Zona LPN
bollettino non conforme
numero 23 — ottobre 2010
...forti
emozioni!!!
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ZONA LPN OTTOBRE 2010
ZONA:
AL QUADRATO
pag. 3
SARAH SCAZZI:
OLTRE LA TV DEL DOLORE
pag. 4
DON SANTO GULLACE:
SEMI DI PENSIERO
pag. 5
ACCAME:
MUSSOLINI ULTIMO ATTO
pag. 6
SLEVIN
SLEVIN::
DI PAUL MCGUIGAN
pag. 7
AIKIDO:
DALL’ORIGINE AD OGGI
pag. 8
LEZIONI SPIRITUALI:
pag. 9
ALAN FORD:
ESSERE FUORI POSTO
pag. 10
CANTIERE L.P.N.
pag. 11
ZonaLPN: agenzia di informazione interna a cura dell’ass. cult. LPN
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ZONA:
AL QUADRATO
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LPN
Ancora con voi, dopo due anni, siamo ancora qui a tenervi compagnia. Questo agile strumento
di informazione telematica, non conosce pause o/ed interruzioni. Ogni mese inondiamo le vostre caselle di posta elettronica, sperando di farvi cosa gradita, se così non fosse, noi vi avevamo
avvertito: siamo disturbo mediatico. Siamo il quarto d’ora mensile, lontano da riviste patinate,
piene zeppe di pubblicità e di donne nude ammiccanti, siamo il consiglio alla lettura del libro
non conforme, dell’invito all’attività fisica, siamo quelli che ti obbligano ad alzarti dal divano e
dal buttare via il telecomando, siamo quelli che decantano i fumetti come fossero opere d’arte,
l’invito ad andare al cinema. Noi ci proviamo, ci riproviamo e ci riproviamo ancora a rompere il
muro dell’egoismo e dell’indifferenza, invitandovi a partecipare al nostro progetto “io ho quel
che ho donato”. Siamo in fase di ultimazione nella costruzione della nostra casa virtuale e tra
non molto ci sarà anche dell’altro, bene, bravi, bis, altro giro, altra corsa.
C’è rabbia in giro, violenza e frustrazione, basta un non nulla per farci saltare i nervi, ci uccidono nelle nostre case, davanti al focolare, i politici si azzuffano alla ricerca dell’appartamento
perduto, venduto, acquistato, falsi moralisti e pennivendoli radicalchic urlano allarmati il crescente pericolo delle falangi serbe, tra una prova del cuoco ed il grande fratello e voi ancora a
chiedervi come mai, come mai!
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SARAH SCAZZI:
OLTRE LA TV DEL DOLORE
L’orribile storia di Sarah Scazzi, uccisa dallo zio perché rifiutava le sue avance e poi violentata
da morta, può essere letta, e quindi denunciata, in diversi modi. Due chiavi però emergono in
maniera particolare. Il fatto che si tratti dell’ennesimo delitto in famiglia e, in secondo luogo,
che l’orrore si sia consumato sul volto della madre in diretta tv. Partiamo dalla famiglia. Il caso
di Sarah non è il primo. Forse è più tragico di altri. Ma fa purtroppo parte della ignobile statistica che vede padri, fratelli e… zii come i primi responsabili della violenza nei confronti delle
donne. Nei mesi successivi alla scomparsa della giovanissima ragazza si è detto di tutto: che era
stato uno sconosciuto contattato su face, che Sarah “andava” con i ragazzi più grandi, che sognava di fuggire (ma quale ragazza dotata di un po’ di cervello non vuole fuggire da un ambiente di provincia?). A un certo punto, come nei peggiori copioni, è saltata fuori anche la pista
“migranti”: e se fosse stata la badante rumena? Poi è arrivata la verità, l’amara verità. Ancora
più amara perché è come se fossimo impotenti davanti a quanto succede. C’è quasi
un’accettazione passiva di fronte all’enorme numero di delitti e di violenze consumati tra le mura domestiche. C’è il sole, c’è il mare e c’è pure da contemplare la possibilità che il tuo fidanzato
ti pugnali. È così, ogni volta che la cronaca ci travolge, penso che non sia stato fatto abbastanza
per sconfiggere la cultura dell’odio maschile nei confronti delle donne. Si balbetta, si protesta,
ma senza mai volere incidere, perché si tratterebbe di mettere in discussione il nostro stesso
mondo, le nostre certezze, la nostra cultura. La morte di Sarah ci ha raccontato anche un’altra
storia. La madre della ragazza ha saputo la notizia in diretta tv, durante il programma Chi l’ha
visto?. Il suo volto tetro e come pietrificato, senza una lacrima, captava la notizia che era stato
ritrovato un corpo. Il corpo. Il corpo della figlia. In studio Federica Sciarelli faceva finta, forse
davvero imbarazzata, di voler sospendere la diretta, ma per farlo ci ha messo più di mezz’ora. Il
tempo per mostrare a milioni di spettatori l’orrore di una madre che muore, l’osceno – non della morte in diretta – ma della diretta della morte. Era impressionate vedere come la madre non
si muovesse. Si trovava nella casa dello zio, le cui prime notizie che arrivavano dalle agenzie davano già come assassino. Ma era anche in un punto dove non poteva ricevere notizie perché il
cellulare non prendeva, quindi non poteva sapere che cosa veramente fosse accaduto. Eppure
non gli è venuto in mente che potesse alzarsi, urlare, chiudere tutto. Lei non compariva in televisione. Lei era in quanto stava davanti alla tv. E noi con lei, inchiodati in quella finzione senza
poterci apparentemente staccare. Si è consumata in questi decenni una vera e propria trasformazione antropologica e cognitiva. Una mutazione che ha modificato nel profondo l’essere, lo
ha plasmato e reso conforme alla diretta tv. La madre non voleva stare lì, non gliene fregava
niente, eppure è rimasta. Non si è mossa, come se si trattasse di una condizione ineluttabile.
Sciarelli non ha provato a fare sciacallaggio eppure non è riuscita a chiudere, come avrebbe dovuto fare, la diretta. Ma questo è ancora più grave perché l’osceno che abbiamo visto compiersi
durante la puntata di Chi l’ha visto? non è imputabile alla mancanza di sensibilità di uno o allo
squallore di un altro. Siamo stati tutti contagiati dallo stesso virus. Anche i migliori, anche i diversi. E non basterà un nuovo governo per salvarci dalla mutazione avvenuta. (articolo di Angela
Azzaro, tratto da il Fondo Magazine — www.mirorenzaglia.org)
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DON SANTO GULLACE:
SEMI DI PENSIERO
Locri (Reggio Calabria) 01 ottobre 2010.
La Città di Locri ha ricordato la figura umana e sacerdotale di don Santo Gullace attraverso la
presentazione del libro “Semi di Pensiero”, a cura di Gaetano Barletta, edito da Pancallo Editore. Gli scritti in memoria di don Santo sono stati frutto di un incontro tra i numerosi
“ragazzi” che, nel corso degli oltre cinquant’anni di sacerdozio del parroco della cattedrale di
Locri, deceduto il 2 ottobre dello scorso anno, hanno avuto modo di ricevere l’insegnamento
culturale e cristiano che li ha formati a divenire classe dirigente attraverso un forte senso di identità e di responsabilità civile che, attraverso le testimonianze raccolte nel “libro-antologia”
presentato nella sala del consiglio comunale di Locri, trasmettono alle giovani generazioni per
ricordare quella che è stata l’opera di un parroco che ha contribuito alla formazione della comunità locale.
Grande commozione hanno suscitato le parole dell’assessore alla cultura Francesco Commisso
che ha richiamato l’attenzione sul ruolo svolto da don Santo nell’influire in maniera determinante sulla scelta di molti giovani, tra i quali il compianto professore Francesco Panzera, nipote
del parroco, vittima della criminalità organizzata.
Il vescovo di Locri-Gerace, Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, ha sottolineato il ruolo di educatore di don Santo Gullace che ha speso i suoi anni di sacerdozio al servizio della Chiesa e della
comunità, attraverso un insegnamento costante e proficuo che raccoglie il frutto, nelle testimonianze rese dai “suoi ragazzi”, di quel seme piantato negli anni.
La vita sacerdotale e di educatore di don Santo Gullace è stata rievocata anche da don Cornelio
Femia, vicario della diocesi, il quale ha raccontato di essere stato il primo alunno accolto in seminario da un giovane don Santo che lo ha formato negli anni, contraddistinguendosi per il suo
equilibrio e le sue aperture in un momento di radicale cambiamento della Chiesa Cattolica e
della stessa diocesi.
Infine il professore Gaetano Barletta, uno dei “ragazzi di don Santo”, ha illustrato il libro che
lui stesso ha curato e nel quale sono riportate numerose testimonianze che riflettono sui grandi
temi, sempre attuali, dell’insegnamento del compianto parroco che vanno dalle riflessioni teologiche a quelle psicopedagogiche, alla visione della società ed alle opportunità che la cultura e
l’identità riflette sulla responsabilità civile di ciascuno.
Tanti gli interventi del numeroso pubblico presente, tra cui i familiari di don Santo, che hanno
ricordato aneddoti ed episodi di vita un prete che, in cinquanta anni, ha segnato positivamente
Locri e la Locride con la sua “missione” di educatore che, per la sua attualità, sono un esempio
che le nuove generazioni dovrebbero conoscere.
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ACCAME:
MUSSOLINI ULTIMO ATTO
Proseguiamo nella nostra analisi del pensiero di Giano Accame, riproponendo dal testo: ”La
Morte dei Fascisti”, alcuni passi riguardanti l’epilogo fascista: ”Mussolini, contrariamente ad
Hitler, mantenne sino alla fine un portamento che non pareva affatto cadente, non perse mai il
senso della realtà e, mentre Hitler follemente desiderava che l’intero popolo tedesco si annientasse insieme a lui nella tragedia finale, Mussolini si preoccupava di evitare agli Italiani delle oramai inutili sofferenze. Eppure più delle sorti personali ciò che gravava su tutti era la caduta del
sogno così intensamente evocato e vissuto da Mussolini. Addio Impero risorto sui colli fatali di
Roma, Mare Nostro, “Mal d’Africa”, navigare necesse est, vivere non est necesse, millenarie paludi bonificate, città nuove spuntate al ritmo di una l’anno come per un miracolo della volontà,
nazione orgogliosa, folle osannanti. Ricadeva così nel nulla il miraggio di restaurata potenza romana: aveva attraversato la notte dei secoli trasmettendosi pochi geni solitari, da Machiavelli
che concluse il Principe invitando gli italiani alle virtù militari con i versi della canzone all’Italia
scritti secoli prima da Petrarca, a Leopardi (“ O patria mia, vedo le mura e gli archi e le colonne
ed i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo, non vedo il lauro ed il ferro
ond’erano carchi i nostri padri antichi”) per poi addensarsi con Foscolo, Gioberti, Pisacane,
Mazzini, Carducci, Pascoli (“la grande proletaria si è mossa”), come mito culturale dominante
nell’Ottocento e nel primo Novecento. Ma era oramai tutto finito ed il senso dell’inutilità d’ogni
cosa che gli stava calando addosso ne confondeva e appannava le decisioni rendendole contraddittorie. La sciatta visione della sconfitta venne integrata a Milano, con un richiamo inconsapevolmente geniale alle origini della nostra storia nazionale, come vedremo evocando il tribuno
romano Cola di Rienzo, appeso per i piedi alcuni secoli prima. In verità quell’atto rivoluzionario, quel battesimo della Liberazione, quel presentarsi celebrando la propria vittoria con un rituale da valutare più sotto il profilo estetico e mitico che non moralistico, fu parte della Resistenza, un gesto importante di filosofia della storia e una a suo modo generosa confessione. Vogliamo attribuirla all’astuzia hegeliana o all’eterno ritorno dell’eguale secondo la visione di Nietzsche? Da un lato propone la difficoltà di sostenere troppo nette distinzioni tra bene e male,
torto e ragione. Perché la storia si fa sempre in due, i “nostri” ed i nemici, tra vincitori e vinti,
che, a dispetto delle differenze e degli odi profondi da cui sono contrapposti, nel fondo si assomigliano. E tanto più si assomigliano in una guerra fratricida, come ha osservato Claudio Pavone cercando di distinguere ma anche confrontare la violenza resistenziale con quella fascista. A
Piazzale Loreto, involontario regalo al Fascismo da parte dell’antifascismo, la Resistenza italiana
ha come confessato: ”siamo tutti della stessa pasta”. E ancora: ”tra noi si è aggiunta la feccia”,
così come tra i capi politici e militari formati dall’illuminismo spuntano le tricoteutes, le megere
che in nome del rivoluzionario trinomio libertè, egalitè e fraternitè sghignazzavano lavorando a
maglia sotto il palco della ghigliottina all’epoca del terrore giacobino, giungendo a far dichiarare
ad uno dei capi illuminati della resistenza, Leo Valiani, se quella folla che insultava il corpo
morto del Duce non fosse la medesima delle adunate oceaniche. (PRIMA PARTE)
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SLEVIN:
DI PAUL MCGUIGAN
Cosa succede se un ragazzo sfortunato lascia il suo paese per recarsi in una grande città e proprio appena arrivato si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato? Succede che Slevin,
protagonista del film e interpretato da Josh Hartnett, viene scambiato per un’altra persona ed
entra in contatto con le due più spietate bande di gangster della città di New York: quella capeggiata dal Rabbino (Ben Kingsley) e quella del Boss (Morgan Freeman), acerrimi nemici da
sempre. È così che comincia l’ultima fatica del regista Paul McGuigan. Il protagonista si troverà
dunque nella scomodissima posizione di esser debitore ad entrambi i criminali e di dover quindi
fare dei lavoretti poco puliti per ripagarli. Ovviamente può rifiutarsi ma in tal caso la pena sarebbe la vita. Slevin la prende con filosofia e cerca di affrontare la situazione come meglio può,
nonostante un detective e un killer professionista si mettano alle sue calcagna trovando pure
consolazione tra le braccia della bellissima e intraprendente vicina di casa (Lucy Liu). Il nostro
protagonista si muove quindi tra continue fughe e spargimenti di sangue, mentre viene sorvegliato dal detective Brikowki e dallo scellerato assassino Goodkat. E proprio quest’ultimo, personaggio senza scrupoli che arriva quando le cose si mettono male, rientra immediatamente tra
le note positive del lungometraggio, caratterizzato da una struttura narrativa tutt’altro che classica ed il cui look, infarcito di massicce dosi di violenza e di ironia, ricorda non poco quello dei
fumetti pulp. “Slevin Patto Criminale” è un film che ripercorrendo i canoni del noir, li modernizza: c’è il cattivo che più cattivo non si può, anzi ce ne sono due, c’è l'innocente tirato in ballo, la ragazza affascinante che lo aiuta, il poliziotto tenace che non lo molla.
La sceneggiatura ci offre una serie di situazioni al limite tra il surreale e la più cruda realtà malavitosa, una serie di battute memorabili e poco politically correct, dei personaggi irresistibili.
Sebbene l’atteggiamento calmo e compassato del protagonista lasci sin da subito immaginare
che c’è l’inghippo da qualche parte, il finale ampiamente rivelatorio riesce comunque a tenere
alta l’attenzione dello spettatore. Ciò che rende però questo film il gioiellino che è, sono una
serie di pregi. Oltre agli ottimi dialoghi, spicca anche la cura della scenografia: una fusione di
stile anni '70 e modernità caratterizza gli ambienti chiusi e gli esterni contrapponendoli e non
permettendo di collocare precisamente i fatti nel tempo, ma donando un certo stile e carattere
al tutto. Anche le scelte registiche sono pregevoli, McGuigan fa largo uso di profondità di campo e primissimi piani, le immagini spesso sono deformate e ricche di inserti nei flashback, la
macchina da presa compie a volte larghi e fluidi movimenti e a volte movimenti più ritmati, trovando sempre modi originali per passare da una sequenza all’altra. Il cast è a dir poco eccezionale e qui si esprime al meglio delle proprie capacità: come detto, Ben Kingsley e Morgan Freeman sono i capi gangster delle opposte fazioni, Bruce Willis è Mr. Goodkat il killer professionista e Stanley Tucci è il detective che pedina Slevin. Se il dialogo brillante in bocca a dei gangster
potrebbe far pensare al miglior Tarantino, con “Slevin” ne siamo lontani per atmosfere, ma
questo non sminuisce una pellicola decisamente godibile. Insomma per dirla con Morgan Freeman: “Bisognava fare un lavoretto che non sembrasse un lavoretto…ma questo sembra un lavoretto”. E che lavoretto aggiungeremmo noi.
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AIKIDO:
DALL’ORIGINE AD OGGI
L’ORIGINE
La filosofia alla base dell’insegnamento e le tecniche del Maestro Ueshiba Morihei, il fondatore
dell’aikidô, differirono grandemente a seconda delle epoche di evoluzione della sua pratica.
Primo periodo: Era Taishō (1912-1926)
Praticò numerose forme di bujutsu e raggiunse l’illuminazione spirituale attraverso la pratica
religiosa.
Insegnò Daitōryū Aikijujitsu.
In quest’epoca impostò la pratica sui kata.
Fra le scuole di jujitsu, oltre a quelle che si basavano principalmente sul combattimento corpo a
corpo e sul combattimento a terra, ne esistevano anche alcune che avevano tramutato i movimenti e le tecniche di spada in tecniche di taijutsu, la scuola di Daitōryū di Aizu fu una delle più
rappresentative.
Secondo periodo: dal 1° al 17° anno dell’epoca Shōwa (1926- 1942)
Si allontanò dalla religione per diventare uno specialista di budō (arti marziali).
Dal Daitōryū Aikijujitsu si entra nell’epoca del Ueshibaryū Aikijutsu, successivamente modificato in Aiki-bujutsu e in seguito Aiki-budō. Aggiunse al Daitōryū le sue conoscenze relative alle
tecniche di lancia (Sōjutsu), di cui era un rinomato esperto, creando così il metodo “uchikomi”,
una sorta di “kata che vive” che viene considerato tipico dell’aikidō. Questa fu l’epoca in cui
arrivò a possedere un’eccezionale forza spirituale, venne consacrato ai vertici del mondo delle
arti marziali e vi esercitò la propria autorità.
Riguardo a quest’epoca, si racconta che Yamamoto Gonbê (1852 - 1933, Ammiraglio e Primo
Ministro), assistendo ad una dimostrazione del Maestro Ueshiba, abbia detto “È la prima volta,
dopo la Restaurazione Meiji (1868), che vedo una lancia che 'vive'...!” e che il Maestro Kanō Jigorō (1860 - 1938) del Kodōkan abbia affermato “Questo è il vero judō che ho sempre desiderato (praticare)!”.
Terzo periodo: dal 18° anno dell’epoca Shôwa (1943) fino ai nostri giorni
Nella primavera del 1943 decise di abbandonare tutti gli impegni fino ad allora presi nei confronti dell’esercito, della marina e del mondo delle arti marziali per rifugiarsi ad Iwama, nella
Prefettura di Ibaragi, dove si dedicò all'agricoltura, coniugando la sua passione per le arti marziali all’amore per la terra. È in questa fase che si venne a creare “L'Aikidō in quanto Via di tutti
coloro che coltivano il grande amore per il cielo e la terra”. È questa l’epoca, dal dopoguerra in
poi, in cui l’aikidō fu presentato al pubblico e si venne a diffondere in tutto il mondo.
Tada Hiroshi, Fondatore e Direttore Didattico dell’Aikikai d’Italia
(tratto da www.aikikai.it, seconda parte)
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LEZIONI SPIRITUALI
Y. MISHIMA Feltrinelli € 7,00
Torniamo ad occuparci di un autore già trattato precedentemente, Yukio Mishima. E in particolare di suoi cinque scritti non narrativi realizzati tra il 1968 e il 1970, raccolti nel libretto
“Lezioni spirituali per giovani samurai”. Oltre allo scritto da cui prende il nome la piccola opera, come dicevamo, ve ne sono altri quattro: L’associazione degli scudi, Introduzione alla filosofia
dell’azione, I miei ultimi venticinque anni e Proclama, ultimo pezzo della raccolta e letto dallo stesso
autore mezz’ora prima di suicidarsi, secondo il rito del seppuku. Questi scritti mostrano chiaramente, seppur con intensità diversa, la volontà dell’autore di porre al centro della vita l’azione e
non la teoria, alla quale tuttavia Mishima ha dedicato gran parte della sua esistenza:
“Generalmente s’inizia a dedicarsi all’arte dopo aver vissuto. Ho impressione che a me sia accaduto il contrario,
che io mi sia dedicato alla vita dopo aver iniziato la mia attività artistica”. Mishima intende lasciare un
testamento ai più giovani, avendo di fronte il decadimento di ciò che reputa la vera essenza del
Giappone, la sua Tradizione, quella dei Samurai. Sperando magari di poterli forgiare come un
fabbro forgia le katane, lame orientali tanto care all’autore.
Mishima tratta quel dualismo che nelle sue ultime opere ritorna spesso e volentieri, quello tra
penna e spada, letteratura e vita, sole e acciaio, arte e azione. E mette in risalto il punto di contatto tra queste due realtà così opposte e complementari,
il punto esatto in cui l’arte dovrebbe cedere il passo:
l’azione politica. È questa la dimensione atta al passaggio
cruciale dalla fantasia alla realtà, dal disimpegno alla responsabilità. Secondo Mishima il pericolo che le nuove
generazioni corrono è proprio quello di “inquinare” e
confondere l’arte con l’azione e viceversa.
In questo saggio, il cui titolo è eloquente, in definitiva, un
samurai tramanda ai suoi discepoli i suoi insegnamenti,
ma allo stesso tempo uno scrittore tesse una trama in cui
la storia s’intreccia alla corruzione decadente, frutto della
carica squisitamente virale dell'occidente, mentre si interroga sul vero valore di un intellettuale nella società. Queste lezioni spirituali rappresentano un prezioso varco verso una cultura così diversa dalla nostra, ma dal cui confronto non possiamo che trarre giovamento, in un’epoca
di chiusura più o meno cosciente verso ciò che differisce
dal nostro punto di vista.
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ALAN FORD:
ESSERE FUORI POSTO
Quando nasce e chi lo crea?
“Alan Ford” vede la luce nel maggio 1969 con i testi di Luciano Secchi (Max Bunker) e i disegni di Roberto Raviola (Magnus), ossia il duo “Magnus & Bunker” ben noto al pubblico
dell’epoca per aver firmato numerose pubblicazioni “nere”, fra cui merita menzionare almeno
“Kriminal” e “Satanik”. Il formato era lo stesso delle succitate pubblicazioni, ossia 120 pagine in
formato tascabile rigorosamente suddivise in due vignette ciascuna.
Alan Ford sconcertò i lettori dell’epoca perché si allontanava drasticamente dal genere finora
proposto dai due autori, trattandosi di una parodia a sfondo spionistico che sfociava spesso e
volentieri nel grottesco e nella denuncia sociale. In Alan ogni valore tradizionale veniva letteralmente stravolto, fatto a pezzi, con una forza dissacratoria molto superiore a quella dei due pure
innovativi antieroi “neri”. Difficile stabilire se il successo di Alan Ford (che arrivò tardi ma arrivò, travolgente) sia più legato agli arguti testi di Bunker o agli splendidi disegni di Magnus. Certo è che tra i due, come mai prima d’allora, si stabilì una perfetta simbiosi, un sodalizio artistico
che ci ha lasciato storie indimenticabili e che durò per 75 numeri consecutivi, fino
all’abbandono di Magnus.
Con Magnus non se ne andava semplicemente un disegnatore. Si staccava un pezzo dell’anima
della serie. Non a caso tutti i disegnatori che seguiranno, fra cui anche riconosciuti professionisti come Paolo Piffarerio, Raffaele della Monica e, oggi, Dario Perucca, cercheranno quanto più possibile di replicare lo stile del creatore grafico, finendo inevitabilmente per soccombere
al confronto. La stessa vena creativa di Bunker andrà via via inaridendosi, replicando per lo più
le fulminanti trovate degli anni d’oro, confermando la tesi che in quei magici 75 numeri fosse
già stato detto tutto.
Chi è Alan Ford?
Alan Ford è un grafico pubblicitario squattrinato che, per un equivoco, finisce forzatamente arruolato da un’improbabile organizzazione di agenti segreti, il Gruppo T.N.T., la cui prima preoccupazione non è sventare piani per la conquista del mondo o proteggersi dalle insidie delle
spie nemiche, bensì sbarcare il lunario. Alan è un giovane di bell’aspetto, ingenuo, servizievole,
imbranato con le donne, che tutto potrebbe essere tranne che un agente segreto. Eppure il suo
essere “fuori posto” è perfettamente intonato all’organizzazione di cui fa parte, dove nessuno rispecchia i canoni classici dei film di spionaggio e che proprio in questo trova il suo punto di
forza, l’arma segreta che permette di dipanare le matasse più intricate (si fa per dire). Alan, dicevamo, è buono, quasi remissivo, sempre pronto a cogliere il lato positivo delle cose, novello
Candido volteriano, ma questa sua bontà non ha fini moralistici, anzi.
Il destino lo punisce in modo crudele, spietato, sistematico. Se una morale si può cogliere, essa
è che non c’è posto per i buoni in un mondo di lupi, ed è perfettamente funzionale al messaggio dissacratorio e contestatario (siamo nel 1969) del fumetto. (prima parte)
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CANTIERE LPN:
ATTIVITA’ MILITANTE
CI SIAMO RIFATTI IL LOOK!
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Progetto “Io ho quel
che ho donato”:
a breve, resoconto
sull’ultima attività
svolta ed ulteriori informazioni sul prossimo appuntamento.
CONTRO
INDIFFERENZA
ED EGOISMO!
LOCRI PATRIA NOSTRA
DIFENDI LA TUA TERRA
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