azionò l’allarme e si diresse verso la casa dove viveva Pamela. Erano le tre meno dieci quando suonò il campanello. «Sono io.» «Sì, sali.» Teenva entrò nel piccolo condominio, di nuova costruzione, aspettò l’ascensore e salì al terzo piano, all’attico dove viveva la ragazza con i genitori. 116 La porta era socchiusa e lui entrò. «Finalmente. Non ce la facevo più ad aspettarti.» A Teenva mancò il fiato. Sapeva che Pamela era bella, ma lì, in quel preciso istante, era uno schianto. «Pamela…» non riuscì a dire nient’altro, poteva soltanto guardarla. Addosso aveva soltanto un reggiseno della Arimo con cuccioli di gatto e un paio di slip rosa. Lei chiuse la porta a chiave e gli si gettò al collo coprendolo di baci «Pier…» «Pam…ti voglio…» «Anch’io» lei incominciò a sbottonargli i pantaloni e la camicia, lui la lasciò fare aiutandola a sfilare i jeans e solo quando anche lui armeggiò cercando di farle scivolare le spalline del reggiseno lei si scostò di scatto, spingendolo sul divano. «Pier guardami.» Lui subito non capì, aveva il profumo di lei addosso e Pamela di fronte. Deglutì. «Eh?» «Ti ho detto di guardarmi.» «Lo sto facendo tesoro…». «Bene. Cosa vedi? Dimmelo.» Cosa vedeva Teenva? Eh, vedeva la sua ragazza, ecco cosa vedeva. Sedici anni, alta più o meno come lui, capelli neri con striature appena pronunciate di blu elettrico. Un seno adolescente di marmo e gambe affusolate che terminavano in un fondo schiena alto e sodo. Una 117 sedicenne che dimostrava almeno cinque anni di più con un viso luminoso acqua e sapone. «Vedo la regina dei miei sogni…» «E saresti pronto a fare tutto per la tua regina?» «Sì, tutto…tutto quello che vuole, mia regina.» Tentò di alzarsi ma lei lo spinse sul divano e si sganciò il reggiseno rimanendo soltanto con gli slip. «Ieri sera non mi sono divertita.» «…» «Io sono al primo al secondo e al terzo posto.» «…» «Voglio andare al mare il prossimo fine settimana. Dai ci andiamo? Dai dai promettimi che mi ci porti.» «Quello che vuoi tu amore mio.» «Fammi divertire.» Lanciò un gridolino e si tuffò sul divano. Teenva annegò nel profumo della pelle di Pamela. Non pensava più ai genitori, agli amici. All’Hdemia. 118 CAPITOLO QUINTO Dove l'amicizia trionfa Data: lunedì 29 maggio 2000 DA: dr. Fedele ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) CC: Ciambellano ( [email protected]) Oggetto: Tricotica Quaestio Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA Ordinario: dr. Fedele Della Passera Pregiati colleghi, scrivo questa Mia con un duplice intento. Il primo et doloroso consiste nella comunicazione formale, urbi et orbi, di quanto deliberato in occasione del recente Raduno del 119 Senato Hdemico. È con vivo dispiacere che vado a trascrivere il testo della deliberazione. Bar Milva, Reggio Emilia, addì 26 maggio 2000 Codesto Senato Hdemico, riunito in sessione strordinaria alla presenza dei Sommi Patres dott. Fedele e dott. Lupompino, del Nobile et Libero Ricercatope, del Semper Valente Discipulo, delibera formale nota di biasimo nei confronti dell’illustre Padre ecc.mo dott. Teenvagina, per il grave comportamento tenuto nel corso dell’odierna riunione Hdemica. Egli si è infatti reso responsabile di una grave violazione della nell’alveo del relazione alcuna elemento Pax Senatus, esterno con di Hdemica, senza autorizzazione l’attività sesso introducendo nostra, femminile, che né un il Senatus ha inoltre unanimemente giudicato indegno di cotanto riprese onore, avendo indifferenza e esso mostrato incomprensione a per più la Scientia Nostra. Il Senatus ammonisce pertanto il Nobile Padre, certo ch’Egli saprà prontamente rinsavire e fare ammenda, Hdemica. 120 godendo così prontamente della Pietas Codesto Senatus ti biasima ma non ti Condanna, Nobile Padre, e attende con paterno affetto il Tuo ritorno. Adempiuto il gravoso compito, vorrei passare a più amene questioni. Vi prego di esaminare attentamente i due esemplari di passeraceo ritratti nel dettaglio qui sotto, e dal sottoscritto rintracciati dopo lunghe e attente ricerche nell'universo telematico Topapelosa.jpeg - Topaglabra.jpeg La ragione che ci conduce a sottoporvi detti esemplari risiede nel nobile intento di avviare con Voi una ci auguriamo proficua analisi interdisciplinare volta a dare risposta al quesito che ha arrovellato i Nostri Ingegni nella recente riunione del Senato Hdemico. L’assenza del venereo vello è sinonimo di maggior propensione alla copula? O, all’opposto, come sostiene il Nobile Lupo, v’è una correlazione diretta fra tricotica fluenza e suina disposizione d’animo? Al fine di sciogliere una volta per tutte il difficile quesito, codesto Istituto convoca un CONCILIO HDEMICO presso la consueta Sede, per il prossimo Venerdì 02 giugno 2000 al quale le S.V. sono pregate di giungere debitamente fornite di documentazione – fotografica, bibliografica et memorialistica – al fine di sostenere al meglio le proprie posizioni, e giungere così alla 121 ricomposizione dell’Unità di Pensiero che da sempre ci contraddistingue. in Vulva Veritas Fedele Dr. Della Passera - figosofo lunedì 29 maggio Fedele sorrise amaro dopo aver cliccato su ‘Invia’. Scrivere questa mail gli era costato più del previsto. La faccenda del pelo, che gli sembrava peraltro una buona idea, l’aveva aggiunta soprattutto per dare a Teenva la possibilità di andare subito oltre, di mettere lo scazzo nel dimenticatoio. Ma temeva che la questione non si sarebbe risolta così semplicemente. Tanto per cominciare, Teenva non l’avrebbe presa bene. Quando voleva, sapeva essere molto permaloso. D’altronde non si poteva nemmeno fargliela passare liscia. L’aveva combinata grossa, stavolta. Ma anche questo, in un certo senso, era un problema da poco. Il problema serio era il modo in cui guardava quella ragazzina. E il modo in cui lei lo aveva portato al guinzaglio, fuori dal bar. Teenva, più che cotto, sembrava del tutto brasato. Questo apriva scenari imprevedibili. Anzi, proprio il contrario: tragicamente prevedibili. Per Maria, per l’Hdemia, ma anche per lui. Per la prima volta Fedele si trovò a dubitare della loro amicizia. Erano cresciuti insieme, il loro legame aveva resistito alle tempeste dell’adolescenza, alle differenze di carattere e di interessi, persino alle rispettive morose. Ma quella che aveva visto negli occhi dell’amico era una luce che non prometteva 122 niente di buono. Sperava sinceramente che Teenva avrebbe risposto bene alla mail, ma ne dubitava. Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dall’icona lampeggiante di ICQ. Improvvisamente il pensiero di Teenva e dell’Hdemia fu spazzato via. Fece doppio click. Motovale (21.16 PM) Ciao Robinhood! Robinhood76 (21.17 PM) Vale… ciao. Che strano leggerti… vuoi che ti chiami? Motovale (21.18 PM) Sì… cioè, no. Mi piace scriverti, e leggerti. Mi piace immaginare la tua voce. Robinhood76 (21.19 PM) :-) Ok, scriviamo. Motovale (21.19 PM) Anche perché… Robinhood76 (21.20 PM) Sì? Motovale (21.21 PM) Beh, ho un po' paura di dirti una cosa La mente di Fedele fu attraversata da un folgorante momento di panico. Come minimo stava per dirgli che si era innamorata di qualcuno. Che non avrebbero più dovuto sentirsi. Che tutta questa sua indecisione, questo doppiogiochismo l'aveva delusa. Che sarebbe stato meglio troncare prima di farsi male. Respirò profondamente e deglutì, lui stesso sorpreso del nodo che gli aveva improvvisamente serrato lo stomaco. 123 Robinhood76 (21.22 PM) Dimm i. T i ascolto. Motovale (21.23 PM) Non so come dirtelo… te lo dico come mi viene. Ho due biglietti per il concerto di Vasco ad Ancona, venerdì 10. Ti va di andarci con me? Fedele sgranò gli occhi. Poi bestemmiò, sottovoce. Venti minuti dopo, guidava pensieroso verso casa di Sara. Lunedì sera, videocassetta da lei. Un classico. Stasera, però, difficilmente si sarebbe addormentato prima della fine del film. Parcheggiò di fronte al vecchio condominio alla periferia est di Reggio, dove Sara aveva affittato un grazioso bilocale di 50 mq. Poteva permettersi un intero appartamento, non una semplice stanza, grazie al generoso assegno che ogni mese il padre, commercialista friulano, versava sul suo conto. Ogni volta, nel farlo, si domandava cosa avesse spinto la figlia maggiore, luce dei suoi occhi, a trasferirsi in quella piccola città emiliana. Non aveva nemmeno capito che cazzo di facoltà fosse “Scienze della Comunicazione”, e soprattutto cosa cazzo avrebbe fatto una volta laureata. Ma si fidava di sua figlia, e si sforzava di capire quei discorsi nebulosi sul bisogno di indipendenza, sull’ importante esperienza di vita, sulla voglia di conoscere nuovi posti e nuova gente. Come sua abitudine, Fedele usò la sua copia delle chiavi per aprire il portone, prese l’ascensore e suonò soltanto quando fu davanti alla porta di ingresso, al quarto piano. 124 « Ciao amore!» Anche quando stavano in casa, Sara era sempre impeccabile. Non elegante, ma splendida. Pantaloni della tuta Adidas bianchi, aderenti. Maglioncino scollato a V carta da zucchero. E un sorriso bianchissimo e luminoso. Fedele l’abbracciò, cercando di mettere ordine nel caos spaventoso che sentiva montare dentro. Sentì la vita sottile di lei sotto i polpastrelli, il seno generoso premere sul suo stomaco. Profumava di sapone e tenerezza. Era così bella. Iniziò a baciarle il collo, stringendola più forte a sé. «Ehi, Robby! Che fai?» protestò Sara, ridendo. «Mmmh, secondo te?» «Ma dai… » disse, spostando con poca convinzione la mano sinistra di Robby che si infilava sotto il maglione « Dobbiamo guardare il film» tentò ancora, sospirando al contatto delle dita con i capezzoli. «Lo sai che non dovremmo…» «Ah no? Dai, dopo ci pentiamo.» Il letto di Sara era sempre bianco e profumato. Detestava qualsiasi colore diverso dal bianco, per la sua camera. Fedele aveva dovuto attendere svariati mesi prima di avervi accesso. Anche adesso, accadeva sempre molto di rado, e sempre come sistematica, inevitabile eccezione. Il sesso senza la colpa non era contemplato. E la colpa doveva essere sua, ogni volta. Ogni volta era come una gentile concessione, un cedimento alle sue smanie di maschio, incapace di contenersi. Però farlo le piaceva, eccome. Sara era un’amante passionale e fantasiosa, capace di andare oltre le sue inibizioni e vivere 125 l’amplesso con gioia e furore. Dopo, il suo calore si scioglieva in tenerezza, e regalava a Fedele i momenti più belli e distesi della loro storia. Ora stava con il viso sul suo petto, giocherellando con i folti riccioli castani. Stavano in silenzio, e ogni tanto lei gli baciava il petto e lo stringeva forte. «Amore, volevo chiederti una cosa» iniziò lui, prudente. Lei alzò il collo e gli rivolse un sorriso insopportabilmente dolce. «Dimm.i» «Ti ricordi che mi avevi chiesto di fare un giro al Grand’Emilia, sabato?» «Sì… volevo comprare alcune cose. Ma era più che altro per fare un giro, tu e io. Dicono che sia molto grande, con un sacco di negozi. Ma non questo sabato, c’è la festa dei giovani in parrocchia. Quello dopo, l’undici.» «Ecco… oggi ho sentito Teenva… cioè, Pier.» « …e?» lo incoraggiò, sospettosa. «Suo cugino gli ha regalato due biglietti per il concerto di Vasco, ad Ancona, venerdì 10. Mi ha chiesto se vado con lui. Mi piacerebbe.» « Mmh.» «Solo che Ancona non è proprio dietro l’angolo. Dovremo fermarci a dormire. Pensavamo di stare là anche il sabato, e tornare prima di sera. Poi magari ti vengo a prendere e andiamo a mangiare fuori, solo tu e io. Che ne dici?» «Ma… Vasco? Da quando ti piace così tanto? Con me non l’hai mai sentito…» 126 «Chi, Vasco? Ma scherzi? È un grandissimo! In macchina non lo metto mai perché so che a te non piace tanto…» «Vabè… e con chi hai detto che ci vai? Pier? Solo voi due?» «Certo. E chi altro?» Il mattino dopo Fedele si svegliò piuttosto tardi, come tendenzialmente gli accadeva le rare volte in cui faceva sesso con Sara. Erano soltanto le 10.30, ma c’era già piuttosto caldo. Si preannunciava un giugno afoso. Si trascinò fuori dal letto, dirigendosi così com’era – slip e t-shirt bianca – verso la cucina. «Robby, quante volte devo dirti che non mi piace che giri per casa in mutande!» Sì mamma hai ragione, scusa mi metto subito i pantaloncini, dove sono finiti i biscotti?, ha chiamato Sara va bene, adesso le telefono, sì lo so che se non studio poi mi bocciano, sì lo so che non è da me dormire così tanto, no mamma non preoccuparti sto benissimo. Aveva ancora in bocca il sapore di Sara. Acre, intenso. Spaventoso. Il pensiero di quello che aveva fatto gli piombò tutto insieme in mezzo alla mente. Cazzo. Valentina, il concerto. Cazzo. Sara. Le aveva mentito. Spudoratamente. Cazzo. E adesso? Si chiuse nel suo piccolo studio e cominciò a misurare il perimetro della stanza a larghi passi. Dunque, calma. Ok, la frittata è fatta, non si torna indietro. Mi dispiace Fedele, non si torna indietro. Ma poi ti dispiace davvero? Sii sincero con te stesso, per una volta. Ti è dispiaciuto così tanto? Sentire Valentina, desiderarla. E amare Sara, ingannarla, tradirla. Sì, Fedele. L’hai già tradita. Tradita? No, non 127 esageriamo. Le ho mentito, ma il tradimento è un’altra cosa. Sono ancora fedele, e posso decidere di rimanerlo, se solo lo voglio. Ma lo voglio? Con questo casino in testa, in mutande e maglietta, Fedele accese il PC e distolse lo sguardo dal testo di Diritto Civile. Aprì la posta elettronica. Tre nuovi messaggi, tutti in risposta alla sua mail della sera precedente. Strano, insolito. Aprì prima quella di Teenva, con il cuore che aveva preso a battere più veloce. Data: mercoledì 30 maggio 2000 DA: dr.Teenva ([email protected]) A: dr. Fedele ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]) CC: Discipulo ( [email protected]); Gran Cia’n’bell’ano ([email protected]) Oggetto: Re: Tricotica Quaestio Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens In Vulva Veritas ISTITUTO DI PASSEROLOGIA ADOLESCENZIALE Ordinario: Prof. Dr. Teenvagina Colleghi, prendo atto di ciò che è stato ordito alle mie spalle e vi dico che potete anche andare a fanculo tutti. Detto questo, caro Robby, 128 mi chiedo francamente chi cazzo tu sia per permetterti di dirmi chi devo o non devo portare con me fuori la sera. Davvero mi faresti un grosso favore se potessi spiegarmi. Forse che devo telefonarti prima per chiederti il permesso o l’approvazione? Davvero, sono curioso, anzi no, già che ci siamo: lascia stare. Facciamo in altro modo: voi venerdì vi vedete tra voialtri e io vado per i cazzi miei con chi cazzo mi tira, okkey? Mi sono un po’ rotto il cazzo del tuo atteggiamento da saputello che giudica tutto e tutti senza mettersi in gioco DAVVERO mai una volta. Venerdì vi ho portato Pamela e voi l’avete presa sistematicamente per il culo, senza neanche pensare per un solo momento che ha 16 anni, che potevate ferirla, umiliarla e, così facendo, umiliare me. Allora, amico mio, ti lascio queste poche righe affinché tu possa utilmente riflettere, ben conscio però del fatto che non tollererò MAI PIU’ intromissioni di chicchessia nella mia vita privata. Sarebbero gradite anche le scuse a Pamela, ma conoscendoti so di non potermi spingere così in là nelle richieste. Amico, spero ancora, ti saluto. Dr. Teenvagina 129 Data: martedì 30 maggio 2000 DA: Libero Ricercatope ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Dr. Fedele ( [email protected]); Discipulo ([email protected]) CC: Ciambellano ([email protected]) Oggetto: Re: re: Tricotica Quaestio Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas Libero Ricercatope Associato expertus in clitologia Amici, mi rivolgo a voi con il cuore – ho detto il cuore – in mano. In particolare, è al pregiato dott. Teenvagina che va il mio accorato appello: plachiamo gli animi! Credo di poter parlare a nome dell’Hdemia tutta porgendo le nostre sentite scuse alla dolce pulzella, il cui giovane ardore pare aver fatto breccia nel nobile cuore del sommo dottore. Se mancammo di delicatezza e di rispetto fu solo per eccessivo zelo Hdemico, nel dar seguito all’accalorata discussione che poc’anzi avea infiammato gli animi. Purtuttavia, eccellentissimo dottor Teenvagina, mi sia consentito di obiettare almeno in parte alle argomentazioni addotte, poiché la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro, disse il poeta. 130 Se infatti è giusto riconoscere che il Nobile dott. Fedele abbia forse calcato eccessivamente la mano nella deliberazione del Senatus, sarebbe sbagliato non rilevare come il comportamento ivi censurato fosse parso a tutti gli astanti fortemente atipico, in un modo poco piacevole che certamente la SV aveva modo di prevedere. Invitando nuovamente tutti a prodigarsi affinchè i toni vengano smorzati e la Pax Hdemica ristabilita, porgo come si conviene un sentito vaffanculo in Vulva Veritas Libero Ricercatope Ps Onore e merito al nobile dott. Fedele per la formalizzazione del quesito Hdemico che andremo a discutere nel prossimo Concilio. Sarà nostra cura applicarci in approfondite ricerche per giungere preparati all’ importante appuntamento. 131 Data: martedì 30 maggio 2000 DA: dr. Lupo ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]); Dr. Fedele ([email protected]); Discipulo ([email protected]) CC: Ciambellano ( [email protected]) Oggetto: Re: re: Tricotica Quaestio Ragazzi, che cazzo fate! Non litigate! Non è successo niente, in fondo. Fedele stava solo scherzando! Teenva ha solo portato un’amica a conoscere l’Hdemia! Siete veri amici, vi volete bene. Smettetela, non ne vale la pena. Il Lupo Fedele rilesse tutto più volte. Era turbato. Forse avevano ragione, forse aveva esagerato. Ma anche Teenva era andato troppo in là. Le parole del Lupo più delle altre, lo avevano inquietato. Il Lupo aveva parlato con il cuore, per lui era davvero importante l’Hdemia e tutto il resto. Spense il computer, prese le chiavi e uscì di casa. Sarebbe andato da Teenva e avrebbero parlato. Si sarebbero chiariti. Non voleva perdere Pier. Guidò nervoso e parcheggiò alcuni metri distante da Villa Zoboli, nei parcheggi che contornavano i viali della circonvallazione. Proseguì a piedi e davanti al cancello stette per qualche istante fermo a guardare l’imponente edificio immerso nel verde. Poi suonò. 132 «Chi è?» La voce della madre di Teenva gracchiò ostile dal citofono. Ostile. Questo lo dici tu, Fedele. Non farti suggestionare. «Sono Robby, signora. C’è Pier?» «Ti apro». Fedele percorse a passo svelto il vialetto di ghiaia che attraversava il grande parco. La signora Zoboli lo attendeva dietro il grande portone, con un sorriso che gli parve triste. «Ciao Roberto, come stai?» «Bene, grazie» rispose Fedele forse troppo sbrigativamente. Gettò solo uno sguardo sul vasto salone. I quadri austeri, i tendaggi damascati, i preziosi tappeti su cui tante volte aveva giocato da bambino. Era quasi una seconda casa, per lui. Mai come oggi gli era sembrata tanto lontana e fredda. «Pier? È di sopra?» «Sì ma… ha detto che non vuole vederti. Cosa è successo, Roberto. Avete litigato?» «No, no, è solo che…». Si interruppe, abbassò il capo. «Beh, sì. Sì, abbiamo litigato.» «Non mi stupisce… Pier da qualche tempo è così… così… non so. Ma non è cattivo, lo sai. Siete sempre andati d’accordo, voi due. Dài, sali, e fate la pace.» «Che cosa vuoi?» Teenva era sdraiato sul letto, leggeva un numero di Quattroruote. Non lo guardava nemmeno. 133 Era pronto alla battaglia. «Senti Pier, hai visto che casino che è scoppiato? Per cosa poi?» Teenva non rispose. Continuava a non guardarlo. «Dài Pier stavamo scherzando. Comunque anche tu un po’ te la sei cercata. Cos’è sta novità? Da quando si portano le fighe in Hdemia?» «Oh, attento a come parli. “Le fighe” saranno quelle che ti fai tu. Lei ha un nome. Si chiama Pamela.» Fedele vacillò. Arretrò di un passo, sorpreso. Non pensava che le cose fossero già a questo punto. Lo smarrimento servì a fargli smorzare il tono. Abbassò la voce, addolcendo il tono e lo sguardo. «Pier… l’hai conosciuta una settimana fa.» «E allora?» «Non è che ti stai facendo prendere troppo? Non sai niente di lei.» «So che sono innamorato, ecco cosa so. So che è fantastica, e che voi l’avete trattata come una merda. Ecco quello che so.» Le parole erano dure, ma adesso alla rabbia si era sovrapposto un velo di tristezza. «Ma perché non vuoi ragionare?!» Fedele iniziava a scaldarsi. Era venuto con l’idea di buttare acqua sul fuoco, convinto di riuscire a far ragionare l’amico, ma non si aspettava tanta aggressività. La sua risposta era stata più rigida di quanto non volesse. «Io ragiono benissimo! Ti sto solo dicendo che non puoi essere tu a dirmi quello che posso o non posso fare.» 134 Fedele aveva ancora la lucidità necessaria a capire che in questo modo non sarebbero andati da nessuna parte. Tentò di cambiare strategia, di mettere un punto fermo. «Ochei ochei, scusa! Ti chiedo scusa per l’altra sera, e anche per la mail. Contento? Ti ho chiesto scusa. Però cazzo, adesso torna in te! È una bambina! Non puoi mandare tutto a puttane per una ragazzina! E non parlo solo dell’Hdemia, quella è il meno…» «Di che cazzo parli?» «Parlo di Maria! A lei non pensi? È la tua ragazza, Pier, vive per te. State insieme da tre anni, se fosse per lei ti sposerebbe domani!» «Allora trova qualcosa di più convincente, Fedele. Maria non esiste più.» «Cosa vuol dire?» «Vuol dire che l’ho scaricata. Finito. Mi aveva rotto i maroni. Adesso ho Pamela.» Fedele sbattè più volte le palpebre. Era sconvolto. Ma chi era questo che aveva davanti? Che razza di mostro era uno capace di ragionare così? «Pier. Cosa stai dicendo, Pier? Cazzo, ma ti senti? Che discorsi fai? Ma ti rendi conto?» «Mi rendo conto che comincio a rompermi i coglioni delle tue tirate. Scendi fra noi, signor perfettino. Chi ti credi di essere per giudicare tutti, Dio? Chi sei tu per giudicare me?» «Pier, a me non me ne frega niente se stai con Maria, con Pamela o chi diavolo vuoi, ma devi anche cominciare a capire che non puoi fare sempre come ti pare e usare tutti e tutto come se esistessi solo tu!» 135 «Da che pulpito! Guarda che quello sei tu! Sei tu l’ipocrita che non ha le palle di fare quello che vuole veramente! Sei tu quello che usa gli altri, che pensa solo a se stesso!» Teenva adesso stava urlando, aveva il viso rosso d’ira, e si era avvicinato a meno di un metro da Fedele. Lui, invece, era diventato una statua di ghiaccio. All’improvviso scese un silenzio di cemento, rotto solo dall’ansimare di Teenva. L’ultimo a parlare fu Fedele. «No, Pier, ti sbagli. Io posso avere tanti difetti, ma almeno il rispetto per le persone a cui voglio bene ce l’ho. Io ero venuto qui da amico, ma vedo che della nostra amicizia non te ne frega un cazzo. Come vuoi, finiamola qui.» Girò le spalle a Teenva e infilò le scale. Prima di uscire, incrociò la Signora Zoboli. «Allora Roberto, com’è andata? Avete fatto la pace?» *** Mercoledì 31 maggio 2008 La stanza di Pamela era molto ampia, come tutto l’attico in cui viveva, figlia dell’alta borghesia della città. Nello stereo il cd con la compilation griffata “Veline” stava facendo compagnia alla ragazza, intenta a prepararsi per l’appuntamento settimanale con il catechismo. Una fissa di sua madre, una grande rottura di scatole. Non capiva perché dovesse perdere del tempo in maniera così inutile, ma almeno di buono c’era che ci andava sempre con Francesca, la sua amica del 136 cuore, con la quale confidarsi, piangere, ridere, bere e fare tutto quello che era proibito. Francesca la conosceva da una vita, dal primo giorno del Liceo. Si erano piaciute subito, ed erano diventate amiche inseparabili. Che belli i pomeriggi d’inverno a ballare all’Adrenaline, tre ore di sola musica e ragazzi da guardare, stuzzicare e poi rituffarsi in pista fino a che il papà non arrivava a riportarle a casa. «Pam, sbrigati: la Francy è già qui!» «Sì mamma. Dille che sto arrivando.» Pamela uscì dalla cabina-armadio, e dopo essersi infilata un paio di Nike si fermò davanti allo specchio. Si guardò: jeans chiari, maglietta polo leggermente larga rosa pastello e in cintura un pullover verde smeraldo. Poteva andare, decisamente. «Mi raccomando ragazze: fate le brave!» «Non si preoccupi signora, arrivederci.» In un attimo le due ragazze furono in sella ai loro scooter, direzione parrocchia, per il settimanale appuntamento con il catechismo. Poco prima di arrivare si fermarono, come d’abitudine, al bar lì vicino per bere una Coca solo loro due, senza nessuno che potesse ascoltarle «Allora Pam, dai dimmi le news con Pier.» «Che vuoi che ti dica, ci sto da dio…mi fa sentire così importante…» «…eppoi è così figo!» Risero entrambe attirando l’attenzione di altri avventori. «Oh Fra, mi raccomando: io sabato sera dormo da te, ok?» chiese sottovoce Pamela prendendo le mani dell’amica. 137 «Tranqui. È confermato che i miei saranno al mare e avrò la casa solo per me. Quindi zero controlli. Ma voi dove vi vedrete?» «Mi ha detto che mi porta al mare.» «Uao!» «Sì, uao. È tutto così… elettrizzante. Sono innamorata, Fra.» «Si vede Pam, si vede.» Continuarono a chiacchierare ancora un po’, finchè le Coca-Cola non furono terminate. Uscite si diressero rapidamente nel cortile della canonica, dove erano già arrivati tutti gli altri. «Voi due arrivate sempre all’ultimo eh?» Era la voce della catechista. «Ciao Sara, lo sai che siamo perse e innamorate» rispose Francesca sorridendo. «Dai, dai innamorate che vi rimetto in riga io» scherzò Sara. «Non mi dirai che anche tu hai il ragazzo?» rivolta a Pamela. «Certo che ce l’ha» intervenne Francesca. «Ma nooo, è solo un amico, dai Fra» cercò di sminuire Pamela, ma Francesca proprio non ci pensava, e continuò come se niente fosse. «Ed è anche mooolto carino…» «Ah, e brava Pam. È della tua scuola?» chiese Sara. «Ma no, non è il mio fidanzato. È un amico. Tu invece, non ci hai mai detto se ce l’hai un ragazzo.» Pamela tentava di togliere l’attenzione da sé: non le piaceva Sara e non voleva che lei sapesse di Pier e dei suoi segreti. Soltanto Francesca era a conoscenza della sua storia con Pier. Voleva viverla ancora così, come una cosa proibita, le sembrava davvero di essere in una favola, 138 con un principe azzurro meraviglioso che cadeva ai suoi piedi, trattandola come una regina. «Io? Mah, forse…» «Uhmm, secondo me ce l’hai e non ce lo vuoi dire» disse Francesca. «Ma sì, c’è, c’è.» «E com’è, com’è?» chiese avidamente Francesca. «E’ molto intelligente, dolce e anche carino. Molto carino.» «Mhhh, carino?» «Certo pettegolina, cosa credi?» «Ce l’hai una foto?» «Dai, che dobbiamo andare dentro.» Sara tentava di chiudere la questione, ma Francesca non mollava la presa e, complice anche l’insistenza di Pamela e di altre ragazzine che nel frattempo le avevano raggiunte, fu costretta a mostrare una piccola foto che la ritraeva in compagnia di un ragazzo, alto e atletico. «Questo è il tuo fidanzato? Carinissimo!» Pamela lanciò solo un’occhiata distratta, ma quando mise bene a fuoco sgranò gli occhi. Era quell’amico coglione di Pier! Come si aveva detto di chiamarsi… Felice, no, Fedele… bho, sì, forse Fedele. Bè, poca importanza: era un coglione e stava giustamente con una stronza. Una coppia perfetta. Giovedì 1 giugno 2000 Il Lupo stava cominciando a domandarsi se avesse fatto bene a chiedere il cambio di turno in fabbrica per quella settimana. Lo aveva fatto in modo tale da avere tutte le sere libere da dedicare a quello che 139 ormai era diventato per lui un vero e proprio enigma. Anche quella sera la stava trascorrendo alla solita maniera: il tempo di una birra al bar e poi via veloce a seguire un fantasma, un fantasma dalla criniera lucente avvolto in vestiti sempre più succinti e provocanti. Milva camminava con passo nervoso, ma quella sera era subentrato un sentimento nuovo, un sempre più marcato senso di impotenza, di rassegnazione. Come se, per quanti sforzi avesse fatto e stesse ancora facendo, non ci fosse modo di liberarsi da quel passato troppo ingombrante, che da chissà dove era rispuntato fuori in tutta la sua malvagità. Lei da subito aveva reagito alla sua maniera, come una belva. Ne aveva parlato con Barbara ed era stato il momento più difficile. Spiegarle tutto d'un fiato la sua vita precedente, dirle chi era stata Milva prima di aprire il bar. Barbara aveva capito e aveva continuato a starle vicina, offrendole il proprio aiuto. Ma il problema restava. Un primo avvertimento, l'insegna “Bar Milva” presa a sassate. Barbara aveva chiesto ad amici e parenti una mano, ma la somma che Milva doveva pagare era ancora troppo alta. Il secondo avvertimento pochi giorni dopo, una vetrata in frantumi e la decisione di andare in banca a chiedere un secondo prestito. Non aveva più tempo, la scadenza del pagamento era sempre più vicina, doveva trovare quei soldi in fretta, senza pensare troppo al “come”. Le persone con le quali aveva a che fare non erano dei pivellini, sapeva bene quello che le avrebbero fatto se non avesse saldato tutto il suo debito. 140 Via Emilia S.Pietro, angolo con viale Monte Grappa, stesso portone, stessa ora. Il Lupo ormai conosceva a memoria quello che Milva avrebbe fatto non appena svoltato l'angolo: avrebbe aperto la borsetta, estratto un piccolo mazzo di chiavi – due in tutto – si sarebbe guardata in giro nervosa e poi sarebbe entrata dentro, scomparendo per ore. Lui sapeva che quella non era casa di Milva, lei abitava fuori città. Eppoi non c'era nessuna logica nel comportamento della donna: perché avrebbe dovuto lasciare il bar tutte le sere a Barbara? Rallentò il passo. Si era accorto di essersi distratto con tutti quei pensieri che gli affollavano la mente e stava correndo il rischio di farsi scoprire. Si fermò davanti alla vetrina del negozio di articoli sportivi fingendo di essere interessato ad un paio di scarpe della Nike, ma così facendo non si accorse di quello che – nello stesso momento – stava facendo Milva. Finalmente poteva vederlo bene. La sera prima non c'era riuscita, ma non aveva avuto dubbi: quell'uomo era lì per lei, la stava seguendo. Adesso invece, adesso lo vedeva bene, alla luce della vetrina di quel negozio di articoli sportivi. Non era possibile. Lui era... no, come poteva essere stata tanto stupida da non capirlo! Eppure sì, non c'era altra spiegazione. Le aveva chiesto anche le chiavi del bar e lei – cretina – gliele aveva pure date! E difatti da quel momento erano iniziati gli avvertimenti. Altroché se quel bastardo non era una spia. Il Lupo una spia, o peggio un sicario. O comunque uno messo lì apposta per poter riferire tutte le sue mosse. E chissà da quanto tempo la stava seguendo. La faccenda era seria, molto seria. Ed era anche tardi, a quell'ora 141 avrebbe già dovuto trovarsi dentro all'appartamento a ricevere i primi clienti. Ci mancava solo che la cercassero sul cellulare! Milva lo stava fissando da lontano, indecisa sul da farsi. Poi, senza neanche accorgersene, iniziò ad andare verso il Lupo. Lui guardò distratto l'orologio, era mezzanotte passata. Alzò veloce lo sguardo verso il portone e non vide più Milva: evidentemente era entrata senza che lui se ne fosse accorto. Ma quando ritornò con lo sguardo verso la vetrina, sobbalzò. Lei aveva fatto pochi passi e adesso era alle spalle del Lupo. Indecisa. Immobile. Lui si sarebbe voltato e a quel punto cosa sarebbe accaduto? «Milva!» «Cosa vuoi da me?» La donna aveva i pugni serrati, mentre il Lupo non si era ancora ripreso dallo spavento di essersela trovata alle spalle. «Milva... ciao.» «Mi stai controllando, vero? Non ti basta avermi distrutto il locale?» «No cosa dici... no, no, Milva io non…» «E allora perché mi segui tutte le sere?» Al Lupo batteva forte il cuore e un lieve tremolio aveva iniziato a tormentargli le gambe, ma cercò con tutte le sue forze di concentrarsi e di capire. «No, non ti sto seguendo è solo che…» «Che vuoi sapere se sto lavorando bene?» 142 «Eh? No, davvero Milva non capisco. L'altra sera ti ho vista così... bè, così diversa, ecco e…» «... e hai pensato di seguirmi?» «Sì! Sì, sì, ecco tutto. Cioè no, pensavo che poteva esserti successo qualcosa che non andava e se avevi bisogno di aiuto...» «Aiuto?» Milva era ancora sospettosa, ma il Lupo sembrava sincero, accidenti a lui. «Ho detto aiuto? Bé non so eri così diversa e così incazzata, si capiva che c'era qualcosa che non andava.» Milva non disse nulla, limitandosi a fissarlo negli occhi. Il Lupo sudava abbondantemente, e deglutiva, cercando di bagnarsi la gola arida. Poteva credergli? Se quel ragazzo non c'entrava niente con il suo casino – pensava Milva – allora tanto valeva finirla lì e non dire nient'altro che potesse comprometterla. Ma se invece le stava mentendo? Si vedeva che era spaventata anche lei, quasi quanto lui, cazzo. Ma che diavolo stava capitando? Il Lupo non ci stava capendo niente. E adesso perché lei stava sorridendo? «Va bene Lupo. Ti credo.» Fu un soffio. «Però adesso devo andare. Se davvero non c'entri un cazzo non chiedermi niente e vattene. E non seguirmi mai più!» Non era riuscito neanche a salutarla, porca miseria. Era tanto spaventato che se ne era andato come un pivello. Vagava nella notte e mentre guidava non faceva altro che pensare a quanto era accaduto. 143 Quasi non si accorse di essersi diretto verso il distributore dove ogni sera lavorava Sasha, la sua amica. Sì, forse Sasha era la persona migliore da incontrare, in quel momento. Aveva provato a parlarne con Fedele ma neanche lui ci aveva capito niente. Dio che casino. Da lontano riconobbe le forme perfette della ragazza e decise che sì, decisamente quella sera aveva bisogno di confidarsi con qualcuno. Azionò l'indicazione di direzione, decelerò leggermente ed entrò nell'area di servizio, dando un veloce colpo di lampeggianti in direzione di Sasha. Venerdì 2 giugno 2008 Aveva ancora in bocca il sapore della stracciatella, frammenti di cioccolato fondente tra i denti, un senso di euforico benessere sotto la lingua. Camminavano lenti nella notte tiepida, senza altro da fare che godere della reciproca presenza. Il gusto del branco, quello che le mancava così tanto. Robby forse non avrebbe capito questo suo bisogno di sentirsi parte. Robby non avrebbe sentito quanto fosse accogliente il fruscio sincronizzato di tante paia di jeans, passeggiando dalla gelateria fino al cortile della parrocchia. Non stava in disparte, ma stava in silenzio. Ascoltava il cicaleccio delle chiacchiere, le battute e le risate, osservava i volti di questi giovani puliti, di queste ragazze fresche. Sospirò profondamente, sollevando il volto verso cielo scuro, gli occhi chiusi. Annusò il profumo dell’estate in arrivo e sorrise fra sé, stringendosi nelle spalle. Stava bene. Anche senza di lui. «Com’è che si dice…? Un soldo per i tuoi pensieri.» 144 Sara trasalì. Aveva una voce profonda e timida, folti capelli castani e uno sguardo triste. L’aveva notato fin dall’inizio, fin dai primi giorni. E lui aveva notato lei. «Pensavo che la felicità è una cosa piccola. Che sta nelle cose piccole.» «Come un gelato fra amici e una passeggiata in città, ad esempio?» Sarà spalancò i grandi occhi scuri, sorpresa. «…come hai fatto? Max, sei un mago…» Lui le rivolse un sorriso diretto e imbarazzato insieme. «Forse sì. Forse c’è un po’ di magia quando riconosci in faccia a un altro i tuoi stessi pensieri. Si vedeva che stavi ascoltando questa… questa armonia.» Sara sentì una contrazione leggera attraversarle lo stomaco. Era esattamente quella la parola che stava cercando. Armonia. «E’ incredibile… sì, stavo pensando proprio a questo. L’armonia, e la semplicità. Voglio dire, non stiamo facendo niente di niente, tanti troverebbero questa serata noiosissima. Invece… sto proprio bene.» «Sì, anche io ci penso spesso. Penso che tante volte non siamo capaci di ascoltarla, l’armonia. Ci facciamo riempire le orecchie dai nostri casini, da tutte le cose che non vanno. Ma la bellezza non grida, se non fai un po’ di silenzio è difficile ascoltarla.» Sara contrasse le labbra in un’espressione pensierosa. Aveva ragione. Che sensibilità, questo ragazzo. Non poteva definirsi brutto, ma era troppo basso e magro per i suoi gusti, con quel grande naso aquilino. Eppure, quando parlava diventava improvvisamente bello. Bello… no, 145 dai. Facciamo affascinante. Facciamo attraente. Facciamo che la pianti subito di zoccoleggiare, ok? «Una volta ho letto una frase da qualche parte – continuò lui – forse la conosci. “Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia”. Credo che c’entri qualcosa con questo discorso. La delicatezza, l’armonia. Forse, non so… forse non può esserci amore se non sai ascoltarle.» Sara si sentì avvampare, suo malgrado. La conversazione stava prendendo una brutta piega. Max ci stava provando, evidentemente. Il problema era che le stava facendo molto piacere. Non era la prima volta, già da alcune settimane aveva iniziato un pressing blando, graduale, di fronte al quale Sara era arretrata con poca convinzione. Più volte aveva incrociato i suoi occhi fra le risate in cerchio nel cortile della parrocchia, nella fila alla biglietteria del cinema, nel tintinnare delle posate in pizzeria. Più volte si era sorpresa a cercarlo fra gli altri, a respirare meglio vedendolo scendere dall’auto e avviarsi verso di loro con quel suo passo leggero. L’aveva anche accompagnata a casa, qualche sera prima. Avevano parlato a lungo, come due amici. Due semplici amici. Lui non aveva fatto il minimo tentativo, il minimo approccio. Ma i suoi occhi, mentre la guardava, dicevano tante cose che Sara preferiva fingere di non capire. Erano arrivati nel cortile della parrocchia, intanto. Sara e Max erano rimasti un po’ indietro, e senza quasi rendersene conto si erano fermati accanto al vecchio platano, un po’ distanziati dagli altri, che erano andati a sistemarsi sui gradini davanti al grande portone, come sempre. Luca stava raccontando una barzelletta, tutti ascoltavano divertiti o 146 facevano le solite stupide battute. Francesca però se ne stava in disparte. Era una graziosa ragazza castana, con due luminosi occhi chiari e un bel carattere, sempre allegro. Stasera però non aveva fatto un solo sorriso, muovendosi solo perché trainata dal gruppo, come un peso morto. Simona, l’amica di sempre, non tardò a prenderla sottobraccio, guidandola pazientemente in mezzo agli altri. Sarà approfittò della scena per deviare la conversazione. «Max, tu lo sai cos’è che ha Francesca? Deve essere successo qualcosa, non sembra lei.» «Non lo sapevi? Fabio l’ha mollata.» «Cosa? Veramente? Ma… quando?» Francesca e Fabio erano una delle coppie più longeve del grupo. Stavano insieme da anni, e tutti li consideravano praticamente sposati. « Qualche giorno fa. Lei è uno straccio.» « …?» «Ufficialmente, è stata una decisione consensuale… sai, non andiamo più d’accordo, non so più perché stiamo insieme, ti voglio bene ma è meglio se restiamo amici…» «Mh. E ufficiosamente?» «Ufficiosamente, beh… tienilo per te ma… il problema è molto più semplice.» «…?» Max era in visibile difficoltà. Si schiarì la voce, distolse lo sguardo da Sara e lo fissò su Francesca. «Francesca è una ragazza meravigliosa, ma è molto… ortodossa, ecco.» 147 «Scusa Max, continuo a non capire.» Lui si agitò, con un sorriso nervoso. «Dài Sara… Insomma, è un fatto di sesso. Quello che non hanno mai fatto, più per volontà di Francesca che di Fabio.» Sara inarcò le sopracciglia, stupita più dell’imbarazzo di Max che della notizia in sé, peraltro inattesa. «Mi stai dicendo che Fabio l’ha lasciata perché lei non voleva fare sesso? Ma… stanno insieme da anni, se ne è accorto solo adesso?» Max la guardò, a sua volta sorpreso da questa obiezione. Difficile capirsi davvero, anche quando ci si sente così affini. «Beh Sara, devi capire che… insomma, sono cresciuti insieme. Stesso ambiente, stessi valori. Solo che Fabio ha… come dire… modificato alcune convinzioni, con il tempo. Lei invece è sempre stata molto rigida, molto ligia alle regole.» Sara era diventata improvvisamente molto seria. Max non riusciva a capire cosa stesse pensando, stavolta. Proprio per niente. In fondo sapeva pochissimo di questa splendida ragazza friulana. Anche se avevano parlato tanto, si muoveva ancora su un terreno minato. Lei lo sorprese chiedendogli a bruciapelo: «E tu, cosa ne pensi? Ha fatto bene, Fabio?» Domanda chiusa, terrificante. Lanciare la monetina. Testa o croce. Rosso o nero. Vincere o perdere, in due sole lettere. Sì, o no? Max prese qualche secondo per riflettere, percorrendo con l’indice la curva del naso. «Non lo so, Sara. Non lo so. Dipende. Non credo che ci sia un solo modo giusto. Quello che conta è l’armonia, fra loro. Qui c’era un attrito, 148 c’era un conflitto sul senso della sessualità. Non credo che il problema sia solo se fare o no l’amore. Da un certo punto di vista è quasi irrilevante, secondo me.» «Spiegati meglio.» Lo sguardo di Sara celava una luce furbetta, maliziosa, che Max non aveva mai visto. Sentì un’eccitazione imprevista al basso ventre. «Voglio dire che quello che conta secondo me è il modo in cui si vive l’unione sessuale, il significato che le si dà. Sara, rischierò di sembrarti eretico, ma io non sono così convinto di quello che ci dicono i vari don. Non sono convinto che fare l’amore sia peccato di per sé. Non credo che Dio soffra se un ragazzo e una ragazza si amano con il corpo, oltre che nell’anima, anche se non sono sposati. Credo che la cosa importante sia il modo in cui si amano, che cosa trovano e che cosa mettono nel sesso. In questo caso, credo che sì, che Fabio abbia fatto bene a lasciare Francesca, perché i casi sono due: o non hanno mai fatto l’amore e lui ne ha sofferto per anni, oppure l’hanno fatto sentendosi in colpa. Magari Francesca correva subito a confessarsi, magari ogni volta che la toccava lui sentiva che gli veniva concesso qualcosa. Magari lo faceva sentire volgare o fragile, magari lei si sentiva sporca e sbagliata. Ma quando due persone sentono nel sesso un dono totale e generoso, una bellezza senza paragoni… quando anche il piacere è un dono di Dio, che si accoglie insieme con gioia… beh Sara, credo che sia sbagliato non farlo». Restarono in silenzio per alcuni lunghissimi secondi, durante i quali Sara cercò invano di domare l’esplosione di pensieri e di emozioni che quelle parole avevano scatenato al centro del suo stomaco. Poi, 149 dimentica degli amici, di Fedele, delle parole dei preti, delle sue paure, delle sue convinzioni, fece un passo avanti. E lo baciò. 150 CAPITOLO SESTO Dove accadono eventi importanti vicino al pirografo Data: Giovedì 8 giugno 2000 DA: dr. Fedele ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]); Discipulo ([email protected]) CC: Ciambellano ([email protected]) Oggetto: complimentationes Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas ISTITUTO DI FIGOSOFIA E SESSUOLOGIA MONOGAMICA Ordinario: dr. Fedele Della Passera Pregiati colleghi, complimentationes a Voi tutti! Codesto Istituto che mi pregio di dirigere è immensamente grato a tutti Voi della fervida e feconda attività prestata nella passata sessione di studi tenutasi durante il Concilio in Sede Hdemica. Il materiale da Tutti prodotto – permettetemi una veloce digressione riassuntiva – ha impegnato il Senatus in una lunga e a volte 151 contrapposta discussione: notevoli di interesse gli spunti sagaci prodotti dal semper munificus Libero Ricercatope, il quale come costumanza si è distinto per la cristallina arguzia. Ma non me ne vorrete, augusti Colleghi, se oggi spendo un encomio per l'opera invero mirabile prodotta dal giovin virgulto che tanto virtuosamente cresce in seno al conSesso Nostro. Non è mistero che queste sono ore tristi per il Senatus Hdemico, la violenta e ingiustificata presa di posizione di uno dei Patres ha prodotto un'insana lacerazione che forse – in Vulva Veritas – forse soltanto il tempo e il Nobile Tubero potranno risanare. Ma l'amorevole e ammirevole impegno del Nostro amato Discipulo, orfano del proprio tutor di riferimento, ha colmato i nostri cuori, facendoci sperare e credere che il Verbo Hdemico, anche in questo momento di tempesta, non si perderà mai. Vi lascio alla consumata maniera del cerimoniale Hdemico, non prima di aver reso edotte le SS.VV. del fatto che al ConSesso di domani Noi non saremo purtroppo presenti: difatti saremo al di fuori del Sacro Confino Regiense impegnati a trascorrere un intero weekend al mare con la morosa, sed pronti di spirito a dissetarci leggendo delle mirabolanti gesta che – ne siamo certi – Voi saprete perpetrare alla prossima occasione. in Vulva Veritas Fedele Dr. Della Passera - figosofo Giovedì 8 giugno 2000 Sulla parete di fronte a Pamela campeggiava in formato gigante la sigla “ACR”. Azione Cattolica Ragazzi. Tre lettere colorate disegnate in 152 tre dimensioni, al centro di un oceanico foglio di cartone bianco. Intorno, decine e decine di piccole mani sporche di vernice avevano lasciato la loro impronta. Sotto ciascuna di esse, scritti con l’incerta grafia dell’infanzia, i nomi dei bambini. Marco, Veronica, Maicol, Melanie… Bel nome, Melanie. Come Melanie B, delle Spice. Se avesse avuto una bambina forse l’avrebbe chiamata Melanie. A patto che non gli diventasse come quei mocciosi dell’ACR, insopportabili con le loro canzoncine e i loro cartelloni colorati. Come quelli che aveva tutto intorno a sé. Il ragazzo sorridente con la scritta “Il mio amico Gesù”. L’aquilotto con la chitarra “Canta insieme a noi”. I bambini stilizzati a comporre la scritta A-M-I-C-I-Z-I-A. Il manifesto dei “Campi Scuola 2000”. Pamela li detestava, letteralmente. Sua madre insisteva tanto perché frequentasse la parrocchia, ma dall’anno prossimo non aveva nessuna intenzione di tornarci. Anche Francesca la pensava come lei, era ora di liberarsi da quella palla micidiale. Delle sue compagne di scuola ormai non ci andava quasi più nessuna, e anche quelle poche lo facevano solo per far stare buoni i genitori, o perché andavano dietro a qualche educatore. Era assurdo continuare a farsi trattare come una bambina, stare a sentire gente vecchia già a vent’anni, capace solo di ripeterle che doveva dire le preghiere e non fare sesso con i ragazzi. E poi, adesso che aveva Pier, un ragazzo di ventiquattro anni con la macchina e un sacco di cose da fare… Ma dove era andata a cacciarsi Francesca? Oggi non era passata a prenderla, le aveva mandato uno strano messaggino, in cui diceva solo che si sarebbero viste a catechismo. Con Francesca non esistevano segreti, se avesse avuto qualche problema lo avrebbe senz’altro saputo. Però nelle ultime 153 settimane, da quando aveva conosciuto Pier, le era sembrata un po’ strana. Chissà, forse era invidiosa. O forse non poteva capirla, lei che andava ancora dietro a quel cretino della terza B. Un bamboccio, gliel’aveva detto tante volte. Ma fino a quando non conosci un uomo per davvero non te ne puoi rendere conto, riflettè Pamela sorridendo fra sè, mentre le si materializzava davanti il viso di Pier con la sua barba di tre giorni, così sexy. Intanto la sala dell’oratorio in cui si tenevano questi ultimi incontri prima delle vacanza estive aveva iniziato a riempirsi di sedicenni in maniche corte. Sara era arrivata da pochi minuti e scherzava con alcuni ragazzi, già seduta nel cerchio di sedie. Pamela di solito si andava a mettere proprio all’estremità opposta, non proprio di fronte per evitare di incrociare troppo spesso il suo sguardo, ma sempre abbastanza lontana. La sua presenza le dava sui nervi. Forse perché era bella, per il modo incantato in cui la guardavano quegli sfigati dei maschi suoi coetanei. Ma c’era qualcosa di più, non era solo invidia, anzi non era sicuramente questo. Perché Pamela sapeva di non avere nulla da invidiarle. A partire proprio dal moroso. Lei aveva Pier. Bello, fighissimo, simpatico e sempre vestito da dio. Lei invece stava con quello straccione, un vero sfigato, come il resto di quella compagnia. Aveva chiesto a Pier come facesse a girare con gente simile, ma lui era stato evasivo. Tra le righe aveva capito che era successo qualcosa, dopo la serata in cui erano usciti insieme. Doveva aver litigato, o qualcosa del genere. In particolare con quel Fedele – che nome ridicolo. Dalle parole di Pier si era capito che erano stati piuttosto amici, vai a capire 154 come e soprattutto perché. Ma adesso c’era soltanto lei, come era giusto che fosse. Con un piccolo sforzo Pamela riprese il filo dei suoi pensieri, guardando il caschetto nerissimo e lucente di Sara scuotersi al ritmo della sua risata cristallina. Anche oggi, con il caldo che faceva, portava jeans lunghi leggermente sbiaditi e un’impeccabile camicetta azzurra ben abbottonata, che metteva in risalto il seno senza la minima volgarità. Era l’immagine ideale della ragazza da oratorio. Solare, sorridente, con una risposta sempre pronta per tutte le domande. Una così sembrava completamente inattaccabile, del tutto priva di punti deboli. Ecco, forse era questo che le dava così fastidio. Questo suo essere sempre così perfettina, allegra e determinata. Sempre pronta a correggerti con un sorriso falso. Piuttosto che fidarsi di una così Pamela avrebbe preferito morire. Bigotta di merda. Innervosita, si alzò con il cellulare in mano, decisa a scoprire dove fosse andata a cacciarsi Francesca. Varcò la soglia della grande sala dell’oratorio e scese le scale. Il catechismo stava ormai per iniziare, probabilmente sarebbe rientrata in ritardo, ma non gliene importava gran che. Anzi, era quasi meglio, tanto per far capire a quella che non temeva di certo i suoi rimproveri. Passò qualche minuto in cortile nel tentativo di chiamare Francesca, ma il telefono risultava sempre non raggiungibile. Se avesse scoperto che era in giro con il tizio di terza B ci sarebbe rimasta male. Non per la cosa in sé, a lei avrebbe fatto piacere se anche Francesca si fosse trovata un ragazzo, anche se avrebbe preferito fosse qualcuno di più maturo. Magari non al livello di Pier, ma qualcuno con cui poter uscire in quattro. Ci sarebbe rimasta male se 155 l’avesse fatto senza dirle niente, senza permetterle neanche di coprirla con i suoi genitori, se per caso ce ne fosse stato bisogno. Lei di Pier le aveva detto tutto, fin dall’inizio. Le aveva raccontato di come l’aveva conquistato, di quando avevano fatto l’amore per la prima volta, di quanto era stato dolce. Le aveva anche detto di come lui aveva lasciato Maria, la sua ex, della gita al mare, della sua macchina fantastica e del modo incredibile in cui la guardava. Francesca era stata subito entusiasta, una vera amica. Come se anche lei avesse vissuto tutto questo, la sua gioia e quella di Pamela erano una cosa sola. Questo all’inizio. Ma nell’ultima settimana… Pamela compose rapida un messaggio “Dve 6? Xke nn 6 a catec? Nn sarai con quello? T asp qui alle 4”. Infilò il cellulare in tasca e risalì le scale, verso la sala dell’oratorio. Nel corridoio sul quale si aprivano le porte delle varie stanze non c’era più nessuno. Come previsto, avevano già iniziato. Pamela sostò ancora qualche secondo, lottando contro la tentazione fortissima di girare i tacchi, salire sul suo scooter e tornarsene nella sua camera. In quel preciso istante la porta si aprì e ne uscì Sara, con il cellulare all’orecchio e un sorriso strano sul volto. Si guardava intorno in un modo che a Pamela parve molto inquieto. Anzi, sospettoso. Il tipico sguardo di chi non vuole farsi sorprendere. Quando Sara la vide stirò ulteriormente il sorriso e si girò velocemente, in modo da nasconderle il volto. Non bastò tuttavia a impedire a Pamela di notare il rossore che ne aveva istantaneamente inondato la pelle chiara. Sara infilò la porta della stanza del pirografo, accanto a quella in cui si svolgeva l’incontro di catechismo. Stavolta Pamela non potè resistere alla tentazione. 156 Attese un paio di secondi poi si avvicinò alla porta. Come tutte le porte di tutti gli oratori del mondo, era molto sottile. «…no, tranquillo, avevamo appena cominciato. E poi se anche l’incontro dura dieci minuti in meno non piango. ‘Sti sedicenni… sono teneri quando vogliono, però… che età ignorante!» Pamela lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Tutti quei sorrisi, quel fare da amicona complice. Ecco quello che pensava davvero di loro. Falsa, come tutti i bigotti. Represse l’istinto di mandarla affanculo e andarsene. Voleva capire chi c’era dall’altra parte. Forse quel coglione dell’amico di Pier. «Senti, volevo chiederti una cosa…» la voce si era abbassata ancora. Era quasi un sussurro, Pamela faticava a distinguere le parole. «…Tu… era… sa fai?» Pausa. Risata cretina, imbarazzata. Voce che si alza un po’, fintamente arrabbiata. «Dài, scemo! Dico davvero, cosa fai domani sera?... no, tu prima dimmi se hai altri impegni… ok. Perché… beh, domani Robby non c’è. Sì, lo so che di venerdì non c’è mai, ma domani sta proprio via a dormire. Parte per Ancona, va al concerto di Vasco con il suo amico Pier…» Pamela trattenne il respiro, gli occhi sbarrati. Cosa? Chi? Pier? Domani? Impossibile, domani doveva portarla al cinema, poi a ballare, poi… Quel bastardo, vuoi vedere che aveva organizzato senza dirle niente? Magari aveva fatto la pace con quel Fedele… cioè Robby, la stronza l’aveva chiamato Robby… Pamela fece un profondo respiro. Doveva restare calma, ascoltare bene e non farsi beccare. 157 «…hè non vieni cena da me? Non sono una gran cuoca, però… che ne dici?» Hai capito la catechista? Tante belle parole… la castità, la fiducia, il progetto di vita, e poi… Bè, a pensarci bene era inevitabile che uno sfigato come quello alla fine si ritrovasse con un bel paio di corna. Chissà chi era l’altro, magari un bigotto come lei… A tutti questi pensieri Pamela non dedicò più di un microsecondo. In realtà non gliene importava proprio niente di Sara, nè della sua ipocrisia, né di quello che faceva. Però questa storia del concerto andava chiarita, e subito. Ritornò veloce sui propri passi, uscì fuori e chiamò Pier. «Ciao Pam!» «Dov’è che vai tu domani?» «Cosa?» «Non fare finta di non aver capito. Avevi promesso di portarmi al cinema, ti ricordi? E invece scopro che te ne vai a sentire Vasco con quello sfigato del tuo amico. Sei uno stronzo.» «Cosa? Dove? Aspetta, aspetta, Pam… non ci capisco niente. Cos’è che hai detto, che vado a sentire Vasco?» «Sì, con quel Fedele, ho sentito la sua morosa che lo diceva al telefono.» A Teenva servirono almeno cinque minuti di accurate spiegazioni per tranquillizzare Pamela, che alla fine rientrò nel gruppo di catechismo con un buon quarto d’ora di ritardo. Mentre osservava Sara leggere un passo dell’ultima enciclica del papa e iniziare la discussione con quel suo sorriso di plastica, Pamela annuiva soddisfatta. Le avrebbe fatto 158 alcune interessanti domande sulla fedeltà, era curiosa di ascoltare come avrebbe risposto. Teenva aveva chiuso la comunicazione con Pamela già da venti minuti, ma ancora non riusciva a smettere di pensare a quello che gli aveva detto. Tra accuse, risposte e rassicurazioni, era riuscito a ricostruire quanto era accaduto, o almeno così gli era sembrato. La prima notizia importante era che Sara, la morosa di Fedele, era anche la catechista di Pamela. La seconda, che aveva accolto con una certa soddisfazione, era che Fedele sarà stato anche fedele, ma la sua morosa non lo era altrettanto. Il giusto premio per la sua codardaggine. In fondo Teenva lo aveva sempre sospettato: il suo stesso soprannome, e il modo in cui andava a cercarsi, deliberatamente, mille occasioni per tradire la fidanzata, uscendone sempre per un pelo. Lui non era fedele a Sara. Lui era fedele solo a se stesso, all’immagine ineccepibile di sé che si era creato. Dal suo punto di vista l’infedeltà era un fallimento, una debolezza. Sara non c’entrava niente. Era fedele per orgoglio, non per amore. Una donna queste cose le sente, e questo era il risultato. Giusto, più che giusto. Una grande lezione, per quel professorino di merda. C’era però un terzo elemento, che Teenva aveva impiegato qualche minuto per ricostruire. La storia del concerto. Se non aveva capito male, Fedele aveva detto a Sara che l’indomani sarebbe andato al concerto di Vasco, ad Ancona. Con lui. Una balla clamorosa. Perché? La mail che aveva mandato quella mattina, a rileggerla adesso, era molto interessante. Alla morosa aveva detto di essere al concerto di Vasco con Teenva. All’Hdemia aveva detto di essere al mare con la morosa, 159 anche questa una grossa balla. Una sorta di doppia copertura, contando sul fatto che Sara e gli amici non si conoscevano, quindi non avrebbero potuto in alcun modo sputtanarlo parlandosi. Ma aveva fatto i conti senza Pamela… Evidentemente anche Fedele nascondeva qualcosa, e quel qualcosa sarebbe accaduto l’indomani. L’indomani notte, probabilmente, perché tutta quella messinscena aveva una particolarità: copriva due intere giornate, dal venerdì mattina al sabato sera. Perché Fedele avrebbe dovuto passare la notte fuori, e di nascosto? Cosa poteva esserci di così segreto da non volerne parlare né alla fidanzata né agli amici più cari? Che cosa poteva andare contro sia all’Hdemia che a Sara? La consapevolezza dell’unica risposta possibile si fece strada gradualmente nella coscienza di Teenva. Si sorprese a fissare un punto all’orizzonte di fronte a sé, oltre la parete, con la bocca aperta e un ghigno a metà fra l’incredulo e il diabolico. Gli era venuta un’idea. Se conosceva bene Fedele e il suo modo malato di ragionare, questa era un’occasione irripetibile. Gli avrebbe ricacciato in gola tutte le sue prediche del cazzo. E poi sarebbe stato a guardarlo soffrire. Gli serviva solo un piccolo aiuto. Prese il cellulare e compose un SMS. “Pam, ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Poi ti spiego, giuro. Ma devi farla subito. Portami il telefonino di Sara” 160 CAPITOLO SETTIMO Dove si comprende la potenza dei desideri Data: giovedì 08 giugno 2000 DA: Libero Ricercatope ([email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Dr. Fedele ( [email protected]); Discipulo ([email protected]) CC: Ciambellano ( [email protected]) Oggetto: Accolitus Hdemicus Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas Libero Ricercatope Associato expertus in clitoridologia Colleghi, mi accodo volentieri all’encomio che il nobile padre dr. Fedele ha testè sagacemente espresso in favore del valente Discipulo. Seppur venati di una innegabile dose di ingenuità, i contributi che il giovin virgulto ha saputo portare al recente Convivio sulla Tricotica Quaestio hanno colpito favorevolmente il ConSesso intero. Se a 161 questo aggiungiamo le pregevolissime prestazioni sfoderate in occasione delle recenti serate sperimentali, riteniamo che i tempi siano ormai maturi affinchè l’Hdemia tutta riconosca anche formalmente al Discipulo i progressi compiuti. Formuliamo pertanto al Senatus Hdemico formale proposta di elevazione del valente Discipulo al rango di Accolitus Hdemicus, passo che precede di poco la solenne nomina a Doctor, per la quale riteniamo necessario un ulteriore periodo di preparazione. In attesa di conoscere il Vostro parere in merito, cordialmente salutiamo levando come sempre il calice alla salute del Pregiato Tubero in Vulva Veritas Libero Ricercatope giovedì 8 giugno 2000 Fedele, leggendo la mail del Libero Ricercatope, pensò con amarezza che la guerra si era spostata sulla pelle del Discipulo. Dopo lo scazzo della settimana precedente non si era più saputo niente di Teenva. Per quanto continuassero a mettere il suo indirizzo nelle mail, come un blando segno di pace, lui continuava ad opporre un silenzio che sapeva tanto di definitivo. Fedele non aveva dubbi sul fatto che Teenva 162 continuasse comunque a leggere le mail e a seguire le vicende dell’Hdemia. Non avrebbe quindi mancato di notare l’offensiva che questa, con un accordo tacito ma unanime, stava sferrando sul povero Discipulo – anzi, Accolitus - per sottrarlo alla potestà di Teenva. Solo pochi giorni prima Fedele non avrebbe ritenuto possibile che chiunque – Hdemia, sport o ragazze – potesse sostituirsi a Teenva nella gerarchia di influenze sul giovane Manuele, ma evidentemente si sbagliava. Il Discipulo sembrava aver fatto la sua scelta, se non altro per il modo in cui si era comportato recentemente. Sempre presente, più che mai attivo, senza una sola parola su Teenva e su quanto era successo. Forse anche lui si era sentito in qualche modo tradito dal suo mentore, che non lo aveva più degnato della minima attenzione dopo la serata al Los Angeles. O forse era davvero cresciuto, acquisendo progressivamente maggiore autonomia. Forse, semplicemente, si era accorto che senza Teenva non si stava poi così male, che c’era più spazio per lui, per la sua individualità. Autostima, forse. Ipotesi affascinanti, sostenute da un fatto inconfutabile: il neo-Accolitus si muoveva ormai in modo del tutto indipendente da Teenva, il quale aveva incassato la cosa senza opporre la minima resistenza. Quella ragazzina l’aveva completamente accecato. Chissà, forse sarebbe rinsavito vedendo la terra bruciata che si stava espandendo intorno a lui. Fedele ci sperava sul serio. Gli mancavano Teenva, la sua complicità, il suo sorriso beffardo. Gli equilibri fragili e complessi della loro amicizia erano il motore dell’Hdemia, il carburante necessario a far progredire quel gruppo improbabile. Fedele dovette ammettere con se stesso, amaramente, che senza Teenva l’Hdemia difficilmente sarebbe sopravvissuta a lungo. 163 Scosse lentamente il capo, rivedendo di fronte a sé lo sguardo ciecamente determinato dell’amico, la sua rabbia assoluta, priva di ogni proporzione. Si era mosso qualcosa, in Teenva. Quanto c’entrasse Pamela in tutto questo, Fedele non avrebbe saputo dirlo. C’era di più, c’era qualcosa che scricchiolava da tempo, qualcosa che chiedeva soltanto l’occasione giusta per crollare. Lui non aveva saputo ascoltare, non aveva colto i segni di quanto stava per accadere, finchè non era accaduto. Bell’amico. Nel momento più importante era andato là con la sua verità in bocca, e aveva fatto esattamente quello che ci si sarebbe aspettati da lui. Una bella predica. Bravo Fedele. Fedele. A chi sei fedele, Fedele? Di chi ti importa? Di Teenva, del tuo amico? O anche lui deve oscillare entro i confini precisi delle tue convinzioni? E quando ne esce, Fedele, cos’è che conta? E cosa succede quando sei tu che ne esci? Strinse forte gli occhi, alzò una diga silenziosa dentro di sé. Non avrebbe permesso alla sua paura di tracimare. Non ora, non oggi. Controllò l’orologio. Le 7.05. Treno alle 8.02, tre ore abbondanti per arrivare ad Ancona. Doveva muoversi. Spense il PC e la coscienza, diretto verso la doccia. In corridoio incrociò la madre, ancora in camicia da notte. «Dài Robby, se non ti sbrighi perdete il treno.» Sì mamma tranquilla ce la faccio, sì Sara la passo a prendere io, sì ho preso la crema solare, lo so che poi mi scotto, non preoccuparti ti chiamo appena arriviamo. Passò almeno tre minuti in contemplazione davanti al cassetto delle tshirt. Non ricordava una sola volta in cui avesse impiegato più di trenta secondi per decidere cosa mettersi. Aprì, scartò e ripiegò alla meno 164 peggio almeno quattro magliette prima di optare per quella azzurra con fascia orizzontale blu della Reebok. Con sincero stupore sorprese un pensiero attraversargli la fronte “si intona con i miei occhi”. Se ne vergognò e si sentì improvvisamente molto debole. Ma era una bella sensazione. Per una volta, non si sarebbe identificato soltanto nelle parole e nelle idee. Adesso si gioca a soldi veri, Fedele. Sguardi, odori. E movimenti, proporzioni, ombre. Un altro sport. Jeans leggeri, pullover di cotone blu per la sera, il vecchio Jolly Invicta viola con la copertura balneare, che sarebbe rimasto nel baule della macchina: telo da mare, costume, creme abbronzanti e ben nascosto in fondo un altro zainetto, più piccolo, che avrebbe viaggiato fino ad Ancona. Portafogli, occhiali scuri, lettore CD, cellulare. Una copia de La storia Infinita con dedica per Valentina. E un pacchetto di preservativi. Scatole cinesi, una dentro l’altra, fino alla verità. Dall’innocuo involucro liceale al contenuto del bravo moroso, fino allo zainetto nascosto del seduttore telematico e infine, nel profondo di quello, l’ultima scatola e la sua realtà inoppugnabile. L’essenza di tutto. Si ri-vergognò, sorridendo compiaciuto. Alle 7.45 l’utilitaria di Fedele era parcheggiata in una piccola laterale di via Turri, a pochi metri dalla stazione. Estrasse lo zainetto blu dal Jolly e ripose quest’ultimo nel baule. Chiuse a chiave l’auto. Inspirò a fondo e guardò il cielo azzurrissimo, che prometteva una fantastica giornata. Sì, una fantastica giornata. Con passo inaspettatamente leggero si avviò a testa alta verso l’ingresso della stazione, guardandosi intorno come se vedesse Reggio per la prima volta. Il viavai di macchine, il volo dei passeri tra gli alberi del viale. I volti indaffarati 165 degli uomini in giacca e cravatta, l’espressione stanca e indecifrabile del nordafricano appoggiato al muro. Tutto aveva colori nuovi, note squillanti, urgenti. L’aria frizzante del mattino solleticava le guance e i bronchi come la carezza eccessiva di un bambino. Fedele non aveva mai provato una simile eccitazione, gli effetti inebrianti dell’avventatezza. Il treno arrivò puntuale sul binario quattro. Prese posto accanto a una donna che parlava al cellulare in tono concitato, tra i bottoni del tailleur e un’acconciatura inappuntabile che concedeva qualcosa alla femminilità ma niente all’emozione. Non potè impedirsi di controllare a sua volta il cellulare, per l’ennesima volta. Ancora nessun messaggio di Sara, né chiamate. Non la sentiva dalla mattina precedente. Strano, stranissimo. Doveva avere fatto uno sforzo enorme per non fargli mille domande su quella trasferta, per non tempestarlo con la gelosia glaciale dei suoi messaggini e delle telefonate “di saluto”. Con tutti i suoi difetti, Sara era una ragazza eccezionale. Era stata capace di mettere a tacere quello che Fedele sapeva essere un forte istinto possessivo, per concedergli la fiducia che tante volte lui aveva invocato come indispensabile per far crescere il loro rapporto. Aveva capito che allentare le redini era l’unico modo per consentirgli di avvicinarsi di più a lei, per fargli superare il solco che ancora manteneva le loro vite su piani sostanzialmente così distanti. Lei aveva fatto il suo pezzo di strada, e lui… Interruppe brutalmente il flusso dei pensieri sull’orlo della diga, un attimo prima che tracimassero. Avrebbe retto. Non si sarebbe fermato. Contemplò per un attimo la possibilità di chiamarla, ma la sola idea lo fece sentire a disagio. Fece per scriverle un 166 messaggio, ma improvvisamente si trovò a corto di menzogne. Scorse i messaggi ricevuti e aprì l’ultimo di “Valerio”, arrivato alle 2.30 di quella mattina: E’ quasi domani. Giurami che questa notte prima o poi finirà. Se Sara non si faceva sentire, poco male. Fin che la barca va, lasciala andare. Alle 11.12 il treno uscì dalla stazione di Falconara Marittima. Dieci minuti all’arrivo. Una buona metà dei passeggeri era scesa a Bologna, compresa la donna manager. Fedele aveva dovuto detestare lei e il suo tono assertivo soltanto per quarantacinque minuti. Poi il treno aveva continuato a seminare viaggiatori lungo tutta la riviera romagnola, Pollicino meccanico dispensatore di nonne apprensive e bambini grassocci. Rimini, Rimini Miramare, Riccione, Cattolica, Gabicce, in un tripudio di saporite vocali romagnole mischiate con la quasi totalità delle parlate italiche. Solo dopo Senigallia aveva iniziato a regnare il silenzio, e Fedele aveva potuto finalmente sfilarsi le cuffie e spegnere il lettore CD. Il timbro profondo di De Andrè aveva ammorbidito la cacofonia di quel viaggio per oltre due ore, offrendogli come sempre tonnellate di pensieri su cui dirottare prudentemente la propria attenzione. All’inizio aveva persino provato ad ascoltare Rewind, l’ultimo live di Vasco che aveva acquistato controvoglia proprio il giorno prima. Evidentemente a Valentina piaceva molto, era necessario mostrarsi preparati. La cosa lo aveva sorpreso, perché in chat avevano parlato spesso di musica ma Vasco non era mai uscito, né in bene né in male. Sapeva della sua passione per De Andrè e Fossati, si erano accapigliati su De Gregori e l’ultimo Baglioni, avevano condiviso un amore viscerale per la chitarra di Mark Knopfler. Ma non gli sembrava 167 tipo da Vasco Rossi. Dopo quindici minuti di ascolto aveva rinunciato. Non faceva per lui. Bravo, per l’amor di Dio, ma un po’ troppo casinista per i suoi gusti. Aveva estratto dal porta CD “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, poi aveva chiuso gli occhi. La scritta “Ancona” bianca su fondo blu attraversò più volte il finestrino, sempre più lentamente, accompagnata dal familiare cigolio dei freni. Fedele raccolse il suo zainetto, fece un respiro profondo e si avviò lungo il binario, poi nel sottopassaggio, infine nell’ingresso della stazione di fronte alle biglietterie. Cercava fra i volti dei viaggiatori il profilo digitale di Valentina, con un senso curioso di irrealtà, come se stesse osservando la scena di un film, come se non fosse lui quel ragazzo alto in jeans chiari e maglietta azzurra che si guardava intorno con aria smarrita. Finchè la vide. A una decina di metri da lui, fece capolino fra il gigantesco zaino di un biondo turista straniero e il profilo incravattato di un uomo d’affari. Incrociò il suo ampio sorriso, e tutta la scena gli si inchiodò nella mente con una forza inaudita. Registrò la voce dello speaker – Ancona, stazione di Ancona – la corrente d’aria fra la porta d‘ingresso e quella di accesso al primo binario, il riflesso della luce sul pavimento di piastrelle grigie, l’azzurro del cielo incastonato in una fascia di orizzonte, attraverso i vetri a scacchi delle porte della stazione. L’immagine di Valentina crebbe progressivamente, mano a mano che i suoi piedi si muovevano automaticamente verso di lei, mentre un sorriso da perfetto idiota, dotato di vita propria, prendeva possesso delle sue labbra. Restarono uno di fronte all’altra 168 senza dirsi niente, per alcuni interminabili secondi, durante i quali la stazione continuava insensibile a vorticare intorno a loro. «Allora, sei tu» disse lei. Lui non disse niente. Lei era bassa, più di quanto avesse immaginato. Ed era bella, più o meno come aveva immaginato. Aveva pensato di abbracciarla, magari di baciarla con trasporto. Aveva pensato che il solo vederla avrebbe innescato una reazione nucleare, che Ancona sarebbe stata spazzata via in un istante dalla potenza di quell’incontro. Invece, c’era mezzo metro di paura compressa fra loro due. Mezzo metro che irrigidiva i legamenti. «Beh… ciao.» «Ciao Robinhood. Hai fatto buon viaggio?» Si allungò verso di lui, che dovette ingobbirsi un po’ per ricevere un bacio sulla guancia e il sentore leggero di un profumo fresco. Lo prese per mano, riversando energia e luce nella voce. Ecco Valentina, pensò Fedele. Eccola che arriva. «Dài, principe dei ladri! Vieni, che ti faccio vedere la mia città. È una bellissima giornata, siamo stati fortunati.» *** Teenva rigirò fra le mani il piccolo Nokia 3310. Pamela era stata eccezionale, come borseggiatrice. Poco più di un’ora dopo la loro telefonata si era presentata in scooter sotto casa sua, con il cellulare di Sara infilato nella tasca posteriore degli short. Per prenderlo, Teenva aveva dovuto necessariamente abbracciarla e passare le mani su quelle 169 natiche di marmo, mentre lei gli infilava ridacchiando la punta della lingua nell’orecchio destro. Dopo – almeno una piacevole mezz’ora dopo – aveva dovuto spiegarle con estremo dettaglio i suoi sospetti e i suoi piani. Lei aveva sgranato gli occhi, poi si era fatta una bella risata. “Certo che come amico sei proprio uno stronzo!” aveva concluso divertita. Quindi si era messa a cavalcioni su di lui, ed era passata un’altra mezz’ora prima che tornasse a casa. A quel punto Teenva aveva quasi dimenticato il cellulare di Sara. Svuotato e felice, si era fatto una bella dormita e aveva passato la serata davanti alla tv, fantasticando durante le pubblicità sulle imminenti vacanze estive, che avrebbe trovato il modo di passare in barca con Pamela. Oggi, invece, il suo caro amico Fedele occupava gran parte della sua attenzione, sicuramente più di quanto riuscisse a fare il testo di Diritto Penale. Aveva studiato con cura il cellulare di Sara, soprattutto nella sezione dei messaggi. Alcuni in particolare, arrivati proprio quella mattina da un numero non presente in rubrica, confermavano il contenuto della telefonata intercettata da Pamela. “Allora è confermato? Sono da te per le 20.30. Ti bacio. Ovunque.” “Non rispondi, devo preoccuparmi? Guarda che mi ero già fatto parecchie idee…”, “Non riesco a contattarti. Se non mi richiami passo da casa tua per sicurezza nel pomeriggio. A dopo.” Teenva era decisamente sddisfatto, in un modo perfido su cui non perse tempo a farsi troppe domande. Doveva pensare bene a come muoversi, dosare attentamente le parole ma soprattutto i tempi. Osservò l’orologio: le 11.30. Assolutamente troppo presto. Posò il cellulare e si concentrò di nuovo, faticosamente, sulle aggravanti generiche. 170 *** Uscendo nel sole abbacinante del mezzogiorno anconetano, Fedele riacquistò un minimo di presenza di spirito. Valentina lo trascinava per la mano destra, con lo sguardo acceso e un senso di euforia palpabile e fanciullesco. Portava pantaloni leggeri ma lunghi, e stivaletti bassi. Una giacca corta di pelle bordeaux le fasciava la vita sottile, lasciando scoperti i fianchi piccoli e tondeggianti. Era magra, ma non secca. Un metro e sessantatrè, stimò Fedele, di buona sostanza. «Eccoci qua. Che dici, ci facciamo un giro?» Si era fermata di fronte a una moto. Cioè. Non semplicemente una moto. La scritta sinuosa Sportster in bianco sul piccolo serbatoio sormontava tre cifre: 883. E, più sotto, il marchio. Harley Davidson. A Fedele sfuggì un’imprecazione fra i denti. «E’ tua, questa?» «Sì. La mia bambina. Ti piace?» Valentina grondava fierezza da ogni ricciolo. C’era autentico affetto nel modo in cui passava la mano sulle cromature, beandosi dello sguardo stupito di Fedele. «Non me ne avevi mai parlato…» «Come no? Lo sai benissimo che adoro le moto.» «Sì ma… cioè, questa non è una moto… è…» Fedele annaspò in cerca della parola giusta, che non trovò. Scosse la testa, guardando il castano luminoso degli occhi di Valentina. «Mi avevi detto solo che hai una ‘vecchia moto da strada’…» 171 «Era la verità. E’ un modello del ’57, ha 43 anni. Però li porta bene, vero?» Strizzò l’occhio e porse a Fedele un casco integrale blu. Con un gesto rapido del collo fece roteare indietro la lunga chioma e infilò rapida il suo casco, verde scuro come la moto. Fedele rimase inebetito a guardarla montare in sella, così minuta e sicura su quel bestione da 250 kg. «Dai Robinhood, cosa aspetti?» Si arrampicò goffamente sulla sella, un po’ impacciato. Non sapeva bene dove mettere le mani. Alla fine decise di appoggiare poco più dei polpastrelli sui fianchi di Valentina, timidamente. Il bicilindrico americano fece sentire la sua voce profonda con una vibrazione che attraversò la colonna vertebrale di Fedele come un brivido di piacere. Pochi istanti dopo il porto scivolava sulla loro destra, con il grande arco di Traiano in primo piano sullo sfondo del cielo, velato di impalpabili nuvole bianche all’orizzonte. Fedele aumentò impercettibilmente la superficie dei palmi a contatto con i fianchi di Valentina, che rispose immediatamente staccando la mano sinistra dal manubrio. Prese la mano destra di Fedele e l’accompagnò fino all’altezza del proprio ombelico, senza lasciarla. L’aria salmastra penetrava nel casco di Fedele, insieme a immagini sfumate e luminose, chiazze verdi e blu e luce e ombra e vento e sole e voglia e pelle e sangue caldo. Avanzò anche la mano sinistra, premendo il proprio petto, dolcemente, sulla schiena di lei. La moto accelerò progressivamente, volteggiando sulla strada tortuosa 172 a picco sul mare, mentre Fedele riguadagnava progressivamente la lucidità necessaria a rendersi conto di quanto fosse, in quel preciso momento, pieno e vivo e presente. Felice, forse. Quando si fermarono, pochi minuti dopo, erano nello spiazzo di fronte al Duomo, sulla collina che sovrasta la città. La facciata romanica si stagliava bianca e rossiccia sull’azzurro del cielo. Regnava un silenzio severo, che intimava rispetto. Nessun turista nella calura del mezzogiorno. Si avvicinarono ai grandi leoni che sorreggevano da secoli sulla schiena il peso delle colonne. «Allora, ti piace?» «Sono imbarazzato per la mia ignoranza. Pensavo che Ancona fosse una città triste e squallida… E’ splendida, tutta arrampicata sulle colline, con il mare sotto. E questo Duomo… adoro il romanico. È così essenziale, concreto. Si sente il peso del tempo. Mi fa sentire fragile.» «E ti piace sentirti fragile?» sorrise maliziosa Valentina. «Non ci avevo mai pensato… ma sì, credo che mi piaccia. Potermi permettere di essere fragile, qualche volta. Voglio dire, guardi questi mattoni, pensi che stanno lì da quasi duemila anni… e tu sei una canna al vento. Puoi lasciare a loro l’eternità, l’obbligo di essere indistruttibili. È riposante.» Valentina lo guardò in un modo strano, difficile da decifrare, con i riccioli biondi incendiati dal sole. Poi scosse il capo in una risata sommessa e divertita. Fedele, che pensava di avere detto qualcosa di molto serio e profondo, ne fu sorpreso. «Robby… tu pensi troppo. Sei così buffo, e non te ne accorgi nemmeno. Cosa ne dici se andiamo a mettere qualcosa sotto i denti?» 173 L’Harley 883 di Valentina riempì del suo rombo ancora quindici minuti di curve e dolci saliscendi nella campagna prima di fermarsi in un piccolo borgo medievale, di fronte all’entrata di una trattoria. Si sfilarono i caschi e varcarono la soglia, nella penombra. Da fuori Fedele non avrebbe mai immaginato tanta ricercata eleganza rurale. Mattoni e travi a vista si intonavano perfettamente con gli arredi in arte povera, in cui ogni pezzo era stato evidentemente cercato e collocato con estrema cura. Tavoli di solido legno scuro apparecchiati con raffinate tovaglie color avorio e ampi calici di cristallo, vetrinette colme di bottiglie preziose, e un po’ ovunque utensili di antico artigianato contadino. Fedele si sentiva leggermente in soggezione. Non era il posto alla buona che si era aspettato. Niente tovagliette di carta e menu plastificati, nessun televisore sintonizzato su qualche emittente locale. Quello era un posto di assoluto livello. Valentina si muoveva con disinvoltura e familiarità. Salutò cordialmente il cameriere, che li fece accomodare con discrezione e professionalità in un angolo appartato della sala, dove soltanto un altro tavolo era occupato da due turisti dai tratti orientali. Al momento di ordinare il vino, il cameriere si rivolse a lei con la deferenza e il rispetto che si riservano a chi sa bene di cosa sta parlando. «Per il vino, avete già scelto?» Valentina non ebbe nemmeno bisogno di aprire la carta dei vini. Educatamente guardò Fedele per un istante con aria interrogativa, giusto per assicurarsi di non ledere eccessivamente il suo orgoglio virile, poi si rivolse al cameriere. 174 «Passo del Lupo, ce l’hai? Se ci fosse del ‘97…» «Certamente. Ottima scelta.» Fedele era sinceramente stupito. Non tanto per il fatto che Valentina avesse ordinato il vino, quanto per la disinvoltura con cui l’aveva fatto. Era qualcosa di più di semplice passione o conoscenza. Era abitudine. Pochi istanti dopo il cameriere tornò con la bottiglia e il tavolino di servizio, e la stappò secondo tutti i crismi del perfetto sommelier. Versò l’assaggio a Valentina, che si limitò ad accostare il naso al calice. Annusò un istante con gli occhi socchiusi, poi annuì profondamente e congedò il cameriere senza nemmeno portare il liquido alle labbra. Fedele assaggiò a sua volta, e fu rapito dal corpo e dalla complessità del vino, che rivelava eleganza e carattere fuori del comune. «Meraviglioso. Cos’è?» Valentina alzò le sopracciglia in uno sguardo candidamente sorpreso, che fece avvampare Fedele. «Beh… è un Conero. Il mio preferito. Passo del Lupo, riserva 1997. Fazi Battaglia lo conosci, no?» «Ah, Fazi Battaglia. Conoscevo solo il Verdicchio… quello con la bottiglia a forma di anfora.» Si interruppe, per evitare ulteriori danni alla sua immagine di conoscitore di vino, così faticosamente e artificiosamente amplificata in chat. «Sì, quella bottiglia è stata una grande idea commerciale. Adesso il verdicchio lo conoscono tutti. Il rosso Conero invece è meno diffuso, ma noi ne andiamo anche più fieri.» 175 Fedele la ascoltò ancora per qualche minuto parlare dei vini della sua terra, con una competenza che lo lasciò a bocca aperta. C’era qualcosa che non gli tornava. Decise di affrontare la questione in modo diretto, immediatamente. «Evidentemente qui ad Ancona le impiegate guadagnano bene…» Valentina si interruppe di colpo, come una bambina sorpresa con le mani nella marmellata. «…come?» «Beh, in chat mi hai detto che sei impiegata in una ditta di abbigliamento, giusto? A Reggio le impiegate difficilmente girano in Harley Davidson e pranzano in posti così.» Lei abbassò lo sguardo, forse per la prima volta da quando Fedele era sceso dal treno. Non era stata mai arrogante o presuntuosa, in alcun modo, ma si era mossa con grande sicurezza. Abbassò la voce, e quando rialzò il capo i suoi zigomi avevano preso colore. «Neanche ad Ancona. A meno che si tratti della figlia del titolare.» Valentina non gli aveva mentito, si era limitata a nascondere una parte della verità. Tecnicamente, era davvero impiegata in una ditta di abbigliamento. L’azienda però apparteneva a suo padre, e lei era la stilista. Producevano linee di abbigliamento professionale. Camici, abiti da lavoro, divise di vario genere. «Ma perché non me l’hai mai detto?» «Me lo sono chiesta anche io… la verità è che non lo so. Forse temevo il tuo giudizio, forse non volevo darti l’impressione della capricciosa figlia di papà. Mi perdoni?» 176 «Certo che ti perdono. A patto che adesso tu non mi dica che sei anche berlusconiana!» «No! No, giuro, quello no, mai!» Risero insieme di gusto, come tante volte avevano fatto in chat, sparlando dell’ex-presidente del consiglio. Fedele provava un senso di ammirazione crescente per Valentina, perché essere di sinistra facendo l’impiegata era un conto, ma da figlia di imprenditore era tutt’altra cosa. Circa due ore e una bottiglia più tardi, dopo molte risate e alcuni impegnativi silenzi, si alzarono e iniziarono una lunga passeggiata nella campagna circostante. Fedele non dovette sforzarsi particolarmente per dare il meglio di sè. Complici il vino e la freschezza di Valentina, si sentiva spontaneo e leggero. La conversazione fluì con naturalezza. Non c’erano parti da recitare o risultati da ottenere. Era semplicemente bello stare insieme, e gustare con tutti i sensi quell’equilibrio miracoloso. Poi, verso le sei del pomeriggio, Valentina propose a Fedele di visitare la sua casa. Salirono sulla moto, e questa volta Fedele non si fece pregare. Con una disinvoltura che aveva in sé qualcosa di enologico, avvolse la figura minuta di Valentina in un abbraccio stretto, gustando fino in fondo il contatto fra il suo torace e la schiena di lei. Ad ogni curva percepiva con forza la sua vicinanza, la sua presenza sulle braccia, nello stomaco, nell’interno delle cosce. Era eccitato, e dovette faticare non poco per evitare contatti ulteriori, che lo avrebbero messo in profondo imbarazzo. 177 Dopo un tempo imprecisato fatto di respiri profondi e totale alterazione sensoriale, Fedele sentì la moto rallentare e infilarsi in un vialetto ghiaioso. Si scosse dal torpore estatico in cui era caduto, guardandosi intorno. Erano ancora fuori città, e procedevano lentamente tra filari di vite e campi coltivati, sollevando una nuvola di fumo bianco. Qualche minuto dopo si fermarono nel cortile di una vecchia casa colonica. Anzi, di un vecchio granaio, osservò Fedele notando la tipica forma allungata, il piano rialzato e la struttura ad archi che originariamente doveva presentare larghe aperture, ora chiuse dalla ristrutturazione. Sulla destra della facciata un grande portone sgangherato faceva intuire l’autorimessa, mentre l’unica piccola porta si raggiungeva tramite una scala esterna addossata alla parete. Ben strano posto per la famiglia di un imprenditore, pensò Fedele. Poi le sue considerazioni furono interrotte dall’arrivo festante di un cane dal manto dorato, che lo ignorò del tutto per ricevere le carezze di Valentina. «Lui è Birillo, il mio uomo ideale.» Fedele improvvisò un’educata cinofilia grattando la testa del cane, che lo degnò solo di un breve sguardo prima di riprendere ad ignorarlo. «Dai Birillo, cerca di essere educato! È un amico!» lo rimproverò ridendo Valentina. «Non farci caso, è un po’ duro da conquistare ma è adorabile. Entriamo?» Fedele seguì Valentina lungo i pochi gradini della scala esterna, che conducevano al piano rialzato. Valentina armeggiò con le chiavi sulla porta. Dentro, la scala continuava nel buio dopo un piccolo pianerottolo. 178 « ‘petta, accendo la luce.» Improvvisamente una luce calda riempì gradualmente uno spazio enorme, sormontato dalle vecchie travi scure lungo gli spioventi del tetto, almeno dieci metri più in alto. Fedele salì i pochi gradini che ancora gli impedivano di vedere l’ampio locale, e si guardò intorno incuriosito. «Wow. Che spettacolo.» «Ti piace? Ci sto ancora lavorando, ma sono a buon punto.» La casa si sviluppava in un unico immenso locale. Sulla sinistra la cucina in stile rustico, separata dal resto della stanza da un ampio bancone in muratura. Il resto dello spazio era occupato da un grande soggiorno, in cui ogni particolare era stato studiato con ricercata noncuranza. Pezzi di antiquariato in arte povera si accostavano senza stridere con un grande tavolo in cristallo e cromature. Due lunghi divani in tessuto chiaro isolavano un angolo riscaldato da un tappeto variopinto sui toni dell’arancio e del giallo. Un po’ ovunque oggetti etnici africani o centroamericani sbucavano tra pile di libri e CD. Era tutto assurdamente cacofonico, eppure trasmetteva un insospettabile senso di equilibrio. Anche lo spazio, quel volume d’aria enorme, era stato mosso abilmente da un vasto soppalco che ospitava la camera da letto. Fedele si sforzò di non guardare troppo a lungo in quella direzione. «Ci sono venuta a stare un anno e mezzo fa. Non c’era praticamente niente.» «Beh, Vale. Mentirei se dicessi che non sono stupito. È fantastico, hai avuto un gusto incredibile.» 179 «Grazie. Mettiti comodo, vado a cambiarmi.» Valentina salì la scalinata che portava al soppalco, mentre Fedele si metteva timidamente a sedere su uno dei divani. Il tavolino in legno scuro che aveva di fronte era ingombro di riviste di arredamento e motociclette. Notò anche una copia de “Il Senso di Smilla per la neve”. Ne avevano parlato da poco in chat. Entrambi l’avevano trovato eccezionale. Fedele lo sfogliò distrattamente, notando che la microscopica televisione era relegata in un angolo, in posizione decisamente defilata. Più spazio aveva il PC, che occupava una bella scrivania ottocentesca appoggiata alla parete. Fedele osservò lo schermo spento, immaginando Valentina intenta a pigiare sui tasti. Lui era già stato in questa casa. C’era stato attraverso il sommesso ronzio di un monitor, le sue parole e i suoi pensieri avevano solcato il silenzio di questa stessa stanza. Provò un brivido di consapevolezza. Era tutto vero, tutto concreto, tangibile. Quel mondo disegnato da miriadi di pixel era uscito dal campo delle sue emozioni e si era fatto vista, tatto, olfatto. E improvvisamente tutto ciò che fino a poche ore prima era stato reale e quotidiano, ora gli sembrava assurdamente astratto e lontano. Casa, amici, università, fidanzata. Su tutto era scesa una patina di irrealtà, del tutto simile a quella che fino a quel momento aveva reso così virtuale ed innocua l’idea di Valentina. Distolse i pensieri e cercò di concentrarsi sul sapore di quel momento. *** 180 Teenva non riusciva a concentrarsi sul libro. Erano passate le 18, doveva decidersi ad agire. Fece rapidamente i calcoli. Ancona – se poi era veramente ad Ancona – distava almeno 3 ore di treno. E lui adesso chissà dov’era, cosa stava facendo, e soprattutto con chi. Doveva tenere un margine di sicurezza, se Fedele avesse perso l’ultimo treno tutto sarebbe stato inutile. A pensarci bene, rischiava che anche un arrivo in nottata servisse a poco. Non poteva essere certo che il tizio di Sara passasse tutta la notte da lei. Anzi, era perfino poco probabile per una simile chiesaiola. Probabilmente dopo la scopata l’avrebbe cacciato via di nascosto. Fedele doveva essere di ritorno al massimo per mezzanotte. Ruppe gli indugi e prese il cellulare di Sara. Avrebbe scoperto presto se le sue previsioni erano azzeccate. Iniziò a comporre il messaggio. Un testo breve, su cui aveva meditato a lungo. Se conosceva anche solo un po’ quel codardo di Fedele, l’effetto sarebbe stato devastante. *** Fedele aveva iniziato ad armeggiare fra i CD, quando riapparve Valentina. Infradito, short rossi e t-shirt bianca attillata, con la scritta “Harley Davidson” incurvata lungo la linea dei seni. Riccioli biondi sparsi sulle spalle e sorriso al tritolo. Si sedette di fianco a lui e lo guardò, senza dire niente. Fedele deglutì. Cercò disperatamente qualcosa da dire. Non gli veniva niente. Abbassò gli occhi su Curve nella memoria, la raccolta di De Gregori. 181 «Bella raccolta questa. Se non fosse che lui è così insopportabile… ma com’è che non vedo neanche un CD di Vasco? A proposito, a che ora inizia il concerto?» Valentina distolse lo sguardo un istante, poi tornò a guardarlo dritto negli occhi, con un’espressione maliziosa che azzerò la saliva nel cavo orale di Fedele. «Robinhood… devo confessarti una cosa. Non ho nessun biglietto. Per nessun concerto.» Fedele sgranò gli occhi, stupito. Lei vacillò un attimo, abbassando lo sguardo. Sembrava intimorita. Fedele la guardò serissimo per qualche secondo ancora. «Vale, anche io devo confessarti una cosa. Vasco mi fa proprio schifo» aggiunse sorridendo. Stavolta la sorpresa fu tutta di Valentina, che prima lo guardò a bocca aperta, poi scoppiò a ridere insieme a lui. Risero di gusto e a lungo, gli occhi negli occhi, fra lacrime di complicità. Si ritrovarono improvvisamente molto vicini, le spalle appoggiate allo schienale morbido del divano, i visi a pochi centimetri uno dall’altro. Si fecero improvvisamente seri. «Non sapevo come fare. Volevo che venissi. Avevo bisogno di una scusa. Volevo vederti» sussurrò lei. «No. Ero io che avevo bisogno di una scusa, e tu lo sapevi.» Fedele sentì il proprio battito accelerare, un istante prima che la consapevolezza di quanto stava per succedere giungesse a livello razionale. Sentì tutto il peso dello sguardo di Valentina. Sentì il suo profumo, il calore del suo corpo. Sentì l’ansito leggero del suo respiro, 182 la forza del suo desiderio, il richiamo insostenibile delle sue labbra. Sentì i propri muscoli addominali contrarsi, la distanza fra loro diminuire ancora, le proprie labbra schiudersi, il volto di lei inclinarsi leggermente. Poi, sentì lo squillo del cellulare. Ancora una volta, il suo corpo reagì prima che la mente potesse dire la sua. Si bloccò, gli occhi immobilizzati su un punto imprecisato oltre il cranio di Valentina. La mano sinistra corse autonomamente fino alla tasca dei jeans. Solo a quel punto i neuroni avevano districato la matassa emotiva a sufficienza per indirizzare fino alle labbra un mormorio. «Scusa…» Estrasse con qualche difficoltà il cellulare dalla tasca. Sul display il simbolo della busta. 1 nuovo messaggio. Pollice sul pulsante centrale, leggero tremolio della prima falange. “Leggi”. Lettere scure sullo sfondo verde retroilluminato. 183 Il sistema simpatico di Fedele contrasse istantaneamente i vasi sanguigni periferici. Divenne terreo, le mani e i piedi gelidi. La fronte gli si imperlò di sudore. Socchiuse gli occhi, e vacillò leggermente. «Robby? Robby, ti senti bene? Ehi…» La voce preoccupata di Valentina lo riscosse leggermente. Strinse più volte le palpebre, passandosi una mano sul viso. Si guardò intorno, confuso. Cosa stava facendo qui? Cosa stava facendo qui? Cosa diavolo stava facendo qui? No, non era possibile. Non era possibile. Non poteva essere vero. Nei suoi occhi si dipinse il panico. Inspirò avidamente e si alzò di scatto. Iniziò a camminare su e giù per la stanza, in preda all’agitazione. Scuoteva la testa e mormorava fra sé, rivolgendo gli occhi ora al pavimento ora al soffitto. Valentina, immobilizzata sul divano, lo guardava incredula. «Robby…» Fedele finalmente registrò la presenza di Valentina. Con uno sforzo notevole recuperò un minimo di contegno e la guardò con aria colpevole. «Cosa è successo, Robby? Cosa c’era scritto nel messaggio?» 184 Lui non rispose. Si sedette e affondò il viso fra le mani. «E’ lei, vero? La tua fidanzata. Ti ha beccato.» Lui annuì impercettibilmente. «Capisco.» La sua voce si era fatta glaciale. Era tutto chiaro. Terribilmente chiaro. Restarono in silenzio per un tempo interminabile. Poi Fedele alzò il viso. I suoi occhi erano arrossati. «Mi dispiace Vale. Mi dispiace.» Lei era una maschera immobile. Nessuna traccia di emozione. Non c’era molto altro da dire. Lui aveva già fatto la sua scelta. «E adesso cosa vuoi fare?» «Ti prego, portami alla stazione.» *** Di ritorno dalla stazione, Valentina guidava con il riflesso del sole ormai basso sugli occhiali scuri. Non aveva detto una sola parola, per tutto il tempo. Aveva semplicemente tirato fuori il Pajero dalla rimessa, guidando lentamente e in silenzio. Aveva accostato di fronte all’ingresso della stazione, aspettando che lui scendesse senza mai guardarlo, tenendo il motore accesso. Quando finalmente aveva sentito chiudersi la portiera era ripartita senza salutarlo. Valentina era delusa e arrabbiata, soprattutto con se stessa. Per queste lacrime stupide che ora scendevano in modo del tutto indipendente dalla sua volontà, offuscandole la vista. Per l’intensa e ottusa felicità che si era permessa di provare oggi. Per quell’irragionevole speranza che le 185 si era intrufolata dentro, esponendola a tutto questo inutile dolore. Ma soprattutto, Valentina non poteva perdonarsi di avere messo la testa sotto la sabbia per tanto tempo. Sapeva di Sara, ma aveva deliberatamente evitato di porsi il problema. Non era stata eccessiva fiducia in se stessa, no. Era stata paura. Paura che affrontare quell’argomento potesse far evaporare l’armonia magica che si era creata fra loro. Paura che volere troppo potesse significare perdere tutto. E così era rimasta a galleggiare sopra quel gigantesco silenzio, aspettando come una scema l’onda che l’aveva spazzata via in un istante. Era bastato un messaggio. Cancellata da 160 caratteri. Questo valeva, per lui. Meno di 160 caratteri. Fermò la macchina nel cortile di fronte a casa. Era esausta. Voleva solo farsi una doccia, dormire e dimenticare. Si sfilò gli occhiali da sole e li ripose davanti alla leva del cambio. Nel farlo, posò gli occhi sulla copertina del volume che lui aveva lasciato sul sedile del passeggero. La storia infinita. L’aveva fatto quasi di nascosto, prima di scendere, mormorando qualcosa come “L’avevo preso per te”. Lei non l’aveva quasi sentito. Lo prese in mano e lo guardò. La copertina rigida color rubino cupo, con i due serpenti che si mordono vicendevolmente la coda. Nel formato originale, che ormai non si trovava più da nessuna parte. Chissà dove era andato a scovarlo. Valentina non resistette alla tentazione di aprirlo. Nella prima pagina c’era una dedica, scritta con la sua grafia nervosa. Una citazione del testo. 186 “Ma i desideri non si possono evocare, né soffocare a piacimento. Essi nascono dalle profondità più remote del nostro animo, più nascosti di ogni altra intenzione, siano essi buoni o cattivi. E a nostra insaputa.” Grazie, per avermi fatto desiderare. Roberto Gli occhi le si riempirono ancora di lacrime. Scosse la testa e sorrise amara. Poi scese dalla macchina e gettò il libro nel bidone dei rifiuti. *** Il treno fermò nella stazione di Reggio Emilia alle 23.57, puntuale. Una notte tiepida accolse Fedele nel silenzio tombale del quarto binario. Camminò lentamente accanto al treno che ripartì quasi subito, accompagnandolo per qualche secondo prima di sparire tra le luci distanti della periferia cittadina. Infilò la scalinata del sottopassaggio e riemerse all’altezza del primo binario. Due occhi scuri si soffermarono sul suo zainetto in un modo che, in altri momenti, avrebbe potuto preoccuparlo. Non stasera. Infilò la porta della stazione e si diresse verso la macchina. In treno aveva avuto modo di riprendersi e di riflettere. C’era voluta almeno un’ora di agonia sul sedile prima che il suo cervello riprendesse a funzionare normalmente, ma nelle rimanenti due ore di viaggio c’era stato tutto il tempo di andare oltre il devastante senso di colpa e la 187 disperazione per il messaggio di Sara. C’era stato il tempo di fermarsi a riflettere su cause, effetti e meccanismi. Adesso, oltre all’esorbitante quantità di elaborate autodiagnosi a sfondo vagamente psicologico, a Fedele rimanevano due domande fondamentali. La prima riguardava la sua reazione al messaggio. Cosa diavolo gli era successo? D’accordo, era stato sorpreso con le mani nella marmellata, ma in definitiva niente giustificava una reazione tanto istintiva e precipitosa. Si era scoperto molto più fragile del previsto. Aveva perso ogni barlume di razionalità, e per un tempo incredibilmente lungo la sua mente era stata occupata da un solo pensiero: devo andare da lei, devo spiegarle tutto. Aveva sentito con una forza insostenibile il bisogno di scaricare su Sara la responsabilità della scelta, di farsi uccidere da lei piuttosto che sopportarsi così, completamente sbagliato. Non aveva saputo reggere nemmeno per un istante il peso del suo tradimento. Di quale tradimento, poi? Alla fine, nei fatti, lui era ancora fedele. Non per merito suo, forse, ma lo era ancora. E i processi alle intenzioni, nel codice penale della sua coscienza, portavano a condanne più blande. Era sempre stato così. E allora perché reagire in modo tanto spropositato? La seconda era di ordine molto più pratico. Dove aveva sbagliato? Come aveva fatto Sara a scoprire la verità? Era convinto di avere fatto tutto il necessario per coprirsi nel migliore dei modi. Nessuno al mondo sapeva di Valentina. Le uniche tracce erano nel suo computer, e Sara non aveva né l’opportunità né le competenze necessarie a entrare nel suo PC e aprire certi files accuratamente protetti da password. Certo, lei era tragicamente gelosa… probabilmente aveva scoperto che 188 quella di Vasco era solo una copertura, ed era saltata alle conclusioni. Un attimo, però. Quali conclusioni? Lei non aveva scritto niente a proposito di tradimenti o altre donne. Lei aveva parlato solo di fiducia. Mi fidavo di te. Sì, doveva essere andata così. Sara aveva scoperto che lui le aveva mentito, ma non aveva nessuna prova del fatto che la stesse tradendo. Probabilmente lo immaginava, o non avrebbe scritto un simile messaggio, ma non lo sapeva, non poteva saperlo. Se era così, aveva ancora una possibilità. Si trattava di trovare una scusa credibile, qualcosa che non fosse la verità ma giustificasse l’esigenza di mentirle. Qualcosa che lei non avrebbe mai approvato. Tipo passare la notte in discoteca sulla riviera romagnola. Ecco, qualcosa del genere. Una notte brava fra amici, troppo lontana dai suoi schemi di brava ragazza di parrocchia per poter essere spiegata. Però doveva fare molta, molta attenzione a non tradirsi... Il problema era che lui non aveva idea di cosa avesse esattamente scoperto Sara, e soprattutto come. Poteva avere parlato con Teenva o qualcuno dell’Hdemia? No, era da escludere, li conosceva solo per nome, non li aveva mai incontrati. E allora chi altro poteva averlo tradito? Nessun altro sapeva di quel viaggio, a parte i suoi amici e la sua famiglia, non c’era altra possibilità. Si fermò in mezzo al marciapiede, come fulminato. La sua famiglia. Sua madre. Aveva usato due scuse diverse per la madre e per Sara. A lei aveva detto di essere andato con Teenva, a sua madre di essere andato con Sara. Un errore imperdonabile, assolutamente imperdonabile. Si erano parlate. Doveva essere andata così. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, per quanto era stato idiota. 189 A pensarci bene, però, in questo modo non si era bruciato la carta dell’uscita in gruppo… quindi restava ancora aperta la porta della notte brava con l’Hdemia. Avrebbe potuto dire a Sara di essere andato con Teenva e gli altri… facciamo a Rimini. A Rimini, sì, all’inaugurazione di qualche discoteca! Si sarebbe sperticato in scuse, ma non avrebbe mancato di sollevare qualche timida obiezione. Se lei si fosse veramente fidata di lui non l’avrebbe messo in condizione di dover mentire. Certo, lui aveva sbagliato, non si sarebbe mai più ripetuto, le chiedeva perdono. Ma forse, in futuro, avrebbero davvero dovuto imparare a fidarsi fino in fondo l’uno dell’altra. Fedele inspirò a fondo la notte stellata di via Turri. C’era ancora un barlume di speranza, c’era ancora qualche carta da giocare. Poteva ancora salvarsi. Certo, bisognava barare fino in fondo, aggiungere menzogna a menzogna, e farlo anche bene. Ma il gioco valeva la candela. E poi lui si chiamava Fedele… non Sincero… *** Sara osservava il profilo spigoloso del naso di Max. Lui era disteso supino, la nuca affondata nel soffice cuscino bianco, le palpebre socchiuse. Lei era sul fianco destro, i seni premuti sul braccio sinistro di lui, le labbra appoggiate sulla sua spalla in una serie interminabile di piccoli baci. Sara percorreva lentamente i tratti del suo viso con l’indice della mano sinistra. Nel farlo, ascoltava la meraviglia di questo silenzio. Silenzio dentro. Nessun senso di colpa, nessuna tensione. Era tutto come avrebbe dovuto essere. Naturale, intimo, profondo. Dal punto di 190 vista strettamente erotico, non era stato un rapporto fuori dell’ordinario. Ciò che lo aveva reso così intenso, lei lo comprendeva bene, era stata l’intesa spirituale, che aveva amplificato il suo piacere fino a vette mai sperimentate prima. Adesso, in questo spazio dove nessuna parola avrebbe potuto trovare la minima adeguatezza, Sara si sentiva inspiegabilmente e dolcemente giusta. Il pensiero sfiorò solo per un istante, con un senso di remoto disagio, l’immagine di Fedele. Questo non era stato un tradimento, ma la fioritura spontanea di un bocciolo tenuto per troppo tempo al buio. Soltanto l’ordine degli eventi era stato invertito. Avrebbe voluto potergli parlare già nel pomeriggio, ma il furto del cellulare e la sua partenza per il concerto gliel’avevano impedito. Poco male. Dentro di sé, l’aveva già lasciato. *** All’interno della sua Z3 parcheggiata in doppia fila di fronte alla stazione, Teenva strinse il pugno in un silenzioso gesto di esultanza quando vide Fedele uscire a passo svelto. Tutti i suoi calcoli erano stati esatti, dunque. Subito dopo aver inviato l’sms, Teenva era stato colto da mille dubbi. Si era reso conto di avere dato retta al proprio istinto in maniera forse eccessiva. Aveva dato per scontato che Fedele fosse con una ragazza, e di questo era quasi certo. Ma aveva anche dato per scontato che quella strana destinazione – Ancona – fosse quella in cui effettivamente si sarebbe recato. Conoscendo Fedele, era chiaro che sarebbe andato in 191 treno. Non amava guidare, e Ancona era piuttosto lontana. Ma se invece quella mèta fosse stata solo un’altra bugia? Se l’avventura fosse stata a Reggio o poco distante, e avesse voluto soltanto garantirsi la possibilità di passare la notte fuori? In quel caso tutti i suoi calcoli sarebbero stati sbagliati, e il messaggio ricevuto poco dopo le 18 avrebbe potuto indurlo a correre da Sara prima che arrivasse il suo manzo. Perché su questo non c’erano dubbi: Fedele si sarebbe cagato nelle braghe e sarebbe corso immediatamente a chiedere perdono al suo amore. Ma se questa corsa fosse stata solo una passeggiata di pochi minuti? C’era solo un modo per scoprirlo: Teenva aveva telefonato in stazione e si era fatto dare gli orari di tutti i treni in arrivo da Ancona. Aveva atteso alcune ore, poi era andato ad appostarsi di fronte alla stazione. Adesso, vedendo Fedele percorrere via Turri con il viso tirato e pensieroso, Teenva provava una sensazione dolceamara di trionfo. Se Fedele fosse andato direttamente a casa di Sara il piano sarebbe perfettamente riuscito, e quel figlio di puttana avrebbe avuto quello che si meritava. Girò la chiavetta e accese il motore. Quando l’utilitaria di Fedele si mosse, iniziò a seguirla mantenendosi a prudente distanza. *** Fedele parcheggiò di fronte alla palazzina in cui abitava Sara pochi minuti dopo la mezzanotte. La possibilità di andare a dormire e affrontare la questione il giorno dopo – l’ultima preoccupazione di 192 Teenva – non lo aveva sfiorato nemmeno per un istante. Doveva risolvere la cosa subito, dimostrarle che per lei era stato pronto a mollare tutto, cosa peraltro vera. Sara era la cosa più importante. Lui e lei, insieme. Solo con lei era Fedele, nonostante tutto. Solo con lei tutto tornava in ordine, ogni cosa al proprio posto. Aprì la porta esterna con le sue chiavi, come faceva sempre, e salì velocemente i gradini fino al terzo piano, ripassando mentalmente quello che le avrebbe detto. Indossò una maschera di profonda contrizione, sostenuta però da un robusto sottofondo di dignità. Ti chiedo perdono amore, ma andiamo oltre questo episodio. Non fermiamoci al dito, guardiamo la luna. Ciò che conta siamo noi due, la fiducia fra noi, il progetto che vogliamo realizzare insieme. Cogliamo questa opportunità perché sia un nuovo inizio, su nuove basi. Suonò il campanello. Silenzio. Probabilmente stava dormendo. Rumore di passi oltre la porta. «Chi è?» «Sono io, Sara. Per favore, fammi entrare.» Ancora silenzio. A lungo. Se lo aspettava, visto il tenore del messaggio. Probabilmente non voleva vederlo, era troppo arrabbiata. Non importava. Avrebbe dormito sul pianerottolo, se fosse stato necessario. Stava per suonare di nuovo, quando sentì la chiave girare nella serratura. La porta si aprì. Sara era di fronte a lui, in una camicia da notte baby doll bianca. Se Fedele fosse stato abbastanza lucido avrebbe notato che si trattava di un capo nuovo, insolitamente sexy. 193 «Grazie di avermi fatto entrare… Sara, io… io non so cosa dire… come chiederti perdono…» Si interruppe, guardandola in viso. Fino a quel momento era stato così concentrato sul proprio ruolo da non cogliere l’espressione angosciata di lei. Era pallida, con il viso tirato e uno sguardo che non aveva niente del furore o del disprezzo che si era aspettato. Quella che vedeva nei suoi occhi era inequivocabilmente paura. Fedele lo registrò a livello inconscio, con il risultato di trovarsi improvvisamente confuso e a corto di parole. Restò in silenzio a guardarla per alcuni istanti, fino a quando un movimento sullo sfondo attirò la sua attenzione. Dalla camera da letto vide uscire la sagoma di un uomo. Basso, naso aquilino, jeans e maglietta. Giovane. Mai visto prima. Si era andato a piazzare lentamente proprio di fianco a Sara, e ora guardava Fedele dritto negli occhi, con un’espressione che era insieme di colpa e di sfida. Fedele lasciò cadere la mandibola di un paio di centimetri. Guardò Sara. Poi lui. Poi li guardò insieme. «E questo chi cazzo è?» *** Teenva vide Fedele uscire dalla palazzina. Controllò l’orologio. Era stato dentro meno di quindici minuti. Aveva il viso sconvolto, lo sguardo sbarrato. Sembrava in trance. Splendido. Girò la chiavetta e portò la Z3 sul ciglio della strada. Quando Fedele gli passò accanto, abbassò il finestrino. 194 «Ciao, Fedele.» Fece una breve pausa, vedendo il dolore dipinto sul viso di quello che era stato il suo migliore amico. «Spero che tu abbia passato una bella serata. La mia è stata ottima.» Mantenendo il sorriso sulle labbra, ingranò la prima e partì sgommando. 195 CAPITOLO OTTAVO Dove il Lupo capisce alcune cose Data: lunedì 12 giugno 2000 DA: Discipulo ( [email protected]) A: dr.Teenva ([email protected]); dr. Lupo ([email protected]); Libero Ricercatope ([email protected]); dr. Fedele ([email protected]) CC: Ciambellano ( [email protected]) Oggetto: Accorato appello Nobilissima Hdemia Scientiarum Eroticarum Regiens in Vulva Veritas Stimatissimi e reverendissimi Patres, per la prima volta mi accingo a vergare l'etere Hdemico di mio pugno. Confesso che è una sensazione invero strana, sono quasi le 20 e ancora nessuno ha pensato di scrivere la consueta mail d'inizio settimana: bè, lo faccio io. È un periodo difficile, la crisi in atto al nostro interno si sta prolungando davvero troppo e un segnale sconfortante e preoccupante si è avuto venerdì scorso, quando per la prima volta non si è potuta perpetrare la consumata consuetudine della Sacra Serata Hdemica per la contemporanea assenza di ben 196 due Patres. Non so, magari mi sbaglio, ma lo leggo come un segnale. Un brutto segnale, Signori miei. Gli scricchiolii del tempo – vorrei poterli chiamare così – stanno scuotendo le fondamenta stesse della Nobile Hdemia e sembra che a nessuno importi davvero. Ecco, l'ho detto. Dr. Fedele, dr. Teenva. In fondo è a Voi che umilmente mi rivolgo in prima istanza. C'è bisogno di Voi e – ne sono sicuro – anche Voi avete bisogno di Noi. Dell'Hdemia. Ma mi rivolgo anche al Dr. Lupo e al reverendissimo Libero Ricercatope: è in questi frangenti che si vede cos'è l'amicizia, è in questi giorni di tempesta che si deve restare uniti e scansare il proprio orgoglio e le proprie rivendicazioni per il bene comune, agendo e aiutando chi è in difficoltà. Chissà, magari alla prossima riunione – perché sono SICURO che venerdì ci sarà – ne rideremo e saremo “belli carichi” per nuove mirabolanti Imprese Hdemiche, e allora questa mia mail potrà essere dimenticata o messa agli atti o... quello che Vorrete Voi, augusti Padri! Vorrete scusare il mio ardire e il tono poco consono, ma il cuore è pesante in queste ore e volevo che lo sapeste, tutto qui. in Vulva Veritas Accolitus Lunedì 12 giugno 2000 Aveva mangiato la pizza controllando la posta elettronica e adesso era davanti al monitor del suo computer, a leggere e rileggere la mail del Discipulo. Se lo ricordava bene il Lupo lo scorso venerdì: piatto e 197 “moscio” come pochi altri, un tavolino defilato vicino al cesso, Lui, il Libero Ricercatope e il Discipulo appunto. Attorno, un locale con pochi clienti, Barbara a servire ai tavoli e uno dei tanti loschi amici di Milva dietro al bancone, a spillare birre e a preparare caffè. Milva no. Neanche quella sera era al bar. Il Lupo se lo ricordava bene quel venerdì storto, senza Teenva, senza Fedele e senza Milva. Quella era stata la prima volta che aveva messo piede al bar dalla sera dello scontro con Milva. Il Discipulo pareva essersene accorto, mentre Libero non gli aveva fatto cenno di nulla. Libero. Bravo ragazzo, ma così... così distante da tutto e da tutti. Come se non gli importasse davvero di niente. Il Lupo spense il computer e stette fermo a fissare il monitor nero, con il cartone della pizza aperto sulla tastiera. Era ad un punto morto. Non aveva capito niente di quello che Milva gli aveva detto, se non di starsene lontano. E lui aveva obbedito. Lo aveva chiesto lei. Aveva provato a non pensarci più, tuffandosi nel lavoro, ma le ore davanti a quella macchina erano lunghe da far passare, e il viso di lei, le sue mani, i suoi occhi e la sua voce a poco a poco avevano ripreso possesso della sua mente. E allora aveva ricominciato a pensarci, eccome se aveva ricominciato. Ma non era mai ritornato a seguirla e non era più andato al bar. Eppure avvertiva come se ci fosse un errore, come se non avesse messo a fuoco correttamente tutta la situazione. Non aveva neanche capito tanto bene cosa fosse capitato tra Teenva e Fedele, ma anche con loro non aveva fatto nulla: si era limitato a guardare, lasciando che l'Hdemia gli scivolasse via tra le mani. 198 Scostò le tende della sala, il sole di giugno batteva forte nel primo dopo pranzo della periferia, in cortile una schiera di bambini giocava e urlava. E lui stava lì, a guardarli. Guardare. No, Lupo, così non va bene. Anche il Discipulo l'ha scritto: bisogna agire, per rimediare a quello che sta accadendo. Perché quello che sta succedendo mica è normale, Lupo: Teenva e Fedele che litigano di brutto, l'Hdemia ridotta all'impotenza, e Milva? Cosa sta accadendo a Milva? Eppure nessuno ha chiesto il tuo aiuto, vero Lupo? Forse è giusto così, che ognuno segua in solitaria i propri sogni. O i propri fantasmi. Il Lupo si allontanò dalla finestra, prese il cartone della pizza e lo cacciò nel pattume insieme alla bottiglia di birra vuota. Non sapeva cosa fare. Sasha glielo aveva detto tante volte. Segui i tuoi sogni. Ma era diventato tremendamente complicato per il Lupo seguire i propri sogni. Milva gli aveva detto di ignorarlo, di lasciare che svanisse via. Si sfregò vigorosamente il viso con le mani e chiuse gli occhi per qualche istante. Segui i tuoi sogni, amore mio. Si allungò verso la credenza, sulla quale aveva appoggiato, assieme ad altri fogli, anche la cartellina con tutto il suo romanzo: la prese, si andò a sedere alla scrivania e cominciò a sfogliarla leggendo qua e là alcuni brani. Gli era venuto in mente così, all'improvviso: era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva lavorato al suo romanzo. Tutta quella storia di Milva lo aveva distratto e non aveva più avuto tempo. Ma forse Sasha aveva ragione: dopo tutto, Sasha aveva sempre ragione. Lui 199 doveva seguire i suoi sogni e uno di questi – forse il più importante – era quello di trovare un editore e far leggere a tutti le sue storie. Stette a pensarci un bel po'. Provò a scrivere qualche riga, ma l'ispirazione non arrivava. Certo, scrivere al bar era tutt'altra cosa. Ma dai Lupo, non starai pensando di andare al bar adesso, vero? In fondo non era una cattiva idea, in fondo le chiavi le aveva ancora lui. Ma è giorno di chiusura. Potrebbe esserci anche Milva. Probabile. In tal caso gli chiederai se puoi rimanere lì a scrivere, vero Lupo? E se ti dice di no? Il Lupo si cacciò sotto la doccia, tirò fuori un paio di jeans scuri, una camicia a fiori e il suo cappellino Ducati. Se lo infilò in testa con cura, si fermò un attimo davanti al piccolo specchio in corridoio e corse fuori con le chiavi del bar. Aveva deciso. Lui ci sarebbe andato a scrivere, e se là avesse trovato anche Milva bé, allora avrebbe pensato cosa fare e cosa dire. Salì sulla Golf GTI, inforcò i suoi occhiali da sole, e guidò veloce fino al parcheggio del bar Milva. Spense il motore e stette fermo. Si sorprese nel guardare la sua mano tremare lievemente. Adesso lì, a pochi passi dal bar, si stava chiedendo se avesse fatto la cosa giusta, o non fosse meglio tornarsene a casa. Si accese una sigaretta e cercò di concentrarsi unicamente sul riverbero del sole e sulle grida in lontananza di alcuni ragazzini che giocavano nel parco lì vicino. Dio com'era tremendamente complicata la vita! Gli sembrava di essere un personaggio del suo romanzo, un personaggio sferzato da 200 sentimenti contrastanti, paure e desideri, ma adesso queste sensazioni le stava vivendo lui. Nessun altro con cui parlare. Solo se stesso e la sua sigaretta e la sua auto. Sospirò forte un “cazzo” prendendo la cartellina sul sedile posteriore, scese dall'auto e iniziò ad incamminarsi verso il bar, lentamente. Dopo soli pochi passi si fermò, come se ancora qualcosa stonasse con il resto. Ritornò indietro, indeciso. Soltanto quando si vide riflesso sul parabrezza dell’auto capì. Non era giornata da Lupo, quella. Azionò l’antifurto, aprì la portiera, si sfilò dolcemente il cappellino e lo appoggiò con cura sul sedile posteriore. Si guardò ancora un po’ nello specchietto retrovisore, quindi si decise ad andare. Adesso era pronto a fare il suo ritorno al bar. Niente Lupo, niente Hdemia quel giorno. C’erano soltanto Cesare e il suo romanzo. Attraversò il parcheggio posteriore e sbucò davanti alle vetrate del bar: vide le luci accese e subito il cuore iniziò a galoppare. Evidentemente c'era qualcuno. Sperò non fosse Milva. Se possibile rallentò ulteriormente l'andatura e cercò di ragionare. Se è lei, tanto meglio. Vi parlerete e vi spiegherete con calma. Tu Lupo sei lì per scrivere, di altro non te ne frega niente giusto? Giusto. Ma lei ci crederà? Ma tanto non può essere lei. Sarà Barbara che chiude un po' di conti. O magari ci sono tutte e due. Meglio. Sì, molto meglio se ci sono tutte e due: sarà più facile spiegarsi. 201 Intanto era arrivato proprio davanti alla porta d'ingresso. Rimise in tasca le chiavi del magazzino: inutile entrare da là visto che nel bar c'era già qualcuno. Tanto valeva passare dalla porta principale. Il Lupo sentì una voce. Non capì bene, ma distinse chiaramente a chi apparteneva: a Milva. Dunque lei c'era. E non era sola. Restò fermo qualche secondo, il tempo necessario per riprendere il coraggio di entrare, ora che aveva la certezza che si sarebbe ritrovato davanti a lei. Proprio mentre stava per appoggiare la mano sulla maniglia, venne sferzato da una voce maschile dall’accento meridionale. Percepì nettamente ogni singola parola e restò paralizzato. «Due giorni. Poi ti ammazzo.» Il Lupo era bloccato dal terrore. Sentiva il sangue battergli con violenza nelle tempie e il cuore che cominciava a correre come un pazzo. Fece un passo indietro. «...soldi... mi... tempo.» Era la voce di Milva. Sembrava sussurrare, sembrava piangere. Checazzofacciochecazzofaccio? Il Lupo alzò gli occhi verso l'alto, vide il buco in una delle vetrate: ragazzi, aveva minimizzato Milva. Checazzofacciochecazzofaccio? Ora era tutto chiaro. Fu un lampo. Un velo dietro agli occhi. Sentì la propria mano afferrare la maniglia e vide la porta del bar spalancarsi. Udì distante la sua voce arrampicarsi in un urlo, mentre i suoi occhi non riuscirono a vedere se stesso prendere una sedia e farla precipitare con tutta la violenza di cui era capace sulla testa dell'uomo. Due secondi. O tre. Nessuno ebbe il tempo di capire quello che stava accadendo. Non lo capì l'uomo, che venne abbattuto con il coltello a 202 serramanico in pugno. Non lo capì Milva, ancora concentrata sul freddo della lama che fino a pochi istanti prima aveva puntata alla gola. E non lo capì il Lupo, che si credeva ancora all'esterno del locale, indeciso se entrare o portare il suo romanzo a morire in qualche cassetto della sua scrivania. «Lupo...cosa hai fatto?» Si ridestò. Riconobbe la voce di Milva. Vide l'uomo disteso sul pavimento e si accorse di avere ancora in mano la sedia del tavolino di fianco all'ingresso. «Dio santo Lupo cosa hai combinato?» Milva era terrorizzata. Solo allora il Lupo capì quello che aveva fatto. La donna continuava nella sua litania isterica cosahaicombinatocosahaicombinatocosahaicombinato, lui cercava di ragionare veloce. «Adesso smettila per Dio!» Finalmente silenzio. Milva si era zittita e lo fissava. Il Lupo camminava nervosamente nel poco spazio tra la porta d'ingresso e il bancone del bar. Stavano, ognuno a modo proprio, pensando a cosa fare. «Dai svelta. Muoviti.» «…» «Dobbiamo andarcene da qui. E anche in fretta.» «…» «Milva mi hai capito?» Lei continuava a fissarlo. «Io non vado da nessuna parte.» 203 «Non possiamo stare qui. Quando si riprenderà ci ammazzerà a tutti e due.» «Si può sapere chi cazzo sei?» «Milva sono un amico. Sono il Lupo.» La donna non disse nulla. Allora il Lupo capì che doveva essere lui a decidere cosa fare. Solo che non ne aveva la minima idea. Sapeva soltanto che dovevano andarsene, e anche di corsa. Sospirò. «Dai forza, dammi una mano.» «Cosa vuoi fare?» «Portarlo fuori da qui, è chiaro.» «…» «Senti Milva. Questo tra un po' si sveglierà. Non possiamo lasciarlo qui. Noi ora lo portiamo fuori, chiudiamo il bar e ce ne andiamo via.» Milva rise. Una risata isterica. Il Lupo non ci fece caso, e spinse la donna verso il corpo a terra. «Al mio tre lo solleviamo e lo portiamo fuori, sul retro.» Con grande fatica riuscirono a portare l'uomo fuori dal locale e da lì lo trascinarono sul retro. Poi corsero a chiudere il bar. «E adesso?» «E adesso vieni via con me.» «Ma tu scherzi!» «No, non scherzo.» Il Lupo afferrò Milva per il polso e la trascinò verso la macchina. «Andremo da me. Nessuno ti troverà.» Sgommò nel deserto del parcheggio, i bambini nel parco lì vicino non si erano accorti di nulla. La strada era vuota. Guidò rapido e non scambiarono una parola. 204 Il Lupo stava ricostruendo tutto quello che era accaduto negli ultimi minuti. Aveva aiutato Milva, l'aveva salvata. Protetta. E adesso era lì, al suo fianco. Lui che guidava e lei con la testa appoggiata al finestrino. Insieme. Quante volte aveva sognato questo momento! Subito non sapeva bene cosa voleva, ma ora, con la città che sonnecchiava nel caldo di metà giugno e Milva nella sua auto, bé sì, d'improvviso aveva capito tutto. Sì amore mio: ti proteggerò io. Lo sapeva che sarebbe andata a finire male. Se ne era convinta, sin da subito. Da quel maledetto giorno in cui, arrivata al bar, aveva trovato una delle vetrate in frantumi. Lei non era stupida, per niente. Aveva capito cosa significava quel vetro rotto. E adesso era lì, in un’auto che non era la sua, con qualcuno al volante che - ora ne era certa – proprio non conosceva. O meglio. Conosceva quel ragazzo come “il Lupo”, ma chi era davvero? Non riusciva a trovare ancora il coraggio di guardarlo. Lui non parlava, guidava nervoso verso una meta che conosceva soltanto lui. E lei si stava fidando. Non aveva altra scelta. Fino a pochi minuti prima aveva un coltello puntato alla gola e trenta milioni che non era riuscita a trovare. I soldi erano il meno. Anche il coltello. Non era la prima volta che le capitava. Anzi, forse aveva attraversato momenti ancor più difficili. O forse no. Bè, adesso lì, seduta con la testa appoggiata al finestrino di quell’auto, non le venivano in mente altre situazioni simili, ma sapeva di averle già vissute, nel suo passato. E in fondo, in un modo o nell’altro, ne era uscita fuori viva. No, quello che più la spaventava era qualcos’altro. Era la certezza di aver perso il 205 bar. Era stupido, lo sapeva, ma quel bar era casa sua. Quel bar era tutta la sua vita. La sua nuova vita che con fatica si era ricostruita pezzo per pezzo. E quel bastardo terrone con un paio di sassi e un coltello l’aveva distrutta, cancellata. Ormai erano arrivati dall’altra parte della città. L’auto continuava a correre. Milva con la coda dell’occhio riusciva a vedere il Lupo ancora scosso, sembrava avere più paura di lei. Ma chi era “il Lupo”? Chi accidenti era questo tizio che era entrato nella sua vita? L’aveva seguita, l’aveva pedinata e si era pure fatto beccare. E anche oggi lui era lì. Dopo tanti giorni, era ricomparso. Proprio quel giorno, proprio in quel momento. Come faceva a sapere? Attenta Milva, non c’è da fidarsi. Lui sa. Lui è coinvolto, anche se a guardarlo sembra più spaventato di te. Eppure c’era qualcosa che – si potrebbe dire – le dava sicurezza. Sentiva di poterlo controllare. Non aveva paura. Paura l’aveva avuta prima, quando il freddo della lama le aveva stuzzicato la carotide. Lì si che aveva avuto paura. Adesso no. Adesso, a bordo di quell’auto, era più incertezza, era quasi curiosità: dove stavano andando? E cosa sarebbe accaduto, dopo? Milva si ridestò dai suoi pensieri quando si accorse che il Lupo stava entrando nel parcheggio di un complesso condominiale: evidentemente la corsa era finita. «Eccoci arrivati.» Non disse nient’altro, smontò dall’auto e si allungò sul sedile posteriore per prendere il suo cappellino. Lei lo seguì, sempre in 206 silenzio. Entrarono dal portone a vetri in un condominio costruito negli anni’70, un palazzo alto e marrone chiaro. Ascensore, sesto piano, chiavi, porta che si apre e finalmente dentro, nell’appartamento. Milva si guardò intorno notando come l’arredamento rispecchiasse l’inquilino che ci viveva. Niente di ricercato, ma nemmeno sciatto. Quasi tutto il mobilio era Ikea, i pochi quadri appesi coprivano il bianco delle pareti, un imponente impianto stereo era evidentemente il fulcro della sala e molti cd erano sparsi sul tavolo. Tutto molto anonimo, impersonale. «Prendi.» Il Lupo era tornato con due bicchieri e una bottiglia di vodka di quelle che si trovano negli hard discount. Non sapeva cosa dire, da dove cominciare. Non riusciva ancora a crederci di avere Milva seduta sul suo divano, a casa sua. Quasi non pensava più a quello che era accaduto soltanto pochi minuti prima, al bar. «Come ti senti?» La donna avvertì il disagio del ragazzo, la sua voce era lievemente rotta dall’imbarazzo. Ci pensò bene prima di rispondere: c’era qualcosa che non quadrava in tutta la faccenda e ancora non era riuscita a capire cosa fosse. «Confusa». «Beh lo immagino». Si guardarono per un bel po’ senza aggiungere nulla. Il Lupo non riuscì a sostenere lo sguardo per tanto. Bevve un sorso di vodka spostando gli occhi sul bicchiere. E adesso cosa le dico? 207 Milva invece continuava ad osservarlo. Adesso era perfettamente lucida. L’alcool l’aveva fatta ritornare vigile e attenta. Ancora non sapeva chi fosse quest’uomo, e non aveva deciso se poteva fidarsi. Erano entrambi spaventati. Entrambi avevano domande senza risposte come barriere, recinzioni che non sapevano come scavalcare. Fu lei, alla fine di interminabili minuti di silenzio, a decidere per tutti e due, a decidere che quello era il momento giusto per la domanda che l’aveva assillata per tutto il tragitto. Milva si sforzò di distendere i muscoli del viso in un sorriso almeno decente, tentò di affrontare il Lupo come se non fosse pericoloso, perché questo le diceva il suo istinto: quel ragazzo non era pericoloso. Ma erano troppe le coincidenze. E anche troppe le volte che nella sua vita si era fidata. Sbagliando. Ma lei era fatta così. Il male lo conosceva, magari non riusciva a sfuggirgli, ma lo conosceva bene. E il Lupo non gli assomigliava. «Lupo, ho una domanda da farti» sospirò forte Milva, cercando di mantenere uno sguardo deciso ma non aggressivo. «Sì, dimmi.» Lui fece per appoggiare il bicchiere sul tavolo, ma poi preferì tenerlo in mano. «Come facevi a sapere che ero al bar?» Il Lupo deglutì e si rallegrò di avere il bicchiere tra le mani. Altrimenti non avrebbe saputo dove metterle, tanto era teso e imbarazzato. «Non lo sapevo.» Milva alzò impercettibilmente il sopraciglio. Stava pensando. Veloce. «Ero venuto al bar per scrivere.» «Per scrivere?» chiese lei, sospettosa. 208 «Sì, sì per scrivere. Il mio romanzo.» «Ma tu chi sei?» Non riuscì a non fargli quella domanda, in quel modo così diretto. «Sono un tuo amico». Prese il coraggio a due mani e continuò. «Senti Milva. So che c’è qualcosa che non va. Giorni fa ti ho sentita con Barbara. Subito mi son detto che non erano affari miei, ma poi ti ho vista vestita… strana, ecco, e allora una sera ti ho seguita e poi anche la sera dopo e così fino a quando non mi hai beccato. Mi hai detto di starti lontana e anche se mi costa l’ho fatto.» Aveva parlato tutto d’un fiato, senza pause, senza vergogna. Milva stava analizzando quello che aveva appena sentito. Lui non sapeva niente. Lui non c’entrava niente. Non sapeva cosa dire. «E’ un periodo di merda. Teenva e Fedele hanno avuto uno scazzo, tu che mi hai detto di starti lontana… mi rimaneva solo il romanzo e allora avevo deciso di ritornare al bar per scrivere.» «E tu non ti sei fatto vedere solo perché te l’avevo detto io?» «Beh, sì.» Voleva credergli. Sembrava davvero sincero. «C’ho sofferto, Milva. Ma ho anche capito che era quello che volevi. E me ne sono fatto una ragione.» Doveva credergli. Era sincero. «Anche se, scusa, ma non capisco quello che ti sta accadendo. O meglio adesso l’ho capito, ma tu devi lasciarti aiutare. Io voglio aiutarti.» «Perché?» 209 «Come: perché?» «Perché vuoi aiutare proprio me?» «Perché so che sei speciale.» Poi, in un sussurro, «Almeno per me.» Milva lo fissò a lungo, ma lui distolse lo sguardo da subito. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riusciva. Si maledisse in silenzio, ma proprio non ci riusciva più da anni a piangere. «Io non sono speciale.» Quasi con disprezzo. «Fai decidere me.» Con gentilezza. «Mi vuoi psicanalizzare?» Sorrisero, entrambi. Quel recinto che li intrappolava stava cedendo. Fu lui a dare la spallata decisiva. «No. Vorrei soltanto conoscerti. Vorrei sapere chi sei.» Milva distolse lo sguardo, fissando un punto oltre la parete, di fronte a sé. «Va bene.» Prese il pacchetto delle sigarette che lui aveva appoggiato sul tavolo. Se ne accese una e inspirò alcune profonde boccate. «Vuoi davvero sapere chi sono, Lupo?» Parlava senza guardarlo in faccia, dispersa in una nuvola di fumo. «D’accordo. Ormai non ho più niente da perdere. D’accordo.» Il Lupo attese in silenzio, concentrato sul suo bicchiere, in bilico tra il desiderio e il timore di guardarla in faccia. Alla fine fu lei a piantare gli occhi nei suoi, scuri e improvvisamente freddi. «Mia madre era un’alcolizzata. Mio padre non so neanche chi fosse. Vivevamo in una casa popolare, lei tirava avanti come poteva. Faceva le pulizie, ma spesso la licenziavano perché era sempre sbronza. Avrò 210 avuto dieci anni quando si è messa con un uomo. Era un figlio di puttana, ma almeno ci dava qualcosa per tirare avanti. Non voglio fare la vittima, c’è anche chi sta peggio. Ma non era facile per una bambina. Non era facile.» Una luce grigia filtra dalla piccola finestra, sul verde oliva delle pareti scrostate. Lei è seduta sul letto, tra le mani un Topolino sgualcito. Si sforza di leggere, cerca di non ascoltare. Ha imparato che tapparsi le orecchie non serve, in quel silenzio ovattato le cose arrivano lo stesso. Invece, se tiene la mente occupata, qualche volta riesce a non sentire. E se non sente, allora non c’è niente. Se non le sente non ci sono le urla, non ci sono le parolacce. Se non la sente, non c’è sua madre. Se non lo sente lui non c’è, non c’è mai stato. Ma oggi è difficile non sentirli. Gridano molto, oggi. Si alza e comincia a girare per la stanza, leggendo a voce alta. Si ferma alla piccola scrivania, prende una biro e il bloc-notes, prova a disegnare qualcosa. Niente da fare. Oggi è impossibile. Torna sul letto, si infila sotto le coperte, mette la testa sotto il cuscino. Ecco, forse funziona. Non gridano più. Il cuscino funziona. O forse hanno solo smesso. Sì, hanno smesso. Allenta un po’ la pressione del cuscino, sente di nuovo l’aria fredda sulle orecchie. Silenzio. Finalmente. Poi, passi. Pesanti. La mano sulla maniglia. No, ti prego. Sì, invece. Non ha chiuso a chiave, non c’è nessuna chiave. La porta si apre. Le solite parole mormorate, il peso sul letto, la mano che toglie il cuscino. Le parole più vicine, l’odore di vino. Lui la gira sulla schiena. Lei chiude gli occhi, riempie la mente. Non sentirà niente. E se non sente, allora non c’è niente. 211 «A un certo punto non ce la facevo più. Ero abbastanza grande, avrò avuto quindici o sedici anni. Sono scappata di casa. Da allora non ci sono più tornata. Mia madre non so neanche se è ancora viva, e sinceramente non me ne frega un cazzo. Non ce l’ho con lei, non è colpa sua se la vita fa schifo. Però sono contenta di non essere mai tornata indietro, di non avere mai mollato. Per me lei è morta quel giorno.» Fa una pausa, succhia nervosa un’altra sorsata di fumo. Al Lupo sembra di vedere un luccichio negli occhi scuri, ma non ne è sicuro. Forse è solo la sua immaginazione. «E comunque non è stata una passeggiata. Non sapevo dove andare. Non avevo nessuno, né parenti né amici. Cioè, qualche amico sì, ma non era gente a posto. Frequentavo brutti giri, mi spiego? Non mi fidavo. Sono andata in un posto, un bar. Conoscevo bene il gestore. Mi ha dato una mano… o forse no. Sicuramente no. Si è solo approfittato della situazione. Ma in quel momento ero disperata, ho accettato la sua offerta.» E’ notte fonda, quando la ragazza entra nel bar. Fuori piove, lei è fradicia, trema per il freddo. Dentro le luci sono basse, nuvole di fumo si alzano fra i tavoli. C’è la solita gente, umanità disfatta. La musica avvolge tutto, bassi potenti e chitarre elettriche. Lei si siede al banco, nasconde gli occhi dentro ai palmi delle mani. I capelli neri, bagnati, si incollano al viso. Gocce di pioggia miste a lacrime scendono sulle guance. L’uomo dietro al banco la vede, si avvicina, la saluta. Le prende il mento fra le dita, le scosta i capelli dal viso. Lei lo guarda, non deve spiegare molto. Lui sa, capisce. Conosce queste cose. 212 «Come farò adesso?» «Sei così bella. Lasciati aiutare.» «Ero giovane, fresca. Roba da ricchi, e lui l’aveva capito. Non andavo per la strada, per questo devo ringraziarlo. Forse senza di lui ci sarei finita. Stavo in appartamento, clienti di un certo tipo. Guadagnavo bene. Una vita facile. E se devo dirla tutta, non mi pesava neanche tanto andare con quei vecchi. Avevo imparato a non sentire, se solo volevo. E quando ero a letto ero io che comandavo. Anche se facevo tutto quello che volevano loro, anche le porcherie più schifose. Alla fine comandavo io.» L’uomo si annoda la cravatta intorno al collo flaccido. È davanti al grande specchio ovale con la cornice dorata. Riflessa, alle sue spalle, lei è ancora nuda sul letto, a pancia sotto. Sulla schiena e sulle natiche spiccano nitidi i segni rossi delle cinghiate. Forse stavolta ci è andato giù un po’ pesante. Ma è stata fantastica, come sempre. Forse anche più del solito. Lui si infila la giacca, dal portafoglio sfila alcune banconote e le posa sul comodino. Poi ne prende altre e gliele getta sulla schiena. « Queste sono un extra, per te. Oggi sei stata eccezionale.» Lei è girata dall’altra parte, non dice niente. Potrebbe dormire, per quanto è immobile. Ma lui sa che è sveglia. Fa per uscire, mette la mano sulla maniglia della porta, la apre. Poi ci ripensa. Si gira ancora verso di lei. « Tu sei diversa da tutte. Ci ho pensato tante volte, e forse oggi ho capito perché. Tu scopi meglio perché scopi con rabbia». Non aggiunge altro. Apre la porta e se ne va. Lei continua a stare immobile, girata dall’altra parte. 213 «E’ andata avanti così per anni. Non sono stati anni belli, ero una schiava. Ma i soldi arrivavano, avevo un tetto sulla testa, andava bene così. E poi non avrei saputo che altro fare. Poi un giorno è arrivato lui.» Quando lui entra, la prima volta, lei lo aspetta con addosso solo la biancheria intima. Nera, sexy. Quasi nuda. «Vestiti, per favore.» Lei lo guarda strana, sospettosa. «Non temere, faremo l’amore. Ma non così. Anche se pago, resti una donna. Non sei un pezzo di carne, per fortuna. Sarebbe un problema. Sai, io sono vegetariano.» E sorride. È come se una luce calda le si accendesse dentro. È spiazzata, non sa cosa dire. Anche lui è in imbarazzo, si vede. Lei si riveste. Si siedono. Parlano, a lungo. «Per sei mesi, è venuto due volte la settimana. Parlavamo, a volte mi leggeva libri. E ascoltavamo musica. Facevamo spesso l’amore, ma lui non sempre ci riusciva. Negli ultimi tempi non poteva più venire da me, allora andavo a casa sua. Ormai non mi facevo più pagare da tempo. Mi ero innamorata, Lupo. Ma gli restava poco da vivere. Aveva il cancro.» Sono nel suo letto. Lei ha il viso sul suo petto, e occhi tristi. Non era mai successo prima. Forse non lo eccita più, forse si è stancato di lei. Proprio ora, che pensava di essersi innamorata. Lui sembra leggerle nel pensiero. «Non è colpa tua. Tu sei più bella di sempre. Sono io. È la malattia». È un secchio d’acqua gelata sulla schiena. Cosa sta dicendo? Quale malattia? « Sono un maledetto egoista. Non dovevo permettere che accadesse, dovevo tenerti lontana. Non sono stato abbastanza forte 214 per tutti e due. Perdonami, ti prego». Lui adesso piange. E lei sente frantumarsi qualcosa, dentro. Si rannicchia contro di lui, come un feto. Ha paura, ora. Più di quanta ne abbia mai avuta prima. «E così sono scappata, un’altra volta. Non volevo che stesse con una puttana, lui meritava molto di più. E poi ormai andare con i clienti era troppo duro, non era più come prima. Siamo venuti a Reggio, di nascosto, dove lui conosceva un po’ di gente. Siamo spariti, da un giorno all’altro, finché lui stava ancora abbastanza bene. Ho trovato lavoro da operaia. Lui aveva qualche soldo da parte, siamo andati avanti così per un po’, finché ha cominciato a stare male davvero. Poi è morto.» Lei è in ginocchio di fianco al letto. I singhiozzi la scuotono, mentre stringe forte nei pugni la coperta. Lui ha il viso sereno. È stato lucido fino alla fine, l’ha lasciata guardandola negli occhi. Lo stereo continua a suonare, la voce potente di Milva tampona le sue lacrime come ha lenito il dolore fisico di questa lunga agonia. Lui ha voluto ascoltarla in continuazione, giorno e notte. «Senti che carattere, che sensualità. Tu devi essere sempre come lei, promettimelo. Forte e sensuale. Meravigliosamente donna, come ti ho amato. Ti prego, promettimelo.» Lei non c’è più, adesso. Non c’è più un nome, né un passato. C’è solo la sua promessa. Si tingerà i capelli di rosso, per sempre. E, per sempre, sarà soltanto Milva. «Uscire dal giro non è facile. Non basta cambiare città, devi proprio sparire. Lui mi aveva lasciato tutto quello che aveva. Non era tanto, ma 215 bastava per aprire il bar. Il mio bar, Lupo. Quanti sacrifici, quante notti a lavorarci dentro. Da allora c’è stata solo Milva, nient’altro. La sua Milva.» Fece una pausa. Si accese un’altra sigaretta. «E adesso quei figli di puttana stanno rovinando tutto. Mi hanno trovata. Ci ho pensato tanto, dev’essere stato un vecchio cliente. Una volta è venuto uno di passaggio, al bar. Non l’ho riconosciuto subito, ma lui mi ha guardata tanto… Non l’ho più rivisto, ma poco dopo sono cominciati gli avvertimenti. Fino ad oggi.» Il Lupo aveva ascoltato incredulo, senza aprire bocca. Stavolta non era un’impressione. Milva stava piangendo. Non aveva immaginato niente di simile, nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate. Ma non era sicuro di avere capito fino in fondo. Da qualche parte trovò il coraggio di chiedere. «… vogliono ammazzarti?» Milva lo guardò sorpresa per un istante. Poi sorrise. «Macché… se volevano ammazzarmi non eravamo qua a parlare. È sempre una questione di soldi, Lupo. Contano solo quelli.» «Ma… allora… non capisco, ti hanno chiesto il pizzo?» Milva scosse la testa, disperata. Andiamo bene. E questo dovrebbe aiutarmi? «No, Lupo, non è pizzo. Quelli che chiedono il pizzo non hanno nessun interesse a farti chiudere il locale. Se chiude il locale loro hanno finito di guadagnare. Questi sono gli sgherri del mio padrone, quello che mi dava da lavorare. Una puttana non può smettere così, da oggi a 216 domani. Se vuole uscire deve pagare. Io non ho pagato, e adesso che mi hanno ritrovato vogliono i soldi. Tutto qua.» «Quanto?» «Trenta.» «E' una bella cifra.» «Che non ho. E non voglio finire dagli strozzini, non ne uscirei mai.» «Ma se non riesci a trovarli, come pensi di venirne fuori?» «C'è una cosa che so fare bene.» «...» «E ho ricominciato a farla. Quel bar è mio e non permetterò a nessuno di portarmelo via.» Il Lupo stette in silenzio a riflettere. Non avrebbe mai potuto immaginare tutta questa storia. «E Barbara?» chiese senza neanche sapere bene il perché di quella domanda. «Sa tutto. Con il tempo ho imparato a fidarmi di lei. E le ho detto chi ero.» «Anche che hai ricominciato a…» si interruppe, imbarazzato. «A fare la puttana? Sì.» Il ragazzo si versò da bere, aveva tutta la gola secca. Milva continuò. «Allora, ora che sai tutto, hai ancora voglia di aiutarmi?» Lo chiese così, come aveva fatto per tutti quegli ultimi giorni. Con la grinta di chi non vuole elemosinare nulla. Il Lupo a quel repentino cambio di tono si ridestò e la fissò; una scarica di adrenalina lo percorse quando si rese conto che per la prima volta in vita sua stava riuscendo a sostenere lo sguardo profondo di Milva. 217 «Sì. E so anche quello che devo fare.» «Tu? Cosa vuoi fare? Spaccare la schiena a tutti i miei nemici?» Lui non si accorse del tono ironico. Forse neanche la stava più ascoltando. Aveva un piano in testa e lo voleva portare a termine. «Prendi.» Porgendole il suo cellulare. «Chiama Barbara e dille di venire qui. Così non stai da sola. Io ho da fare prima che sia troppo tardi.» «Qui? E perché dovrei restare qui, secondo te?» «Perché qui nessuno penserà di venirti a cercare. È un posto sicuro. Dai, chiamala.» «Voglio lasciarla fuori da questo casino» protestò decisa. «Ma lei c'è dentro come te! Se non le dici nulla domani andrà al bar e non sarà più al sicuro.» Milva rifletté su quelle parole. Era vero. Forse ancora per quella giornata non le avrebbero cercate, ma domani sì. Domani le avrebbero cercate al bar. Tutte e due. «Ma tu che cosa vuoi fare?» «Non ti preoccupare. Tu la chiami e le dici di venire qui. Al resto penso io.» Subito dopo si era chiuso in auto per pensare meglio. Avrebbe voluto più di ogni cosa poter passare la notte con lei, ma prima bisognava salvarla. Perché era ancora in pericolo. Trenta milioni non erano uno scherzo. Erano davvero tanti soldi. Lui non li aveva. Ma aveva degli amici. Insieme, sforzandosi, avrebbero anche potuto farcela a racimolare quella cifra. Era per Milva. Dovevano almeno provarci. Lei 218 con loro era sempre stata fantastica. Li passò mentalmente in rassegna tutti: Teenva, Fedele, Libero, il Grancia’n’bell’ano e il Discipulo. Avrebbe provato prima con Teenva: era il più ricco. Aspettò in auto, nel parcheggio, che Barbara arrivasse. Quando la vide entrare nel portone e salire, si decise a mettere in atto il suo piano. Si infilò il cappellino e prese il cellulare, scorse la rubrica, selezionò 'TEENVA' e pigiò la cornetta verde. Al terzo squillo Teenva rifiutò la chiamata, ma il Lupo non si diede per vinto e riprovò. Questa volta al secondo squillo l'amico spense proprio il cellulare. «Eddai!» urlò il Lupo frustrato dal comportamento di Teenva, ma ancora non domo. Aprì la cartella 'Messaggi' e ne scrisse uno. Poche parole: “oh teenva sono io. emergenza. ho bisogno di parlarti. e’ molto importante. lupo” Passò poi alla seconda telefonata. Decise di evitare il Grancia’n’bell’ano: in fondo tra loro due non c'era un rapporto profondo come con gli altri, lui non partecipava mai alle serate dell'Hdemia. Senza indugi chiamò Fedele. Dopo quasi un minuto di squilli, dall'altro capo del telefono lo raggiunse una voce atona e impastata. «Cosa c'è?» «Emergenza!» Fedele non lo fece neanche finire «Senti Lupo, non è proprio giornata…» «No, Fedele 'spetta, fammi dire.» «Non è proprio giornata» ripeté senza spessore Fedele. Poi spense il cellulare. 219 «No, no cazzo! No!» Diede un pugno al volante e lanciò il telefono sul sedile dove poche ore prima era stata seduta Milva. Non era possibile che nessuno volesse ascoltarlo. Era importante. Aveva una storia assurda da raccontare e un'amica – più di un'amica, per lui – da aiutare, ma sembrava che a loro non importasse niente. Restò a guardare il parcheggio dall'abitacolo della sua auto per un bel pezzo. Ogni tanto si sporgeva e guardava in su, verso la sua finestra. Improvvisamente il telefono lo avvertì dell'arrivo di un sms. Era Teenva. Il Lupo lo aprì subito, ma era formato da una sola parola: “vaffanculo” Appoggiò la fronte al volante per riflettere con calma, ma non gli veniva in mente più niente. Si sentiva in un angolo, senza più risorse. Non poteva tornare a casa e dire a Milva che non sarebbe stato in grado di aiutarla. Non poteva dirle che non era capace di proteggerla. Non voleva arrendersi, ma proprio non sapeva cosa fare. I suoi amici l'avevano abbandonato. Non era questa l'amicizia che intendeva lui. Guardò ancora una volta verso casa sua, le luci erano accese. Avviò il motore e uscì dal parcheggio. Qualcosa si sarebbe inventato. Dovevano ascoltarlo, almeno. *** Come sempre gli accadeva in quelle notti troppo ingombranti per lasciare spazio al Lupo, al cappellino, all'Hdemia, Cesare si ritrovò 220 ramingo per le vie della città che l'aveva adottato. Scivolava lento come le ore, con la brezza leggera della notte che entrando dal finestrino aperto gli confondeva ancor più i pensieri, senza nessuna idea, senza più fiducia. Aveva provato ad andare da Fedele di persona, ma non era riuscito a farsi aprire. Quando poi era arrivato davanti al cancello della villa di Teenva, tutta la determinazione di poche ore prima era svanita. Non aveva trovato neanche il coraggio di provare a suonare. Adesso si sentiva davvero solo. E così, consapevole o no, si trovò a sperare di trovare Sasha. Quando, all'altezza del distributore, vide la figura snella dell'amica, fece un sospiro di sollievo ed entrò. Aveva lasciato che Sasha lo coccolasse fino al termine della notte. Le aveva raccontato tutto, come sempre. E lei aveva ascoltato, paziente. C'era voluto del tempo perché il Lupo potesse farsene una ragione, ma Sasha aveva ragione: se voleva davvero aiutare il suo amore, se davvero voleva aiutare Milva, doveva sacrificare qualcosa di sé. Lo faceva per Milva. Per nessun altro. Lo avrebbe fatto per lei e per il bar. E chissà, magari anche per una vita insieme. Per scacciare i fantasmi del passato una volta per tutte. Una volta salutata Sasha il Lupo continuò a ripetersi tutto questo per tanto tempo. E più lo faceva più si convinceva a compiere quel passo, diventando sempre più consapevole che avrebbe dovuto rinunciare a ciò che aveva di più caro al mondo. Ma ne valeva la pena. Eccome se ne valeva la pena. Era per Milva. Era per loro due. 221 Quando si sentì finalmente pronto accarezzò dolcemente il volante, guardò l'orologio e prese il cellulare. «Ciao sono Cesare. Il Lupo.» «Ehilà mangiagnocca che combini? Non hai sonno?» La voce dall'altro capo del telefono era gioviale già alle 7 del mattino. «E' un'emergenza. Sto venendo da te.» «Ehi bello ma io mi sono appena svegliato. Facciamo che ci vediamo tra un paio d'ore, dai» «No, è troppo tardi... Senti se ci vediamo al bar e facciamo colazione insieme? Tipo tra un'ora?» «Uhmm va bene dai. Tra un'ora al bar.» «A dopo.» Il Lupo si sistemò ben bene il cappellino e inforcò gli occhialini: il sole era già caldo anche alle 7 del mattino. Si concesse ancora alcuni secondi per lasciare che il suo sguardo si posasse sull'interno della sua auto, poi finalmente mise in moto, accese lo stereo, lasciò andare la frizione e partì. Non pensò a niente in particolare durante il tragitto. Non pensò a quello che stava facendo, perché aveva già deciso di farlo. Pochi minuti dopo arrivò davanti alla concessionaria, entrò, parcheggiò la sua auto e spense il motore. Tirò un lungo sospiro e scese. Fece un giro intorno alla sua Golf e andò dritto verso il bar dove aveva appuntamento con il suo amico concessionario. Dovette aspettare un bel po' cercando di non pensare e leggendo senza interesse i giornali. Poi finalmente lo vide entrare. «Ho davvero bisogno di aiuto.» Non lo aveva neanche salutato. 222 «Che posso fare?» «Vendermi la mia macchina.» L'amico concessionario scoppiò a ridere. «Sei sempre il solito figlio di puttana! E io che c'ero pure cascato.» «No. Sono serio. Quanto può valere? Trentadue? Trentatré milioni?» «Ma... senti se hai bisogno di un prestito... dai cazzo…» «Non chiedermi niente. Non sono per me. A quanto la puoi vendere?» Il concessionario era interdetto. Non aveva mai visto il Lupo in quello stato. «Beh, sì, alla cifra che hai detto te la posso vendere quando vuoi. Una, due settimane...» «No Giulio, non ci siamo capiti. Quanto ci posso fare vendendola adesso?» «Eeeh?» strabuzzò gli occhi: non riusciva a credere alle proprie orecchie. Il Lupo non solo voleva davvero vendere la sua auto, ma addirittura voleva venderla subito. «Senti bello mica è così semplice... posso avere chi è interessato all'oggetto ma come vedi anche volendo... sono le otto del mattino!» «Cazzo. E non puoi fare delle telefonate?» «Mah... sì, certo che sì... ma non la venderai mai adesso.» Il Lupo ci ragionò sopra. A questo non aveva pensato. Certo, vado, vendo e torno con i soldi. Tutto fatto. Fatto un cazzo, invece. No, quella era la sua ultima possibilità. Non gli veniva in mente più niente. «E se me la compri tu? Poi la rivendi quando ti pare...» «Scusa...?» 223 «C'è una persona che ha bisogno di trenta milioni entro un’ora. Dammi trenta milioni e la mia golf è tua. Giuro.» «Per me sarebbe un affare... ma per te?» «Tu fammi l'assegno e poi l'unica cosa che dovrai fare sarà riportarmi a casa.» Il viaggio di ritornò fu breve e silenzioso. Il Lupo si fece scaricare davanti all'ingresso del parcheggio del condominio. Aveva i soldi. Tutti. Più tardi sarebbe andato in banca, avrebbe prelevato il contante e l'avrebbe portato a quei bastardi. Ma questo dopo. Adesso c'era da festeggiare. Si sentiva pronto a stare con Milva. L'aveva salvata. Aveva seguito i suoi sogni. Gonfio di gioia salì veloce le scale ed entrò nell'appartamento. «Milva! Barbara! Grandi novità per...» ma non riuscì a terminare la frase. La porta della camera da letto era aperta e le vide. Milva e Barbara. Insieme. Abbracciate. Nel suo letto. E questa proprio non se la sarebbe mai aspettata. Proprio no. Quando le due donne lo videro, dopo un breve momento di imbarazzo sorrisero entrambe, scivolarono fuori dalle lenzuola e gli andarono incontro. Quelle due nudità così diverse tra loro lo stordirono. Il Lupo sentì qualcosa sulla guancia, di caldo. «Ma...» No, dài, non può essere vero. «Grazie Lupo. Davvero. Sai quanto ci tengo a Milva.» «Eeeh? Beh... no... a dire... cioè, sì. Sì, credo di sì.» 224 Eh sì, Lupo: Barbara ci tiene davvero a Milva. Eccome. «Ma voi due...» «Ehi... ma davvero non te ne sei mai accorto?» continuò Barbara. «...» Accorto? Eh no, proprio no. «...noi due stiamo insieme.» Solo dopo quelle parole il Lupo capì cos'era quella cosa calda sulle guance. Lacrime. Stava finalmente ricominciando a piangere. Era la prima volta che ci riusciva, dopo aver lasciato la Sicilia. «No, no, no Lupo non fare così, dai. Cosa sono quelle lacrime?» «...» Lacrime? Lacrime? Quali lacrime? Queste. Ah! Vedi un po'. Il Lupo a fatica frugò in tasca e appoggiò l'assegno da trenta milioni sul letto. Non riusciva proprio a dire nulla. «Dio santo Lupo! Ma è per me?» Milva si portò le mani ai capelli. Non riusciva a crederci. Aveva i soldi. A quello che sarebbe accaduto dopo non voleva pensare. Aveva i soldi. Le due ragazze lo avvolsero in un abbraccio. Lui non parlava. Ancora non capiva bene. Barbara e Milva, invece, capivano benissimo. 225 EPILOGO Cinque anni dopo Una pioggia leggera e insistente appesantisce l’aria della periferia. C’è odore d’inverno, e una cappa umida che penetra sotto gli impermeabili e le buone intenzioni. Il grosso edificio in stile industriale, due piani di cemento lunghi ottanta metri e larghi trenta, presenta a Cesare il conto salato della città anni zero, il retrobottega del benessere. Insegne luminose circondate da vaste aureole di sporco grigio sormontano tristi occhi di bottega. La filiale di un credito rurale. Un negozio di computer. Una mensa aziendale. Vetrate non proprio brillanti in cui si riflettono il cielo grigio e gli schizzi delle auto lanciate lungo la grande via del quartiere industriale. D’istinto, Cesare mette la freccia ed entra nel vialetto asfaltato che gira intorno allo stabile, striato dalle righe bianche dei parcheggi. Percorre lentamente tutta la fiancata e arriva all’angolo. Gira a sinistra, e parcheggia circa a metà del lato corto. Il suo parcheggio, appena distante dall’entrata. Apre la portiera, pianta la solida scarpa antinfortunistica dentro una pozzanghera, non se ne accorge nemmeno. Cammina ancora qualche metro, sotto la pioggia. Non ha niente in testa, solo i capelli scuri e una 226 calvizie sempre più decisa. Si accende una sigaretta e sosta silenzioso di fronte alla vetrata. È tutto spento, naturalmente. Non è cambiato niente dall’ultima volta che è venuto qui, tre anni fa. Solo il cartello sulla porta – “Chiuso per malattia”, scritto a mano con il pennarello nero - non c’è più. Era successo così, da oggi a domani. La sera prima Milva e Barbara erano dietro al bancone a spillare birre, il giorno dopo il locale era chiuso. Nessuno sapeva cosa fosse accaduto. Con i trenta milioni il problema era stato risolto, Milva non aveva più ricevuto minacce, e il bar era rimasto aperto per altri due anni. Lui ci era andato ogni tanto, ma non più così spesso. Poi, improvvisamente, quel cartello. E Milva era letteralmente sparita. Cesare aspira una lunga boccata, chiude gli occhi, poi li riapre e si avvicina ancora di più al vetro. Cerca di guardare dentro. È tutto vuoto. Nessun bancone, nessun tavolo nero, nessuno sgabello. Hanno portato via tutto. Il Bar Milva non c’è più. Non c’è più nemmeno il Lupo, è rimasto solo Cesare, il caporeparto. Ha fatto un po’ di strada, in fabbrica, da quando l’Hdemia ha smesso di esistere. Anche la chiusura del bar, in fondo, è stata una naturale conseguenza di quella fine. Come se Dio avesse capito che quel posto esisteva solo per permettere al Lupo di ululare alla solitudine, con il suo piccolo branco. Ma forse a quel punto non aveva più importanza. Forse, a quel punto, niente aveva più importanza. Cesare volta le spalle al vetro e fa per risalire in auto, poi ci ripensa. Appoggia la schiena alla porta e si accende un’altra sigaretta. Ha voglia di essere il Lupo ancora per un po’, prima di tornare in fabbrica. Si 227 passa una mano fra i capelli bagnati, e per un attimo si sorprende di non trovare il suo cappellino Ducati. Sposta lo sguardo sulla sua auto. Ci ha messo cinque anni, ma alla fine se l’è ricomprata, la Golf GTI. Però guidarla non è più la stessa cosa. Il profumo dei sedili nuovi non è più lo stesso, e adesso non gli sembra più la miglior macchina del mondo. Sorride, ripensando a quei momenti in cui la guardava come un figlio, pensando che la Z3 di Teenva, sì, non era male, ma aveva meno personalità. Teenva. Non l’ha più visto né sentito. In compenso ha visto il suo nome sui giornali, molte volte. Avvocato anche lui, nello studio del padre. Sui giornali però c’era andato più per la coca e le puttane che per i successi in tribunale. Aveva passato qualche momento difficile, ma l’avvocato Zoboli l’aveva sempre tirato fuori. Fedele era stato meno fortunato. L’ultima volta l’aveva visto in un bar del centro. Aveva provato a dirgli qualcosa ma lui non l’aveva quasi riconosciuto, tanto era sbronzo. Gli aveva fatto un sorriso assente, farfugliando qualcosa fra sè, poi era tornato a bere, da solo. A Cesare era dispiaciuto vederlo così, ma non aveva saputo fare di meglio che uscire dal bar e andare via. Degli altri non aveva più saputo nulla, né visti né sentiti. Erano spariti così, cancellati insieme a tutte le mail Hdemiche e le belle parole sull’amicizia. Cesare tira l’ultima boccata e getta il mozzicone in una pozzanghera. Torna alla macchina e apre la portiera. Guarda ancora la vetrata nera e per un attimo gli sembra di vedere la sagoma di Milva armeggiare dietro al bancone. Bestemmia sottovoce. “Ma cosa ci faccio qui?”. 228 Accende il motore, mette la prima e parte. Lo scheletro del Bar Milva affonda lentamente nella pioggia, dietro le sue spalle. 229 230