Anche l’alternanza scuola lavoro nella riforma: non si perda l’occasione per fare di meglio ( A cura di Renzo La Costa ) * Al momento in cui scriviamo, non ci è dato conoscere né poter ipotizzare i contenuti dei decreti delegati scaturenti del Jobs act di recente approvato definitivamente (pubblicato in G.U. con numerazione di Legge 183/2014) anche in considerazione dell’ampiezza delle deleghe stesse. Sappiamo però che tra le deleghe esercitabili, l’Art. 1 c. 7 lett. d) del testo approvato in ultima lettura dal Senato – peraltro ritrovabile nel testo ufficiale così come pubblicato in G.U. - c’è anche il “rafforzamento degli strumenti per favorire l'alternanza tra scuola e lavoro”. Per quanto nobile ed apprezzabile sia l’intendimento del legislatore in materia, è opportuno sottoporre alcuni elementi di riflessione. Innanzitutto la terminologia, non solo per la forma, quanto per la sostanza. Il concetto di “alternanza” è il primo a dover essere messo in soffitta: nel nostro paese, cioè, si è ancora ben distanti dal concetto decisamente migliore di “integrazione” scuola lavoro che bene comunica il necessario ed inscindibile legame che devono avere teoria e pratica, pensiero ed azione. L’ espressione alternanza “scuola” e “lavoro” continuano ad individuare momenti di apprendimento effettivamente separati. L’alternatività si è quindi radicata dalle nostre parti in antitesi allo scenario europeo, in danno del ponte tra scuola e lavoro già concepito dalla L. 196/97. Sarebbe lunga l’elencazione di altri stati europei che da tempo (troppo tempo) hanno regolamentato percorsi di apprendimento lavorativo non come una esperienza postuma al ciclo scolastico, bensì integrata ed essenziale nello stesso, ovvero facente parte strutturale del ciclo di studi medesimo. In molti Stati, l’esperienza lavorativa in azienda è parte sostanziale del percorso di studi, tanto da farne parte con tirocini formativi ed apprendistato. E se è questo il sistema di integrazione scuola lavoro già strutturalmente operativo in molti Paesi, si pensi al sistema di rete che deve essersi realizzato tra scuole ed aziende, tale da garantire l’esperienza lavorativa ad ogni singolo studente. Se quindi è indiscusso che il mondo della scuola e quello del lavoro devono parlarsi da subito, è necessario investire nell’integrazione piuttosto che nell’alternanza. Non è solo una questione di forma, bensì di sostanza. Quei giovani di cui stiamo parlando sono le future generazioni lavorative del nostro Paese, che non possono essere formati solo con le gite scolastiche, ma che – presupponendo di dover dedicare una vita al lavoro – meritano da sùbito l’educazione al lavoro: una esperienza lavorativa durante il corso di studi significa già radicare i concetti di organizzazione aziendale, di produzione, di competenze gerarchiche, di risultati del lavoro, di inserimento aziendale, di sicurezza sul lavoro, di relazione, di problem solving: dal pensiero ( a scuola) all’azione (in azienda). Qualche timido passo – per la verità – lo si è già fatto: nel cd. Decreto Carrozza 2013 di riforma dei cicli scolastici, è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti di apprendistato durante la scuola secondaria ed universitaria. L’intento è apprezzabile, ma se l’apprendistato già da solo non funziona, figuriamoci come possa anche integrarsi con il sistema scolastico. E’ evidente che quel decreto non basta, dovendosi scrivere regole nuove per un apprendistato integrato con il sistema dell’istruzione che vada al di là della mera previsione generale (pietosamente naufragata grazie alle diffuse deficienze delle Regioni) del vigente TU 167/2011, ma ancor prima – altrettanto colpevolmente – dal dlgs 276/2013. Sulla formazione dell’individuo e del lavoratore si fa solo un gran parlare: il libretto formativo del cittadino ovvero il contenitore delle competenze dell’individuo ha riempito solo colonne di giornali e mai le persone; la formazione nell’apprendistato spaventa le aziende, neanche fosse un corpo estraneo all’apprendistato stesso; nei tirocini formativi si arriva ( con talune leggi regionali ) a premiare economicamente la quantità della prestazione in luogo della quantità dell’esperienza formativa e cognitiva in azienda; il nuovo sistema della certificazione delle competenze rilanciate dalla legge Fornero (2012) forse serve solo ad alimentare qualche commissione di studio ad oggi (2014) quasi 2015; il piano formativo dell’apprendistato diventa una sintesi, per il quale non si capisce se ci deve essere da qualche parte un piano formativo completo per poi ricavarne la sintesi. Tutti provvedimenti di facciata, che evidentemente è politica comune ad ogni schieramento. Ci sarà da qualche parte - che onestamente ignoro - una scuola di formazione per la produzione del niente: lì la formazione pare funzionare davvero. Ma mi preme tornare al fare “fare meglio”. Se davvero si intenderà percorrere il giro di boa dall’alternanza alla integrazione, non potrà farsi a meno del perfezionamento dei cicli scolastici con l’implementazione della cultura del lavoro. Un diplomato licenziato dalla scuola superiore, un laureato licenziato dal sistema universitario, con molta ( ma diciamo pure assoluta) probabilità non saprà rispondere alla domanda del che cos’è un rapporto subordinato, del che cos’è una collaborazione a progetto, del che cosa sono i servizi per l’impiego, del che cos’è lo stato di disoccupazione, del che cos’è un CCNL, del che cosa è la sicurezza sul lavoro, del che cosa sono i differenziati sistemi di tutela del lavoro, sindacali, statali, di diritto. Questo è il “lavoratore” che ancor oggi il sistema scolastico attuale trasferisce al mercato del lavoro: un individuo sbandato, nelle migliori delle ipotesi, ferreo solo della sua preparazione teorica. Ecco allora la necessità di implementare nei cicli scolastici percorsi di istruzione, che trasferiscano competenze specifiche sulla cultura del lavoro, per lo stesso motivo prima detto, ovvero per il destino che ha quel giovane individuo di dedicare la sua prossima vita principalmente al lavoro. Cosa sarebbe maggiormente conforme al nostro art. 1 della Costituzione, troppo spesso vilipesa e dimenticata? “ART. 1. - L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ricominciamo, dal basso, fiorente delle nuove generazioni. *Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione pubblica di appartenenza