Buone pratiche per l’integrazione dei figli
degli immigrati nell’ambito della scuola in
regione parigina
P.ER.La Integrazione - Puglia, Emilia Romagna e Lazio:
scambio di esperienze e buone prassi d’integrazione
Centre d'information et d'études sur les migrations internationales (CIEMI) – Paris – 2014
Buone pratiche per l’integrazione scolastica dei figli degli
immigrati in Regione parigina
Con il loro passato d’immigrazione molto diverso, le realtà di Francia e Italia circa
l’accoglienza e la promozione dell’apprendimento degli allievi figli d’immigrati nelle scuole sono
difficilmente paragonabili. La Francia può, in effetti, vantare oltre un secolo e mezzo di presenza di
manodopera straniera in quasi tutti i settori della sua economia, mentre l’Italia può dire altrettanto in
termini diametralmente opposti, essendo storicamente il paese d’origine dei maggiori flussi
migratori dell’era contemporanea. Le varie ondate migratorie che hanno interessato le regioni
d’Oltralpe hanno dato vita a generazioni molto eterogenee di discendenti di stranieri, al punto che
gli oriundi italiani – per citare un solo esempio – si collocano fra la seconda e la sesta generazione.
Proprio quando la Francia insieme alla maggior parte dei poli d’attrazione migratoria del
mondo decideva di sospendere ufficialmente, nel 1974, l’immigrazione per motivi di lavoro, l’Italia
cominciava a registrare i primi saldi migratori positivi (1976) ed assisteva all’arrivo in sordina dei
pionieri dell’attuale immigrazione.
Se la Penisola comincia a preoccuparsi da poco più di un decennio della presenza di alunni
d’origine straniera nelle scuole e conta ancora una netta prevalenza di bambini e ragazzi nati
all’estero (una tipologia che le inchieste dell’OCSE qualifica come “generazione 1,5”), l’Esagono
francese iniziò a porsi seriamente il problema del loro inserimento sin dalla fine degli anni ‘70,
quando ci si accorse che gli immigrati, nonostante la sospensione degli ingressi della manodopera
straniera, invece di ritornare nelle loro patrie rispettive, sceglievano quasi tutti di stabilirsi
definitivamente all’estero. È in quest’epoca a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta che il quadro
francese sembra possedere qualche analogia con la situazione italiana, benché le differenze non
siano affatto trascurabili. Infatti, per quanto esistesse allora una netta distinzione fra alunni stranieri
ed alunni autoctoni, come avviene oggi in Italia, tuttavia le nazionalità principali erano molto
diverse da quelle italiane e già si profilavano i complessi problemi delle periferie disagiate: le
banlieues “difficili” o “sensibles”, erano sorte come funghi in quel periodo dalle ceneri delle
bidonville, e, pur destinate, in teoria, ad un’esistenza effimera, sarebbero, in pratica, rimaste in piedi
fino ai nostri giorni. Tale fenomeno transalpino, più che paragonarsi alla realtà italiana del XXI°
secolo, pare più raffrontabile con quello della migrazione interna nella Penisola degli anni
Cinquanta e Sessanta e con la creazione delle “città dormitorio” negli hinterland del Triangolo
industriale e della capitale.
La regione parigina, ufficialmente denominata “Isola di Francia” (Île-de-France), oltre a
racchiudere la capitale francese, rappresenta il polo economico, demografico e culturale di gran
lunga più importante del paese. Non è pertanto una sorpresa che questo territorio, abitato da quasi
12 milioni di persone, ospiti ufficialmente oltre 2 milioni d’immigrati, senza contare un numero
ampiamente superiore di stranieri naturalizzati e di oriundi stranieri. In termini di residenti (“stock”
di popolazione) i gruppi nazionali più numerosi provengono, in ordine decrescente, da Algeria,
Portogallo, Marocco, Tunisia, Turchia, Cina, Italia, Mali, Spagna, Costa d’Avorio e Senegal. Se
l’Istituto nazionale di statistica e di studi economici (INSEE) recensisce molto dettagliatamente sia
il numero dei residenti stranieri che quello dei nuovi arrivati (“flussi migratori”), per il computo
degli allievi stranieri o immigrati esistono dei problemi di fonti e di definizioni. Le statistiche
francesi distinguono, infatti, fra “stranieri” (persone di nazionalità estera) e “immigrati” (persone
1
nate all’estero) e non sempre offrono dati sull’insieme di quanti posseggano un “attributo” straniero
(origine, nazionalità, luogo di nascita, genitori… non autoctoni). L’espressione “figli d’immigrati”
include un’ampia serie di situazioni diversamente quantificabili.
La regione parigina accoglie ogni anno circa 11.500 alunni “non francofoni” 1 nelle scuole
elementari e medie su un insieme di 1,8 milioni d’allievi. Ma la discriminante linguistica non fa
giustizia del numero reale di figli d’immigrati nati all’estero (“generazione 1,5”) che dovrebbe
aggirarsi intorno alle 135.000 2 unità, pari ad un 7% del totale, così come di quelli nati in Francia,
stimati a quasi 170.000, pari al 9% del totale. Le scuole elementari e medie dell’Isola di Francia
dovrebbero così essere frequentate da almeno 235.000 bambini e ragazzi d’origine straniera, dato
che li porterebbe ad una percentuale del 16%. Gli scarti statistici fra gli otto dipartimenti che
compongono la regione sono, tuttavia, rilevanti, poiché certi comuni e certi territori presentano un
tasso di popolazioni d’origine immigrata più elevato rispetto alle altre e la distribuzione etnica
mostra forti sperequazioni fra i dipartimenti. Inoltre, al di là delle definizioni giuridiche, molti degli
allievi computati come autoctoni a tutti gli effetti, appartengono alle cosiddette “minoranze
visibili”, percepite ancor oggi come “straniere”, nonostante il loro statuto giuridico; ciò comporta
per gli istituti scolastici possibili preoccupazioni d’ordine discriminatorio o di convivenza interetnica o interreligiosa.
Con tutti i limiti che presentano le suddivisioni schematiche, potremmo riassumere in cinque
periodi la storia recente delle esperienze scolastiche messe in atto in Regione parigina di fronte alle
difficoltà emerse tra i figli d’immigrati iscritti nelle classi dei cicli inferiori, archi di tempo
corrispondenti, grosso modo, ai decenni trascorsi dagli anni ‘70 ad oggi.
Gli anni 1975-1980 vedono il rapido insorgere della questione con l’aumento dei
ricongiungimenti familiari, la nascita delle “città nuove” (villes nouvelles), la presenza
considerevole soprattutto di giovani magrebini e portoghesi all’inizio degli anni scolastici, con forti
problemi d’adattamento e scarsa presenza dei genitori alle riunioni con gli insegnanti.
Gli anni ‘80, dal canto loro, segnano la stagione dell’entusiasmo e dell’ottimismo quanto
alle capacità delle scuole nel trovare la formula per il successo dell’integrazione dei figli degli
immigrati: vengono create le “zone d’educazione prioritaria” (ZEP, 1981) e si moltiplicano i
cosiddetti “dispositivi” per la riuscita scolastica.
Il decennio successivo lascia, invece, intravedere un calo della fiducia nell’efficacia di tali
dispositivi e tira le prime somme sui risultati delle ZEP. Molti insegnanti ed educatori reagiscono
alla tendenza orientata ad una scuola “aperta al mondo esterno”, preferendo un ambiente scolastico
più protettivo rispetto ad esso.
Negli anni 2000 da più fronti si levano giudizi negativi sul sistema in vigore e molti
costatano il fallimento dei modelli d’integrazione. Piuttosto che ricercare nuove formule educative,
ci si concentra maggiormente sulla lotta contro le discriminazioni, sulla resistenza all’etnicizzazione
delle scuole e sull’azione contro l’abbandono scolastico.
I tempi più recenti, caratterizzati dalla scarsità delle risorse economiche specie per le attività
extra-scolastiche, fanno emergere una distinzione crescente fra classi in cui prevalgono i problemi
sociali e classi in cui sono preponderanti quelli linguistici. Se i minori stranieri “nuovi arrivati” sono
valutati come relativamente semplici da gestire, una volta immessi nel sistema scolastico normale,
essi si confondono con i discendenti delle minoranze visibili spesso provenienti dai quartieri e dai
1
2
Si tratta di coloro che conoscono il francese in modo gravemente insufficiente.
Cifre diffuse dal Ministero della pubblica istruzione francese.
2
comuni più disagiati. Il fattore migratorio annega così in quello economico-sociale e solo gli
eventuali conflitti “identitari” lo fanno riemergere presso gli insegnanti e l’opinione pubblica.
Vista la lunga storia in Regione parigina dei tentativi d’adeguamento dell’istituzione
scolastica alla realtà dei figli degli immigrati, abbiamo ritenuto più utile ripercorrerla per
individuarne i maggiori successi registrati, interrogandoci, poi, sui motivi che hanno condotto alla
loro scarsa riproduzione nel tempo ed altrove. Tutti coloro che si sono posti seriamente il problema
delle prestazioni scolastiche deludenti e della partecipazione insufficiente dei figli degli immigrati
nel corso della scuola dell’obbligo, hanno rapidamente scoperto le linee guida per un’educazione
efficace: personalizzazione dei programmi d’istruzione, uso di nuove tecniche psico-pedagogiche,
valorizzazione delle culture d’origine, coinvolgimento dei genitori, potenziamento delle attività
educative extra-scolastiche, ecc. Gli sforzi, tuttavia, non sempre hanno trovato continuità, né
appoggio politico-finanziario; ed anche ai nostri giorni si assiste alla riedizione d’iniziative tutt’altro
che inedite di cui si potrà facilmente prevedere il futuro.
Prima di entrare nel merito di queste “buone pratiche d’integrazione” apparse in oltre tre
decenni nelle scuole dell’Isola di Francia, è opportuno ricordare per sommi capi la struttura
dell’istruzione scolastica francese, inquadrandola nell’equivalente italiana.
In Francia, dopo la scuola materna, all’età di 6 anni l’alunno fa il suo ingresso nella scuola
elementare, suddivisa in tre fasi: corso preparatorio (CP = 1ª elementare), corso elementare 1 e 2
(CE1 e CE2 = 2ª e 3ª elementare) e corso medio 1 e 2 (CM1 e CM2 = 4ª e 5ª elementare).
Terminate le elementari, si accede al collège, equivalente alle medie inferiori italiane, le cui classi
annuali assumono un conteggio alla rovescia fino al compimento del secondo ciclo: 6ª, 5ª e 4ª
corrispondono così alle medie inferiori italiane, mentre con la 3ª iniziano le superiori. Il passaggio a
quest’ultima è legittimato dall’esame detto “diploma nazionale del brevetto”. Le superiori
prevedono un liceo generale/tecnologico, un liceo professionale e varie filiere professionali, di cui
alcune con possibilità d’accesso all’università. Le superiori si concludono con il bacellierato (=
maturità), dopo aver frequentato l’ultima classe, detta “terminale” (successiva alla 1ª nel conto alla
rovescia). Non è superfluo notare che Oltralpe è consuetudine preferire le sigle ai nomi completi dei
corsi. Per evitare al lettore di ritornare a questo paragrafo, utilizzeremo nel testo la terminologia
equivalente italiana.
Dalla sospensione dell’immigrazione di lavoro ai primi governi della Sinistra (1974‐
1981): il sorgere della problematica dell’integrazione dei figli degli immigrati in ambito scolastico Nella seconda metà degli anni Settanta la Regione parigina affronta le conseguenze di una
fase storica ed economica di forte espansione industriale, accompagnata da un bisogno crescente di
manodopera poco costosa, disposta a vivere nelle baraccopoli della periferia della capitale. Tra il
1973 ed il 1974 una serie di circostanze e di scelte politiche internazionali determinano ciò che
passerà alla storia sotto il nome di “crisi del petrolio”, spingendo più di una potenza industriale a
sospendere i flussi di manodopera straniera. All’indomani di tale provvedimento, balza agli occhi
dell’opinione pubblica tutta una serie di questioni rimaste occultate dalla frenesia degli anni
precedenti: carenza di alloggi, numero di stranieri in aumento, xenofobia, vaste aree di povertà e di
privazione di servizi.
Vengono così costruite enormi infrastrutture in pochi mesi, nella convinzione che i vari
parallelepipedi di cemento destinati ad accogliere milioni di persone a prezzo moderato,
3
rappresentino la risposta immediata all’urgenza degli alloggi. Sorgono dal nulla città nuove e si
scopre che i numerosi “lavoratori immigrati” hanno ricongiunto a sé le proprie famiglie o ne hanno
formate in terra d’emigrazione.
È a scuola che i figli degli immigrati, a lungo ignorati dall’opinione pubblica e dagli studi,
non passano più inosservati: si esprimono male in francese, rimangono chiusi in se stessi, rallentano
l’attuazione dei programmi e hanno genitori che non paiono interessati alle loro sorti scolastiche. Il
loro destino sembra essere quello di riprodurre la condizione sociale dei genitori: saranno operai o
addetti a lavori manuali. L’origine prevalente delle loro famiglie è l’Europa meridionale (penisole
iberica e italiana) e l’Africa occidentale (Maghreb ed ex colonie francofone del continente nero),
con due nazioni in testa alle statistiche: l’Algeria ed il Portogallo.
In tale contesto le istituzioni locali e nazionali rispondono al problema linguistico dei figli
degli immigrati con la creazione di classi speciali per portarli al livello degli autoctoni. Le prime
circolari riguardanti l’insegnamento nelle scuole elementari ai bambini dei migranti appena arrivati
in Francia risalgono al 13 gennaio 1970 ed al 25 settembre 1973. Il loro obiettivo è la rapida
integrazione di questi alunni nella popolazione scolastica in base al principio dell’uguaglianza
repubblicana. Tali disposizioni hanno portato, fin dal 1970, alla creazione, per il primo grado, di
“classi introduttive” (CLIN, classes d’initiation) e di corsi di recupero integrati (CRI, cours de
rattrapage intégrés), mentre, nel secondo grado, all’istituzione di classi d’accoglienza (CLA,
classes d’accueil). Oggi, tutti questi dispositivi sono gestiti dal “Centro Accademico per la
scolarizzazione dei bambini allofoni appena arrivati e dei figli delle famiglie itineranti e nomadi”
(CASNAV) con antenne sparse in tutto il paese 3 .
Il “Gruppo di sostegno psico‐pedagogico” del Petit Nanterre 4
Intorno al 1973 l’ispezione scolastica nelle scuole elementari del Petit-Nanterre, un
quartiere operaio di Nanterre, a ovest di Parigi, che aveva appena sostituito una bidonville di
lavoratori perlopiù magrebini, definisce “disastrosa” la situazione scolastica delle elementari
locali. 85% degli alunni sono d’origine immigrata ed una parte considerevole di loro presenta
forti problemi linguistici. L’ispettore scolastico decide così l’apertura di due classi
3
Gli alunni non francofoni, che arrivano durante tutto l’anno in Francia, beneficiano di un dispositivo d’accoglienza
particolare, che consta di più elementi: l’unità d’accoglienza a livello dell’ispezione accademica, del rettorato, o del
Centro accademico per la scolarizzazione dei nuovi arrivati e dei figli degli itineranti (CASNAV); il libretto esplicativo
che offre i dettagli sul funzionamento del sistema educativo francese; la valutazione delle competenze in lingua francese
e di quelle scolastiche già acquisite nel paese d’origine, previa ad ogni orientamento ed assegnazione ad uno
stabilimento scolastico.
Alla scuola elementare come nelle scuole medie e nei licei, gli alunni sono obbligatoriamente iscritti in una classe
ordinaria corrispondente al loro livello ed alla loro età, con un scarto di uno o due anni al massimo. Qui essi seguono gli
insegnamenti in cui la padronanza della lingua è meno fondamentale (educazione fisica, arti plastiche e musica, talvolta
matematica). In parallelo, essi possono essere raggruppati in una classe d’iniziazione (CLIN) per la scuola elementare, o
in una classe d’accoglienza (CLA) per la scuola media/liceo per un insegnamento quotidiano della lingua francese. La
durata della permanenza in queste classi specifiche, variabile secondo i bisogni di ogni alunno, supera raramente un
anno. L’obiettivo è che essi possano seguire, il più rapidamente possibile, l’insieme degli insegnamenti in una classe del
corso ordinario. Nel secondo grado, gli alunni che sono stati scolarizzati molto poco o per niente nel loro paese
d’origine possono inserirsi in una classe d’accoglienza per alunni non scolarizzati precedentemente (CLA-NSA).
Certe accademie hanno anche sviluppato dei dispositivi di sostegno linguistico più morbidi, aperti a seconda dei
bisogni: dopo qualche mese passato in CLIN/CLA, o a causa di difficoltà geografiche e di scarsità di personale (zone
rurali, specialmente), gli alunni non francofoni possono beneficiare di corsi di recupero integrato (CRI) nelle scuole
elementari o di ore di sostegno puntuale, garantite settimanalmente da un insegnante proveniente da uno stabilimento o
itinerante. Nel secondo grado, certi rettorati hanno anche messo in atto dei moduli d’accoglienza temporanei (MAT),
prima di un’integrazione in un corso ordinario.
4
Cfr. LE FEUR, Jeanine. Deux années au Petit Nanterre. «Éducation et Développement», n° 101, numéro spécial, mai
1975. pp. 21-24.
4
d’iniziazione (a spese del comune quanto all’equipaggiamento), una per i bambini dai 6 agli 8
anni e l’altra per quelli dai 9 ai 12.
La gestione delle due classi speciali viene affidata ad un’équipe d’insegnanti che si
denomina “Gruppo di sostegno psico-pedagogico”. Per loro, il problema linguistico va
subordinato alla risoluzione di una difficoltà d’ordine psicologico: “sbloccare” la
comunicazione dei bambini. A tale scopo, i programmi previsti per le classi d’iniziazione
devono essere modificati, anche a costo di sdoppiare le classi su due anni invece di uno.
Il primo anno di classe speciale assume pertanto un carattere più “ludico” con attività
che spingano all’uso ed alla padronanza del francese in modo piacevole e naturale: lezioni
all’aperto, audiovisivi, apprendimento tramite il ritmo e le rime. Il secondo anno, invece,
prevede un inserimento progressivo della grammatica, permettendo ad ogni alunno di
lasciare la classe non appena gli insegnanti lo giudichino pronto per l’immissione nei corsi
ordinari.
L’esperienza degli insegnanti fra le classi ad alta percentuale di alunni stranieri, li porta a
concludere che la scuola non possa ignorare la loro presenza e le loro specificità: deve riflettere la
realtà propria dell’allievo, “ha per compito d’aiutare [i figli dei lavoratori migranti] a radicarsi in
due terreni contemporaneamente: essere armati per vivere nella società francese ed essere in
collegamento costante con la loro cultura d’origine” (Louis Porcher) 5 .
Si fa perciò largo da più parti l’idea di un’educazione interculturale, realizzabile soprattutto
laddove le culture da prendere in conto non siano numerose.
L’esperienza interculturale pilota dell’IRFED 6 alla scuola Henri Wallon di Fontenay‐sous‐Bois 7
In una periferia geograficamente dalla parte opposta rispetto al Petit-Nanterre,
l’ispezione effettuata nel 1971 dall’Accademia del Val-de-Marne nella scuola pubblica
elementare di Fontenay-sous-Bois, comune situato a sei chilometri ad est rispetto a Parigi,
aveva evidenziato gravi difficoltà d’apprendimento in classi formate da oltre il 42% di figli
d’immigrati. Le lacune osservate riguardavano i blocchi psicologici verso l’insegnamento,
l’impossibilità di seguire il programma scolastico, la mancanza di comunicazione fra maestri e
genitori e le scarse prospettive di proseguo negli studi.
È a partire da questa situazione che l’IRFED, ente parigino specializzato nella ricerca
educativa, sostenuto dal Fondo Sociale Europeo, interviene su domanda della scuola Henri
Wallon di Fontenay-sous-Bois (appena ribattezzata dopo il nome originario di “Michelet”),
5
Cfr. PORCHER, Louis. Pour un projet éducatif global. «Éducation et Développement», n° 101, numéro spécial, mai
1975. p. 72.
6
L’Istituto internazionale di Ricerca, di Formazione, Educazione e Sviluppo (développement) è un organismo fondato
nel 1958 da Louis-Joseph Lebret con l’obiettivo di aprire nuove strade alla ricerca, alla formazione ed all’azione per
rendere allo sviluppo il suo carattere globale riguardante "tutto l’uomo e tutti gli uomini". Il campo di predilezione del
lavoro dell’IRFED è stata e rimane la valorizzazione della dimensione umana dello sviluppo, esplorando nuovi percorsi
educativi, incentrati sul rapporto fecondo tra economia, tecnologia e cultura, e sull’impatto dei progetti di sviluppo sul
movimento sociale.
7
Cfr. INSTITUT INTERNATIONAL DE RECHERCHE ET DE FORMATION. Esquisse d’une méthodologie
interculturelle pour la formation des enseignants et des opérateurs sociaux intervenant dans le milieu des travailleurs
migrants : analyse et conclusions d’une étude-expérience pilote. Paris, IRFED, 1975. 197 p. Vedi anche: PADRUN,
Ruth. L’enseignement de la langue maternelle aux immigrés : l’expérience d’éducation interculturelle de Fontenaysous-Bois. «Alpha-Info», n° 9, avril 1979. pp. 13-16.
5
inaugurando una cooperazione rara fra ricerca scientifica e istituzioni. Si tratta di
un’esperienza “pilota”, riguardante un piccolo campione dell’insieme dell’istituto scolastico,
ovvero la porzione d’alunni d’origine portoghese.
Verso la fine dell’anno scolastico 1970-1971, l’IRFED elabora una metodologia per la
formazione degli insegnanti e degli operatori sociali che lavorano con gli immigrati ed i loro
figli. Evitando gli estremi dell’assimilazionismo o dell’istruzione parallela tra alloctoni e
autoctoni, si predilige l’approccio interculturale, capace di valorizzare l’uso di codici culturali
diversi per rispondere autonomamente ad uno stesso problema e realizzare un proprio
progetto.
Perseguendo come obiettivo la formazione di cinque classi “interculturali” francoportoghesi, l’IRFED mette in atto un progetto suddiviso in quattro fasi, ognuna per un arco
di tempo d’un anno scolastico:
I) fase di ricognizione: durante l’anno scolastico 1972-1973, i 20 allievi d’origine portoghese
dei 33 della classe d’iniziazione vengono presi in disparte per un’ora e mezza a settimana
dall’équipe dell’IRFED per sottoporli a delle dinamiche volte a sbloccarne la
comunicazione, spesso con l’uso della loro lingua materna: i bambini esprimono i loro
problemi e si parla della loro vita in generale. Nel contempo, una volta al mese avviene
un incontro con i genitori e viene istituito un servizio d’ascolto ed accompagnamento in
lingua portoghese. Al termine dell’anno, in base ad un’analisi delle osservazioni e dei dati
raccolti, viene stilato un programma formativo per gli educatori;
II) fase di preparazione della pedagogia interculturale: tra il 1973 ed il 1974 l’obiettivo del
progetto pilota è quello d’integrare l’aspetto interculturale nella struttura scolastica.
Vengono così formati sette insegnanti volontari durante cinque mesi (gennaio-maggio)
tramite 9 sessioni di 3 ore ciascuna. Le schede tematiche proposte riguardano la realtà
dei figli dei migranti portoghesi secondo gli approcci sociologico, linguistico e psicopedagogico, quest’ultimo secondo i canoni di Célestin Freinet (1896-1966) 8 ;
III) applicazione delle nuove strutture di pedagogia interculturale: durante l’anno scolastico
1974-1975 vengono istituite cinque classi interculturali, gestite da 5 insegnanti francesi, 2
portoghesi e dall’équipe di ricerca dell’IRFED. Gli alunni sono per il 37% d’origine
portoghese e per il 63% figli di autoctoni. Vengono insegnate a tutti la lingua, la storia e la
geografia sia della Francia che del Portogallo. Ne risulta, alla fine dell’anno, una maggiore
integrazione fra i due gruppi culturali;
IV) istituzionalizzazione della pratica interculturale: con l’anno 1975-1976 l’esperimento di
pedagogia interculturale diventa regola nella scuola, con la stesura di programmi
appropriati ed un monitoraggio continuo delle evoluzioni. In realtà, nonostante i buoni
risultati, il progetto pilota viene presto accantonato, senza informazioni sui motivi di tale
sviluppo negativo.
Se nelle scuole elementari gli interventi a sostegno dei figli degli immigrati sembrano più
agevoli, molto meno numerose sono le esperienze tentate alle medie inferiori e superiori. Una delle
poche di quest’epoca è la seguente.
8
La pedagogia di Freinet mira a trasformare la classe in una sorta di laboratorio, insistendo sul ruolo del lavoro e della
cooperazione nell’apprendimento, nonché sull’inserimento della scuola nella vita locale. Egli sviluppa in tal modo una
serie di tecniche pedagogiche, basate sull’espressione libera dei bambini: temo liberi, disegno libero, corrispondenza
epistolare interscolastica, tipografia e giornalino della scuola, inchieste, riunioni di cooperativa, ecc.
6
Il sostegno scolastico del CREDIF 9 all’istituto tecnico Jean‐Lolive di Pantin 10
In un’altra periferia parigina, ai confini con le circoscrizioni del nord-est della capitale,
l’istituto tecnico Jean-Lolive di Pantin ha come iscritti per l’anno scolastico 1976-1977 un
gran numero di ragazzi d’origine caraibica, albanese, marocchina, tunisina e portoghese, per
la maggior parte dei quali viene richiesto un sostegno speciale per il francese. A questo
proposito il CREDIF organizza dei corsi di 2 ore a settimana cercando di registrare ed
ottimizzare l’apprendimento della lingua locale da parte degli studenti.
Vengono così effettuate delle interviste registrate sul vissuto migratorio dei ragazzi.
Tale materiale permette d’isolare il vocabolario da loro usato e di adattarlo alla lingua
francese per permettere loro un apprendimento rapido. Gli studenti esercitano le loro
competenze linguistiche scrivendo lettere ad amici reali o ipotetici.
L’approccio interculturale dell’IRFED presso la scuola del Bois de l’Étang‐la‐Verrière di Saint‐
Quentin‐en‐Yvelines 11
Bois de l’Étang è la classica “cité”, ovvero un quartiere di case operaie, situato a La
Verrière, frazione di Saint-Quentin-en-Yvelines, una trentina di chilometri ad ovest di Parigi,
poco oltre Versailles. Si trova ai margini di una “città nuova” costituita in buona parte da
lavoratori nelle fabbriche della Renault. Di essi, il numero di stranieri si attesta tra il 20% ed
il 30%, perlopiù Magrebini, Portoghesi ed Africani neri. Agli inizi degli anni Ottanta la
situazione scolastica è simile a quella descritta in precedenza per la scuola Henri Wallon di
Fontenay-sous-Bois, con l’aggiunta di una sfida culturale in più: i rapporti con il mondo arabomusulmano.
Anche in questo contesto l’IRFED ripresenta un progetto di “pedagogia
interculturale”. Quest’ultimo è fondato su una triade d’assi d’azione: a) spiegare e chiarire
con gli alunni le questioni che toccano affettivamente la loro identità culturale e religiosa (a
partire dal problema della presenza di carne di maiale nella mensa scolastica…
); b) mettere su
un piano d’uguaglianza modelli culturali diversi, dando quindi accesso anche ai figli d’autoctoni
alla cultura straniera (“pedagogia della differenza”); c) mettere in atto una “pedagogia
dinamica” (di contro a quella tradizionale vigente, definita come “statica”) orientata alla
ricchezza della diversità culturale, quale fonte di creatività e di sviluppo.
Nel corso dell’anno scolastico 1980-1981 la scuola del Bois-l’Étang-la-Verrière
costituisce allora due classi interculturali di prima elementare, l’una franco-magrebina e
l’altro franco-magrebina-portoghese sul modello di quelle di Fontenay-sous-Bois. Vengono
coinvolti, oltre agli insegnanti francesi, dei docenti di cultura araba e portoghese.
Grande importanza viene data, in parallelo, alla formazione degli insegnanti e degli
operatori sociali con corsi serali di tre ore a settimana (dalle 20 alle 23) sul fenomeno delle
migrazioni umane e sull’analisi pedagogica e culturale delle mentalità arabe, africane e
9
Il Centro di ricerca e di studio per la diffusione del francese (CREDIF) era un organismo pubblico, oggi dissolto, che
si prefissava di creare una sorta di “francese elementare” facilmente diffondibile nel mondo.
10
Une expérience de soutien à des adolescents étrangers dans un collège d’enseignement technique dans la région
parisienne. Saint-Cloud, CREDIF, 1977. 180 p.
11
Cfr. COLIN, Roland ; PADRUN, Ruth. La formation d’enseignants et d’opérateurs sociaux pour la mise en place
d’une pédagogie interculturelle concernant les enfants de travailleurs immigrés. Rapport sur une expérience pilote
menée par l’IRFED à l’école du Bois de l’Étang La Verrière, Ville Nouvelle de Saint Quentin en Yvelines, 1980-1981.
Paris, IRFED, 1981. 87 p.
7
portoghesi. I genitori degli alunni sono, invece, invitati a delle riunioni formative, cercando di
far uscire in particolare le casalinghe dal loro isolamento sociale.
Dalla creazione delle “zone educative prioritarie” alla legge d’orientamento dell’istruzione di Lionel Jospin (1981‐1989): la politica delle “pari opportunità” Nel corso degli anni Ottanta, mentre la seconda generazione degli immigrati – specie
magrebina – conquista più volte il palcoscenico nazionale, le politiche educative francesi giocano la
carta della “discriminazione positiva” con l’istituzione delle “zone educative prioritarie” (ZEP)
nell’estate del 1981 tramite una circolare del ministro della pubblica istruzione, Alain Savary 12 . I
territori che beneficiano di questo dispositivo, caratterizzati da un alto tasso d’insuccesso scolastico,
ricevono maggiori sostegni economici e diversi incentivi per gli insegnanti che accettano delle
classi difficili. Le ZEP rappresentano il “dispositivo” per eccellenza dei molti che verranno
realizzati nei decenni successivi sotto le denominazioni più svariate.
Nonostante le difficoltà crescenti nel mondo scolastico, questo periodo pare pervaso da un
certo entusiasmo e dalla voglia di sperimentare, dando importanza più alla singola iniziativa
innovante che all’insieme della realtà scolare. La legge Jospin del 1989 segna quasi il culmine di
questa sensibilità generale con i suoi chiari accenti sulla scuola come uno dei luoghi principali di
promozione delle pari opportunità (“égalité des chances”) 13 .
La tendenza pedagogica generale privilegia quindi i metodi non tradizionali e l’apertura
della scuola al mondo esterno. Tutta la “città”, ovvero il luogo in cui un giorno l’allievo eserciterà
la sua “cittadinanza” (“citoyenneté”), diventa idealmente una “comunità educativa”, capace
d’integrare anche i giovani più problematici.
La Regione parigina nell’arco di un quarto di secolo arriverà a totalizzare oltre 240 scuole
poste in ZEP (più di 130 per il provveditorato di Créteil, quasi 90 per quello di Versailles e circa 25
per quello di Parigi).
La promozione dell’intercultura tramite le attività extrascolastiche nella scuola elementare della rue de Vitruve di Parigi e alla scuola media Henri Matisse di Choisy‐le‐Roi Per quanto diverse per posizione geografica, anno scolastico e classi, le esperienze di
una scuola elementare parigina e di una scuola media della periferia sud-est della capitale
hanno in comune la volontà di far conoscere ed integrare le culture degli allievi figli
d’immigrati, facendo uso delle attività extrascolastiche.
La scuola elementare della rue de Vitruve sorge in una porzione del territorio
parigino orientale abitata da un numero considerevole d’immigrati dal Maghreb. Viste le
difficoltà che presentano gli allievi appartenenti a queste famiglie nordafricane, gli insegnanti
12
Si tratta di un sistema abolito verso la metà degli anni 2000, dopo che, secondo le statistiche, la sua efficacia sembra
essere stata irrilevante.
13
L’articolo 1 della legge recita: “L’istruzione è la priorità nazionale assoluta. Il servizio pubblico dell’istruzione è
concepito ed organizzato in funzione degli allievi e degli studenti. Contribuisce alla parità delle opportunità. (…) Per
garantire questo diritto, la ripartizione dei mezzi del servizio pubblico dell’istruzione tiene conto delle differenze di
situazioni oggettive, in particolare in materia economica e sociale. Ha per oggetto di rafforzare l’inquadramento degli
allievi nelle scuole ed istituti d’insegnamento situati nelle zone dall’ambiente sociale svantaggiato e nelle zone
sperdute, e permettere in modo generale agli allievi in difficoltà di beneficiare di azioni di sostegno individualizzato.
(…) In ogni scuola, collegio o istituto universitario, la comunità educativa comprende gli allievi e tutti coloro che,
nell’istituto scolastico o in relazione con esso, partecipano alla formazione degli allievi…”.
8
decidono d’introdurre nei programmi dell’anno 1981-1982 alcuni elementi delle culture
d’origine di questi bambini. Contemporaneamente, i bambini autoctoni vengono invitati a
partecipare alle attività interculturali. Vengono, pertanto, istituiti dei corsi di arabo, a cui solo
i figli d’immigrati nati in Francia si dimostrano poco interessati. Inoltre vengono proposte
delle animazioni nelle due lingue, delle attività culinarie (fino ad immaginare una sorta di
“ristorante dei bambini”) e teatrali 14 .
Qualcosa di simile avviene nella scuola media Henri Matisse di Choisy-le-Roi, che,
nell’anno scolastico 1982-1983, conta quasi la metà d’allievi stranieri su un totale di circa 450
iscritti. Uno degli aspetti più problematici risulta qui l’atteggiamento dei genitori dei ragazzi
portoghesi, poco interessati ad un lungo curriculum scolastico dei figli, viste le ampie offerte
di lavoro poco qualificato. Gli insegnanti decidono allora di istituire uno “Spazio parola”
(“Espace parole”) con attività stabili in lingua portoghese, cercando di coinvolgere anche i
genitori nella costruzione materiale di un teatro di marionette: i lavori manuali paiono, infatti,
valorizzarli 15 .
La strategia della scoperta del paese altrui adottata dalla scuola materna ed elementare Buffon di Colombes A metà degli anni Ottanta, la scuola Buffon di Colombes, comune della prima
periferia ovest parigina, conta un gran numero d’alunni d’origine algerina, portoghese,
marocchina, spagnola ed asiatica, per i quali il francese è seconda lingua. I quartieri da cui
provengono sono le classiche agglomerazioni di palazzoni operai affittati dalle autorità
pubbliche a prezzo moderato (ciò che i francesi denominano “HLM”, “hébergements à loyer
modéré”, alloggi ad affitto moderato).
Le difficoltà scolastiche di questi bambini sono tali da indurre gli insegnanti a tentare
di percorrere piste educative inedite, con uno sforzo pedagogico considerevole e molto
articolato. Molti dei maestri ritengono che occorra “descolarizzare la scuola”, aprendola al
mondo reale del quartiere, delle famiglie, delle realtà sociali, ecc. Essi intendono mettere in
discussione l’ineluttabilità dell’insuccesso scolastico, creando dei fattori favorevoli
all’apprendimento, provocando delle situazioni valorizzanti per l’allievo, stimolando il bisogno
innato d’amicizia e d’amore del bambino, e dunque di comunicazione.
Sulla base di queste riflessioni, con l’obiettivo di “far accettare tutte le differenze”, gli
insegnanti si danno una serie di priorità, da tradurre poi in attività pratiche: eliminare la
classe d’iniziazione per non creare disuguaglianze; associare i genitori al lavoro educativo
facendoli conoscere fra di loro; spingere i bambini alla cooperazione, all’iniziativa, alla
scoperta; puntare sulla conoscenza dell’Altro e del suo ambiente.
Durante l’anno scolastico 1984-1985 il corpo insegnanti, messo un po’ da parte il
programma ordinario, procede all’instaurazione di più dispositivi ed attività. Vengono offerti,
a livello extrascolastico, corsi di arabo e di portoghese, mentre le biblioteche del comune
s’impegnano ad accogliere in modo caloroso e creativo le visite degli allievi.
Il lavoro scolastico viene fatto ruotare attorno alla scoperta ed alla conoscenza di
coetanei di altre scuole tramite una fitta corrispondenza con queste ultime. Gli interlocutori
si trovano sia in Francia che all’estero, ovvero in Algeria ed in Portogallo. Con i libri prelevati
dalle biblioteche comunali le classi organizzano laboratori di vario genere: culturale, culinario,
14
HAIF, Assia ; IMESSAOUDENE, Dahlia. Vitruve: une pédagogie interculturelle. «Transit», n° 3 1983. pp. 45-57.
LEBRE, Francisco. Pédagogie interculturelle. L’«espace-parole» du collège de Choisy-le-Roi. «Hommes &
Migrations», n° 1091, 15 avril 1986. pp. 26-33.
15
9
religioso, artistico; il loro scopo è iniziarsi al modo di vivere ed alla cultura degli
interlocutori.
In un primo tempo i bambini di Colombes corrispondono con quelli di Montpezat-deQuercy, nella Francia meridionale, e di Ruaudin, nell’ovest francese a due passi da Le Mans.
Oltre a scriversi, gli alunni si visitano mutuamente, facendosi ospitare dalle famiglie dei propri
corrispondenti: per molti si tratta della prima uscita dal quartiere, al punto che uno di loro, a
Montpezat esclama: “È bello qui, ma io preferisco la Francia”!
In un secondo momento la scuola progetta di effettuare un viaggio/scambio con altri
due istituti in Algeria e Portogallo. La preparazione coinvolge tutti i bambini non solo dal
punto di vista cognitivo, con la proiezione di diapositive sui due paesi prese in prestito dalla
scuola parigina della rue de Vitruve, ma anche da quello “finanziario”, con lotterie, vendite di
mughetti il 1° maggio, vendite di calendari e pasticcini. I soldi raccolti non riescono, tuttavia,
a coprire nemmeno il 10% del budget necessario ai viaggi, stimato a circa 150.000 franchi 16 .
Gli insegnanti ricorrono pertanto al mecenato e ad istituzioni pubbliche, fondando anche dei
“Club UNESCO” e dei centri sociali di cineforum.
Gli sforzi conducono alla realizzazione del progetto (che fra l’altro comporta anche la
risoluzione di qualche problema amministrativo dovuto alla passaggio delle frontiere):
visitando il Portogallo e l’Algeria, i bambini tengono una specie di “diario di bordo” illustrato
da disegni.
Tutta l’esperienza viene consegnata in un libro 17 e se ne propone la riproduzione per
l’anno successivo e in altre scuole. Il costo delle attività la rende purtroppo difficile da
ripetere.
Con la legge Jospin (1989) la scuola è posta al centro della problematica sociale in ambito
urbano. Ne risultano due effetti significativi: il forte aumento dei finanziamenti per le questioni
educative ed uno sviluppo considerevole delle iniziative pubbliche e delle procedure
amministrative 18 . Si ha quasi un senso di vertigine quando si fa l’inventario delle iniziative
riguardanti più o meno direttamente il funzionamento scolastico, con nomi svariati che rispecchiano
spesso contenuti simili: “Operazione sito pilota per l’integrazione”, “Missioni locali per
l’inserimento dei giovani in difficoltà”, “Operazioni prevenzione estate”, “Scuola aperta”,
“Operazione rete solidarietà scuola”, “Caffè musica”, “Case del cittadino”, “Operazione successo”,
ecc. In questa spirale la questione migratoria inizia a fondersi con quella sociale, l’accento è posto
sulle difficoltà sociali a prescindere dall’origine etnica e culturale degli alunni.
16
La conversione ufficiale in euro darebbe una cifra di 23.000 euro, ma tale ammontare si può tranquillamente
raddoppiare per avere un’idea più esatta della somma.
17
Cfr. DRAHON, Geneviève ; JULOUX, Jacques ; MARLIER, Françoise ; NICOLAS, Jean-Pierre. Vivre ensemble : à
la découverte de l’Algérie, de la France et Portugal. École Buffon. Paris, L’Harmattan, 1987. 225 p.
18
Cfr. BOUVEAU, Patrick. Les ZEP et la ville : l’évolution d’une politique scolaire in: VAN ZANTEN, Agnès. “La
scolarisation dans les milieux «difficiles». Politiques, processus et pratiques”. Paris, INRP, 1997, pp. 47-65.
10
Dall’aumento dei fondi e dei dispositivi per le scuole in difficoltà ai primi bilanci negativi dell’esperienza delle ZEP (1990‐1999) Agli albori degli anni Novanta la Francia viene colpita da una ventata di timori per la tenuta
del sistema repubblicano ancorato sulle idee d’“integrazione” e di “laicità”. Le rivendicazioni
sociali delle popolazioni meno abbienti si mescolano con quelle etniche ed anche nel mondo della
scuola alcuni fatti simbolici ottengono una forte risonanza mediatica. È il caso soprattutto della
cosiddetta questione del velo islamico, esplosa nel 1989 negli stabilimenti scolastici di Épinal, nella
Francia orientale, e di Creil, una sessantina di chilometri a nord di Parigi.
Diverse personalità non solo del mondo politico, ma anche di quello accademico si chiedono
se certa pedagogia vigente non sia troppo permissiva, concedendo oltre misura alle esigenze etnicoreligiose ed alle attenuanti sociali.
Vengono presi di mira dalle critiche in particolar modo certi licei, composti da molti ragazzi
discendenti d’immigrati, che si accontentano di bassi livelli d’istruzione, pur di non lasciare questi
giovani alla strada. Per alcuni specialisti, dopo oltre un decennio di “scuola aperta”, è necessario
lottare contro ciò che definiscono come la “territorializzazione dell’istruzione”, cioè l’influenza
nefasta sulla scuola da parte di ambienti circostanti fortemente problematici: gli stabilimenti
scolastici dovrebbero proteggere i ragazzi da un circondario negativo, per far loro intravedere
l’esistenza di un mondo diverso, più civile, più ricco d’opportunità e di speranza 19 .
La Regione parigina, intanto, concentra i propri sforzi in campo scolastico contro
l’abbandono precoce degli studi, organizzando molteplici iniziative di “sostegno” o di
“accompagnamento” (fornendo cioè un supporto educativo più ampio) degli allievi in difficoltà.
Questi “doposcuola” possono assumere le forme più svariate, dalla configurazione associativa a
quella dei “club”, con il doppio obiettivo di motivare i giovani e di migliorare i loro risultati 20 .
L’accademia (provveditorato) di Versailles, dal canto suo, tra il 1996 ed il 2000 investe sulla
formazione degli insegnanti chiamati a lavorare in situazioni difficili, dove i fattori sociali, culturali
ed etnici possono condurre ad una demotivazione generale da parte degli allievi 21 .
Circa il funzionamento delle zone d’educazione prioritaria gli anni Novanta sono costellati
d’inchieste, relazioni, analisi e bilanci di questo dispositivo. Fra coloro che più si sono interessati a
questa problematica figura il ricercatore in pedagogia Gérard Chauveau che stila un profilo delle
scuole ZEP più riuscite. A suo avviso, la scuola tipicamente efficace dovrebbe essere di taglia
modesta, con uno stile informale ma attenta alla disciplina, innovativa e forte di sostegni importanti
(tensione di tutta una comunità a favorire l’apprendimento, presenza di doposcuola, ecc.). Essa si
otterrebbe i migliori risultati quando: a) gli insegnamenti si concentrano sull’essenziale; b) gli
insegnanti sono motivati e rimangono a lungo sul posto; c) vi è solidarietà/affiatamento tra i
docenti; d) l’organizzazione pedagogica è retta da principi democratici; e) la figura del direttore si
19
Cfr. BALLION, Robert. Les lycées «sociaux» : la «reprise en main». «Migrants-Formation», n° 92, mars 1993. pp.
86-99.
20
Cfr. MURO, Olga. Réseaux solidarité école. Évaluation qualitative, 1993. Paris, Ministère des Affaires Sociales, de
la Santé et de la Ville/FAS, juin, 1993. 57 p. Vedi anche: LOBRY, Maurice. L’opération coup de pouce à Colombes.
«Migrants-Formation», n° 99, décembre 1994. pp. 137-147 e Réseaux solidarité école 1993 (évaluation quantitative).
«Migrations Études», n° 47, avril 1994. pp. 1-6.
21
Cfr. GUIGNARD, Liliane ; MAURELET, Gilles. Regard des pédagogues sur le phénomène de la démobilisation
scolaire. in : TANON, Fabienne (a cura di) ‘Les jeunes en rupture scolaire : du processus de confrontation à celui de
remédiation’. Paris, L’Harmattan, 2000. pp. 163-180.
11
avvicina molto a quella dell’“animatore”; f) gli insegnanti riescono ad infondere fiducia nel
futuro 22 .
Dai primi anni del 2000 ad oggi: il ritorno del problema linguistico e l’accento sulla “diversità culturale” Dopo i vari tentativi di minimizzare le differenze etnico-sociali fra gli alunni, evitando il più
possibile dei corsi specifici per o su i discendenti d’immigrati, nel XXI° secolo ritorna
gradualmente l’interesse di alcuni insegnanti e pedagoghi per le questioni antropologiche
soggiacenti a determinati comportamenti scolastici. Nel frattempo, l’investimento finanziario
pubblico per i “dispositivi” inizia a diminuire, non solo per i tagli al budget delle amministrazioni,
ma anche per la convinzione di alcuni politici che gli interventi speciali siano controproduttivi.
Le inchieste condotte nelle scuole mettono dapprima in rilievo l’esistenza di un sistema
“criptodiscriminatorio” che produrrebbe quasi involontariamente una barriera fra i più fortunati ed i
più disagiati, spesso d’origine immigrata. In seguito, studiano più approfonditamente il fenomeno
(reale o presunto) dell’etnicizzazione delle scuole, ossia delle manifestazioni ed espressioni
identitarie crescenti da parte degli alunni e delle prese di posizione dei docenti dettate da
considerazioni o pregiudizi etnici.
Nonostante le tante ombre che si proiettano sulle scuole, in Regione parigina qualche luce
illumina il panorama educativo riguardante i figli degli immigrati.
L’esperienza di “socievolezza” nella scuola media Jean‐Jaurès della “cité des Bousquets” a Montfermeil 23
Il comune di Montfermeil è fra i più famigerati per l’opinione pubblica locale, specie
per il suo quartiere dei Bousquets, ai margini del territorio di Clichy-sous-Bois, epicentro
delle sommosse incendiarie della fine del 2005, che hanno coinvolto un gran numero di
giovani nella protesta contro le forze dell’ordine.
Il panorama sociale è quello tipico delle periferie disagiate delle metropoli francesi:
disoccupazione, delinquenza ed alto tasso di “minoranze visibili”. La scuola media locale,
intitolata al politico socialista Jean Jaurès, è ovviamente catalogata fra le ZEP.
Malgrado queste premesse, la scuola registra due dati molto positivi: gli insegnanti
preferiscono rimanervi ed i genitori sono attivi all’80% nella conduzione dello stabilimento. Il
motivo di queste constatazioni sorprendenti viene attribuito dai docenti all’atmosfera
accogliente che essi sono riusciti ad instaurare nel loro ambiente di lavoro.
Il metodo pedagogico adottato in questa scuola media prende spunto da due principi:
lo sviluppo del tessuto relazionale pluridisciplinare e la conduzione della scuola come “luogo
di vita”. Ogni materia ed ogni questione vengono proposte con un approccio
interdisciplinare, facendo il più possibile intervenire i protagonisti della vita cittadina. Se, ad
esempio, gli allievi sentono parlar male della polizia, gli insegnanti propongono un dibattito
22
Cfr. CHAUVEAU, Gérard; ROGOVAS-CHAUVEAU, Eliane. Équipes et stratégies éducatives dans les ZEP, in :
VAN ZANTEN, Agnès. ‘La scolarisation dans les milieux «difficiles». Politiques, processus et pratiques’. Paris, INRP,
1997. 207 p.
23
Cfr. RIBEAUCOURT, Laurence ; METRO, Michel. De la convivialité à l'efficacité contre l'exclusion : une
expérience d'établissement. in : TANON, Fabienne (a cura di) 'Les jeunes en rupture scolaire : du processus de
confrontation à celui de remédiation'. Paris, L'Harmattan, 2000. pp. 145-156.
12
con i poliziotti stessi, per renderli partecipi anche del punto di vista di questi ultimi. Lo
stesso valga per la realtà delle migrazioni, per le quali degli immigrati sono chiamati a
raccontare la loro vicenda ai ragazzi. Tutte queste istanze esterne sono considerate quali
“nuovi collaboratori (partenaires) scolastici”.
Nella scuola ogni insegnante è conscio del fatto che l’affiatamento fra colleghi ha un
importante impatto benefico sugli alunni. Ogni docente, inoltre, si prende cura di un certo
numero di ragazzi a prescindere dal fatto che non frequentino più il suo corso. Infine,
all’arrivo di un nuovo collega, sono affidate a quest’ultimo le classi considerate più agevoli,
riservando le più difficili ai veterani.
Le classi “propedeutiche” per i bambini zingari di Courcouronnes 24
Gli zingari sono considerati, in Francia come altrove, una popolazione atipica temuta
e disprezzata. L'istruzione dei loro figli costituisce una dimensione spesso trascurata.
Françoise Malique, vice presidente dell'Associazione dei Nomadi dell’Essonne (dipartimento
a sud-est di Parigi) e ardente sostenitrice della cultura zingara, da anni sperimenta soluzioni
per l’istruzione dei figli degli zingari, che avrebbero come unica alternativa quella d’inserirsi in
strutture tradizionali che funzionano sul sistema delle classi d'età ed in cui lo scritto è
onnipresente. I bambini delle comunità zingare mal si adattano a questa configurazione.
Presso di loro, la cultura orale è privilegiata e la loro istruzione è spesso discontinua a causa
dei loro spostamenti. Si tratta perciò di far capire loro che hanno un loro posto nella società
e nella scuola senza peraltro per perdere la loro identità e la loro cultura. Nell’Essonne, nel
2003, sono quasi 3.000 i bambini zingari dai 6 ai 16 anni iscritti nelle scuole in maniera più o
meno stabile. A Courcouronnes, ad una trentina di chilometri a sud della capitale, una
“classe propedeutica” (classe sas, classe “bussola”) speciale viene attivata in seno alla scuola
Jules-Ferry. Accolta fra lo scetticismo generale, la struttura trova poco a poco la sua velocità
di crociera. In ragione di tre ore di corso al giorno, l'insegnante lavora soprattutto a partire
dall'espressione orale. Il resto del tempo, i bambini zingari frequentano una classe “normale”
e vengono a contatto con la storia-geografia o le scienze. L’ideatrice di tale iniziativa sostiene
che occorre una pedagogia di mediazione fra la scuola e le famiglie: “bisogna agire con e non
per queste popolazioni”.
Il polo dipartimentale di sostegno alla scolarizzazione dei nomadi 25
Tre insegnanti ed un consigliere pedagogico costituiscono durante l’anno scolastico
2006-2007 il “Polo dipartimentale di sostegno alla scolarizzazione dei nomadi” dell’Essonne.
A Rosny-sous-Bois, comune meridionale della Regione parigina, la scuola elementare Eugénie
Cotton e la scuola media Albert Camus contano una quarantina di allievi zingari, che si
distinguono per il loro alto tasso d’assenteismo e di bocciature. I due istituti richiedono
perciò l’intervento del suddetto Polo.
Quest’ultimo osserva negli alunni zingari non una mancanza di volontà, bensì di
“cultura scolastica”. Occorre allora suscitare la fiducia di almeno una famiglia nomade: la
chiave per la partecipazione dei bambini zingari alle attività scolastiche è, infatti,
l’instaurazione di una sorta di “contratto morale” tra il mediatore e le famiglie; a prescindere
24
Cfr. MALIQUE, Françoise. Des classes «sas» pour être acteur de son apprentissage. Enfants du voyage, Grigny
(Essonne). «Territoires», n° 435, février 2003. pp. 53-55.
25
Cfr. SID-LAKHDAR, Boumédiene. La voie professionnelle, une trop longue route pour les enfants du Voyage.
L'expérience de Rosny-sous-Bois. «Diversité», n° 159, décembre 2009. pp. 80-85.
13
da ciò che i bambini faranno e con chi, gli zingari esigono un “garante” della bontà delle
operazioni.
Con quest’impostazione, il Polo ottiene degli ottimi risultati, procedendo, inoltre, ad
una riduzione dell’orario scolastico per i bambini nomadi, perché si concentrino sulle
materie e sulle nozioni essenziali.
Gli anni Duemila non vedono diminuire il numero dei “dispositivi educativi” messi in atto
dai poteri pubblici per i giovani con problemi d’inserimento sociale, bensì si assiste ad una loro
generalizzazione a livello locale per accompagnare individualmente i “casi” segnalati dai membri di
particolari “vigilanze educative” (veilles éducatives), di solito presiedute dai sindaci 26 . Il comune
denominatore di questi dispositivi è l’espressione “successo educativo” (réussite éducative), la cui
definizione non è sempre chiara ed univoca.
Benché utili ed animati da buone intenzioni questi sistemi delegano all’extrascolastico tutto
ciò che è problematico, scaricando parzialmente gli insegnanti dall’impegnativo compito
d’accompagnare gli allievi in ritardo educativo. Lo stato o le collettività locali mirano ad
organizzare così nella sua globalità la vita dei ragazzi, per mezzo di svariati contratti per funzionari
educativi.
Non mancano, tuttavia, associazioni e centri specializzati che hanno acquisito un patrimonio
di competenze utili ad infondere nelle scuole della Regione parigina degli approcci adatti agli allievi
con carenze linguistiche e bisognosi di una mediazione culturale.
La “Casa degli adolescenti” o “Casa di Solenn” ed il “Centro Babele”di Parigi Due esperienze riguardanti bambini e adolescenti della “seconda generazione” degli
immigrati hanno un doppio comune denominatore: la loro sede collegata all’ospedale Cochin
di Parigi, nel XIV° arrondissement, e la loro direttrice, Marie-Rose Moro, da più di trent’anni
su un fronte “transculturale” a metà strada tra il mondo scolastico e quello sanitario.
Si tratta di due enti denominati “Centro Babele” e “Casa degli adolescenti” e per meglio
cogliere il tipo d’approccio ch’essi mettono in atto, abbiamo ritenuto opportuno rivolgerci
alla loro capofila. Marie-Rose Moro, figlia d’immigrati spagnoli arrivati nel nord della Francia
nei primi anni Sessanta, ritiene d’aver goduto di un percorso scolastico ottimale, che l’ha
portata alle facoltà di medicina e filosofia. Trasferitasi nell’Isola di Francia per lavorare
all’internato di psichiatria dei minori, si rende conto che la sua esperienza scolastica di figlia
d’immigrati rappresenta un’eccezione fra i percorsi di molti altri giovani con genitori
stranieri. La ragione di una simile differenza è dovuta, a suo avviso, alla non valorizzazione da
parte degli insegnanti della cultura straniera di cui i figli d’immigrati sono potenziali portatori.
Se alcuni di questi ultimi hanno successo con ampio profitto, ciò dipende essenzialmente
dalla rappresentazione positiva che gli insegnanti hanno della lingua materna e dalla presenza
attiva di ottimi “mediatori” (“passeurs”), che riescono ad infondere negli allievi il gusto sia
per il mondo francese che per quello del paese dei genitori. “Questi ragazzi – dice MarieRose Moro – sono più vulnerabili dei loro coetanei autoctoni a causa della frattura fra il
26
Cfr. MARTINE, Paul. Une veille éducative à Courcouronnes. in : PROFESSION BANLIEUE 'Des écoles, des
familles, des stratégies. Cycle de qualification, 12, 19, 26 mars 2004'. Saint-Denis, Profession Banlieue, 2004. pp. 107116. Vedi anche: MOREL, Stéphanie. La réussite éducative en Seine-Saint-Denis. Nouvelles pratiques professionnelles.
Saint-Denis, Profession Banlieue, 2008. 114 p. Ed ancora: DELCROIX-KHOUIDMI, Yasmine. Quelle place pour les
parents dans le dispositif de réussite éducative : usagers ou acteurs ? A partir de l'évaluation de la réussite éducative
de Plaisir. Saint-Quentin-en-Yvelines, Université de Versailles-Saint-Quentin-en-Yvelines, 2009. 91 p. ; Guide
méthodologique. Mettre en œuvre un projet de réussite éducative, Éditions de la DIV, juin 2007, 178 p.
14
mondo scolastico e quello domestico, vanno più a scuola per la maestra che per la lezione:
sono più vulnerabili perché occorre investire di più sugli educatori che sui contenuti”. La
conseguenza diretta di queste affermazioni consiste pertanto nel riconoscere e dare piena
cittadinanza alla lingua materna, cercando di capovolgere la prospettiva abituale degli
insegnanti e degli educatori. “Tutti gli studi – continua la dottoressa Moro – dimostrano che
un bambino che avesse un po’ di ritardo linguistico può essere facilmente recuperato purché
non ci sia una gerarchizzazione delle lingue a scuola. Se i genitori costatano tale ritardo
devono continuare a parlare la loro lingua materna coi figli, per non accrescere il divario di
considerazione fra le due culture”. Purtroppo, in molti contesti, la maggioranza degli
insegnanti considerano il bilinguismo come un handicap con le sole eccezioni del bilinguismo
con l’inglese o il giapponese; il che conferma che più che la riflessione è il pregiudizio ad
influire sull’educazione. L’ambiente scolastico francese fatica a sintonizzarsi su queste idee
per la guerra ideologica che è stata condotta in tutti questi anni dai governi e dall’opinione
pubblica al cosiddetto “comunitarismo”, volto a non promuovere in nessun modo la
formazione di “comunità separate”, caratterizzate dalle loro specificità etniche e culturali.
Per fortuna, negli ultimi anni è cresciuta la domanda di formazione su questi temi da parte
dei professionisti dell’educazione.
Dal 2004 il governo transalpino ha espresso la volontà di costituire una “casa degli
adolescenti” in ogni dipartimento e ha fornito le coperture finanziarie attraverso dei
programmi quinquennali. Le case degli adolescenti avrebbero il compito d’informare,
consigliare e sostenere gli adolescenti, le loro famiglie e gli educatori a contatto con i giovani.
Esse rappresentano perciò una sorta di “cappello” su una rete d’organismi ed istituzioni che
opera nel campo delle problematiche dell’adolescenza (difficoltà d’autostima, malattie
psicosomatiche, profilassi delle patologie sessualmente trasmissibili, blocchi di
comunicazione, ecc.), e le loro sedi sono un luogo polivalente di consultazioni, laboratori,
ricoveri ed altre attività. Proprio nel novembre del 2004 viene aperta a Parigi, a fianco
dell’ospedale Cochin, una casa degli adolescenti intitolata "Maison de Solenn" in memoria di
una ragazza, Solenn Poivre d'Arvor, anoressica figlia di personaggi famosi del piccolo
schermo, suicidatasi nel 1995. L’inaugurazione è dovuta ad una campagna di raccolta fondi
promossa dalla moglie Bernardette dell’allora presidente francese, Jacques Chirac.
La Maison de Solenn è oggi un ampio centro su quattro piani e due sotterranei in stile
molto moderno, che offre assistenza a tutti gli adolescenti che ne fanno (più o meno
direttamente) richiesta. Uno dei piani ospita le “cure culturali”, che s’interessano dei pazienti
cercando la miglior maniera d’interagire con essi, tenendo conto della loro cultura alloctona.
Allo stesso tempo, i genitori d’origine straniera e soprattutto le madri dei ragazzi sono
invitate ad aprirsi maggiormente alla comunicazione fra di loro e con il mondo esterno in
apposite “chiacchieroteche” (“papothèques”).
Quale membro della rete della Casa degli adolescenti figura poi il Centro Babele, definito
come un “centro di risorse europeo nell’ambito della clinica transculturale”, il cui scopo è
principalmente quello di formare i professionisti a contatto con le popolazioni migranti. Nel
settore dedicato al mondo scolastico, il Centro Babele dispone di una squadra di formatori,
denominata “Metisco” con il compito di facilitare la mediazione culturale tra le famiglie
d’origine straniera e le istituzioni scolastiche, nella convinzione che le barriere linguistiche e
culturali possono rendere difficoltoso l’accesso al sapere. Il lavoro svolto da Metisco è bidirezionale, coinvolgendo sia gli insegnanti – a cui viene proposta una formazione
transculturale – che i genitori ed i bambini d’origine immigrata. La filosofia su cui si basano gli
interventi di “Metisco” è quella esposta più sopra da Marie-Rose Moro. Le attività, iniziate
nel 2012, vengono svolte all’interno delle scuole, sotto la guida di uno psicologo clinico
transculturalista. Sono spesso presenti dei traduttori ed in genere anche buona parte del
personale scolastico, affinché si renda conto di tutto il processo di mediazione transculturale.
15
Conclusione La serie di esperienze fin qui presentate vuol essere soprattutto emblematica del percorso
che la Regione parigina ha compiuto in più di quarant’anni, senza mai trovare un’unica formula
risolutiva dei disagi dei figli degli immigrati nelle scuole, ma piuttosto una miriade di spunti spesso
tendenti verso una stessa direzione.
Al momento attuale, le buone pratiche in questo campo seguono due piste diverse, entrambe
importanti, che talvolta coesistono dell’azione che associazioni di quartiere, organismi e centri
specializzati portano avanti. La prima tendenza pone l’accento sulle difficoltà d’ordine “sociale”
degli allievi, partendo dal presupposto che serva maggior lavoro e più tempo per recuperare le
lacune generate da ambienti familiari e sociali sfavorevoli all’apprendimento. A questa categoria
appartengono tutte le attività di “doposcuola” e di sensibilizzazione dei protagonisti dell’educazione
– famiglie comprese. La seconda tendenza insiste, invece, sulla “differenza culturale” e sul “diritto”
a quest’ultima. In tal senso il primo oggetto di tante operazioni di valorizzazione è la lingua materna
degli immigrati e, più raramente, la loro esperienza migratoria.
Ciò che, tuttavia, la maggior parte dei protagonisti di queste iniziative sottolinea è la loro
relativa efficacia: tutto è basato sul “volontariato” o sull’intraprendenza puntuale, senza che il
fenomeno delle migrazioni faccia parte del “sistema” educativo. I programmi scolastici, i contenuti
educativi e la formazione degli insegnanti e degli educatori prescindono dalla realtà
dell’immigrazione, quasi che questa rappresenti un aspetto marginale perlopiù squalificante della
vita della nazione.
Serve perciò non tanto un progetto nuovo, bensì l’integrazione delle tante conquiste
formative fin qui emerse in un’impostazione più equilibrata dell’istituzione scolastica, che abbia
l’obiettivo d’aprire di più al mondo tutti gli allievi, creando lo spazio sufficiente per l’inserimento di
compagni portatori di altri elementi culturali.
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Con il loro passato d`immigrazione molto diverso, le realtà di Francia