GIUGNO 2006 - contiene inserto redazionale
Editoriale
Dolce mangiare
NUMERO 21
zione e del consumo di zucchero in Europa: 70.000 nel 1508;
380.000 nel 1570; 1.240.000 nel 1600; il fenomeno ha subito
un’ulteriore accelerazione nei secoli successivi.
Il consumo di zucchero ha progressivamente interessato tutti
gli strati sociali; nell’Ottocento, il suo impiego è ben documentato nelle campagne e nel Novecento si tratta ormai di un
prodotto a buon mercato, quello che senza dubbio fornisce la
maggior quantità di calorie al prezzo più basso.
Naturalmente nei secoli precedenti l’aumento del consumo
di zucchero riguardava essenzialmente l’élite, così come si
riferiscono alle classi superiori le trasformazioni del gusto e
delle pratiche alimentari rivelate dallo studio dei ricettari che
ci sono pervenuti.
I libri di cucina fanno la loro comparsa nell’Europa Occidentale
intorno al 1300. Lo studio statistico degli ingredienti menzionati in ogni ricetta dà un’idea delle abitudini alimentari delle
classi elitarie. Non diversamente da noi, le popolazioni del
Tre-Quattrocento utilizzavano in cucina olii o grassi vari, pur
facendone un uso meno frequente. A parte rare eccezioni, per
esempio, le loro salse non contenevano né burro né olio; ai
condimenti grassi si preferivano allora, in tutta l’Europa occidentale, quelli speziati.
L’analisi statistica rivela tuttavia differenze di gusto nelle varie
gff
nazioni. I Francesi del Trecento avevano una vera e propria
passione per i sapori aciduli e utilizzavano vini più o meno agri
o agresto (mosto di uva acerba) in quasi il 70 per cento delle
loro ricette.
Per la tornata estiva del Tribunato di Romagna, domenica
In ciò si distinguevano dagli Inglesi, dagli Italiani e dai
14 maggio, ci siamo trovati presso la Biblioteca di “Casa
Catalani.
Oriani” gentilmente concessaci dal direttore dott. Dante
Altro elemento di differenza è lo scarso interesse per i dolci
Bolognesi, amico tribuno.
e per gli ingredienti zuccherati (miele, zucchero d’uva o vini
Il tema seguiva il filo conduttore di questo anno, vale a dire
cotti, fichi secchi, datteri, prugne), i quali ricorrono in una perle “Eccellenze romagnole” ed era stato proposto nell’ ulticentuale inferiore all’8 per
ma tornata dal collega tricento nelle ricette francesi, e
buno on. Stefano Servadei.
in metà circa di quelle ingleIl tema relativo: Il porto
si, catalane e veneziane.
di Ravenna, la sua storia
Col passare dei secoli i gusti
e l’importanza nel territosi modificano. I Francesi
rio è stato brillantemente
hanno gradualmente addoltrattato dal dr. Giuseppe
cito i loro condimenti, non
Parrello, presidente l’Autanto eliminando gli ingretorità Portuale e dall’ing.
dienti acidi, quanto piuttosto
Leonello Sciacca, direttore
attenuandoli con zucchero,
generale della S.A.P.I.R.
burro e olio.
per il porto intermodale
Lo zucchero, che figurava
di Ravenna, di fronte ad
nel 5 o 6 per cento delle riun numeroso pubblico di
cette durante il XIV secolo,
tribuni e familiari.
sale al 20 per cento alla fine
Prima di trattare il tema,
del XV, e supera il 30 nella
il nostro presidente sen.
prima metà del XVI. Il burLorenzo Cappelli ha riro, che era impiegato dall’1
cordato la figura dell’avv.
al 3 per cento delle ricette
francesi nel XIV secolo,
Massimo
Stanghellini
supera il 7 alla fine del XV,
Perilli, ravennate,
per
il 33 nel XVI, oscillando La “claziò” alla osteria , disegno di Celso Anderlini
dodici anni nostro Primo
fra il 35 e il 60 per cento
Tribuno.
nel XVII e XVIII secolo. Ci sarebbe da meravigliarsi se una
Quindi sono stati nominati tribuni e incaparellati il
simile trasformazione dei gusti e delle abitudini alimentari non
dott. Matassoni Mauro di Rimini, medico chirurgo,
avesse avuto ripercussioni sul grado di corpulenza di uomini
il rag. Giuseppe Mercatali di Modigliana, funzionae donne.
rio Confartigianato e segretario dell’Accademia degli
In effetti, nulla fa supporre che cibi più grassi e dolci siano
Incamminati, l’avv. Gianluca Riguzzi di Ravenna, consustati assunti in quantità minori, nonostante le tenaci leggende
lente aziendale e il prof. Nevio Spadoni di Ravenna docente
che circolano a questo proposito.
delle scuole medie superiori.
Semmai è vero il contrario: se esaminiamo quadri e incisioni
L’ottimo pranzo conviviale si è svolto nella Enoteca Cà de
con scene di pranzi aristocratici, nella maggior parte delle
Vèn.
opere medievali colpisce l’ascetismo, laddove l’iconografia
Per gentile concessione dell’Autorità portuale la giornata
del Sei-Settecento è sovraccarica di vivande. Tutte le ricerche
si è poi conclusa con una visita in barca nel Porto Canale.
condotte nel nostro secolo mostrano d’altronde che l’aggiunta
La CCX tornata a Ravenna
di zucchero in un alimento ne accresce il consumo, e si conosce con molta precisione l’enorme incremento della produ-
1
IL PORTO DI RAVENNA
Darsena del porto di Ravenna a fine Ottocento
2
Il Porto di Ravenna è una grande struttura in grado di offrire la più
completa gamma di servizi ad ogni tipo di merce.
I grandi investimenti pubblici e privati effettuati negli ultimi anni
ne hanno ulteriormente migliorato le dotazioni infrastrutturali ed
i collegamenti alle grandi reti dei trasporti merci, facendone uno
scalo all’avanguardia, bene inserito sulle principali reti di traffico.
Questo grande sistema logistico ed industriale affonda le sue radici
in una antichissima tradizione portuale che, in virtù della sua fortunata posizione geografica, risale al I secolo a.C. quando l’imperatore romano Ottaviano Augusto dislocò nel porto di Classe una
delle due flotte imperiali.
Il legame tra Ravenna ed il porto romano, da sempre vivissimo,
è oggi rinnovato dall’apertura dell’imponente sito archeologico di
Classe. Il porto continuò ad essere attivo anche dopo la crisi dell’impero nel III sec. e conobbe nuovo splendore in età bizantina, di
cui ci è data testimonianza nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo.
La storia del porto è successivamente contrassegnata da interramenti, da eventi alluvionali e dai necessari spostamenti da un’ansa all’altra della laguna che circondava la città fino a quando,
nel 1738, il porto Corsini (dal cognome della famiglia di Papa
Clemente XII), ha iniziato la sua attività con un canale lungo undici
kilometri che collega Ravenna al mare.
Il suo decollo come grande porto di rilevanza economica internazionale si ha nell’ultimo dopoguerra, in coincidenza con l’insediamento sulle sponde del porto canale di raffinerie e del petrolchimico legato alla scoperta di estesi giacimenti di metano nelle
acque antistanti la città. La sua caratteristica, allora unica in Italia,
lo rendeva non invasivo sul territorio urbano circostante e quella di
non essere proprietà del Demanio statale, lo svincolava dal monopolio tariffario delle Compagnie Portuali. Con la crisi petrolifera
degli anni 1970 si accentuano le caratteristiche commerciali dello
scalo e, a quelli già avviati, si aggiungono, sempre per iniziativa di
privati con tariffe economiche, nuovi terminali specializzati nella
movimentazione di “rinfuse”, merci varie e container.
Da allora il porto è teatro e fulcro promotore di un incessante sviluppo che lo ha portato ad ampliare ed al contempo specializzare
l’offerta di servizi, ottenendo standard qualitativi sempre più elevati ed a raggiungere posizioni di primato in Italia quanto all’importazione di merceologie alla rinfusa ed al traffico di merci varie ed
in container con il Mediterraneo Orientale ed il Mar Nero.
In virtù della sua strategica posizione geografica il Porto di Ravenna
si caratterizza come leader in Italia per gli scambi commerciali con
i mercati del Mediterraneo orientale e del Mar Nero e svolge una
funzione importante per quelli con il Medio e l’Estremo Oriente.
L’inclusione di Ravenna nei sistema della grande viabilità ed il
collegamento con le principali reti trasportistiche ne fanno un porto
facilmente raggiungibile dai maggiori centri italiani ed europei.
La connessione con la rete autostradale assicura rapidi trasferimenti
verso le regioni settentrionali dell’Italia, dei paesi transalpini e dell’Europa centrale e settentrionale. Il collegamento con Roma ed il
Sud è assicurato dalla superstrada E 45 e dalla autostrada A 14. Le
potenzialità del porto sono rafforzate dall’inserimento di Ravenna
nell’European Freeways Network e dalla sua collocazione quale
snodo fondamentale del “Corridoio Adriatico”.
Alla rete viaria si sovrappone, in pratica, quella ferroviaria, alla
quale i principali terminali sono raccordati con vari fasci di binari,
in corso di prolungamento lungo la sponda sinistra dei porto canale.
In particolare, i terminal di movimentazione container e merci
varie, costituiscono veri e propri nodi intermodali.
Il Porto di Ravenna è sempre stato gestito da operatori privati che
hanno costruito i terminal investendo capitale proprio.
I terminal, perciò, operano da sempre in regime di concorrenza ed
hanno conseguito, in tal modo, alti standard qualitativi, di efficienza e di affidabilità.
Nei corso dei tempo le imprese private che gestiscono il porto si
sono specializzate: 15 terminal e 9 depositi costieri sono operativi
nel porto dove può essere movimentata qualsiasi tipologia di merce.
Ai terminal con banchina in concessione si sono aggiunte altre
imprese specializzate nelle operazioni di sbarco.
Le imprese portuali ed i depositi costieri dispongono di una grande quantità di mezzi per lo sbarco/imbarco e di strutture che consentono una grande capacità di stoccaggio.
Il traffico marittimo del Porto di Ravenna ha seguito un trend di costante crescita, facendo registrare dai 1990 un tasso di incremento
medio annuo del 4,2 % e raggiungendo nel 2001 una movimentazione complessiva di circa 24 milioni di tonnellate.
Tra le merci movimentate, gli incrementi più rilevanti registrati
negli ultimi anni, hanno riguardato i prodotti metallurgici, provincipalmente coils, minerali greggi e materiali da costruzione, in particolare le materie prime per l’industria della ceramica, tipologie
merceologiche per le quali il Porto di Ravenna è leader nazionale.
Lo scalo ravennate è inoltre il principale porto italiano per la movimentazione di cereali, fertilizzanti e sfarinati ad uso animale.
Ravenna è collegata con servizi di linea e “navi tramp” con tutto il mondo, ma il bacino di traffico principale è costituito dal
Mediterraneo e dal Mar Nero (circa 70% del traffico).
Significativi anche gli scambi con l’America Meridionale e
Settentrionale, da cui provengono sfarinati, oli combustibili e
combustibili minerali solidi, con l’Europa Settentrionale, con il Far
East e l’Oceania, aree di importazione dei coils. Per quanto attiene
il movimento dei contenitori, il Porto di Ravenna è leader in Italia
per i traffici con i Paesi del Mediterraneo Orientale e del Mar Nero;
via “feeder” vengono invece effettuati collegamenti con il resto dei
mondo.
Ravenna rappresenta inoltre un polo primario per i servizi di cabotaggio nazionale e costituisce uno snodo fondamentale nello
sviluppo delle nuove direttrici delle “Autostrade dei Mare”.
Veduta aerea delle banchine del porto.
LA CANTINA GRANDE
del Palazzo Rasponi a Raffanara di Russi
3
Russi, villa San Giacomo
Che il territorio di Russi, ed in particolare la zona di San Giacomo,
siano sempre stati territorio di coltivazione della vite è suffragato
dalla presenza di un antico pressatoio situato all’interno del perimetro degli scavi della Villa romana, a poche centinaia di metri
dal Palazzo Rasponi. Questo pressatoio restò probabilmente attivo
sin verso la fine del V o VI secolo ed era abbastanza capiente da
assicurare una quantità di vino e di mezzo vino che certamente
eccedevano le esigenze interne di tale insediamento1. Tra i vitigni
che rifornivano di uva l’antico pressatoio c’erano quasi senz’altro
il Trebbiano e l’Albana ma si presume vi fossero anche vitigni
spontanei o locali, oltre ad altri provenienti dalla Grecia. Tra le
uve rosse si può supporre vi fosse la Canina Nera, chiamata anche
Canicola da de’ Cresenzi nel suo testo del 1308. Dopo l’abbandono della villa romana la viticoltura continuò probabilmente il
suo corso ed un nuovo sviluppo fu promosso, soprattutto a partire
dal 1400, grazie ai contratti ad milioratum stipulati tra i monaci
dell’Abbazia da Porto di Ravenna ed i loro affittuari. I primi possedettero la Tenuta di Raffanara Madrara a partire dal Duecento
sino al 1663, anno in cui venne acquistata dalla famiglia Rasponi.
Ai primi del Seicento questa tenuta, avente una superficie di 1106
tornature ravennati, era suddivisa in una trentina di unità poderali
(poderi veri e propri e siti per casanti) ed i terreni erano censiti,
per circa l’80%, come arativi vitati ed arborati. L’indirizzo viticolo (vite promiscua) era quasi esclusivo nei poderi più alti e posti
nelle immediate vicinanze del Palazzo: podere Palazzo, podere
Gamberina, podere Pino, ecc. Facendo un passo indietro nei secoli si rileva anche come questa importante famiglia si fosse già
indirizzata verso l’acquisto di terre da grano e vite2 nel territorio
di Russi: nel 1492 Ludovico Rasponi aveva comprato a Raffanara
una possessione con viti et porcis; alla fine del Cinquecento possedeva alcuni poderi ad indirizzo viticolo arborato nella frazione
di Cortina. E’ però a partire del ‘600 che affiorano numerosi documenti inerenti la gestione agricola di questa Tenuta. Tra l’altro
gli antichi proprietari, i frati dell’Abbazia da Porto di Ravenna, si
preoccupavano di ricevere dai loro affittuari i vini migliori. In un
diacetto del 1657, conservato presso l’Archivio di Stato di Ravenna, si legge che i contratti d’affittanza prevedevano, oltre a canoni
espressi in grano, la consegna in Ravenna a gratis di carra quattro
di vino rosso di Gualdo, di carra uno di vino Trebiano di Madrara
e di carra sette di Uva Dora di S. Giacomo.
In sostanza i monaci Portuensi, pur possedendo migliaia di ettari
di terreni agricoli distribuiti tra il ravennate, le colline del forlivese e del riminese, eleggevano come loro preferiti due vini della
tenuta di Raffanara Madrara (il Trebbiano e l’Uva Dora), oltre al
vino rosso di Gualdo (frazione di Meldola) che, presumibilmente,
doveva trattarsi di un buon uvaggio a base di Sangiovese.
Nel 1663 Guido Carlo Rasponi, fratello del Cardinale Cesare, acquistò la tenuta e impresse un certo sviluppo ai poderi. Si passò ad
una gestione più diretta eliminando, tra proprietà e coloni, le figure degli affittuari. Inoltre si pose particolare attenzione alla coltivazione della vite e alla produzione e vendita di vino, da cui dipendeva gran parte dei flussi di cassa dominicali. Si favorì inoltre la
coltivazione di vitigni rossi di maggior pregio, quali il Marzemino
o Barzemino, che era già presente in Romagna sin dal Seicento e
serviva molto probabilmente a migliorare la qualità degli antichi
vini rossi, quali ad esempio quelli ottenuti dalla Canina Nera. I
Rasponi erano ben consci della buona qualità dei loro Marzemini
tanto che, nei patti colonici del Settecento, vi era una clausola che
stabiliva l’integrale inclusione di queste uve nella quota dominicale. In sostanza la Canena di Russi e di Ravenna, citata in letteratura
(Poletti, Bacco in Romagna, 1818) ed ampiamente consumata sin
dai primi dell’Ottocento nelle osterie di Ravenna, era anche allora
un uvaggio a base di Canina Nera, più una certa quota di Barzamino ed altri vitigni locali minori.
E’ pure immaginabile che questa tenuta, al pari di altre situate
nell’Alta pianura e nella Bassa collina romagnola, avesse instaurato in campo vitivinicolo quella che noi potremmo oggi definire
“filiera di settore”3. Non è neppure escluso che queste tenute avessero, sia pure indirettamente, adottato nei confronti del consuma-
4
tore un sistema di comunicazione o di capacità attrattiva analogo
a quello dei moderni marchi: il lento scorrere per le vie delle città
dei carri pieni di vino recanti lo stemma dei Rasponi, solleticava
forse i clienti del Seicento, al pari di quanto oggi accade per un
accattivante messaggio pubblicitario.
L’uva veniva allora vinificata, oltre che nella Cantina Grande di
San Giacomo, anche in quella di Ravenna. In particolare la Canina Nera viene chiamata in causa nei Libri Mastri, sia come uva
destinata alla vinificazione sia come vino venduto a vari osti del
territorio. In un documento contabile del 1690 si parla inoltre di
una lite sorta tra i Bonaventura (ramo dei Rasponi) e gli altri eredi,
per il fatto che i primi avessero consumato il vino Rossa Canina
contenuto nelle botti della Cantina grande di San Giacomo.
Negli anni che vanno dal 1679 al 1685, la tenuta di Raffanara Madrara produsse una media annua di 3559 quintali di uva, con una
punta di quasi 4300 quintali nel 1680. La quota di uve dominicali
(2060 quintali in media all’anno) si vinificava nella Cantina grande, che era collocata sul retro ed in adiacenza dell’attuale Palazzo.
L’uva restante (1500 quintali circa) era ripartita tra i vari coloni
e casanti e serviva a produrre vini destinati essenzialmente alla
sussistenza di queste famiglie.
La Cantina Grande di San Giacomo produceva soprattutto vini
rossi: 74,5% contro il 25,5% di bianchi. Le uve prevalenti venivano indicate in modo generico come Uve rosse (58,1%) e si può
supporre che si trattasse di Canina Nera, anche in relazione al
minor prezzo rispetto all’Uva Dora e al Trebbiano, allora considerate di maggior pregio. Tra i vitigni rossi seguivano l’Uva Dora
(11,2%) e l’Uva Dolze o Guizzadola (5,2%). Tra le uve bianche si
produceva una non meglio definita Uva Bianca (17,8%), oltre al
Trebbiano o Trebiano (7,7%). In sostanza San Giacomo era anche
in passato territorio di elezione per i vitigni a bacca rossa, i quali
venivano utilizzati per produrre tre tipi di vino: un generico Vino
rosso, l’Uva D’Oro e la Canina Nera. Il primo era quasi senz’altro
un uvaggio a base di Canina Nera, l’Uva D’Oro era un vino monovarietale, mentre il vino Canina Nera veniva battezzato come
l’omonimo vitigno solo nelle annate migliori o per partite raccolte
in modo selettivo.
Facendo ora un confronto tra la situazione del Seicento e quella
odierna potremmo constatare come la viticoltura della pianura romagnola sia rimasta sostanzialmente fedele alle proprie radici. E’
stata lasciata un po’ in disparte l’Uva D’Oro poiché non risponde
più alle attuali preferenze dei consumatori, mentre si utilizzano
alcuni vitigni internazionali, per lo più nella misura consentita dai
disciplinari.
Il passato potrebbe offrire interessanti spunti per il rilancio dei vini
rossi della pianura romagnola e ravennate in particolare; la proposta potrebbe essere così sintetizzata:
- un generoso vino rosso (es. Rosso Ravenna, di cui esiste già
l’IGT);
- l’antica e briosa Canena, da vinificare assieme ad altri autoctoni della tradizione (es. Barzamino, Curnacia, ecc.) ed avvalendosi di un’accurata conduzione di vigna;
- l’autoctono Burson, che completerebbe la gamma offrendo un
prodotto corposo e di lungo affinamento.
D’altra parte, l’odierna produzione di massa potrà sussistere solo
se sarà suffragata da improbabili ritorni economico-aziendali. La
qualità territoriale, obiettivo cui deve tendere anche la pianura,
richiede tuttavia investimenti a più livelli (tecnico-strutturale, di
marketing e in politiche di comunicazione). Solo così si potrà fare
affidamento sui consumatori affinché inseriscano i nostri vini nel
loro ideale paniere dei prodotti di qualità.
Donati Francesco
Docente di Marketing e Comunicazione
Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia
Università degli Studi di Udine
Per avere un’idea precisa dell’importanza di questa cantina si
fornisce la tabella con i quantitativi di uva vinificati per singolo
vitigno, dal 1679 al 1685.
Tenuta di Raffanara:
uve prodotte e uve vinificate nella cantina di San Giacomo
Totale uve
prodotte
(qli)
di cui uve
bianche
(qli)
1679
2609,5
599,0
2010,5
1651,0
1680
4293,0
1146,0
3147
2677,0
1681
3064,9
659,7
2405,22
1942,5
1682
3230,0
563,0
2667
2025,0
1683
3803,5
1072,4
2731,11
2316,2
1684
4132,6
1074,7
3057,97
2299,8
1685
3777,2
1178,6
2598,56
1510,3
Media annua
3558,7
899,1
2659,6
2060,2
Anni
di cui uve Uve vinificate
rosse (qli) a S. Giacomo
(qli)
1 L. G. Moderato Columella, De Agricoltura. Questo autore afferma (Libro
3.2-5) che il territorio di Faenza (Faventino agro) era famoso per l’elevata
rese di uva e vino (oltre 200 hl di vino ad ha). Anche Varrone commenta le
elevate rese di vino del Faentino (300 anfore di vino a iugero, equivalenti a
309,5 hl/ha). E’ quindi da supporre che la zona di Russi, distante poche miglia
e con caratteristiche pedologiche analoghe, presentasse analoga produttività.
2 Il conte Raspone Rasponi aveva comprato a Ravenna, nel 1519, una vigna
posta fuori Porta Giulia; un’altra vigna venne acquistata nel 1575 a S. Lusa
di Faenza (S. Lucia), al prezzo di scudi 704. Altri terreni vitati ed arborati
si trovavano nella loro tenuta di Savarna, più vari poderi posti a Campiano,
Filetto, Santerno, Bagnacavallo, ecc.
Russi, villa San Giacomo e cappella
3 Le uve venivano vinificate in cantina; c’era inoltre un reparto distilleria che
produceva acquaviti; nei libri contabili sono puntualmente annotate le spese
sostenute per l’acquisto di sostanze usate nella correzione dei vini nonché
le prestazioni di specialisti impegnati a tal fine. Inoltre il trasporto del vino,
sino alle località romagnole o bolognesi di consumo, veniva effettuato usando
carri della tenuta che recavano, sulla trave posteriore, lo stemma dei Rasponi
ed analogo logo si presume fosse impresso sul fondo delle botti per facilitarne
il riconoscimento.
LE STRADE ROTABILI
Dovadola, una via di comunicazione, tempera di A.Fedin, 1788.
Nel caso particolare della Romagna toscana, la realizzazione di strade rotabili appariva questione della massima urgenza, in quanto si
trattava di rompere un isolamento ormai secolare, dovuto, oltre che
alla colpevole negligenza di circa due secoli di dominio mediceo,
in massima parte alla asperità del suolo e alle avverse condizioni
climatiche che per molti mesi all’anno rendevano quasi impossibili i
collegamenti con la Capitale.
È ovvio che il problema aveva risvolti tecnici (oltre che politici) di
grande complessità: il riattamento di una o più delle vecchie mulattiere lungo le quali per secoli si erano svolti, in modo alquanto
disagiato, gli spostamenti attraverso l’Appennino, comportava
non solo l’individuazione con estrema chiarezza di una direttrice
privilegiata capace di mettere in moto l’economia dell’intero comprensorio (da collegare con l’asse principale della vita economica
del Granducato, situato sul basso corso dell’Arno lungo la direttrice
Firenze-Livorno), ma anche un eccezionale impegno di risorse umane, economiche e di ingegneria..
Ne era presupposto fondamentale il superamento della tradizionale
concezione secondo la quale gli elementi fisici (e prima fra tutti
la montagna) erano considerati, dal punto di vista militare, come i
cardini del sistema difensivo toscano. Si affacciò cosi sempre più
insistentemente il progetto di una transappenninica, capace di collegare il porto di Livorno con i porti dell’Adriatico e lungo la quale
trasportare, con risparmio di tempo e di denaro, i prodotti (cereali,
sale, seta grezza, ecc.) di cui la Romagna era ricca.
Già sotto il governo della Reggenza si procedette a interventi sulla
strada Bolognese (1749-52) che lambiva la Romagna toscana ad est
di Firenzuola attraverso il passo della Futa, lungo la direttrice Monte
Carelli-Covigliaio-Filigare; ma l’opera, condotta con approssimazione, lasciò insoddisfatti molti, anche perché fu necessario aspettare
il completamento dei lavori sul versante pontificio (1759-64) perché
essa potesse essere percorsa completamente da Firenze a Bologna.
A fianco della Modenese per il passo dell’Abetone (progettata dallo
Ximenes negli anni 1760, e aperta a regolare transito già nel 1779) il
sovrano Pietro Leopoldo caldeggiò la realizzazione di una terza rotabile transappenninica, al fine di collegare il Granducato con l’Adriatico attraverso la Romagna toscana (o in alternativa il Casentino),
per assolvere la doppia funzione di direttrice di scambi con lo Stato
Pontificio e di rivitalizzazione di queste terre di confine.
In questo ambito si collocano senz’altro la costruzione della Pontassieve Ponticino di San Godenzo (1783-87), e della
Pontassieve-Consuma (1787-89).
Sul versante romagnolo, nel 1787 furono inoltre avviati i lavori nel
tratto tra Terra del Sole e Rocca San Casciano.
Ancora all’inizio dell’Ottocento, nonostante i provvedimenti presi
nella seconda metà del XVIII secolo, la viabilità della Romagna toscana, data la generale mancanza di opere di regimentazione idraulica nei fondovalle (sedi stradali non protette, mancanza di ponti,
ecc.), era costituita per lo più dai numerosi percorsi di costa situati
lungo le pendici dei crinali secondari sub appenninici e dai sentieri
di attraversamento congiungenti una vallata all’altra. L’obiettivo,
perseguito durante tutta l’età della Reggenza e soprattutto durante
l’esperienza di governo di Pietro Leopoldo, di collegare la Romagna
toscana al cuore produttivo del Granducato, era stato sostanzialmente mancato, condizionato pesantemente dall’indecisione su quale
linea seguire nell’attraversamento dell’Appennino e dalle eccessive
spese già sostenute o soltanto preventivate.
Al termine della dominazione francese (1799-1815), durante la quale soltanto nel distretto di Modigliana furono compiuti interventi di
ammodernamento della rete stradale (rotabili per Marradi e Faenza),
toccò al governo della restaurazione affrontare con rinnovato impegno l’annoso problema della costruzione di una rotabile transappenninica.
Dopo le ristrettezze seguite alle guerre napoleoniche, era necessario incentivare in ogni modo un aumento del volume di scambi,
nonostante il perdurare (almeno fino al 1828) di una sfavorevole
congiuntura economica; inoltre lo sviluppo delle conoscenze di ingegneria garantiva il superamento di quelle difficoltà tecniche che
avevano tante volte rimandato l’ultimazione dell’opera.
Le stesse magistrature comunitative (in cui erano ampiamente rappresentati i potentati locali, costituiti da proprietari terrieri e ceti
borghesi ormai definitivamente convertiti al credo liberistico, si
mostrarono in quel periodo più attente alle possibilità insite in un
adeguato sviluppo della rete delle infrastrutture stradali e più pronte
ad effettuare i lavori di manutenzione necessari.
Infatti l’abolizione degli ultimi divieti di esportazione per lana, seta,
bestiame, olio e cereali intorno al 1820, dette il decisivo impulso alla
costruzione delle rotabili, destinate ad accogliere i crescenti flussi
di traffico.
I primi interventi riguardarono la Faentina, resa carrozzabile dal
confine con lo Stato Pontificio fino a Crespino e nel tratto immediatamente a monte della Madonna dei Tre Fiumi (1816-22).
Nel 1817 fu redatto il progetto per rendere carreggiabile il tratto
Marradi-Crespino e la stessa cosa avvenne nel 1820 per il tratto
5
6
montano del valico della Colla, tra Ronta e Razzuolo.
Il percorso scelto fu quello attraverso l’Alpe di Pratiglioni e la valle
del Montone: a favore di questo tracciato giocò senz’altro, rispetto
agli altri proposti, la sua centralità e la sua minore permanenza ad
altitudini elevate.
Negli anni 1820-1830 prese avvio la fase in cui con maggior intensità si procedette all’ammodernamento della rete stradale della
Romagna toscana.
Tra il 1829 e il 1834 venne reso carrozzabile il tratto da Imola lungo
la direttrice per Firenzuola attraverso la valle del Santerno, ma la
cosiddetta «strada montanara» fu ultimata, con estrema lentezza,
soltanto nel 1882.
Alla nuova strada «Regia Forlivese» si affiancò ben presto un’altra
transappenninica e cioè quella per la valle del Lamone.
Negli stessi anni infatti riprese la costruzione della «provinciale
Faentina», reclamata con forza dagli abitanti di Borgo S. Lorenzo
e Marradi.
I lavori approvati nel 1838, cominciarono l’anno seguente e si protrassero fino all’inizio del 1843..
Nel 1836, Leopoldo II aveva ordinato la costruzione della cosiddetta
«Traversa di Romagna», destinata a collegare Bagno di Romagna
a Rocca S. Casciano; era la nuova strada, che attraversava longitudinalmente le vallate romagnole toccando Galeata e S. Sofia, attraverso i passi di Centoforche, delle Forche e del Carnaio ultimata nel
1840.
A questa arteria si affiancarono altre due «traverse provinciali»:
la Modigliana-Marradi e la «traversa della Busca», congiungente
Portico a Modigliana (attraverso Tredozio), fino al confine pontificio verso Faenza.
L’ammodernamento del sistema stradale della Romagna toscana
riguardò anche il settore della viabilità forestale: la costruzione di
nuove piste di smacchio permise un abbattimento dei costi di estrazione del legname ad alto fusto, primo fra tutti quello che dalle grandi selve appenniniche poste sul versante romagnolo (già di proprietà
dell’Opera del Duomo di Firenze) tradizionalmente veniva portato
per via fluviale verso Firenze (legname da costruzione) e verso gli
arsenali dei porti tirrenici.
La diffusione delle rotabili ebbe un positivo riflesso anche sull’endemica “piaga” del contrabbando, che andò progressivamente
riducendosi nel corso della prima metà dell’Ottocento: per grossi
quantitativi di merce, la diminuzione dei costi di trasporto (legata all’abbattimento dei tempi di percorrenza) poteva rendere talora assai
più conveniente il pagamento di una moderata gabella nei confronti
dell’aggiramento dei punti di controllo attraverso lunghe e disagevoli «vie di frodo».
Intorno alla metà dell’800 la Romagna toscana, soprattutto nel suo
settore collinare, risultava quindi attraversata da una rete di strade
rotabili piuttosto ampia e fortemente gerarchizzata, capace di attrarre su determinate direttrici consistenti flussi di traffico.
Ma restava il perdurante isolamento del settore più orientale, con le
due valli del Bidente e del Savio ancora prive di carrozzabili per la
Consigli
BAGNI DI MARE FINE OTTOCENTO
I primi stabilimenti di bagni si affacciano sulle spiagge di
Rimini e Riccione è già famosa, ma le precauzioni raccomandate ai bagnanti dai medici sono infinite e tali da scoraggiare
anche i più spericolati.
Dice il dottor Cerbone Squarci nella sua “Guida per i bagni di
mare” « Si faccia il bagno due ore dopo la colazione, e quattro
almeno dopo il pranzo. Non entrare nell’acqua a poco a poco,
che è dannoso, ma franco ed in un tempo: chi vuol prima raffreddarsi fa male. Non stare nell’acqua più di mezz’ora: assai
meno se senti dei brividi o malessere.
E nemmeno, dopo il bagno, starai nudo a tremare: tosto asciugato, ti vestirai.
Chi ha visto passare molte belle stagioni, o soffre di palpitazione, o d’asma, di vertigini, di sussurro agli orecchi, di convulsioni, od è stato apoplettico, ovvero è affaticato molto o di
sudor freddo coperto, non faccia bagni freddi.»
Toscana, nonostante le replicate richieste da parte delle popolazioni
locali.
Nel 1870 vennero finalmente avviati i lavori per la rotabile congiungente Ponte a Poppi con Bagno di Romagna, terminata nel
1882; la strada detta «dei Mandrioli» trovò il suo naturale proseguo
verso Cesena con la costruzione a partire dal 1881 della San Piero in
Bagno-Sarsina, inaugurata nel 1899.
Nel 1900 fu avviata la costruzione della «Tebro-Romagnola», destinata a unire Bagno di Romagna a Pieve Santo Stefano attraverso
Verghereto, fino ad allora rimasta priva di strade rotabili.
I lavori, interrottisi a causa del primo conflitto mondiale, terminarono soltanto nel 1932.
Per quanto riguarda la valle del Bidente, bisognò aspettare gli anni
1930 per vedere costruita la rotabile transappenninica per Stia e il
Casentino attraverso il Passo della Calla.
Intorno al 1960 infine venne ultimata la rotabile per la valle del
Rabbi (e Premilcuore), che valica l’Appennino alla Colla dei Tre
Faggi
Sulle nuove strade, nel 1910, fanno la loro comparsa le prime autocorriere
La CCXI Tornata è per: Domenica 11 giugno 2006, alle ore 10,00
a Cervia, presso il Centro Congressi del Club Hotel Dante, Lungomare G. Deledda angolo Viale Milazzo.
Ci troviamo per la più tradizionale delle nostre tornate: la cerimonia
di consegna degli attestati di gran merito “VINO DEL TRIBUNO” edizione 2006 alle Aziende vitivinicole di Romagna.
La tornata dedicata ai Vini del Tribuno, ci offre anche l’occasione
per arricchire le nostre riflessioni sulla Romagna dei Vini, ascoltando due Tribuni che, dal loro osservatorio particolarmente privilegiato, avranno di certo cose degne da raccontare:
Dr. Reggi,Tribuno vicario, Presidente Ente Tutela Vini, sul tema:
“Romagna terra ottima anche per il vino”
Dr. Giordano Zinzani , Tribuno, Presidente Assoenologi sezione
Romagna sul tema: “Come si è modificata nel tempo la produzione
dei vini Romagnoli”
La mattinata prevede anche l’incapparellatura dei nuovi Tribuni:
Dr.Stefano Cerni residente a S.Giovanni in Marignano, funzionario
della Amministrazione Provinciale di Rimini (3’corte)
Ing.Remo Franchini, libero professionista di Imola (1’corte)
Dr. Marco Gardini di Savignano sul Rubicone, libero professionista
(1’ corte)
Perito Industriale Mauro Morri di Rimini, assessore provinciale di
Rimini(1’corte)
Dott.Fernando Santucci di Rimini, cardiologo (1’ corte).
Vi prego, inoltre, di esprimere il vostro parere sulla chiamata nel
Tribunato, dei Signori:
Luana Babini di Cesena, imprenditrice orchestra musicale (1’ corte)
Dott. Arturo Menghi Sartorio imprenditore di Rimini (3’ corte)
Dott. Nicola Milandri di Forlì, imprenditore agenzia di assicurazione (3’ corte)
Dott.Leonardo Sacchetta di Rimini , funzionario Comunità Montana (2’ corte)
Ing.Andrea Tabanelli , di Brisighella, dirigente aziendale (2’ corte)
Come sempre, è graditissima la presenza dei Vostri famigliari e
amici.
Certo di incontrarvi numerosi, Vi porgo il più cordiale dei saluti.
Sen. Lorenzo Cappelli
I° Tribuno
Prego intervenire con le insegne tribunizie.
LA RIVIERA ADRIATICA
Dal walzer ai balli nord e sudamericani
Sul finire del 1800, la mania del ballo toccò il suo punto più alto;
negli ambienti dell’alta borghesia ed aristocrazia, primi a far proprie le mode mitteleuropee, iniziò allora ad esaurirsi la novità di
danze come polche e mazurche, ma rimase il culto per il valzer
viennese, che pure andò ben presto trasformandosi.
Sui periodici “balneari” del periodo emerge tale disaffezione per il
ballo. Le testimonianze raccolte sono sintomatiche dell’esaurimento di una fase nelle abitudini mondane che porterà in breve tempo a
rivoluzionari cambiamenti nelle danze di societa.
Nasce il bisogno di rinnovare repertori ed abitudini che possano di
nuovo entusiasmare gli animi di un pubblico sempre più esigente.
Il ballo non scomparve. Ciò che sparì dalle sale più raffinate che si
affacciavano sulla spiaggia romagnola furono “i soliti balli popolari”.
Fu le fin fleur della società (come ostentavano chiamarla i cronisti) a disdegnare per primo le danze considerate “campestri”.
Nello stesso tempo vi fu chi organizzò feste da ballo per le allegre
comitive domenicali, provenienti dalla campagna, che sempre più
numerose affollavano le spiagge.
Carlo Brighi, da tutta la Romagna conosciuto col soprannome
di Zaclén, ebbe l’iniziativa di impiantare a Bellaria un tendone,
illuminato di sera con lampade ad acetilene, sotto al quale un’orchestrina, la sua, eseguiva i balli ormai sempre più popolari: il
valzer, la mazurca, la polca, qualche manfrina e la sempre più rara
quadriglia. Una preziosa foto-cartolina del 1902 ritrae il “Capannone Brighi”, chiamato anche sulla stampa locale “Festival Brighi”,
sotto al quale si organizzavano feste da ballo e commedie.
È possibile quindi affermare che furono i primissimi anni di questo
secolo a sancire il passaggio dagli ambienti dell’alta società a quelli
più popolari di quella musica che andrà a costituire le fondamenta
di un genere chiamato caparbiamente “Folck romagnolo”.
C’è ancora chi ritiene che il valzer sia nato nelle aie romagnole
anziché giungervi dopo che le sale da ballo della Riviera e quelle
cittadine si riempirono di ritmi americani. Per fugare ogni sospetto
di partigianeria valgano queste affermazioni apparse su un gazzettino riminese.
Oggi la polka è confinata in qualche cantuccio del carnet; molti
carnets, elegantissimi, pretenziosissimi, la escludono affatto; ed
essa esula dalle sale, e se ne va, con gli ultimi balli dei nostri nonni, con le ultime danze dei tempi in cui il ballo era una ginnastica
piacevole e un divertimento dei giovani, che sapevano «vivere».
Ma se diserta le sale, essa sa prendere la sua rivincita in campagna,
dove il moto, l’aria, la gaiezza s’impongono. E tutti i bostons e tutti
i Lancieri del mondo non valgono una piccola e briosa polka, bal-
lata spensieratamente al chiaro di luna, sull’aia, mentre un organino
ripete con la sua voce stridente, un vecchio refrain di una vecchia
operetta .
La stagione estiva, all’alba del xx secolo, era già considerata ed
organizzata come una redditizia attività economica basata sul binomio salute e divertimento.
Le “solite danze” nel salone dello Stabilimento bagni di Cattolica, inaugurato con balli e fuochi artificiali, davano l’opportunità
ad instancabili giovanotti di stringere tra le braccia simpatiche e
graziose signorine.. Le feste da ballo a Viserba erano organizzate
al Ristorante Stella d’Italia, ogni martedì, giovedì e sabato di tutta
la stagione balneare. A Riccione si ballava nell’elegante sala della
pensione Amati e nel Salone Trombi di Rimini, la più organizzata
spiaggia romagnola di inizio Novecento si stampava il programma
delle feste da ballo all’esordio di ogni stagione; si ballava nelle sale
riservate dell’H6tel des Bains ricco di eleganti velluti, ma criticato
per gli orribili divani della sala da ballo. Le feste erano quasi sempre a tema ed i templi riminesi più attivi dove si consumavano i
piaceri del ballo erano le sfarzose sale del Kursaal, il Pavillon-Lido
e la grande sala dell’H6tel Hungaria..
Nell’estate del 1909 i balli erano già completamente cambiati. Da
quel momento, nelle sale più alla moda si potevano incontrare solo
balli nord e sud-americani: il valzer Boston, il two step, l’one step
il Cake-walke ed altri ancora. Ad eseguirli per primi furono alcuni
maestri di ballo che si esibivano nelle feste serali e tenevano frequentatissimi corsi in orario diurno, pubblicizzati a più riprese su Il
Gazzettino azzurro di Rimini.
Tutt’altro che destinato a morire, il ballo rivivrà una nuova stagione
di successo essendo una grande occasione per incontrarsi, per flirtare e, se esclusi, per disperarsi.
Tutto ciò che non veniva dalle Americhe era oggetto di nostalgia o
di semplice curiosità.
Vi fu chi rimpianse il passato chiedendosi perché le mode cambiassero ~ e chi introdusse le czardas ungheresi e le tarantelle
napoletane come fossero bizzarrie folcloristiche. Resistettero,
come testimoni di un’epoca passata, i balli cotillon eseguiti quale
pretesto per giochi ed offerta di doni. Per il trionfo dei parrucchieri
non mancava in ogni stagione il gran ballo Costumé en téte, dove si
premiavano le più ammirate acconciature.
Negli anni 1910 il luogo sacro del piacere riminese aveva già cambiato nome: lasciato quello ordinario di Casino dei Bagni, aveva
assunto quello più esterofilo di Kursaal, da alcuni considerato
nome ostrogoto. Nelle sale, non più affollate come un tempo, si
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becillità della moda e a sviare la corrente pecorile dello snobismo.
Monotonia di arie romantiche, tra il lampeggio delle occhiate e dei
pugnali spagnoli di De Musset, di Hugo, Gautier. Industrializzazione di Boudelaire, Fleurs du mal ondeggianti nelle taverne di
Jean Lorrain, per voyeurs alla Huysmans e per pervertiti alla Oscar
Wilde. Ultimi sforzi maniaci di un romanticismo sentimentale decadente e paralitico verso la Donna Fatale di cartapesta. Goffaggine
dei tango inglesi e tedeschi, desideri e spasimi meccanizzati da ossa
e da fracs che non possono esternare la loro sensibilità.
Plagio dei tango parigini e italiani, coppie-molluschi, felinità selvaggia della razza argentina stupidamente addomesticata, morfinizzata, incipriata.»
«Possedere una donna, non è strofinarsi contro di essa. Barbaro!
Un ginocchio fra le cosce? Eh via! Barbaro!
Ebbene, sì, siamo barbari! Abbasso il tango e i suoi cadenzati
deliqui.
Tango, rullio e beccheggio di velieri che hanno gettato l’ancora
negli antifondi del cretinismo. Tango, rullio e beccheggio di
velieri inzuppati di tenerezza e di stupidità lunare. Tango, tango,
beccheggio da far vomitare.
Tango, lenti e pazienti funerali del sesso morto! Oh! Non si tratta
certo di religione, di morale, nè di pudore!
Queste tre parole non hanno senso per noi! Noi gridiamo abbasso il
tango in nome della salute, della forza, della volontà e della virilità.»
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ballava un valzer più chic, più languido e voluttuoso, chiamato
Boston. La mazurca era anch’essa eseguita e ballata con un ritmo
lento ed un carattere malinconico, assai diversa da quella conosciuta oggi. Un’alternativa ai balli lenti fu il Cake-wake, la danza dei
neri d’America. Era considerato audace perché la dama doveva alzare pericolosamente la gamba, cosa che segnò la breve fortuna del
ballo. Arrivato in Europa a cavaliere tra i due secoli, il Cake-wake
cadde velocemente in disuso, ma la sua importanza fu notevole in
quanto introdusse il ritmo sincopato nelle danze, origine di altre
grandi novità.
Un nuovo ballo con andamento veloce si affacciò sull’Adriatico e
il nome ne rivela la lontana origine: il two steep, il quale poco dopo
lasciò il campo all’one steep.
Tornò la voglia di ballare e le sale si animarono attorno ad alcuni
efficienti direttori che appresero l’arte ed i benefici economici
dell’intrattenimento balneare. A Viserba le danze del Circolo dei
Bagnanti erano dirette dal valente maestro Ughi, altre volte dal
signor Actia.
Il signor Arturo Grossi era l’anima dell’Hòtel des Bains di Riccione e la musica era sotto la guida dell’instancabile maestro Luigi
Mignatti.
A Rimini le eleganti feste all’H6tel Hungaria, di proprietà dei coniugi Müller, erano sotto la direzione dello stimato cavalier Alfredo
Amicucci, mentre al Grand Hòtel i balli di beneficenza avevano
una direzione tutta femminile e blasonata.
C’era però anche chi si improvvisava organizzatore ottenendo
risultati mediocri, come accadde per il Gran Ballo Olandese all’H6tel Lido di Riccione.
La preparazione era richiesta anche nelle danze ed ecco allora che
comparvero ballerini e maestri di ballo professionisti. A Rimini,
nell’estate del 1914, fu il tenente Adolfo Strocca, maestro dell’Accademia di Ballo di Torino, a presentare le ultime mode provenienti
dalle Americhe: il Triple Boston, la Maxixe brasiliana e, novità delle novità, il tango argentino~
La fortuna di quest’ultimo sta nelle sue forme e movimenti misurati. Il fior fiore della società rifiutò tutto ciò che era grottesco o che
richiedeva movimenti esagerati come lanciare le braccia o alzare
le gambe. I passi scivolati presero il posto dell’antico girare o dell’affettato ballo sulle punte dei piedi. Il tango, ripulito dagli iniziali
movimenti troppo aperti, rappresentò la sensualità e la riscoperta
del corpo. Fu il trionfo, sebbene non mancasse chi, per partito preso
o per una nuova ventata moralistica, si scagliò apertamente contro
i “veleni rammollenti” del tango.
«Abbasso il tango » gridò F. T. Marinetti dalle pagine de Il Gazzettino azzurro del 1914.
«Questo dondolio epidemico si diffonde a poco a poco nel mondo
intero e minaccia di imputridire tutte le razze, gelatinizzandole. Perciò noi ci vediamo ancora una volta costretti a scagliarci contro l’im-
Altri associarono l’insegnamento e l’esecuzione del tango con un
vecchio ballo popolare: la furlana La ragione dell’accoppiata tra i
due balli, così storicamente lontani è presto spiegata.
«[Rimini, agosto 1914]. Note di vita mondana. La Furlana.
Pio X, per debellare il diabolico trionfante tango, ha rivolto alle
danzatrici e ai danzatori del mondo cattolico un consiglio e una
raccomandazione perché sia fatta risorgere — in sostituzione del
tango argentino — la furlana.
La furlana è una danza che si balla sopra un tempo 6/8 — lo stesso
della tarantella che nacque a Venezia al principio del XIX secolo;
mentre a grado a grado morivano la pavana, la gavotta e il minuetto, classiche ed aristocratiche danze, le quali avevano tenuto
il campo durante il secolo XVIII. Evidentemente dame e cavalieri
erano stanchi dei molti inchini, delle parrucche, dei passi lenti, dei
sorrisi forzati e accolsero con gioia la nuova danza liberatrice: più
semplice, più movimentata.
In ogni modo il passaggio da un ballo all’altro non poteva essere rapidissimo; e la furlana stentò i suoi primi passi; dovette lottare lungamente contro i balli che voleva e che poté infine detronizzare. Ma
per facilitare il suo successo conservò alcuni dei passi più graziosi
e caratteristici delle vecchie danze: troviamo, infatti, nella furlana
alcune figure che ricordano da vicino il minuetto (piccole promenades, changement de piace, ecc.) mentre altri passi, altre figure
sembrano gli ... antenati della modernissima maxixe brasilienne.
A poco a poco la furlana si popolarizzò e perdette alcune caratteristiche movenze per acquistarne altre; ma quando rientrò dopo il
1821 nei saloni veneziani riapparve nella sua compostezza primiera
e sconfisse definitivamente il minuetto. Fu più tardi, alla sua volta,
sconfitta dal valzer saltato, dal valzer a tre, che giunse da Vienna e
da Berlino e che cedette più tardi il posto al boston, al valzer a sei,
che impera tuttora malgrado tutti gli one step, i turchey trot, i tango,
e gli altri balli dell’orso e del pesce di recentissima importazione
Al termine della Grande Guerra, i nuovi discepoli di Tersicore si
trovarono a cimentarsi con le difficoltà del fox-trot, erede di gran
parte dei balli nord americani e figlio della musica sincopata di
impronta jazz . Anche le polche, le mazurche ed i valzer, allontanate dalle sale da ballo più alla moda, vennero condizionate dal
jazz. Affermazione che può lasciare perplessi, ma è facilmente
comprensibile se si pensa alla rivoluzionata strumentazione delle
piccole orchestre locali chiamate ad eseguire contemporaneamente
il repertorio d’Oltreoceano ed i balli ormai considerati “tipici romagnoli”. Esse si rinnovarono affiancando la batteria (chiamata per
lungo tempo “il jazz” ), il saxofono ed il banjo agli strumenti tipici
dell’orchestrina da ballo come gli archi ed il clarinetto in Do. L’influenza del jazz sulla musica da ballo romagnola merita lo sforzo
di altre ricerche.
Franco Dell’Amore
LA SARTA SIGNORA VIRGINIA
Premessa
Molti anni fa mi capitò
di trovare a Bologna, in
Piazzola, un grosso album
in pelle di quelli che solitamente contengono fotografie
che sono l’oggetto delle mie
ricerche di collezionista.
Rimasi molto male quando,
apertolo,vi trovai lettere e
bigliettini relativi ad un carteggio, ma quando, leggendo
a caso qualche lettera, capii
di cosa si trattava, rimossi la
delusione.
Acquistato l’album lo studiai
in maniera approfondita
tanto da trarne alcuni saggi
sulla storia economica della
moda e del costume.
Era il carteggio, avvenuto
durante alcuni decenni, di
una sarta bolognese, molto famosa alla fine dell’Ottocento. Se anche la
corrispondenza, per sua natura, non si riferisce a tutta la clientela della
sarta ma solo a quella parte che non abitava a Bologna, é certamente
rappresentativo del costume di un’epoca.
Per vostra curiosità aggiungo che ella abitava a Bologna in via Lame
al n° 46.
Per i lettori di questa rivista riporto qualche stralcio di lettere ed alcuni
commenti che ritengo possano interessare.
«Macerata, 15 agosto 1905. Il giorno 13 le inviai il saldo del mio dare...
lo stesso giorno le scrissi facendole notare come l’abito fosse mal confezionato. La prego di non calcolare quelle frasi per le seguenti ragioni.
Qui a Macerata pochissime vestono bene non solo, ma la moda viene
dopo qualche anno. Appena io vidi l’abito bianco non le nascondo la
mia sorpresa poiché costì non ve ne sono uguali. Ed appena misurato
[indossato?] mi sembrò invero ridicolo. Cosa vuole io confesso la mia
poca esperienza e bisogna che mi rimetta agli altri voleri. Mia sorella,
reduce da Milano, mi ha fatto vedere i suoi vestiti e mi ha convinto che
tutto andava bene ed anzi m’ha gridato, meravigliandosi del poco mio
gusto. Creda buona signora, che un vestito che ancora qui non si vede
(al)la moda, produce un grande effetto. Appena osservai gli abiti di mia
sorella e gli abiti della Marchesa Ritzer nostra vecchia conoscenza, ed
appena appresi la moda delle altre città mi convinsi del grande errore...».
Così una delle tante lettere diligentemente raccolte in un bell’album con
ricca rilegatura in cuoio che porta impresso sul piatto: “Virginia Notari
Fattorini -Corrispondenza - Bologna”.
La raccolta si riferisce ad un periodo che va dall’ultimo decennio dell’ottocento al primo decennio del novecento.
Ovviamente, in un album di corrispondenza, le lettere parlano esclusivamente di rapporti con le clienti che non risiedono a Bologna, dove era
ubicata la sartoria e pertanto non può mostrare quelli con tutta l’altra
clientela locale.
Altre osservazioni di ordine generale si possono fare sulla fascia sociale, certamente alta, della clientela, come l’album stesso evidenzia
e sull’area territoriale che è prevalentemente marchigiana e ferrarese
con alcune eccezioni, chiaramente dovute a trasferimenti per lavoro del
coniuge.
Infatti dalle lettere si rileva che non sono poche le clienti mogli o figlie
di funzionari dello Stato, di militari e di ingegneri dediti alla costruzione
delle ferrovie che mantengono i rapporti con la nostra sarta anche nelle
nuove residenze.
Vi è anche una clientela acquisita esclusivamente tramite corrispondenza, che non ha mai visitato l’atelier ed incontrato personalmente la sarta
bolognese, ma che ad essa si è rivolta attraverso una trafila di referenze
di parenti ed amiche.
«…Ho bisogno dell’opera sua. Ho visto da molto tempo i suoi lavori alle
R. di Macerata e a Matilde C. mia conoscente e qui alla signora V. Perciò
vorrei pregarla di mettere anche me nel numero delle sue clienti. Io vivo
a Modena, come vede siamo vicine....»
«Macerata... Se viene ad Ancona per la stagione balneare verrei per il
piacere di fare la sua conoscenza personale…»
«Migliarino... sono stata contentissima (del vestito). Noi qui andiamo
vestiti alla buona con abiti andanti, di poco costo....»
Appare poi singolare la capacità della sarta di confezionare abiti attraverso il solo invio per posta di misure o modelli.
«Ferrara... siccome quest’anno le sottane usano corte, ho messo un filo
nella lettera che sarebbe la
lunghezza giusta dell’abito».
«...la camicetta e la blusa
dell’abito mi vanno un po’
strette. Quindi per l’abito
nuovo la prego di allargare
il giro della vita di un mezzo
centimetro e il giro del petto
di un centimetro buono.»
Come si legge la cliente è
molto prudente nel proporre
aggiustamenti!
Una volta consolidate clienti,
esse richiedono anche modifiche non derivanti dalla
moda, ma da altre ragioni:
«…le invio due metri di
stoffa per farmi una giacca... sono incinta, la prego
di farmela molto comoda
davanti....la prego di servirmi con la solita premura e
col solito capriccio...».
E infine quando si parla di cappellini: «Il cappellino deve essere di forma che stia bene su tutti i vestiti e stia fermo in testa….
…il cappello non è adatto ad una signora vecchia.., ella lo vorrebbe senza velo lungo dietro, di un modello che calzasse in testa ossia in forma
di “cappotta” poi con nastri per legarlo.»
Ma col passare degli anni e a causa delle frequenti maternità le richieste
investono motivazioni estetiche: «... nella mia giacca nera si ricordi di
mettere gli ossicini nella vita...» e quando l’intervento deve essere più
incisivo: «…sia tanto gentile da mandarmi una fascia elastica per intorno
al corpo della grandezza di centimetri 80 e più alta che sia possibile...
…Mi rimetto sempre a lei per la foggia purché sia sempre di quelle che
“sveltiscono” la persona...»
Sono singolari i rapporti economici con molteplici richieste di sconto e
lamentele per il prezzo ritenuto troppo alto. Quasi sempre il rilievo è poi
mitigato da complimenti per il lavoro eseguito (la fattura) al fine di non
offendere la sarta e perdere le sue rinomate prestazioni:
«…rifaccia bene i suoi conti e vedrà che può rimanere soddisfatta..
Macerata 1897...ho ricevuto la mantella della quale, nell’insieme, sono
contenta perché mi piace, mi sta bene. Non sono punto soddisfatta del
prezzo. Convengo che qualche cosa doveva crescere perché è più lunga,
ma nel suo conto l’aumento è veramente troppo forte. Spero che quando
pagherò combineremo secondo il solito e che Ella vorrà farmi un forte
ribasso...»
La sarta è invitata non solo a presentare “liste non esose” (ovviamente
dal punto di vista della clientela) ma anche eque nei confronti delle parenti ed amiche che notoriamente fanno parte della stessa clientela e che
sono poi avvezze a parlare tra loro, in particolare di vestiti.
«...ma ho trovato il conto estremamente caro, anche perché ho potuto
paragonare ciò che lei fa spendere a noi, ai conti che lei manda a mia
sorella e alle mie amiche. Le vesti nere, per esempio, sono addirittura
favolosamente care. Voglio sperare che mi farà un grosso calo…
...per le fatture delle mie nipoti cerchi non si distacchino molto da quelle
che fa per me, siamo in un piccolo paese...»
Le richieste per dilazioni nei pagamenti sono frequenti e le ragioni o
scuse tra le più varie, anche se il rinvio nel tempo è modesto e per noi
irrilevante, abituati come siamo a comportamenti commerciali più disinvolti.
ottobre 1896 «...la prego concedermi un po’ di tempo (per pagare) perché saprà che ho comprato dell’uva e non potrei mandarle il suo saldo
che ai 7 o 8 di novembre...”
Ma a volte il problema o il ritardo è più grave ed è necessario l’intervento del marito avvocato che scrive in prima persona:
1896 «Le spedisco un vaglia della Banca d’Italia per £. 395 a saldo del
vostro conto di £. 405. La differenza di £.10 rappresenta la diminuzione
fatta su alcuni prezzi trovati troppo alti..»
«Domando scusa per il ritardo al pagamento causato dalla trascuratezza
di mia moglie nella consegna del conto.»
Se riportiamo l’ammontare di quel conto al valore attuale della moneta,
esso sarebbe oggi stimato in alcuni milioni di lire o migliaia di €. Una
trascuratezza pelosa quella della signora e quindi spiegabile l’imbarazzo
del marito anche perché si capisce chiaramente che ella, fino a quando le
è stato possibile, l’ha tenuto all’oscuro della notevole spesa.
Egli allora teneva sì autorevolmente il potere e i cordoni della borsa, ma
tuttavia doveva poi scomodarsi e rimediare al salasso economico una
volta che questo era avvenuto.
Gian Franco Fontana
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FRANCESCO VERLICCHI
Decano dei pittori ravennati
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L’artista al centro dell’attenzione di questo numero della
nostra rivista è il decano dei
grandi pittori di Romagna che
ha segnato con la sua forte
personalità l’atmosfera degli
ambienti pittorici del Ravennate. Venuto alla luce a Fusignano
l’8 maggio del 1915, Francesco
Verlicchi, per gli intimi Chicco,
era nato artista fin nelle midolla, essendo egli attratto non
solo dalle arti figurative, ma
pure dalla musica. La sua prima
aspirazione, infatti, avrebbe
dovuto fargli abbracciare la
professione di musicista, anzi
Francesco Verlicchi in un recente di pianista. Ma le difficoltà
ritratto a matita di Odette Gelosi economiche della famiglia - il
padre, imbianchino, riusciva
a mala pena ad assicurare condizioni di vita appena accettabili a
sua moglie e ai suoi quattro figli - infransero il sogno del piccolo
Francesco che dovette seguire le orme del padre e pitturare pareti,
contribuendo così a racimolare qualche soldo in più per consentire
al gruppo familiare di sbarcare il lunario.
Ma, per fortuna, la sorte volle che, in quella zona di ricchi proprietari terrieri, venisse creata, proprio a Fusignano, la Scuola di Arti e
Mestieri, diretta, su nomina del Comune, dal noto pittore lughese
Giulio Avveduti.
Il giovane Verlicchi seguì le lezioni con alacre lena, scoprendo,
insospettate in sé, doti segniche inequivocabili e uno specifico
interesse per la figura. Egli seguì pure i corsi serali di Vistoli e
Montesano.
Dal 1928 al 1940 divenne il discepolo prediletto di Avveduti, dapprima come allievo, poi come garzone, impegnato quale suo aiutante nel restauro dei dipinti della Chiesa di San Giacomo Maggiore di
Lugo. Tali erano le qualità di riproduzione grafica di Verlicchi che
il suo maestro gli consigliò di lasciare la sua Fusignano e di aprire
uno studio di pittore a Ravenna, specializzandosi nei ritratti nei
quali egli eccelleva e che, in quel periodo, consentivano un discreto
guadagno.
Dal 1945, dopo la seconda guerra mondiale, egli diede inizio ad
una fervida attività espositiva e la sua fama ormai consolidata gli
valse un posto d’insegnante ( subentrò pure a Giulio Avveduti alla
direzione della Scuola di Arti e Mestieri di Fusignano).
Nel 1958 vinse il concorso per l’insegnamento quale docente di
disegno dal vero presso l’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna
appena costituito. Fu la perfezione dei suoi ritratti a convincere
i membri della giuria della predisposizione a trasmettere le sue
conoscenze tecniche quale docente. Il suo compito nel panorama
curriculare d’insegnamento rivestiva una particolare importanza,
giacché le sue discipline d’insegnamento, disegno e composizione
oggettiva, costituivano la base di tutto il programma. Per ventitré
anni Francesco Verlicchi trasmise la sua esperienza a schiere di
studenti, esercitando parallelamente un’intensa attività pittorica ed
espositiva, per poi ritirarsi in pensione, beneficiando di una legge
che gli riconobbe otto anni per aver combattuto in guerra. Da allora
l’artista fusignanese si è totalmente dedicato all’arte, confermando
la sua fama di grande pittore che, insieme agli amici Folli, Ruffini,
Varoli, animava negli anni Settanta la vita artistica del Ravennate.
L’esistenza di Verlicchi non si è mai discostata idealmente dalle
parche consuetudini del vivere rurale.
Pur curioso e idealmente avido di conoscere, egli non si è spostato
sovente, e ha sopperito all’assenza di viaggi facendo entrare in casa
sua il mondo dell’arte mediante pubblicazioni artistiche che gli procuravano le librerie Tarantola e Feltrinelli. Tuttavia un soggiorno
lontano dalla sua Fusignano fu determinante per la sua evoluzione
artistica: egli approfittò al massimo di un viaggio a Parigi nel 1950,
quando, dopo aver vinto il Premio Marina di Ravenna, ebbe occasione di usufruire delle modalità stabilite dal Ministero degli scambi con l’estero, che gli permisero di trascorrere tre mesi a Parigi. La
sua esperienza nella capitale francese si rivelò esplosiva quando,
in visita nella palazzina del Jeu de Paume a sinistra dell’ingresso
dei giardini delle Tuileries, egli venne a contatto con Corot, Degas,
Manet, Monet, Renoir, Sisley, Van Gogh.
Allora il tonalismo intimista della visione morandiana fu ad un tratto
travolto dagli esiti della visione “en plein air” e dalle modificazioni
cromatiche degli impressionisti. Fino allora abituato al linguaggio
dei nostri macchiaioli in cui le ombre appaiono scure, Verlicchi fu
affascinato dal quel nuovo concetto di dare un colore alle ombre, il
che determinò nel pittore italiano una radicale trasformazione della sua tavolozza, da quel momento volta a determinare vibrazioni
del colore. Anche la frequentazione del Musée d’Art Moderne gli
fece scoprire l’atmosfera insieme frivola e malinconica delle tele
di Toulouse-Lautrec e le opere dei grandi dell’arte fino all’informale, facendogli intuire il valore della libertà assoluta concessa
dall’espressionismo per ingigantire l’espressività creativa.
In particolare fu piacevolmente colpito dalle creazioni dei Fauves
in cui egli scopriva il colore caldo della vita rappresentata in un’intensa armonia fra luce, calore e colore. Il Maestro di Fusignano
confessa l’importanza dei suoi contatti parigini per la sua tecnica
esecutiva, mentre minimizza l’influenza del mosaico ravennate che
non ha contribuito a rivelargli il gioco del colore.
Per Verlicchi, “nella pittura ci vuole colore e poesia”.
Attento osservatore, egli coglie sempre dal vero l’oggetto pittorico
con un’evidente preferenza per la figura che esce dal suo pennello
con la massima espressività, in un’originale verità sempre ammantata di un alone impalpabile di finezza psicologica, abilmente
determinata da un soffuso cromatismo. Eccelso ritrattista, ottimo
disegnatore attento ad una composizione equilibrata, il pittore dà
libero sfogo alla sua ironia cimentandosi pure in brillanti e riuscite
caricature di persone del suo ambiente, non trascurando di sorridere
di se stesso. Le sue nature morte si vestono della poesia del suo sentire, una poesia semplice, tenue, trascritta dalla delicatezza cromica
della sua tavolozza. In tutte le sue opere egli rende l’impressione
mediante fremiti coloristici legati alla distribuzione più o meno
densa delle pennellate. Segno e colore si completano, rafforzandosi
ed imprimendo al quadro la forza suggestiva di dolcezza, di sogno o
di bonario graffio ironico. Ed è tuttora bello vedere ancora all’opera
il Maestro, con quella ombrosa eppur dolce determinazione a continuare a vivere con il pennello in mano, perché per lui dipingere è
esistere.
Odette Gelosi
Natura Morta
PESTE E CANNIBALISMO IN ROMAGNA
Verso la metà del sec. XIV accadde un fatto spaventoso che
doveva tenere per anni l’Europa sotto lo spettro della morte e in
seguito quello, non molto migliore, della fame.
Fin dal 1333 la peste aveva fatto la sua apparizione sulle rive
del Mar Nero, per poi dilagare in tutta l’Asia e passare anche in
Africa con una violenza tale che molte regioni rimanevano semi
spopolate.
Un mite ottobre intiepidiva la Sicilia quando vennero ad attraccare nel porto di Messina 12 galere veneziane provenienti dall’Oriente. Era il 1347 e a bordo avevano la peste.
Fu l’inizio di uno sterminio senza pari. Dalla Sicilia l’epidemia
prese a risalire con una impressionante rapidità tutta quanta la
penisola e a riempirne le città e le campagne di lutti. Gli astrologi
avanzarono l’ipotesi che la causa di questo guaio fosse da attribuirsi alla congiunzione di Saturno, Giove e Marte avvenuta nel
1345, però si era generalmente propensi a credere che dei vapori
malefici fossero scaturiti dalla terra, avessero contagiato le messi
e i frutti, i fiumi e i pozzi per poi diffondersi nell’aria e inquinarla
senza rimedio.
In precedenza si erano avute molte epidemie, però avevano
sempre investito zone limitate, imperversando sopra una città,
o tutt’al più sopra una regione. Mai avevano avuta una simile
estensione.
Chi veniva colto dalla malattia polmonare moriva in tre giorni,
chi sotto forma di bubboni in cinque.
In ogni città, in ogni villaggio, sotto ogni bandiera, la reazione
era una sola: terrore folle per ciò che di spaventoso c’era realmente nell’epidemia e per quello che la superstizione vi aggiungeva in un secolo in cui l’ignoranza imperante inibiva ogni senso
critico, lasciando libero il campo alle credenze e alle dicerie più
assurde.
Si vedeva la magia dovunque in una grande confusione d’idee,
in cui il diavolo del Cristianesimo si univa ai demoni e alle forze
Stampa tedesca che rappresenta un festino con carne umana, sec. XV
malefiche del paganesimo, che ancora non erano del tutto scomparse dalla mente dell’uomo medievale. A Roma, nel sesto secolo, era stato riaperto il Santuario di Dioniso a furor di popolo !
Questa prima ondata di peste durò per quattro anni consecutivi;
in seguito ebbe delle riprese sempre ugualmente terribili, anche
se meno diffuse. Vi perse la vita la Laura del Petrarca e, stando al
Villani, nel 1358 a Firenze morirono circa 100.000 persone.
Come immediata conseguenza la morte indurì i cuori sconvolgendone i sentimenti e allentandone a volte anche i vincoli affettivi più tenaci. Perfino qualche madre si scostava atterrita dal
capezzale del figlio colpito dalla pestilenza nella certezza di non
potergli essere di alcun aiuto e più ancora nel timore, divenuto
ormai simile alla follia, di venirne contagiata. E i cadaveri che
spesso s’incontravano abbandonati lungo le strade non facevano
che acuire il disperato senso di orrore dell’uomo indifeso, preda
di qualcosa che andava al di là della sua ragione.
I medici, avvolti in vesti lunghe e ampie che li ricoprivano tutti
e con una spugna imbevuta d’aceto perennemente contro il naso,
s’aggiravano per le città a prescrivere purganti e salassi e la
Teriaca, che si diceva buona per qualsiasi malattia perché era
composta da un numero così grande di sostanze (originariamente
154) che ogni malanno poteva scegliersi quella che faceva al caso
suo. Intanto si bruciavano cumuli d’incenso e di camomilla.
In uno slancio di penitenza comparvero nelle vie le lunghe file
dei flagellanti: uomini e donne, scarmigliati e seminudi, che si
percuotevano fino a ridursi grondanti di sangue. Ma gli uomini
continuavano a morire in tutta Europa e i loro corpi li seppellivano accatastati in fosse comuni.
Gli scongiuri non servivano, le benedizioni neppure, allora cominciò a farsi strada nelle menti confuse e spaventate l’idea
dell’esistenza di una intesa diabolica e che doveva esserci qualcuno che, d’accordo con le forze del male e magari per procurare
anime per il diavolo, s’industriava a far sì che il morbo dilagasse.
In tempi recenti la colpa di un simile flagello é stato attribuito
in buona parte ai topi, che vivono nelle fogne, cioè tra i rifiuti
dove si sviluppano microbi e virus e anche alle pulci, che nel
Medioevo non mancavano certo. Ma l’uomo del .Medioevo non
pensava di attribuire a loro la colpa dell’estendersi della pandemia. Secondo la sua abitudine mentale rivolgeva piuttosto il
pensiero alla magia e alla perversità umana.
San Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino avevano detto: «…
Omnia quae visibiliter fiunt in hoc mundo, possunt fieri per
daemones» e nella gran massa ignorante tali parole non avevano
fatto che confermare un convincimento già saldo, per cui in ogni
avvenimento che andasse al di là del consueto si vedeva un intervento magico. Un pazzo, un paralitico, una meteora erano fatti
extraterreni, che esulavano dalla comprensione comune e che di
conseguenza potevano benissimo rientrare fra le manifestazioni
demoniache. Naturalmente c’era chi sapeva approfittare di tali
superstizioni.
In Francia una donna, che era soggetta a crisi di epilessia, fu processata come strega e truffatrice nello stesso tempo. Il processo
significava tortura e la disgraziata confessò di aver approfittato
della sua particolare condizione di epilettica per procurarsi di che
vivere.
Ci si convinse che vi fossero delle persone che, immuni per una
concessione fatta dal diavolo, si divertissero a raccogliere i vapori
maligni che la terra sprigionava da qualche parte per buttarli nei
pozzi, nei rivi, nelle cisterne, insomma dovunque esistesse acqua
potabile e che tutta l’umanità fosse destinata a perire. L’idea di
ricercare i colpevoli venne dapprima sussurrata, poi dichiarata a
gran voce, in breve finì col divenire una necessità incombente e
l’uomo diede una caccia spietata all’uomo. All’epidemia di peste
si può dire che vi si aggiungesse una epidemia psichica.
Ma chi si doveva cercare? Non era difficile nello stato di tensione terrorizzata che era andato formandosi e nell’oscurità
dell’ignoranza trovare un volto ai colpevoli. Bastavano un antico
odio, il ricordo di un gesto o di una parola sospetti, la taccia di
11
Stampa germanica antiebraica con ebrei che sezionano un corpo
umano, sec. XV
12
comunicare col demonio o di appartenere a una razza o a una religione che non fossero le dominanti per scatenare gli istinti più
crudeli. Era difficile che in una famiglia nessun membro fosse
stato colpito dalla peste, ma se per caso c’era, subito sopra di
quella si appuntavano i sospetti. E la risposta veniva da sé: «sono
in combutta col diavolo». E quei poveretti erano spacciati.
Così alla lunga fila delle vittime della peste si aggiunse quella dei
massacrati dall’uomo.
La prima città in cui avvennero queste uccisioni fu Avignone,
che, sotto l’incubo della morte, venne pervasa da un’assurda
sete di vendetta. In modo particolare si presero di mira gli ebrei
e questa specie di sommossa espiatoria diede luogo a un vero
massacro.
Da Avignone, lo stesso sistema fu adottato da parecchie altre città
e in Germania prese l’aspetto di un violento movimento antisemita. Ma l’epidemia continuò a imperversare finché rimasero
solo quelli diventati immuni senza distinzione di credo.
Si calcolò che in Europa ci fossero stati circa 25 milioni di morti,
cifra paurosamente alta quando si pensi che la popolazione totale
era stimata attorno ai 100 milioni. Passata la grande pandemia,
la popolazione di molte città risultò dimezzata e molti villaggi
rimasero spopolati, i campi abbandonati. Le classi più ricche erano quelle che avevano resistito meglio alla furia dell’epidemia,
perché avevano avuto modo di rifugiarsi in luoghi isolati, di nutrirsi meglio e di evitare, per quanto possibile, il contagio; invece
il popolo minuto aveva subito il colpo più forte.
Nel 1314 erano stati segnalati casi di persone che, spinte dalla
carestia, avevano mangiato carne d’uomo. Ora la peste faceva
che quegli episodi si ripetessero.
Ma non erano casi nuovi e isolati. Nei secoli precedenti era stato ripetutamente riferito che qualche commerciante, che per la
necessità del suo lavoro percorreva da solo un bosco, non fosse
giunto a destinazione e che neppure il suo corpo fosse stato più
rinvenuto. Una simile sorte era pure toccata a qualche famiglia
di girovaghi e di saltimbanchi, gente che di continuo si spostava
e la cui assenza difficilmente si notava se non dopo parecchio
tempo.
Era risaputo che in periodi di carestia bande di assassini si specializzavano in questa macabra macelleria. E in genere chi si recava
in tali periodi al mercato era tanto felice di potersi procurare un
po’ di carne che non stava a sofisticare sul colore o sulla forma.
Questo si potrebbe chiamare un genere di cannibalismo senza
colpa perché inconscio, ma non era così per quelle madri che
si cuocevano i loro piccoli appena nati. Ed era successo anche
questo. Non si poteva più parlare di magia, la fame trasformava
l’uomo stesso in un demone ripugnante.
Se nel tardo Medioevo, quando l’uomo era vagamente più progredito, la peste e la fame potevano portare a così terribili estremi quali il cannibalismo e il massacro per superstizione, si può
immaginare quale doveva essere la mentalità degli uomini delle
classi sociali più basse nel primo Medioevo, quando saccheggi
e incendi, fame e peste accompagnavano le marce degli eserciti
barbarici.
Durante quelle invasioni la vita economica rimase paralizzata.
Le strade erano pressoché impraticabili e per di più infestate da
gruppi di soldati dispersi e da briganti. Nessuno pensava più a
mantenere efficienti gli argini dei fiumi. Le attività artigianali
locali erano andate distrutte. Di molti villaggi non rimaneva che
un cumulo di macerie annerite per l’incendio. In questo ambiente
desolato si aggiravano esseri che la fame rendeva simili ai lupi..
Procopio da Cesarea, testimonio oculare, ci racconta come i
Toscani macinassero ghiande per farne pane e come tale cibo
provocasse loro la morte. Allora essi cercavano d’interpretare nell’erba i segni del demone del vento, di comprendere le
ammonizioni delle stelle, d’individuare il diavolo che era sceso
tra loro e, se talora un conoscente, avventuratosi nel bosco non
ne usciva più, si parlava dei lupi mannari che vi si erano celati.
E Procopio aggiunge: «…vi furono taluni che, sotto le violenze
della fame, mangiaronsi l’un l’altro...».
«In una campagna non molto lontana da Rimini c’era un villaggio, nel quale, dopo una epidemia e la conseguente carestia, erano rimaste superstiti solo due donne. Non si sa come riuscissero
a sopravvivere. Di tanto in tanto passava di là qualche viandante
che, stanco, chiedeva loro ospitalità. Esse gliela accordavano
di buon grado, invitandolo a pernottare nella loro capanna.
Sennonché quell’ospite era destinato a non uscire mai più dal villaggio, perché nella notte le due donne lo colpivano nel sonno e
lo uccidevano per destinarlo al loro sostentamento.
Col passare del tempo di viandanti ne erano stati ospitati e regolarmente mangiati 17, quando giunse il diciottesimo. Anch’egli
chiese ospitalità e anche a lui fu gentilmente accordata, ma, o
ch’egli si fosse accorto di qualche poco convincente maneggio
o che avesse il sonno leggero, fatto sta che si svegliò proprio nel
momento in cui le donne si accingevano a ucciderlo e balzato
loro addosso, ne conobbe tutta la storia e ambedue le uccise ».
a cura di
Aurora Romanini Ferraresi
Processione di
“flagellanti”, sec. XIV
E TRATÔR
Siamo nel 1938, Mario ed Vizenz, assieme al padre ai fratelli e a tre
cugini, uniscono tutti i risparmi di una vita per comprare un trattore;
“un Landini”a testa calda con una potenza di 45 cavalli, col patto
siglato da una stretta di mano, di usarlo per i lavori necessari a due
poderi vicini e se possibile per conto terzi.
Mario aveva ottenuto da poco e con una certa fatica la patente “per
trattrice con motore endotermico”.
Detto oggi, non fa nessun effetto, ma al tempo si contavano sulle
dita di una mano in quel piccolo comune nelle vicinanze di Faenza.
Quando andava al bar “Vittoria” dove si svolgevano le contrattazioni, e dove i sensali seduti generalmente ad un tavolo d’angolo
aprivano i loro portafogli a fisarmonica “ed vachetta” cioè di cuoio
grezzo e regolavano gli acquisti, le vendite e le riscossioni, ricevevano spesso delle pacche sulle spalle e l’offerta del vermut o del caffè
corretto “al mattino”
Un vicino di casa, dopo che bevuto il vermut se ne era andato, disse
che l’offerta del bere era per tenerselo buono, perché “un sa mai, lô
e guida e trator.”
Il giorno della consegna del trattore, si presentarono tutti in bicicletta
al Consorzio Agrario di Faenza, consorzio che aveva provveduto,
come rappresentante, oltre alle pratiche e al pagamento, al trasporto
dalla stazione, dove era arrivato la sera prima, al piazzale antistante
il consorzio stesso.
Ed ora, eccolo: Verniciato di grigio azzurro con le ruote rosse troneggiare (è il caso di dirlo) davanti a tutti, che radunatisi attorno lo
ammiravano.
Mario con lo stomaco stretto stretto dall’apprensione, si accinse
allora, sotto la guida del meccanico del consorzio e con il libretto di
uso e manutenzione in mano, ad eseguire le manovre per la messa
in moto.
Per prima cosa il rifornimento di nafta, poi il riempimento di acqua
nel radiatore, poi il riempimento con benzina della “leopila” in dotazione, la sua messa in pressione e l’accensione.
Questo aggeggio serviva con la sua fiamma a dardo di colore azzurrognolo messa per terra sotto la testata dell’unico cilindro del trattore
“ un due tempi di 4200 cm3 per portare al calor rosso una parte della
medesima; cosi facendo, quando il pistone metteva in pressione
l’aria e arrivava il carburante, questi esplodeva e così sempre di
seguito rimanendo rossa all’infinito.
Dopo una buona mezz’ora, giudicato il riscaldamento della testata
sufficiente, in due, uno di qua e uno di là, afferrati i due grossi volani,
li fecero girare.
Uno sbuffo di fumo azzurrognolo uscì dal grande e caratteristico
tubo di scarico, poi uno scoppio, poi un altro; lentamente i volani
raggiunsero i 700 giri, la velocità massima.
Poi Mario si sedette sul sedile di ferro traforato sorretto da una
balestra: “sembrava una grande ramina”, ridusse i giri, innestò la
marcia, allentò il freno a mano e con uno scatto il trattore si mise in
movimento.
Il rumore era a dir poco assordante; oltre agli scoppi del motore un
rumore di ferraglia accompagnava la sua marcia, seguita dal codazzo
del parentado in bicicletta.
Nel pomeriggio già stava arando nel campo. Il solco tracciato dall’aratro non era proprio dritto, ma tant’è c’è un inizio per tutto.
Però Mario aveva un pensiero nascosto, un tarlo nel cervello che non
lo lasciava in pace; aveva saputo che in città, vi era un meccanico
che sapeva modificare la pompa di iniezione della nafta, e dare perciò più potenza al motore.
Un giorno, con la scusa di comprare due latte d’olio lubrificante, lo
andò a trovare.
Presto si accordarono, il meccanico gli garantiva cinque cavalli in
più e avrebbe fatto il lavoro sull’aia.
Detto fatto, dopo pochi giorni arrivò in bicicletta, tirò fuori da una
sporta fatta di foglia di frumento intrecciata e infilata nel manubrio i
ferri del mestiere, e in poco tempo divenne un trattore truccato.
Poi un giorno di mercato si presentò al solito bar dove sapeva che
vi avrebbe trovato diciamo un collega che guidava lo stesso tipi di
trattore Col fare più innocente di questo mondo, per caso, si trovò
al banco proprio mentre quello sorseggiava il suo vermut: «Allora
come va» attaccò Mario «il Landini?»« Benissimo» rispose l’altro,
« l’altro ieri ho arato il podere “dla Martlozza”, e sono andato a fondo con l’aratro ben 40 centimetri» «Bè» disse Mario «ma io lavoro
sempre con il mio a 50 centimetri.»
«Non è possibile “un’gna fa”»
«Sé che u’ia fa»
«No»
«Sé»
«Scumitegna una zéna»
«Ai stagh.»
Al pomeriggio nel campo prescelto tutto il bar era presente; arrivò
Mario con trattore e aratro. Fu controllato e trovato normale, iniziò
l’aratura. Il solco era oltre i 50 centimetri di profondità.
La sorpresa fu totale e alla fine dell’aratura fu evidente a tutti che la
scommessa era vinta. Naturalmente Mario si guardò bene dal dire
qualcosa sul trucco e anche il meccanico stette zitto, perché, per il
suo silenzio, aveva patteggiato due capponi per tre Natali.
Durante una trebbiatura una “azdora” dopo aver fritto almeno otto
padellate di patate, vide che il grasso di maiale con cui friggeva
non era più buono, e decise di buttarlo. Il marito scherzando disse
che poteva essere usato come carburante per il trattore. Mario non
fece una piega, prese la padella (bella grande e con tre dita di grasso
fuso) e versò il tutto nel serbatoio del Landini. Sembrò che il ritmo
di funzionamento migliorasse, solamente si sparse per l’aia un forte
odore di fritto.
In una calda notte estiva Mario col suo trattore faceva funzionare una
pompa per irrigazione vicino al Rio Salato: la notte era calda e stellata e, dopo aver fatto rifornimento Mario, non avendo nulla da fare, si
era seduto su di un tronco tagliato, tutto era tranquillo; il battito del
motore era regolare, si rilassò e decise di fumarsi una sigaretta. Nel
momento che accese il fiammifero, una fiamma azzurrognola dai
contorni rossastri lunga quasi un braccio gli lambì la faccia.. Impaurito si alzò di scatto, ma la fiamma lo seguì, fece un passo indietro,
ma vi era il tronco e cadde all’indietro; la fiamma lo seguì mentre
cadeva per un attimo, poi sparì.
Mario rimase sdraiato per un poco cercando di capire cosa diavolo
fosse successo. Finalmente si alzò con molta circospezione e con le
gambe un po’ molli si diresse verso il trattore vi salì sopra e facendosi forza riaccese un altro fiammifero, questa volta però non successe
niente .
Un poco rassicurato restò sul trattore fin verso le sei del mattino,
ora in cui gli veniva dato il cambio.«Tè una faza come s t’aves vest
e geval» gli disse Tugnì dl’a ca et ciotta appena lo vide. Mario gli
raccontò per filo e per segno ciò che le era capitato. Tugnì si mise a
ridere e gli spiegò che lungo l’argine del rio, vi erano dei cosiddetti
“ Buldur” (vulcanetti nel terreno che emettono fango e gas metano e
che specialmente in estate possono incendiarsi.
Tempo dopo, un giorno mentre arava un podere in quel di Brisighella, l’aratro si impuntò contro una vena di roccia non visibile: Il
trattore alzò le ruote anteriori come un cavallo imbizzarrito; il perno
di collegamento trattore aratro si ruppe e il trattore ricadde con Mario attaccato spasmodicamente al volante. Si risolse così, bene, una
situazione molto pericolosa.
Quello era un trattore con l’anima, guidarlo tutto il giorno, causa le
forti vibrazioni, era come fare all’amore tutto il giorno con la moglie
“senza però e gost”
Quel l’era un trator, miga quei d’incö!.
Pier Giorgio Casadio Prati
13
MUSSOLINI ANARCHICO
14
Il 14 marzo del 1912 un muratore anarchico, certo Antonio d’Allo stesso a prendere la licenza elementare.
ba, attentò alla vita di Vittorio Emanuele III.
Poi i genitori lo fecero accettare al collegio laico Carducci di
Il re si salvò e nel pomeriggio i deputati di ogni corrente politica
Forlimpopoli: dopo un anno l’espulsione. Vi era entrato portando
salirono al Quirinale per felicitarsi dello scampato pericolo: tra
con sé il coltello a serramanico che soltanto anni più tardi avrebbe
gli altri sfilarono davanti al sovrano e gli strinsero la mano gli
lasciato per la pistola.
onorevoli Bissolati, Bonomi e Cabrini, socialisti. Questi tre erano
Gli è che facendosi giovanotto Mussolini prese a rivestire la pronoti per il loro buon senso, per la loro politica conciliante e compria istintiva violenza di fiocchi culturali, di letture filosofiche che
pirono l’atto gentile in piena tranquillità. Fu il giorno successivo,
lo orientarono verso una ancor vaga politica rivoluzionaria.
sfogliando un giornale romagnolo intitolato La lotta di classe, che
Fanatico della Rivoluzione francese, dall’ultimo banco dov’era,
seppero come il gesto era stato tanto poco apprezzato dall’ala rivospediva proclami rivoluzionari ai compagni chiamandoli «cittaluzionaria del Partito da minacciare la loro espulsione. «Una solledini». Scherzava, ma quando si accorse che il fornaio del collegio
cita espulsione!» -così scriveva il direttore de La lotta di classe- e
metteva crusca nel pane combinò sul serio una mezza rivoluzione
proseguiva tempestando i tre onorevoli di autentiche insolenze.
collegiale.
Leonida Bissolati, tre mesi più tardi, al Congresso del Partito soFinché una mattina, quando aveva diciassette anni, se ne arrivò a
cialista tenuto a Reggio Emilia poté finalmente vedere in faccia
scuola sfoderando di sotto il cappotto una grande cravatta nera e a
l’audace giornalista.
chi gliene chiese il motivo rispose: « Io? io
Era un giovanotto di non ancora trent’anni, dagli occhi rotondi
sono anarchico individualista ».
e strabuzzati, la barba indecoCosì i suoi professori cominrosamente lunga e una giacca
ciarono a capire perché nei
nera stretta fino all’inverosuoi temi erano citati con tanta
simile: «alla tribuna Benito
passione Roberto Ardigò e Max
Mussolini» disse l’annunciaStirner, filosofi fra i prediletti
tore.
dagli anarchici.
Un quarto d’ora più tardi
La smania di apparire, di rifiuLeonida Bissolati si vide puntare ogni imposizione, tutti eletare contro il dito e ripensò a
menti che facevano di Mussolini
malincuore il disgraziato giorun anarchico per natura, lo porno in cui aveva visitato il re
tavano a deformare le proprie
scampato all’attentato.
vicende.
« Voi, Bissolati » lo assaliva
Gli anarchici di un tempo erano
Mussolini «avete tentato di
sicuri che per trascinare i popoli
giustificare il vostro gesto di
bisognasse farsi conoscere renomaggio al re per l’attentato
dersi sempre presenti, menare
dell’anarchico d’Alba. La
scandalo nella morta gora del
vostra andata al Quirinale vi
regime borghese.
ha posto sotto l’accusa del
Mussolini raccolse d’istinto
Partito... Ditemi, Bissolati,
questa loro eredità. Dal moquante volte siete stato a renmento in cui uscì dal collegio di
dere omaggio a un muratore
Forlimpopoli fece tesoro di ogni
caduto da un’impalcatura?
vicenda privata o addirittura
Quante volte ad un birrocciaio
intima, e molte ne inventò, pur
travolto dal proprio carro?
di lasciare una scia dovunque
Quante volte ad un minatore
passava, una scia che facesse
colpito da un sasso? Ebbene?
rabbrividire i buoni borghesi.
Che cosa è un attentato al re, se
Cominciò assai presto, quando
non un infortunio sul lavoro? »
ancora faceva la comunione a
Bissolati non era preparato
Pasqua: entrò nel confessionale
ad un attacco così logico. Si
con l’anima quasi candida e lì
aspettava che Mussolini, come
per li inventò una serie di pecal solito, si compromettesse
cati abominevoli da spifferare al
con un elogio degli anarchici
confessore.
attentatori, ma Mussolini queIl gioco di apparir cattivo e
sta volta fu più prudente. Ai
ribelle ad ogni consuetudine
vertici del Partito socialista, Ritratto di Benito Mussolini al tempo della sua permanenza in Svizzera
gli riusciva ancor meglio con
quel giorno del luglio 1912 ci
le sue innamorate: queste anzi
fu così un cambio della guardia assai significativo: si ritraevano i
furono le prime persone sulle quali saggiò anche la sua smania
socialisti accorsi a stringer la mano al re il giorno dell’attentato e
autoritaria.
saliva alla ribalta quel Mussolini che due anni prima aveva scritto
Avvenne che partisse per la Svizzera in cerca di fortuna.
degli attentatori anarchici: « Pazzo un Angiolillo? (uccisore del
Fortuna non ne ebbe molta, in Svizzera, ma in compenso poté inministro spagnuolo Canovas del Castilo). Pazzo un Bresci? (ucserire per la prima volta questi suoi furori nella vita politica.
cisore di Umberto I). Pazza una Sofia Perovskaja? Ah, no. Eroi,
Era l’autunno del 1902: Mussolini diciannovenne, senza una lira,
quasi sempre eroi, ma pazzi quasi mai. »
partì per Chiasso, passò il confine, si diresse a Losanna e cominciò
Mussolini fu anarchico assai prima di sentire questa parola.
ad arrangiarsi con lezioni e traduzioni; ma in questo periodo il suo
Da ragazzetto detestava la obbedienza e i compagni obbedienti
antico odio generico per i compagni ossequienti e bravi a scuola,
e devoti. Non tollerava di inginocchiarsi in chiesa e scappava di
la sua antica smania di prevalere si tradussero in odio feroce conmano alla madre quando lei andava a messa. Poi si arrampicava su
tro i ricchi.
di un albero traboccante il muricciolo dell’oratorio e bersagliava a
Fu questo odio inconsulto verso i benestanti a dischiudergli sufiondate i vetri della chiesa, il prete e i ragazzi che giocavano.
bito la simpatia dei gruppi rivoluzionari svizzeri: tre settimane
Iscritto quasi di forza al collegio dei salesiani di Faenza accumulò
non erano trascorse dal suo arrivo, che suoi articoli apparvero sui
tanto precoce odio contro maestri e compagni diligenti che alla
giornaletti rivoluzionari delle più estreme tendenze. Prima che
prima occasione spaccò un calamaio sulla testa dell’insegnante e
finisse il 1902 Mussolini ottenne il segretariato dell’Associazione
piantò un temperino nella pancia di un compagno. Espulso riuscì
fra muratori e manovali di Losanna, col beneficio di far colazione
Mussolini alla sua seconda espulsione dalla Svizzera
gratis al caffè Boch, privilegio non indifferente in quegli ambienti
di scarso credito.
A metà del 1903 i carpentieri del cantone di Berna, un settore sindacale che non lo riguardava, entrarono in agitazione. Mussolini
fece un discorso ai muratori: egli propose uno sciopero generale di
solidarietà, e predicò l’uso immediato dei mezzi violenti.
La polizia svizzera, nonostante la lunga abitudine con i rivoluzionari, tese le orecchie, acchiappò Benito e lo rispedì in Italia
dopo averlo tenuto in prigione per dodici giorni. Ma da Chiasso
Mussolini passò a Como e di lì di nuovo in Svizzera.
In quel tempo si era dato alle letture politiche, o meglio a certe
letture politiche che erano gli stessi testi sui quali si fondavano
gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari: fra questi testi c’era
qualcosa del Sorel e l’idea dello sciopero generale e della violenza intesa come morale era proprio sua. Da questo momento
Mussolini non abbandonò più il Sorel e qualche anno più tardi, nel
1908, fu tra gli entusiasti estimatori e divulgatori del libro di Sorel:
Considerazioni sulla violenza nel quale si leggeva: «Alla violenza
il socialismo deve gli alti valori morali, coi quali porge la salvezza
al mondo moderno».
Gli anarchici si erano staccati dai socialisti, ed erano arretrati sulla
scena politica proprio perché i socialisti avevano mostrato di preferire la tribuna parlamentare alla rivoluzione violenta: ma ora che
certi iscritti al Partito socialista come questo giovane Mussolini
volevano la violenza, non era il caso di tender dì nuovo loro la
mano?
In effetti il gruppo anarchico Réveil, che operava a Ginevra, entrò
subito in contatto con Mussolini e gli affidò la traduzione e la presentazione ai lettori di uno dei testi più dinamitardi dell’anarchismo: le Paroles d’un revolté di Kropotkin.
Mussolini lesse, tradusse e si entusiasmò a quella prosa letteraria.
Ritenne molte di quelle idee e le espose in cento articoli. Inoltre
divenne amico di un grosso esponente dell’anarchia locale, certo
Bertoni e in breve si diffuse la voce che Mussolini era anarchico.
Anarchico nei pensieri, negli atteggiamenti, nei fatti: questo fu
anche il giudizio di una donna ch’egli incontrò a Ginevra nel marzo del 1904, donna che ebbe molta importanza nella sua vita, la
profuga russa Angelica Balabanoff.
Questa Balabanoff in un suo libro su Mussolini si affannò anzi
a precisare che di socialista Mussolini non aveva proprio niente,
attratto com’era verso l’anarchia, l’anticlericalismo e l’antimilitarismo sfegatati: comunque seguì l’amante per molti anni, partecipò al suo trionfo su Leonida Bissolati, fu con lui alla direzione
dell’Avanti!, lo abbandonò quando Mussolini volse al fascismo ed
alla fine intitolò un libro di memorie Il traditore Mussolini.
La Balabanoff fu testimone del modo con il quale Mussolini cercò
di «liberare» sé e i suoi seguaci dalla «superstizione» di Dio e
della religione.
Accadde a Losanna, nel 1904, alla casa del popolo dove il pastore
evangelico Tagliatela teneva una conferenza. Mussolini si alzò in
piedi e chiese la parola. Domandò intorno se qualcuno gli prestava
un cronometro, quando ne trovò uno fece scattare la lancetta dei
secondi e lo sospese per la catenella bene in vista davanti a sé. Poi
disse ai presenti: «Signori, dò cinque minuti di tempo a Dio per
fulminarmi; se non mi punisce in questo tempo vuol dire che non
esiste». E rimase così ad aspettare il fulmine, mentre all’interno
perfino i compagni più ardenti mormoravano imbarazzati.
Il medesimo episodio di Losanna si ripeté poi, nel 1907, nell’Alta
Carnia.
Ancora a Losanna, durante una conferenza nella quale Emilio
Vandervelde sosteneva la libertà di religione anche per i socialisti,
Benito Mussolini si alzò in piedi per sostenere l’assurdità di un
socialismo religioso. Ormai egli era noto per colui che aveva concluso la prefazione del suo libretto Dio non esiste con le parole:
«Fedeli, l’Anticristo è nato».
A dare maggior credito alla nomea di anarchico di Mussolini venne dall’Italia nel 1903 una condanna, contro di lui, per diserzione
dal servizio militare.
Come al solito ansioso di estendere a dottrina politica i propri casi
particolari Mussolini reagì alla condanna inserendo nei propri
articoli una violentissima vena antimilitarista. Scrisse parole di
fuoco contro «le divise dai colori chiassosi, i petti irti di croci, di
medaglie, di decorazioni e simili chincaglierie», si accanì contro
le parate reali scalpitanti di cavalli addobbati e contro i codazzi di
ministri «che passano accecando il pubblico». Ed è curioso ricordare che Benito Mussolini, in questi primi scritti antimilitaristi, si
esprimeva quasi con le stesse parole a suo tempo usate dall’anarchico Passanante, infelice attentatore alla vita di Umberto I.
In Svizzera insomma la fama di un Mussolini anarchico si allargò
al punto, che lo stesso Mussolini, per tema di guai maggiori, si
decise a sconfessarla.
Questo avvenne nell’aprile del 1904 quando la polizia svizzera lo
arrestò per la seconda volta e minacciò di rispedirlo in Italia dove
lo attendeva la condanna per diserzione.
Mussolini non poteva certo chiedere aiuto ai compagni anarchici,
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in questo caso, così si volse ad un socialista, il consigliere Wyss,
e gli scrisse: «Tutti vi diranno che io sono anarchico. Nulla di più
falso, compagno... Sono stato quaranta giorni a Ginevra ed ho
partecipato pochissimo alla vita politica. Quasi tutto il tempo ho
frequentato la biblioteca. Adesso me ne vado a Losanna, all’Università, e spero di restarvi tranquillo...».
Ma tant’è, anche se frequentava la biblioteca, le sue letture ed i
suoi lavori lo spingevano sempre più verso l’anarchia. Con l’aiuto
della Balabanoff tradusse un opuscolo del Kautsky; poi intervenne
nel problema morale traducendo e diffondendo un libretto di
Malthus sulla regolamentazione delle nascite, e intitolò la traduzione Meno figli, meno schiavi.
Ma soprattutto, con il Sorel, con Nietzsche, con Stirner, con
Kropoktin, ebbe importanza nella sua preparazione culturale-politica il Blanqui.
Blanqui aveva gettato il seme del socialismo rivoluzionario sostenendo che la rivoluzione doveva essere preparata e condotta da
pochi iniziati ed anche Michele Bakunin si era richiamato a questa
teoria. Mussolini la raccolse, se ne entusiasmò e non la lasciò più.
Così, quando in seguito ad amnistia Mussolini poté tornare in
Italia, sia pur pagando lo scotto di una lunga ferma militare, portò
con sé non solo un’affermata nomea di anarchico. ma un bagaglio
di idee e di nozioni che aspettavano solo di potersi tramutare in
azione. Tornò dunque in Italia e compì il servizio militare, poi
insegnò qua e là, ma il tempo non relegò nel dimenticatoio la sua
attività svizzera. Così quando fu di nuovo a Forlì e fondò il settimanale La lotta di classe gli anarchici capirono che Mussolini era
pur sempre un prezioso alleato. Gli perdonarono di aver compiuto
il servizio militare.
Trascorsa la «ferma» militare Mussolini aveva ancora accentuato
il tono antimilitarista dei propri scritti, sconfinando nell’antipatriottismo. Qualche anno più tardi, nel 1913, fece un discorso che
avrebbe allargato il cuore a Bakunin e ai vecchi anarchici che
erano sempre stati insidiati nella loro lotta libertaria dal fascino
sulle folle di Garibaldi e Mazzini. Si trattava di commemorare la
Comune di Parigi, la famosa rivoluzione anarchico-comunista
che nel 1871 aveva acceso tante speranze nel cuore di Bakunin:
Mussolini dopo un attacco contro ogni forma sorpassata di patriottismo borghese rammentò in che modo Giuseppe Mazzini aveva
combattuto la Comune e concluse dicendo che « anche Garibaldi
e Mazzini vanno relegati in soffitta tra il vecchio ciarpame del Risorgimento».
Per gli anarchici, comunque, Benito Mussolini era già l’uomo del
domani o, come lo chiamavano, il loro «pensoso apostolo». Forse
furono proprio gli anarchici i primi a parlare di uno «stile mussoliniano», lo fecero riferendosi ad uno dei loro grandi, lo spagnolo
Ferrer.
Benito Mussolini non entrò in contatto diretto con l’anarchico
spagnolo, ma quando questi fu preso e fucilato, Mussolini, che
si trovava a Forlì, sentì il dovere di intervenire. Fece un comizio
di protesta ed aizzò la folla al punto che una masnada corse al
palazzo vescovile armata di bastoni e di pietre, e poiché non riuscì a linciare il Vescovo se la prese con una colonna votiva della
Madonna.
Effettivamente in quegli anni intorno al 1910 il popolo era molto
facile al subbuglio.
E di lì a poco, certo pensando a Mussolini, un vecchio anarchico
dal cuore giovanile, scriveva quasi rispondendogli: « Ora, finalmente pare che i rivoluzionari trovino che sia tempo di parlare
chiaramente di rivoluzione e di insurrezione e di presentare lo
sciopero generale definitivo non più come un sostituto dell’ insurrezione, ma come un mezzo per tirare in piazza le masse, per
provocare l’insurrezione e facilitarne il successo»
Scriveva così un anarchico poco meno che redivivo, un uomo
la cui mitica vecchiezza fa impressione confrontata alla cruenta
gioventù di Mussolini: era Errico Malatesta, il fedelissimo di
Bakunin, il compagno di Carlo Cafiero, il venerando capo della
Banda del Matese.
Benito Mussolini consentiva in pieno con le sue parole, fin dal
tempo della Svizzera, allora, quando propose uno « sciopero generale » con l’impiego dei « mezzi violenti ».
Nel settembre del 1911 Mussolini si comportò in modo tale da far
battere davvero con speranza il cuore del vecchio Malatesta che
dall’esilio di Londra lo spiava. Si profilava la guerra italo-turca e
Mussolini non si appagò di dare sfogo al proprio furente antimilitarismo con articoli di giornale. Ne scrisse naturalmente, e di terribili, nei quali dichiarò che la propria lotta era «intesa a demolire
l’esercito» e che la bandiera nazionale, italiana «è uno straccio da
piantare sul letame»; ma volle anche agire. Fece un discorso memorabile al popolo di Forlì: se la prese con tutti coloro che erano
venuti al comizio con le mani penzoloni anziché bene armati, e
nel pandemonio che nacque Benito Mussolini esortò a tagliare il
telegrafo, a metter pali di traverso sulle rotaie perché i soldati non
potessero partire.
Prese un gruppo di fedelissime andò a svellere le rotaie della
tramvia Forli-Meldola.
Mussolini conosceva il proprio fascino e quando fu arrestato pronunciò frasi memorabili come « Se mi assolvete mi fate piacere, se
mi condannate mi fate onore ».
Fu condannato e uscì di prigione all’inizio di quel 1912 nel quale,
come abbiamo visto, avrebbe attaccato a fondo i socialisti legalitari che si erano felicitati con il re per essere scampato all’attentato
d’Alba.
E nel 1912 Mussolini diede un’altra stretta di mano all’anarchia.
Un anarchico molto noto, Paolo Valera, aveva fondato a Milano
un giornale intitolato La folla: Mussolini volle subito collaborare
al giornale anarchico.
Intanto, da Londra, Malatesta spiava gli avvenimenti. Di giorno in
giorno nuove speranze lo nutrivano: questo Mussolini che se ne
infischiava di ogni patteggiamento, che voleva la rivoluzione, che
sullo sciopero generale la pensava come lui, questo Mussolini che
aveva gli anarchici tra gli amici prediletti, era una bella soddisfazione per colui che aveva sempre lasciato l’Italia con una sconfitta
alle spalle e tanta amarezza nel cuore.
Alla fine del 1912 Mussolini prese la direzione dell’Avanti! e
l’Avanti!, vale a dire il più letto quotidiano popolare, lasciò cadere
ogni atteggiamento legalitario: tutti i giorni dalla prima pagina
Mussolini ribadiva l’idea dello sciopero generale e della rivoluzione e di giorno in giorno la folla si muoveva di più.
Con la settimana rossa, che fu 1’ultima esplosione di anarchia in
Italia, anche i rapporti stretti fra Benito Mussolini e l’anarchia cessarono. La guerra mondiale urgeva, ormai. Eppure, per lo meno,
una simpatia anarchica da parte di Mussolini si protrasse nel tempo. Nel 1919, già alle soglie del fascismo, dopo il «tradimento»
mussoliniano a favore del nazionalismo, Benito Mussolini salutò
con un articolo plaudente l’ultimo ritorno di Errico Malatesta in
Italia, e parlando di Max Stirner, il filosofo dell’anarchia, il suo
primo amore intellettuale, disse: « Perché Stirner non sarebbe più
di moda? ». Una domanda timida, dubbiosa, quasi nostalgica. Ma
l’esperienza anarchica di Mussolini giovò anche agli anarchici:
Malatesta, che per Benito Mussolini aveva avuto quasi un amore
senile, chiese soltanto di poter vivere tanto da veder cadere il fascismo.
Gian Franco Vené
E’ zoch-periodico di attività culturali
fondato nel 2002 da D. Franchini e G.F. Fontana
Giugno 2006, numero 21
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Questa pubblicazione è edita con i contributi dei soci del Tribunato e
della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola.
In questo numero scritti di:
Giuseppe Carrello, Pier Giorgio Casadio Prati, Franco Dell’Amore,
Francesco Donati, Gian Franco Fontana, Odette Gelosi, Aurora Romanini
Ferraresi, Gian Franco Vené
Le fotografie sono dell’archivio Gian Franco Fontana ©2006
Spedizione in Abbonamento Postale D. L.353/2003 conv.
L.27-02-2004 n°46 art. 1 comma 1 DCB Bologna
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