2° FORUM INTERNAZIONALE
DELL’A GRICOLTURA E DELL’A LIMENTAZIONE
CERNOBBIO 25-26 OTTOBRE 2002
COME TUTELARE
IL MADE IN ITALY
ALIMENTARE
in collaborazione con
Il Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, promosso dalla Coldiretti
in collaborazione con Ambrosetti, si propone come uno degli appuntamenti europei più rilevanti sui temi della politica agricola ed agroalimentare. Ogni anno, in ottobre, nella splendida cornice di Villa d’Este a Cernobbio, Coldiretti ed Ambrosetti chiamano a discutere nomi
prestigiosi della cultura e della politica sui grandi temi dell’agricoltura e dell’alimentazione
e sulla stretta connessione che tra essi si impone nella società contemporanea.
Per ogni commento e contributo ai temi affrontati nel Forum si può utilizzare il sito
www.coldiretti.it.
SOMMARIO
Apertura dei lavori
Paolo Bedoni
”
7
Lo scenario economico di riferimento
Giacomo Vaciago
”
9
Lo scenario socio-culturale di riferimento
Enrico Finzi
”
15
Il contesto internazionale
Stefan Tangermann
”
23
Il contesto europeo
Fabrizio De Filippis
”
31
Una nuova politica agricola per l’Unione Europea
Paolo Bedoni
”
43
La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
Tavola rotonda
Moderatore: Paolo De Castro
”
49
Corrado Pirzio Biroli
”
49
Giovanni Anania
”
52
Eva Rabinowicz
”
55
Jean-Christophe Bureau
”
57
Il futuro delle politiche agricole
Una politica agricola per l’Unione Europea
José María Sumpsi Viñas
pag.
60
Dibattito
”
62
Modelli istituzionali europei
per una nuova politica agricola
Orazio Maria Petracca
”
71
”
76
Le opinioni degli italiani sull’alimentazione
Renato Mannheimer
”
83
Qualità: il consumatore la percepisce?
Daniele Tranchini
”
88
”
94
Origine e sanità
Paola Testori Coggi
”
99
Origine e qualità
André Valadier
”
104
Tre storie di successo: il Franciacorta,
il Parmigiano Reggiano, la Chianina
Claudio Faccoli
”
109
Andrea Bonati
”
111
Alessandro Giorgetti
”
113
Luigi Cremonini (Gruppo Cremonini)
”
119
Dante Di Dario (Arena Holding)
”
122
Mario Francese (Euricom)
”
124
Alfredo Gaetani (Eurolat)
”
126
Maurizio Gardini (Conserve Italia)
”
128
Verso la riforma della Pac
Rocco Buttiglione
L’origine dei prodotti
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare:
quali considerazioni per i prodotti tipici italiani
Giorgio Calabrese
Incontro con la “filiera”
Luciano Sita (Granarolo)
pag.
130
Vincenzo Tassinari (Coop Italia)
”
132
Alessandro Arioli (Qualitalia)
”
134
Ben Gill
”
137
Jean Michel Lemétayer
”
140
Helmut Born
”
143
Roberto Formigoni
”
147
Giovanni Alemanno
”
151
”
157
Interventi
Conclusioni
Paolo Bedoni
Apertura dei lavori
Paolo Bedoni
Ho l’onore ed il piacere di aprire i lavori del Forum Internazionale
dell’Agricoltura e dell’Alimentazione che per il secondo anno la Coldiretti organizza con la collaborazione di Ambrosetti. Ringrazio voi
tutti per aver accettato il nostro invito a riprova e testimonianza del
prestigio che si è subito conquistata questa iniziativa, nata con il preciso intento di individuare una sede di discussione in cui gli esponenti
della filiera agroalimentare, esperti e studiosi di rilievo internazionale
e i rappresentanti delle istituzioni potessero incontrarsi e discutere in
profondità e con franchezza. Anche quest’anno abbiamo la possibilità
di ascoltare e discutere con un panel di relatori di grandissimo livello.
La prima giornata è orientata sulle politiche agricole all’interno degli scenari europei ed internazionali, con uno sguardo più ampio alle
tendenze dell’economia e della società mondiale nel loro complesso.
La seconda giornata sarà dedicata in grande prevalenza al tema che
noi consideriamo cruciale: quello dell’origine, cioè della valorizzazione economica della territorialità dei prodotti agricoli ed alimentari.
Mi riservo più avanti l’opportunità di esporre il punto di vista della
Coldiretti su questi problemi ma voglio sottolineare che la mia organizzazione è qui soprattutto per ascoltare. Credo di poter dire che abbiamo lavorato molto in questi anni per portare l’agricoltura italiana
fuori dalle mura della “cittadella” corporativa nella quale si era lasciata, forse anche volentieri, rinchiudere. Ma quelle mura erano diventate
le sue prigioni e c’erano tutte le premesse perché ne restasse anche
mummificata. Ora la situazione è cambiata di molto, anche grazie a
qualche drammatico e salutare scossone. Ora in quelle mura rischiano
di restarci imprigionate le istituzioni se non si rendono conto che i
tempi del consociativismo sono finiti e che l’agricoltura è destinata,
nei fatti e nell’esperienza di tutti i giorni, a costruire e a dare solidità
ad un rapporto di grande lealtà e fiducia con i consumatori e con il
mercato. Noi su questo abbiamo lavorato e continueremo a lavorare,
Paolo Bedoni è presidente della Coldiretti.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
7
sperando che le istituzioni si decidano ad imboccare, con decisione, la
strada del cambiamento delle politiche agricole.
Parliamo di istituzioni a tre livelli. A livello europeo, dove si prendono le decisioni che segnano intere epoche e dove bisogna in tutti i
modi rafforzare gli orientamenti alla riforma maturati nell’ambito della Commissione. A livello nazionale, dove siamo costretti a un pressing continuo con la politica. A livello regionale e di enti locali, dove
facciamo fatica a far passare il concetto che la politica agricola può essere un enorme fattore di spinta e di valorizzazione della territorialità.
Non voglio naturalmente fare un quadro troppo pessimistico. Voglio
tuttavia, fin dall’inizio, lanciare un allarme forte sulla difficoltà di un
rapporto chiaro, diretto e trasparente con la politica. Difficoltà di fronte alla quale comunque e a maggior ragione dobbiamo avere capacità
di proposta e di iniziativa.
Per dare forza alla nuova agricoltura abbiamo bisogno di un doppio
patto: il patto con il consumatore, che per noi ha assunto, ormai, un
valore di riferimento cruciale e il patto tra imprese nella filiera che per
noi è ormai una concreta ipotesi di lavoro.
8
Apertura dei lavori
Lo scenario economico
di riferimento
Giacomo Vaciago
Che cosa abbiamo appreso nell’anno trascorso e quali problemi e
opportunità ci attendono per gli anni prossimi? Un anno fa, ci trovammo qui poco dopo la tragedia delle Torri gemelle e c’era molto pessimismo. Il paradosso appreso quest’anno è che le Torri gemelle si trovavano a New York ma l’economia che è andata peggio è stata quella
europea, non quella americana. E questo insegna qualcosa. I quindici
sono in affanno, discutono molto del passato, l’abbiamo visto in proposito del patto di stabilità e sviluppo, forse sbagliato ma un tempo
utile. Il problema è come cambiarlo.
Il vero dramma europeo degli ultimi dodici mesi è la scarsa capacità
che i quindici paesi hanno dimostrato finora di fare, in presenza di
problemi comuni, giochi cooperativi, che sono l’unica cosa utile quando il problema da affrontare riguarda tutti. Lo abbiamo visto nei confronti del terrorismo. Non ci sono stati due governi su quindici capaci
di assumere una posizione unitaria. Alternativamente ci siamo schierati con gli americani o con Saddam Hussein, e il nostro governo non è
stato peggio degli altri da questo punto di vista. I quindici non sono
stati capaci di riunirsi, discutere e prendere una posizione comune. Lo
stesso è accaduto in presenza di shock di natura economica. Il mondo
ha subìto una serie di shock negativi e comuni, poiché le due Torri, il
caso Enron, l’Argentina, per citare tre shock negativi dell’ultimo anno,
hanno coinvolto l’economia mondiale. Il problema è capire quale
struttura economica si ha e quanto essa è flessibile per accomodare
questi shock.
Il caso dell’auto è un buon esempio: crisi della Fiat. Crisi a tutti nota da anni, non è necessario aspettare una dichiarazione del Consiglio
di Amministrazione di Fiat Auto. Negli ultimi quattro anni noi italiani
Giacomo Vaciago è professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano, Facoltà di Economia.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
9
abbiamo acquistato Bmw, Mercedes, Volvo, Audi eccetera. Il paradosso è che non ci rendiamo conto della portata dei nostri comportamenti
finché non arrivano a fare notizia; eppure, per definizione, la domanda di automobili italiane negli ultimi quattro anni l’hanno decisa gli
italiani. È da notare che negli stessi giorni in cui si discuteva su come
possa un paese come l’Italia rinunciare alla propria industria, uscivano i dati sulla produzione di automobili in Inghilterra, che ha rinunciato ad avere un’industria nazionale e si sta specializzando nella produzione delle migliori auto del mondo: proprio Bmw, Audi, Honda,
eccetera. E questo la dice lunga sulla diversa capacità di reazione dei
paesi.
Gli shock arrivano e non li decidiamo noi, il problema non è nemmeno l’attacco o l’incidente bensì la capacità del paese di reagire e di
andare avanti e, quando i problemi sono comuni, la capacità di cooperare. Dalla recente tragedia di Mosca, Putin potrebbe imparare che il
terrorismo non è nemico di un paese solo, è nemico di tutti noi ed è
inutile dividerci di fronte allo stesso problema.
I sistemi economici che negli ultimi anni hanno reagito meglio agli
shock sono i più flessibili, sono i sistemi in cui vale la regola: vinca il
migliore. Il migliore si adatta e vince ed è una specie che dura nel
tempo. Mentre va in crisi la Fiat, va bene la Ferrari che punta sulla
qualità, e il nostro sistema è capace di gestire e vincere se fa queste
scelte. Bisogna riflettere sull’atteggiamento dei governi, che tendono a
difendere le debolezze di ciascun paese anziché i punti di forza. Se a
Bruxelles ogni paese protegge i suoi punti di debolezza, l’Europa che
costruiamo non sarà il sogno, il meglio di ogni paese, bensì l’incubo,
il peggio di ogni paese. L’abbiamo già visto tante volte nella storia:
l’Europa è già stata tante volte il meglio o il peggio di ogni paese, e in
quest’ultimo caso bisogna scappare o sperare che arrivino gli americani. Mentre il mercato tende a far vincere il migliore, cioè seleziona il
meglio; i governi, spesso e volentieri, difendendo interessi nazionali e
non potendo difendere il meglio, finiscono col difendere il peggio.
Vorrei tuttavia sottolineare che molti shock verificatisi negli ultimi
anni li abbiamo già superati. Il futuro non è più così dipendente dagli
shock finora avvenuti. Per inciso, nel 2002, l’anno che stiamo terminando, lo shock maggiore che ha subìto l’Italia non è stato provocato
dalle due Torri, dall’Argentina o l’Enron, ma piuttosto dalla confusione generata dai nuovi prezzi entrati in vigore il primo gennaio con
l’euro. Le conseguenze del change-over sull’inflazione percepita e
sull’ignoranza dei prezzi nuovi hanno determinato una caduta dei
consumi molto forte nei dodici paesi, e solo in essi. Non ad esempio
in Inghilterra, Danimarca o Svezia, che a differenza dei dodici non
10
Lo scenario economico di riferimento
hanno avuto il change-over. Si è diffuso una sorta di panico collettivo, la paura dell’inflazione, proprio l’anno in cui l’inflazione è rimasta tutto sommato modesta, o si è addirittura ridotta, come in Germania. Tutti hanno saputo che il cetriolo è aumentato del 400%, magari
non lo hanno nemmeno acquistato ma sapevano che il prezzo era
esploso e che quindi l’inflazione stava arricchendo i bottegai e impoverendo le famiglie. Se fosse vero che quest’enorme aumento dell’inflazione, pensato dalle famiglie italiane, è andato a beneficio dei
commercianti, dovremmo avere tanti amici lattai e panettieri che girano in Ferrari.
In realtà, stanno scomparendo dalle nostre tasche l’uno e i due centesimi, l’arrotondamento è ai cinque, ai dieci centesimi, e ciò, sul totale della spesa, porta a un paio di punti di inflazione una tantum. Non si
continua ogni anno ad arrotondare. Il change-over è stato un successo
tecnico incredibile: in due giorni le lire sono effettivamente sparite.
Gli arrotondamenti sono proseguiti per un po’: un caffè con la brioche,
che si pagava inizialmente 1,85, è arrivato a due euro, è questo il fenomeno che abbiamo misurato. I consumatori italiani, come i tedeschi, i
francesi, gli spagnoli eccetera, hanno ridotto i consumi: è la recessione
da change-over che ha un’unica caratteristica positiva: dura solo l’anno in cui entrano in funzione la moneta e, soprattutto, i nuovi prezzi.
Se le Borse adesso vanno male è perché vogliono sapere chi vincerà
fra Bush e Saddam Hussein. Non c’entra più nulla la bolla speculativa,
la new economy, la tecnologia; quella storia, in due anni, è abbondantemente risolta. Naturalmente le previsioni danno per vincente Bush:
nessuno ha scritto che vincerà Saddam Hussein e governerà a Washington nel futuro. C’è tuttavia molta incertezza su cosa accadrà nel
frattempo: le Borse e il petrolio rappresentano l’incertezza non sull’esito finale dello scontro con l’Iraq, ma sul processo di transizione, sui
tempi e sui costi della lotta al terrorismo. Anche per le imprese industriali nel G6 il peggio è passato, il recupero è in corso e adesso abbiamo un’aspettativa di economia che migliora.
Se guardiamo al prodotto interno lordo, nell’arco dell’ultimo anno,
il crollo è evidente, ma in termini di tassi di crescita il rimbalzo è già
partito: in America prima, in Europa dopo. In questi mesi di fine 2002,
l’andamento non è più in calo e stiamo iniziando a ripartire. Confrontando la situazione italiana ed europea, l’Italia va un pochino peggio,
ma anche nel caso dell’Italia la ripresa c’è. Il 2003 potrebbe essere, indipendentemente dal merito della politica del nostro Governo nei
prossimi mesi, già un anno di ripresa. Una crescita del 2% del Pil l’anno prossimo, nel 2003, non è impossibile, anzi, è probabile se la crisi
Iraq è risolta presto e bene!
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
11
Per quanto concerne altri shock, stiamo ancora pagando l’aggiustamento sul prezzo del petrolio, che era crollato nel corso degli anni
’90. Ora è risalito, e rimane più alto di quanto dovrebbe, solo per effetto della tensione militare, ma il suo prezzo di equilibrio dovrebbe
essere tra i 20 e i 25 dollari. È un buon termometro delle aspettative
sulla guerra e i suoi esiti iniziali nel corso dei prossimi mesi. Petrolio
a parte, i prezzi delle altre materie prime, quelle non energetiche, rimangono ai minimi storici. Sono lievemente risaliti nel corso del
2002, ma restano di un 30% inferiori ai prezzi di qualche anno fa. In
questo caso, c’è stato un miglioramento delle ragioni di scambio e
quindi un aumento di reddito reale per i paesi, come il nostro, importatori di materie prime. Stiamo meglio rispetto agli anni precedenti, rispetto alla metà degli anni ’90. È certamente positivo, per le nostre
esportazioni, anche il fatto che l’euro, la nostra moneta, rimane significativamente più bassa di quanto era l’euro virtuale, prima della sua
nascita, nel corso degli anni ’90, rispetto al dollaro. La forza dell’economia americana continua ad essere riflessa nel valore della sua moneta, più significativo rispetto al passato. Il riequilibrio del rapporto
dollaro/euro nel corso del 2002 è modesto. Non siamo mai riusciti a
recuperare valori comparabili a quelli degli anni ’90, quando l’economia americana non aveva ancora manifestato tutta la potenza, la forza
degli ultimi anni.
Sui tassi di interesse, è chiaro che continuiamo a godere di tassi di
interesse ai minimi storici, buona notizia per i settori indebitati: l’ingresso della lira nell’euro ci ha fatto importare in questo paese i tassi
d’interesse tedeschi. Non abbiamo ancora visto i benefici dell’euro in
termini di guadagno di produttività e di reddito, che dovremo, prima o
poi, osservare. Non è ancora così e non lo è stato negli ultimi anni. I
paesi uniti dall’euro, i 12, non stanno crescendo più dei paesi rimasti
fuori. Non sarà semplice convincere gli inglesi, gli svedesi o i danesi a
entrare nell’euro, fintanto che i loro tassi di crescita sono maggiori dei
nostri e l’euro rappresenta più un elemento di frustrazione che un fattore di maggior crescita. Intanto, se non altro beneficiamo dei bassi
tassi di interesse che ci ha procurato l’ingresso alla pari con una moneta tradizionalmente forte come il marco.
Da alcune indagini risulta che nel 2002 chi va a far la spesa ritiene
che l’inflazione sia enormemente più alta di quella definita dall’Istat.
È stato un anno di incredibile perdita di reputazione degli Istituti che
costruiscono le statistiche sull’inflazione, e ciò vale per la Germania e
per l’Italia più che per gli altri dieci paesi. Negli ultimi anni, se veniva
chiesto ai cittadini quanto pensassero fosse l’inflazione, la risposta
corrispondeva più o meno ai dati pubblicati sui giornali. Un anno fa,
12
Lo scenario economico di riferimento
ancora, un italiano avrebbe risposto quel due, due e mezzo che anche
l’Istat indicava. Nel 2002, per la prima volta da quando ci sono queste
statistiche, gli italiani alla domanda: quanto pensi che sia l’inflazione?
Hanno risposto tutti molto di più di quanto indicato dall’Istat. Tale
opinione è stata manifestata in tutti e dodici i paesi ma in particolare
in Italia e in Germania, dove non a caso i consumi sono scesi di più.
Questo è quello che io chiamo la “confusione da change-over”, che
non è necessariamente arricchimento dei bottegai: è la percezione, diffusa, che l’inflazione sia andata alle stelle, per un fenomeno in parte
legato alla scarsa dimestichezza con i nuovi prezzi. Abbiamo fatto delle stime sull’Inghilterra nel 1971, quando avvenne il passaggio dalla
moneta sterlina, divisa in scellini e pennies, alla moneta in cento pennies, cioè alla decimalizzazione. In quell’anno i prezzi furono tutti
modificati nei negozi e per due trimestri i consumi caddero, perché la
gente non aveva ancora dimestichezza con i nuovi prezzi e riteneva
che i bottegai fossero ladri. L’opinione che i bottegai siano ladri è diffusa da sempre, e non si capisce quindi perché dovrebbero esserlo stati
solo nel 2002. L’unica cosa positiva è che tale fenomeno finisce, cioè
non è permanente. Sia gli arrotondamenti sia la sensazione di essere
alla mercé dei bottegai sono un fenomeno dell’anno in cui il changeover si manifesta e ciò fa pensare che l’anno prossimo si torna alla
normalità, una volta appresi i nuovi prezzi. In anni passati, chi entrava
nei supermarket, con l’elenco della spesa, spesso usciva con tre o
quattro prodotti in più. Quest’anno, da alcune ricerche risulta che la
gente esce con due o tre prodotti in meno di quelli segnati sulla lista,
perché non si convince del prezzo e si riserva di comprarli la volta
successiva. Tale comportamento spiega un punto e mezzo di crescita
mancata, nel 2002. È l’anno in cui, più che per la Borsa o l’Argentina,
noi abbiamo sofferto da confusione dei prezzi. La buona notizia è che
questo shock, il change-over, avviene una sola volta nella vita, perché
non cambieremo più moneta; e prima di adottare il dollaro ci vorrà ancora qualche anno…
In conclusione, un accenno allo shock, per ora ancora potenziale,
che ci arriverà nei prossimi anni, quando da quindici diventeremo venticinque in Europa. E qui posso subito consolarvi. Ho visto già alcune
ricerche - perché, come al solito, dopo aver preso le decisioni si iniziano a fare le ricerche - e, avendo stabilito l’ampliamento da 15 a 25,
adesso qualcuno incomincia a studiare se ci guadagniamo o ci perdiamo. Nel numero appena uscito della rivista The International Spectator (il n.4, vol.XXXVII) sono stati pubblicati due articoli sulle conseguenze per l’Italia dell’arrivo di dieci paesi agricoli, come sono i dieci
che si aggiungono a noi. Gli autori, Lorenzo Bini Smaghi, che è un di-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
13
rigente del Ministero del Tesoro, e Ludovica Rizzotti, del Dipartimento
affari economici alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno entrambi pubblicato due studi, dai quali risulta che ci va bene. L’ampliamento aggiunge al Pil mezzo punto di crescita all’anno per l’economia
italiana, perché entrano paesi che ci faranno risparmiare la produzione
di prodotti agricoli di basso costo (li fanno loro, per noi, a prezzo molto più basso di quanto faremmo noi) e, in compenso, man mano che loro crescono, noi esporteremo a loro molti più prodotti di valore, come
le Ferrari. È probabile che, entrando poveri, di Ferrari all’inizio ne acquistino poche, ma in seguito, man mano che noi compriamo i loro
prodotti agricoli, con grande risparmio per noi, e loro crescono, potremo vendergli, in cambio, le Ferrari che siamo molto bravi a fare. I risultati di questi lavori, sia della Rizzotti che di Bini Smaghi, ci dicono
che i benefici sono maggiori dei costi, quindi non abbiamo sbagliato a
decidere questo ampliamento. Meglio così, poiché l’avevamo già deciso e scoprire che ci conviene e, in particolare, che avremo mezzo punto in più di crescita, fa sempre piacere. Si riducono i fondi strutturali,
probabilmente caleranno i sussidi alla nostra agricoltura a favore di
paesi quali la Polonia, la Romania, l’Ungheria; ma quel che conviene a
loro prima o poi conviene anche a noi, giacché diventano nostri partner
in Europa. In conclusione, anche questo shock, che qualcuno vive con
timore, sarà in realtà benefico per l’Italia.
14
Lo scenario economico di riferimento
Lo scenario socio-culturale
di riferimento
Enrico Finzi
Se consideriamo la congiuntura attuale, in Italia e in gran parte dei
paesi europei, dal punto di vista della popolazione le cose vanno male.
In particolare, per quanto riguarda l’Italia, il sentiment, termine tecnico
che indica il grado di ottimismo o di pessimismo degli italiani, è tornato
ai livelli del 1993 e cioè dell’anno più cupo, dell’unica vera recessione
che abbiamo avuto nel dopoguerra. La storia del sentiment dell’ultimo
anno ci dà delle indicazioni preziose circa la percezione della realtà, ed
è una percezione negativa.
Gli italiani sono tradizionalmente uno dei popoli più ottimisti al mondo. Se si chiede ad un campione rappresentativo di italiani come ritiene
che andranno per loro le cose nel prossimo anno, le modalità di risposta
possibili sono cinque: 1) molto meglio, 2) un po’ meglio, 3) circa uguale, 4) un po’ peggio, 5) molto peggio; e a coloro che dicono “circa uguale” si pone una seconda domanda, cercando di appurare se vogliano intendere: bene, così, così o male. Vengono considerati ottimisti coloro
che dicono: andrà un po’ meglio o andrà molto meglio, o ancora andrà
bene come adesso, che in fondo è un indicatore di soddisfazione. Gli italiani ottimisti, tradizionalmente, hanno una percentuale media, normalizzata nel lungo periodo, pari al 63%. Soltanto i greci, anche quando
hanno poco da esser contenti - ma, ripeto, non è un problema di realtà è
un problema di percezione - gli spagnoli e, adesso, i portoghesi hanno in
Europa livelli stabili di questo tipo.
La vittoria della Casa delle libertà, senza entrare nel merito politico,
che era stata basata su una comunicazione reiterata e semplice - ci sarà
un forte sviluppo, ci saranno meno vincoli burocratici, aumenteremo le
pensioni a tanti anziani e abbasseremo le tasse - aveva comportato un
aumento di ottimismo, registrato a fine luglio, fino al 68%. Ciò significa
che Berlusconi è valso cinque punti percentuali, che non sono pochi.
Enrico Finzi, sociologo, è presidente di Astra Demoskopea.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
15
Raramente gli individui hanno un’influenza significativa, eppure questo
è stato l’effetto dell’ottimismo che ha coinvolto, seppur in piccola misura, anche una parte di coloro che non lo avevano votato. Poi si è verificata la catastrofe dell’11 di settembre. All’inizio di ottobre dello scorso
anno, gli italiani convinti che sarebbe andata un po’ meglio o molto meglio, o bene come adesso, erano scesi al 24%; calo normale dopo un
evento di questo tipo ed effetto, soprattutto, della paura di ciò che sarebbe potuto accadere. In quel momento, infatti, facilmente archiviata dagli
italiani la tragedia dell’11 di settembre, che si è svolta comunque negli
Stati Uniti, la paura era dettata dall’antrace, il vaiolo, le bombe continuamente annunciate che avrebbero dovuto desertificare San Pietro, il
Duomo di Milano o il Duomo romanico di Crema. Così l’ottimismo degli italiani era caduto a livelli infimi, come in tutti gli altri paesi. Tuttavia, il risultato di una ricerca che si è conclusa il 18 dicembre - adesso
ne conduciamo mensilmente - mostrava che gli italiani, prima del Natale scorso, erano tornati esattamente al livello di luglio, dimostrando
quella che gli psichiatri chiamano ciclotimicità. Siamo un popolo che
quando si deprime ritorna facilmente in fase di euforia. È sufficiente che
un calciatore segni tre goal per tre domeniche consecutive per essere
considerato un mago e che, viceversa, abbia tre défaillances, per essere
considerato un brocco. Insomma, se qualche volta ci deprimiamo, rapidamente torniamo a galla.
È accaduto anche altro: l’ottimismo alla fine di gennaio è ulteriormente salito, raggiungendo la soglia straordinaria del 71%, e ciò perché gli
italiani hanno preso bene l’euro, hanno trovato belle le monete; la moderna distribuzione ha fatto straordinariamente la parte che avrebbero
dovuto fare le banche, e tutti si sono divertiti. Solo al sud l’effetto positivo si è registrato con ritardo, poiché la tradizionale sfiducia nei confronti
dell’autorità faceva temere che si potesse tornare indietro, ma alla fine
tutti si sono convinti. In seguito è cominciato a circolare un senso di perdita di controllo, che uno psicologo sociale, il professor Paolo Legrenzi,
aveva previsto in un aureo libretto dal titolo L’euro in tasca, la lira nella
mente e altre storie, poiché ci vogliono anni prima di fare il nostro personale change-over. Infine, siamo entrati in una fase di progressiva depressione, mese dopo mese: l’ultima rilevazione, fatta a fine settembre,
indica che i positivi ottimisti sono scesi al 48%, in minoranza. Dal 71%
di fine gennaio al 48% di fine settembre.
Per quanto gli italiani ci aggiungano del loro - siamo, lo ribadisco, più
rapidi nella ripresa e più tragici nella drammatizzazione dei fenomeni da un punto di vista congiunturale, in genere, la situazione è questa. L’opinione pubblica, lo mostra anche l’eurobarometro, è piuttosto depressa.
La percezione dell’aumento dei prezzi in Italia è superiore che altrove
16
Lo scenario socio-culturale di riferimento
ed è sicuramente sovrastimata rispetto all’effettiva inflazione. Si può discutere sull’inflazione come fenomeno personale o di gruppo, e non di
massa, perché effettivamente ciascuno ha la propria inflazione; e non vi
è dubbio che i gruppi sociali medio, medio-alti e alti, hanno avuto una
loro inflazione più elevata, cosa che incide molto sulla percezione dei
fenomeni, anche dal punto di vista dei produttori e dei commercianti. Di
fatto, indipendentemente dai risultati, siamo in un momento di relativa
depressione, o meglio di incertezza, perché quando ci si poteva riprendere, l’annuncio di una possibile guerra e i nuovi episodi di terrorismo
sono stati uno stillicidio, enfatizzato dai mass media.
Secondo un’analisi di tipo congiunturale, si può quindi concludere che
siamo in un brutto momento, in un momento sostanzialmente peggiore di
quello dell’anno scorso, quando ci trovammo in questa stessa sede. Ma
invito a non cadere nella depressione che stiamo analizzando. In primo
luogo, come già sottolineato, per la rapida capacità di ripresa di cui sono
capaci gli italiani. In secondo luogo, perché, effettivamente, molti elementi lasciano pensare che ci sia un disturbo transitorio. La percezione
dell’aumento dei prezzi tenderà a diminuire. La delusione di chi non ha
visto l’abbattimento della pressione fiscale eccetera, che ha messo in difficoltà il Governo, è una delusione che tende poi ad essere limite a sé
stessa e, tra l’altro, non si traduce in un maggior beneficio per l’opposizione ma crea solo un malumore che, per adesso, non altera gli equilibri
politici. Insomma, il nostro paese ha bisogno di un minimo segnale di ripresa per avere un recupero sovradimensionato, esattamente all’opposto
dei più razionali paesi anglosassoni. Non sarei quindi così pessimista, al
contrario: la crisi è stata così forte, e in modo forse non giustificato dagli
eventi, che, tranne nel caso in cui dovessero verificarsi una serie di episodi terroristici a scacchiera e una crisi in Iraq, da cui gli Stati Uniti non riuscissero a tirarsi fuori rapidamente, molto lascia pensare che archivieremo il 2002 come un anno negativo sì, ma solo transitoriamente negativo.
Vorrei invece porre l’accento su altri due fenomeni, che considero più
importanti perché strutturali. Il primo è una notizia. I giornali tendono a
considerare “notizia” cose che in realtà sono frutto di crescita di lungo
periodo e che avvengono un po’ alla volta. Si tratta di questo: il gap, lo
storico cultural gap, il divario culturale tra l’Italia e i paesi più avanzati
europei si è colmato. E si è colmato esattamente all’inizio di quest’anno.
Il divario culturale - che ovviamente nulla ha a che fare con i titoli di
studio ma si riferisce ai valori, ai modelli di comportamento, agli stili di
vita - aggravato dalla presenza di una consistente disuguaglianza sociale, di una frammentazione del nostro paese, è stato fortissimo. Di più: il
dopoguerra è stato, in qualche modo, connotato da uno sviluppo economico, e successivamente anche sociale, che è corso molto più veloce di
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
17
quanto potessero correre le coscienze. Non bisogna dare troppo peso a
fattori di apparenza esterna, come la lunghezza delle gonne, grazie a
Mary Quant che ha segnato il ’68 insieme ai Beatles. In realtà, il modo
di concepire la sessualità, la coppia, la famiglia, l’educazione dei figli, il
lavoro, il tempo libero eccetera, cioè quello che noi chiamiamo “cultura”; ovvero il modo in cui ci atteggiamo come individui, come gruppi
sociali, come paesi nei confronti del reale; il modo in cui pensiamo le
cose, prima ancora di averle, possederle, consumarle, è essenziale, ma è
anche lento a modificarsi, fortemente legato a tradizioni antiche.
Ebbene, l’Italia ha corso molto, e anche confusamente, qualche volta
mal guidata, e solo all’inizio di quest’anno si è creato un momento magico, quello dell’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, richiamando
l’attenzione su tutta l’acqua di cui il vaso era colmo; solo quest’anno l’Italia può dire di aver raggiunto il gruppo dei paesi più avanzati - i paesi
scandinavi, Danimarca inclusa, l’Olanda, lascerei stare il Belgio, il nord
della Francia ma non il sud della Francia, la Germania, la Gran Bretagna,
la Scozia, adesso anche l’Irlanda, seppure non il Galles e la Cornovaglia
- l’insieme dei paesi che, semplificando, chiamiamo anglosassoni. È come se fosse stata una corsa ciclistica, che ho avuto l’avventura e il privilegio di seguire, insieme a qualche collega: il nostro paese, che era molto
lontano dal resto dell’Europa, più nelle teste e nei cuori che non nel portafoglio, nelle strutture produttive, nella stessa produttività e competitività - che pure tante volte lamentiamo insufficiente -, si è allontanato velocemente dal gruppo dei paesi arretrati, al fondo del quale si trovava fino alla seconda guerra mondiale, inseguito solo, ma più tardivamente,
dalla Spagna e, da pochissimo, dal Portogallo; ha lasciato il gruppo dei
paesi di coda e, con una solitaria straordinaria rincorsa, vorrei sottolinearlo con una punta di orgoglio nazionale, ha raggiunto, senza grandi differenze, pur essendoci ovvie differenze interne, il gruppo dei paesi di testa.
È importante comprendere che oramai la nostra società, nei suoi valori, nei suoi stili di vita e nei suoi modelli di consumo, ha elementi di differenziazione molto più bassi di un tempo, quasi nulli, al di là di piccole
differenze, di cui una, peraltro, proprio su base agricola: si citano continuamente “l’area del burro” e “l’area della margarina”, che tuttavia fanno parte del modello. Il modello cioè prevede che ci siano anche forti
differenze di gusti nazionali, che vanno difese, e il Ministro Alemanno
lo fa con piglio forte: la pasta di grano duro, il parmigiano, e non il
“Parmesan”, il prosciutto di Parma vero, e non il “Parma Ham”, imitazioni contro cui molti, di destra e di sinistra, fanno bene a battersi.
Non c’è da scommettere sul residuo di arretratezza dell’Italia, si può
invece scommettere sul fatto che, per usare una vecchia battuta dell’avvocato Agnelli, sostanzialmente abbiamo passato le Alpi. Non si tratta,
18
Lo scenario socio-culturale di riferimento
inoltre, di una colonizzazione da parte di altri paesi ma di una reale diminuzione dei divari, che ci rende tutti più simili; sono del resto presenti
anche elementi di “mediterraneizzazione”, per esempio negli stili alimentari dei paesi centro-nord europei. La diminuzione dei divari consente di accedere ad un’area che, anche culturalmente seppure non linguisticamente, ha elementi di maggiore coerenza.
Uno dei risultati più straordinari, e assolutamente imprevisti, di questa
riduzione a livelli minimi del divario culturale tra il nostro ed altri paesi,
riguarda la totale rilegittimazione dell’agricoltura. È un punto che non è
mai stato sollevato e che mi vanto di aver potuto studiare. Gli italiani
avevano abbandonato l’agricoltura perché quest’ultima, nel vissuto collettivo, era stata identificata con la miseria plurisecolare. Il nostro paese
ha conosciuto flussi migratori straordinari, a partire dagli anni ’50, sulla
direttrice da sud a nord, ma anche da est a ovest, come fuga dalle campagne. E non è vero che fosse solo l’attrazione esercitata dalla città; era, lo
sottolineo, fuga dalla campagna, era fuga dalla miseria o dalla bassa redditività, anche per i piccoli proprietari. Era la volontà di chiudere con un
passato, forse eroico ma miserabile. L’agricoltura era pensata in modo
stereotipato come povertà, arretratezza, sporcizia, tristezza ed assenza di
benessere. Questa è la verità che bisogna riconoscere e che ha penalizzato fortemente il settore. Gli italiani non hanno voluto più pensare all’agricoltura, non a caso nel censimento del 1901 su 100 partecipanti alla forza
lavoro, 43 erano impiegati in agricoltura, foreste e miniere, mentre oggi
siamo al di sotto del 7%. Ebbene, la rivoluzione culturale, che si è determinata di recente, ha comportato uno straordinario recupero d’immagine
dell’agricoltura e della produzione agricola, per cinque motivi.
Primo: perché questa è un’immagine relativa, come tutte le immagini,
dunque va rapportata alle immagini di altri settori. L’industria è in crisi:
basti pensare all’enorme valore simbolico della crisi della Fiat. Il 70%
degli italiani non segue la politica e ha poche notizie semplificate sull’economia. Il fatto che vada in crisi un intero settore, come quello chimico, o che quello farmaceutico sia stato acquisito tutto dall’estero, quasi
non fa notizia, mentre la Fiat, che ha accompagnato la crescita dei consumi, è parte dell’immaginario collettivo. L’industria, di cui continuiamo a dire che perde competitività, non gode di una buona immagine sulla stampa. La crisi della new economy, giusta o no che sia, è diventata
crisi del terziario per una curiosa identificazione tra i servizi e la new
economy. Conclusione: caduta d’immagine dell’industria e anche dei
servizi, probabilmente non ulteriormente espandibili, e recupero dell’agricoltura.
Secondo: ci sono voluti quasi cinquant’anni, ma l’agricoltura oggi
non è più identificata con la miseria e con la povertà. Basti citare un da-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
19
to: nelle province dell’Emilia Romagna, che ho avuto occasione di studiare, il numero di videoregistratori per famiglia è più elevato tra gli addetti del settore primario che tra gli addetti dell’industria. Questo per dire che la “miserabilità delle campagne” non c’è più. Finalmente viene
compreso e riconosciuto il ruolo di un’agricoltura moderna.
Terzo: il recupero della campagna. Di fronte a gravi disagi - quali inquinamento, traffico, bassa qualità della vita, criminalità, a volte più
percepita che reale, ma a volte reale - la campagna, in genere nei centri
minori, acquisisce un di più, un valore aggiunto che conta a suo favore.
Quarto: la campagna come identità, come tradizione. È difficile costruire italianità con Microsoft o altre cose di questo genere, è invece
possibile con i prodotti delle nostre tradizioni locali, oramai accessibili
anche al di fuori delle culture locali, ed è questo l’elemento di modernizzazione. Tali aspetti enfatizzano il nostro pieno ingresso in Europa,
non solo economico, sociale, organizzativo, istituzionale, ma anche di
testa e di cuore. L’agricoltura gioca un ruolo identificativo delle nostre
radici di mercato, è presente nell’esperienza, nel consumo, come nessun
altro settore, anche grazie, come ricordavo, ad una certa decadenza, forse esagerata, dell’immagine dell’industria nel vissuto collettivo e ad un
certo inevitabile anonimato del terziario.
Il quinto ed ultimo elemento che contribuisce a spiegare questo straordinario recupero dell’agricoltura ha a che fare con la scolarizzazione degli addetti. Fino a non molto tempo fa gli addetti all’agricoltura, quando
venivano intervistati, sembravano rappresentanti dell’Italia passata. Oggi aiuta moltissimo il fatto che, seppure in maniera tardiva, chi parla di
campagna non sia più considerato una variante dello stereotipo del vecchio contadino con il cappello tenuto al petto, incapace di esprimersi; e
non sia più, in qualche modo, un contadino, bensì un lavoratore moderno, di un settore moderno.
Nel mercato si verifica che la gente apprezza di più la produzione italiana, è disposta a pagare per la produzione italiana, e dà un beneficio di
prezzo legato sostanzialmente al valore percepito, a condizione che vengano garantite tre cose: oltre alle due più note, qualità e sicurezza, anche
un terzo elemento che si chiama orgoglio e che oggi si può far valere,
mentre ieri, nella grande fuga dal nostro passato millenario di povertà
agricola non era possibile. Oggi è infatti possibile, per il settore agricolo, comparire in ogni sede con l’orgoglio di una redditività eccezionalmente cresciuta - la produttività dell’agricoltura, anche perché la base di
partenza era bassa, è cresciuta molto di più di quella dell’industria - con
l’orgoglio di fare un mestiere socialmente legittimato e riconosciuto,
con l’orgoglio di poter dare un contributo a quel riposizionamento verso
l’alto delle produzioni italiane nel mercato interno e in Europa.
20
Lo scenario socio-culturale di riferimento
IL FUTURO DELLE
POLITICHE AGRICOLE
Il contesto internazionale
Stefan Tangermann
Quest’anno, in qualità di Direttore per l’Agricoltura dell’Ocse, mi è
stato affidato il compito di illustrarvi il contesto internazionale delle
politiche agricole. Nel farlo, vorrei dapprima descrivere alcune tendenze del mondo agricolo nei paesi Ocse, alla luce delle quali si potrà
dedurre l’assoluta necessità di riforme. Illustrerò inoltre i benefici delle riforme della politica agricola in generale nei paesi Ocse, alcuni recenti sviluppi delle politiche negli Stati Uniti e nell’Unione Europea,
il contesto generale in seno all’Organizzazione Mondiale per il Commercio e, infine, alcune conclusioni.
Cominciamo quindi con le tendenze in materia di politica per l’agricoltura nei 30 paesi Ocse, che fondamentalmente corrispondono ai 30
paesi più ricchi del mondo. La nostra sensazione è che in questi paesi
il livello di sostegno garantito all’agricoltura sia tuttora molto elevato.
La maggior parte del sostegno viene erogato direttamente ai produttori
anziché essere utilizzato per le infrastrutture o per altre misure analoghe. Di tale sostegno, la gran parte incide direttamente sulla produzione, risultando distorsivo per il commercio. Il sostegno è inoltre distribuito in maniera assai diseguale tra i vari prodotti e quindi distorce la
struttura della produzione in seno alla stessa agricoltura. A supporto di
tali affermazioni, vorrei citare qualche dato: nel 2001, il sostegno
complessivo nei 30 paesi Ocse era equivalente a 311 miliardi di dollari
Usa, o quasi 350 miliardi di euro, pari all’1,3% del Pil complessivo.
Se si confronta questo dato con il peso dell’agricoltura nella composizione del Pil, che è nell’ordine del 2,5%, ci si rende conto che il sostegno è decisamente elevato.
Il dato del sostegno espresso come percentuale del Pil complessivo è
inferiore oggi rispetto alla metà degli anni Ottanta, quando era pari al
2,3%. L’attuale 1,3% del Pil è comunque un ammontare significativo.
La maggior parte di questo sostegno, come accennavo, finisce direttaStefan Tangermann è professore di Economia dei mercati agricoli alla Georg-August Universität di
Göttingen ed è direttore dell’Ocse per l’Alimentazione, l’agricoltura e la pesca.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
23
mente al produttore, mentre solo una piccola parte arriva ai consumatori (essenzialmente, si tratta delle politiche legate al cosiddetto “Food
Stamp” negli Stati Uniti). Un’altra parte, relativamente ridotta, è destinata ai “servizi generali”, ossia infrastrutture, marketing o qualsiasi altra cosa che non incida direttamente sul singolo agricoltore. Del sostegno complessivo al produttore, che all’Ocse definiamo Pse (Producer
Support Estimate), la più ampia parte va all’agricoltura degli Stati
Uniti e a quella dell’Unione Europea, che assorbono circa i due terzi
del sostegno mondiale. Per rendersi conto di cosa accade in materia di
politiche agricole è dunque sufficiente concentrarsi su Stati Uniti e
Unione Europea. L’insieme degli altri paesi Ocse si divide quel poco
che resta.
Esprimendo questo sostegno in termini di percentuale dei ricavi totali dei produttori si scopre che, nel 2001, le politiche agricole, in media, hanno contribuito per ben 31 centesimi per ciascun euro incassato dagli agricoltori della zona Ocse. Solo il resto proveniva dal mercato. Tale percentuale è diminuita leggermente dalla metà degli anni
Ottanta, quando era ancora al di sopra del 40%. Gli sviluppi sono stati diversi, a seconda dei paesi Ocse presi in esame. Complessivamente, la percentuale è scesa leggermente in ciascuno di questi paesi, come per la media Ocse, ma se si osserva in dettaglio cosa è accaduto
negli Stati Uniti, si nota che a metà degli anni Novanta questa percentuale era del 14%, mentre ora è salita nuovamente al 21%, ma su questo torneremo.
Per quanto concerne la struttura del sostegno per prodotti - esprimendo di nuovo i dati in termini di percentuale dei ricavi dell’agricoltore attribuibile all’intervento pubblico - zucchero e latte sono quelli
che hanno ricevuto il maggior sostegno all’interno dell’area Ocse; anche se, dalla metà degli anni Ottanta ad oggi, tali settori sono stati oggetto di alcune riforme, con cui il sostegno è stato leggermente ridotto.
Tra i vari paesi, si spazia da un dato prossimo allo zero fino a livelli
come quelli del Giappone, dove più del 60% delle entrate dei produttori proviene dal sostegno pubblico.
È tuttavia altrettanto importante, per noi dell’Ocse, sotto quale forma
questo sostegno viene erogato e, in particolare, quanta parte del sostegno viene concessa attraverso politiche che hanno effetti diretti sulle
decisioni di produzione degli agricoltori, e che hanno quindi effetti distorsivi sulla produzione e sul commercio internazionale. Tali forme includono, ovviamente, il sostegno dei prezzi, ma anche il sostegno concesso sotto forma di pagamenti legati alla produzione (output
payments) e di pagamenti legati ai fattori produttivi impiegati (input
payments). Nell’area Ocse questo tipo di interventi ammonta comples-
24
Il contesto internazionale
sivamente ai tre quarti del sostegno ai produttori, ma in casi come quello del Giappone, ad esempio, la quasi totalità del sostegno viene erogata secondo modalità distorsive della produzione e del commercio.
Questo dato è cambiato nel tempo in seno all’Ocse. Nella metà degli
anni Ottanta, una parte ben più sostanziale degli aiuti veniva erogata
sotto forma di sostegno al prezzo di mercato, e con pagamenti legati
alla produzione e ai fattori produttivi, tutti molto distorsivi. Questo dato è sceso leggermente: c’è stato un aumento dei pagamenti diretti basati sulle superfici e sui capi allevati, come nell’Unione Europea a partire dalla riforma McSharry, ma vi è stato anche un certo aumento delle forme di pagamento diretto disaccoppiate basate sui diritti storici,
come i pagamenti introdotti dagli Stati Uniti nel 1996 o quelli appena
proposti dalla Commissione europea nell’ambito della revisione di
medio termine.
Nell’Unione Europea si partiva, sul finire degli anni Ottanta, da un
livello di sostegno distorsivo estremamente elevato, che poi è sceso significativamente per effetto soprattutto della riforma McSharry, quando una parte del sostegno ai prezzi è stata sostituita dai pagamenti
compensativi.
È possibile ora accennare ad un confronto tra i singoli paesi Ocse,
per quanto riguarda i progressi compiuti in materia di riforma delle
politiche agricole. Progressi che noi misuriamo sia in termini di riduzione della percentuale di contributo ai ricavi del produttore, sia in termini di revisione della strumentazione delle politiche, ovvero di diminuzione della parte di sostegno concesso sotto forma di misure particolarmente distorsive. Il percorso ideale, dal punto di vista dell’Ocse,
è che i paesi riducano sia i livelli assoluti di sostegno che la parte di
esso ottenuta con le misure più distorsive. Complessivamente nell’area Ocse questa tendenza, almeno in parte, si è effettivamente riscontrata, anche se i singoli paesi hanno ottenuto i risultati più disparati.
Mentre il Giappone, a nostro avviso, non si è mosso nella direzione
più giusta, e gli Stati Uniti non hanno quasi modificato nulla, l’Unione
Europea, pur non avendo ridotto il livello di sostegno, ha se non altro
migliorato la natura delle sue politiche.
Per quale motivo ci soffermiamo sull’evoluzione di queste riforme?
Perché riteniamo che possano produrre benefici significativi. Possono,
ad esempio, ridurre i costi sia per i consumatori sia per i contribuenti,
e nel farlo contribuiscono alla crescita economica; possono ridurre gli
impatti sull’ambiente e contribuire a migliorare la situazione del commercio internazionale, anche nell’interesse dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, se il sostegno viene disaccoppiato dalla produzione, può
essere indirizzato laddove è più necessario e può, cosa ancor più im-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
25
portante, perseguire in modo più efficiente l’obiettivo del sostegno del
reddito agricolo.
Vorrei approfondire quest’ultima considerazione, perché credo che
circolino tuttora molti miti in merito a cosa le politiche agricole possano e debbano fare per il reddito agricolo. Vediamo qual è la situazione
del reddito dell’agricoltura, confrontando i redditi delle famiglie di
agricoltori con quelli delle famiglie di non agricoltori in alcuni paesi
Ocse. Ci sono casi di reddito equivalente tra famiglie di agricoltori e
di non agricoltori, casi in cui la famiglia media di agricoltori ha redditi
ben al di sopra della media delle famiglie di non agricoltori e altri casi
in cui il divario non è molto marcato.
Ciò si deve forse al fatto che le politiche per l’agricoltura contribuiscono in maniera sostanziale al reddito? Riflettiamoci un attimo e pensiamo a come sono strutturate queste politiche. La maggior parte di esse veicola il sostegno in proporzione alle entrate dell’agricoltore: questo è senz’altro il caso del sostegno ai prezzi, come anche della maggior parte dei pagamenti diretti. Si consideri ora la situazione in agricoltura: ovviamente vi sono aziende di diverse dimensioni, ma nella
maggior parte dei paesi quelle più grandi godono senz’altro di una larga parte delle entrate complessive. Si prenda il caso degli Stati Uniti,
dove il 25% delle aziende agricole più grandi ottiene il 90% delle entrate lorde. Se il sostegno è proporzionale alle entrate, allora la maggior parte delle entrate è diretta alle grandi aziende, ed è quello che accade negli Stati Uniti, dove il 25% delle aziende agricole riceve il
90% del sostegno complessivo. Questo certo non può migliorare la situazione reddituale laddove se ne sente maggiore bisogno, ossia presso gli agricoltori più piccoli. Di fatto, si può notare che in molti casi il
sostegno complessivamente ricevuto dalle aziende agricole è maggiore del reddito totale! Una specie di miracolo, che ci dice essenzialmente che una parte di questo sostegno non si traduce in reddito. Perché
ciò accade?
Qui vorrei fare un esempio che ritengo molto importante sulla effettiva destinazione del sostegno accordato all’agricoltura. Nel caso del
sostegno ai prezzi di mercato, ciò che rimane nelle mani degli agricoltori non è più di un quarto del sostegno totale. Quindi di un euro dato
sotto forma di sostegno, solo 25 centesimi finiscono alle aziende agricole. Dove finisce il resto? Ai proprietari terrieri, all’acquisto di materie prime e alla copertura delle spese relative alle risorse aggiuntive richieste per aumentare la produzione, e quindi sottratte ad altre destinazioni nel resto dell’economia. Lo ribadisco: per ogni euro impiegato
per il sostegno al prezzo di mercato, il reddito delle aziende agricole
aumenta di non più di 25 centesimi.
26
Il contesto internazionale
Vi sono tuttavia altre politiche che, sotto questo aspetto, sono assai
più efficienti. Si prendano ad esempio i pagamenti fondati sui diritti
storici, come ad esempio quelli oggi proposti dalla Commissione europea nella revisione di medio termine. Questi pagamenti non sono un
incentivo ad aumentare la produzione e quindi non conducono necessariamente ad un aumento dei costi legati alle materie prime o alle risorse. Una parte notevole di questo sostegno finisce pertanto effettivamente nelle mani della famiglia di agricoltori: circa 50 centesimi per
ogni euro speso con questo tipo di politica, il doppio di quanto non accada con le politiche di sostegno del prezzo di mercato.
Di fatto, tale valutazione può essere condotta per qualunque tipo di
politica: prendiamo il sostegno al prezzo come benchmark, come parametro di riferimento, poi mettiamo sull’asse delle ascisse l’effetto sui
redditi della politica di riferimento. Vediamo cosa succede a un euro
impiegato per il sostegno al prezzo, non solo per quanto sopra illustrato ma anche con riferimento agli effetti sul commercio. Possiamo constatare l’esistenza di una relazione diretta tra l’efficienza a sostegno
dei redditi e le distorsioni sul commercio. Si prendano ad esempio i
pagamenti relativi alle materie prime: essi sono meno efficienti dal
punto di vista del trasferimento del reddito verso l’agricoltura, ma
hanno un effetto più pronunciato sulla distorsione del commercio. Si
prendano i pagamenti sulla produzione: quanto a effetti sono molto simili al sostegno del prezzo. Ma se guardiamo i pagamenti per ettaro,
come quelli attualmente in vigore nell’Unione Europea, in termini di
reddito per gli agricoltori essi sono efficienti in misura doppia rispetto
al sostegno ai prezzi e hanno effetti distorsivi sul commercio estremamente contenuti. Se poi guardiamo i pagamenti completamente disaccoppiati, come quelli che vengono ora proposti dalla revisione di medio termine, essi risultano persino migliori nel convogliare redditi verso l’agricoltura e hanno effetti distorsivi sul commercio quasi nulli.
Per questi motivi, all’Ocse riteniamo che vi siano ottime ragioni per
proseguire sulla strada della riforma delle politiche agricole.
Consideriamo ora quanto è successo recentemente alle politiche di
alcuni paesi, cominciando dal Farm Bill introdotto negli Stati Uniti nel
maggio 2002. Tutti voi sapete che ci sono stati degli aumenti dei loan
rates, essenzialmente i “prezzi di intervento”; che gli agricoltori possono aggiornare la loro resa storica sulla quale calcolare gli aiuti; che è
stata introdotta una nuova politica, mai adottata prima in nessun paese,
detta dei ‘pagamenti anticiclici’; e che alcuni pagamenti sono stati estesi anche ad altre produzioni. Questi ovviamente sono solo alcuni elementi del nuovo Farm Bill statunitense, che contiene anche altre disposizioni riguardanti la tutela dell’ambiente, che non approfondiremo in
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
27
questa sede. Quali sono i potenziali effetti del Farm Bill statunitense?
In primo luogo, esso conferma l’alto livello di sostegno accordato negli
ultimi anni agli agricoltori degli Stati Uniti. Il sostegno all’agricoltura,
misurato in termini di percentuale stimata di sostegno al produttore, è
aumentato: esso era al 14% a metà degli anni Novanta, mentre in questi
ultimi anni, grazie agli abbondanti pagamenti “d’emergenza” elargiti
negli Stati Uniti, il dato è salito al 21%. Se analizziamo la nuova politica, scopriamo che essa in realtà non accresce il livello di sostegno ma
lo blinda, mantenendo pertanto l’elevato livello di sostegno già accordato. Il provvedimento, inoltre, lega questo sostegno in maniera più diretta alla produzione, muovendo così nella direzione opposta a quella
indicata dall’Ocse per le riforme delle politiche agricole. Questo dato si
può evincere da diversi elementi del nuovo Farm Bill, che offrono incentivi agli agricoltori statunitensi per aumentare la produzione e che
porteranno, pertanto, a un incremento delle esportazioni, che a sua volta eserciterà una pressione al ribasso sui prezzi all’ingrosso. Purtroppo,
ciò avrà anche un effetto negativo sul dibattito sulla riforma delle politiche per l’agricoltura in altre parti del mondo. Infatti, dato il passo indietro compiuto dagli Stati Uniti, altri paesi potrebbero ritenere superfluo continuare a procedere nel percorso di riforma delle proprie politiche agricole. Non sono buone notizie. Forse c’è qualcosa di meglio nelle ultime proposte avanzate dagli Stati Uniti per i negoziati sull’agricoltura in ambito Omc, sulle quali mi soffermerò in seguito.
Vorrei prima brevemente considerare, in parallelo e in confronto con
quanto fatto per gli Stati Uniti, le proposte contenute nella revisione di
medio termine per la politica agricola comune. Esse intendono ridurre
il prezzo di intervento per alcuni prodotti; intendono disaccoppiare i
pagamenti, in maniera tale da slegarli dalla produzione; e adottare un
sistema di modulazione dinamica, per riorientare risorse dal sostegno
al singolo produttore verso misure più generali del cosiddetto secondo
pilastro. Tutte queste misure, nel loro insieme, avrebbero ovviamente
riflessi anche a livello internazionale. Ad esempio, non ridurrebbero il
livello di sostegno in Europa, ma, dal momento che esso sarebbe maggiormente disaccoppiato dalla produzione, vi sarebbe anche maggiore
possibilità di indirizzare le singole misure direttamente verso quegli
obiettivi che più stanno a cuore a chi formula le politiche per l’agricoltura. Inoltre, verrebbero senza dubbio migliorate le condizioni del
mercato internazionale, facendo esattamente l’opposto di quanto fatto
dal Farm Bill statunitense, ossia riducendo gli incentivi alla produzione e, pertanto, riducendo il peso che l’Unione Europea imporrebbe altrimenti ai mercati. Tutto ciò mi porta all’ultima parte dell’intervento,
che riguarda i negoziati dell’Omc.
28
Il contesto internazionale
I negoziati di Doha, come viene chiamato il round attuale, sono già
in pieno corso. Per quanto riguarda l’agricoltura, è stato stabilito di
pervenire ad un accordo sulle “modalità” di negoziazione entro la fine
di marzo 2003. I paesi dovranno pertanto presentare in bozza gli impegni che intendono prendere a livello Omc. Poi, in occasione del vertice ministeriale di Cancun, in Messico, nel settembre del 2003, si procederà a fare il punto della situazione. L’insieme dei negoziati, inclusi
pertanto gli altri settori (industria, dazi doganali, servizi, diritti di proprietà intellettuale), si dovrebbe concludere entro il 1° gennaio 2005.
Fino ad allora tutti i vari accordi preliminari, compreso quello relativo
all’agricoltura, verranno considerati provvisori. Si tratta di un unico
grande impegno che verrà perfezionato solo quando sarà stato raggiunto l’accordo nei singoli settori.
Quali sono gli obiettivi per l’agricoltura? In primo luogo, l’accesso
al mercato. La dichiarazione di Doha prevede una sostanziale riduzione dei dazi doganali e dei sussidi per l’esportazione, nella prospettiva
di eliminarli gradualmente nel tempo. Quanto al sostegno interno, c’è
l’accordo a lavorare su una sostanziale riduzione delle forme di sostegno distorsive del commercio, che, come ricordavo, è la forma di sostegno più diffusa.
Oggi è molto difficile, se non impossibile, prevedere il risultato dei
negoziati, ma alcune tendenze sono già evidenti. In primo luogo, i
paesi in via di sviluppo giocano davvero un ruolo di primo piano in
questi negoziati e sono assolutamente determinati ad ottenere dei risultati in campo agricolo: essi, infatti, non sono disposti a continuare a
negoziare in altri settori se non si fanno progressi in agricoltura. Gli
Stati Uniti e i paesi del gruppo di Cairns chiedono una riduzione sostanziale dei dazi doganali e dei sussidi alle esportazioni, sussidi che
questa volta sono al cuore delle trattative.
Per farsi un’idea di come l’approccio a questi negoziati sia particolarmente aggressivo da parte di alcuni paesi partecipanti, è bene ricordare i contenuti delle proposte avanzate dagli Stati Uniti. Per quanto
riguarda i dazi doganali, la loro proposta è di adottare la cosiddetta
“formula svizzera”, secondo la quale i dazi doganali più elevati verrebbero decurtati in maniera ben più consistente rispetto a quelli di
minore entità; inoltre, secondo i parametri proposti dagli Stati Uniti,
nessun dazio potrebbe essere maggiore del 25%. Per quanto riguarda
il sostegno interno, gli Stati Uniti propongono l’esistenza di due sole
categorie di aiuti: quelli della scatola verde, ossia gli aiuti che non distorcono eccessivamente la produzione e il commercio, e quelli della
scatola gialla, che invece devono essere ridotti. La scatola blu, all’interno della quale sono attualmente inseriti i pagamenti diretti nell’U-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
29
nione Europea, verrebbe eliminata. Le forme di sostegno che rientrano
nella scatola gialla, secondo la proposta Usa, andrebbero ridotte fino
al 5% del valore della produzione registrato dai paesi nel periodo
1996-1998. Per quanto riguarda i sussidi all’esportazione, la proposta,
molto aggressiva, è di eliminarli del tutto entro cinque anni.
Consideriamo ora rapidamente alcuni parametri quantitativi, dal
punto di vista dell’Unione Europea, e in particolare i suoi sussidi per
l’esportazione. Nel corso degli ultimi anni, per rispettare l’accordo del
1994, in diversi casi l’Unione Europea è stata costretta a ridurre i sussidi per l’esportazione. Le riduzioni che si sono rese necessarie per rispettare gli impegni presi con l’Uruguay round, stanno a dimostrare le
pressioni alle quali potrebbe essere sottoposta la Pac, in futuro, se tali
sussidi fossero del tutto aboliti. Lo stesso si può dire per i dazi doganali. L’Unione Europea ha dazi doganali relativamente elevati, in particolar modo in settori delicati quali lo zucchero e i derivati del latte;
mentre gli Stati Uniti, che pure hanno dazi relativamente elevati in
questi settori, li hanno sensibilmente più bassi in altri. Se, in occasione
dei negoziati, passasse - probabilità peraltro non troppo elevata - la
proposta Usa di un dazio doganale massimo del 25%, si renderebbero
necessari adeguamenti molto forti soprattutto nell’Unione Europea,
che certamente influirebbero sul sistema di prezzi interno.
In merito ai sostegni della scatola gialla, infine, se venisse accolta la
proposta Usa, bisognerebbe mettere mano a riduzioni molto consistenti anche su questo fronte. Ancora una volta si tratta di un’eventualità
remota, ma in questo caso all’Unione Europea verrebbe richiesto di
sottoscrivere impegni molto vincolanti.
In conclusione, la riforma delle politiche per l’agricoltura va avanti,
ma la velocità del cambiamento varia notevolmente da paese a paese.
Noi riteniamo che vi sia la possibilità di ridurre ulteriormente il sostegno, di indirizzarlo con maggiore chiarezza e di rendere più efficaci le
politiche. A nostro avviso, i negoziati Omc rappresentano un’occasione per compiere questi ulteriori passi in avanti.
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Il contesto internazionale
Il contesto europeo
Fabrizio De Filippis
Consentitemi di ricordare la situazione un po’ scomoda in cui mi trovo,
dovendo parlare degli scenari di cambiamento della politica agricola europea ed avendo appreso solo stamattina dai giornali, come tutti voi, che
in un albergo di Bruxelles ieri pomeriggio sono stati inopinatamente ridefiniti alcuni importanti parametri relativi a questi scenari. Mi riferisco al
compromesso franco-tedesco sulla Pac, in base al quale viene posto un
vincolo sulla crescita della spesa agricola dopo il 2006 (come richiesto
dalla Germania), in cambio della promessa di lasciare inalterata la Pac
stessa fino al 2006 (come voluto dalla Francia).
Il contesto in cui si inquadra il dibattito attuale sulla Pac è caratterizzato da una situazione in cui vi è ormai piena coscienza della crisi del vecchio modello di politica agraria, ma questa coscienza genera due atteggiamenti diametralmente opposti. Da un lato, c’è un atteggiamento di arroccamento, di strenua difesa dello status quo, finché esso può durare.
Dall’altro, c’è un atteggiamento più aperto, di chi vuole raccogliere la
sfida del cambiamento ma, rivendicando l’esigenza che esso non si traduca nel puro e semplice smantellamento della Pac, intende lavorare alla
definizione di una riforma che tenti di metterla al passo con i tempi. Tuttavia, anche chi è favorevole ad una riforma, anche chi sceglie il secondo
atteggiamento, è spesso condizionato dall’eredità della vecchia Pac; soprattutto dal suo tradizionale gradualismo, dall’abitudine ormai inveterata a vederla cambiare sempre molto lentamente. Pesa, inoltre, il prevalere
nel dibattito politico di un orizzonte temporale di breve periodo, inevitabilmente imposto dal punto di vista dei policy maker, che ovviamente
non hanno particolare interesse a guardare molto lontano, oltre l’orizzonte del loro mandato; e pesa anche un po’ la paura, diciamo così, di “buttare il bambino con l’acqua sporca”, di sostenere una riforma troppo radicale, che possa rischiare di tradursi in un vero e proprio smantellamento
della politica agricola.
Fabrizio De Filippis è professore di Economia agraria all’Università degli Studi Roma Tre,
Facoltà di Economia.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
31
Tuttavia, in un’occasione di dibattito di alto profilo come quella che ci
è offerta in questa sede, può essere utile tentare di liberarsi il più possibile da questo condizionamento, per rivisitare la situazione della politica
agraria europea in un’ottica di più lungo periodo e per inserirvi una valutazione di quello che oggi c’è sul tappeto, vale a dire la proposta di revisione di medio termine di Agenda 2000. In questo quadro, la mia presentazione si articolerà in tre parti: nella prima, cercherò di percorrere i possibili contenuti di una nuova politica agraria coerente a quello che si può
definire il nuovo “patto” che si va delineando tra agricoltura e società.
Quindi, un rapido sguardo agli strumenti possibili ed al sistema dei vincoli in cui ci si muove a più breve termine, ed infine una valutazione della Mid-term review, intesa come momento di passaggio dal vecchio al
nuovo modello di politica agraria.
Cominciamo, allora, richiamando l’interpretazione, abbastanza consolidata anche tra gli studiosi, della nuova politica agraria come risultato di
un nuovo patto tra agricoltura e società. Secondo questa interpretazione,
la politica agraria deve cambiare perché i consumatori e i cittadini chiedono oggi all’agricoltura cose diverse dal passato: non più, o non tanto,
crescita della produttività fisica a sostegno del reddito dei poveri agricoltori, ma, piuttosto, un’agricoltura multifunzionale, rispettosa dell’ambiente e produttrice di alimenti sani e di qualità, per la quale i cittadini e i
consumatori sembrano disposti a pagare. Tutto questo è molto verosimile
e convincente, ma è anche bene non appagarsi di questa interpretazione,
considerandola comunque un’ipotesi da sottoporre costantemente a verifica. Il rischio, infatti, è che gli interessi più conservatori decidano, per
così dire, di “cavalcare la tigre” del nuovo patto sociale, costruendoci sopra una nuova retorica - una retorica neo-ruralista - rivolta a trovare nuove giustificazioni per il sostanziale mantenimento della vecchia politica
agricola, a meno di modifiche minori, di tipo cosmetico.
Ma vediamo quali sono le esigenze dei consumatori e dei cittadini in
questo nuovo patto sociale. Innanzitutto è ragionevole supporre che i cittadini vogliano continuare ad avere dall’agricoltura un’offerta di alimenti
ricca e differenziata; insieme, però, alla conservazione delle tradizioni rurali e del cosiddetto modello agricolo europeo, intendendo con questo la
tutela della tipicità dei prodotti agricoli, della cultura rurale, del paesaggio agrario tradizionale. Sicuramente, inoltre, i consumatori vogliono
prodotti “di qualità”, anche se qui occorre stare attenti, perché la qualità è
un concetto complesso e abbastanza scivoloso, multi-dimensionale, che
va comunque valutato lungo tutta la filiera e non certo limitandosi alla
sola componente agricola. È inoltre un concetto in parte soggettivo, che è
frutto di percezione, di fiducia, oltre che di dati obiettivi. Sotto il profilo
economico, infatti, la qualità è quello che gli economisti definiscono un
32
Il contesto europeo
bene “privato”, nel senso che esso trova remunerazione sul mercato, su
cui i prodotti di qualità spuntano prezzi più alti. L’azione pubblica sicuramente è necessaria per tutelare la qualità, per difenderla da possibili pratiche di usurpazione e concorrenza sleale, ma non certo per sussidiarla in
modo esplicito.
Poi c’è la sicurezza, nel senso della salubrità degli alimenti, e sappiamo
tutti quanto i cittadini europei siano oggi sensibili a questo obiettivo, scottati da tante crisi alimentari che ci sono state negli ultimi anni. Però la salubrità è un requisito a monte, uno standard obbligatorio, non è certamente qualcosa di “graduabile” con sussidi dati ai produttori “per avere più
salubrità”. In altre parole, i cibi, gli alimenti devono essere salubri, nel
senso che devono comunque rispettare gli standard che tali li definiscono.
Venendo all’ambiente, esso è un altro tema di grande attualità, che
rientra a pieno titolo nel nuovo patto tra agricoltura e società. Credo sia
utile qui distinguere tra la salvaguardia e il miglioramento dell’ambiente,
perché anche la salvaguardia è un requisito, un po’ come la salubrità, da
definire con soglie oltre le quali la regola è, o dovrebbe essere, “chi inquina paga”. Al contrario, il miglioramento dell’ambiente può essere un
servizio in più, un valore aggiunto, il cui perseguimento potrebbe anche
giustificare sussidi dati ai produttori.
Andando ora a ragionare dal lato dell’offerta, ci possiamo chiedere
quali siano le esigenze degli agricoltori, e dunque le loro aspettative rispetto a una nuova politica agraria. Su questo versante, possiamo elencare i seguenti punti:
- difesa del potere contrattuale dell’agricoltura nelle sue transazioni a
monte e a valle, giacché ancora oggi essa continua ad essere l’anello
più debole lungo la filiera agro-alimentare;
- safety net, vale a dire una “rete di salvataggio” contro la volatilità dei
prezzi agricoli, e qualche sistema di gestione del rischio d’impresa,
strumenti tanto più necessari nella prospettiva di sempre maggiore
orientamento al mercato e di minori garanzie sul versante del mantenimento di un meccanismo di prezzi amministrati;
- servizi reali, quali ricerca, informazione, certificazione, perché l’agricoltura è un settore caratterizzato da aziende molto piccole, che non
hanno le dimensioni necessarie per auto-produrre al proprio interno
questo tipo di servizi;
- misure per l’ammodernamento strutturale tecnologico: cioè un po’ di
vecchia e sana politica delle strutture, di cui probabilmente c’è ancora
bisogno, data la già richiamata polverizzazione del settore;
- compensazione per la produzione di “esternalità positive”, come tali
non remunerate dal mercato (il paesaggio agrario è una di queste), legate alla produzione agricola;
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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- e infine aiuti temporanei per adeguarsi, eventualmente, a norme ambientali e sanitarie che diventassero improvvisamente più restrittive, in
ossequio alla cosiddetta cross-compliance.
Oltre a queste esigenze del tutto legittime, a cui una moderna politica
agraria può e deve rispondere, ve ne sono però altre due, spesso date per
scontate dagli stessi agricoltori, che sono, invece, un po’ più delicate e
sulle quali è bene riflettere in modo franco.
La prima è quella del sostegno dei redditi agricoli, che era il principale
obiettivo della vecchia politica agraria, sancito dal Trattato di Roma. Si
tratta, evidentemente, di un obiettivo sociale, che certamente oggi è meno importante che negli anni Cinquanta o Sessanta. In ogni caso, ammesso e non concesso che di un tale obiettivo sociale debba occuparsi la politica agraria, certamente esso andrebbe perseguito con misure assai più
selettive rispetto al passato. Se si tratta di sostenere il reddito, ha senso
farlo solo nei confronti degli agricoltori effettivamente bisognosi; e, sotto
questo profilo, sappiamo bene come la distribuzione degli attuali aiuti
erogati all’agricoltura non si giustifica in nessun modo come un’azione
selettiva di sostegno del reddito degli agricoltori bisognosi.
La seconda esigenza un po’ delicata è quella della competitività sui
mercati esteri e della difesa del mercato interno dalla concorrenza internazionale. Anche questa è un’esigenza sacrosanta, se si tratta, ad esempio, di tutelare le nostre produzioni di qualità e le nostre denominazioni
d’origine dalla concorrenza al ribasso di imitazioni; ma deve essere anche chiaro che essa non può più giustificare misure distorsive indiscriminate, quali sussidi alle esportazioni o il mantenimento di una elevata protezione alla frontiera, soprattutto nei confronti dei prodotti dei paesi meno sviluppati.
Anche sugli strumenti della nuova politica agraria esistono alcuni equivoci su cui è opportuno riflettere. Innanzitutto, con esplicito riferimento
alla Pac, vorrei sottolineare quella che io trovo una distinzione particolarmente infelice, ambigua, manichea, tra il cosiddetto “primo pilastro” della Pac, che raccoglie l’intervento sui mercati, ed il cosiddetto “secondo
pilastro”, dedicato alle politiche di sviluppo rurale. Trovo la distinzione
infelice perché con essa si tende implicitamente ad assimilare i due summenzionati pilastri, rispettivamente, al diavolo e all’acqua santa: da un lato, il primo pilastro visto come una sorta di eredità del passato, con un atteggiamento che a seconda dei casi può essere nostalgico o sprezzante,
con il rischio che esso appaia ormai solo come il contenitore delle misure
di rottamazione della vecchia Pac, senza che si tenti di riqualificarlo in
positivo; dall’altro, l’assimilazione del secondo pilastro a tutto quanto c’è
di nuovo e moderno, o a tutto ciò che sembra politicamente più difendibile, che comporta la sua crescita disordinata e l’inserimento in esso di mi-
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Il contesto europeo
sure molto eterogenee - spesso anche riciclate dal primo pilastro - e non
sempre in linea con quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di una politica di sviluppo rurale.
Un altro possibile equivoco è la confusione tra politiche di regolazione
e politiche di erogazione di sussidi. Come abbiamo visto prima, vi sono
alcuni obiettivi legittimi che però non giustificano pagamenti, sussidi diretti agli agricoltori come appunto la qualità, la salubrità, la salvaguardia
dell’ambiente ma che invece avrebbero bisogno di una buona politica di
regolazione. E non sono affatto sicuro che nel mondo agricolo siano
chiare le implicazioni di questa importante distinzione, in termini di ciò
che si può chiedere all’intervento di politica agraria.
Infine, vi sono non pochi equivoci sul “disaccoppiamento”, ma su questo tornerò più avanti.
Venendo ai vincoli, sappiamo tutti che sul processo di riforma della
Pac incombono tre grossi vincoli destinati a pesare in modo notevole. Il
primo è l’allargamento dell’Ue, che vede entrare dieci nuovi Stati membri, tutti molto “pesanti” in termini di problematiche agricole, proprio a
ridosso del dibattito sulla riforma della Pac prevista dalla revisione di
medio termine, con il conseguente “ingorgo” creato da queste due scadenze. Poi c’è il vincolo di bilancio, l’onnipresente vincolo di bilancio
che ha già monopolizzato il dibattito di questi giorni, con il compromesso franco-tedesco di Bruxelles, e ridiventerà di estrema attualità a partire
dal 2004, quando si tratterà di ridefinire il budget per l’intervento dei
fondi strutturali e per le politiche di sviluppo rurale.
Per quanto riguarda l’allargamento, nel breve periodo, esso spinge perché la riforma della Pac sia decisa prima del pieno ingresso dei nuovi
Stati membri, giacché è ovvio che dopo sarà molto più difficile riformare
la Pac mettendo d’accordo venticinque paesi; sarà difficile farlo rapidamente, giacché ogni futura riforma finirà con l’essere governata, ancor
più di quanto già non accada oggi, dai veti incrociati dei diversi interessi
nazionali, che saranno di più e ancora più differenziati. Nel più lungo periodo, l’estensione dell’attuale Pac ai nuovi Stati membri, neutrale sotto
il profilo del bilancio fino al 2006, grazie al rinvio del grosso della spesa
per gli aiuti diretti sulla base della proposta della Commissione, negli anni successivi comporterà una riduzione della spesa della Pac nei vecchi
paesi membri. Inoltre, più in generale, la maggiore diversificazione dell’agricoltura europea conseguente all’allargamento dovrebbe, alla lunga,
imporre una Pac sempre più flessibile e differenziata e quindi più adattabile alle esigenze di una platea di paesi così diversi.
Per quanto riguarda il vincolo di bilancio, ovviamente, la cosa più importante è la dimensione assoluta di questo vincolo, cioè la definizione di
quanta sarà la spesa agricola in futuro. Al riguardo, uno dei cavalli di bat-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
35
taglia di Fischler, per argomentare la necessità di una revisione di medio
termine sufficientemente incisiva, era la necessità di riformare profondamente la Pac prima possibile, in modo, diciamo così, da “prenotare” e
“blindare” per tempo la sua dotazione finanziaria. L’argomento di Fischler, a mio avviso convincente, era che se le decisioni sulla Pac si rinviassero al 2006, si rischierebbe di raccogliere le briciole lasciate nel bilancio
dal negoziato sui fondi strutturali, che potrebbe rivelarsi particolarmente
dispendioso sotto il profilo finanziario. Il compromesso franco-tedesco,
che definisce la spesa agricola fino al 2013, sembra aver risolto il problema, ma lo ha fatto imponendo un vincolo forte, di sostanziale congelamento della spesa attuale.
Ma sul vincolo di bilancio c’è anche una dimensione relativa, che ha
sempre pesato molto, cioè la distribuzione del tutto squilibrata tra paesi
dei costi e dei benefici finanziari della Pac. E questo determina forti distorsioni. Le ha determinate in passato, temo che le determinerà anche in
futuro, con effetti perversi sulla stessa progettazione delle politiche, nel
senso che alcune misure sono valutate più in base ai loro effetti redistributivi, più perché riequilibrano la posizione di qualche paese particolarmente penalizzato, che in base alla loro effettiva utilità. Da questo punto
di vista, meglio sarebbe trovare dei meccanismi finanziari che siano essi
stessi in grado di attenuare il problema della cattiva distribuzione dei fondi. La Commissione nel 1999, a Berlino, ci provò, con il cofinanziamento proposto nella fase finale della trattativa su Agenda 2000; la proposta
non passò e per ora non se ne parla più, ma continuo a pensare che una
estensione del cofinanziamento al primo pilastro potrebbe contribuire
non poco ad attenuare la litigiosità tra Stati membri sul fronte della Pac e
della sua riforma.
Veniamo, in questo quadro, a qualche valutazione sulla revisione di
medio termine, la cosiddetta Mid-term review, sulla quale la Commissione ha presentato le sue proposte nel luglio scorso.
Innanzitutto vorrei sottolineare che la Mid-term review non è, e non
vuole essere, l’atto finale del processo di riforma della Pac. Piuttosto, per
definizione, essa è un momento di passaggio, di transizione, come tale
fortemente condizionato sia dal passato che dal futuro. È quindi sbagliato
valutare la Mid-term review come proposta in sé, al di fuori di questo
contesto di transizione in cui essa si colloca, mentre è forse più utile analizzarla alla luce di tre quesiti più generali.
La Mid-term review aiuta a difendere la Pac dal pericolo di puro smantellamento, o è essa stessa un pericoloso salto nel buio?
La Mid-term review è un passaggio utile in un percorso di riforma coerente ai nuovi obiettivi o è un ulteriore avvitamento della Pac sulle proprie contraddizioni e sulle proprie complicazioni?
36
Il contesto europeo
Come andrebbe emendata la Mid-term review e quali sono i passi successivi da intraprendere dopo la sua approvazione, se essa sarà approvata?
Come è noto, i punti forti della Mid-term review sono tre, enunciandoli
in ordine di importanza: il disaccoppiamento degli aiuti diretti, la cosiddetta “modulazione dinamica” e il potenziamento del secondo pilastro
dello sviluppo rurale.
Per quanto riguarda il disaccoppiamento, la proposta prevede l’introduzione di un pagamento unico per azienda, basato sugli aiuti storici ricevuti dagli agricoltori, subito per seminativi, carne bovina, ovina, riso,
grano duro e foraggi, mentre gli altri settori saranno inseriti più in là, mano a mano che saranno riformati. Una volta intascato l’aiuto disaccoppiato, ci sarà per il produttore completa libertà di produrre, o anche di non
produrre, con l’unica eccezione del divieto di coltivare ortofrutticoli. Per
facilitare trasferimenti di pezzi di azienda, il pagamento unico può essere
diviso in lotti: quindi, per esempio, può essere associato agli ettari. Alcuni pagamenti, rimangono accoppiati, e giustamente, in quanto considerati
incentivi a prodotti specifici in specifiche aree. È questo il caso del premio alla qualità per il grano duro, di parte dell’aiuto al riso, dei pagamenti per le colture proteiche ed energetiche.
Per quanto riguarda la modulazione dinamica, essa prevede la riduzione di tutti i pagamenti diretti, vecchi e nuovi, accoppiati e non, del 3% all’anno fino a raggiungere il 20%, che era la riduzione inizialmente proposta in Agenda 2000, poi stralciata. È istituita una franchigia, cioè un
pezzo di aiuti esentati da questa riduzione, pari a 5 mila euro per azienda;
elevabile però, dagli Stati membri in misura pari a 3 mila euro per ogni
unità di lavoro oltre le due unità iniziali. Si propone inoltre di imporre un
tetto massimo di aiuti per azienda pari a 300 mila euro. Il risparmio di
spesa che deriva dalla modulazione, in termini di tagli effettuati agli aiuti
diretti, viene trasferito dal primo al secondo pilastro, ma per quanto riguarda la parte relativa ai tetti aziendali rimane nel secondo pilastro degli
Stati membri dove essa è realizzata. Il resto, che rappresenta il grosso del
risparmio complessivo, va ad una sorta di “cassa comune” da ridistribuire tra Stati membri, in base a parametri obiettivi (occupazione, ettari, grado di prosperità). Inoltre, l’aumento dei fondi del secondo pilastro non
implica l’obbligo di cofinanziamento nazionale di questi fondi, per evitare che la modulazione porti un aumento delle spese agricole e un aumento dell’impegno di spesa degli Stati membri per l’agricoltura.
Per quanto riguarda lo sviluppo rurale, la Mid-term review aggiunge,
alle misure di accompagnamento, cioè alla parte più strettamente agricola delle misure di sviluppo rurale, tre nuovi capitoli: uno sulla qualità,
fatto di incentivi per la certificazione, comprese denominazioni geografiche ed agricoltura biologica; uno denominato meeting standard, conte-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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nente aiuti temporanei degressivi per l’adeguamento alla cross-compliance e per l’avvio di un sistema di audit aziendale, ed un terzo sul benessere degli animali, per dare aiuti che incentivino azioni da parte degli allevatori oltre gli standard obbligatori.
Cominciando proprio dallo sviluppo rurale, credo sia apprezzabile l’idea di potenziare il secondo pilastro con capitoli del tutto nuovi, che prima non c’erano, e non solo spostando vecchie misure da un pilastro all’altro come spesso si è fatto in passato. Tuttavia, mi sembra che la coerenza della collocazione di questi nuovi capitoli del secondo pilastro sia
in qualche caso un po’ dubbia (pensiamo alla qualità, che necessita di misure di mercato, sia pure in un’ottica diversa dal passato), e che la loro
definizione sia un po’ generica e frettolosa.
Venendo al piatto forte, il disaccoppiamento, si può iniziare col chiarire
alcuni equivoci. Innanzitutto va chiarito che il disaccoppiamento non è,
in sé, uno strumento di politica agraria ma solo un modo per erogare un
sussidio in maniera diversa da prima. Dal punto di vista economico, un
pagamento “disaccoppiato”, cioè non legato ad alcuna attività produttiva,
ha senso solo come misura di pura redistribuzione del reddito. La sua
stessa definizione, infatti, è data in negativo: una misura è disaccoppiata
se non ha effetti su cosa o quanto produrre. Ne consegue, per definizione,
che il disaccoppiamento tout court ha senso solo come misura di passaggio: dopo aver disaccoppiato il sostegno dalla produzione, o lo si “ri-accoppia” a qualcos’altro, diverso dalla produzione, o lo si trasferisce alla
politica sociale, in quanto politica di pura redistribuzione del reddito, oppure, semplicemente, lo si abolisce. Infine, non sempre il disaccoppiamento è la politica più efficiente: se l’obiettivo, per esempio, è quello di
conservare una data produzione in certe zone, è più giusto mantenere un
pagamento accoppiato o semi-accoppiato.
Il disaccoppiamento proposto dalla Mid-term review, visto come misura transitoria, è a mio avviso una cosa positiva, e questo per più di un
motivo. Perché riduce le distorsioni indotte dai pagamenti accoppiati e
interrompe, per così dire, la caccia ai sussidi da parte degli agricoltori,
consentendo ad essi scelte imprenditoriali più libere; perché, almeno potenzialmente, semplifica il sistema di pagamenti e dunque facilita per
questa via l’estensione della Pac ai nuovi Stati membri; ed infine, last but
not least, perché migliora la posizione dell’Unione Europea nel negoziato del Wto. Inoltre, e più in generale, rendendo più trasparente il sistema
di sussidi, il disaccoppiamento impone una più chiara definizione degli
obiettivi ed una maggiore selettività dell’intervento di sostegno.
Se questi sono i meriti del disaccoppiamento della Mid-term review,
bisogna anche dire che esso è un po’ troppo generico e potrebbe sottovalutare il rischio di repentini spostamenti di colture ed abbandono di intere
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Il contesto europeo
aree che da esso potrebbero derivare. Un caso evidente al riguardo, che
sta molto a cuore all’Italia, è il premio speciale al grano duro: se il suo
obiettivo è quello di mantenere questa produzione nelle aree tradizionali,
come prima accennavo, avrebbe più senso mantenerlo accoppiato o semi-accoppiato. Inoltre, c’è poca finalizzazione degli aiuti disaccoppiati:
la cross-compliance, cioè la condizionalità ambientale, è troppo debole, e
il disaccoppiamento rischia di apparire quello che non dovrebbe essere,
cioè una misura temporanea di pura “rottamazione” del primo pilastro,
piuttosto che un passo verso la sua riqualificazione, verso un sistema di
aiuti più selettivi, in linea con i nuovi obiettivi.
Per quanto riguarda la modulazione proposta dalla Mid-term review,
essa è un meccanismo che incide sia sulla spesa sia sulla distribuzione tra
paesi e tra aziende. In questo senso, credo sia giusto e ragionevole il tetto
massimo proposto per gli aiuti per ogni azienda, mentre lo è un po’ meno
la franchigia, che appare come una misura demagogica, perché lascia intatti, anzi salvaguarda in modo specifico, una miriade di pagamenti irrisori il cui ammontare spesso supera il loro stesso costo amministrativo e
che, come tali, sono difficilmente giustificabili come strumenti di politica
agraria. In prospettiva, inoltre, la modulazione potrebbe operare dentro il
primo pilastro, non solo per sottrarre ad esso fondi a favore del secondo
pilastro, ma come meccanismo per riqualificarne la spesa al suo interno.
In altre parole, il meccanismo di modulazione che oggi serve a spostare
fondi dal primo al secondo pilastro, potrebbe invece operare nel senso di
una riduzione dei generici aiuti disaccoppiati, per finanziare, invece, una
moderna politica di mercato più finalizzata e selettiva.
Il compromesso franco-tedesco ha imposto un vincolo forte sulla spesa
agricola dopo il 2006, in cambio del mantenimento dello status quo a
breve termine. Questo può significare che la Mid-term review sia brutalmente cestinata, come vorrebbero i più strenui difensori dello status quo,
ma ciò aumenterebbe molto l’incertezza sul futuro della Pac dopo il
2006. Oppure, può significare che la Mid-term review è destinata a perdere pezzi, ad essere edulcorata e mutilata nel corso del negoziato, esattamente come accadde alla proposta iniziale di Agenda 2000: potrebbe cadere il disaccoppiamento che - forse non a caso - è strutturato in modo da
poter essere stralciato dal pacchetto senza mettere in crisi il resto; potrebbero cadere i tetti aziendali della modulazione, che non fanno piacere ad
inglesi e tedeschi; potrebbe cadere il meccanismo di redistribuzione dei
fondi modulati tra paesi, perché sarebbe la prima volta che una riforma
cambia la distribuzione tra paesi.
Invece, la scelta più sensata, ma temo anche la più improbabile, sarebbe approvare subito, la Mid-term review, con qualche ragionevole modifica ma senza mutilazioni, per applicarla dopo il 2006: in altre parole,
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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sarebbe ragionevole interpretare il mantenimento dello status quo a breve
termine imposto dal compromesso franco-tedesco come un rinvio di
qualcosa che comunque si può decidere ora. Un tale compromesso, cioè
una decisione subito e l’applicazione dopo qualche anno, asseconderebbe
sia le spinte riformatrici di alcuni paesi che la volontà di rinvio di altri,
ottenendo comunque un positivo effetto annuncio; si affronterebbe il negoziato sulle nuove direttrici di bilancio avendo già concordato la riforma della Pac e dunque avendo, in qualche modo, prenotato la sua dotazione finanziaria, riducendo il rischio di dover fare la riforma in un clima
di tagli alla spesa che potrebbero anche essere più drastici di quelli oggi
imposti dal compromesso franco-tedesco; si andrebbe all’allargamento in
un quadro di minore incertezza, evitando che la Pac diventi irriformabile,
in un’Europa a venticinque; si darebbe tempo, infine, alle amministrazioni per digerire le novità della riforma e agli agricoltori per prepararsi a fare di più gli imprenditori, sapendo cosa c’è dietro l’angolo.
Comunque, anche in caso di approvazione della Mid-term review, bisogna stare attenti a non mollare la presa, impegnandosi a completare la
riforma in almeno tre direzioni: primo, progettare bene il destino degli
aiuti Pac, disaccoppiati o meno, con un loro interiore graduale ridimensionamento volto a finanziare, auspicabilmente dentro il primo pilastro,
misure di politica agraria in linea con le nuove esigenze della domanda e
dell’offerta; secondo, riordinare il secondo pilastro, definendone con
chiarezza la componente agricola, regolandone i rapporti con il primo pilastro e semplificando le procedure; terzo, attivare meccanismi capaci di
rendere la Pac più equilibrata, più flessibile e applicabile, in modo ragionevolmente differenziato nei diversi Stati membri, senza enfatizzare troppo i pericoli di una sua rinazionalizzazione.
Per concludere, nel tentare di rispondere ai quesiti generali che ponevo
all’inizio, penso si possa dire che, sia pure in modo un po’ maldestro, la
Mid-term review tenta di riaprire il dialogo tra agricoltura e società. Nella
delicata fase di transizione dal vecchio al nuovo modello di politica agraria, essa è fatta in modo da poter avviare un percorso di riforma sostenibile. Un percorso che nel lungo periodo sia coerente alle nuove esigenze
della società e degli stessi agricoltori e che a più breve termine sia comunque in grado di reggere all’allargamento, al Wto, ai nuovi vincoli di
bilancio. Ovviamente sono ben consapevole che questo percorso non è
esente da rischi dal punto di vista del mondo agricolo, ci mancherebbe
altro. La paura di buttare il bambino con l’acqua sporca rimane, come
sempre accade in tutte le fasi di cambiamento; tuttavia, credo che la riforma proposta da Fischler non sia un salto nel buio. Al contrario, sono convinto che il vero salto nel buio sarebbe l’ostinata difesa dello status quo.
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Il contesto europeo
UNA POLITICA AGRICOLA
PER L’UNIONE EUROPEA
Una nuova politica agricola
per l’Unione Europea
Paolo Bedoni
Quando abbiamo fissato la data di questa seconda edizione del Forum dell’agricoltura e dell’alimentazione sapevamo che questo nostro
incontro sarebbe avvenuto in una fase molto avanzata, forse addirittura nella fase finale del confronto europeo di medio termine sulla politica agricola.
Sapevamo anche che, proprio in queste settimane, si sarebbe entrati
nella fase calda, e comunque decisiva, del dibattito sull’allargamento
ai dieci paesi che sono in attesa del visto d’ingresso a pieno titolo nell’Unione.
A completare il quadro è venuto poi il referendum irlandese, il cui
eventuale esito negativo avrebbe inceppato l’intero processo d’integrazione europea e comunque sicuramente costretto tutti ad un rinvio
dei tempi dell’allargamento.
Dobbiamo rallegrarci naturalmente del fatto che questo pericolo sia
stato sventato ma dobbiamo anche ammettere che proprio questa vicenda ci ha dato una dimostrazione chiara di quanto sia ancora complesso e fragile questo processo.
Debbo dire che, grazie a questa concentrazione di eventi, non possiamo lamentarci del forte carattere di attualità che ha assunto questa
seconda edizione del Forum.
L’importante, per tutti noi, è che questa attualità non finisca con il
far passare in secondo piano l’esigenza di approfondimento e di elaborazione dalla quale invece è nata un anno fa la nostra idea di dar vita
ad un Forum internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione.
Tuttavia l’attualità di cui parliamo è prorompente e ci impone di stare, mentre discutiamo qui, con un orecchio teso ad ascoltare ciò che
avviene a Bruxelles.
A Bruxelles, scampato il pericolo irlandese (che non tutti probabilmente consideravano tale), è entrata nel vivo la grande partita a scacchi sul futuro dell’Europa.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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È una partita che si gioca su molti tavoli e non sempre a carte scoperte. Sicuramente si tratta di una partita con molte variabili e con più
incognite.
Il nostro timore è che, come sempre capita nei momenti decisivi,
l’Europa degli egoismi nazionali prevalga e metta in un angolo l’altra
Europa, che pure esiste, quella della cultura dell’integrazione che mira
davvero alla costruzione di una grande patria comune e che dà a questo obiettivo priorità assoluta.
È inutile menar scandalo per questo. Ma è anche sbagliato rassegnarsi ad una sorta di cinico realismo, condizione nella quale gli altri
sono più bravi ed attrezzati di noi.
Chi crede nell’Europa deve fare il possibile perché ciascun paese (il
proprio prima di tutti) abbia la forza e la capacità di orientare sui contenuti un confronto che altrimenti rischia di portare l’Europa alla deriva. Incontri come il Forum, con una così qualificata presenza internazionale, debbono proporsi un simile obiettivo.
Noi crediamo che questo sia interesse e dovere di tutti, e dell’Italia
in primo luogo. Perché l’Europa non ha nessuna possibilità di crescere, anche come soggetto di politica internazionale, se tutti i suoi membri, specialmente i più forti politicamente ed economicamente, continuano a ragionare in termini di rapporti di forza o, per essere ancora
più chiari, in termini di logiche di potenza.
L’interesse dell’Italia, in modo particolare, coincide fortemente con
quello di un’Europa costruita su basi serie ed equilibrate e con Istituzioni comunitarie sempre più legittimate a raccogliere e gestire le quote di sovranità a cui i singoli paesi debbono progressivamente rinunciare.
L’Italia perciò deve avere il coraggio di portare avanti il proprio progetto di paese autenticamente europeista e di contrapporsi con decisione a pratiche negoziali bi o trilaterali che pretendono di condizionare e
di predeterminare i processi decisionali attraverso la logica degli
scambi di favori tra paesi forti.
È un po’ quello che sta avvenendo in questi giorni, e direi in queste
ore a Bruxelles e dintorni. Ancora una volta il tentativo è quello di fissare le coordinate generali di questo “scambio di favori” e quindi di
costringere tutti gli altri a discutere dentro questa logica.
Di questa impostazione risente particolarmente la politica agricola.
Ne risente da sempre.
Ma ne risente particolarmente ora che il bisogno di modificarla radicalmente (per ragioni che noi conosciamo bene e di cui stiamo seriamente discutendo in questo Forum) può indurre alcuni governi che temono il cambiamento ai più spregiudicati mercanteggiamenti.
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Una nuova politica agricola per l’Unione Europea
L’Italia può fare due errori.
Il primo, e più grave, è quello di brillare per l’assenza in questa fase
cruciale, come spesso è avvenuto in passato, peraltro con governi di
ogni colore.
L’altro errore è quello di lasciarsi invece coinvolgere in questa logica, magari con l’illusione di essere cooptata entro trattative “tra grandi” che pretendono di decidere per tutti.
Noi sappiamo che questi errori sono entrambi possibili perché la politica italiana è altrove. Non sappiamo dove sia, sappiamo che spesso e
volentieri è altrove.
Dobbiamo dire a questo punto che il Governo non ha mantenuto
l’impegno, che aveva assunto con noi, di concentrarsi adeguatamente
su queste scadenze di fine d’anno e di arrivare al negoziato con una
posizione forte, definita e discussa nell’ambito istituzionale della politica di concertazione.
E dobbiamo dire che il Parlamento e le forze politiche non hanno
avuto tempo di occuparsi a fondo di problemi come questi. Essi sono
abituati a discuterne in modo marginale ed episodico. Spesso in modo
strumentale.
Con questo non voglio dare nulla per scontato. Ci sono ancora tutte
le condizioni per evitare questi errori.
Ci sono ancora le condizioni perché ci si decida, anche da parte italiana, a valorizzare l’eccellente, equilibrato e paziente lavoro fatto in
questi anni dalla Commissione europea, e dal Commissario Fischler in
particolare.
Questo lavoro ha teso a conciliare obiettivi che il mercanteggiamento di cui parlavo rischia di far divenire inconciliabili tra di loro: un riorientamento, già a partire da questa verifica di medio termine, delle risorse a favore di un’agricoltura di qualità con valenze multifunzionali;
la predisposizione, fin d’ora e su queste basi, delle linee di riforma del
2006 alla scadenza di Agenda 2000; un avvio immediato e su premesse rigorose e credibili del processo di allargamento, che ha proprio
nella politica agricola uno dei suoi punti nevralgici.
Solo conciliando fra di loro questi obiettivi si possono continuare a
garantire, tramite la Politica agricola comunitaria, gli aiuti diretti alle
imprese.
Nessuno nega che esista un problema di risorse ma non è serio voler
calare a tutti i costi, entro il quadro delle risorse attuali, politiche di integrazione che portano altri dieci paesi e più di altri 100 milioni di cittadini dentro l’Unione Europea.
Non è serio pensare che, senza procedere ad alcuna riforma, le risorse che oggi sono distribuite tra 15 paesi domani lo saranno tra 25.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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Questa è la politica dello struzzo che serve solo a chi vuole mantenere
le cose come stanno il più a lungo possibile.
Sappiamo bene che l’impostazione di Fischler, sulla quale la Commissione è venuta raccogliendo ampi consensi all’interno dei singoli
paesi, non è indolore.
Non è indolore per quei paesi che, in proporzione, hanno finora avuto a disposizione molte più risorse di altri.
Non è indolore, all’interno delle singole agricolture nazionali e certamente di quella italiana, perché l’attuale Politica agricola comunitaria favorisce in modo smaccato la rendita e la dispersione assistenzialistica. Come dimostra il fatto che mediamente in Italia e in Europa il
5% delle aziende usufruisce del 60% degli aiuti.
Naturalmente queste forze tendono a costituire in questo momento
un vero e proprio “blocco conservatore” che si va configurando come
una lobby disorganica e sgradevole che, per esempio in Italia, può incidere tanto più efficacemente quanto più la politica è assente e distratta.
Gli interessi di cui queste forze conservatrici sono portatrici hanno il
doppio effetto di inibire la nascita e la crescita di sistemi di imprese
orientate al mercato (in Italia questo effetto è evidentissimo) e di impedire all’agricoltura di far fronte alla inequivocabile domanda di qualità che i consumatori europei esprimono con assoluta chiarezza.
È chiaro che, alla lunga, quest’economia della rendita e del sottogoverno verrà spazzata via dal mercato e dai consumatori. Ma intanto
avrà provocato danni incalcolabili ad un’agricoltura che ha ben altra
vitalità e che ha bisogno di altre politiche per poter esprimere il suo
straordinario potenziale.
Da questo punto di vista il caso italiano non è per niente atipico in
Europa perché le distorsioni della politica agricola hanno inciso ovunque nello stesso modo. Il prezzo che l’Italia rischia di pagare è più alto, perché più forti sono i suoi ritardi e perché essa non ha utilizzato
nel migliore dei modi le pur insufficienti risorse che la Pac le ha messo a disposizione.
Quel che abbiamo potuto verificare, con il nostro lavoro internazionale di questi ultimi mesi, è che esistono in Europa le condizioni perché al
blocco conservatore si contrapponga una ben più ampia e limpida alleanza tra le forze della rappresentanza agricola che credono nell’impresa, credono nel “patto con il consumatore”, credono in un’agricoltura che abbia un ruolo strategico nella più globale economia di filiera.
È importante che queste convergenze emergano perché possono pesare non poco sui governi nazionali ed indurli ad avere atteggiamenti
più attenti e più responsabili sulle scelte di politica agricola.
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Una nuova politica agricola per l’Unione Europea
C’è un dato, tra i molti, della ricerca realizzata dall’Ispo per Coldiretti che voglio richiamare. È il dato che dimostra l’esistenza di un
fortissimo rapporto di fiducia in Italia tra i consumatori e l’agricoltura.
Noi abbiamo creduto nella centralità di questo rapporto e su di esso
abbiamo investito dando nuova visibilità e nuova credibilità all’agricoltura. È questa l’unica politica di lobby nella quale noi crediamo: il
rapporto con il consumatore.
Su questa politica abbiamo investito, su questa continueremo ad investire anche nell’ipotesi, che non vogliamo dare per scontata, che il
Governo non sappia difendere adeguatamente a Bruxelles gli interessi
dell’agricoltura italiana, in una logica non di contrasto nazionalistico
ma di sintonia su principi e politiche comuni con gli altri paesi membri dell’Unione Europea.
Su questa strada, tracciata da quel “patto con il consumatore” che la
nostra ricerca dimostra quanto sia apprezzato e condiviso, noi cerchiamo con azioni chiare e con atti concreti il dialogo con le altre componenti della filiera agroalimentare: un dialogo che ha eletto Cernobbio e
questo Forum a sua sede naturale.
L’industria e la grande distribuzione hanno pensato forse, ad un certo punto, di poter crescere e svilupparsi sul mercato facendo a meno
dell’agricoltura italiana. Possono averci pensato per scelta o per necessità, ma questo ormai importa poco.
Quel che è evidente è che l’agricoltura si è trovata marginale ed
emarginata nei processi di filiera e che è invalsa la convinzione che
fosse indifferente per l’industria e per la grande distribuzione trovare
qui o altrove la materia prima.
Ora abbiamo capito tutti, proprio tutti, che questa impostazione è
per tutti dannosa.
Certo, lo è soprattutto per le imprese agricole che restano soffocate e
senza sbocchi.
Ma lo è per l’insieme della filiera che ha capito quanto sia irragionevole e suicida rinunciare all’apporto di un’agricoltura orientata alla
qualità con le caratteristiche proprie di quella italiana.
Man mano che questo dialogo si approfondisce, soprattutto grazie ai
riflessi positivi e rigenerativi del “patto con il consumatore”, noi scopriamo insieme alle altre componenti della filiera le infinite ragioni
che ci debbono portare a lavorare insieme per comuni obiettivi.
A partire dalla necessità di porre riparo ad un errore speculare che
abbiamo compiuto nel nostro rapporto: l’industria e la distribuzione
hanno pensato di poter rincorrere un concetto astratto, tutto pubblicitario, della qualità non cogliendo i segnali di una tendenza che portava il
consumatore ad una sempre maggiore consapevolezza del suo diritto a
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
47
sapere e a conoscere la provenienza e la composizione di tutto ciò che
mangia e beve; la componente agricola della filiera ha pensato bene di
rinchiudersi dentro le mura di una cittadella corporativa e quindi di
considerare la politica agricola come una questione separata dal rapporto con la filiera e il consumatore da gestirsi in proprio.
Insieme, così, abbiamo trascurato e buttato via per decenni il valore
straordinario, anche e soprattutto economico, della territorialità.
Nella rincorsa di modelli globali ed indefiniti di multinazionalità,
l’industria e la grande distribuzione non si sono resi conto dell’enorme
importanza che il consumatore, e più in generale il mercato, attribuiscono alla provenienza e all’origine del prodotto come garanzia primaria di affidabilità.
Provenienza ed origine che solo un’agricoltura efficiente, sana, rivolta al mercato può garantire nei contenuti di qualità, salubrità, genuinità. Noi sappiamo - e la nostra ricerca ce lo comprova - che il
mercato è disposto a remunerare il valore aggiunto che la territorialità
dà al prodotto alimentare.
La territorialità non ha niente a che fare con il localismo. È anzi, per
molti aspetti, il suo contrario, perché la territorialità come valore economico è quanto di più esportabile si può immaginare. Quello che è
stato definito, con felice espressione, l’arcipelago agroalimentare italiano è una risorsa economica che va utilizzata a tutto tondo dal sistema delle imprese.
E quando parliamo di “sistema di imprese” parliamo di imprese
agricole ed agroalimentari che sanno guardare con intelligenza e con
lungimiranza a tutte le attività legate allo sviluppo del turismo culturale ed ambientale, che è il vero giacimento economico dell’Italia postindustriale.
Non parliamo dunque più del 3% del prodotto nazionale, ma di una
forza economica propulsiva che tocca il 25, 30% del Pil. Ecco dove risiede la straordinaria modernità dell’agricoltura italiana come fattore
strategico qualificante dell’intera economia.
Ecco dove sono le basi del “doppio patto”: un “patto tra imprese
nella filiera” che si affianchi al “patto con il consumatore”.
Ecco da dove deve ripartire ogni e qualsiasi scelta di politica agricola, in una visione non gretta e non provinciale in piena aderenza con
l’idea che noi abbiamo dell’Europa.
Ecco il punto su cui chiamiamo il Governo ad agire con decisione,
con chiarezza e con tempestività.
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Una nuova politica agricola per l’Unione Europea
La revisione di medio termine
ed il futuro della Pac
Tavola rotonda
Moderatore: Paolo De Castro
La nostra Tavola rotonda, incentrata sulla revisione di medio termine, non può non tenere conto di ciò che sta accadendo a Bruxelles,
poiché le notizie che si susseguono sul compromesso franco-tedesco
al Consiglio di Bruxelles modificano in qualche modo il canovaccio
che aveva montato Franz Fischler. In una situazione del genere, mi
sembra opportuno proporre un cambiamento dell’ordine dei lavori, per
approfittare della presenza dell’ambasciatore Corrado Pirzio Biroli,
Capo di gabinetto del Commissario Franz Fischler, e cercare di capire
insieme a lui quale sia l’umore dei Capi di Stato e di Governo sulla
Politica agricola comune, e in che misura le loro decisioni influenzeranno i passaggi successivi della riforma.
Corrado Pirzio Biroli
Riassumo, brevemente, la situazione. L’accordo franco-tedesco, di
ieri sera, consisteva in quattro punti: primo, il mantenimento del quadro di spesa della Pac fino al 2006; secondo, l’introduzione progressiva
degli aiuti ai nuovi Stati membri, così come proposto dalla Commissione; terzo, che la spesa per i pagamenti diretti, il capitolo 1A del bilancio, è stabilizzata sulla base dei dati di Berlino, in euro costanti più inflazione, ma con un deflatore di solo l’1% e non del 2% come era stato
finora, e che essa dovrà coprire anche le spese per i Peco successive al
2006; quarto, la limitazione della spesa per i fondi strutturali a 23 miliardi di euro e il controllo della spesa in tutti i campi a partire da ora.
Paolo De Castro è presidente di Nomisma.
Corrado Pirzio Biroli è capo di gabinetto del commissario europeo per l’Agricoltura Franz
Fischler.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
49
Ciò è stato deciso dal vertice di Bruxelles aggiungendo la frase di
compromesso: “senza pregiudizio delle future decisioni sulla Pac e del
finanziamento dell’Unione dopo il 2006, e senza pregiudizio degli impegni internazionali presi a Doha”. Senza pregiudizio, dunque, dell’attuazione degli aggiustamenti previsti nel paragrafo 22 dell’accordo di
Berlino, vale a dire la revisione intermedia, che tuttavia, è bene ricordarlo, include anche il latte.
Cosa significa tutto questo? Significa che il quadro finanziario, fino
al 2013, è ormai fissato e che dobbiamo analizzare cosa esattamente
possiamo includere in questo quadro e riflettere, nei prossimi giorni,
settimane e mesi, sui passi da intraprendere nell’interesse degli agricoltori. Si può sin d’ora supporre che le decisioni di Bruxelles ci costringeranno ad introdurre una certa degressività nella spesa agricola.
In ogni caso, si ridurranno i margini per la degressività da destinare allo sviluppo rurale che avevamo nella revisione intermedia e che andava a vantaggio di certi paesi e verso un riequilibrio degli aiuti. Il paragrafo 12 dell’accordo di Berlino permette di trattare nella revisione di
medio termine tutti i settori previsti in quell’accordo, e permette quindi anche di prendere le misure urgenti, inevitabili lì dove abbiamo degli stock che aumentano e di cui non sapremmo che fare. In questi casi, è sempre meglio agire presto piuttosto che spendere inutilmente
soldi per spese di stoccaggio che si sarebbero potute evitare.
Il riferimento a Doha porta a concludere che un disaccoppiamento
ulteriore è inevitabile. Quanto alla modulazione diventa più problematica, ma non dimentichiamo che lo sviluppo rurale non è stato incluso
nel plafonamento e si può forse sperare che i nostri obiettivi per lo sviluppo rurale siano, almeno in parte, ugualmente raggiungibili, anche
se non dovessero essere disponibili immediatamente i fondi previsti
dalla Commissione nel luglio scorso, con la modulazione.
Una considerazione personale è che se si fosse veramente rispettato
l’accordo di Berlino nelle discussioni in seno al Consiglio, si sarebbe
dovuta applicare un’indicizzazione del 2% anziché dell’1% e si sarebbero dovute includere le spese previste per la riforma del latte nella
base di partenza. Se così fosse stato, cioè se l’accordo di Berlino fosse
stato rispettato appieno, avremmo avuto 4 miliardi di più nell’anno
2013. Ma ormai è andata così.
Tutto ciò implica che la spesa a prezzi costanti ’99, cioè in termini
reali, per la rubrica 1A, rimane fissa dal 2006 in poi a 45,3 miliardi di
euro per l’Unione Europea a 25. Ma per l’Unione a 15 essa di fatto diminuisce di 3 miliardi di euro, a causa del phasing-in degli aiuti diretti
a favore dei nuovi Stati membri. Questo si sarebbe potuto evitare se si
fosse incluso, lo ripeto, il latte nella base di calcolo.
50
Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
Si è evitato il peggio, perché la proposta tedesca sostenuta da altri
era di una riduzione dei pagamenti diretti che raggiungeva il 28% nel
2013 e voleva dire circa 8 miliardi di euro di meno. Applicando alla riduzione la modulazione del 20% con la franchigia dei 5 mila euro come si era proposto, la riduzione dei pagamenti diretti sarebbe stata del
70%, nel caso di mantenimento della modulazione a favore dello sviluppo rurale, e del 50% se la modulazione fosse stata utilizzata solo
per compensare la riduzione della spesa disponibile. Tuttavia, sebbene
si sia evitato il peggio, gli avvenimenti di oggi dimostrano che avevano ragione quelli che spronavano a muoversi per tempo, per evitare
che le decisioni fossero prese da altri.
Di fatto, ci siamo mossi forse troppo tardi, e tra quelli che spronavano cito il Ministro Alemanno e cito il Presidente Bedoni, che a mio avviso è uno dei pochi capi di organizzazioni agricole che hanno saputo
vedere lontano, e che erano coscienti di questo problema. Bedoni aveva da tempo fatto suonare un campanello d’allarme, definendo sprovveduti, autolesionisti, irresponsabili e miopi, coloro che non capiscono
che una riforma strutturale della Pac è inevitabile per scongiurare tagli
irreversibili. E poi non è finita, perché c’è anche Doha.
Rimane il fatto che se vogliamo evitare tagli imposti dall’esterno
dobbiamo decidere adesso, per conto nostro, cosa fare. La Commissione rifletterà su questo e farà la sua relazione il più presto possibile.
Tuttavia, se non avremo il coraggio di prendere certe decisioni, non
potremo evitare l’isolamento a Cancun, quando si constaterà che l’Agenda 2000 non basta; e non è certo nel nostro interesse un ripetersi
della storia già vissuta nel ’91, quando l’Uruguay Round si fermò “per
colpa della Comunità” e dovemmo frettolosamente varare una riforma
che avremmo potuto fare prima, senza condizioni e pressioni esterne.
Per concludere direi, sempre a titolo personale, che è finito il tempo
della politica dello struzzo e delle divisioni interne, per un mondo
agricolo che in Europa è una minoranza e rappresenta solo il 4% della
forza lavoro e l’1,7% del prodotto interno lordo. Dobbiamo invece
prendere tutte le precauzioni per metterci d’accordo e batterci uniti,
anche nel Copa-Cogeca, dove l’unione non c’è, con argomenti convincenti, non tanto per noi quanto per coloro il cui sostegno è necessario
per proseguire la strada del modello agricolo europeo.
Questa è l’ultima grande riforma della Pac, anche se alcune Ocm devono ancora essere riformate. Nonostante le critiche massicce che gli
vengono mosse dal mondo agricolo, sia pure con alcune eccezioni, Fischler è uno degli amici su cui gli agricoltori possono contare, perché è
pronto ad assumersi la responsabilità di agire in un mondo che cambia e
di dire senza perifrasi perché il mondo agricolo deve cambiare, se vuole
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
51
salvaguardare il modello agricolo europeo ed il sostegno relativo, evitando i tagli dolorosi che risulterebbero dal mantenimento dello status quo.
Moderatore: Paolo De Castro
Ringraziamo Corrado Pirzio Biroli anche per la passione con cui ha
difeso giustamente la posizione della Commissione ed in particolare
del Commissario Fischler. Adesso tocca a noi, con questa tavola rotonda, cercare di fare dei commenti sulla Mid-term review anche alla luce
di quello che ci ha detto Pirzio Biroli. Mi sembra, al riguardo, si possa
dire che il negoziato di Agenda 2000 del ’99 sarà ricordato come l’ultimo dei negoziati tradizionali dove, in fondo, le decisioni venivano
prese dal Commissario e dai Ministri dell’Agricoltura. In questo negoziato, invece, è evidente che le scelte le stanno prendendo i Capi di
Stato di Governo e altri Commissari, non solo il Commissario Fischler. Non sappiamo ancora quali saranno gli effetti concreti del compromesso franco-tedesco e lo vedremo nei prossimi giorni. Intanto, mi pare ci sia molto su cui commentare e discutere.
Giovanni Anania
Una prima considerazione: è vero, si è evitato il peggio. Resta il fatto
che il taglio alle risorse finanziarie a disposizione delle politiche agricole è di dimensioni drammatiche e che, almeno a mio avviso, va al di là
delle più pessimistiche previsioni che potevano essere fatte alla vigilia.
Seconda considerazione a caldo: meno male che questa decisione è
stata presa ora. Almeno questo toglie dal tavolo l’ambiguità del poter
giocare sull’incertezza su cosa sarebbe successo dopo il 2006. La
mazzata l’abbiamo presa; il problema ora è cambiato ed è diventato:
che cosa vogliamo fare, ed in quali tempi, per decidere come utilizzare
al meglio le risorse finanziarie a disposizione?
La Mid-term review diventa un passaggio inutile? Assolutamente no.
È vero che la decisione franco-tedesca di ieri porta sicuramente con sé
un compromesso anche sulle cose che non verranno toccate dalla Midterm review. Ma, per certi versi, la decisione di ieri potrebbe addirittura
riaprire la discussione su questioni che, appunto fino a ieri, pensavamo
non sarebbero state toccate. Pensiamo al latte: la decisione ripone sul taGiovanni Anania è professore di Economia e politica agraria all’Università della Calabria,
Facoltà di Economia.
52
Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
volo, e con forza, la necessità di stabilire ora che cosa fare e in quali termini per le politiche comunitarie per il latte dopo il 2008. E questo per
un motivo molto semplice: visto che le risorse finanziarie sono bloccate,
se decidessimo domani mattina di abolire le quote dal 2008, magari aumentandole del 10% l’anno per cinque anni, fino a farle diventare non
più vincolanti, e decidessimo anche l’introduzione dei relativi pagamenti compensativi alle aziende, per questi pagamenti si potrebbe, legittimamente ritengo, dire ai nuovi paesi membri: “voi non avete quote ed anche dal 1° gennaio del 2004 non avrete vincoli sulla produzione del latte; per questa ragione non avrete nemmeno i pagamenti compensativi
che spetteranno alle aziende degli attuali paesi membri per l’eliminazione delle quote”. In ogni caso, dato che adesso sappiamo quanti soldi
abbiamo a disposizione, mi sembra evidente che la questione della riforma delle politiche per il settore lattiero-caseario sia una delle cose che
dobbiamo cominciare ad affrontare adesso, e non nel 2007.
Perché la Mid-term review e, più in generale, l’esigenza di una riforma
delle politiche agricole, si pongono oggi forse con molta maggiore forza
di quanto non fosse ieri? Non per il negoziato del Wto; il problema vero
è che, proprio perché ora sappiamo quanti soldi abbiamo a disposizione
per le politiche agricole di mercato, bisogna ri-ragionare, nel concreto, su
quali siano le politiche agrarie che vogliamo, per l’agricoltura di oggi
(che è anni luce distante da quella degli anni in cui le politiche attuali sono state disegnate) e per dare risposta alle domande dei consumatori di
oggi. Ragionare, quindi, non solo sulle modifiche delle politiche nell’ambito della revisione di medio termine, ma anche in un’ottica a più lungo
termine; è necessario e opportuno ragionare ora su dove vogliamo che
vadano le politiche agricole nei prossimi dieci o quindici anni almeno.
Tornando nel merito della revisione di medio termine, volevo fare tre
battute, per poi eventualmente tornare su altre questioni nel secondo giro di interventi, tutte nella direzione della credibilità dei principi del
progetto di riforma delle politiche enunciati dalla Commissione, principi legati ad una nuova concezione delle politiche, che le vede legate alle domande nuove che dalla società europea vengono ai produttori agricoli e all’agricoltura.
La prima questione è legata alla nuova giustificazione del sostegno proposta nel documento della Commissione per la revisione di medio termine, e cioè il passaggio da un sostegno “alla produzione” a un sostegno “al
produttore agricolo”: principio bellissimo. Non più sostegno per produrre
certe cose, ma per la funzione specifica di produttore agricolo per sé, in
quanto soggetto impegnato in un’attività cui la società riconosce funzioni
positive che hanno un valore non remunerato dal mercato, funzioni per
cui la società è disposta a pagare. La domanda è: possiamo prendere sul
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
53
serio questa rivoluzione copernicana nella giustificazione delle politiche
agricole? Non tanto. Questo perché nell’attuale proposta di revisione di
medio termine si ha un congelamento della distribuzione attuale degli
aiuti tra le imprese e, quindi, delle iniquità nella distribuzione del sostegno tra aree, prodotti ed aziende che ad essa sono associate. In altre parole, perché dovremmo, se parliamo di un sostegno ai produttori agricoli in
quanto tali, accettare il congelamento di una situazione che taglia fuori da
questi aiuti e da questo riconoscimento di “ruolo” tanti produttori agricoli
che oggi ricevono poco o nulla in sostegno attraverso gli aiuti diretti? Con
un’affermazione che è volutamente un po’ provocatoria, si potrebbe dire
che, prendendo sul serio le affermazioni della Commissione, nel rifondare le politiche agricole andrebbe affermata l’uguaglianza dei diritti di tutti
i produttori agricoli in quanto tali, dei produttori di latte e di grano come
di quelli di frutta, di agrumi e di uva da vino.
Seconda questione. Se, com’è giusto, prendiamo sul serio la dichiarata necessità di riformare le politiche agricole a partire da cosa la società
vuole dagli agricoltori e dall’agricoltura, il problema della salubrità degli alimenti è sicuramente centrale. Nell’attuale proposta di revisione di
medio termine la salubrità degli alimenti è tra gli elementi che concorrono alla definizione degli standard da rispettare da parte delle aziende
per poter beneficiare degli aiuti diretti, in ossequio alla cross-compliance; in altre parole, per poter avere gli aiuti le aziende devono rispettare
standard che riducono i rischi per la salute dei consumatori (se non li
rispettano, riceveranno comunque gli aiuti, ma ridotti). Il problema, tuttavia, andrebbe posto in maniera radicalmente diversa: la salubrità degli alimenti è, e deve essere, un diritto dei consumatori e un dovere dei
produttori. Un prodotto non salubre semplicemente non deve varcare i
confini dell’azienda! Non è possibile, a mio avviso, pensare di dover
“premiare” gli agricoltori che producono beni che i consumatori possono mangiare senza dover temere per la loro salute! È sbagliato in sé ed
è sbagliato come segnale che si dà ai cittadini, in quanto consumatori di
alimenti e in quanto contribuenti che finanziano le politiche per l’agricoltura. È questo un aspetto della proposta per la revisione di medio
termine della Commissione che andrebbe rivisto.
Terza considerazione, ancora sulla cross-compliance, ma più generale. Mi sembra che su questa questione stiamo andando a passi spediti
verso quello che definirei un flop, peraltro largamente preannunciato.
Ciò per due ragioni: la proposta della Commissione è che gli standard
da soddisfare per poter avere accesso agli aiuti siano definiti a livello
di paese membro; principio, in astratto, giustissimo. Chi meglio del
paese membro, o della regione, può definire che cosa è necessario fare
per rispondere alle necessità della difesa dell’ambiente? Però questo
54
Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
principio, in astratto giustissimo, può manifestare aspetti perversi nella
sua applicazione concreta. Quale Ministro, o quale Assessore all’agricoltura, definirà vincoli efficaci per gli obiettivi da perseguire - e,
quindi, “forti” dal punto di vista delle aziende - e da soddisfare per
avere gli aiuti, sapendo che questo determinerà una riduzione di competitività dei suoi produttori rispetto a quelli di agricolture in cui quegli stessi standard sono definiti su livelli più bassi? Quale Ministro e
quale Assessore all’agricoltura si impegnerà perché i sistemi di controllo dei comportamenti delle aziende siano efficaci, sapendo che
questo ridurrà la competitività dei suoi produttori rispetto ad altri situati in realtà in cui i controlli sono assai laschi? Certo, potremmo
pensare ad un quadro di regole “forte” a livello comunitario, con la
Comunità che fissa “paletti” efficaci entro cui le decisioni nazionali e
regionali devono essere prese e che verifica che le attività di controllo
siano adeguate. Il problema è che non ritengo sia questa la direzione
verso cui stiamo andando. In questo momento l’ipotesi a cui la Commissione sta lavorando è quella di definire i requisiti per la cross-compliance come rispetto di Regolamenti già esistenti, e neanche di tutti.
In altre parole, il messaggio ai cittadini che finanziano le politiche
agricole è che le politiche pubbliche pagano gli agricoltori perché rispettino le leggi (e neanche tutte). Non mi sembra un buon segnale.
Eva Rabinowicz
Non è facile riassumere e commentare la nuova revisione di medio
termine e forse porterò una prospettiva abbastanza diversa alla discussione. Partirò dal fatto, sottolineato dal nostro moderatore, che a quanto pare le scelte riguardanti la Pac sono prese da soggetti diversi dai
Ministri dell’agricoltura e muoverò altresì da un altro argomento oggetto di discussione, ossia le dimensioni economiche e sociali dell’agricoltura e le relative implicazioni a lungo termine.
Forse sarà interessante per voi ascoltare qualcosa a proposito della
riforma dell’agricoltura svedese degli anni Novanta. Credo che l’interesse stia nel fatto che si è trattato di uno dei pochissimi esempi di
cambiamento veramente radicale della politica agricola. E probabilmente se ne possono trarre delle lezioni. La riforma della politica
agraria svedese è stata veramente radicale: sono stati tolti i sussidi alle
esportazioni, è stata abolita la quota-latte, è scomparso il sistema di inEva Rabinowicz è direttore delle ricerche all’Istituto svedese per l’Alimentazione e l’economia agraria.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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tervento, è stato eliminato il sistema di revisione dei prezzi. È stato
realmente smantellato tutto. La domanda è: come mai è stata possibile
una riforma così radicale? Si può replicare questo esempio?
I tempi possono essere dipesi da alcuni fattori accidentali, ma il motivo principale è stato semplicemente che la politica aveva perso la sua
legittimità. I vecchi argomenti utilizzati a difesa della politica agricola,
che era molto simile alla Pac, non avevano più presa e c’era la sensazione che non si stesse prestando abbastanza attenzione al nuovo consenso, a ciò che era importante per la società. L’altra faccia della medaglia era che gli agricoltori erano diventati un gruppo estremamente ridotto. Già alla fine degli anni Ottanta, gli agricoltori svedesi erano una
minoranza, sia in termini di occupazione che di contributo al Pil. Altri
attori, e specialmente le Ong del settore ambientale, hanno acquistato
sempre più importanza e gli agricoltori hanno semplicemente perso il
potere fino ad allora detenuto e le loro capacità di influenzare l’agenda
politica. I gruppi ambientalisti, inoltre, avevano altre priorità rispetto al
sostegno dell’agricoltura.
In questa situazione, va ricordato che la Svezia ha continuato a essere
una forte sostenitrice della riforma della Pac. Questo potrebbe semplicemente insegnarci che si tratta di cambiamenti strutturali a lungo termine che spingono verso la riforma e che la Pac, come ha fatto a suo
tempo la politica agraria svedese, deve rivedere le proprie priorità. È
interessante, in questo contesto, osservare il comportamento degli agricoltori che, in Svezia, hanno accettato la riforma. La domanda che mi è
stata spesso rivolta dai colleghi di altri paesi è: “perché mai gli agricoltori svedesi l’hanno accettata? perché non sono scesi in piazza?”, come
avrebbero sicuramente fatto i francesi! Sarebbe esagerato dire che gli
agricoltori sono stati felici della riforma, tuttavia si sono resi conto che
partecipando attivamente al processo avrebbero potuto ottenere il meglio per la categoria, in qualche modo ridurre al minimo il danno dal
loro punto di vista.
A mio modo di vedere, tutto questo ha delle implicazioni, oggi, per la
Pac. Ho l’impressione - con il rischio che sia solo un mio pensiero che le preferenze e l’equilibrio dei poteri stiano cambiando anche in
Europa. Sul finire degli anni Ottanta, in Svezia abbiamo avuto dei dibattiti molto accesi sulla politica agricola prima della sua riforma, oggi,
nell’Unione Europea, abbiamo lo stesso dibattito. Anche le preferenze
politiche stanno mutando. Molti Ministri dell’agricoltura oggi si fanno
chiamare Ministri dell’ambiente, Ministri dei consumatori e così via.
Tutto ciò significa che tali cambiamenti prima o poi verranno a maturazione anche in Europa.
Se questo è vero, la domanda che ci si deve porre è quale sia la stra-
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
tegia migliore per gli agricoltori. Il Copa si oppone violentemente a
qualsiasi tipo di riforma, sostenendo che con la revisione di medio termine non si va da nessuna parte. Non saprei dire se questa strategia si
rivelerà efficace nel lungo termine per la comunità degli agricoltori, in
ogni caso, tenendo conto dei cambiamenti strutturali a lungo termine,
questo deve essere il problema da discutere.
Ora vorrei affrontare molto brevemente alcune questioni legate alla
revisione di medio termine. Una delle problematiche chiave, a sua volta legata alla riforma svedese, è il disaccoppiamento ed il suo impatto.
De Filippis ha affrontato il tema del disaccoppiamento e io concordo
con molti suoi argomenti; in Svezia, gli agricoltori hanno potuto ottenere in una sola rata i finanziamenti che spettavano loro in cinque anni,
a condizione che abbandonassero la coltivazione, cosa che hanno fatto
in molti. I grandi agricoltori hanno chiuso le loro aziende, venduto i
macchinari e si sono dedicati ad altro: ad esempio, sono stati costruiti
molti campi da golf. Questo significa che se i pagamenti sono veramente disaccoppiati, si può avere un impatto sulla produzione e un impatto su aree marginali e l’intera questione può risultare abbastanza
complicata. Quindi, se crediamo di dover pagare per preservare l’ambiente, per preservare il nostro patrimonio culturale, il disaccoppiamento potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Jean-Christophe Bureau
In Francia, le proposte di riforma della Mid-term review sono state accolte male dagli agricoltori, mentre hanno ricevuto consensi tra l’opinione pubblica. Ciò mostra bene come, anche in Francia, esistono evidenti
pressioni a favore della riforma, anche se le politiche comuni vengono
criticate solo in occasione di crisi alimentari eclatanti, come ad esempio
quella la mucca pazza, che in realtà non hanno nulla a che vedere con le
ragioni reali per cui sarebbe il caso di criticare la Pac.
Detto ciò, a mio modesto parere - che credo coincida con quello di
gran parte degli economisti, anche francesi - l’insieme delle proposte
della Commissione è da considerarsi assai valido, perché va in una direzione giusta, che è quella di una programmazione a lungo termine delle
politiche agricole. Si tratta di misure che vanno incontro sia al mercato
che alle esigenze e alle aspettative dei contribuenti, i quali preferiscono
vedere il loro denaro investito maggiormente in servizi. Le proposte della Commissione, in buona sostanza, vanno nel senso della storia.
Jean-Christophe Bureau è direttore di ricerca all’Inra.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
57
Ci sono comunque due questioni, bene inquadrate dall’Inra, l’istituzione dove lavoro, che andrebbero meglio affrontate. In primo luogo,
come ha detto bene Giovanni Anania, si rischia di congelare tutta una
serie di situazioni di disparità di trattamento. Ci si può chiedere, infatti,
secondo quale logica gli agricoltori che sono stati i più aiutati in passato, quelli con le proprietà più estese e con i terreni in grado di rendere
meglio, dovrebbero continuare ad essere i più aiutati anche in futuro,
con le nuove misure. In altre parole, si ha l’impressione che si tenda a
cristallizzare, fino a quando non è dato sapere, una disparità di partenza
non ben giustificabile e che rappresenta, senza dubbio, un problema
considerevole.
La seconda grande questione riguarda l’assegnazione dei pagamenti
disaccoppiati in base al passato. Così facendo, si confermeranno o si
andranno a creare forti squilibri nella capacità d’investire dei diversi
agricoltori; infatti, è noto che i pagamenti non sono mai completamente
disaccoppiati e tutti quei produttori che già in passato ricevevano pochi
aiuti, o non ne ricevevano affatto, sono giustamente preoccupati dell’impatto che potrebbero avere, sul mercato delle loro produzioni, soggetti con più disponibilità di cassa, in quanto beneficiari di pagamenti
disaccoppiati.
È vero, sono state escluse le produzioni ortofrutticole, ma un esempio di tale distorsione potrebbe prodursi nel caso delle patate, dove coloro che producevano amido, le patate per la fecola, hanno a disposizione la materia prima e i terreni per investire su tipi di patate che fino
ad allora non potevano ricevere pagamenti. Ancora, si possono immaginare casi in cui ex produttori di colture oleaginose o proteaginose investano in altri settori, incluse le produzioni animali. Si può affermare,
in buona sostanza, che questo rischio di distorsione del sistema concorrenziale sia uno dei punti deboli delle proposte della Commissione.
Sull’argomento manca ancora, comunque, un’informazione adeguata.
Infatti, va tenuta in considerazione la forte dipendenza da quanto si registra a livello mondiale. Non è ancora chiaro - e all’Inra abbiamo avviato
una serie di indagini a riguardo - quali potrebbero essere, in coincidenza
con un andamento mondiale negativo, gli effetti su quello che in francese chiamiamo déprise ossia l’abbandono, in regioni che potremmo definire intermedie, di ogni tipo di attività agricola. La questione, al momento, è ancora poco chiara e prima di agire credo sarebbe opportuno
procedere ad un’analisi più approfondita dell’argomento nel suo complesso. Andrebbe anche valutato l’impatto reale dei pagamenti disaccoppiati sul sistema di audit aziendale, che è presente tra le proposte della
Commissione e che a me sembra un obiettivo assai valido.
È difficile immaginare se possa accadere anche per i bovini quanto
58
Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
accaduto in Francia per i suini, ovvero un mercato caratterizzato da un
prezzo non molto alto e una concentrazione della produzione in allevamenti altamente intensivi, magari con dei feed lots, come accade in California. Non è un’ipotesi completamente assurda, e certo non sarebbe
auspicabile.
Venendo, per concludere, allo sviluppo rurale, mi dichiaro un po’
scettico su un improvviso travaso di ingenti risorse finanziarie dal primo al secondo pilastro: e ciò per la rilevanza degli aspetti amministrativi coinvolti in tale decisione e per l’ambiente in cui ciò avverrebbe. Sono convinto che l’azione di sviluppo rurale non possa essere gestita direttamente da Bruxelles e debba, quindi, essere decentralizzata: dal
nord della Finlandia alla Sicilia, non è possibile avere un unico capitolo
di spesa; tuttavia, se si distribuisce tanto denaro in maniera decentralizzata, ci sono molti rischi, a livello locale, di collusione tra chi sorveglia
e chi dovrebbe essere sorvegliato, almeno in Francia funziona così. Lo
abbiamo già sperimentato in altri contesti, pertanto credo sia necessario
porre l’accento sui rischi di corruzione che questo provvedimento può
implicare.
Moderatore: Paolo De Castro
Riguardo al passaggio di fondi dal primo al secondo pilastro, credo
di interpretare le preoccupazioni di molti agricoltori italiani sul fatto
che ciò comporta il passaggio della responsabilità di gestione ai quadri dirigenti regionali, i quali purtroppo non sempre hanno dimostrato
di avere una sensibilità uniforme nei confronti dei problemi agricoli.
Soprattutto, la capacità gestionale e la sensibilità nei confronti dell’agricoltura è molto variabile, per cui non c’è dubbio che gli agricoltori
che hanno la fortuna di trovarsi in regioni con una burocrazia più efficiente, si troverebbero avvantaggiati rispetto a quelli di altre regioni,
che questa efficienza e questa attenzione non hanno. Questa preoccupazione è tanto maggiore nei paesi come l’Italia, che hanno scelto la
via del totale federalismo rispetto ai piani di sviluppo rurale.
Per rimanere sull’interpretazione della Mid-term review e di quanto
sta accadendo a Bruxelles chiederei di intervenire a José Sumpsi dell’Università Politecnica di Madrid, anche alla luce di quella che rimane una delle più grosse distorsioni della Pac e cioè una forte concentrazione degli aiuti verso le produzioni cerealicole, che a tutt’oggi occupano più del 42% del budget totale della Pac rispetto, per esempio,
all’ortofrutta, che, pur avendo lo stesso peso percentuale in termini di
valore aggiunto, cattura meno del 4% del bilancio comunitario.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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José María Sumpsi Viñas
Concentrerò il mio intervento su quattro punti. Prima di presentarli,
vorrei però accennare al fatto che nonostante tutte le modifiche che si
stanno attuando in conseguenza dell’accordo franco-tedesco, è comunque opportuno parlare di riforma della Pac. Sono infatti convinto che, al
di là degli accordi franco-tedeschi, i fattori esogeni all’Unione Europea
siano tali da orientarci, nei prossimi due o tre anni, verso una riforma della Pac, a prescindere dall’aumento o meno del budget.
Mi accingo, pertanto, a fare una valutazione della Mid-term review per
stabilire se essa ci fa incamminare sulla strada giusta per una nuova politica agraria in una nuova Europa. Non è facile dare oggi una risposta
chiara, concreta; credo, infatti, che la Mid-term review contenga sia elementi positivi sia elementi negativi.
Venendo ai quattro punti del mio intervento, parlerò in primo luogo del
disaccoppiamento, un orientamento a mio avviso pericoloso, da non mettere in pratica per varie ragioni. La prima è che gli aiuti disaccoppiati non
offrono nessuna garanzia in termini di benefici per il territorio. È un argomento molto discusso, ma non è affatto dimostrato, né sul piano scientifico né empirico, che il disaccoppiamento produca benefici territoriali.
Per esempio nel mio paese, la Spagna, è molto probabile che gli aiuti disaccoppiati provochino l’abbandono di importanti superfici di cereali a
basso rendimento. Risulta, dalle nostre stime, che tra i 2 e 3 milioni di ettari di terreno di cereali in Spagna possano venire abbandonati in conseguenza di una politica di aiuti disaccoppiati. Se, dunque, il disaccoppiamento è positivo dal punto di vista delle negoziazioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, non lo è dal punto di vista dell’agricoltura
né probabilmente del territorio. Inoltre, così come è stato predisposto, il
suo radicamento sul territorio è scarso e la cross-compliance è insufficiente a legittimare l’applicazione di aiuti disaccoppiati.
Inoltre, gli aiuti disaccoppiati non sono ben compresi dagli stessi agricoltori e, quel che è peggio, lo sono ancora meno dai cittadini: non ha infatti nessuna legittimità un aiuto che viene erogato per non svolgere alcuna attività. La conseguenza ovvia è che la probabilità che questa politica
possa durare nel medio e lungo periodo è molto scarsa. De Filippis ne
parlava come di una misura transitoria, ma anche così credo sia una opzione che presenta molti rischi.
Il secondo aspetto della Mid-term review di cui vorrei discutere è, invece, positivo e riguarda l’incorporazione nel pacchetto di riforma di eleJosé María Sumpsi Viñas è professore di Politica economica agraria all’Universidad Politécnica di Madrid, Dipartimento di Economia e scienze sociali agrarie.
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
menti nuovi, molto importanti nell’ottica del cittadino europeo: territorio,
benessere degli animali, qualità, sicurezza. Non c’è, infatti, nessuna ragione per cui l’agricoltura debba essere esentata dal rispetto di norme su
queste materie, ed è interessante la proposta di un sistema di auditing che
ne verifichi l’avvenuto adempimento. L’agricoltura deve entrare nell’ottica di dover essere regolamentata da norme e parametri da rispettare. Se
vogliamo godere di legittimità, dobbiamo rispettare le norme della società cui apparteniamo.
Il terzo tema è quello della modulazione che, così com’è stata proposta, non rappresenta secondo me un orientamento da seguire, specie perché non genera una ripartizione equa dei tagli né tra gli Stati membri né
tra gli agricoltori. È uno schema troppo rigido, giacché c’è troppo spazio
tra la franchigia di 5.000 euro ed il tetto a 300.000. Sarebbe meglio alzare la franchigia da 5 mila a 10 mila euro e fissare diversi livelli di progressività, nell’ampia fascia tra i 10 mila e i 300 mila euro, che rispettino
di più i criteri di un’equa modulazione e tengano meglio conto delle innumerevoli tipologie di agricoltura esistenti in Europa.
Infine il quarto tema, che mi pare sia un aspetto davvero positivo, è
l’ampliamento delle misure del secondo pilastro e l’aumento dei sussidi
agroambientali. Questo è molto importante, perché effettivamente permette l’applicazione di una politica agraria più flessibile e territorialmente differenziata, dato che il secondo pilastro fa esplicitamente perno sulla
sussidiarietà. In questa linea, ritengo sia un elemento estremamente positivo della Mid-term review il fatto di aumentare il ventaglio delle possibili misure finanziabili nell’ambito del secondo pilastro, anche se forse il
rafforzamento delle misure agroambientali sarebbe potuto essere persino
maggiore.
In conclusione, mi pare di poter dire che la Mid-term review contiene luci
ed ombre, elementi positivi e negativi: la valutazione finale la lascio a voi.
Moderatore: Paolo De Castro
Mi sia consentito un brevissimo commento sul disaccoppiamento.
Anche in Italia vi possono essere critiche o perplessità su alcuni effetti
indesiderabili o su alcuni rischi del disaccoppiamento. Ma qual è l’alternativa? Andare avanti senza disaccoppiamento significa semplicemente che gli aiuti dovranno ridursi, e quale potrà essere il loro destino in futuro, specie alla luce del negoziato Wto, se in esso dovesse essere cancellata la scatola blu?
Prima di effettuare un secondo giro di interventi, c’è spazio per
qualche domanda diretta ai partecipanti.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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DIBATTITO:
Domande
Rosario Trefiletti
Premettendo una condivisione esplicita della relazione del Presidente
Bedoni, e della filosofia di fondo con cui si dovrebbe portare avanti una
nuova progettualità nella politica agricola, puntando molto sulla questione
della qualità, la mia domanda è sulla opportuna distinzione tra sicurezza e
qualità, intendendo la prima come pre-requisito e la seconda come elemento della competizione sul mercato. A questo proposito, come si dovrebbe
intervenire, nel nostro paese, su queste questioni? Come, specie in tema di
sicurezza, possono essere coinvolte le associazioni dei consumatori?
Ignacio Lopez
Solo un commento sul tema della cross-compliance e dell’audit. Si tratta
di elementi entrambi positivi per dare maggiore legittimità alla Pac. Tuttavia comportano un costo aggiuntivo per l’agricoltore. Ma le domande riguardano il sistema di audit. Perché l’audit dovrebbe essere obbligatorio
solo per il 20% dei produttori? La cross-compliance riguarda tutti, e non
solo gli imprenditori che percepiscono più di 5 mila euro. Come si può
agire per ottenere un più alto valore aggiunto, una sorta di certificazione
per il prodotto che è stato realizzato con il benestare del sistema di audit?
Fabrizio De Filippis
Più che una domanda, una breve reazione alla critica che Sumpsi ha
fatto della modulazione, perché avrebbe uno scarso effetto redistributivo.
La critica è più che ragionevole in astratto, se l’obiettivo della modulazione fosse la redistribuzione degli aiuti. Mi sembra, invece, meno pertinente
nel contesto della Mid-term review, giacché in essa il principale compito
della modulazione è di essere un meccanismo per travasare risorse dal
primo al secondo pilastro: un obiettivo che lo stesso Sumpsi ha definito
positivo. Inoltre, penso che anche con una modulazione fatta per scaglioni progressivi il suo effetto redistributivo sarebbe comunque scarso.
Rosario Trefiletti è presidente di Federconsumatori.
Ignacio Lopez è direttore del dipartimento internazionale dell’Asociación Agraria Jóvenes
Agritcultores (Asaja).
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
Luigi Scordamaglia
Una riflessione sul disaccoppiamento. Mi chiedevo se siamo consapevoli delle gravissime conseguenze che per la filiera bovina italiana
deriverebbero da un’applicazione assoluta di questo principio, che porterebbe ad un totale abbandono della produzione a fronte, chiaramente,
di un reddito comunque garantito all’allevatore. E porterebbe in Italia,
cosa ancora più grave, ad una cristallizzazione definitiva delle passate
inefficienze, per esempio, del sistema dell’anagrafe bovina. Ciò consoliderebbe quindi un livello di premi al di sotto del famoso plafond.
Ben Gill
Vorrei innanzitutto congratularmi con l’amico Paolo Bedoni per il
suo intervento e per l’approccio progressista alla riforma della Pac.
Vorrei però rivolgere una domanda al panel, nella speranza di ottenere
anche una risposta sotto forma di monosillabo: sì o no.
Vorrei sapere se, avendo saputo quanto è successo a Bruxelles in
queste ultime ore, sia assolutamente necessario, e anzi vitale, spingere
per una riforma urgente e radicale della Pac. E in caso di risposta affermativa, come dobbiamo affrontare questa problematica, dal momento che chi deve prendere le decisioni sembra non comprendere le
effettive dinamiche dell’agricoltura e del mondo rurale?
Corrado Giacomini
Due domande. La prima riguarda la riduzione dei fondi che conseguirà alle decisioni che sono state prese, per tentare di capire a quanto si
può stimare l’entità di questa riduzione. L’altra riguarda la relazione del
Presidente Bedoni, che anch’io ho apprezzato molto, per la sua proposta
di grande patto tra produzione agricola e consumatori. Su questo punto,
tuttavia, ci sono due cose che vanno chiarite: la prima è che quando parliamo di imprese agricole, tirando via quelle al di sotto della franchigia,
dobbiamo essere consapevoli che stiamo parlando di 130-150.000 imprese, non credo di più; in secondo luogo, parlando di patto col consumatore, non dobbiamo puntare solo sull’impresa agricola, bensì su tutta
Luigi Scordamaglia è segretario generale di Assocarni.
Ben Gill è presidente della National Farmers Union (Nfu).
Corrado Giacomini è professore di Economia agroalimentare all’Università degli Studi di
Parma, Facoltà di Agraria.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
63
l’organizzazione dell’offerta. Ed è lì che mancano proposte di strumenti
effettivamente capaci di dare forza contrattuale agli agricoltori. Perché,
oggi come oggi, quello che i consumatori chiedono in termini di qualità
e sicurezza non se lo aspettano solo dagli agricoltori, ma soprattutto dalla grande distribuzione, che è il loro vero interlocutore.
Stefan Tangermann
Vorrei tornare ancora una volta sulla tematica del disaccoppiamento.
Per prima cosa, diciamo chiaramente che quando si parla di disaccoppiamento nel contesto della revisione di medio termine non si intende
l’introduzione di nuovi aiuti che non esistevano in precedenza, bensì
un cambiamento nel modo di erogare i pagamenti già esistenti.
Più persone, sia in seno al panel che tra il pubblico, hanno sostenuto
che disaccoppiando i pagamenti attuali si potrebbero avere implicazioni negative in alcune aree della Comunità: gli esempi fatti riguardano
l’uso dei terreni in alcune zone della Spagna, nonché la produzione di
grano duro e carni bovine in Italia.
Tuttavia, sostenere che questi sono i problemi da contrastare significa, in sostanza, non volere che gli agricoltori siano messi in condizione di trarre il massimo valore dai pagamenti della Pac. È chiaro, infatti, che se un agricoltore dovesse abbandonare l’allevamento dei bovini
nel momento in cui questi pagamenti venissero disaccoppiati, lo farebbe per aumentare il suo reddito; in altre parole, egli cioè eviterebbe la
perdita sulla produzione di bovini che oggi affronta solo per ottenere il
pagamento. Lo stesso ragionamento può essere applicato al grano o a
qualsiasi altro prodotto.
Vorrei sapere perché dovrebbe essere nell’interesse degli agricoltori
la continua richiesta, che viene loro fatta, di generare perdite solo per
produrre cose di cui non necessariamente c’è bisogno; o continuare con
un sistema di pagamenti generalizzato, con l’obiettivo di far sì che si
coltivi ancora nelle zone svantaggiate; dove, invece, lo strumento giusto sarebbe un sistema di pagamenti specifici, riservati a quelle zone.
Risposte
Giovanni Anania
Prima questione: il disaccoppiamento. Io sono tra quelli che ritengono che il disaccoppiamento sia utile per l’agricoltura, indipendente-
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
mente dal negoziato Wto in corso. Restituire alle imprese, a parità di
sostegno pubblico, libertà nelle decisioni relative a cosa e come produrre, a partire da ciò che avviene sui mercati, è un passo in avanti di
per sé, sia per le aziende (i cui redditi aumentano o, al più, non cambiano) sia per la società (che consegue un uso socialmente più efficiente delle risorse disponibili). Dal punto di vista dell’impatto ambientale, dice giustamente Pirzio Biroli, bisognerà rispettare i regolamenti per avere gli aiuti. Non solo: io mi aspetto che essi prevedano,
per chi decidesse di non produrre, qualche vincolo sulle pratiche agricole che devono essere comunque realizzate per difendere dal degrado
le risorse naturali dell’azienda e quelle a valle di questa. Aspettiamo e
vediamo. In tema di disaccoppiamento non dobbiamo pensare solo all’impatto che esso può avere sull’ambiente, ma anche ai suoi effetti
sulla qualità di ciò che viene prodotto. In quante realtà aziendali, oggi,
vengono prodotti beni di cattiva qualità come risultato del sistema degli incentivi, che deriva dal fatto che il sostegno è “accoppiato”? Vogliamo fare un paio di esempi? I primi che vengono alla mente sono il
grano duro nelle aree meno vocate e l’olio d’oliva in alcune aree ed in
talune realtà aziendali meno dinamiche.
Il vero problema per le aziende, associato al disaccoppiamento, se
vogliamo parlare fuori dai denti, è che esso può voler dire un aumento
del rischio di tagli ulteriori degli aiuti in futuro, perché con il disaccoppiamento l’aiuto diventa più visibile, e può essere sostenibile nel
tempo solo se si è in grado di giustificarlo agli occhi dei cittadini, che
per quel sostegno pagano un costo. Ricordando le osservazioni che facevo prima sulla cross-compliance, questa forte consapevolezza della
necessità di giustificare di più e meglio gli aiuti alle aziende agli occhi
della società, giustificarli su basi nuove che garantiscano che fra dieci
anni quegli aiuti non vengano ulteriormente e fortemente ridotti, oggi
non la vedo. Tornando alla cross-compliance, essa si tradurrà in un
elenco di regolamenti esistenti che dovranno essere soddisfatti. A mio
avviso questo non basta. Se vogliamo una politica agraria credibile e
socialmente accettabile, gli aiuti devono andare alle aziende perché
realizzino comportamenti virtuosi, che vadano ben al di là del rispetto
di regolamenti esistenti. Comportamenti tali da fare sì che la società
possa ritenere giustificata la spesa associata a quegli aiuti.
Ciò che è successo oggi a Bruxelles aumenta la necessità di discutere e di fare una riforma della Pac “vera” e incisiva? La mia risposta è
sì, con forza. Avremmo dovuto farlo dieci o cinque anni fa; se avessimo cambiato le politiche agricole con Agenda 2000, oggi, forse,
avremmo potuto difenderle meglio. Se avessimo affrontato per tempo
il problema di quali politiche agricole siano ragionevoli per l’Europa a
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
65
25 paesi, oggi, forse, l’agricoltura non avrebbe perso in termini di risorse finanziarie disponibili quello che ha perso.
Infine, riguardo la sicurezza alimentare la mia opinione è che una
politica per garantire la salubrità degli alimenti non si debba basare su
un sistema di incentivi agli agricoltori. Gli agricoltori possono e devono essere aiutati a migliorare la loro capacità di ridurre i rischi per la
salute umana dal consumo di ciò che producono; la sicurezza alimentare si fa certamente anche in azienda, ma le politiche per la salubrità
degli alimenti devono essere disegnate in una logica di filiera: al consumatore non interessa sapere che era sano il prodotto uscito dall’azienda, interessa che sia sano quello che arriva sulla sua tavola. Quindi, politiche per garantire la sicurezza degli alimenti che agiscano sul
sistema di filiera, e mai una politica che dia soldi agli agricoltori a
condizione che producano prodotti sani. Gli agricoltori devono produrre prodotti sani, comunque e sempre.
Eva Rabinowicz
Rispondo alle domande sul disaccoppiamento. Tuttora non sono
molto convinta che il disaccoppiamento sia una buona idea, almeno al
momento attuale. Non credo che il disaccoppiamento possa aumentare
la legittimità della Pac, soprattutto perché molti altri gruppi potrebbero
esprimere dubbi sull’equità di questo tipo di sostegno al reddito riservato agli agricoltori.
Il motivo fondamentale della mia critica è che, concentrandosi sul
disaccoppiamento, ci si lega all’idea dell’esistenza di un problema di
reddito agricolo. Io non credo che sia così. Un problema di reddito
agricolo esiste nel senso che gli agricoltori, come molti altri produttori, hanno problemi di reddito; ma direi che si tratta di un problema sociale e non settoriale. Con il disaccoppiamento, invece, esso sarebbe
affrontato come se fosse un problema settoriale.
Perché obbligare i produttori a produrre? Non sostengo che debbano
essere obbligati a produrre; il mio esempio serviva solo a dimostrare
che il disaccoppiamento può risolversi in una non-produzione e che in
alcune aree questo potrebbe tradursi in uno svantaggio, ad esempio,
quando la produzione porta benefici ambientali. Non sostengo, inoltre,
l’idea di una produzione fine a sé stessa, ma certamente nei casi in cui
alla produzione è associato un beneficio ambientale il disaccoppiamento potrebbe essere problematico.
Condivido l’opinione di De Filippis, riguardo il fatto che pagamenti
disaccoppiati non finalizzati possano solo essere temporanei. Il pro-
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
blema principale è che i pagamenti attuali non sono temporanei; per
ora non hanno una scadenza. Ciò crea problemi ai nuovi arrivati, ai
nuovi agricoltori, i cui pagamenti si fonderebbero sui sussidi ricevuti
in precedenza dalle aziende in cui essi si insediano. Poniamo il caso di
due imprese agricole simili, che hanno ottenuto pagamenti di diverso
ammontare: cosa deve fare un giovane agricoltore? Comprare quella
con i sussidi più elevati, pagandola evidentemente di più? Ma ciò sarebbe molto rischioso, visto l’incerto futuro dei pagamenti disaccoppiati. Sarebbe, quindi, più logico disaccoppiare il sostegno con un programma di obbligazioni, sul tipo di quello proposto in altri tempi da
Stefan Tangermann.
In teoria, penso si dovrebbe ripartire da zero, per calcolare il sostegno davvero in base a quanto la società è disposta a pagare per preservare la natura, il patrimonio culturale, il paesaggio.
Il mio ultimo commento riguarda la modulazione. Sono a favore
della modulazione, ma vedo qualche problema. In Svezia, la modulazione volontaria è stata respinta, in primo luogo perché il governo non
voleva pagare altro denaro attraverso il cofinanziamento, e in secondo
luogo - cosa assai importante - perché il quadro normativo non consentiva di progettare nuove misure da applicare.
È vero è che bisogna pagare per i beni pubblici, ma bisogna anche
ricordare che, ad esempio, un bene pubblico come il paesaggio è più
della somma dei singoli campi coltivati. È difficile tutelarlo pagando
le singole aziende: forse dobbiamo trovare nuovi modi per pagare,
nuovi modi per progettare l’intervento. Se così stanno le cose, bisognerebbe anche ripensare se siano opportuni interventi di questo genere come politica comune. Forse sono necessarie politiche maggiormente decentrate, in quanto sono diverse le preferenze e le possibilità
di ciascun paese membro, e probabilmente tali politiche dovrebbero
essere nazionali e non comuni.
Jean-Christophe Bureau
Vorrei riferirmi al negoziato commerciale del Wto. Credo, al riguardo, che esista un insieme di limitazioni, di cui si deve tenere conto, che
i cittadini dell’Unione Europea vogliono imporre ai propri produttori, e
che tali limitazioni non riguardino la sola agricoltura. Queste limitazioni, tuttavia, non vengono sempre percepite come distorsive della concorrenza, perché abbiamo dazi alla frontiera molto elevati. Ad esempio, il divieto di usare la somatotropina negli allevamenti da latte comporta un aumento dei costi del 10% rispetto ai paesi che invece ne fan-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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no uso. Anche nel caso delle limitazioni tese a garantire il benessere
animale vi è un aumento dei costi alla produzione: nel caso delle uova,
ad esempio, l’aumento dei costi è del 15%; ma tutto questo non viene
percepito a livello dei mercati, almeno finora.
Riguardo alle limitazioni che hanno a che fare con l’ambiente, esse
sono ancora più rilevanti. A tale proposito, anche perché me ne occupo
da oltre un anno con le disposizioni relative all’effetto serra, ritengo
che sarà necessario provvedere ad una ridefinizione della scala di lettura. Questo, probabilmente, non ha un legame diretto con l’agricoltura, ma se si guarda alla direttiva europea sul Protocollo di Kyoto, si
nota che verrà attuata imponendo tasse sull’uso del carbone.
Si arriverà pertanto ad una situazione nella quale sarà assolutamente
indispensabile - al momento sono uno dei pochi a pensarla così, ma tra
5 anni forse saremo in molti - associare alla negoziazione internazionale sui dazi quella sulle tematiche ambientali.
In quel caso, infatti, le imposte sul carbone diverranno delle distorsioni della concorrenza assai evidenti. Se un accordo come quello di
Kyoto consente a coloro che non lo hanno sottoscritto di accrescere le
proprie fette di mercato, vuole dire che questo accordo si traduce, automaticamente, in un aumento di emissioni di gas a livello mondiale e,
ne converrete, la cosa non ha molto senso.
Pertanto, nei casi in cui si sia vincolati, in qualche maniera, alle imposte legate al carbone, si rende necessaria una riforma completa del
sistema di protezione doganale dell’Unione Europea. Ecco perché ritengo, per certi versi, pericoloso negoziare i dazi in agricoltura, perché
vorrebbe dire legarsi le mani non solo in agricoltura, ma anche su altri
fronti; e legarsi le mani è sempre qualcosa di molto pericoloso.
Non è facile capire come tutto questo andrà affrontato, ritengo tuttavia che queste negoziazioni, nella situazione attuale, potrebbero divenire un problema. Riduzioni modeste della protezione commerciale,
almeno al momento, potranno essere assorbite anche applicando dazi
più bassi, ma in futuro ciò non sarà più possibile. Per questa ragione,
sono convinto sia necessario un ragionamento più globale sul Wto,
non limitato alla sola agricoltura.
José María Sumpsi Viñas
Mi riferisco al tema dell’audit che, a parere di molti, finirà per costituire un onere per gli agricoltori. È pur vero però che la Mid-term review - e secondo me è un dato positivo - ha messo a punto un piano di
aiuti provvisori per la creazione e l’avviamento di un sistema di audit.
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
I fondi saranno erogati durante i primi anni, per consentire la sua graduale diffusione: diffusione che, sempre a mio avviso, dovrebbe ridurre sensibilmente i costi di gestione. I costi più alti, pertanto, saranno
riferibili soltanto ai primi anni: in seguito, dovrebbero essere sensibilmente ridotti e ciò consentirebbe agli agricoltori di far fronte all’impegno economico senza troppo sforzo.
Il secondo quesito, sullo stesso argomento, è per quale motivo l’obbligo dell’audit non si debba estendere agli agricoltori che ricevono
aiuti al di sotto dei 5 mila euro. La risposta, secondo me, è chiarissima: non esiste un motivo! Se veramente crediamo nel territorio e siamo convinti che la funzione dell’agricoltura sia quella di salvaguardarne l’integrità, non c’è alcun motivo per ritenere che coloro che percepiscono meno di 5 mila euro non debbano essere sottoposti ad alcun
controllo! Presumo, com’è ovvio, che la ragione debba essere prevalentemente di carattere pratico: esistono, al di sotto dei 5 mila euro,
molti milioni di agricoltori sparsi in tutta Europa. E probabilmente il
motivo principale sta nella volontà di ridurre i problemi di carattere
pratico e amministrativo, che il controllo di questa massa di aziende
comporterebbe nei vari paesi.
Riguardo la modulazione, De Filippis sosteneva, e sono d’accordo,
che per il trasferimento di fondi dal primo al secondo pilastro il tema
della modulazione è un meccanismo degno d’essere preso in considerazione. Dissento, invece, su un altro aspetto: quello che vede la modulazione applicata in modo insufficiente e soprattutto troppo generico, trattando gli agricoltori in modo indiscriminato. Egli stesso nel suo
intervento diceva che l’aiuto agli agricoltori deve essere somministrato in misura differenziata e personalizzata. Sappiamo che non tutti gli
agricoltori sono uguali e pertanto la modulazione dovrebbe essere applicata con criteri più differenziati, selettivi, che tengano meglio conto
del livello di reddito degli agricoltori e dei settori su cui operano. La
mia critica non è rivolta al meccanismo di trasferimento di fondi, bensì al modo in cui viene proposta la modulazione: troppo generica,
troppo indiscriminata, troppo uguale per tutti coloro compresi tra i 5
mila e i 300 mila euro.
Infine, il tema del disaccoppiamento, che a mio avviso è uno tra i
più problematici e ha acceso un interessante dibattito. In primo luogo,
sosteneva sempre De Filippis, c’è la possibilità che questi aiuti rappresentino un passo intermedio, un momento transitorio. Può darsi che sia
così, ma continuano comunque a contenere elementi di rischio. Inoltre, se gli aiuti disaccoppiati sono una transizione in direzione di un
dato obiettivo, perché non ci dirigiamo verso questo obiettivo in modo
diretto?
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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Secondo me sarebbe molto più razionale, anziché scegliere la via intermedia degli aiuti disaccoppiati, passare, almeno parzialmente, dalle
attuali sovvenzioni dirette a quelle territoriali, sotto forma di pagamenti agli agricoltori per i servizi resi al territorio. Convertire una fetta delle sovvenzioni attuali in sovvenzioni agli agricoltori per i servizi
resi, significa compiere un’azione che ha una sua giustificazione economica e che ci evita salti nel vuoto. Significa introdurre modifiche
che hanno una valenza economica ben precisa.
Quest’ultimo punto mi consente anche di rispondere a Stefan Tangermann, alla sua presentazione del tema. Non ho mai detto che gli attuali pagamenti diretti della Pac siano razionali; è anzi evidente che
distorcono le decisioni dei produttori. Tuttavia, mi chiedo qual è la
teoria economica che sta alla base degli aiuti disaccoppiati, perché, come economista, non vedo nessuna ragione che giustifichi l’elargizione
di denari ad un agricoltore affinché continui a fare l’agricoltore. Per
quale motivo, allora, non sovvenzionare un commerciante o non aiutare un piccolo artigiano per aumentare il suo reddito?
Come ben diceva Eva Rabinowicz, ritengo che i pagamenti disaccoppiati non abbiano alcun fondamento economico. Si potrebbero giustificare come politica sociale, ma, in questo caso, che non si parli di
politica agraria!
Moderatore: Paolo De Castro
Nel ringraziare tutti i relatori mi sia consentita solo una piccolissima
chiosa finale. Fischler, alla luce di come sta andando a Bruxelles, aveva visto giusto nel voler anticipare i tempi della riforma della Pac.
Purtroppo, forse, bisognava essere ancora più rapidi con la Mid-term
review, per cercare di evitare i problemi che sempre derivano all’agricoltura quando essa arriva sul tavolo dei Capi di Stato e di Governo. È
accaduto anche a Berlino, nel ’99, ed è forse inevitabile, perché in
quarant’anni la Pac è diventata una politica troppo complicata, per
specialisti, e non si può certo pretendere che i Capi di Stato e di Governo entrino nel merito. Tuttavia, è bene essere consapevoli che il taglio al bilancio, e la riduzione del deflatore con cui rivalutare la spesa
agricola nel tempo, hanno conseguenze pesanti in termini di riduzione
del grado di libertà con cui potrà muoversi la riforma della Pac.
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Tavola rotonda: La revisione di medio termine ed il futuro della Pac
Modelli istituzionali europei
per una nuova politica agricola
Orazio Maria Petracca
Questo intervento ha lo scopo di evidenziare alcuni connotati che
dovrebbe assumere il sistema delle istituzioni europee, ed in particolare il meccanismo dei processi decisionali, per essere più adatto di
quanto non sia attualmente ad impostare e implementare una politica
agraria capace di mettere a frutto il carattere multifunzionale dell’agricoltura moderna, cioè una politica orientata agli obiettivi di valorizzare l’ambiente, promuovere lo sviluppo rurale e favorire le produzioni
con requisiti di salubrità, tipicità, alta qualità.
Mi limiterò, in questa sede, a trattare due questioni che considero essenziali agli effetti che ci interessano.
- Il principio di sussidiarietà, inteso sia come criterio per la ripartizione delle competenze tra l’Unione Europea, gli Stati nazionali e le loro entità territoriali, sia come criterio per la definizione - storicamente, a rigore, la “ridefinizione” - dei rapporti tra la sfera del potere istituzionale e la sfera dell’autonomia sociale; o, più sbrigativamente e con qualche approssimazione, tra la sfera del “pubblico” e
la sfera del “privato”;
- la questione, per dirla con una formula, della concertazione: si tratta
di assicurare un pieno coinvolgimento nei processi istituzionali di
tutti i soggetti sociali interessati, in termini generali i cittadini e, in
particolare, le organizzazioni dei produttori e dei consumatori.
A proposito della sussidiarietà, non è esatto dire, come riportano alcuni dei tanti documenti presentati dalla Convenzione europea, che si
tratta di un principio traslato dalla dottrina sociale della Chiesa, prima
nella Costituzione tedesca del ’49 e poi, con il Trattato di Maastricht,
nel diritto comunitario. In realtà, nella storia del pensiero politico e sociale il principio di sussidiarietà ha origini molto antiche e, almeno
Orazio Maria Petracca, editorialista, è professore di Dottrina dello Stato all’Università degli
Studi di Salerno, Facoltà di Giurisprudenza.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
71
come idea di fondo, si può far risalire ad Aristotele (IV secolo a.C.). Fu
poi ripreso secoli dopo da Tommaso d’Aquino ed è stato rilanciato nei
tempi moderni dai grandi maestri del liberalismo classico: Locke,
Stuart Mill, Tocqueville nella sua analisi della società e della democrazia americana, e dalla scuola del costituzionalismo tedesco. È vero però
che, accanto a questo filone liberale, c’è sempre stato effettivamente
anche un filone cattolico molto ricco e continuamente alimentato.
Tant’è che una delle formulazioni più precise del principio di sussidiarietà si trova nell’Enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI del 1931.
Sul piano del diritto positivo, si ispira al principio di sussidiarietà la
Costituzione degli Stati Uniti, seppure in forma implicita, mentre se ne
trova invece traccia esplicita e con valenza di Grundprinzip, cioè di
principio di riferimento, nella Costituzione della Repubblica Federale
Tedesca, quella, come ricordavo, del ’49. Da qualche anno il principio
di sussidiarietà è entrato anche nel diritto positivo italiano con la prima delle cosiddette leggi Bassanini, la legge n. 159 del 1997. Nel diritto comunitario invece è stato introdotto, come è noto, dal Trattato di
Maastricht e ha trovato poi la sua formulazione attuale con il Protocollo di Amsterdam, nell’articolo 5 del Trattato, in cui viene stabilito che,
nelle materie sulle quali non ha competenza esclusiva, la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, quando gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli
Stati membri e possono, invece, essere realizzati più efficacemente, in
ragione dei loro effetti o delle loro dimensioni, a livello comunitario.
Come vedete non è un capolavoro di chiarezza, ma va tenuto presente
che questa norma è stata il risultato di un compromesso con alcuni
Stati, tra i quali Inghilterra e Germania, che non intendevano farla passare in quanto temevano che in questo modo, in perfetto contrasto con
la logica della sussidiarietà, la Comunità finisse con l’allargare le proprie competenze.
Il Protocollo di Amsterdam fissa anche alcuni criteri cui fare riferimento per verificare se ci siano o no le condizioni per far ricorso al
principio di sussidiarietà e pone una serie di vincoli a carico delle istituzioni europee, affinché rispettino questo principio. Con tutto ciò, finora, il risultato non è stato soddisfacente.
Quando la Convenzione europea ha cominciato a discutere nella sessione plenaria dell’aprile scorso, sono stati in molti ad osservare che
troppo spesso considerazioni di carattere politico o di urgenza hanno
finito con l’avere il sopravvento sul rispetto di questo principio. Si è
così deciso di istituire un gruppo di lavoro, che sostanzialmente ha
l’incarico di studiare i meccanismi di controllo da mettere in atto per
poterne garantirne il rispetto. Questo controllo può essere, e in effetti
72
Modelli istituzionali europei per una nuova politica agricola
è, sia politico sia giurisdizionale. Il controllo giurisdizionale, in realtà,
si è già rivelato inefficace e, per quanto siano ovviamente apprezzabili
le buone intenzioni di chi pensa di poterlo rafforzare, non c’è motivo
di sperare che possa essere più efficace in futuro. In realtà, tutte le volte che sulla questione della sussidiarietà è stata adita la Corte di Giustizia, essa si è limitata a verificare se esistevano o meno delle motivazioni per il suo mancato rispetto. Quanto al controllo politico, tutto dipende dal fatto che ci siano in campo soggetti portatori di interessi in
contrasto e che siano abbastanza forti, o perlomeno ritengano di essere
tali, da potere cercare di farli valere. Questo, in linea di massima, è lo
stato dell’arte.
È importante sottolineare che la questione della sussidiarietà non si
può esaurire nei termini in cui ne sta discutendo attualmente la Convenzione europea. Senza con ciò volere assumere una posizione oltranzista, mi sento di sostenere che l’articolo 5 del Trattato vada riscritto, sia per definire in termini più precisi il criterio di sussidiarietà
per la ripartizione delle competenze, sia per sistematizzarlo come principio da far valere anche a livello sub-nazionale, sia per introdurre il
principio di sussidiarietà inteso in senso orizzontale, come dicono i
giuristi nel loro gergo. Si tratta cioè di cominciare a ragionare su questo tema fuori da una logica che sia di pura applicazione delle regole
che già esistono.
Quando ci riferiamo al principio di sussidiarietà in termini di principio orizzontale dobbiamo dire che esso serve, da una parte, ad erigere
una specie di muro che il potere politico non può valicare, nel senso
che deve astenersi da tutti gli interventi non necessari, cioè da tutte
quelle aree dove i privati possono fare da sé e non ci siano interessi
pubblici da tutelare; mentre, dall’altra, serve anche ad affidare ai privati funzioni che in se stesse sarebbero di carattere pubblico o perlomeno sono state tradizionalmente considerate tali.
L’applicazione del principio di sussidiarietà a livello sub-nazionale
presenta aspetti abbastanza delicati. È stato già notato, in merito al dibattito in corso a Bruxelles, che il diverso grado di efficienza delle regioni può agire come un fattore esogeno rispetto al rendimento delle
imprese, nel senso di favorirne alcune, quelle che si trovano in certe
aree, e danneggiarne altre che si trovano in altre aree. Questo è vero,
ma è la direttrice di un processo che non si può arrestare né invertire
ed è un processo la cui logica sarà resa ancora più evidente dall’allargamento. In effetti, sarebbe abbastanza strano che Stati come Malta,
ad esempio, con nemmeno 400.000 abitanti, Cipro con nemmeno
800.000 abitanti, l’Estonia con un milione e duecentomila abitanti, la
Slovenia con due milioni di abitanti scarsi abbiano le prerogative, i
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
73
poteri, il peso di Stati membri, mentre non hanno nessuna voce in capitolo grandi regioni storiche, pezzi di Stati membri abitati da milioni
e milioni di persone, che contribuiscono attivamente all’economia dell’Unione Europea e a finanziarne il bilancio. Per quanto riguarda specificamente l’agricoltura, presenterebbe aspetti di contraddittorietà una
posizione che, da una parte, rivendica la territorialità come un attributo che fa parte integrante del valore di mercato di un bene, che anzi
conferisce valore aggiunto alle produzioni agricole e, d’altra parte,
non ne trae le conseguenze sul piano istituzionale. C’è da aggiungere
che il coinvolgimento del territorio è quasi una parola d’ordine, continuamente presente in tutti i documenti dell’Unione Europea, in quanto
viene considerato come una forma di risposta efficace ad un atteggiamento di indifferenza, o peggio di diffidenza, nei confronti delle istituzioni europee, oggi abbastanza diffuso.
La questione più importante è quella della sussidiarietà orizzontale.
È importante perché può essere un criterio col quale si rovesciano i
rapporti storicamente definiti tra l’area del pubblico e l’area del privato; è importante perché in questo modo si ristabilisce, in una certa misura, la logica di quel modello di sviluppo economico che caratterizza
l’identità europea. Se può sembrare un po’ troppo ottimistico che si
possa applicare il principio di sussidiarietà in senso orizzontale, devo
ricordare che nell’ordinamento italiano c’è già una norma che accoglie
questo principio. Nella riforma delle autonomie locali, realizzata se
non sbaglio nel 1999, con la legge n. 265 - la legge “Napolitano” del
’99 - c’è un articolo in cui è previsto che certe attività, che per legge
sono attribuite alla competenza dei Comuni e delle Province, possano
essere svolte invece da soggetti privati, purché abbiano certi requisiti e
certe capacità. Certo, la Commissione europea non arriverà facilmente
a rileggere e riscrivere in questi termini il principio di sussidiarietà,
ma resta il fatto che una accezione così ampia di questo principio è
l’unica che lo renda compatibile con il modello di sviluppo economico, già in atto, che caratterizza l’identità europea, come ricordava
qualche giorno fa a Bruxelles il Presidente di Confindustria.
E veniamo adesso all’altra questione, che è quella della concertazione. Nel dibattito su questo tema, in Italia, c’è stata sempre una grande
confusione, in parte dovuta a calcoli di convenienza politica, nel senso
che ognuno ha sempre cercato di disegnare una figura della concertazione confacente al suo modo di intenderla, in parte dovuta a reale
confusione di idee: ignoranza sincera, per così dire, dei modelli e delle
regole istituzionali. Si spiega solo così che sia tuttora molto diffusa la
tendenza a identificare la concertazione con il cosiddetto modello corporativo: non più tardi di un mese fa anche il Governatore della Banca
74
Modelli istituzionali europei per una nuova politica agricola
d’Italia l’ha presentata più o meno in questi termini, sia pure nel modo
garbato in cui sempre il Governatore parla.
Che cos’è il modello corporativo? È un modello in cui gli accordi
tra le parti sociali fanno agio sulle decisioni del potere politico, le vincolano alle loro determinazioni, le riducono a procedure di pura e
semplice ratifica; ed è un modello alternativo a quello tipico delle democrazie liberali. La concertazione, invece, non è un’alternativa ai regimi liberali ma è anzi una forma utile di integrazione, purché sia intesa correttamente come metodo di governo, cioè come metodo di confronto, che consente al governo e alle parti sociali di confrontare le rispettive strategie, rimanendo poi ciascuno libero. Il governo mantiene
le proprie prerogative, per cui decide liberamente rispetto alle richieste, alle proposte, alle iniziative delle parti sociali e, a loro volta, le
parti sociali mantengono la loro autonomia.
Vorrei ancora ricordare che istituzionalizzare la prassi della concertazione a livello europeo è oggi qualcosa che ha a che fare anche con
la legittimità delle istituzioni democratiche, perché su questo terreno
c’è stato un cambiamento di grande portata. In origine, la legittimità
delle normative europee veniva legata al fatto che esse erano il frutto
di governi nazionali, a loro volta legittimati a prendere quelle decisioni in quanto sottoposti al confronto democratico. Questa concezione è
entrata in crisi man mano che si è visto come e perché gli elettorati nazionali non hanno in realtà nessuna possibilità di sottoporre a controllo
decisioni prese a livello internazionale. È allora prevalsa l’idea che la
legittimità delle istituzioni e delle normative europee sia invece legata
all’ampiezza della pluralità di interessi cui fanno riferimento, alla flessibilità delle reti di intermediazione che sono capaci di mettere in atto,
in definitiva all’autorità che gli viene o no riconosciuta dai soggetti
sociali. Questo è il punto sul quale oggi bisognerebbe lavorare, perché
c’è molta sensibilità a livello europeo nei confronti delle parti sociali,
delle consultazioni, ma non c’è una sede istituzionale dove queste forme di consultazione, di dialogo interattivo, vengano attuate, ed è questa la carenza alla quale bisognerebbe rimediare.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
75
Verso la riforma della Pac
Rocco Buttiglione
Sembra esserci uno spettro che si aggira in quest’aula, e lo spettro è
ciò che sta accadendo, proprio in queste ore, a Bruxelles. Ritengo pertanto opportuno incominciare esprimendo un giudizio sugli avvenimenti della giornata. Mi sovviene il titolo di un vecchio libro di Lenin,
Un passo avanti e due indietro. Il passo avanti consiste nel rinsaldarsi
dell’asse franco-tedesco. È un dato tutto politico, ma interessante e rilevante, come si vede dai fatti, anche per noi. È un fatto positivo per
l’Europa. La situazione di stallo che abbiamo vissuto nella politica europea dell’ultimo periodo è in parte dovuta al venir meno di questo
elemento, che è sempre stato, storicamente, un fattore trainante della
politica europea. Il processo di riqualificazione dell’Europa inizia con
la riconciliazione franco-tedesca. Non bisogna esserne invidiosi, al
contrario, siamo lieti che ci sia una ripresa di questa collaborazione
privilegiata. Questo è il passo in avanti.
Il primo passo indietro, tuttavia, è che ciò avviene nel modo sbagliato, ovvero senza fare di questo accordo il punto di partenza per un
coinvolgimento organico degli altri paesi europei, con il rischio che si
generi un sentimento di esclusione a cui può anche legarsi una volontà
di rivalsa. Un tempo, forse, non era così necessario avere la preoccupazione di rispettare la suscettibilità degli altri paesi, perché Germania
e Francia, insieme, erano la maggioranza di controllo dell’Unione Europea. Quando eravamo in sei, Francia e Germania insieme, erano demograficamente, economicamente, politicamente, l’Unione Europea.
Oggi non è così. Se quindi è un bene che rinasca l’asse franco-tedesco,
è preoccupante il modo in cui esso, questa volta, ha dato l’impressione
di escludere altri, di prendere decisioni senza ascoltare tutti e, soprattutto, senza ascoltare l’Italia, poiché, nei momenti migliori, l’asse
franco-tedesco è stato in realtà un triangolo che ha incluso anche il nostro paese. Credo che questo sia un obiettivo che noi dobbiamo perseguire e che sarebbe sbagliato, da parte della diplomazia francese e teRocco Buttiglione è ministro per le Politiche comunitarie.
76
Verso la riforma della Pac
desca, dimenticare che oggi Francia e Germania non sono da sole la
maggioranza dell’Unione. Possono essere messe in minoranza. Non
vorrei, inoltre, che questi comportamenti facessero nascere, con il desiderio di rivalsa, l’idea di creare altri raggruppamenti alternativi, cosa
che renderebbe più difficile il funzionamento della politica europea.
Quindi, è un bene che questo asse sia rinato, è un male il modo in cui
è rinato.
Ascoltando le vostre valutazioni, mi sembra di capire che la politica
agricola europea adesso ha alcune certezze, almeno sull’orizzonte
temporale, ma che il processo di cambiamento e di riforma rischia gravemente di essere rallentato. Non dirò bloccato, e spero che questo
non sia soltanto un augurio, ma certamente rallentato. È opportuno riflettere sul modo in cui l’Italia ha affrontato il tema della riforma delle
politiche agricole, perché sarebbe sbagliato coltivare ostilità per altri,
che decidono senza di noi, quando noi non abbiamo colto l’occasione
di inserirci adeguatamente nei processi decisionali. Su questo, Paolo
Bedoni ha fatto una analisi molto dura. Avrei dovuto rispondere che
non è così, che l’Italia c’è ed è un grande paese, che la politica italiana
non è assente. Non posso invece non riconoscere che abbiamo commesso degli errori e questo ha contribuito al risultato.
Quali sono gli errori commessi? Intanto non li abbiamo commessi
solo noi, è stato un dato di opinione pubblica italiana e di opinione
pubblica europea. A mio avviso, gli agricoltori europei non hanno ancora compreso adeguatamente la svolta epocale davanti alla quale si
trovano le politiche agricole in questo continente. E non avendo chiaro
che esiste una potente minaccia che mina alla base la legittimità e la
possibilità di politiche agricole, hanno ritenuto il piano Fischler come
un attacco al loro reddito, alle loro condizioni di lavoro, alle loro possibilità di crescita, invece di capire che era una linea di difesa, probabilmente la migliore linea di difesa che potesse essere trovata. Una linea di difesa che prevedeva comunque, e giustamente, la possibilità di
chiedere alcune cose e di proporre alcuni cambiamenti. Se ci fosse stato un consenso più forte sul piano Fischler, non solo in Italia ma in
Europa, forse la storia sarebbe stata diversa. Ma la ragione del mancato consenso è che non si è capita la gravità della situazione.
Perché mai dobbiamo avere una politica a favore dell’agricoltura?
Perché sostenere l’agricoltura più o meglio di come si sostengono le
miniere di alluminio o qualunque altra attività economica? Nei Trattati
c’è una base per comprenderlo: l’autosufficienza alimentare, originariamente, fu indicata come una delle finalità dell’Unione Europea e da
lì nasce la specificità della politica agricola comune. Possiamo ancora
fondarla su quella base? È difficile. Va cercata una nuova formulazio-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
77
ne e una nuova legittimazione. Bisogna farlo, a prescindere dall’allargamento; avremmo dovuto farlo anche senza l’allargamento, ce lo
avrebbero imposto i negoziati del Wto. Ma avremmo dovuto farlo anche senza i negoziati del Wto, perché il supporto politico per le politiche agricole, così come sono, si va potentemente indebolendo.
In altri tempi, un paese largamente agricolo sosteneva l’agricoltura
anche per rallentare il flusso migratorio verso gli altri settori. Oggi, le
campagne sono vuote. Quella motivazione non c’è più e l’autosufficienza alimentare traballa come motivazione.
Perché, allora, dobbiamo avere una politica agricola comune? La risposta a questa domanda è la chiave da cui dipende tutto ciò che potrà
avvenire in futuro. Ho l’impressione che alcune possibili risposte
emergano dal dibattito che abbiamo condotto: perché avere un settore
agricolo non direttamente orientato all’autosufficienza alimentare ma
riorientabile, in caso di necessità, in questa direzione, in un mondo pericoloso come il nostro è comunque una cosa importante e positiva;
perché la possibilità di essere presenti sui mercati agroalimentari è un
elemento fondamentale per qualunque tipo di politica estera che un
paese voglia fare (qualche anno fa è stato pubblicato un libro negli
Stati Uniti sul potere agroalimentare, che è una delle forme importanti
di potere nel nostro secolo); perché, infine, costituisce un elemento
fondamentale di tutela dell’ambiente, della salute e del paesaggio.
Aggiungerei anche un altro elemento, poiché non credo che riusciremo a comprendere lo spirito della riforma di Fischler considerandone solo la posizione difensiva. L’altro elemento è che esiste in Europa
un settore agricolo moderno, o capace di modernizzarsi, e capace di
cogliere un’opportunità che si apre sui mercati mondiali. C’è una progressiva differenziazione fra la produzione agricola volta a nutrire e
quella volta a mangiar bene. Un mercato crescente non vuole soltanto
nutrirsi, vuole mangiar bene, vuole un prodotto di qualità, vuole un
prodotto con un’origine tracciabile, perché è preoccupato per la salute. Non toccherò il tema controverso se voglia un prodotto assolutamente non geneticamente modificato o tolleri qualche elemento di
modificazione genetica; certamente vuole un prodotto con qualità organolettiche definite. L’Italia ha una vocazione naturale a primeggiare su questo mercato, benché ciò riguardi oggi soltanto una parte dell’agricoltura italiana. È tuttavia una grande opportunità, che vale anche per le altre agricolture europee. Ritengo allora che il piano Fischler vada inteso nel suo spirito, avendo due preoccupazioni: riaffermare una funzione sociale dell’agricoltura, in termini diversi rispetto al
passato; aiutare l’agricoltura europea a cogliere l’opportunità che ho
appena illustrato.
78
Verso la riforma della Pac
Sul primo punto, sarebbe importante che nella Costituzione europea
la parola “agricoltura” fosse presente, perché questa è la base a cui è
possibile legare, nel futuro, politiche agricole più incisive. Non è facile. Il segnale di oggi non è buono. Anche perché l’esito delle elezioni
in Germania ha dato forza a una posizione politica che vuole eliminare
le politiche agricole, così come le abbiamo conosciute nel passato.
Qualche mese fa, la rivista Die Zeit, ha dedicato un intero numero a
spiegare che di politiche agricole non c’è più bisogno. E questo è un
brutto segnale. Tuttavia, ritengo che la battaglia affinché nella Costituzione ci sia la parola “agricoltura” indichi l’importanza che noi attribuiamo alle politiche agricole, e che si tratta di una battaglia da fare
con possibilità di successo; d’altro lato, bisogna riorientare al mercato.
Il disaccoppiamento è la condizione prima per rientrare nel mercato,
per ridare al produttore la libertà di scegliere quello che vuole produrre, dandogli un sostegno affinché, avviandosi su terreni nuovi e pericolosi, abbia almeno la sensazione di non perdere ogni certezza. Bisogna dare sostegno, e non toglierlo, a chi sceglie di fare qualcosa di
nuovo, magari allontanandosi dai settori produttivi tradizionali. Qualcuno potrebbe avere la voglia di rischiare, allocando risorse su novità
alle quali il mercato potrebbe rispondere bene. Si tratta, allora, di restituire al produttore la libertà della sua scelta imprenditoriale, aiutandolo perché ciò avvenga.
Un altro tema, strettamente connesso al precedente, è la filiera. Per
fare questo, infatti, è necessario avere una filiera, che non è soltanto la
grande distribuzione, è molto di più. La filiera agroalimentare è cultura. Un grande filosofo tedesco, che non rientra tra i miei preferiti, Ludovico Feuerbach, ha scritto una volta che “l’uomo è quello che mangia”. Aveva ragione, non nel senso materialistico in cui egli lo ha sostenuto, ma nel senso che mangiare è un fatto culturale. Andare al
“Crazy Burger” a Roma, locale per giovani, significa mangiare hamburger, cioè identificarsi con alcuni modelli di cultura americani, recepiti anche attraverso quel tipo di alimento. Allo stesso modo, vendere
il prodotto italiano significa rendere presente l’Italia. Creare la filiera
significa allora essere preoccupati anche del cinema italiano, della cultura italiana, dei libri italiani, riuscire cioè a creare un sistema integrale. Per questo ci vuole una politica. Ci stiamo provando.
Riconosciamo lealmente dove abbiamo incassato una mezza sconfitta, perché io credo che il risultato odierno sia una mezza sconfitta, ma
abbiamo la testa dura. I Ministri di questo Governo hanno grande determinazione e questa politica la vogliono costruire.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
79
L’ORIGINE DEI
PRODOTTI
Le opinioni degli italiani
sull’alimentazione *
Renato Mannheimer
Vorrei illustrarvi i risultati di una ricerca piuttosto ampia, svolta per
la Coldiretti, in merito alle opinioni degli italiani sull’alimentazione.
Sono molto grato alla Coldiretti per questo incarico, poiché ritengo
che i risultati del lavoro siano stati davvero interessanti.
In primo luogo, vediamo quali sono gli atteggiamenti nei confronti
dei principali attori, iniziando da quanta fiducia ripongono le persone
nei diversi luoghi di acquisto dei prodotti alimentari. C’è una fiducia
notevole verso i supermercati e la grande distribuzione, ed è una cosa
importante. La grande distribuzione assume, nel nostro paese, un rilievo sempre maggiore, anche come certificatore, cioè come garante della qualità del prodotto che mette in vendita. Non si può dire che sia un
ruolo nuovo, ma viene attribuito in misura sempre maggiore alla grande distribuzione più che alla distribuzione tradizionale. Naturalmente
c’è anche fiducia nella piccola distribuzione e nei mercati rionali. La
maggior fiducia nei supermercati, nella grande distribuzione, si registra ovviamente da parte di coloro che risiedono nelle grandi città. È
interessante notare che, invece, ripongono fiducia nei mercati rionali,
relativamente più della media, le persone con alto livello di istruzione.
La ragione di questo dato risiede nella ricerca della qualità, nell’origine naturale che costoro trovano, o credono di trovare, nei mercati rionali. Ritorneremo sull’importanza di questo elemento.
Abbiamo posto una domanda sui consumi; si tratta, in questo caso,
di percezioni soggettive di consumo. Il campione di intervistati è vastissimo, per esattezza abbiamo raccolto 4.897 interviste tra il 13 e il
15 settembre, ma non è solo l’ampiezza del campione che conta, conta
anche la qualità con cui è estratto; anche nei sondaggi c’è la qualità…
Vediamo i risultati: il 78% consuma abbastanza, cioè più o meno regoRenato Mannheimer è presidente dell’Ispo.
* Ricerca svolta per Coldiretti.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
83
larmente, prodotti di origine controllata, meno prodotti biologici, meno prodotti equo-solidali - sebbene, per questi ultimi, bisogna sottolineare che aumenta l’attenzione e che si tratta di un consumo in crescita, e vedremo da parte di chi - ancora meno i prodotti geneticamente
modificati, sui quali le persone sanno pochissimo. In realtà, può capitare di consumare inconsapevolmente prodotti geneticamente modificati, presenti come ingredienti in altri generi alimentari: ad esempio la
soia nei gelati; ma io stesso sono poco informato su questo e direi che
c’è scarsa consapevolezza in generale.
Tornando ancora sulla crescita dell’attenzione verso i prodotti equosolidali, registrata da tante ricerche, questo atteggiamento può essere
paragonato o assimilato al generale aumento d’interesse, in tutti i campi, verso l’immagine equa delle aziende, verso la loro positiva reputazione. C’è quindi sempre più attenzione da parte dei consumatori, e
specialmente dei giovani, verso l’equità, l’onestà, il comportamento
corretto; di conseguenza, la buona reputazione di un’impresa è un elemento di grande importanza per vendere i propri prodotti.
Vorrei tuttavia soffermarmi più a lungo sul consumo dei prodotti
agricoli alimentari. Abbiamo chiesto quali elementi contribuiscono di
più all’aumento di fiducia: in primo luogo l’etichetta, poi contano il
marchio, la marca. L’etichetta contiene informazioni, e dal sondaggio
emerge chiaramente la voglia di informazione, di certificazione; la
gente vuole conoscere l’origine del prodotto, vuole sapere come viene
fatto. Sapere di più corrisponde per le persone ad una garanzia di maggiore qualità.
Sui prodotti agricoli e alimentari in generale, si può dire che in linea
di massima la gente è contenta. Anche questa è ovviamente una percezione soggettiva, ma poteva anche risultare una percezione di peggioramento della qualità, come avviene spesso per altri prodotti. Al contrario, in questo caso c’è una percezione di miglioramento per il 40%
degli intervistati, mentre solo il 15% avverte un peggioramento. L’idea
prevalente è che i prodotti agricoli e alimentari italiani non solo siano
buoni, ma siano anche migliorati. Il 55% esprime un giudizio positivo,
ottimo o buono, sulla qualità della produzione agricola italiana, in termini di genuinità, affidabilità e garanzia. Si tratterà adesso di capire
cosa vuole in più la gente per ritenersi maggiormente soddisfatta.
Approfondiamo il tema della qualità e dell’origine italiana. Alla
gente piace l’idea del prodotto italiano, ma non sempre risulta chiarissima l’origine italiana di un prodotto. Abbiamo allora chiesto agli intervistati se fossero disposti a pagare qualcosa in più per essere certi
dell’origine italiana. Il 47% ha risposto di sì. In questa sede sono presenti tanti produttori italiani che possono esserne contenti, ma il fatto
84
Le opinioni degli italiani sull’alimentazione
che la gente si dichiari disposta a pagare non garantisce che dopo lo
farà. Tuttavia è una intenzione, è un atteggiamento e gli atteggiamenti
sono molto importanti dal nostro punto di vista; ciò significa, infatti,
che c’è una previsione positiva. Il 56% si è dichiarato disposto a pagare meno del 5% in più, il 37% tra il 5 e il 10% in più, il 7% si è dichiarato eroicamente disposto a pagare oltre il 10% in più: la media ponderata di queste maggiorazioni di prezzo che gli intervistati sarebbero
disposti pagare è pari al 5,7%. Chi si dichiara disposto a pagare di più
per la certificazione della qualità di un prodotto ha in genere un livello
di istruzione elevato, e questa è una cosa importante.
Per quanto riguarda l’etichettatura, abbiamo chiesto in primo luogo
se fosse ritenuto sufficiente a garantire la qualità degli alimenti l’attuale sistema di controllo basato su enti certificatori - che garantiscono appunto la qualità di alcuni prodotti - riconosciuti dallo Stato e
dalla Comunità europea. In effetti, la gente sembra avvertire questa
problematica, ben nota agli addetti ai lavori, come qualcosa di complicato. Lo si deduce chiaramente dall’alta frequenza della risposta
“non so”, data dal 32% degli intervistati. Tra coloro che invece provano a dare una risposta, la maggioranza relativa, il 37%, dice di no,
cioè afferma di non ritenere sufficiente l’attuale sistema di certificazione e di volere maggiori informazioni. Su che cosa? Abbiamo suggerito alcuni elementi: le modalità d’uso, i valori nutrizionali, gli ingredienti presenti nel prodotto, le modalità di conservazione, eccetera. Per ciascun elemento è stato chiesto se le informazioni presenti
sulle etichette fossero ritenute sufficienti o meno. Hanno risposto
“molto” e “abbastanza” - sono due risposte assimilabili - circa il 58%
per le modalità d’uso, il 57% per il valore nutrizionale, il 57% anche
per gli ingredienti, il 52% per le modalità di conservazione, il 42%
per l’origine e la provenienza, ed il 49% per la qualità complessiva.
Tra le percentuali rilevate, il 42% sull’origine e la provenienza è l’unica inferiore alla percentuale di quanti (sono il 44%) dichiarano, invece, poco o per nulla sufficienti le informazioni presenti in etichetta.
L’origine e la provenienza sono quindi gli elementi sui quali è stato
rilevato il minor grado di soddisfazione, e questo può darci delle idee
e delle indicazioni.
Lo ribadiamo, la gente è molto interessata a conoscere la provenienza di un prodotto, si dichiara disposta a pagare di più per avere informazioni più complete e ritiene che tali informazioni non siano, allo
stato attuale, sufficientemente presenti in etichetta. In particolare, sull’origine e la provenienza, risultano essere poco soddisfatte le persone
laureate. Permettetemi di dire, bonariamente, che è noto che i laureati
si lamentano di tutto, ma sono anche disposti a parlare molto di più,
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
85
non si sottraggono a nessuna domanda, rappresentano dunque un buon
indicatore.
Sempre in merito all’etichetta, abbiamo chiesto quali informazioni
sono ritenute più importanti: in primo luogo la data di scadenza, poi
l’elenco degli ingredienti. Elementi sulla cui utilità si potrebbe discutere a lungo, ma la gente si sente rassicurata dalla loro presenza. A seguire, c’è l’origine del prodotto, e persino l’origine della materia prima contenuta.
Alla domanda più generica, di conferma, se venga o meno ritenuta
importante l’indicazione dell’origine in etichetta - nei sondaggi bisogna dare pari opportunità alle varie risposte - la maggioranza assoluta,
il 36% più il 41%, dichiara rispettivamente molto o abbastanza importante che sia specificata sull’etichetta l’origine del prodotto alimentare. Sempre sullo stesso tema, come ulteriore domanda di conferma,
abbiamo chiesto se un’etichetta che riporti il luogo di origine delle
materie prime che compongono il prodotto debba essere obbligatoria e
il 70% ha risposto di sì. Inoltre, prima, avevamo chiesto se si era disposti a pagare di più per essere certi che l’origine del prodotto fosse
italiana, adesso più in generale se si era disposti a pagare di più per
conoscere l’origine delle materie prime presenti nel prodotto. Anche in
questo caso, per avere un’idea delle intenzioni dichiarate, il 46% ha risposto di sì, contro un 33% di no.
Vorrei approfondire adesso il tema degli Ogm, prima di proporvi
una breve sintesi generale. Sugli Ogm c’è ignoranza e diffidenza. Abbiamo posto una domanda articolata, sui motivi per i quali la gente li
consuma o, al contrario, sceglie di non consumarli. Non entro nel merito delle singole risposte e considero piuttosto l’indicazione generale.
Se vengono chieste le ragioni per le quali si dà una risposta positiva,
cioè il perché gli Ogm si possano consumare, il 57% delle persone
non sa indicare nessuna ragione; se invece vengono chiesti i motivi
per cui la gente non li consuma, il 63% degli intervistati ne adduce almeno uno. Questo è un indicatore di un generale atteggiamento di diffidenza: anche se la gente non sa bene cosa siano gli Ogm, ritiene che
facciano male. Tra coloro che esprimono ragioni positive, la maggioranza relativa ritiene che nei prodotti Ogm vengano usati meno pesticidi o che costino meno; tra le ragioni negative, le risposte più frequenti riguardano la mancanza di fiducia nella loro qualità e proprio il
fatto che non conoscendoli, la gente ne diffida. Tanto è vero che, non
essendoci la conoscenza, la gente vuole che in etichetta ci sia scritto se
sono presenti o no Ogm. Alla domanda se questa informazione dovrebbe essere obbligatoria in etichetta, “no” viene risposto soltanto dal
3% degli intervistati, “sì” dal 65% e poi c’è un 27% di “non so”, che è
86
Le opinioni degli italiani sull’alimentazione
una percentuale elevata e si ritrova in quasi tutte le domande relative
agli Ogm, a ulteriore dimostrazione del fatto che le persone ne sanno
veramente poco. Naturalmente la percentuale di persone che vorrebbe
l’etichetta obbligatoria per tutti i prodotti aumenta tra i soggetti responsabili degli acquisti.
Anche in questo caso è stato chiesto se si era disposti a pagare di
più. La risposta a tale domanda è un buon test, perché pagare di più è
qualcosa che coinvolge in prima persona. È risultato che per avere un
prodotto in cui sia scritto in etichetta che non ci sono gli Ogm, dato
che di essi non si fida, la gente è disposta a pagare di più, lo hanno
detto il 31% degli intervistati. Solo apparentemente il 31% può sembrare una percentuale bassa. Infatti, sebbene sia inferiore ad altre percentuali che abbiamo visto sulla disponibilità a pagare di più, ciò è dovuto al fatto che una grande quantità di persone, il 27%, dice di non
saperne nulla e di non sentirsi in grado di rispondere. Se quindi non
consideriamo questa categoria, la percentuale di persone disposte a pagare di più risulta in linea con le precedenti, tant’è vero che la media
ponderata della maggiorazione di prezzo che si è disposti ad accettare
è sempre poco più del 5%, come negli altri casi: lo ricordiamo, era il
5,7% nel caso della qualità e dell’origine italiana del prodotto, era il
5,5% nel caso dell’origine della materia prima, ed è il 5,9% nel caso
dell’assenza di Ogm.
In conclusione, riassumo i punti principali emersi da questa ricerca,
che traccia un quadro indicativo sugli italiani e l’alimentazione: grande stima nei prodotti agricoli italiani, anzi stima crescente; diffidenza
nei confronti degli Ogm, oltre a notevole mancanza di conoscenza, ma
soprattutto diffidenza, dalla quale dipende la disponibilità a pagare pur
di essere protetti; voglia di certificazione e di garanzia, evidenziata anche dalla fiducia riposta nella grande distribuzione quale garante di
qualità.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
87
Qualità: il consumatore
la percepisce?
Daniele Tranchini
Il mio intervento intende approfondire il tema introdotto dal professor Mannheimer, con un’analisi basata non tanto sui numeri, ma sulle
percezioni e sui comportamenti. Vorrei che provaste ad identificarvi
con i consumatori e a riflettere su come voi stessi vi rapportate con il
tema della qualità, nella vita di tutti i giorni. Cercherò di mostrarvi
quanto sia, in realtà, articolato il tema della qualità. Il professor
Mannheimer si è soffermato a lungo sull’etichetta; io invece, visto
anche il mio mestiere, parlerò di marca, anche per completare il quadro sul grande tema della qualità e del rapporto del consumatore con
il cibo.
In particolare, cercheremo di capire cosa significhi “qualità” nell’alimentazione, in termini di percezione, più che in termini quantitativi.
È una differenza da tenere presente, anche perché, in base ad essa, rivisiteremo alcuni punti già indicati dal professor Mannheimer. Ci
chiederemo chi sono i garanti della qualità, quali sono i target di riferimento, qual è il ruolo dei diversi prodotti; giacché il concetto di qualità cambia in funzione dei prodotti con i quali il consumatore si rapporta. Ci chiederemo, inoltre, qual è il ruolo della marca e quale il ruolo dei marchi di garanzia, e infine cercheremo di trarre qualche conclusione.
Cos’è la qualità? Dipende. Per esempio, dipende dalla tipologia di
prodotto. Il concetto di qualità è molto più importante se è legato ad
una buona bottiglia di vino piuttosto che ad un pacchetto di caramelle
o a un dado da brodo, proprio per il diverso ruolo che svolgono questi
prodotti nell’alimentazione quotidiana. Dipende, anche, dalla forza
della marca, dal sedimento che ogni marca lascia nella testa del consumatore e dipende, ancora, dal portato culturale che ha un prodotto. Se
prendiamo, ad esempio, due prodotti a base di pasta, potremo facilDaniele Tranchini è presidente e amministratore delegato della J. W. Thompson Italia.
88
Qualità: il consumatore la percepisce?
mente constatare che sul piano culturale un piatto di ravioli, per noi, è
molto più importante di un piatto di noodles cinesi. Allo stesso modo,
se consideriamo due limoni, uno dei quali serve a insaporire il pesce e
l’altro - che in realtà è un lime - a fare la caipirinha ci accorgeremo
che, pur essendo la stessa cosa, hanno un ruolo molto diverso. All’interno della nostra stessa cultura alimentare, un piatto di pasta ha un
ruolo differente rispetto ad una scatola di sardine, senza nulla togliere
alla scatola di sardine e senza nemmeno troppo enfatizzare il piatto di
pasta: è esclusivamente un fatto culturale. La pasta non la mangiamo
più tutti i giorni, ma senz’altro con una frequenza maggiore di quanto
non consumiamo sardine.
Dipende, ancora, dal momento storico e dipende dai processi scientifici, peraltro in continua evoluzione. Basti citare il caso degli Ogm, o
di altri fenomeni che, a seconda dello sviluppo scientifico, prima sembrano buoni e poi diventano cattivi, o viceversa.
Dipende dal ruolo dietetico del prodotto: un paniere di frutta e verdura ha un portato qualitativo ben diverso da quello di un cheesburger,
eppure consumiamo entrambi e ci rapportiamo ad entrambi. Dipende,
certamente, anche da eventi contingenti e dal loro impatto sul nostro
percepito di qualità, cito solo il caso “mucca pazza”.
Chi sono i garanti della qualità? Ce ne sono stati tradizionalmente
due: l’industria e il territorio. Ne emerge un terzo, al quale faceva riferimento anche il professor Mannheimer: le grandi insegne, le quali si
ergono, spesso e volentieri, a baluardo del consumatore nei confronti
di molti temi relativi alla qualità. In fondo, la grande insegna è il filtro
ultimo, prima dell’atto di acquisto, che c’è fra i produttori, siano essi
industriali o del territorio, e il consumatore. Le grandi insegne, quindi,
emergono e si vanno sempre più posizionando come marche. Il fatturato, è noto, si fa con le offerte, con i “tre per due”, ma l’insegna si posiziona sostanzialmente su due grandi temi: il servizio e la qualità offerta al consumatore. In questo, l’insegna svolge un ruolo analogo a
quello di ogni altra grande marca. Basta guardare con attenzione la
pubblicità e i prodotti pubblicizzati, per identificare tre aree attraverso
le quali le insegne portano valore aggiunto al consumatore: i prodotti
“locali”, legati al territorio; i prodotti equo-solidali, che rappresentano
un altro tema particolarmente presente in questo momento, e tutto il
fenomeno del biologico.
Spostiamoci ora dalla parte del consumatore. Cambiano le abitudini,
cambia la cultura alimentare; il consumatore è molto più evoluto di
quanto non fosse un tempo e si moltiplicano le sue aspettative nei confronti dell’alimentazione. Si può affermare che il consumatore sta imparando a fidarsi molto più di se stesso che di chiunque altro. Basti
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
89
considerare l’evoluzione degli stili alimentari. Riprendo le definizioni
di stili alimentari proposti da Eurisko Sinottica e ancora in uso: “funzionale”, “attento”, “emulativo”, “equilibrato”, “conservatore”, “sostanzioso”, “giovanile”, “povero”. Ed ecco quali termini si associano
oggi alla definizione degli stili alimentari, citando da un articolo che
Giampaolo Fabris, della Gpf&Associati, ha scritto qualche tempo fa
per la Repubblica: il gioco, il ritrovarsi, il primato del sapore, i sensi,
ovvero anche l’occhio vuole la sua parte; l’esplosione dell’etnico, gli
alimenti autoctoni, il prodotto-servizio ma con gusto, la via maestra
per il benessere, che continua ad essere un tema dominante; il freschissimo e naturale, che sta per biologico; e ancora i cibi status simbol, due in particolare vengono citati in questo articolo, come emblemi: la rucola e il sushi. C’è evidentemente oggi un approccio all’alimentazione molto articolato e questo significa che c’è dietro un consumatore che richiede un’articolazione maggiore.
Tra gli altri fenomeni di consumo, si può ricordare l’esplosione degli agriturismo. Riporto alcuni dati, tratti da indagini della Coldiretti:
più di 10.000 aziende, più di 130.000 posti letto, quasi 2 milioni di visitatori. Inoltre, il fenomeno dell’agriturismo è legato anche all’acquisto e al consumo di prodotti del territorio. Si possono ricordare ancora,
come fenomeni in crescita, lo slow food - è adesso in corso a Torino il
Salone del gusto - e l’etnico: il Pappamondo è una guida sui ristoranti
etnici, la prima, su Milano, è stata pubblicata all’inizio di questo secolo, il XXI, quindi è molto recente.
Ci sono poi altri eventi - Ogm, “mucca pazza”, diossina, ecc. - che
colpiscono il consumatore lasciandolo frastornato e lo spingono a cercare un nuovo rapporto con la qualità.
Quest’ultimo dipende dal target di consumo, dalla tipologia di prodotto e dalla situazione. Per quanto riguarda il target di consumo, e facendo riferimento alle fonti di approvvigionamento, si può dire che se
il prodotto di cui ho bisogno è per un bambino piccolo, tenderò ad acquistare un prodotto dell’industria, un omogeneizzato che offre una
certa garanzia sulla presenza delle giuste componenti di vitamine e di
elementi nutrienti. Se il prodotto è per un teen-ager, con buona probabilità andrò in un fast food; se, infine, il prodotto è per me, andrò in un
agriturismo a cercarmi un olio di prima spremitura. Si tratta di esempi,
per dire che, a seconda di quello di cui ho bisogno, il mio rapporto con
la qualità si modifica e si adegua per soddisfare le diverse esigenze.
Analogamente, riguardo alla tipologia, se i prodotti sono elaborati,
complessi oppure sono prodotti di servizio tendo a fidarmi dell’industria, perché offre alcune garanzie e sicurezze. Se invece ho bisogno di
prodotti “commodity” - come la pasta, il vino o l’olio - tenderò ad an-
90
Qualità: il consumatore la percepisce?
dare sul territorio perché, nella mia percezione, il territorio soddisfa
forse meglio le mie esigenze.
Altre cose dipendono dalla situazione: se esplode un altro caso tipo
“mucca pazza”, tenderò probabilmente a fidarmi delle garanzie fornite
da un processo industriale; nel caso invece degli Ogm, mi fiderò più
del territorio che dell’industria.
Il rapporto con la marca rimane inalterato; compro un prodotto di
marca perché, alla fine, la marca rappresenta forse la migliore garanzia, come dimostrano il fallimento dei prodotti unbranded in Italia ed
il continuo emergere di nuove marche quali i marchi di garanzia.
Sul tema dei marchi di garanzia, per farsi rapidamente un’idea è sufficiente navigare in internet. Porto quattro esempi: “Nasce Euro-Logo,
il marchio Doc per chi acquista su internet”, dal sito della Confcommercio; “Alimenti, un marchio Doc per garantirne la sicurezza”; una
frase del Ministro Alemanno: “Marchio Doc anche per i ristoratori italiani all’estero”; un panettone sardo, col marchio Doc. L’esempio più
divertente e originale che ho trovato è: “Totò, marchio doc”, basta visitare il sito www.totodoc.it. Utilizzando il motore di ricerca Google e
inserendo come parametri di ricerca sull’intera rete mondiale solo i
termini “marchio doc” - escludendo quindi docg, igt, dop, igp ecc. sono emersi ben 15.700 risultati.
I marchi di garanzia, è tautologico, sono dei garanti. Ci siamo chiesti chi fossero i garanti della qualità nei confronti del consumatore;
senz’altro i marchi di garanzia possono esserlo e possono essere dei
potenti strumenti di comunicazione e di qualità. Tuttavia, bisogna fare
attenzione, nel senso che essi vanno gestiti come ogni altra marca, ovvero con accortezza per preservarne il valore. Ciò significa: costruire
un dialogo col consumatore, significa riempire i marchi di valore e significa sostenere l’immagine di questi marchi con consistenza. Ho voluto sottolineare l’ampiezza del risultato della ricerca su internet 15.700 riferimenti individuati - proprio perché ritengo sia necessario
fare attenzione a che i marchi non si svalutino per troppa inflazione.
Se si svaluta il marchio di garanzia, se viene elargito il simbolo con
troppa generosità, perde il suo valore di discriminante di qualità, si banalizza e finisce col non essere più né un potente strumento di garanzia né un potente strumento commerciale.
Un quarto possibile attore che va emergendo, nella relazione con il
consumatore in merito alla qualità, è costituito dai consorzi produttivi,
che rappresentano forse i depositari principali dei valori dei marchi di
garanzia. Ci sono in Italia diversi esempi di come un consorzio possa
gestire il marchio, rappresentandolo come se si trattasse di una marca e
dotandolo quindi di valori rilevanti nella percezione del consumatore.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
91
Prima di concludere, ricordo i principali punti trattati: la qualità dipende da una serie di fattori; ci sono molteplici garanti di questa qualità, per quanto riguarda la percezione del consumatore; quest’ultimo
incomincia ad imparare a districarsi e a fare da solo le sue selezioni.
Uno dei fenomeni emergenti è senz’altro il “back to basics”, basta
aprire una rivista qualunque per capire quanto sia presente la ricerca di
un “ritorno alle origini”, di un “ritorno alla vita semplice” o ad un particolare “rapporto con la natura”. Back to basics, evidentemente, anche nei confronti dell’alimentazione. Il tema della sofisticazione dei
prodotti è ormai un tabù, è completamente rifiutato. Si potrebbe aggiungere che la qualità in sé non è più un elemento sufficientemente
discriminante nell’offerta di prodotti al consumatore; la qualità è diventata una conditio sine qua non, senza la quale il consumatore non ti
prende nemmeno in considerazione. È strano questo rapporto con la
qualità: non se ne può fare a meno e tuttavia non è condizione sufficiente per creare scelta di marca, o, per lo meno, non lo è più. Ogni attore di questa filiera - sia esso l’industria, il consorzio, l’insegna o il
territorio - diventerà interessante, nella percezione del consumatore,
per quella parte di offerta rilevante in quel dato momento o nella particolare situazione alimentare.
Vorrei ribadire che la marca, di qualunque origine - sia essa un marchio di garanzia, una marca industriale o l’agriturismo in Toscana, anch’esso per certi versi è una marca - resta forse la migliore sintesi di
garanzia qualitativa, proprio perché la marca è “il nome e cognome”.
Così come il nome e cognome di ognuno di noi rappresenta noi stessi
e i nostri valori, il nome e cognome della marca rappresenta i valori di
quella marca.
Concludo, prendendo a prestito una terminologia mediatica e indicando il principio del palinsesto alimentare, che è forse la sintesi ultima del rapporto che il consumatore ha con la qualità e del modo in cui
la percepisce. Giriamo i canali televisivi, “facciamo zapping”, in funzione dei nostri desideri e delle nostre aspettative nei confronti del
mezzo che ci sta di fronte: a seconda che vogliamo informazione, intrattenimento, o vedere un film. Il consumatore si sta comportando più
o meno nello stesso modo nel suo rapporto con il mondo dei prodotti e
degli acquisti alimentari, con un approccio molto più critico e con una
capacità molto superiore, rispetto al passato, di discriminare e scegliere le soluzioni migliori per se stesso. Si potrebbe dire che il consumatore ha un approccio molto “laico” alle offerte che gli giungono dalle
varie fonti di approvvigionamento; non solo laico ma anche disincantato rispetto a quelle stesse fonti. In altre parole, il consumatore sa cosa vuole, sa dove andarselo a comprare, ha imparato - o sta imparando
92
Qualità: il consumatore la percepisce?
- a leggere le etichette, e sta quindi sviluppando anche una cultura tecnica sui temi della qualità. L’approccio dei diversi interlocutori - siano
essi l’industria, il consorzio, il territorio o l’insegna - nei confronti di
questo consumatore diventa forse la parte più importante dell’offerta
commerciale.
Non ci sono da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, lo ribadisco:
oramai la qualità è una conditio sine qua non per tutti; l’importante è
rendersi conto che il consumatore discrimina molto più di prima.
Nessun elemento di questa filiera può pensare di detenere, in maniera
assoluta, il monopolio della relazione con il consumatore in merito
alla qualità. È quindi necessario lavorare sulla qualità per garantirsi il
biglietto d’ingresso ad una relazione commerciale sempre più complessa.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
93
L’Autorità europea
per la sicurezza alimentare:
quali considerazioni
per i prodotti tipici italiani
Giorgio Calabrese
Ritengo importante l’opportunità di trovarmi in un consesso di così
alto livello scientifico, per la prima volta dopo che è stata creata la
European Food Safety Authority - Efsa. Da nutrizionista e medico, ho
ascoltato con interesse gli interventi, di taglio sia scientifico sia sociologico, dei relatori che mi hanno preceduto. Mi hanno dato spunti
di riflessione e noto che, finalmente, siamo tornati a parlare di qualità. Ciò significa, almeno in teoria, che non abbiamo più paura della
mancanza di sicurezza degli alimenti. L’insicurezza, in questo momento, sembra essere sotto controllo emotivo. Sembra in ripresa anche la fiducia dei consumatori, e mi riferisco ai consumatori dell’Unione Europea, non soltanto a quelli del nostro paese, che rappresentano il punto di riferimento principale, insieme ad altri due o tre paesi
mediterranei, per misurare la qualità e la salubrità di un cibo.
Abbiamo esigenza di liberare la circolazione degli alimenti; abbiamo bisogno di inserire nella nostra alimentazione cibi salubri, che
contribuiscano a rendere attendibile un nuovo concetto, che la società
sta recependo: la longevità. I medici e i nutrizionisti sanno che vivere
più a lungo non è importante, se non aggiungiamo vita ai giorni e ci
limitiamo invece ad aggiungere giorni alla vita. La sicurezza e la fiducia del consumatore non sono dovute al caso, esse possono emergere in una situazione di normalità, e si consolidano tramite la ripetizione, l’abitudine.
Per garantire la sicurezza alimentare sono necessarie regole precise
Giorgio Calabrese è professore di Alimentazione e nutrizione umana all’Università Cattolica di
Piacenza e membro dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare.
94
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare: quali considerazioni per i prodotti tipici italiani
ed una organizzazione definita. In questo momento, a Bruxelles c’è
l’Efsa, e auspico che questa sigla venga presto ricordata da chi riflette
su questi temi. In Italia, ci sarà una sua gemella che si chiamerà Autorità europea per la sicurezza alimentare, Aesa.
Che cosa fanno l’Efsa e, in sott’ordine, l’Aesa? Offrono una consulenza, un’assistenza scientifica e tecnica per la normativa nell’Unione
Europea e in tutti i campi in cui si crea un’incidenza - sia essa diretta,
indiretta o trasversale - sulla sicurezza degli alimenti, ma anche dei
mangimi.
L’Efsa raccoglie e analizza dati che consentono di caratterizzare e
sorvegliare i rischi che hanno un’incidenza diretta o indiretta sulla sicurezza alimentare. Non avrebbe senso avere una così alta Authority
europea per la sicurezza alimentare, se non incidesse veramente sulla
sicurezza della salute. Prima ancora della Bse, abbiamo avuto un problema di diossina, abbiamo avuto bevande gassate insalubri, per fortuna non letali ma non per questo meno dannose, nel tempo, sulla salute. È quindi certamente necessario caratterizzare la qualità di un alimento, ma sempre dopo aver garantito la sicurezza alimentare, cioè la
sua salubrità.
Mantenere male, in modo non igienico, un prodotto alimentare significa non soltanto procurare malattie alle persone, ma soprattutto
diminuire il valore dell’azienda che su quell’etichetta, sulla salubrità
e l’igiene di quel prodotto, aveva giocato il proprio nome, il proprio
guadagno ed il proprio sviluppo.
Se dovessimo dichiararci certi che il fondamento tecnico-scientifico
della normativa comunitaria in materia di sicurezza alimentare sia
sufficiente al conseguimento di un’elevata tutela della salute della
collettività, ci troveremmo spesso in una situazione di insicurezza
psicologica. Per quale ragione? Perché, in effetti, ci rendiamo conto
che quando andiamo in un ristorante vietnamita, o di qualunque altra
nazione, e mangiamo quindi cibi nuovi, diversi, nessuno di noi, in
cuor suo, è sicuro al cento per cento di mangiare un cibo igienicamente perfetto. È un elemento che va sottolineato e che vale a livello
comunitario, non solo per l’Italia. In questo momento parlo, infatti, a
nome di una Authority europea per la sicurezza alimentare, che deve
tutelare un consumatore appartenente alla nuova nazione Europa, oggi composta da quindici paesi, tra poco da venticinque, e che deve
dunque avere un’elevata indipendenza ed efficienza e garantire la sicurezza e la qualità, a prescindere dal luogo di provenienza del cibo.
Le questioni scientifiche e tecniche che riguardano la sicurezza alimentare sono diventate sempre più complesse. Se consideriamo, ad
esempio, il caso della Bse, basta ricordare che essa ha messo in crisi
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
95
prima una nazione, poi una parte d’Europa, poi tutta l’Europa e oggi
tutto il mondo. Il problema, all’inizio, era se avevamo gli animali ammalati; pochi se ne rendevano conto e ancor meno si rendevano conto
dell’incidenza sulle persone. Come scienziato e medico, non potrei
dirvi oggi, con sicurezza, che la Bse abbia provocato l’insorgenza
della variante giovanile; so, tuttavia, che la nostra scienza sta indagando. La risposta è appunto la creazione dell’Efsa.
Ci siamo insediati da appena un mese e mezzo, sono membro del
Consiglio di Amministrazione, e abbiamo attualmente il compito di
formare i panel scientifici; ci sono già il presidente, due vicepresidenti e un direttore generale, molto bravo, dal quale ci si attendono ottimi risultati. Questo discorso è fondamentale, perché da qui proviene
la formazione a cascata di Authorities in ogni paese, che dovranno interagire con gli otto panel che stiamo formando. Avremo gruppi di lavoro che si concentreranno solo sugli Ogm, o solo sul biologico, o solo sul rapporto qualitativo degli additivi ecc.; ciò vuol dire che ci sarà
una task force in grado di intervenire immediatamente a favore dei
consumatori; in grado di porsi come punto di riferimento scientifico
indipendente - ci tengo a sottolinearlo - in grado di valutare il rischio
e di contribuire a garantire il regolare funzionamento del mercato interno.
Nel titolo del mio intervento, mi riferivo al rapporto tra Authority
europea per la sicurezza alimentare e prodotti tipici. In effetti, non
possono esserci solo sicurezza e salubrità in un cibo; esso deve risultare anche appagante per il palato, altrimenti ne facciamo un farmaco.
Nel cibo devono coniugarsi sicurezza, qualità e palatabilità. L’Efsa è
attenta alle diverse esigenze dei consumatori, non a caso, uno dei due
vicepresidenti è una rappresentante dei consumatori stessi. L’Efsa è
quindi dalla parte dei consumatori senza essere, sia chiaro, contro i
produttori. Desideriamo mantenere un equilibrio: pertanto, non si faranno nascere scandali alimentari senza che ci siano basi scientifiche
riscontrate con certezza. Mi è capitato di sentire persone con poca
competenza, e per fortuna in ambienti di livello non elevato, avanzare
dubbi con leggerezza. Il dubbio va diffuso solo quando c’è chiarezza
scientifica. Altrimenti, il dubbio apparterrà solo alla scienza che indaga. L’Efsa agirà su questo tipo di percorso, aiutando più che giudicando, ed è perciò che si sente vicina ai consumatori.
Le organizzazioni dei consumatori saranno un punto di riferimento
del nostro lavoro, anche perché, dall’altra parte, i produttori avranno
la sicurezza di essere giudicati da gente che, tramite un intermediario,
può mostrare il proprio apprezzamento.
La tipicità ha bisogno di una carta d’identità. La Coldiretti in primo
96
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare: quali considerazioni per i prodotti tipici italiani
luogo, ma anche altre organizzazioni italiane, hanno dato segnali di
adesione al concetto di tracciabilità. Che cos’è la tracciabilità? È la
possibilità di sapere da quale seme è nato sulla terra, o in altro ambiente di tipo agricolo o comunque simile, un frutto, una carne, un
pesce o quant’altro. Noi, oggi, siamo in grado di fare questo, sebbene
non ancora per tutti i prodotti. L’esigenza di voler sapere ciò che si
mangia, che può apparire banale, è invece diventata un’esigenza irrinunciabile, in seguito ai noti eventi che sono stati deleteri non solo
per la salute ma anche per la fiducia del consumatore.
Naturalmente servono risorse finanziarie. I soldi saranno necessari
per poter dare la sicurezza ai consumatori, altrimenti non ce la faremo. I consumatori devono essere consci che c’è qualcosa che sta capitando, per motivi economici, che non garantirà la possibilità di dare
a tutti i cibi tracciabilità. È tuttavia un problema che riguarda non tanto l’Italia o l’Europa del sud o del nord, è un problema che riguarda il
mondo. Oggi in Italia mangiamo quasi più cinese che italiano e non
sappiamo esattamente cosa siano questi cibi cinesi. In Cina ci sarà sicuramente maggior rispetto dei prodotti, ma da noi, o in Inghilterra,
in Francia, in Germania e quant’altro, c’è il rischio che arrivino prodotti di risulta.
Ci sono situazioni che devono essere chiarite e che devono arrivare
a garantire sicurezza. Ecco perché servono la consulenza e l’assistenza scientifica e tecnica fornite dall’Efsa.
È stato toccato il tema della maggiore sicurezza degli alimenti venduti nei supermercati. Certamente è così. Ma dobbiamo pensare anche alle categorie svantaggiate, ad esempio agli anziani che non sono
in grado di guidare e andare nei supermercati e che, tuttavia, hanno
diritto come gli altri ad avere garanzie di sicurezza e qualità. È un’altra questione da affrontare. La nostra Authority discuterà anche di
queste cose; l’Efsa non è solo una sede in cui vengono notificate le
situazioni. Abbiamo, ad esempio, un sistema di allarme rapido: l’Efsa
è infatti il destinatario dei messaggi che transitano per il sistema di
allarme rapido, dei quali analizza il contenuto al fine di fornire alla
Commissione europea e a tutti gli Stati membri le informazioni necessarie all’analisi del rischio. Diventa, pertanto, fondamentale che
anche in ogni singola nazione ci siano queste agenzie. Alcune nazioni
le hanno già istituite, altre non ancora, ma siamo quasi tutti pronti. Si
porranno certamente tanti problemi, tuttavia ritengo indispensabile
che si arrivi a poter garantire la sicurezza. Altrimenti, discuteremo
soltanto, e più o meno inutilmente, di Ogm o di biologico, sapendo
che troveremo sempre detrattori o fautori. La cosa più importante, in
questo momento, è invece la sicurezza. Non dimentichiamo, per por-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
97
tare un esempio che ci riguarda da vicino, che abbiamo una bistecca
fiorentina in sospensione, che ha creato quasi un problema di stato in
Italia. Ciò per dire che sicurezza non significa semplicemente garanzia di cibo sicuro, significa anche garanzia di buon cibo, cosa che
contribuisce a definire l’identità dell’Europa e a farne, lo auspichiamo, una nazione di longevi.
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L’Autorità europea per la sicurezza alimentare: quali considerazioni per i prodotti tipici italiani
Origine e sanità
Paola Testori Coggi
Il mio intervento sarà incentrato su tre argomenti: la sanità, la qualità e la tracciabilità.
Il titolo che ho scelto per la relazione - Origine e sanità - rimanda a
un tema complesso, poiché, in quanto legislatore preposto alla Sanità,
dovrei essere in grado di garantire che tutti i prodotti presenti sul mercato siano sicuri, e non che il prodotto con una certa origine sia più sicuro di un altro. Gli sforzi che facciamo a livello legislativo e a livello
di controllo sono proprio finalizzati a garantire che la sicurezza sia un
prerequisito.
Dopo questa premessa, devo tuttavia ammettere che questo non è
sempre vero, che la sicurezza non è sempre garantita. Ci sono, infatti,
casi di frode, due dei quali si sono verificati questa estate, con le due
conseguenti crisi alimentari che siamo riusciti a gestire: il caso del nitrofene in Germania e quello dell’ormone Mpa nei Paesi Bassi. Ci sono, inoltre, casi di leggi non ben rispettate, ed è chiaro che lo sforzo
che facciamo a Bruxelles è legislativo, quindi rivolto a migliorare le
leggi, ma è anche orientato alla collaborazione con gli Stati membri,
per garantire che i controlli funzionino, perché una legge non applicata non serve a niente.
In questo contesto, c’è anche una grande sfida: l’Europa può vantare
il più alto livello di sicurezza al mondo, questo è certo; tuttavia, viviamo in un mondo globale e non possiamo chiudere le frontiere; importiamo ed esportiamo, siamo i maggiori esportatori di prodotti agricoli
trasformati e, quindi, abbiamo tutto l’interesse a non chiudere le frontiere. Tuttavia, è difficile garantire lo stesso livello di sicurezza su
quello che importiamo, è molto difficile, specie quando importiamo da
paesi in via di sviluppo.
Nel gennaio del 2002, è stata presa la decisione, molto travagliata,
di chiudere le importazioni dalla Cina, perché da lì arrivavano in Europa polli e pesci che non erano al nostro livello di sicurezza. DecisioPaola Testori Coggi è direttore per la Sicurezza alimentare alla Commissione europea.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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ni di questo genere, così drastiche, non sono facili.
Abbiamo il dovere di garantire che i prodotti finali importati abbiano determinati requisiti di sicurezza. Se è vero che non possiamo imporre ai paesi terzi di avere i nostri mezzi di produzione, c’è comunque un obbligo di risultato, cioè il prodotto finale deve corrispondere
ai nostri requisiti; come arrivino i paesi terzi a questi requisiti non possiamo controllarlo, ma dobbiamo controllare che il prodotto finale che
importiamo abbia certi requisiti di sicurezza.
Un altro esempio sull’importazione di polli. Le importazioni di polli, da paesi quali il Brasile, sono triplicate negli ultimi quattro anni,
perché il pollo è un green converter, come si dice in inglese, quindi è
molto più facile allevarlo in paesi dove il mais e la soia sono a basso
costo, dove non ci sono vincoli sul benessere degli animali e dove si
possono anche utilizzare sostanze che da noi sono proibite, tipo antibiotici o antimicrobici. In questo caso, quali misure adottiamo? Ancora il Brasile non l’abbiamo chiuso, ma abbiamo imposto da un mese
controlli sistematici su tutti i polli di provenienza brasiliana e thailandese. Sono questi gli sforzi che possiamo fare a Bruxelles, per garantire che l’elevato livello di sicurezza del prodotto europeo si possa avere anche nel prodotto importato.
Con ciò, tocco anche il problema dell’allargamento. Anche se ieri il
Consiglio europeo ha confermato l’ingresso dei dieci paesi, io continuerò a dire che alcuni di essi non sono ancora adeguati al nostro livello di sicurezza alimentare. Non sono pronti, o lo sono solo alcuni, una
minoranza; la maggioranza ha invece problemi strutturali di igiene, di
stabilimenti, di macelli; ha problemi di Bse, molto diffusa nel loro patrimonio bovino. Di più, questi paesi diventeranno la nostra frontiera
verso il mondo; voglio infatti ricordare che i prodotti primari entrano in
Europa attraverso frontiere nazionali dei singoli paesi, che noi controlliamo, ma attraverso i quali il flusso di prodotti penetra su tutto il mercato europeo. Oggi abbiamo trentasette posti di ispezione transfrontaliera tra noi e i paesi dell’Est. Quando, nel 2004, i paesi entreranno a
far parte dell’Unione, i posti transfrontalieri diventeranno quelli tra
questi paesi e il resto del mondo. I paesi dell’Est ci chiedono di avere
settanta posti di ispezione transfrontaliera, ma sappiamo bene che gestirli non è una cosa facile; vuol dire controllare, vuol dire avere laboratori, avere ispettori.
Il problema dell’allargamento è quindi sicuramente un problema serio, ed è per questo che la Commissione ha dato un segno forte, con
l’inserimento di una specifica clausola nei trattati di adesione. Questa
consentirà alla Commissione di bloccare alcuni settori, se ci saranno
problemi di mercato interno o problemi di salute pubblica. Il messag-
100
Origine e sanità
gio che vogliamo dare è chiaro: politicamente nessuno vuole frenare
l’allargamento, ma i problemi di sicurezza alimentare sono cruciali e
vogliamo che questo segnale rimanga e che si possa, fino al giugno
del 2004, bloccare un paese se non è pronto.
Passo al secondo argomento: la qualità. Per parlare di qualità, a mio
avviso, bisogna chiarire alcuni concetti base. In primo luogo, c’è una
parte della qualità che non è negoziabile. Non è ad esempio negoziabile il fatto che un bene debba essere prodotto rispettando i requisiti ambientali e rispettando certi requisiti di benessere degli animali. In Europa abbiamo fatto una scelta in tal senso: abbiamo deciso che per valori etici e morali dobbiamo rispettare i nostri animali, quindi questa è
una caratteristica non negoziabile. Sono invece qualità relative il gusto, l’odore, la convenienza, l’apparenza del prodotto, il modo di produzione. Tutti elementi soggettivi, lasciati alla scelta del consumatore.
Tali aspetti soggettivi non possono essere fissati, devono essere lasciati liberi; sarà il consumatore a decidere quale aspetto qualitativo
vuole privilegiare. Inoltre, a livello europeo, la situazione alimentare è
talmente articolata, che non si potrebbe fare diversamente.
Quel che invece il legislatore deve fare è adottare schemi legislativi
che permettano alla qualità di essere promossa e tutelata, perché la qualità è un valore aggiunto, la qualità si paga, e bisogna quindi avere delle
leggi che la valorizzino. Mi riferisco, ad esempio, a tutte le leggi sulla
etichettatura, alle disposizioni per proteggere l’origine (Dop e Igp), alle
disposizioni per proteggere certi metodi di produzione e così via.
Riguardo all’etichettatura, vorrei ricordare alcune importanti conquiste che abbiamo fatto. Per esempio, in materia di etichettatura dei
prodotti di carne, la Commissione è riuscita a raggiungere un accordo
unanime con gli Stati membri e, a partire da luglio, sarà possibile scrivere “carne” in etichetta solo se si tratta di muscolo, cioè se il prodotto
contiene solo parti nobili. Avrete quindi la garanzia, a partire da luglio,
che quando leggerete “carne” in un’etichetta di wurstel, o di altri prodotti, ciò significherà che sono fatti di solo muscolo. Questa, per noi, è
stata una legislazione di grande trasparenza e, soprattutto, una legislazione che riconosce un valore aggiunto a chi usa delle parti di animale
più nobili e più costose. Un’altra conquista è stata l’etichettatura delle
acque minerali, che siamo riusciti a far passare recentemente, dove
non solo abbiamo fissato i limiti massimi per i costituenti naturali, ma
anche l’obbligo di indicare quando vengono fatti trattamenti ionizzanti
per ridurre questi costituenti naturali. Per esempio, tali trattamenti
vengono spesso usati nelle acque tedesche, belghe o anche di altri paesi, e adesso sarà indicato in etichetta.
La nostra legislazione sul cioccolato, ancora, è molto positiva: d’ora
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
101
in poi, quando il cioccolato che arriva in Italia non è fatto con il burro
di cacao, ciò dovrà essere indicato. L’etichettatura è uno strumento importantissimo per valorizzare la qualità, per la quale il consumatore è
pronto a pagare di più.
Infine, vorrei citare la legislazione sulla quale stiamo ancora discutendo, quella sull’etichettatura degli Ogm. Per quanto riguarda gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati, attualmente
la normativa prevede che ciò venga indicato in etichetta soltanto se il
prodotto finale contiene ancora la proteina o il Dna geneticamente modificato, cioè soltanto se nel prodotto finale c’è ancora traccia della modifica genetica. Per esempio, ciò esclude i prodotti grassi, cioè gli oli.
Se prendo il mais geneticamente modificato e ne produco dell’olio, testando l’olio non mi accorgo che proviene da mais geneticamente modificato, quindi oggi quest’olio non è etichettato. La Commissione ha
invece proposto, già da un anno e mezzo, che l’alimento contenente
Ogm venga tracciato ed etichettato fino alla fine, anche se il prodotto
finale è identico ad un prodotto naturale. Perché le biotecnologie sono
un metodo di produzione e il consumatore ha il diritto di sapere se questo particolare metodo di produzione è stato utilizzato o no.
Passo alla terza parte: la tracciabilità. Di tracciabilità si parlerà molto, non mi soffermo quindi a spiegare di cosa si tratta, ma semplicemente a dire a cosa serve la tracciabilità. La tracciabilità è uno strumento di gestione e d’informazione. È uno strumento di gestione, perché il primo scopo della tracciabilità è quello di identificare i prodotti
per i quali si è verificato un problema, identificarli per poterli ritirare
dal mercato. Per esempio, nel caso della crisi che prima citavo, quella
dell’ormone Mpa, che è stata una contaminazione di mangimi per
maiali e, limitatamente, anche per polli, siamo riusciti a identificare
milioni di tonnellate di mangimi e a ritirarli dal mercato nel giro di
due o tre settimane, per distruggerli. Siamo riusciti anche ad identificare animali contaminati, perché in questo caso la contaminazione riguardava la materia prima, lo sciroppo di glucosio, che anziché essere
tale era in effetti composto anche da medicine ormonali di cui si usava
la capsula zuccherata: venivano sciolte e lo sciroppo di glucosio risultante, con un alto tasso di ormoni, veniva dato ai maiali, oppure anche
diluito nella melassa, per essere utilizzato in mangimi composti. Erano
dunque coinvolti da tre a cinque livelli di filiera per quanto riguarda i
mangimi, e da tre a cinque livelli di filiera per quanto riguarda i prodotti. Questo risultato lo si è potuto ottenere grazie alla tracciabilità, il
cui primo scopo è quindi rendere possibile un intervento efficace là
dove c’è un problema.
Il secondo scopo della tracciabilità è permettere di sorvegliare gli
102
Origine e sanità
eventuali effetti negativi o positivi che un alimento può avere sulla popolazione. Se si verifica un problema, dobbiamo sapere da dove proviene; nel caso degli Ogm, per esempio, è importante conoscere la distribuzione e sapere quindi dove vanno i prodotti. La tracciabilità, infine, può essere utilizzata come uno strumento funzionale a migliorare il
prodotto, perché ne può garantire la qualità, nel senso che ciò che un
prodotto contiene può rimanere sull’etichetta finale. La tracciabilità
può seguire il prodotto dall’inizio alla fine, così chi acquista il prodotto
finale ha l’informazione sull’origine. È il caso del Dop, del marchio di
origine. Oppure, la tracciabilità può essere un’informazione che non segue il prodotto, ma passa da un operatore all’altro, di modo che, se si
verifica un problema, è possibile risalire la china. Nel primo caso quello in cui il prodotto finale deve contenere tutta l’informazione - è
una tracciabilità che si vuole applicare in alcuni settori e per determinati prodotti: la vogliamo per gli Ogm, la vogliamo per la carne. Per
esempio, l’identificazione dei bovini è tale che se si acquista oggi un
pezzo di carne, si è in condizione di sapere dov’è nato l’animale, dov’è
stato allevato e macellato, seguendone l’intero percorso; per i pesci, l’identificazione è entrata in vigore nel 2002 e faticosamente la si sta applicando. In teoria, del pesce che viene acquistato si dovrebbe poter sapere qual è la zona di cattura e se è di allevamento o di mare aperto.
Ci sono quindi casi diversi di tracciabilità, alcuni in cui vogliamo
che tutta la storia sia visibile sul prodotto finale, altri in cui il requisito
minimo, introdotto dalla nostra legislazione del 2002, è che ogni operatore deve sapere a chi dà i suoi ingredienti e da chi li ha presi, così
che, in caso di problema, si possa risalire all’indietro.
In estrema sintesi, riassumo i punti principali del mio intervento: la
sicurezza non è negoziabile, deve essere garantita ed è lo sforzo che la
Food Autorithy e noi, con le autorità nazionali, stiamo cercando di fare. Anche nella qualità c’è un aspetto non negoziabile, ma ci sono altresì tanti aspetti soggettivi, che rientrano nelle dinamiche di mercato
ed è nelle vostre mani riuscire a far valere quest’ultima tipologia di
aspetti qualitativi; la tracciabilità, infine, non è fine a se stessa, è uno
strumento di controllo e di informazione.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
103
Origine e qualità
André Valadier
Ciascuno di noi incarna, a suo modo, una parte del presente e dell’avvenire dell’economia agricola, della vitalità del territorio, e ciascuno, nel proprio ambito di competenza e secondo gli incarichi che ricopre, lavora al fine di trovare il migliore accordo possibile tra gli orientamenti generali dell’agricoltura e quel mosaico di realtà differenti che
costituisce il nostro territorio.
Talvolta, per mantenere la rotta, bisogna provvedere a ridisegnarla.
Nel nostro caso, ridisegnarla significa legarla alle aspirazioni della società, alle esigenze dei consumatori e ad un insieme di criteri che fanno della denominazione d’origine una realtà in continua evoluzione. A
tal proposito, siamo sempre più convinti che il concetto di denominazione d’origine si sia perfettamente adattato a queste esigenze e sia in
grado, al momento, di soddisfarle.
La denominazione d’origine, nel caso della Francia, ma ovviamente
non solo della Francia, si modella essenzialmente su prodotti che hanno alle spalle storie secolari, pur non mancando prodotti che hanno ottenuto una denominazione in periodi più recenti. L’Armagnac, ad
esempio, è stato il primo, ed era il 1905, mentre per il Roquefort si
giunge al 1925.
Ho voluto fare questo salto indietro nel tempo solo per definire una
sorta di percorso, pur sapendo bene che, in futuro, certe valutazioni
non avverranno necessariamente in base a vicende che affondano le
radici nel passato.
Veniamo adesso ad una considerazione di ordine economico: in
Francia, attualmente, il saldo attivo dell’insieme dei prodotti a denominazione d’origine, se si guarda alla sola bilancia commerciale, risulta essere praticamente uguale a quello dei cereali. Poiché la Francia è
al mondo il secondo paese esportatore di cereali, il dato merita un po’
d’attenzione, anche se è necessaria un’informazione aggiuntiva: i cereali provengono da terre solitamente più ricche, rispetto a quelle da
André Valadier è vice presidente dell’Institut National des Appellations d’Origine (Inao).
104
Origine e qualità
dove provengono i prodotti a denominazione d’origine. Questo vuole
dire, molto semplicemente, che una terra povera può fornire un prodotto ricco.
Personalmente, provengo dalla regione di Roquefort e amo ricordare
che dalle nostre parti, da sempre, “uno più uno fa tre” e questo perché
prevalgono i valori reali, i valori commerciali.
Questa affermazione, un po’ provocatoria, merita di essere approfondita. Il latte di pecora vale il doppio del latte bovino: se infatti si
misura il rendimento o la capacità nutritiva, il primo ha realmente una
resa doppia rispetto al secondo. Attualmente, agiscono sul mercato dei
grandi gruppi internazionali, che gestiscono una parte della produzione Aoc (Appellation d’origine contrôlée) del Roquefort. Questi gruppi
pagano il latte di pecora tre volte di più di quanto pagano il latte bovino, ecco dimostrata la mia asserzione: “uno più uno fa tre”.
Da dove viene questo valore commerciale? Oltre al fattore nutrizionale o all’apporto proteico, esiste un altro livello di valori che si fonda
su elementi sensoriali, culturali-emozionali ed estetici propri del prodotto.
Gli elementi citati vanno considerati da un punto di vista professionale. Cerco di chiarire. Il valore estetico, ad esempio, può derivare
dall’associazione del prodotto ad un’immagine, ad un paesaggio, ma
non è così semplice: bisogna legare all’estetica del prodotto l’estetica
dell’ambiente da cui proviene, nel quale viene elaborato e, da questo
punto di vista, né a noi né a voi mancano spunti ed argomenti validi.
L’elemento sensoriale, si associa senz’altro all’importanza che il gusto
sta riacquistando a livello europeo, ma anche al fatto che la percezione
sensoriale è strettamente legata agli elementi culturali-emozionali, che
da soli non funzionano.
Questo trittico essenziale, che costituisce uno dei punti fondamentali
e che si comprende meglio a partire dalle condizioni di produzione o
conformità del prodotto, si poggia su un altro sistema di valori reali,
che possono essere sviluppati attraverso un altro trittico, definito a
partire dall’origine del prodotto, origine in primo luogo storica, che in
alcune occasioni è alla base della notorietà del prodotto stesso. Quando si fa riferimento a questa sorta di mosaico regionale, è bene ricordare che la notorietà di un territorio è sempre legata alla notorietà del
prodotto che vi si produce e mai il contrario. La notorietà del territorio
legata alla notorietà del prodotto costituisce un ottimo spunto di riflessione, nonché un’ottima opportunità d’azione.
L’origine geografica, così intesa, può consentire di inquadrare meglio un certo numero di fattori. Mi riferisco a quei fattori naturali, valorizzati dall’interazione con i valori apportati dall’intervento dell’uo-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
105
mo. Evidenziare questi fattori, può consentire di inserire all’interno
delle filiere classiche valori comuni ed elementi di coerenza rispetto
all’ambito geografico di riferimento. Per capirci, possiamo dire che
per entrare all’interno di un sistema Aoc bisogna disporre di una chiave che si basa su un codice a più cifre. Se una cifra manca, la chiave
non funziona. Ecco, allora, che insieme alla cifra dell’origine diviene
fondamentale lavorare sulla cifra del prodotto in quanto tale. Pertanto,
partendo dal territorio, dobbiamo essere capaci di esprimere un certo
numero di valori, che sono valori moderni, valori commerciali.
Per quanto riguarda la Francia, questa realtà economica è stata presa
in considerazione già a partire dal 1935, anno in cui è stata istituzionalizzata la nozione di denominazione d’origine. Si è partiti con i vini
francesi e, dal 1990, la denominazione d’origine è stata estesa anche
ad altri prodotti, come i derivati del latte, che io rappresento più da vicino. Ma non sono mancati anche nuovi prodotti, che cito ora in ordine sparso: le lenticchie (la “lentille verte du Puy”), i tori della Camargue destinati alla produzione di carne (“taureau de Camargue”), le patate (“pomme de terre de l’Ile de Ré”), ed altri.
Da poco tempo, proprio perché era nostra intenzione mettere insieme i diversi concetti che fanno riferimento al territorio, l’Inao gestisce
anche le indicazioni geografiche protette. Si tratta, pertanto, di un’azione istituzionale, gestita da un organismo pubblico, che recentemente si è rinforzata con l’istituzione del Consiglio Nazionale delle Denominazioni d’Origine, che riunisce sotto un’unica sigla l’insieme delle
strutture che si occupano della denominazione d’origine.
Qui il ruolo del Presidente della Fnsea Lemétayer è stato fondamentale. È soprattutto grazie a lui che oggi possiamo affermare che la denominazione di origine è perfettamente integrata anche all’interno del
ciclo del latte, dove diviene possibile valutare e gestire tutti gli elementi messi a disposizione dall’economia e dai singoli territori.
Auspico che d’ora in avanti si proceda con metodo, sin dal momento
in cui viene definitivamente acquisita la denominazione all’interno di
una categoria produttiva. Dico questo perché non è stato sempre così,
anzi, spesso si è evidenziata la tendenza a lasciar prevalere l’elemento
folklorico, quasi nostalgico, piuttosto che quello economico, nell’accezione complessa fin qui esposta.
Vorrei concludere utilizzando i risultati di un gruppo di lavoro, che
ha operato nell’ambito di un recente congresso organizzato dal Presidente Lemétayer, sulla denominazione di origine. Vi dirò chi è l’autore
di questo lavoro solo alla fine.
Cito testualmente: «Tutti gli attori economici, politici e scientifici
devono fare proprio un nuovo parametro. Al di là del rapporto qualità-
106
Origine e qualità
prezzo, il consumatore esige di conoscere le condizioni in cui viene
fabbricato il prodotto, difende il suo diritto legittimo ad accettare o
meno l’acquisto di un prodotto. I nuovi bisogni si basano sul fatto che
dal prodotto che si acquista ci si attende il ‘meglio’ e in quest’ottica
divengono fondamentali gli elementi sensoriali ed emozionali, la trasparenza, la solidarietà etica, il bisogno di radici che riportino a valori
veri e il rispetto della natura. In questo nuovo contesto i prodotti Aoc e
Igp forniscono una straordinaria opportunità per chi intende rispondere alle nuove richieste della società e quindi del mercato. L’Aoc diviene così il simbolo delle tradizioni intese non come zavorra del progresso, quanto piuttosto come ponte tra il passato e la modernità, una
modernità che contribuisce a mantenere saldo il legame tra le generazioni».
«Bisogna però evitare il rischio di indebolire il marchio Aoc operando solo a livello di immagine, tenendo presente che non basta un decreto a garantire la prosperità. Certi lo pensano, ma non è detto che il
rispetto delle regole del gioco garantisca automaticamente il successo.
Quello che ci viene chiesto, pertanto, è di dare vita ad un circolo virtuoso, aumentando le esigenze del marchio Aoc. È necessario, di conseguenza, aumentare la qualità dei processi e l’igiene, la sicurezza microbiologica e tutto quanto attiene agli agenti patogeni.
Siamo convinti che l’Aoc sia un sistema in grado di garantirsi un avvenire, se inserito in un ambito di marketing e di progresso, e pensando al progresso intendo riferirmi all’alimentazione e alla genetica.
Quando si ha a che fare con il ciclo del latte, ad esempio, possiamo dire che il formaggio è buono se è buono il latte nella mammella, e ciò
si verifica se la vacca, la pecora o la capra stanno bene nella loro pelle,
nel loro prato e nel loro paese.
Le tappe successive devono rendere più evidente la qualità insita nel
prodotto Aoc, consentire al consumatore di riconoscere nel prodotto i
criteri definiti dal marchio Aoc.
Ogni prodotto Aoc, per poter rispondere a queste attese, ha due
obiettivi da perseguire: rinforzare la credibilità del marchio presso i
clienti, giustificandone i livelli di prezzo, e consolidare l’immagine di
indipendenza del prodotto Aoc dall’insieme dei circuiti di distribuzione. Costruire questa credibilità può apparire, a breve termine, un processo difficile e dispendioso, ma sul lungo termine può garantire l’affermazione del marchio di qualità negli anni a venire».
L’intervento che ho letto è della responsabile Qualità del Gruppo
Carrefour. Si tratta, insomma, di una realtà distributiva che ha certamente il polso delle aspettative dei consumatori. Ci sembra, senza voler nulla aggiungere, una conferma di quanto fino ad ora sostenuto.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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In conclusione, vorrei dire che tutta l’energia messa in campo in materia di difesa dell’agricoltura, dell’agroalimentare e dei territori, non
può mettere in secondo piano la solidarietà. Esiste un pilastro che consente di incassare sempre di più, mentre ce n’è un altro che consente
di guadagnare sempre di più. L’Aoc percorre questa seconda ipotesi.
108
Origine e qualità
Tre storie di successo:
il Franciacorta, il Parmigiano
Reggiano, la Chianina
Claudio Faccoli
Il riconoscimento che viene oggi attribuito al Franciacorta è stato
costruito sulla convinzione, da parte di tutti i suoi produttori, che la tenacia, gli investimenti e il lavoro meticoloso alla fine ripaghino degli
sforzi fatti; sforzi di cui oggi stiamo raccogliendo i primi frutti. Siamo
anche convinti che l’arma vincente per potersi inserire in un mercato
globale senza esserne schiacciati, ma anzi sfruttandolo come opportunità di crescita, passi attraverso la garanzia dell’origine del nostro prodotto.
Per raggiungere questo obiettivo i produttori del Franciacorta, sin
dalla nascita del Consorzio, hanno dedicato grande attenzione alla raccolta di tutte le informazioni necessarie alla comprensione della specificità del territorio di produzione. La base di partenza di questo lavoro
è stata costituita dalla zonizzazione viticola, iniziata nei primi anni del
’90, che ha prodotto la carta pedologica e la carta della vocazione viticola della Franciacorta. I dati ottenuti ci hanno inoltre consentito di individuare alcuni comportamenti vegeto-produttivi dello Chardonnay
che sono stati la base di partenza per sviluppare ulteriori tecniche colturali in grado di valorizzare al meglio la coltivazione del nostro vitigno principe, appunto lo Chardonnay, rispetto ai vari ambienti pedoclimatici individuati. Questo lavoro è stato poi ulteriormente ampliato,
perché dal 2001 il Consorzio per la tutela del Franciacorta è in collaborazione con altri partner tramite un progetto di precising farming,
ovvero agricoltura di precisione. Questa consiste nella realizzazione di
fotografie aeree con analisi multispettrale di gran parte della superficie
abitata della Franciacorta, che permette di rilevare su tutto il territorio,
in funzione dei vari ambienti pedo-climatici e delle forme di allevaClaudio Faccoli è presidente del Consorzio per la tutela del Franciacorta.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
109
mento del vigneto poste sotto controllo, il vigore vegetativo e il contenuto in zuccheri e acidità delle uve, in modo da poter avere stime attendibili sia della produzione delle uve che del grado di maturazione
delle stesse.
I dati che il Consorzio per la tutela del Franciacorta raccoglie si riferiscono a tutta la filiera produttiva, a partire dal campo fino alla commercializzazione. L’ottimizzazione della conoscenza di questa ingente
quantità di dati ci permetterà di strutturare un piano di certificazione a
garanzia dell’intera filiera produttiva del Franciacorta, secondo le regole della qualità certa definite dal disciplinare di produzione.
Ma se siamo convinti che garantire l’origine del nostro prodotto sia
lo strumento principale per emergere nel mercato, sicuramente non riveste meno importanza la qualità che il consumatore si attende dal prodotto. Non è infatti sufficiente garantire l’origine, poiché un prodotto
deve anche essere all’altezza delle aspettative del consumatore; e per
raggiungere questo obiettivo è necessario un lavoro di squadra lungo
tutta la filiera produttiva. Nel nostro caso, il lavoro è stato facilitato dal
fatto che quasi tutte le aziende trasformano prodotti propri. Di conseguenza, il collegamento tra la materia prima che arriva in cantina ed il
prodotto finale che va al consumo è tutto sotto il controllo di uno stesso
produttore che, quindi, ha immediatamente la percezione se sta operando nella direzione giusta in base al grado di successo del suo prodotto.
Riteniamo che i fattori che possono incidere sulla qualità del prodotto finale siano legati, in primo luogo, alla qualità delle uve e, successivamente, alla capacità e all’esperienza del produttore nel sapere utilizzare al meglio le tecniche e le attrezzature a sua disposizione, per effettuare tutte le operazioni previste dal processo produttivo. I prodotti
che hanno una grande personalità sono ottenuti, di solito, quando la
materia prima è stata trattata in modo tale da non subire troppe alterazioni. Da qui la necessità per il produttore di avere sotto controllo tutto il ciclo di trasformazione, sia dal punto di vista tecnico che igienico.
La profonda conoscenza che il produttore deve avere della materia prima che sta trattando ed il rispetto della stessa sono spesso le condizioni necessarie per far nascere i grandi vini e conquistare gli spazi sul
mercato. Poi, quando questi prodotti vengono riconosciuti dal mercato, nasce anche l’esigenza da parte del consumatore di conoscere e visitare fisicamente le cantine e il territorio da cui essi provengono, innescando un indotto di tipo turistico, gastronomico e culturale. E anche in questo campo i produttori del Franciacorta hanno fatto la loro
parte, realizzando strutture che rispondessero alle esigenze di questi
nuovi visitatori e creando sintonia tra quanto è stato trasmesso tramite
il prodotto e le attese che i visitatori hanno, creando strutture ricettive
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Tre storie di successo: il Franciacorta, il Parmigiano Reggiano, la Chianina
e valorizzando le bellezze naturali e artistiche del territorio. Siamo infatti convinti che più forte è la valorizzazione del territorio d’origine,
maggiore è la credibilità del prodotto e il successo che da esso deriva,
e da cui tutti potranno trarre grandi benefici.
Andrea Bonati
Il caso del Parmigiano Reggiano è un buon esempio di applicazione
di molti dei principi enunciati dai relatori che mi hanno preceduto.
Il Parmigiano Reggiano è un prodotto di origine, ma un prodotto territoriale un po’ particolare, perché è anche a denominazione di origine
protetta. Dietro questa protezione comunitaria, c’è quindi anche una
certa imposizione di vincoli che non elenco, per non dilungarmi. La
proprietà del marchio non è molto chiara e definita come qualsiasi marca o marchio privato; infatti, la proprietà del marchio Parmigiano Reggiano è di tutti i produttori della zona di origine che rispettano i regolamenti e i disciplinari previsti nel regolamento 2081. Si tratta, insomma,
di un marchio territoriale, che esprime la potenzialità di un territorio.
La produzione di Parmigiano Reggiano nelle province di Parma,
Reggio, Modena, Bologna a sinistra e Mantova a destra del Reno, negli ultimi anni è stata costante, anche in presenza di una forte ristrutturazione della realtà produttiva: basti pensare che negli ultimi venti anni i caseifici produttori di Parmigiano Reggiano sono passati da 1.178
ai 561 del 2001, mentre le aziende agricole che producono latte per
Parmigiano Reggiano negli ultimi dieci anni sono passate da 14.084 a
6.945. Questo significa anche aver dato risposte economiche alla produzione della materia prima latte e alla sua trasformazione, se si pensa
che il 97% del latte prodotto in queste province viene utilizzato per la
trasformazione del Parmigiano Reggiano. Inoltre, questo prodotto costituisce uno sbocco economico importante anche in zone svantaggiate, in quanto il 30% dei caseifici ed il 23% della produzione è presente
in montagna.
Venendo ad alcuni aspetti storici, questo marchio ha saputo affermarsi nel tempo, attraverso novecento anni di storia, perché ha saputo
affrontare lunghi viaggi già in epoche in cui la catena del freddo non
era neanche immaginata. Ha avuto sempre un’alta versatilità in cucina
ed un altissimo livello qualitativo riconosciuto. Il rapporto speciale
che si è instaurato con il consumatore dura, dunque, da novecento anni, e non è mai stato messo in discussione. Inoltre, anche al consumaAndrea Bonati è presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
111
tore che oggi si aspetta maggiore sicurezza e garanzia, penso che il
Parmigiano Reggiano risponda in maniera più che soddisfacente.
Il Parmigiano Reggiano è un prodotto Dop, e come tale è sottoposto
a un disciplinare di produzione, cioè al sistema delle regole che i produttori si sono dati ed entro il quale ci sono, per così dire, le promesse
che i produttori fanno al consumatore. Quello del Parmigiano Reggiano è un sistema particolare, in quanto la produzione della materia prima, il latte, e la sua trasformazione sono organizzate in forma cooperativa. Si tratta, quindi, di una filiera espressa sul territorio che è riuscita a darsi delle regole anche in tempi non sospetti, se si pensa che
l’embrione di questo sistema ha trovato espressione nella costituzione
del Consorzio, che risale al 1934. Poi, quando la normativa nazionale
ha cominciato a prendere in esame i prodotti tipici, si è giunti, nel
1954, al riconoscimento del Consorzio ed alla fissazione dei caratteri
distintivi del prodotto nel 1955. Oggi abbiamo una legislazione comunitaria che prevede un sistema di regole più uniforme, sostitutivo dei
vecchi accordi bilaterali che i vari Stati, allora neanche membri della
Comunità, avevano siglato.
Tornando al disciplinare, abbiamo avuto una sua revisione nel corso
del 2001. Con essa abbiamo ribadito le nostre peculiarità principali, tra
cui quella di usare latte crudo, da raccogliere entro due ore dalla fine
della mungitura per assicurare il mantenimento della flora lattica nativa
che caratterizza il prodotto; è chiaro che ciò comporta un aumento dei
costi, ma contribuisce a salvaguardare la tipicità del prodotto.
Abbiamo sancito l’assoluta assenza di additivi, mentre nel disciplinare
precedente si parlava solo di antifermentativi, ed abbiamo ribadito il divieto di usare insilati, un foraggio che sicuramente costa meno del fieno,
ma proprio questo ci permette di mantenere l’assenza di additivi per la
produzione del Parmigiano Reggiano. Inoltre, ciò rafforza il legame con
il territorio, giacché i foraggi utilizzati per l’alimentazione del bestiame
devono provenire per il 75% dalle zone di produzione.
Vi è poi la lunga stagionatura, un minimo di dodici mesi fino a superare i ventiquattro, proprio per garantire l’estrinsecarsi delle caratteristiche strutturali e organolettiche, ed un regolamento di marchiatura che
prevede il controllo di tutte le forme prodotte. Produciamo circa
2.800.000 forme di Parmigiano Reggiano all’anno, ognuna numerata e
controllata, e possiamo vantarci di essere gli unici nel settore lattiero-caseario a fare questa operazione, che costa circa un milione e mezzo di
euro. Inoltre, il disciplinare adottato prevede un nuovo sistema di marchiatura che ha introdotto l’uso di una placca di caseina, la proteina del
latte, con cui si rafforza ancora di più il legame col territorio: si tratta di
una pellicola su cui è stampato il numero progressivo della forma e la
112
Tre storie di successo: il Franciacorta, il Parmigiano Reggiano, la Chianina
marcatura del caseificio produttore. E questo, ovviamente, è un aspetto
che facilita la tracciabilità del prodotto.
Infine, abbiamo migliorato la classificazione del prodotto, per metterlo ancora più in linea con le diverse esigenze dei consumatori, distinguendo un prodotto a più breve stagionatura dal Parmigiano Reggiano classico e dal Parmigiano Reggiano extra.
Tutte queste operazioni, se non sono accompagnate da un’efficace
azione di tutela, restano vane, perché c’è il rischio di trovarsi invasi da
prodotti che usurpano un marchio noto. E la tutela si esplica attraverso
azioni legali. Cito il caso del Parmesan, che molti conosceranno, e su cui
abbiamo ottenuto un risultato positivo a livello di Comunità europea, sia
grazie alle convinzioni della Commissione, sia tramite un parere espresso
esplicitamente. Questo tipo di azione è andata anche oltre la Comunità
europea, ad esempio negli Stati Uniti, dove abbiamo dovuto tamponare
la concorrenza sleale di un prodotto spacciato come parmigiano, che sicuramente non aveva niente a che fare con la nostra zona di origine. Su
questo fronte auspico che la Commissione europea prenda ulteriormente
posizione, perché anche in Europa abbiamo delle sacche di resistenza che
vanno eliminate a breve termine, per evitare il rischio di ricostituire un
modello che vorremmo eliminato nel territorio della Comunità. Vorrei rivolgermi inoltre agli amici francesi, con i quali abbiamo condiviso tantissime vicende, per sottolineare l’esigenza della creazione di un’agenzia o
di un livello di coordinamento, perché oggi è in corso la revisione del regolamento comunitario 2081 e perché sarebbe bene migliorare e rendere
più esplicite le azioni di vigilanza della Comunità europea.
In conclusione, vorrei sottolineare che dietro ogni slogan, dietro ogni
marchio, ci deve essere una promessa che facciamo al consumatore e ci
devono essere contenuti concreti. In questo senso, il Parmigiano Reggiano esprime e sintetizza questo spirito ed è orgoglioso di essere una
delle bandiere dell’alta qualità dei prodotti alimentari italiani.
Alessandro Giorgetti
Più che da produttore, avrei piacere ad intervenire da studioso della
chianina e delle altre razze comprese nel marchio Igp del vitellone
bianco dell’Italia centrale, che include, oltre ai prodotti della razza
chianina, anche quelli delle razze marchigiana e romagnola, le tre razze da carne e da lavoro tipiche della zootecnia italiana del passato.
Alessandro Giorgetti è professore di Zootecnia all’Università degli Studi di Firenze, Facoltà di
Agraria.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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In questo marchio c’è qualcosa di nuovo e anche di antico. Di nuovo, naturalmente, c’è il marchio stesso, perché ha preso vigore appena
un paio di anni fa, dopo essere stato approvato dall’Unione Europea
nel ’99, e di antico, prima di tutto, c’è proprio la razza chianina, la cui
esistenza è documentata almeno da ventidue secoli. Ritengo sia la razza domestica bovina più antica del mondo, insieme forse alla Aberdeen Angus, per la quale resti fossili di animali riferibili all’attuale Angus sono stati ritrovati nelle torbiere sia scozzesi che scandinave e si
fanno risalire a circa tremila anni fa. La chianina ha dunque una ventina di secoli o forse di più; era un animale utilizzato dagli etruschi ed è
citato da Plinio come bos magnus et albus, impiegato nelle festività e
nei sacrifici, come è documentato anche nella colonna Traiana.
Ma di antico o, se si vogliono usare parole più adatte, di vecchio e di
desueto c’è anche il termine “vitellone”. È un termine che ha un significato ben preciso nella produzione zootecnica italiana e ha contribuito
a caratterizzarla. Si tratta di un animale indubbiamente post-pubere,
quindi maturo sessualmente, ma ancora molto lontano dalla maturità
somatica che nei bovini, come sappiamo, si raggiunge tra i quattro anni e mezzo e i cinque anni e mezzo, a seconda della precocità della
razza. Il vitellone è un animale post-pubere, che ha ancora tutti i denti
da latte. Purtroppo questa categoria commerciale è scomparsa, oggi si
parla di vitellone come di una categoria di animali che non ha tuttavia
un riconoscimento commerciale, perché da oltre venti anni l’Unione
Europea riconosce due sole categorie di animali: i vitelli e gli animali
adulti. La nostra produzione tradizionale del vitellone, cioè di un animale dall’età compresa tra i dodici e i ventiquattro mesi, viene così inserita tra gli animali adulti, mentre sappiamo che le caratteristiche delle carni di questi animali dai dodici ai ventiquattro mesi sono estremamente diverse, soprattutto da un punto di vista dietetico, da quelle di
un animale di trentasei, quarantotto o cinquanta mesi.
Questo connubio tra antico e nuovo si riflette, in effetti, in un marchio che ha le sue origini emblematiche nell’evoluzione, nella storia e
nelle profonde modificazioni dell’agricoltura del nostro paese e in particolare della zootecnia. Questo processo di trasformazione è andato
verso la specializzazione produttiva dell’azienda, verso la meccanizzazione e, di conseguenza, verso la perdita di importanza della trazione
animale; ha visto la crisi e poi la scomparsa della mezzadria, il confronto con un contesto internazionale diverso da quaranta, cinquanta o
sessanta anni fa, prima con l’inserimento nel Mercato comune, poi
nella Comunità europea e, attualmente, nell’Unione Europea.
Sono tutti fattori che da diversi punti di vista hanno significato molto, e molto di positivo, per la zootecnia e l’agricoltura italiana, ma che
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Tre storie di successo: il Franciacorta, il Parmigiano Reggiano, la Chianina
si sono anche trascinati dietro degli elementi negativi. Abbiamo avuto
una crisi molto forte della bovinicoltura nazionale da carne e da latte,
ovviamente per mancanza di competitività della zootecnia. La bovinicoltura da latte, a metà del secolo scorso, aveva un ruolo paragonabile
a quello della zootecnia da carne, che si è invece venuta a trovare negli ultimi decenni con un ruolo indubbiamente più importante. All’interno della crisi della bovinicoltura da latte, ancora più grave è stata la
crisi delle razze bianche italiane da carne, appunto la chianina, la marchigiana e la romagnola, che appena venti, venticinque anni fa non
erano neanche troppo gradite non dico ai consumatori - c’è sempre
stata una cerchia estremamente ristretta di estimatori - ma ai macellai
delle stesse zone di allevamento, perché ritenute poco convenienti rispetto ad altre razze specializzate di provenienza straniera, rispetto ad
altre tipologie bovine che avevano successo in un mercato essenzialmente mosso da obiettivi di quantità di produzione più che di qualità.
Addirittura si era ipotizzata la scomparsa di queste razze, e non sarebbe stato poi diverso da quanto avvenuto in altri casi. In Italia, si contavano circa cinquantacinque tipi diversi fra i domestici nella specie bovina, alla fine degli anni ’50, oggi se ne contano poco più della metà e
molti di questi sono ormai alle soglie dell’estinzione.
Fra gli anni ’70 e ’80, quindi, esistevano pochi, pochissimi allevatori estimatori, che avevano più un atteggiamento fideistico nella bontà
della loro produzione che una reale conoscenza scientifica del prodotto, e il mercato che tendeva a sottovalutare questa offerta. Proprio in
quegli anni, tuttavia, sono avvenute due cose molto importanti: la nascita dell’Anabic, cioè l’Associazione nazionale allevatori bovini italiani da carne, con la creazione di un Centro genetico che ha permesso
un importante lavoro di miglioramento genetico su queste razze, e
l’avvio di un imponente lavoro di ricerca, che ha interessato Centri di
ricerca e Atenei di tutta Italia, coordinati, in genere, dall’Ateneo di Firenze.
La ricerca ha incluso lo studio delle caratteristiche intrinseche del
prodotto carne in funzione dell’età dell’animale, dell’età di macellazione, del sistema di allevamento e di alimentazione e di tutte le fasi,
anche quelle immediatamente precedenti e immediatamente successive alla macellazione, che noi oggi sappiamo essere le principali responsabili della qualità sensoriale e organolettica del prodotto, mentre
la qualità dietetica è essenzialmente un fatto genetico e di età degli
animali. La ricerca si è spinta anche oltre, andando a scandagliare a
fondo nei meccanismi biologici alla base delle produzioni stesse e da
questi studi sono venute fuori delle sorprese. È risultato, prima di tutto, un quadro endocrino della chianina, in parte ripetuto anche nelle
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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altre due razze, estremamente importante. Per esempio, da un punto di
vista di presenza del complesso ormonale della crescita somatotropo e
insulina, un vitellone chianino di diciotto mesi ha una potenzialità di
crescita equivalente a quella di un vitello di razza frisona di appena sei
mesi.
Grazie a questo genere di risultati, mentre in una prima fase di genesi del marchio si guardava di più a due aspetti importanti della qualità:
la specificità e le buone caratteristiche organolettiche e sensoriali, in
seguito, ha preso rilievo la grande qualità dietetica di queste carni, data essenzialmente dalla quantità e soprattutto dalla qualità del grasso.
La qualità del grasso nella chianina è abbastanza diversa da quella di
altre razze, perché ha un tasso di colesterolo marcatamente inferiore e
perché possiede nei suoi grassi dei rapporti ottimali tra acidi grassi polinsaturi e acidi grassi saturi, tra acidi grassi monoinsaturi e acidi grassi saturi, tanto che i cosiddetti indici proposti da medici americani, indici di aterogenesi e di trombogenesi, sono marcatamente inferiori in
questa razza ed estremamente più positivi rispetto a tutte le altre razze
conosciute. Ciò ha fatto sì non solo che la chianina uscisse indenne dal
dramma che ha investito la zootecnia italiana legato al problema Bse,
ma addirittura rafforzata. Oggi, sul mercato, grazie anche a questo
marchio, la chianina spunta dei prezzi al dettaglio che vanno dai tre ai
sette euro in più al chilo. E questo direi che è la miglior conferma della bontà di un marchio. Esiste un’offerta molto scarsa, una domanda
molto forte e ritengo che questo modello sia ripetibile anche per altre
situazioni zootecniche, non solo riguardanti la bovinicoltura da carne.
116
Tre storie di successo: il Franciacorta, il Parmigiano Reggiano, la Chianina
INCONTRO
CON LA “FILIERA”
Incontro con la “filiera”
Luigi Cremonini
Il tema di questo dibattito è la filiera ed il mio intervento sarà principalmente riferito alla filiera bovina, che è quella a cui ho dedicato buona parte della mia vita professionale, non solo come industriale della
macellazione e della trasformazione, ma anche come allevatore: dunque, un’esperienza che mi consente di avere una visione a tutto campo.
Mi piace ricordare che la filiera bovina è più direttamente legata alla
terra, alla produzione primaria, rispetto ad altre filiere zootecniche di
trasformazione, a carattere più industriale. Una filiera, quindi, fortemente radicata sul territorio e strettamente connessa alla presenza di
oltre centoventimila aziende di allevatori italiani a cui le industrie, come le mie, sono legate da un filo e da una dipendenza diretta.
L’industria italiana della carne non può esistere senza i produttori nazionali, ai quali è indispensabile assicurare con ogni mezzo adeguata
parità di concorrenza e soprattutto una giusta remunerazione. Molto
spesso, la gente - e cosa ancor più grave i nostri stessi rappresentanti
istituzionali - non ha idea della reale importanza che in Italia riveste il
settore bovino. Siamo infatti il terzo paese europeo, dopo la riunificazione delle due Germanie, nella produzione di carne bovina. La sola
Lombardia ha un patrimonio bovino pari a interi paesi, come l’Austria
o la Danimarca. Complessivamente, il settore ha un totale di oltre quattrocentomila addetti, dimensioni queste che meriterebbero maggiore
considerazione nella politica del nostro paese e che bisogna avere ben
presenti oggi, nell’affrontare la revisione di medio termine della Pac.
La filiera bovina è stata anche quella che di recente più ha sofferto,
per le campagne di vera e propria disinformazione da parte dei mezzi
di comunicazione, o per l’ignoranza o la malafede di politici con interessi personali. Questa filiera ha saputo però reagire con forza e determinazione, arrivando finalmente a raggiungere un meritato riconoscimento. I tre elementi essenziali alla base del successo dell’agroalimentare italiano: sanità, qualità e tipicità possono essere annoverati tra le
caratteristiche che la carne bovina italiana è in grado di offrire a livelli
superiori a qualsiasi altro paese del mondo.
Sanità, innanzitutto. Va ricordato, infatti, che la carne bovina ha fatto
da apri-pista per l’applicazione di quei principi che sono oggi alla base
Luigi Cremonini è presidente del Gruppo Cremonini.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
119
di tutta la nuova normativa sulla sicurezza alimentare, tra cui, in primo
luogo, la tracciabilità. Per la carne bovina la tracciabilità è già obbligatoria dal primo settembre 2000, mentre per gli altri prodotti alimentari
si tratta di un requisito che diventerà obbligatorio dal 2005. Lo stesso si
può dire per l’indicazione dell’origine, che tanto fa discutere gli altri
settori e che per noi è invece verificabile in ogni momento dal consumatore, in quanto l’origine è obbligatoriamente indicata in etichetta sin
dal primo gennaio 2002. Ancora, stessa considerazione può essere fatta
per il controllo integrato di filiera e l’autocontrollo, anche questi obbligatori nel nostro settore sin dai primi atti normativi che lo hanno regolamentato.
Un discorso a parte merita la Bse. Oggi abbiamo dati incontrovertibili, che dimostrano quanto da me sostenuto sin dall’inizio, e cioè che
il fenomeno Bse è sempre stato estraneo al nostro paese. Ad oggi, su
oltre un milione di test effettuati in Italia solo 77 sono risultati positivi,
con un’incidenza che è quindi una delle più basse in Europa. Inoltre,
nonostante il capillare piano di sorveglianza effettuato dai veterinari
pubblici sulla popolazione bovina italiana, continuano - questo è importante - a non evidenziarsi casi di Bse con sintomi clinici: in altre
parole, da vivo, non abbiamo mai visto un animale tremolante, contro
i 1.500 casi che ancora oggi compaiono in altri paesi.
Abbiamo un sistema di allevamento e di ingrasso tra i più controllati
del mondo, in cui l’alimentazione, le condizioni e il benessere fisico degli animali sono monitorati in ogni momento, a differenza di quanto si
verifica nei verdi pascoli del Nord Europa e soprattutto nel Sud America, che spesso ci vengono indicati come modelli ideali da seguire. Ci si
dimentica, invece, che è proprio negli incontaminati pascoli scozzesi
che è nata la Bse e che, nel nostro settore, “estensivo” vuol dire “fuori
controllo”. Chi oggi inneggia ai famosi allevamenti estensivi del Sud
America dovrebbe fare un giro nelle sconfinate praterie di quei paesi,
dove ad ogni centinaio di metri si incontrano carcasse di animali morti
senza alcuna possibilità di controllo delle cause e dove, ancor oggi, vengono massicciamente impiegate farine animali per il finissaggio del bestiame; e questi paesi vengono poi dichiarati esenti da Bse, anche perché
la Comunità non è in grado di obbligarli ad affrontare i relativi test.
Questi sono argomenti che devono far riflettere gli allevatori italiani.
Ritengo che tali informazioni vadano evidenziate con decisione, a
chi pensa di farci lezione di sicurezza e a chi pretende di far coincidere
la salubrità con l’estensivo o con il biologico. Nel nostro settore è
spesso vero il contrario; bisogna avere il coraggio di dirlo e spiegarlo
agli stessi consumatori.
La qualità è l’altro punto vincente della produzione bovina italiana.
120
Incontro con la “filiera”
Ad esempio, le vacche italiane allevate nel rigido rispetto dei capitolati
di produzione del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano hanno livelli di sicurezza e di qualità superiori a quelli di qualsiasi altro paese
europeo, e rappresentano una materia prima preziosa per l’industria di
trasformazione che ha investito e si è specializzata proprio nella valorizzazione di tale prodotto. Un esempio ancora più evidente è rappresentato dai vitelloni prodotti in Italia, molti dei quali ottenuti attraverso quello che si potrebbe definire un processo di transumanza naturale, che ne
consente la nascita e il pascolo per la prima fase della vita in Francia, e
poi l’allevamento e l’ingrasso in Italia. Nel nostro paese, con le foraggiere della pianura Padana e, soprattutto, con i sapienti metodi di ingrasso messi a punto dagli allevatori italiani, nel corso dei decenni le carni
di questi animali hanno raggiunto livelli di qualità ed eccellenza ineguagliati. Oggi, uno degli effetti positivi della crisi Bse è che questi circuiti
di qualità con vitellone in filiera, assoggettati a rigidi capitolati di produzione, concordati tra distribuzione industria ed allevamento, sono finalmente premiati anche in termini di prezzo dal consumatore e, con esso,
dalla distribuzione, che comincia finalmente a riconoscerne il corretto
valore e a rendere quindi possibile la giusta remunerazione all’allevatore. È grazie a questa produzione di qualità, realizzata per merito di una
totale integrazione di filiera, che i consumi di carne bovina in Italia sono
tornati a livelli quasi superiori alla situazione antecedente la crisi Bse.
Questa è la qualità reale da stimolare ed incentivare con ogni mezzo;
e proprio perché sono consapevole degli ottimi risultati raggiunti con
grandi sforzi dagli allevatori, e con forti investimenti dalla nostra industria, non posso in alcun modo accettare la posizione di chi dice che
per fare qualità bisogna stravolgere tutto quanto è stato fatto finora, disconoscere e annullare tutti i metodi di produzione che hanno consentito di raggiungere risultati così eccellenti; non solo nella carne bovina, ovviamente, ma anche nei comparti dei salumi e dei formaggi.
La produzione agroalimentare italiana deve certamente fare ulteriori
progressi su tutti i fronti prima richiamati, ma non ha necessariamente
bisogno di rigenerarsi e di riconvertirsi totalmente. In altre parole, bisogna fare attenzione a non cedere ad un’eccessiva voglia di auto-flagellarsi, per assecondare tendenze temporanee e transitorie. Tutto ciò
va ricordato in momenti in cui è in gioco il futuro del nostro settore
con la riforma di medio termine della Pac.
Se si vuole approfittare davvero di questa occasione per incentivare
la qualità - e siamo tutti disponibili a farlo - bisogna concentrarsi su
cose concrete, reali e non su tendenze passeggere come il biologico,
che corrisponde ad una specifica esigenza di nicchie di mercato ma
che non può essere identificato con la qualità.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
121
Gli sforzi congiunti vanno fatti, semmai, per cercare di promuovere
meglio la qualità che oggi siamo già in grado di produrre, per renderne
consapevole il consumatore con campagne mirate, rivolte a spiegare le
reali caratteristiche che contraddistinguono e qualificano la nostra produzione nazionale.
È su questo fronte della comunicazione che la filiera italiana è lontana anni luce da altri paesi; ed è proprio su questo che è mancata un’indispensabile integrazione delle varie fasi della filiera, per creare una
vera politica di valorizzazione e promozione della carne bovina italiana. In Francia, un’organizzazione interprofessionale nata circa
trent’anni fa è riuscita a convincere il consumatore che solo la carne
bovina francese è sana e di qualità ed è riuscita a venderla senza alcun
elemento di reale differenziazione ad un prezzo molto più elevato di
tutte le carni provenienti da altri paesi d’Europa.
Un’organizzazione interprofessionale forte della carne bovina italiana
è una cosa di cui, come industria, sentiamo una grande esigenza. Un primo passo in tal senso è stato fatto con le organizzazioni agricole. Bisogna ora ufficializzarlo, attraverso il percorso formale che ormai il Ministero ha definito per renderlo un efficace strumento di valorizzazione e
di interlocuzione politica di tutto il settore italiano della carne bovina.
Dante Di Dario
Dai risultati delle indagini presentate da Mannheimer e da Tranchini, e più in generale dai vari interventi di questo Forum, noi del settore
dell’agroindustria abbiamo tratto degli utili spunti di riflessione, ma
anche molte conferme di attività e indirizzi politici che già da qualche
anno avevamo intrapreso.
Si è parlato più volte di crisi ricorrenti che hanno devastato gli interessi degli imprenditori, degli agricoltori e degli operatori del settore,
ma che sicuramente non hanno avvantaggiato i consumatori. È stato
anche evidenziato come ci sia stata negli ultimi tempi una profonda
mutazione, un cambiamento comportamentale dei consumatori, diventati molto più attenti ai problemi della qualità; una qualità che non è
più un optional, ma un dovere preciso che l’agroindustria deve perseguire in ogni momento. Il consumatore vuole informazioni più chiare,
più trasparenti, legge le etichette; si è detto che è anche pronto a pagare qualcosa di più pur di avere qualità e sicurezza.
Abbiamo vissuto, negli ultimi venti anni, profondi cambiamenti: si è
Dante Di Dario è presidente di Arena Holding.
122
Incontro con la “filiera”
passati dalla casa colonica come centro di produzione e di alta qualità
alimentare, di equilibrio ambientale, di sintesi e di riciclo delle biomasse liquide e solide, agli allevamenti intensivi. Il dottor Cremonini
poc’anzi diceva che non bisogna demonizzare gli allevamenti intensivi,
specie quando questi osservano le regole della qualità e della sanità.
Nel mondo agricolo che rappresento c’è sicuramente una diversità di
impostazione tecnica rispetto a quello bovino. Del resto, Arena è stata
la prima azienda italiana a fare il famoso pollo griffato, trasformando il
pollo da commodity a prodotto confezionato, prodotto di marca, intendendo la marca come sinonimo di qualità e di sicurezza alimentare.
Il consumatore vuole qualità, vuole sicurezza e ha spinto l’agroindustria in una fase particolare di transizione, alla ricerca di una nuova
identità, di una nuova dimensione. Questi cambiamenti sono iniziati
sotto lo stimolo delle crisi che si sono succedute, che ha favorito nuove
idee, nuovi progetti, nuove attività. Si comincia a parlare di filiera in
modo più consistente. È stato già detto cosa sia la tracciabilità, o rintracciabilità, e che cosa sia la filiera; intesa, quest’ultima, come il coordinamento delle produzioni agroalimentari dalla materia prima fino al
prodotto sul banco della distribuzione e al consumatore finale. La tracciabilità è il modo di rappresentare per iscritto le varie fasi di una filiera organizzata, per poterle seguire. Compito dell’agroindustria è quello
di saper cogliere le esigenze del consumatore, trasformarle in bisogni e,
quindi, creare un collegamento permanente tra il mondo degli allevatori e degli agricoltori, a monte, e quello della distribuzione, a valle.
Vorrei adesso riferire brevemente la filosofia alla base dell’operato
di Arena, un’azienda agroalimentare a capitale interamente italiano,
attiva in tre settori diversificati ma complementari. Il primo, storico e
tradizionale, è quello avicolo; il secondo è quello dei surgelati e dei
gelati; il terzo è quello dei salumi e del prodotti lattiero-caseari.
Per il settore avicolo, vorrei fare una premessa, sollecitata dall’ascolto della relazione di Paola Testori Coggi, in merito al problema
delle importazioni di carne dal Brasile.
In Italia, nel 2001, abbiamo avuto una produzione di 1.200.000 tonnellate e una importazione di 35.000 tonnellate, prevalentemente da
Brasile e da Tailandia, con un incremento, rispetto a due anni prima,
del 159%. In Europa la situazione sicuramente non è migliore. Una
produzione di 9.200.000 tonnellate, un’importazione di 790.000 tonnellate, per lo più da parte della Germania, della Gran Bretagna e dell’Olanda. L’Italia, in questo contesto, si colloca ad uno degli ultimi posti,
importando di queste 790.000 tonnellate appena il 4%. Ma dov’è il
dramma? È che da noi, a partire dal 1996 è stato vietato l’uso degli antibiotici, mentre in Brasile e in Tailandia fino a luglio di quest’anno era
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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consentito, con un danno fortissimo per gli allevatori e per gli industriali e con una beffa per i consumatori, oltretutto in Brasile si continuano ad utilizzare le farine e i grassi di origine animale che in Italia
sono vietati.
L’altro settore di appartenenza in cui opera Arena sono i surgelati, dove ha sviluppato un progetto importante per la qualità, ed oggi è uno dei
primi produttori europei di carne allevata con cereali non geneticamente
modificati. Ha fatto un progetto con Legambiente per il cosiddetto “pollo rurale”, quello dei regolamenti comunitari 2081 e 2082 del ’92, cioè
un pollo allevato all’aperto con due metri quadrati di pascolo ed una situazione ben diversa da quella dell’allevamento industriale.
In conclusione, volevo sottolineare l’efficacia di questo convegno e
l’utilità di mettere in contatto l’agroindustria con il mondo dell’agricoltura - un mondo con il quale il nostro gruppo è peraltro in costante confronto - per rappresentarne al meglio le istanze, i progetti e le ambizioni.
Mario Francese
Ringrazio per l’opportunità di approfondire, in questa sede, le problematiche e le aspettative del settore del riso in cui opera il gruppo
Euricom. Per analizzare le strategie di Euricom è essenziale illustrare
rapidamente alcuni dati che riguardano la produzione mondiale ed europea. Con una produzione di 400 milioni di tonnellate di riso lavorato, di cui 20 milioni destinati al commercio internazionale, il riso rappresenta una delle principali commodities a livello mondiale. Per tale
motivo, a differenza di molti altri comparti agricoli nazionali e comunitari, gli aspetti internazionali sono, in questo caso, cruciali.
Osservando più da vicino la configurazione dei bacini produttivi,
emerge il ruolo assolutamente predominante dell’Estremo Oriente che
complessivamente - Cina e Sud-Est asiatico - realizza quasi l’85% della produzione mondiale. La produzione europea di riso lavorato è di
circa 1.540.000 tonnellate, i consumi sono stimati in circa 1.720.000
tonnellate e le importazioni ammontano a 500.000 tonnellate. Le eccedenze vengono normalmente esportate con restituzioni comunitarie o
come aiuti alimentari.
La più grave anomalia del settore deriva dall’elevato prezzo interno,
che determina l’assoluta non competitività del riso nei confronti dei
prodotti succedanei. A tal riguardo, giova ricordare che i prezzi interni
dei cereali assoggettati alla riforma del ’92 sono diminuiti del 36%, a
Mario Francese è amministratore delegato di Euricom.
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Incontro con la “filiera”
cui va aggiunto un ulteriore 15% nell’ambito di Agenda 2000. Al contrario, i prezzi del riso greggio sono diminuiti solo del 15% a partire
dal ’95. Questa situazione rende elevata la differenza tra i prezzi del
riso europeo e quelli del mercato mondiale, con i primi che sono superiori di due volte e mezzo ai secondi. Ed è in questo contesto già squilibrato che si è abbattuta, nel 2001, la decisione del Consiglio europeo
di eliminare i dazi alle importazioni dai 48 paesi meno avanzati, per
tutti i prodotti eccetto le armi. Per il riso, in quanto considerato prodotto sensibile, il dazio sarà ridotto gradatamente, e poi eliminato dal
primo settembre del 2009. È questo lo scenario con cui ci si deve confrontare e nel quale stimolare il confronto tra la componente industriale, che noi rappresentiamo, e quella agricola, per individuare proposte
di riforma in grado di riequilibrare il settore.
Le linee guida che hanno accompagnato il nostro impegno sono
state le seguenti: riduzione del prezzo interno del riso greggio a livelli
tali da ridurre la concorrenza del riso d’importazione, compensazioni
al reddito agricolo, dazi equilibrati all’importazione, mantenimento
delle superfici massime garantite. Questo impegno ci ha portato, negli anni, a frequentare e ad apprezzare lo staff di Coldiretti, col quale
abbiamo più volte affrontato questi temi trovandoci molto spesso in
sintonia, almeno sugli obiettivi. Anche in questi giorni il confronto è
continuo, allo scopo di analizzare la proposta di riforma del settore
avanzata da Fischler, che riteniamo vada nella direzione da noi sempre auspicata.
L’altro punto di importanza strategica per Euricom è quello di attivare iniziative finalizzate a dare al nostro brand più importante - Curtiriso - un’immagine sempre più rassicurante per il consumatore. Per
raggiungere questo obiettivo, nel 2001 abbiamo stretto un accordo con
Coldiretti che ci consente l’utilizzo del suo “patto con il consumatore”
per tre anni. Al fine di assicurare la rispondenza del riso utilizzato, la
nostra società ha stipulato con le Federazioni provinciali di Pavia, Novara, Vercelli e Milano un accordo di collaborazione, che permette la
vendita del riso greggio necessario alla produzione del riso a marchio
Curtiriso. Il sistema di controlli, verifiche e certificazioni, finalizzati
alla tracciabilità, garantisce la commercializzazione di un prodotto
controllato a partire dal momento della semina. L’intero progetto coinvolge, responsabilizza e tutela, come mai in altri progetti di qualità del
passato, i produttori di base che dovranno fornire specifiche di coltivazione, garanzie di utilizzo di determinati prodotti in quantità rigorosamente accordate per la coltivazione e rispettare alcune cautele, espressamente indicate nell’accordo con Coldiretti.
Per ogni lotto di produzione è garantita la rintracciabilità totale,
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
125
giacché il “patto” ha l’obiettivo di fornire al consumatore stesso le
massime garanzie sul prodotto, grazie ad una perfetta conoscenza e
gestione del processo, ottenuti mediante un rapporto di stretta partnership col produttore. Inoltre la nostra società provvederà a pubblicizzare l’iniziativa sui più importanti quotidiani e periodici, al fine di sensibilizzare il consumatore, che dovrà comprendere cosa sia la filiera,
quali siano i suoi presupposti e il suo valore, esaltando il principio della sicurezza alimentare, la pulizia dell’ambiente in cui si attua la produzione agricola, il valore nutrizionale del riso e il rapporto con l’ambiente e il territorio. La certificazione e i controlli effettuati nel progetto di rintracciabilità generano ovviamente oneri, che in parte sono
compensati dal recupero di efficienza ma in parte ricadranno sul consumatore stesso. Si origina, così, un differenziale di prezzo che il
cliente dovrebbe essere disposto a pagare, purché a questo onere corrispondano una garanzia e una qualità percepita superiore alle referenze
convenzionali. È evidente che il successo si verificherà solo se la
grande distribuzione si dimostrerà, coi fatti, sensibile all’iniziativa.
Ma i presupposti ci dovrebbero essere, perché siamo accomunati alla
grande distribuzione dagli stessi principi.
In conclusione, abbiamo tentato di ascoltare e ben interpretare le necessità del mercato, che esige di dare attenzione all’ambiente, di riscoprire il gusto e l’etica del prodotto. Se le nostre aspettative si realizzeranno, grazie alla fiducia accordataci dalla Coldiretti, riusciremo a
conquistare per il nostro marchio e per il riso italiano spazi sempre più
ampi, oggi sul mercato domestico, domani sul mercato dell’Unione
che ci auspichiamo, a breve, allargata a 25 paesi.
Alfredo Gaetani
Per recuperare tempo eviterei di parlare delle attività del gruppo Parmalat nel campo della tracciabilità e in tutto ciò che riguarda i collegamenti con la filiera, perché per affrontare questo tema vorrei partire da
alcune considerazioni fatte dal Presidente di Coldiretti Paolo Bedoni.
Bedoni ha detto: «affianchiamo al patto con il consumatore il patto
tra imprese nella filiera», ha anche aggiunto: «scopriamo le infinite
ragioni che ci debbono portare a lavorare insieme per comuni obiettivi: non pensino, sia l’industria che la distribuzione, di poter rincorrere progetti astratti e meramente pubblicitari». Mi sembra che quanto è
emerso nel corso del Forum sostenga bene questa posizione. Ho preso
Alfredo Gaetani è amministratore delegato di Eurolat.
126
Incontro con la “filiera”
nota degli interventi di Mannheimer e di Tranchini grazie ai quali abbiamo potuto verificare che il consumatore non è per nulla disposto mi permetto di dire che noi già lo sapevamo - a essere oggetto di progetti meramente pubblicitari; richiede di sapere di più, vuole più etichettatura, fa scelte consapevoli, e allora il funzionamento della filiera
diventa un aspetto fondamentale.
Quindi vorrei fare una prima provocazione, costruttiva, rispetto alle
considerazioni del Presidente Bedoni. Anziché parlare di due patti,
uno di filiera e l’altro col consumatore, conviene forse parlare di un
patto della filiera con il consumatore. Credo che questa sia la strada
per arrivare a far funzionare la filiera nel modo giusto, se vogliamo
soddisfare le esigenze del consumatore. Per farlo, però, ci sono due
presupposti che dobbiamo ricordare. Il primo può sembrare banale,
ma credo sia in realtà difficile da perseguire perché non molto presente nel nostro Dna, in riferimento a tutte le componenti della filiera:
dobbiamo organizzare un sistema che sia veramente proiettato al mercato, dobbiamo uscire dalle tentazioni protezionistiche; credo che questa sia una volontà espressa a parole da tutti, ma metterla in pratica diventa la sfida dei prossimi anni.
Per fare un esempio, mi rifaccio a una delle linee fondamentali che
Coldiretti sta perseguendo in questi anni, e che tutti noi stiamo contribuendo a perseguire, vale a dire la localizzazione, l’origine del prodotto. È un classico elemento che può essere usato come fonte di vantaggio competitivo permanente, ma può tragicamente scadere in tentazione protezionistica se non utilizzato nel modo giusto.
Secondo presupposto è la capacità di innovare. Anche qui vorrei ripercorrere considerazioni già fatte. È stato ricordato quanto sia sbagliato pensare alla tradizione in termini statici, in termini di immobilismo, e quanto invece la tradizione possa costituire il presupposto per
un contatto efficace con la modernità. Quindi la capacità di innovazione è un aspetto fondamentale del funzionamento della filiera. A queste
considerazioni di fondo vorrei aggiungerne un’altra che riguarda l’identificazione degli strumenti che consentono di far funzionare la filiera. È importante organizzare bene la filiera, è importante individuarne bene i progetti, ed è altrettanto importante individuare gli strumenti
che possano consentire il suo migliore funzionamento. In questo senso
una strada, certamente non l’unica, potrebbe essere rivitalizzare l’interprofessione, ma pensandoci bene più che di “rivitalizzare” si tratterebbe di dare vita a qualcosa che, di fatto, quasi non esiste e che così
com’è, francamente, serve a poco.
Concludendo, in estrema sintesi, diciamo di sì alla filiera come condizione necessaria: sì, a patto che questa filiera lavori unita per il con-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
127
sumatore, in accordo con i fondamentali presupposti di sensibilità al
mercato e all’innovazione, per mettere in piedi strumenti che possano
servire a realizzare tutto ciò nel migliore dei modi. Se saremo capaci
di lavorare in questa direzione - e la disponibilità sembra esserci - i tagli di bilancio della politica agricola e i cambiamenti potranno essere
affrontati con maggiori possibilità di successo.
Maurizio Gardini
Ringrazio per l’opportunità di presentare un caso originale nell’ambito della discussione sulla filiera. Un caso originale, perché l’azienda
che rappresento, Conserve Italia, è un’azienda originale nel contesto
di un segmento tipico dell’agroalimentare; è un’azienda cooperativa,
la cui missione è valorizzare i prodotti ortofrutticoli conferiti dai soci
cooperatori, attraverso la trasformazione industriale e la successiva
commercializzazione, puntando allo sviluppo di marchi propri, che assicurano la continuità di sbocco sui mercati di consumo italiani ed europei. E questa è la missione di un’azienda che non nasce oggi, ma già
nei primi anni ’70, e contiene nel suo Dna gli elementi qualificanti e
significativi di una filiera che va dai campi al tavolo del consumatore.
Conserve Italia è diventata in una trentina d’anni, un arco di tempo
relativamente breve, la principale realtà conserviera in Italia e una delle prime a livello europeo. Oltre 500.000 tonnellate di materie prime
lavorate in quindici stabilimenti in Europa, di cui l’82% conferito dai
soci, con oltre 24.000 ettari di terreni coltivati. Un fatturato di circa
800 milioni di euro, con cinque società controllate dalla casa madre, la
Conserve Italia, delle quali una merita una menzione speciale: la Conserve France, una delle più significative realtà francesi di trasformazione nel campo delle conserve vegetali; realtà francese ma di proprietà italiana.
Oltre il 70% del fatturato è realizzato con i propri marchi: Valfrutta,
Yoga, Derby, Jolli Colombani, Mon Jardin in Italia, in Francia e nel
resto dell’Europa. Lo sviluppo di una politica di marca ha consentito
di creare uno stabile e duraturo legame col consumatore, e di conquistare rilevanti quote di mercato, che consentono di assicurare sbocchi
di mercato stabili e duraturi ed un maggior valore aggiunto ai prodotti
dei soci commercializzati da Conserve Italia.
In un momento in cui il problema della sicurezza ha riportato al centro della politica agroalimentare europea il controllo della filiera e la
Maurizio Gardini è presidente di Conserve Italia.
128
Incontro con la “filiera”
sua tracciabilità, Conserve Italia ha visto riconosciuto un valore intrinseco alla propria organizzazione di sistema, che ha caratterizzato l’azienda fin dalle sue origini: il controllo completo della produzione dai
campi fino alla tavola del consumatore. Un plus produttivo con cui è
stato caratterizzato il marchio Valfrutta fin da quando è stato creato “la natura di prima mano” - per sottolinearne l’originalità nel panorama del settore agroalimentare italiano ed europeo. Tale valore è stato
riconosciuto dai consumatori, che oggi attribuiscono al marchio Valfrutta connotazioni quasi assimilabili ad un marchio per prodotti biologici, senza offesa per chi opera efficacemente sul biologico.
Una così forte connotazione del marchio è strettamente correlata alle
origini di Conserve Italia, che è nata, come tutte le vere aziende cooperative - desidero sottolinearlo -, dai produttori agricoli riuniti in cooperative ortofrutticole di primo grado, che hanno deciso di entrare nel
settore della trasformazione industriale per meglio valorizzare il proprio lavoro attraverso un processo di filiera.
La filiera di Conserve Italia si sviluppa su due livelli: quello produttivo e quello organizzativo. Il livello produttivo mette in rapporto diretto
il mercato finale delle conserve con i prodotti agricoli. L’azienda è organizzata su base gestionale budgetaria e pertanto si crea un legame a doppio filo che impegna Conserve Italia nei confronti dei soci e viceversa,
sulla base di impegni di conferimento da una parte e direttive dall’altra.
C’è un budget commerciale da cui dipende un budget di produzione; ci
sono programmi di produzione di materie prime distribuite ai soci, programmi di semina per le orticole e programmi di impianto per la frutta.
Il socio produttore conferisce poi il prodotto a Conserve Italia e, attraverso politiche commerciali di marketing, direttamente al consumatore.
Il livello organizzativo della filiera vede Conserve Italia integrata
nella base sociale delle organizzazioni dei produttori, dell’Op Apoconerpo, che gestisce sul piano organizzativo e normativo l’intera filiera,
che comprende sia i prodotti destinati al mercato fresco che quelli destinati all’industria. L’organizzazione dei produttori rappresenta quindi
la struttura di base attorno a cui gravita tutta la politica comunitaria
che attiene all’Ocm dei prodotti ortofrutticoli che possono così avvalersi delle risorse dell’Unione Europea, per sviluppare la concentrazione dell’offerta e la creazione di strutture commerciali in grado di valorizzare i prodotti sul mercato.
Il controllo della filiera, per essere visibile al consumatore, deve essere veicolato attraverso la tracciabilità, che nell’ambito del nostro sistema
è già implicita nel rapporto di conferimento con il socio produttore, da
una parte, e in quello di scambio con la distribuzione, dall’altra.
Sul fronte agricolo, Conserve Italia ha una conoscenza puntuale dei
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
129
propri soci, dispone attraverso l’organizzazione dei produttori dei catasti di tutte le produzioni orticole e frutticole, conosce le tecniche colturali applicate su ogni singolo appezzamento di pesche, pere, pomodori o piselli, e fornisce un’assistenza tecnica specialistica in campo,
attraverso una rete di oltre duecento tecnici agricoli che trasferiscono
ai soci gli indirizzi colturali per le diverse tipologie di produzione, da
quelle integrate fino a quelle biologiche.
In Conserve Italia è già stata implementata la tracciabilità sui lotti
dei prodotti finiti ed è in fase di attivazione quella che va lungo tutto il
processo produttivo, dalla ricezione della materia prima per chiudere
l’anello con la produzione agricola. In breve tempo, ciò che è implicito nella filiera Conserve Italia - cioè la provenienza e la qualità della
materia prima e la sicurezza del processo industriale di trasformazione
- sarà esplicitato e verificabile sulla confezione dei prodotti finiti.
Per conseguire obiettivi, per essere sempre leader di mercato con
nuove tecnologie di processo e di prodotto, Conserve Italia ha varato il
maggior investimento mai realizzato in Italia nel settore conserviero,
ovvero la costruzione di un nuovo grande stabilimento localizzato in
provincia di Ferrara, che comporterà un investimento di oltre 80 milioni di euro. L’impianto inizierà la propria attività nel 2003 e verrà
completato nel 2004. La potenzialità del nuovo impianto sarà pari ad
oltre 250 mila tonnellate di materie prime, consentirà di ampliare le
produzioni di derivati di pomodoro, frutta e vegetali, di ridurre i costi
di produzione per potenziare la presenza commerciale del gruppo sui
mercati europei e su quelli dei paesi Peco, dando nel contempo la possibilità ai soci di espandere le coltivazioni di prodotti ortofrutticoli da
industria. Un progetto a duplice valenza agricola e commerciale che
darà nuova spinta alla filiera integrata di Conserve Italia.
Luciano Sita
Credo ci sia una combinazione virtuosa, possibile ma anche necessaria, fra “il patto con i consumatori” e “il patto di filiera”, l’uno si integra nell’altro e genera valore per il produttore, sicurezza e qualità
per il consumatore.
Cercherò di riassumere quanto ha fatto in proposito il gruppo Granarolo, una filiera originale per struttura societaria, con base cooperativa,
che ha alimentato i valori del nostro lavoro. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti per quanto riguarda la certificazione e la tracciaLuciano Sita è presidente di Granarolo.
130
Incontro con la “filiera”
bilità, per dare valore alla produzione agricola e sicurezza e qualità ai
consumatori. Abbiamo così ottenuto le certificazioni Iso 9000 degli
stabilimenti, abbiamo realizzato per il 2001 il Bilancio di sostenibilità
sociale, abbiamo avuto le certificazioni ambientali per quasi tutti gli
stabilimenti, e stiamo lavorando per la certificazione etica Sa8000 che
contiamo di ottenere all’inizio del prossimo anno.
Tutte queste cose fanno parte di un Dna che ha radici cooperative
che vengono da lontano, che abbiamo saputo aggiornare, rinnovando
anche sul piano della struttura societaria la forma cooperativa nel particolare business in cui operiamo, e che ci hanno aiutato a intraprendere un percorso, peraltro non ancora concluso. Abbiamo dato avvio a
programmi per una qualità percepita del latte fin dal 1984, nel ’92 abbiamo lanciato per primi l’alta qualità, nel ’94 il biologico fresco, negli ultimi anni abbiamo avviato un’evoluzione del metodo di lavoro
verso un sistema di certificazione con un miglioramento continuo e
graduale nel tempo. Abbiamo interessato, in questo lavoro, la produzione alla stalla, il trattamento e il confezionamento di 2.085.000
quintali di latte italiano di alta qualità e biologico, prodotto in 11 regioni del nostro paese e lavorato in 8 stabilimenti; e abbiamo coinvolto 298 aziende mangimistiche di fornitura di prodotti zootecnici, 297
aziende agricole che producono alta qualità e biologico, 14 cooperative di raccolta, 56 raccoglitori, 12 tecnici, fra veterinari zootecnici e
tecnici di laboratorio, il Crpa di Reggio Emilia per i programmi informatici, il Dipartimento di Sanità pubblica e veterinaria dell’Università
di Bologna e il Csqa come ente certificatore.
Dall’agosto 2000 al settembre 2002 abbiamo svolto un enorme lavoro: 1.500 visite aziendali per formazione, formalizzazione e controllo
delle procedure, 70 mila analisi sul latte e sui prodotti zootecnici. Un
lavoro comune fra Granlatte, la cooperativa dei produttori e Granarolo
Spa, un lavoro che ha interessato l’allevamento delle bovine, l’alimentazione, tutto ciò che si usa per la produzione del latte, la raccolta e il
trasporto negli stabilimenti, la lavorazione, il trattamento termico, il
confezionamento, il codice di tracciabilità, il trasporto refrigerato primario. Stiamo lavorando anche sul trasporto secondario, che rappresenta un problema più complesso.
Grazie a questo lavoro, abbiamo ottenuto due tipologie di certificazioni dal Csqa: la certificazione relativa al sistema di gestione della
rintracciabilità, con riferimento alla norma Uni 10939, e la certificazione relativa al sistema di gestione e controllo delle caratteristiche
igienico sanitarie lungo tutta la filiera degli allevamenti.
Abbiamo ottenuto qualità, professionalità, migliore remunerazione
del lavoro dei produttori di latte nostri soci, maggiore efficienza, mi-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
131
nore possibilità di sfruttare situazioni di comodo e, quindi, una imprenditorialità più solida e continuativa nel tempo, maggiore sicurezza, maggiore forza del marchio Granarolo nel mercato. Un motivo ulteriore per essere preferiti dalla distribuzione e per realizzare nel mercato questi valori, che contiamo di aver riconosciuti dal consumatore.
Un consumatore che, come ha evidenziato la ricerca presentata da
Mannheimer, vuole informazione, qualità, sicurezza, e che solo se ci
sono questi ingredienti può anche apprezzare la marca, se c’è chi fa
politica di marca. Però la marca da sola, senza queste altre cose, regge
poco nel mercato. Abbiamo cercato di costruire una combinazione virtuosa e riteniamo di avere dato valore al latte, a tutto il latte, anche a
quello dei nostri concorrenti, perché siamo convinti che quando si parla bene di latte, ciò faccia bene a tutti. In ultima analisi, crediamo di
avere contribuito a dimostrare con i fatti che quanto Coldiretti indica
come strategia vincente è cosa possibile e perseguibile con profitto.
Vincenzo Tassinari
Ringrazio Coldiretti per l’invito a questo evento, sempre più centrale
nella discussione della nostra attività. Intervengo come ultimo anello
della filiera, alla quale tutti ci riferiamo, sebbene io creda che non tutti
abbiano l’esatta percezione di quanto stia effettivamente avvenendo nel
mondo della grande distribuzione moderna.
Anziché presentare la posizione di Coop Italia, che rappresento, preferirei affrontare un discorso più generale, in modo sintetico e anche brutale. Il 66% dei consumatori italiani ritiene che i prodotti più sicuri siano
quelli venduti dalla grande distribuzione moderna. È un dato noto, ma
bisogna interpretarne bene il significato. A mio avviso, il significato è
che il rapporto del consumatore con i prodotti alimentari è cambiato radicalmente e strutturalmente, e in questo cambiamento radicale la distribuzione moderna ha un ruolo fondamentale. Mi rivolgo anche alle grandi industrie di marca, a Barilla e a Ferrero queste cose non fanno piacere, ma non le sostengo io, le dicono nei fatti milioni di consumatori, che
ancor prima di scegliere il prodotto e la marca produttiva scelgono l’insegna nella quale entrare e comprare.
Nel giro di pochi anni siamo passati, al 2002, ad una situazione in cui
l’86,9% della distribuzione moderna italiana è praticamente concentrata
in cinque gruppi; la favola della polverizzazione è finita, solo cinque
grandi gruppi. Di questi cinque grandi gruppi, tre sono a insegna stranieVincenzo Tassinari è presidente di Coop Italia.
132
Incontro con la “filiera”
ra: gruppo Auchan, gruppo Carrefour, gruppo Metro, mentre i gruppi
italiani sono Coop - Conad ed Esselunga - Selex. Nel ’95 la presenza
della distribuzione straniera in Italia era del 3,5%; oggi è del 44% e questa percentuale è destinata ad aumentare. Sono considerazioni che ho
già espresso l’anno passato, in questa stessa sede, e che continuo a ripetere nel silenzio assoluto della politica economica. Non posso, infatti,
fare a meno di notare che mentre parliamo tutti della crisi Fiat, nessuno
ha notato che lo stesso gruppo ha lanciato un’Opa sulla Rinascente: per
chi non lo sapesse ciò vuol dire, nella peggiore delle ipotesi, che in Italia
arriva Walmart e, nella migliore delle ipotesi, vuol dire che il cento per
cento di questa gloriosa insegna distributiva italiana passa sotto il dominio di Auchan, gruppo internazionale francese, con tutte le conseguenze
che ne deriveranno: perché questi distributori globali privilegeranno i
fornitori globali e privilegeranno i loro bacini produttivi di provenienza.
Credo che questo aspetto non possa continuare a passare sotto silenzio e
a non essere valutato.
Quando ci si riferisce al grande ruolo della distribuzione moderna, bisogna allora provare a capire il grande ruolo della distribuzione moderna in Italia, perché dubito che da noi stia avvenendo ciò che avviene in
altri paesi, dove se c’è un’agricoltura forte c’è anche una forte distribuzione moderna: è così in Francia, in Germania, in Olanda. Se, invece, il
sistema paese è debole, se è debole nella sua parte produttiva agricola e
industriale, allora è debole anche sul fronte del rapporto col consumatore e della grande distribuzione, e ciò comporta delle conseguenze che le
politiche economiche non sembrano riconoscere. Gli operatori che sono
esposti in prima linea conoscono bene queste conseguenze, mentre nei
paesi dove la politica economica esiste, al di là della loro internazionalizzazione, hanno creato una struttura di distribuzione moderna che opera di fatto come una forte barriera difensiva: provate a entrare in Francia, in Inghilterra o in Olanda per capire che cosa significa questo.
Per quanto riguarda il rapporto con il mondo dell’agricoltura, accolgo
con grande interesse le proposte che vengono dalla Coldiretti: “il patto
della filiera” e “il patto con il consumatore”; anche l’interpretazione che
ne ha dato il dottor Gaetani, come patto “della filiera con il consumatore”, è condivisibile e credo che ciò sia assolutamente importante. Noi,
come Coop, nell’ultima assemblea abbiamo lanciato un programma di
valorizzazione della nostra offerta, perché la sfida del prossimo futuro è
una sfida fra giganti, dove serve massa critica, e noi non siamo giganti,
per le cose che dicevo prima. Ma è anche una sfida sulla distintività, e
credo che su questo il sistema Italia abbia qualche cosa da dire e possa
non solo sopravvivere ma anche vincere. Ciò comporta la necessità di
puntare sulla nostra missione, sui nostri valori, sulle nostre logiche di
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
133
offerta, sul nostro prodotto o marchio. Per il sistema agroalimentare italiano la chiave per competere sui mercati internazionali è ovviamente
quella di puntare sulla nostra distintività, sui nostri valori.
Per quanto riguarda la sicurezza alimentare, siamo ovviamente tutti
d’accordo, tuttavia bisogna fare in modo che la sicurezza si affermi non
solo in termini di obbligatorietà, ma che essa venga rispettata spontaneamente e che, per così dire, arrivi fin dove il consumatore ha fatto la spesa, fino a casa, fin sul piatto, giacché manca ancora un’adeguata educazione alimentare, sia in termini igienici che nutritivi e le patologie e i
decessi derivanti da cattiva alimentazione, dal mangiar male, sono ancora numerosissimi.
C’è quindi, sicuramente, un fronte di politica istituzionale dove la Comunità europea e il governo italiano devono fare la loro parte per sostenere la filiera alimentare. Il piano che propongo è qualcosa che metta
insieme una progettualità imprenditoriale di sistema, in cui il sistema
agroalimentare italiano e il sistema distributivo italiano discutono insieme progetti concreti per ottenere maggiore efficienza, non solo per
la bandiera del made in Italy ma per dare valore in cambio del prezzo
che si chiede, per offrire contenuti concreti in cambio della disponibilità del consumatore italiano a spendere qualcosa di più per la nostra
produzione. Ritengo, in conclusione, che se azioni concrete vengono
orientate da un progetto, se si punta ad un modello imprenditoriale,
questo patrimonio che è il sistema agroalimentare italiano non solo ha
la possibilità di sopravvivere ma anche di vincere nella competizione
in Italia, in Europa e nel mondo.
Alessandro Arioli
Vorrei soffermarmi sul tema, più volte citato, degli Ogm e delle biotecnologie, tema che appartiene ad un contesto più ampio di dibattito,
che riguarda l’agricoltura di qualità e la sostenibilità dei processi di filiera. Una prima considerazione è che non esiste un rapporto di sinonimia tra Ogm e biotecnologie. Gli Ogm sono una piccola componente
dell’ampio spettro delle biotecnologie, e queste ultime hanno la loro
origine nella notte dei tempi, perché qualunque processo che abbia a
che fare con la produzione, anche di prodotti tipici che hanno una lunga tradizione nel nostro comparto agroalimentare, è frutto di biotecnologie. Dall’aceto, al vino, al pane, parliamo comunque di un’applicazione di biotecnologie.
Alessandro Arioli è presidente di Qualitalia.
134
Incontro con la “filiera”
Si è fatto riferimento ai moderni sistemi di certificazione della qualità, sono stati citati i modelli Iso 9000, i modelli di certificazione etica, ricordo anche che ci sono modelli di certificazione di filiera, certificazione di processo e prodotto. Che rapporto hanno questi sistemi di
certificazione con il senso di filiera, con la tipicità del territorio, che
sono una vocazione assoluta dell’agroalimentare italiano? Ebbene, nei
sistemi di certificazione della qualità esistono quattro modi di esprimere un giudizio: due giudizi drastici, il “sì” e il “no”, e due giudizi
più flessibili, il “sì ma” e il “no però”. I due giudizi più assolutisti rappresentano, se vogliamo, anche posizioni di tipo ideologico. Il sì totale
ad un Ogm indica una propensione nettamente business-oriented. Il no
totale all’utilizzo delle biotecnologie, nella fattispecie degli organismi
transgenici, potrebbe sottintendere un atteggiamento ideologico per un
assunto ex ante. Ma il Ministero delle politiche agricole ha assunto la
posizione più moderata, quella del “no però”, un no motivato da molte
considerazioni sia di tipo macroeconomico sia di tipo microeconomico
relativo all’agroalimentare, in riferimento all’opportunità economica
dell’introduzione degli Ogm, che possono significare, lo ricordo, un
punto di non ritorno.
Infatti, dopo quattro miliardi di anni vita sulla terra, che sono stati
necessari per evolversi, per stabilire i rapporti dell’evoluzione con la
selezione naturale, l’introduzione degli Ogm altera questa consecutio,
altera i fenomeni di azione-reazione introducendo elementi che potrebbero essere, appunto, di non ritorno. Non sappiamo nulla, per
esempio, su come i transgenici, cioè quella componente del Dna che
viene modificata attraverso le tecniche di ingegneria genetica, si comportano, non tanto nei confronti della salute umana quanto nella contaminazione dei sistemi tradizionali. La distinzione tra prodotto tradizionale convenzionale e prodotto Ogm sottintende che il concetto di Ogm
free non è un concetto relativo. Ogm free non significa che c’è una
blanda presenza di Ogm, significa che non ce n’è per nulla: free from,
cioè libero da. Ciò implica che il nostro approccio, anche alla verifica
analitica, debba essere di tipo qualitativo e non quantitativo. E questo
fa piazza pulita, anche concettualmente, del discorso relativo alle soglie. Le soglie non sono un argomento di discussione. Le soglie nel
modello Ogm free non esistono.
Tornando all’atteggiamento del Ministero delle politiche agricole nei
confronti degli Ogm, la posizione non drastica, sintetizzata nel “no
però”, significa attenzione ad evitare ogni forma di oscurantismo nei
confronti della ricerca, perché è assurdo non sapere, non conoscere, e
perché ci sono ancora ampi margini di ricerca sui quali ci si deve concentrare, per renderne evidenti e ripetibili i risultati. La ricerca deve an-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
135
che verificare, in parallelo, che cosa può essere reso disponibile dai sistemi tradizionali e dalle nuove tecnologie agronomiche; dalle recentissime plastiche totalmente biodegradabili in acqua che possono, per
esempio, risolvere il problema anche nel biologico, all’uso dei diserbanti. Siamo in grado di montare dei sistemi non soltanto eco-compatibili
ed eco-sostenibili, ma anche interessanti dal punto di vista tecnico-economico. D’altronde, piccole prove, attualmente allo stato sperimentale,
hanno dimostrato la convenienza di tecnologie avanzate nella coltivazione del mais, con addirittura un 35% di incremento di produzione rispetto ai sistemi tradizionali; nella pianura Padana, utilizzando la micro
irrigazione a goccia e le tecniche di ferti-irrigazione, cioè con l’iniezione di micro quantità di fertilizzanti, è possibile risolvere molti problemi
di impatto ambientale, e insieme di risparmiare il 40% di acqua a parità
di superficie. Questo senza ricorrere a tecnologie di modifica genetica.
Ci attende un lavoro impegnativo, un lavoro che riguarda anche la
qualità dei prodotti alimentari e che è in forte sinergia con altri progetti svolti dal Ministero delle politiche agricole.
136
Incontro con la “filiera”
Interventi
Ben Gill
Ho ascoltato con interesse quanto sino ad ora è stato trattato dal
punto di vista politico, economico e sociologico. Per quanto mi riguarda, vorrei invece attenermi più ad aspetti pratici, perché spesso la pratica differisce dalla teoria. In particolare, vorrei approfondire il tema
della multifunzionalità e le sue prospettive di sviluppo.
Ho notato che, nel corso di questo dibattito, nessuno ha ancora citato
quella che io ritengo essere la parola chiave di molti settori di riforma
della Pac e dell’intero sistema agricolo e alimentare, ossia la parola
“sostenibilità”. Sostenibilità è il termine che sta facendo il giro del
mondo. Dopo la conferenza di Johannesburg, che si è conclusa in settembre, tutto deve essere “sostenibile”. Purtroppo, spesso non si pensa
alla sostenibilità come ad una parola chiave. La sostenibilità è, in
realtà, composta da tre rami intrecciati tra loro: esiste senz’altro quel
ramo della sostenibilità, a cui in genere si pensa in relazione all’ambiente, che fa riferimento alla multifunzionalità; vi è un secondo ramo
a cui si pensa in termini sociali, che ancora una volta si può ricondurre
alla multifunzionalità; spesso, tuttavia, viene ignorato il terzo ramo,
dal quale proviene l’olio che lubrifica e che consente agli altri due rami di funzionare: il ramo della redditività.
La “redditività”, oggi, nel nostro mondo, nella nostra società “politicamente corretta”, è talvolta considerata quasi un termine “sporco”. La
redditività è quella cosa orribile di cui parlano i capitalisti per gonfiare
le loro tasche a spese di altri settori della comunità. Eppure, senza redditività è impossibile perfino pensare a una società sostenibile.
Il professor Tangermann ci ha illustrato alcune cifre relative ai redditi degli agricoltori europei. Se considerassimo quegli stessi dati per
gli agricoltori del Regno Unito, potremmo notare che le cifre corrispondenti sarebbero al di sotto del minimo consentito: molti agricoltori inglesi non riescono a guadagnare nemmeno il salario minimo.
Quelle cifre, inoltre, possono celare una moltitudine di peccati: ad
esempio, quante ore lavora un agricoltore? Le ore di lavoro in Gran
Ben Gill è presidente della National Farmers Union (Nfu).
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
137
Bretagna sono, in agricoltura, ben al di sopra della media nazionale: la
settimana lavorativa di 48 ore è un sogno! Quindi se riconduciamo
questi dati in termini di reddito reale e se si tiene conto degli investimenti, il risultato è estremamente deludente: gli agricoltori non hanno
grandi ritorni sui loro investimenti.
Il professor Sumpsi, illustrando la situazione in Spagna, ha detto
che gli agricoltori dovrebbero essere soggetti alle stesse normative
ambientali applicate al resto della società. Certo, deve essere così, ma
ogni normativa deve essere giustificata e proporzionata. Temo, invece, che al momento la società sia dominata da una tendenza politica,
diciamo così, populistica, che ci porta ad avere leggi e regolamenti
creati spesso per capriccio e non dopo profonda riflessione. Considerati uno per uno, questi provvedimenti sembrano spesso essere fine a
sé stessi, completamente isolati, privi della capacità di creare quell’effetto complessivo che ci si dovrebbe aspettare dall’insieme delle
leggi. L’impressione, in altri termini, è che molti provvedimenti stiano diventando sproporzionati rispetto alle reali necessità e mettono a
rischio quella stessa redditività che è la base della sostenibilità per il
futuro.
Il nostro problema - e usando il termine “nostro” intendo non circoscriverlo agli agricoltori ma farne un problema comune - si può riassumere in formule semplici: bisogna creare una catena alimentare sostenibile basata sulla redditività, bisogna ricollegare l’agricoltore al consumatore per mezzo della catena alimentare, far sì che gli agricoltori
acquisiscano maggiore consapevolezza degli interessi e delle esigenze
della categoria dei consumatori. Bisogna anche riconoscere che la
paura del cambiamento sta creando una vera resistenza in seno alla comunità degli agricoltori. Gli agricoltori vanno aiutati, portati per mano
lungo questo percorso, va spiegato loro che il cambiamento non è così
brutto e pericoloso come talvolta lo si dipinge ma che può portare a
qualcosa di meglio. Certo è che al momento, in Gran Bretagna, con la
sterlina forte e l’alto carico legislativo, qualcosa di diverso non potrebbe essere peggio dell’esistente.
Allo stesso modo, dovremo far sì che il consumatore e l’industria
del settore si ricolleghino anch’essi con l’agricoltore e capiscano anch’essi la legge fondamentale del mercato. Legge secondo la quale se
l’agricoltura deve continuare ad esistere deve generare un reddito. Il
reddito non è una parolaccia, è al centro di tutto. Oggi, l’agricoltura e
la catena alimentare rappresenteranno forse meno del 2% del Pil, ma
bisogna pur sempre ricordare che sono alla base e al centro dell’industria alimentare, che nelle isole britanniche credo rappresenti il 14%
del Pil. Percentuale alla quale va aggiunto, quale elemento di multi-
138
Interventi
funzionalità, un altro 6% che viene dal turismo rurale. E non è finita
qui. In altre parole, gli agricoltori sono il nucleo centrale di questo
20% del Pil britannico. Se i vari governi che si succedono e la Comunità continuano a legiferare in questo modo, in maniera da intrappolarci in normative che ci rendono impossibile un qualsiasi utile, c’è il rischio di vedersi costretti a scomparire.
Questo è quanto sta già succedendo oggi nell’agricoltura del Regno
Unito, dove abbiamo perso, in media, 20.000 posti di lavoro all’anno.
Come se la Opel, che nel Regno Unito si chiama Vauxhall, chiudesse
tutte le sue attività due volte l’anno! Se questo succedesse, i media direbbero che si tratta di uno scandalo nazionale. Perché non viene detto
anche per quel che accade nel settore agricolo o nella nostra industria
agroalimentare? Perché non viene creata e rafforzata la filiera di cui
c’è bisogno? È necessario dare ascolto ai saggi consigli di Paolo Bedoni e a quanto detto da Corrado Pirzio Biroli, l’uomo che lavora dietro le quinte di Franz Fischler, l’uomo delle idee. Li si ascolti attentamente, per riformare le parti della Pac che avrebbero dovuto già essere
oggetto di riforma nel 2000, quando le decisioni da prendere non furono prese; li si ascolti anche per eliminare le assurde normative e le limitazioni con le quali dobbiamo fare i conti; per consentire agli agricoltori di fare quello per cui sono stati formati: coltivare le terre e non
essere sommersi di carte. Carte che vanno costantemente compilate
per fare qualunque cosa. Possiamo spostare le scorte? Possiamo coltivare questo o quest’altro raccolto? Quando possiamo mietere il raccolto? È un vero e proprio incubo.
L’elemento di sostenibilità ambientale con il quale bisogna realmente fare i conti, ogni giorno in campo agricolo, è la variazione climatica, che tocca tutti, con gli imponenti cambiamenti in materia di piogge, caldo, freddo, con i livelli di anidride carbonica che aumentano: è
questa la grande sfida. L’unico modo che abbiamo per modificare questa situazione, l’unico modo incisivo, è quello di utilizzare la pianta
verde. Negli anni a venire, usare il terreno coltivabile per eliminare
anidride carbonica dall’aria e utilizzare i prodotti di queste piante per
sostituire, ad esempio, il petrolio minerale ci garantirà una vera sostenibilità. Forse, consentirà anche di equilibrare il mercato e di lavorare
ad un obiettivo comune per tutti gli agricoltori: quello della sostenibilità della catena alimentare, con una riforma della Pac che sia intelligente, pertinente, proporzionata e non un incubo burocratico-normativo; che ci consegni, infine, una redditività che oggi è amaramente assente per molti dei nostri agricoltori, in modo particolare nel Regno
Unito. Chiediamo una cosa semplice: una paga onesta per una onesta
giornata di lavoro.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
139
Jean Michel Lemétayer
Ho accolto con piacere la proposta di intervenire a questo incontro e
colgo l’occasione per ringraziare l’amico Paolo Bedoni, Presidente della
Coldiretti.
A Parigi è attualmente in corso il Salone dell’Alimentazione, il Sial, e
anche lì ho potuto notare che nel salone emergevano, in maniera consistente, i colori italiani; con una forte presenza di imprese agroalimentari
italiane. Pertanto, tra il salone di Parigi e la mia presenza qui, questa è
per me davvero una settimana “all’italiana”.
Il mio intervento sarà incentrato su come il Presidente della Fnsea ha
recepito le decisioni prese ieri al vertice di Bruxelles, dopo che il Capo
dello Stato francese Jacques Chirac e il Cancelliere tedesco Schroeder
sono pervenuti ad un accordo sugli impegni di bilancio e sulle politiche
agricole, accordo che definirei bilaterale, sebbene l’Unione Europea dovrebbe funzionare a 15.
Si potrebbe pensare che il Presidente della Fnsea, in occasioni del genere, si trovi in prima fila al momento di discutere, invece, almeno in
Francia, non funziona così: in prima fila ci sono i politici. Forse sarebbe
bene distinguere l’ambito tecnico e professionale da quello più squisitamente politico, ma in qualità di rappresentante sindacale non posso certo esimermi completamente da responsabilità di tipo politico.
Tornando al dossier sulla politica agricola, posso dire che noi non abbiamo accettato le proposte recentemente avanzate dal Commissario
Franz Fischler per una riforma radicale della politica agricola comune.
Questo perché gli accordi di Berlino del 1999 prevedevano un appuntamento di semplice revisione, appunto la Mid-term review.
Riguardo alle proposte di Fischler, abbiamo valutato che la riforma in
esse proposta è inopportuna, per tre ordini di problemi: il momento, il
mandato ed il modello.
In primo luogo, il momento, che non è certo dei migliori. Sarebbe, infatti, opportuno che gli agricoltori potessero stare tranquilli per un periodo di tempo prolungato. Gli accordi di Berlino prevedevano un periodo
di applicazione del modello di Agenda 2000 dal 2000 al 2006, mentre
dopo appena un paio di anni si è cominciato ad ipotizzare un ulteriore
cambiamento della politica agricola e questo, di certo, non gioca a favore dell’agricoltore. Siamo convinti che non sia questo il momento di avviare una nuova riforma della Pac, e neanche di ragionare sull’allargamento dell’Unione Europea o sulle trattative relative all’Organizzazione
Jean Michel Lemétayer è presidente della Fédération Nationale des Syndicats d’Exploitants
Agricoles (Fnsea).
140
Interventi
Mondiale del Commercio, quali possibili pretesti per una riforma delle
politiche agricole. Non vogliamo che, con la scusa di operare in direzione di un allargamento o di fornire nuove garanzie agli americani o ad altri gruppi, si debba nuovamente intervenire sulla politica agricola.
È vero che a Johannesburg la politica agricola europea è stata oggetto
di forti attacchi, ma sono più che mai convinto che, proprio in questi casi, i nostri Capi di Stato e di Governo e i Commissari competenti devono avere il coraggio di difenderla. Mi piacerebbe che avessero lo stesso
coraggio e la stessa energia che mette Bush nel difendere la politica
americana e la nuova legge americana, il nuovo Farm Bill. Durante una
recente riunione in Messico, ci siamo ritrovati in molti a criticare le novità presenti nella politica americana, ma posso assicurarvi che i miei
colleghi del Farm Bureau, gli agricoltori americani, hanno confermato,
senza alcun complesso, il loro appoggio alla politica americana.
Veniamo ora al mandato. Avrebbero dovuto esserci ruoli ben definiti:
la Commissione con le sue responsabilità, i Capi di Stato e di Governo
con le loro, così come i Consigli dei Ministri e, nel nostro caso, il Consiglio dei Ministri per l’Agricoltura. Così non è stato. Bisogna pertanto
accettare il fatto che a prendere le decisioni riguardo alla proposta fatta
dalla Commissione siano stati i Capi di Stato e di Governo.
Infine, il modello. Si tratta, a mio avviso, del punto più importante.
Che politica agricola vogliamo per i contadini europei? È di questo che
bisogna parlare.
Siamo risolutamente impegnati, sia in Francia che nel resto d’Europa, nei confronti di un certo tipo di politica: qualità, sicurezza sanitaria, conservazione ambientale, benessere degli animali e così continuando. Su questi temi siamo d’accordo e ci riteniamo impegnati. In
Francia abbiamo cercato di sviluppare il concetto di denominazione di
origine controllata. In Italia parlate di Dop, noi di indicazione geografica di provenienza, altri parlano di label, ma al di là delle denominazioni di origine, al di là dei labels, delle produzioni certificate, dell’agricoltura biologica, stiamo cercando in Francia di sviluppare il concetto di “agricoltura ragionata”.
Al contempo, riteniamo che al fianco di una politica della qualità, della sicurezza sanitaria, dell’ambiente e del benessere animale, si possa
sviluppare una politica di diminuzione dei prezzi. Ma ciò implica che gli
agricoltori debbano percepire dei premi più remunerativi, che poi è il
caso attuale, al fine di stabilire un legame con le politiche internazionali.
È necessario valutare con cura la logica di liberalizzazione che ci viene richiesta e che ci vincola all’Organizzazione Mondiale del Commercio; bisogna, infatti, stare attenti a non considerare l’agricoltura un’industria come le altre, con il rischio di scavalcare le nostre specificità regio-
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
141
nali, agricole, e non solo agricole bensì culturali, giacché i prodotti legano il coltivatore al territorio, alla regione.
Se siamo convinti che sia necessario porre un freno a questa logica,
bisogna opporsi al sistema che tende a considerare ogni tipo di importazione come semplice acquisto all’estero di prodotti, ed essere invece
consapevoli che importando prodotti si importano anche riduzioni dei
prezzi, e questa è una logica che ci sentiamo di dover contrastare. Per
poterlo fare, è necessario giungere ad una comprensione politica del fenomeno, che coincida con una forte alleanza tra noi e i consumatori.
La comprensione politica aiuterà a fare in modo che la politica agricola europea di domani, al di là del suo aspetto budgetario, di cui potremo
discutere, sia in grado di regolare i propri mercati.
Ai produttori viene chiesto di gestire al meglio l’offerta, andando al di
là della normale concorrenza di mercato, per evitare un aggravio della
nostra situazione con fenomeni di sovra-produzione, che portano, come
conseguenza inevitabile, ad un abbassamento dei prezzi. Una volontà
politica di difesa delle organizzazioni comuni di mercato, a livello europeo, è altrettanto importante che una politica di aiuti diretti. Questo è
quanto riteniamo utile fare in Francia.
In merito, infine, all’alleanza con i consumatori, cui accennavo, ritengo che essa sia indispensabile al fine di avere chiari gli interessi che si
hanno in comune. In Francia - non so se in Italia sia stato lo stesso - i
consumatori hanno avuto un ruolo attivo in occasione delle crisi sanitarie, del quale bisogna prendere atto. La Bse, la diossina, l’afta epizoica,
hanno spinto i consumatori a chiedersi che direzione avessero preso i
produttori in materia di sviluppo agricolo.
In conclusione, ritengo fondamentale l’alleanza con i consumatori per
ristabilire un clima di fiducia, di cui noi abbiamo assoluto bisogno. Questa fiducia deve passare per la trasparenza dei modelli agricoli, dei modelli agronomici e dei modelli d’allevamento, tutti inseriti all’interno di
filiere meglio organizzate, attorno alle quali possano ritrovarsi, a stretto
contatto, produttori e industriali con il mondo della distribuzione e con
quello dei consumatori.
142
Interventi
Helmut Born
Ringrazio per l’opportunità di intervenire a questo Forum, che si
svolge a immediato consuntivo di due giorni importanti per l’Europa,
subito dopo il vertice di Bruxelles.
Vorrei soffermarmi prima sugli aspetti politici e poi su quelli di
mercato. Questi ultimi perché, nel corso del Forum, sono stati affrontati alcuni aspetti del sistema di qualità e sicurezza della catena alimentare e forse potrebbe interessare il nostro punto di vista su questi
argomenti.
L’associazione degli agricoltori tedeschi lotta da decenni per una politica agricola che consenta alle famiglie degli agricoltori di vivere e
lavorare. Ci occupiamo, in primo luogo, di ottenere un prezzo equo
per i nostri prodotti e un compenso altrettanto equo per i servizi che
gli agricoltori forniscono, oltre alla produzione di alimenti. Sto parlando della tutela del patrimonio paesaggistico, della preservazione delle
aree rurali, della conservazione dell’ambiente e dell’uso sostenibile
delle risorse naturali.
Lo slogan per queste problematiche è “multifunzionalità”. Il compito che ci attende è capire in che modo preservare la nostra agricoltura
multifunzionale, in una fase di notevoli cambiamenti strutturali e di
continua riduzione delle aziende agricole. Nel corso degli ultimi 30
anni abbiamo assistito a una fortissima concentrazione all’interno dell’industria di trasformazione degli alimenti, e in particolar modo nel
nostro paese; concentrazione che è ancor più accentuata nell’industria
alimentare rivolta al dettaglio. Queste industrie hanno conquistato un
potere di mercato sempre maggiore, mentre le nostre imprese agricole
- perfino quelle più grandi dei nostri nuovi Länder - sono relativamente piccole quanto a potere di mercato.
Per questo motivo, a nostro avviso, si fa buona politica quando ci si
avvale del cosiddetto acquis communautaire della Pac per correggere
con cura la situazione dei nostri agricoltori stabilendo, o ristabilendo,
un determinato livello di tutela di mercato, ogni qual volta se ne presenti la necessità e quando abbia un senso, attraverso misure di sostegno interno. Noi tutti conosciamo le varie normative delle organizzazioni di mercato: esse variano leggermente dal vino ai suini, al latte o
allo zucchero, ma sappiamo anche che, a partire dalla cosiddetta riforma MacSharry del 1992, l’Unione Europea ha costantemente ridotto il
proprio coinvolgimento nella gestione diretta del mercato agricolo. Le
pressioni del Wto e la prospettiva del prossimo allargamento hanno
Helmut Born è il segretario generale del Deutsche Bauernverband (Dbv).
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
143
portato a una svolta che implica un miglior accesso al mercato per gli
alimenti importati da paesi terzi, la riduzione dei sussidi per l’esportazione e la limitazione della gestione diretta della domanda interna a
pochissimi mercati. Il massiccio aumento dei pagamenti diretti è stato
il prezzo di questa politica o, se preferite, per usare un’espressione più
metaforica, l’onere imposto dalla transizione verso un mercato europeo più liberalizzato.
Non vorrei, in questa sede, discutere i dettagli delle proposte avanzate dalla Commissione nella cosiddetta revisione di medio termine,
tuttavia ritengo che il Commissario Fischler sia sufficientemente sorpreso dai risultati del vertice di Bruxelles: noi in Germania non lo siamo affatto. Vorrei sottolineare, che per noi dell’associazione tedesca
degli agricoltori, Agenda 2000 stabilisce le regole della Pac fino al
2006, cosa che ieri è stata confermata. Agenda 2000 prometteva un
contesto legale stabile fino al 2006. Questa promessa deve essere
mantenuta e non deve essere violata senza necessità.
Ci aspetta un ordine del giorno piuttosto chiaro. In primo luogo,
dobbiamo portare a termine l’allargamento dell’Unione. In secondo
luogo, dobbiamo portare a compimento, e nel migliore dei modi, il
nuovo round negoziale del Wto sulla base di Agenda 2000. In terzo
luogo, dobbiamo stabilire il quadro finanziario futuro per la politica
dell’Unione, e ho l’impressione che questo problema sia stato risolto
tra ieri e l’altro ieri. Solo dopo che saranno stati compiuti questi passi
potremo definire quali riforme si vogliono attuare per il periodo successivo al 2006.
Passando ad argomenti distanti dalla Pac, negli ultimi dieci anni gli
agricoltori del mio paese si sono dedicati moltissimo a cercare di aumentare la loro competitività nel mercato. Una soluzione è stata investire nel mercato insieme ad altri partner della catena alimentare. Lo
abbiamo fatto principalmente in stretta collaborazione con le nostre
cooperative: industrie casearie, macelli, case vinicole, strutture per la
produzione di alimenti e mulini. Ma lo abbiamo fatto anche con la
Unilever, la Nestlè, cioè con le maggiori industrie del nostro paese. Le
crisi della Bse e dell’afta epizootica hanno fatto irruzione nel Regno
Unito ma hanno portato a un rimpasto anche all’interno del Ministero
Federale dell’Agricoltura tedesco, che è diventato più ambientalista.
In Germania abbiamo rafforzato queste attività per essere attivi nei
mercati. Da allora, abbiamo assistito ad un notevole impulso della produzione biologica e della produzione legata a mercati regionali, in parte venduta con marchi di origine controllata. Credo che l’Italia sia leggermente più avanti rispetto a noi in questo campo, ma credo anche
che in questi ultimi anni abbiamo imparato qualcosa.
144
Interventi
Tuttavia, in fin dei conti abbiamo dovuto riconoscere che l’enorme
sostegno politico accordato dal governo federale rosso-verde alla nicchia di mercato dei prodotti biologici era in realtà controproducente,
in quanto trascurava il fatto che il mercato è alimentato dalla domanda. In questo momento, ad esempio, abbiamo il problema, con la nostra produzione di latte biologico, che solo il 50% può essere venduto
nella nicchia dei prodotti biologici mentre il resto viene convogliato
nel mercato convenzionale, e la differenza dal punto di vista dei costi
non ha alcun senso.
Molto più interessante e promettente è il recente finanziamento del
nuovo sistema “Qs” tedesco, che copre i prodotti convenzionali: al
momento solo i suini e i bovini, ben presto anche il pollame e le uova, e a partire dalla prossima primavera anche frutta e verdura. “Qs”
sta ad indicare qualità e sicurezza. La spina dorsale di questa piccola
impresa, perché in realtà di questo si tratta, è costituita da cinque
membri che rappresentano l’intera catena alimentare: l’industria alimentare, l’agricoltura, i macelli, l’industria di trasformazione alimentare e i rivenditori. Ne sono membri i principali rivenditori tedeschi,
le cooperative, la mia organizzazione, e l’organizzazione che raccoglie i produttori di mangimi tedeschi. A causa della grande preoccupazione dei consumatori per la Bse e per l’afta epizootica, ci siamo
impegnati a istituire un sistema di tutela della qualità, finanziato da
tutti gli elementi della catena alimentare. Ciascun livello, ciascun elemento della catena alimentare definisce i propri standard di qualità e
sicurezza - ad esempio, in Germania abbiamo eliminato gli antibiotici
dalla produzione della carne - poi presenta questi standard al direttivo
dell’associazione, che li deve approvare all’unanimità. Tutte le aziende che vogliono partecipare al programma saranno sottoposte a una
revisione e a un controllo da parte di ispettori indipendenti: i risultati
verranno poi inseriti in un database e infine messi in Internet. Scegliendo questo approccio, intendiamo documentare tutte le nostre misure in materia di sicurezza, per garantire un elevato livello di tutela
del consumatore, un’adeguata documentazione dei vari passaggi e per
poter reagire rapidamente nell’eventualità di una crisi all’interno della catena alimentare. C’è voluto del tempo per superare i problemi
iniziali, ma adesso assistiamo a un notevole impegno da parte di tutte
le componenti del sistema. L’approccio cooperativo, secondo il quale
sono stati assegnati uguali diritti a tutti i membri, oggi è un vero punto di forza.
Siamo consapevoli che il sistema “Qs” non è perfetto e che ci possono essere maglie aperte che devono essere saldate. Ma sin d’ora possiamo affermare che la nostra apertura e la nostra trasparenza hanno
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
145
indotto un cambiamento nell’opinione pubblica in materia di sicurezza
degli alimenti in Germania, che all’inizio era molto critica. Sapremo
che il nostro nuovo approccio avrà avuto successo, solo quando saremo riusciti a conquistare importanti quote di mercato a livello dei rivenditori alimentari al dettaglio. Dobbiamo dimostrare, inoltre, che in
caso di infrazione alle regole siamo in grado di applicare severe sanzioni, fino alla completa espulsione di un’azienda dal sistema, operazione che siamo già stati costretti a fare sul versante dei mangimi.
Il sistema “Qs” è inoltre aperto, e questa è la platea per sottolinearlo,
a partner stranieri. Noi riteniamo che sia possibile fare accordi con i
nostri colleghi in Europa, laddove ci sono sistemi simili. In ogni caso,
riteniamo che si tratti di un approccio riuscito, visto che l’intera catena
alimentare ha cominciato a lavorare su problemi concreti, in uno spirito di maggiore collaborazione rispetto al passato e in un clima di fiducia crescente.
146
Interventi
Roberto Formigoni
Questo Forum internazionale sta diventando un appuntamento di
grande utilità e rappresenta l’opportunità di offrire, finalmente, informazioni più corrette al consumatore e al cittadino su un settore così
importante. Ritengo, infatti, che troppo spesso l’informazione corrente
sull’agricoltura sconti alcuni pregiudizi e alcune approssimazioni, che
rischiano di generare profonda confusione nel cittadino. Questo appuntamento annuale fa giustizia e offre, almeno a chi vuole un’informazione più precisa, materia per riflettere.
Il mio intervento qui ha ragion d’essere, evidentemente, a partire
dalla responsabilità che rivesto come Presidente della Regione Lombardia: la regione più ampia dal punto di vista demografico, dal punto
di vista delle imprese e anche dal punto di vista della presenza nel settore agricolo, con un posto di assoluto rilievo all’interno dell’Europa.
A ciò si accompagna, e non da oggi, la mia convinzione che le regioni
debbano giocare fino in fondo il loro ruolo, per aiutare il protagonismo e la crescita del settore agricolo.
Per la loro dimensione e per le loro funzioni, le regioni sono, in molti campi, le istituzioni più adeguate a cogliere i punti di forza, a integrare le differenze, a ricercare le alleanze e a realizzare le collaborazioni, contribuendo in modo sostanziale a raggiungere risultati sempre
migliori. Fra l’altro, per quanto riguarda il settore agricolo e per quanto riguarda le informazioni da far pervenire ai cittadini, sono convinto
che noi dobbiamo continuare a sottolineate che le cifre attualmente investite per la qualità della vita e lo sviluppo sostenibile, sono cifre a
favore della vita stessa dei cittadini.
Insisto ancora sulla necessaria efficacia della comunicazione, poiché
sono convinto che dobbiamo far compiere una evoluzione alla comunicazione rivolta al consumatore. L’agricoltura deve puntare sempre di
più sulla valorizzazione dei propri punti di eccellenza, far conoscere le
proprie prospettive di crescita, mostrare l’agricoltura vera, quella che
produce, che offre occupazione e che garantisce una ottimale gestione
del territorio.
Certo, questo Forum si svolge proprio mentre arrivano da Bruxelles
notizie che destano qualche perplessità. Ho sempre ritenuto che fosse
importante lavorare per una riforma delle politiche agricole comunitarie e che si dovesse discutere e approfondire il problema delle risorse.
Una regione come la Lombardia è sempre stata favorevole all’allargamento dell’Unione Europea nella convinzione che si dovessero, e si
Roberto Formigoni è presidente della Regione Lombardia.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
147
debbano, garantire anche ai nuovi Stati membri gli standard già raggiunti nell’Europa a quindici, che contraddistinguono la nostra vita di
oggi: i livelli di sicurezza alimentare, la qualità, i redditi delle filiere
nazionali tradizionali. Non ho motivo di modificare questa convinzione e auspico che le nostre posizioni siano rappresentate con forza all’interno di un dibattito che non può considerarsi chiuso. Auspico,
inoltre, che avvicinandosi il primo di luglio, cioè il semestre di presidenza italiana, il nostro paese sappia fare della valorizzazione del settore agricolo uno dei suoi punti di forza. Si tratterebbe di una scelta
decisiva a livello nazionale, oltre che a livello comunitario.
Torno al ruolo che mi compete, all’impegno della Regione Lombardia. In questi anni ci siamo mossi sulla base di alcune scelte e di alcune priorità che abbiamo sempre enunciato con grande chiarezza, scegliendo per l’immediata applicazione del principio di sussidiarietà, per
un ruolo attivo all’interno delle politiche nazionali europee, per la capacità di gestire le emergenze e di promuovere le politiche attive di filiera. Scegliendo, inoltre, un metodo di lavoro che si è imposto ed è
stato condiviso, il metodo fondato sulla partecipazione, il cosiddetto
“partenariato”, cioè la capacità di fare squadra, di fare sistema tra l’istituzione amministrativa regionale e i protagonisti di settore e privati.
Coldiretti ha firmato assieme alla Regione Lombardia e ad altre 72 organizzazioni quel patto per lo sviluppo e la crescita dell’economia della società lombarda, che ha visto nel 2001 la sua seconda edizione e ha
generato un tavolo permanente agricolo di confronto sulle politiche.
Questo metodo di confronto, di partenariato, ci ha permesso di ottenere in Lombardia risultati importanti. Permettetemi brevemente di
elencarli: siamo la regione italiana in cui il trasferimento delle competenze in materia di agricoltura alle province e alle comunità montane è
avvenuto più rapidamente e più decisamente; abbiamo dato vita alla
“cabina di regia del latte”, con tutte le organizzazioni di categoria, per
svolgere insieme un ruolo di controllo e di guida sulle questioni complesse di questa filiera. Di fronte al dramma del problema della Bse,
abbiamo saputo fare squadra, assumendo decisioni delicate e tempestive, senza accontentarci di soluzioni posticce e avendo il coraggio di
arrivare in fondo; studiando cioè soluzioni che hanno pesato e che abbiamo potuto adottare perché eravamo insieme. Abbiamo promosso
politiche mirate allo sviluppo del settore: penso al piano di sviluppo
rurale, alla realizzazione dell’organismo pagatore regionale, tramite il
quale, quest’anno, quasi ventimila agricoltori hanno ricevuto 106 milioni di euro di contributi agricoli.
La riforma degli enti agricoli in Lombardia ha inoltre unificato in un
solo ente, l’Ersaf, l’attività dei cinque precedenti enti, semplificando e
148
Interventi
dando maggiore trasparenza. In Lombardia è stato riconosciuto il primo Centro di assistenza agricola, proprio per merito della Coldiretti
che lo ha promosso e la Regione Lombardia ben volentieri lo ha sostenuto. Per quanto riguarda l’allevamento, il sistema lombardo è stato
capace di portare a pagamento più del 95% dei capi per i quali era stato richiesto il contributo comunitario, ed è ora preso a modello da
molte altre amministrazioni regionali.
Abbiamo attivato procedure informatiche di relazione tra gli agricoltori e le amministrazioni regionali, una delle migliori applicazioni di egovernance di cui attualmente dispone tutta la Regione Lombardia. Per
la prima volta nella sua storia, l’Agea pagherà quest’anno in anticipo i
premi comunitari di quasi novantamila capi bovini, grazie alla procedura interattiva che abbiamo ideato e costruito insieme. A favore del sistema agricolo e agroalimentare abbiamo impegnato, fino ad oggi, a poco
più di ventiquattro mesi dalla prima circolare applicativa, oltre 422 milioni di euro destinati a decine di migliaia di aziende, concentrando il
30% delle risorse a favore delle aziende e delle imprese di montagna.
Tutto questo è stato possibile - desidero sottolinearlo - grazie al metodo del partenariato, della partecipazione, da noi costantemente applicato. Oggi, il nostro impegno è teso a incrementare le risorse e a migliorare e semplificare le procedure.
So che il mondo della Coldiretti ha, al momento, una preoccupazione sul rapporto ambiente e territorio, verso la quale il Presidente della
Federazione regionale Lombardia, Nino Andena, ha voluto sollecitare
direttamente, tramite un appello, una mia sensibilizzazione. Vorrei rispondere con grande franchezza al Presidente Andena, e a tutti voi, affermando che in merito a tale problematica potete contare non solo
sulla sensibilità personale del Presidente della Regione ma sulla attenzione di tutta la nostra amministrazione.
La nostra regione ha bisogno di nuovi importanti infrastrutture di
collegamento - ferroviarie, stradali e autostradali - e non nascondo che
si tratta di infrastrutture destinate ad avere un impatto rilevante sui sistemi rurali. Ciò che posso confermare è che non si tratterà di opere
calate dall’alto, ma frutto del dialogo e del confronto, in vista di decisioni condivise. So fin troppo bene quale sia il posto dell’agricoltura,
rilevantissimo, nell’economia complessiva della regione che rappresento e so altrettanto bene quanto sia stata e sia importante l’attenta
opera di salvaguardia del suolo, regolarmente svolta dal mondo degli
agricoltori. Se, da qualche anno, gli episodi tragici che colpiscono altre regioni, anche a noi vicine, risparmiano il nostro territorio, lo si deve anche alla particolare diligenza, attenzione e abnegazione che il
mondo dell’agricoltura rivolge al territorio.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
149
Concludo, rilevando con soddisfazione che il progetto Coldiretti per
la rigenerazione dell’agricoltura lombarda riconosce nel governo regionale della Lombardia la sede istituzionale più idonea allo sviluppo
di queste politiche, e desidero ringraziare la vostra Confederazione per
il supporto e la collaborazione con cui, sempre, abbiamo potuto lavorare. Ho appreso con piacere che in questi giorni state lanciando nuove
iniziative: dal “patto con il consumatore” al “patto di filiera”, temi sui
quali mi sarà gradevole e utile confrontarmi con voi nei prossimi tavoli che si svolgeranno.
Vorrei infine rivolgere al Presidente Bedoni e ai Segretari nazionali
un auspicio, che nasce dalla constatazione di un comune sentire. Noi e
voi crediamo nei principi di solidarietà, di sussidiarietà; crediamo - e
non soltanto a parole - nella centralità della famiglia, nel rispetto della
libertà dell’impresa; sono i grandi motivi ideali, alla luce dei quali il
mondo agricolo lombardo si è da sempre mosso. Sono certo che, continuando ad operare basandoci su tali convinzioni, raggiungeremo risultati positivi.
150
Interventi
Giovanni Alemanno
Vorrei ringraziare la Coldiretti ed il suo Presidente Paolo Bedoni, perché ho trovato questo incontro estremamente stimolante, se possibile
anche più affascinante e più interessante di quello dell’anno scorso.
Credo sia molto importante che il mondo agricolo riesca a raccogliere
attorno a sé tutto l’ambiente dell’agroalimentare per dibattere, con franchezza, ma anche con grande competenza tecnica, i temi sul tappeto.
Comincerò il mio intervento sottolineando alcuni aspetti dello scenario internazionale, che in parte sono già stati evocati in questa sede,
e che a mio avviso indicano due tendenze completamente opposte. Da
un lato, vedo una certa tendenza all’accerchiamento del mondo agricolo classicamente inteso e, dall’altro lato, una tendenza all’apertura e
alla crescita dell’immagine dell’agroalimentare, come fattore decisivo
della qualità della vita.
Riguardo all’accerchiamento, indubbiamente c’è ed è consistente, come in fondo ha mostrato anche l’accordo franco-tedesco di ieri. È un
accerchiamento che verifichiamo in sede negoziale nel Wto, che abbiamo visto al vertice di Johannesburg, che avvertiamo anche nei vertici
della Fao: sostanzialmente, è l’accusa ai paesi sviluppati di distorcere il
mercato internazionale con i propri aiuti, e di impedire, con questi aiuti
all’agricoltura, l’accesso ai mercati dei paesi in via di sviluppo. Nel
contesto dell’Unione Europea, questo accerchiamento lo si è avvertito
nel dibattito sull’allargamento, dove era ampiamente annunciato e temuto che l’agricoltura ed il suo budget potessero finire con l’essere le
vittime sacrificali delle maggiori spese associate all’ampliamento.
L’accordo di ieri non è la catastrofe che si temeva, e condivido l’opinione di Bedoni quando afferma che l’allargamento è un obiettivo
storico troppo importante per mandarlo in fumo con un mancato accordo sul versante dell’agricoltura. Tuttavia, dobbiamo constatare che
il livello del budget agricolo, dal 2007 in poi, sarà una coperta sempre
più corta. E questo accade perché molta parte della classe politica europea, di centro sinistra o di centro destra, pensa che la spesa agricola
in Europa sia eccessiva, e che non sia giusto dedicare all’agricoltura
più del 40% del bilancio dell’Unione Europea, rispetto ad altri obiettivi quali la ricerca scientifica o l’azione dei fondi strutturali. E non c’è
dubbio che dobbiamo imparare a convivere con questo problema e
questa difficoltà.
Dall’altro lato, dicevo, come è emerso anche in questo Forum, c’è un
aumento di credibilità e di attenzione nei confronti dell’agroalimentare:
Giovanni Alemanno è ministro delle Politiche agricole e forestali.
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
151
l’alimentazione, che sembrava un interesse ed un bisogno sempre più
in declino per le famiglie e la società moderna, mostra invece di avere
una grande potenzialità di crescita, nel mercato interno, nel mercato
dell’Unione Europea e nel mercato internazionale. Allora è evidente - e
l’impostazione data a questo Forum lo conferma - che ci si deve collocare tra queste due tendenze opposte, e trovare una strada di riforma e
di rilancio dell’agricoltura e dell’agroalimentare, tenendole entrambe
ben presenti. Innanzitutto frenando i furori anti-agricoli che esistono a
livello internazionale, perché dobbiamo sottolineare con forza che l’agricoltura non è una attività produttiva come le altre, giacché essa lega
la propria attività non soltanto alla produzione di merci, ma anche alla
produzione di valori che rimangono sul territorio, che sono legati al territorio. Questo fa sì che ogni popolo, ogni paese, ha diritto al suo sviluppo rurale; ed è sbagliato mettere in contrapposizione lo sviluppo rurale dei paesi in via di sviluppo con quello dei paesi sviluppati, perché
questa competizione, questa logica di divisione internazionale del lavoro applicata all’agricoltura genererebbe un duplice rischio: l’abbandono
della campagna nei paesi sviluppati e la monocoltura intensiva nei paesi in via di sviluppo, che ne distrugge l’ambiente e la capacità di alimentazione. Quindi, va ribadito il valore multifunzionale dell’agricoltura ed il fatto che esso impone ad ogni paese, ogni popolo, ogni area,
il dovere di promuovere lo sviluppo rurale per mantenere l’ambiente,
per garantire la qualità e la sicurezza alimentare.
Il secondo elemento che va sottolineato è che, se si stringe la coperta
del budget agricolo europeo, è necessario che l’uso di questa coperta
sia più mirato. Paradossalmente, la scelta fatta dall’accordo franco-tedesco, non dovrebbe affossare la revisione di medio termine; anzi, dovremmo dire che proprio in conseguenza di questa scelta una riforma
della politica agricola europea diventa ancora più necessaria, per utilizzare al meglio le più scarse risorse. Quindi, mi auguro che questa
decisione in termini di budget non blocchi la riflessione sulla riforma,
e non cancelli la revisione di medio termine.
Certo, la proposta di Fischler è una proposta tutta da discutere, che
mantiene aspetti difficili e problematici per la nostra agricoltura mediterranea, ma noi abbiamo voluto mantenere una dialettica molto forte
con il Commissario e con gli altri colleghi europei, e soprattutto abbiamo sottolineato come sia possibile e si debba lavorare perché le risorse vadano sempre più mirate sul versante della qualità e della sicurezza alimentare, oltre che dell’ambiente. Questo approccio per un nuovo
tipo di agricoltura europea, non a caso, è meno criticabile sul versante
internazionale, perché si basa su un sostegno meno distorsivo, perché
non crea eccedenza, perché è in linea con quello che desiderano i con-
152
Interventi
sumatori. Si può ovviamente discutere se il disaccoppiamento totale
immaginato da Fischler, in quella maniera così rigida, sia lo strumento
migliore per realizzare tutto questo, e personalmente ho forti dubbi.
Ma, sicuramente, non possiamo pensare di proiettarci verso il futuro
continuando a riapplicare in maniera ripetitiva gli stessi modelli del
passato, con sempre meno soldi.
Ma è evidente anche un’altra cosa. L’accordo del vertice dei Capi di
Stato e di Governo rende esplicito un fatto di cui si deve acquisire
piena consapevolezza, e cioè che non si può pensare che la riforma
della politica agricola possa essere fatta tutta a Bruxelles. Era vero
prima, è ancora più vero oggi: una parte importante, forse oggi più
importante, della riforma, va fatta a Roma, dal sistema paese. E questo è vero soprattutto per noi italiani, che scontiamo una grande contraddizione. Perché da un lato siamo estremamente qualificati con il
Made in Italy agroalimentare, in termini di riconoscimento di qualità,
ma dall’altro lato facciamo ancora fatica, al nostro interno, nel darci
regole, nel creare infrastrutture, nello stabilire accordi virtuosi, nel
creare sistema. C’è un problema grave, purtroppo accentuato negli ultimi anni, di dispersione delle competenze, di potenziali conflitti istituzionali fra governo centrale e regioni, fra quella che dovrebbe essere la sussidiarietà orizzontale, la responsabilizzazione delle associazioni ed i compiti statali: su questo va fatto uno sforzo grande per
mettere ordine, per cercare di creare concordia. Sul piano nazionale
noi abbiamo una grande occasione, che coincide con l’approvazione
della legge delega sull’agroalimentare che nell’iter parlamentare è diventata molto estesa. C’è quasi tutto in questa delega, ci sono quasi
tutti gli argomenti principali che necessitano di un intervento nell’agroalimentare, per cui bisognerà mettere in piedi una capacità di confronto e di decisione molto serrata e in grado di muoversi su indicazioni diverse. Dentro questa delega ci sono: la tracciabilità, l’etichettatura, la competitività delle imprese agricole, i regimi fiscali, civilistici, previdenziali, la legge di orientamento per rafforzare l’interprofessione; insomma, tutti i temi caldi su cui c’è ampio dibattito da molti anni a questa parte.
Da parte mia, c’è l’impegno di non fare velo rispetto alla necessaria
assunzione di responsabilità: in sede istituzionale, associativa, produttiva, per fare in modo che tutte le decisioni vengano prese in un clima
chiaro e trasparente. Bisogna inoltre far partire l’osservatorio sulla tracciabilità, per raccogliere l’esperienza cumulata in questi ultimi anni al
Cnel, dove sono stati sottoscritti gli accordi volontari delle filiere sulla
qualità alimentare, e per avere uno strumento che permetta sia di preparare la riforma e la legislazione sulla tracciabilità sia di monitorare tutto
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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quello che già su questo versante si sta facendo. Abbiamo una molteplicità di esperienze, una molteplicità di idee, qualche volta anche contraddittorie, che però se non hanno un punto di verifica, rischiano poi
di accavallarsi tra di loro e di aumentare la confusione.
Il secondo punto strategico è il problema della sicurezza alimentare.
Forse non riusciremo a far partire domani l’agenzia per la sicurezza alimentare, ma credo sia possibile varare subito un segretariato generale
sulla sicurezza alimentare presso la Presidenza del Consiglio, che metta
in rete tutte le strutture di controllo e di certificazione della sicurezza
alimentare che già oggi esistono. Un segretariato generale che sia l’interfaccia per l’autorità della sicurezza alimentare europea e che cominci per gradi, anche per evitare l’ennesimo carrozzone burocratico.
Ancora, c’è il problema di chiarire alcuni nodi fondamentali che gravano sulla spesa agricola nazionale. Da questo punto di vista è necessario fare chiarezza, innanzitutto, su vecchie questioni, tipo quella delle
quote latte, una realtà che grava sulle scelte di fondo del nostro paese.
Noi abbiamo in finanziaria 513 milioni di euro di vecchi contenziosi e
di vecchie pendenze con l’Unione Europea, per multe non pagate ed altro. 513 milioni di euro sottratti a politiche di sviluppo, utilizzati per
saldare vecchi contenziosi. Su questa strada non possiamo continuare,
non siamo credibili nell’Unione Europea, perché se noi immaginiamo
di creare nuove regole sull’agroalimentare e sulle varie filiere, ma poi
le regole storiche, che già esistono da tanti anni, continuano ad essere
violate, non saremo credibili né nei confronti dei produttori, né nei confronti dei cittadini e delle istituzioni comunitarie.
Altro aspetto di attualità, altra vecchia questione, è quella dell’anagrafe zootecnica. Anche qui le infrastrutture ci sono, l’anagrafe zootecnica c’è, chiunque sia andato a visitare l’Istituto zooprofilattico di
Teramo avrà visto strutture all’avanguardia, capaci di dare un perfetto
supporto informatico a questa infrastruttura fondamentale. Tuttavia,
anche se abbiamo rispettato i tempi nel creare queste infrastrutture
fondamentali, sono mesi che continua il palleggiamento fra l’Istituto
zooprofilattico e le Regioni nell’allineamento delle banche dati regionali. Su questo versante, avrò un confronto ulteriore con le varie realtà
istituzionali, vorrei che ognuno si prendesse le proprie responsabilità
rispetto ad una problematica che ha bloccato il pagamento di quasi la
metà dei premi zootecnici da carne, e che crea confusione anche sul
problema del pagamento delle quote latte, e che costituisce, infine, un
motivo di maggiore inquietudine rispetto alla sicurezza alimentare. Se
noi avessimo avuto l’anagrafe zootecnica negli anni passati, non
avremmo mai avuto l’emergenza Bse in Italia, perché saremmo stati in
grado di certificare tutta la nostra produzione.
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Interventi
Questo è un elemento importante, un elemento a cui si lega anche
l’accordo sullo smaltimento delle farine animali, e che mi permette di
toccare un altro argomento. Cremonini parlava della filiera della carne, dove il problema degli accordi interprofessionali è un elemento
che non può essere più rinviabile. Certamente, con la legge delega daremo normative più forti, costringenti, per rafforzare il ragionamento
interprofessionale. Però è altrettanto vero che in ogni filiera, in ogni
realtà dell’agroalimentare italiano bisognerà far sì che l’interprofessione diventi una realtà non più rinviabile. È una sfida per il mondo associativo italiano. Su questo terreno, sul terreno delle filiere, bisogna fare in modo che ci sia un luogo e un baricentro in cui si possa decidere,
o perlomeno ci si possa confrontare, in maniera serrata. Ogni volta che
si profila un’emergenza, sia nel latte, nella carne, o nell’ortofrutta, bisogna sempre re-inventare il luogo di incontro, i tavoli, per costruire il
confronto; si riparte sempre da zero. Soltanto con la costruzione di un
sistema di interprofessione che copra le parti più importanti dell’agroalimentare italiano si esce fuori da questa logica, e ci si danno regole che non sono dirigiste e stataliste, perché nascono dal mondo della produzione dell’agroalimentare.
Aggiungo su questo un altro aspetto importante, quello della sussidiarietà orizzontale. Le strutture della filiera, le strutture delle associazioni sono cresciute, hanno bisogno di un riconoscimento, hanno bisogno di poter svolgere funzioni pubbliche; io credo che anche l’esperienza dei centri di assistenza agricola sia estremamente importante.
La nostra intenzione è quella di affidare sempre più responsabilità a
queste realtà che sono cresciute su questo terreno. C’è una grande sintonia, una grande volontà di muoversi, perché siamo convinti che le
regole della pubblica amministrazione si facciano sempre meno sul
versante delle strutture statali o delle strutture regionali, e si debbano
invece sempre di più basare sulla capacità di autoregolamentazione
del sistema.
L’ultimo punto, di questo quadro, affrettato ma spero completo, è
quello relativo alle risorse e agli investimenti. La finanziaria che stiamo discutendo alla Camera ha molti aspetti discutibili, che dovranno
essere corretti e migliorati. Tuttavia, sul versante dell’agricoltura vi è
un passaggio importante, perché con la costituzione di fondi unici per
lo sviluppo, l’agricoltura e l’agroalimentare escono da una condizione
di minorità rispetto ad altri comparti produttivi. Se questo strumento
lo utilizziamo bene, se lo utilizziamo senza passare per filtri in qualche modo etero-diretti, se andremo a fare programmazione negoziata,
contratti di programma, se creeremo nuovi strumenti quali il contratto
di filiera, si dovrebbe riuscire a far arrivare degli interventi di sviluppo
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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selettivi sul territorio. E si dovrebbe riuscire a fare quella politica dei
mille fiori, dei mille distretti agroalimentari di qualità, che è la vera
politica che si può fare su questo versante nei confronti delle aree sotto-utilizzate, nei confronti del meridione.
Tocco, proprio volando, l’aspetto internazionale, di cui abbiamo già
parlato tanto l’anno scorso. La struttura per la promozione internazionale dell’agroalimentare è stata varata, è nata da una costola dell’Ismea, utilizza uno slogan già abbastanza conosciuto, tutto naturalmente italiano; dentro, appunto, varie esperienze che si sono studiate in
questi anni. Un’esperienza come quella della certificazione dei ristoranti italiani nel mondo è importante come segnale contro la concorrenza sleale che colpisce il nostro Made in Italy, ma anche perché può
diventare una sorta di rete virtuale, su Internet, con dei punti di conoscenza e di contatto, a livello internazionale, del nostro agroalimentare.
Insomma, tutto il sistema si gioca nell’uscire dall’accerchiamento
cui mi riferivo all’inizio del mio intervento, per agganciare l’agricoltura alla spinta di qualificazione che oggi l’alimentazione sta avendo
nella società italiana e in tutto il mondo, e che vede il Made in Italy
come uno dei fattori strategici. Questo è il ponte e la sfida di riforma
che noi dobbiamo riuscire a realizzare e a interpretare. Avvertiamo
sempre di più i termini del tempo che scade, perché dal 2007 ci sarà
un budget che si riduce, perché esistono fattori di logoramento, con
cui rischiamo di stancare gli interlocutori, e di rimanere tagliati fuori
dal dibattito culturale più generale. Avvertiamo inoltre un fatto essenziale: le nostre campagne oggi si stanno sempre più dividendo, fra
realtà di produzioni capaci di vivere uno sviluppo, di investire, di stare
anche all’avanguardia dell’imprenditoria italiana, e realtà che invece
retrocedono verso l’assistenza. C’è questa spaccatura che si comincia
a vedere in termini chiari in tutte le aree, in tutte le zone italiane. Dobbiamo decidere e dobbiamo fare in modo, con questo sforzo di riforma, di allargare il più possibile la prima area, l’area che può partecipare allo sviluppo, che è integrata nel sistema economico, che non è assistita. Dobbiamo fare in modo che l’impegno agricolo possa attrarre le
nuove generazioni, senza creare una lacerazione nel tessuto sociale. Le
lacerazioni, gli scontri, i dibattiti sul terreno politico e sul terreno associativo possono essere comprensibili, ma è necessario evitare una
lacerazione profonda ed irrimediabile nel tessuto sociale, nella presenza nelle campagne, perché questo tipo di lacerazioni poi lasciano definitivamente il segno. Ecco perché il tempo a disposizione è poco. Da
parte nostra faremo tutto il possibile per correre rapidamente nei prossimi mesi. Ci auguriamo che tutto il sistema voglia correre insieme
con noi, e se possibile anche davanti a noi.
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Interventi
Conclusioni
Paolo Bedoni
Solo qualche rapida conclusione. Abbiamo avuto la fortuna in questi
giorni di vivere a tutto tondo le problematiche dell’agricoltura e della filiera agroalimentare. Le abbiamo vissute in un rapporto, davvero speciale, tra ciò che accadeva qui dentro e ciò che accadeva contemporaneamente a livello comunitario. E le abbiamo vissute in un modo che mi
sentirei di definire “esemplare”. Esemplare perché dimostra due verità,
che conoscevamo già, ma che in questi giorni si sono manifestate in modo inequivocabile.
La prima verità è che le decisioni politiche che riguardano i nostri settori si prendono a Bruxelles e che a Bruxelles, per contare, bisogna starci seriamente. Tutti i giorni, tutto l’anno. Non è una sede saltuaria della
politica agricola. È la sede permanente della politica agricola e, aggiungo, della politica agroalimentare. La qualità della presenza e dell’attenzione a ciò che accade a livello comunitario è ormai un fattore politico
decisivo. Al di là del comportamento lodevole di alcuni Ministri, dobbiamo dire che il Governo italiano sembra non averlo capito, come dimostrano le sue assenze e le sue disattenzioni in questa fase cruciale
della vita comunitaria.
La seconda verità è speculare a questa e riguarda la forza e l’autonomia delle forze sociali. Forze sociali che, in quanto espressioni di importanti realtà produttive, debbono svolgere un ruolo di proposta, di presidio e di controllo verso le sedi istituzionali a tutti i livelli. Quindi non
solo a livello nazionale. Questo è tanto più necessario di fronte alle
preoccupanti amnesie, vere e proprie “perdite di memoria” della politica
nazionale. Una politica nazionale talmente autoreferenziale e talmente
ripiegata su se stessa da non accorgersi di ciò che le accade intorno. Da
non accorgersi soprattutto di ciò che accade a livello comunitario dove i
fatti di questi giorni dimostrano che l’assenza italiana non è un buco, è
una voragine.
Se le cose continuano ad andare così, se gli impegni - come quelli assunti con noi in sede di concertazione - continuano ad essere disattesi,
dovremo prendere serie contromisure per salvaguardare gli importanti
interessi che noi rappresentiamo. Lasciatemi dire un “noi” più esteso,
Atti del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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più ampio. Un “noi” riferito all’intera filiera agroalimentare. Una filiera
che, a seconda dei criteri di valutazione, incide sul Pil nazionale dal 20
al 30%. C’è ancora chi lo chiama settore primario. È invece un settore
modernissimo: è il settore portante e strategico dell’economia post-industriale.
Noi non contestiamo il ruolo della politica. Al contrario, pretendiamo
che lo svolga. Che lo svolga con serietà, con continuità, con metodo,
con rigore. Pretendiamo che ragioni sui progetti e che li condivida con
le forze sociali. Pretendiamo che non ci costringa ad agire in una continua condizione di incertezza e di emergenza. Pretendiamo di poter fare
il nostro lavoro di imprenditori in un quadro di cui conosciamo coordinate e regole. Per questo, soprattutto per questo, non smetteremo mai di
credere nella concertazione, che è l’unico modo possibile per governare
una società complessa. Noi siamo entrati in questo Forum con un’idea
precisa, che esce enormemente rafforzata. L’idea del “doppio patto”: il
“patto con il consumatore”, che è già il caposaldo del nostro progetto, e
il “patto tra imprese nella filiera”.
È un “doppio patto” che può dare grande forza a tutta la filiera in un
progetto che realizza il massimo investimento sociale ed economico sul
Made in Italy. Un progetto che ha alle sue spalle una forza tale da potersi difendere ed essere competitivo sul mercato europeo e su quello globale, anche se la politica non lo sostiene come dovrebbe. Non dico questo con rassegnazione. Lo dico con realismo. E con la forza che deriva
dal carattere comunque vincente del nostro progetto.
Ci sono tutte le condizioni perché questo “doppio patto” si realizzi. E
le abbiamo toccate con mano in questi due giorni. Perché dove vanno i
consumatori ce l’ha confermato, con dati scientifici, la ricerca che per
Coldiretti ha realizzato l’Ispo.
Le forze migliori dell’agricoltura, dell’industria e della grande distribuzione stanno già andando dove vanno i consumatori. Ma ci stanno andando in ordine sparso. Bisogna solo lavorare perché si realizzi una convergenza che è nei fatti.
Questo “doppio patto” ha un forte contenuto economico ed un riferimento inequivocabile, che si chiama “territorio”. Il territorio, cioè l’origine e la provenienza del prodotto, non è una categoria dello spirito. È
puro valore aggiunto che fa innalzare la competitività delle imprese che
su di esso sanno investire e consente all’economia di crescere in molte
altre direzioni, perché è un formidabile punto di forza e di irradiazione
del turismo culturale ed ambientale, facendolo davvero divenire la principale industria nazionale.
Io sono convinto che da Cernobbio questa ipotesi di lavoro esca notevolmente rafforzata e la Coldiretti lavorerà perché si realizzi in estensio-
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Conclusioni
ne e in profondità. Esce rafforzata anche per tutto quello che sta avvenendo a livello europeo, un livello nel quale si disegna uno scenario che
non ci trova impreparati e che, soprattutto, non ci trova privi di risposte
e di capacità di reazione.
Chi si è affrettato a celebrare i funerali del “progetto Fischler” mostra
di avere cattiva coscienza, non certo acume politico. La cattiva coscienza è quella di chi pensa che una mancata riforma della politica agricola
consenta all’area agricola che vive di rendita e di assistenzialismo di
scamparla ancora per qualche anno. Pazienza, se tutto il resto va in malora. Lo scarso acume politico è di chi non si rende conto che in ogni caso la forte riduzione delle risorse disponibili per l’agricoltura nei prossimi anni costringerà a realizzare quella riforma in modo ancora più deciso e radicale.
Noi guardiamo al futuro, guardiamo alle imprese e ai giovani che hanno voglia e capacità di realizzarsi all’interno della filiera agroalimentare.
E questo dà forza enorme e grande legittimità al nostro progetto.
Vi ringrazio di cuore per aver partecipato a questa bellissima due giorni. E vi attendo per il prossimo anno, ancora qui, in questo splendido
scenario.
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